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JOHN SANDFORD CODICE DI CACCIA (Rules Of Prey, 1989) 1 Il neon di un tabellone pubblicitario proiettò una sciabolata di luce blu attraverso le finestre dello studio. La luce rimbalzò su vetro e acciaio cromato: un vaso di cristallo vuoto a forma di bocciolo, velato di polvere, un temperamatite, un forno a microonde, vasetti di burro di arachidi pieni di pastelli colorati, pennelli e carboncini. Un vassoio colmo di monete da un penny e graffe metalliche. Barattoli di colori a guazzo. Coltelli. S'intravedeva appena uno stereo, percepibile come serie di sagome rettangolari sul davanzale. Un orologio digitale scandiva in silenzio rossi minuti elettronici. Il predatore aspettava al buio. Ascoltava il proprio respiro. Avvertiva il sudore colare dai pori delle ascelle. Assaporava i residui della cena. Sentiva la peluria rasata sull'inguine. Fiutava l'odore del corpo della Prescelta. Non si sentiva mai tanto vivo quanto negli ultimi istanti di una lunga caccia. Per qualcuno, per gente come suo padre, doveva essere così ogni minuto di ogni ora: una vita su un livello esistenziale più elevato. Il predatore osservò la strada. La Prescelta era un'artista. Aveva la pelle liscia e olivastra e liquidi occhi scuri, seni sodi e vita sottile. Viveva illegalmente nel magazzino, facendo la doccia di sera tardi nella toilette comune in fondo al corridoio, cucinandosi furtivamente pasti a microonde dopo che l'amministratore dell'edificio se n'era andato alla fine della giornata. Dormiva su un lettino angusto in un ripostiglio minuscolo, sotto un crocifisso stile Art Déco, fra vapori di trementina e olio di semi di lino. In quel momento era fuori, a fare incetta di cibi precotti. Probabilmente, se non lo faceva lui, l'avrebbe uccisa il cibo cucinato a microonde, pensò il predatore. Probabilmente le stava facendo un favore. Sorrise. L'artista sarebbe stata la terza vittima nelle Città Gemelle, la quinta della sua vita. La prima era stata una ragazza di campagna, uscita a cavallo dal pascolo sul retro del ranch per dirigersi verso le boscose colline di roccia calcarea del Texas orientale. Indossava jeans, una camicia a scacchi rossi e bianchi e stivaletti. Stava seduta alta su una sella da cowboy, cavalcando più con le
ginocchia e con la testa che con le redini che teneva in mano. Gli era venuta incontro, con la treccia bionda che le sobbalzava sulle spalle. Il predatore allora aveva un fucile, un Remington modello 700 ADL caricato con proiettili Winchester .270. Aveva appoggiato l'avambraccio su un ceppo marcio e le aveva sparato quando lei era arrivata a una quarantina di metri di distanza. Quell'unico proiettile le era penetrato nello sterno e l'aveva sbalzata di sella. Quello era stato un omicidio di altro genere. Lei non era stata Prescelta; se l'era voluto. Aveva detto, tre anni prima dell'omicidio, mentre il predatore poteva sentirla, che lui aveva labbra simili a vermi rossi. Simili a quei vermi rossi che si vedono contorcersi quando si rovesciano le rocce del fiume. Lo aveva detto nell'atrio della scuola superiore, in mezzo a un capannello di amiche. Alcune si erano guardate alle spalle, verso il predatore che era a cinque metri di distanza, solo, come sempre, intento a sistemare i libri sul ripiano alto del suo armadietto. Lui non aveva dato segno di aver sentito. Era sempre stato molto abile a dissimulare, anche quando era più giovane, benché la ragazza del ranch sembrasse infischiarsene se lui ascoltava o meno. Il predatore era una nullità sociale. Ma la ragazza aveva pagato care quelle parole avventate. Lui aveva tenuto in serbo quel commento per tre anni, sapendo che sarebbe arrivata la sua ora. Ed era arrivata. Lei era volata via di sella, uccisa sul colpo da un proiettile da caccia a espansione rapida con camicia di rame. Il predatore era corso via leggero, addentrandosi nei boschi e attraversando un tratto basso di prateria paludosa. Aveva gettato il fucile sotto un condotto di ferro arrugginito, nel punto in cui l'acquitrino era attraversato da una strada. Il condotto avrebbe fatto impazzire qualsiasi rivelatore di metalli usato per la ricerca dell'arma, anche se il predatore non si aspettava che venissero a cercarlo. Era stagione di caccia, e i boschi erano pieni di fanatici arrivati dalla città, tutti armati fino ai denti e pronti a uccidere. La stagione, il nascondiglio dell'arma, tutto era stato prestabilito in anticipo. Già al secondo anno di college, il predatore era un pianificatore. Era andato al funerale della ragazza. Lei aveva il viso intatto e la parte superiore della bara era rimasta aperta. Lui si era seduto il più vicino possibile, vestito di scuro, l'aveva fissata e aveva sentito il potere crescere dentro di sé. Il suo unico rammarico era stato che lei non avesse saputo che la morte stava arrivando, in modo da assaporare il dolore; e che lui non avesse avuto il tempo di godere del suo passaggio. La seconda vittima era stata la prima vera Prescelta, anche se lui non la
considerava più un'opera della maturità. Era stata piuttosto... un esperimento? Sì. Nella seconda uccisione aveva rimediato alle deficienze della prima. Lei era una battona. L'aveva uccisa durante le vacanze primaverili del secondo anno, l'anno cruciale, alla facoltà di legge. L'impulso era presente da tempo, pensò. Era stata la tensione intellettuale della facoltà di legge a crearlo. E in una sera fresca a Dallas, con un coltello, si era procurato temporaneo sollievo sul corpo pallido di una giovane donna nata nei boschi del Mississippi, venuta in città a cercare fortuna. La morte per arma da fuoco della ragazza del ranch era stata considerata un incidente di caccia. I genitori avevano sofferto e poi si erano dedicati ad altro. Due anni dopo, il predatore aveva visto la madre della ragazza ridere davanti a una sala da concerti. I poliziotti di Dallas avevano liquidato l'esecuzione della prostituta come delitto da strada legato al mondo della droga. Nella borsetta le avevano trovato anfetamine, e tanto era bastato. Non avevano in mano altro che un nome di battaglia. L'avevano seppellita in una semplice fossa con quel nome, il nome sbagliato, sulla minuscola targa di ferro che indicava il punto esatto. Non aveva ancora compiuto sedici anni. I due omicidi erano stati soddisfacenti, ma non del tutto calcolati. Le uccisioni nelle Città Gemelle erano diverse. Erano programmate con cura meticolosa, con una tattica basata sull'esame professionale di almeno una dozzina di indagini su casi di omicidio. Il predatore era intelligente. Era iscritto all'ordine degli avvocati. Aveva formulato delle regole. Mai uccidere una persona conosciuta. Mai avere un movente. Mai seguire uno schema riconoscibile. Mai portare con sé un'arma dopo averla usata. Premunirsi dal rischio di essere scoperti per caso. Non lasciare prove fisiche. Ne esistevano altre. Lui ne aveva fatto una sfida. Era pazzo, naturalmente. E lo sapeva. Nel migliore dei mondi possibili, avrebbe preferito essere sano di mente. La follia comportava una notevole dose di stress. Ora prendeva delle pillole: nere per la pressione alta, rossastre per facilitare il sonno. Avrebbe preferito essere sano di mente, ma bisogna giocare con le carte che si hanno.
Lo diceva suo padre. Il marchio di un uomo. Dunque, era pazzo. Ma non certo nel senso che intendeva la polizia. Legava e imbavagliava le donne e poi le stuprava. La polizia lo considerava un maniaco sessuale. Un maniaco freddo. Se la prendeva calma per uccidere e violentare. Erano convinti che parlasse alle vittime, che le schernisse. Usava regolarmente dei profilattici. Profilattici lubrificati. I tamponi vaginali prelevati durante l'autopsia delle prime due vittime nelle Città Gemelle avevano rivelato la presenza del lubrificante. Dato che i poliziotti non avevano mai trovato i profilattici, ritenevano che li portasse via con sé. Consultando psichiatri convocati per costruire un profilo psicologico, si erano convinti che il predatore in realtà temesse le donne. Forse il risultato di un'infanzia vissuta con una madre dominatrice, dicevano, una madre di volta in volta tirannica e affettuosa, una relazione con sottintesi sessuali. Forse il predatore aveva paura dell'Aids, e forse - si parlava di possibilità infinite - era sostanzialmente omosessuale. Forse, dicevano, poteva darsi che facesse qualcosa di particolare con lo sperma contenuto nei profilattici. Quando gli strizzacervelli avevano avanzato quella possibilità, i poliziotti si erano guardati. Qualcosa di particolare? E cosa? Coni gelato? Cosa? Gli psichiatri si sbagliavano. Da cima a fondo. Lui non scherniva le vittime, le consolava; le aiutava a partecipare. Usava i profilattici per proteggersi non tanto dalla malattia, quanto dalla polizia. Dalla possibilità che si servissero dello sperma come prova, raccolto con cura, esaminato e classificato nei rapporti dei patologi. Il predatore sapeva di un caso in cui una donna era stata aggredita, violentata e uccisa da uno di due vagabondi. Ciascuno accusava l'altro. L'esame dello sperma era stato determinante per identificare l'assassino. Il predatore non conservava i profilattici. Non ne faceva "qualcosa di particolare". Li gettava, con il loro carico di prove, nel gabinetto delle vittime. E sua madre non era stata una tiranna. Era stata una donnina bruna e infelice che d'estate indossava abiti di cotone stampato e cappelli di paglia a tesa larga. Era morta quando lui andava alle medie. Riusciva a stento a ricordarne il volto, anche se una volta, mentre esaminava degli scatoloni di famiglia tanto per ingannare il tempo, aveva trovato un fascio di lettere indirizzate al padre e legate con un na-
strino. Senza sapere bene perché, aveva annusato le buste ed era stato sopraffatto dal profumo di lei, tenue ma tenace, un aroma di vecchi petali di rosa canina e ricordi di lillà pasquali. Ma lei non era stata niente. Non aveva mai contribuito. Né riportato vittorie. Né mai fatto qualcosa. Era stata solo un peso per il padre. Il padre e i suoi giochi affascinanti. Lei era stata un peso. Rivedeva il padre gridarle contro, una volta: «Io sto lavorando, lavorando, e tu stattene fuori da questa stanza quando lavoro, devo concentrarmi e non posso farlo se entri qui a frignare, frignare...» I giochi affascinanti condotti nelle aule del tribunale e nelle carceri. Il predatore non era omosessuale. Era attratto soltanto dalle donne. Era l'unica cosa che un uomo poteva fare, quella con le donne. Le desiderava, desiderava vedere la loro morte e sentirsi esplodere in un unico momento trascendente. Nei momenti di introspezione, il predatore aveva scavato nella propria psiche, cercando la genesi della follia. Aveva deciso che non era arrivata tutt'a un tratto, ma era cresciuta. Ricordava quelle settimane solitarie di isolamento nel ranch insieme alla madre, mentre il padre era a Dallas per i suoi giochi. Il predatore lavorava con il fucile calibro 22, facendo il tiro al bersaglio con le tamie, i piccoli scoiattoli terricoli. Se colpiva uno scoiattolo nel modo giusto, ai quarti posteriori, quello rotolava giù lontano dalla tana, si dibatteva e squittiva e tentava di risalire a forza di unghioli fino all'imbocco del nido sotterraneo, trascinandosi sulle zampe anteriori. Tutti gli altri scoiattoli, dalle tane adiacenti, si drizzavano per guardare dalle collinette di sabbia che avevano accumulato per scavare le tane. Allora lui ne sceglieva un secondo, e quello ne richiamava altri, e poi un terzo, finché un'intera colonia stava a guardare le tamie ferite che tentavano di trascinarsi al riparo. Ne feriva di solito sei o sette, sparando in posizione prona, poi si alzava per avvicinarsi alle tane e finirli con il coltello da tasca. A volte li scuoiava vivi, staccando le pelli mentre gli si dibattevano fra le mani. Dopo un po', cominciò a fare collane delle loro orecchie, tenendo la filza nel soppalco di una rimessa per le macchine agricole. Alla fine di un'estate, aveva più di 300 paia di orecchie. Il primo orgasmo della sua giovane vita lo aveva provato mentre era steso bocconi ai margini di un campo di fieno a sparare agli scoiattoli. Il lungo spasmo era stato simile alla morte. Alla fine si era sbottonato i calzoni e
aveva abbassato le mutande per guardare le chiazze umide di sperma e si era detto: «Dio, eccolo... Dio, eccolo». Lo aveva ripetuto più volte e, da allora, la passione lo aveva colto sempre più spesso quando cacciava nel ranch. A volte provava a supporre che fosse andata diversamente. Che avesse avuto delle compagne di gioco, delle ragazze, e fossero andati a giocare al dottore in uno dei capannoni. Fammi vedere la tua, e ti faccio vedere il mio... Sarebbe stato tutto diverso? Non lo sapeva. Ma quando aveva compiuto 14 anni, era già troppo tardi. La sua mente era ormai deviata. C'era una ragazza che abitava a un chilometro e mezzo di distanza sullo stradone. Aveva cinque o sei anni più di lui. La figlia di un autentico allevatore. Una volta era passata a bordo di un rimorchio per il fieno, mentre la madre lo trainava col trattore, e la ragazza indossava una maglietta inzuppata di sudore che rivelava i capezzoli contro il tessuto sporco. Il predatore aveva 14 anni e aveva sentito svegliarsi un desiderio prepotente e aveva detto a voce alta: «L'amerei e la ucciderei.» Era pazzo. Durante gli studi di legge aveva letto di altri uomini come lui, affascinato nell'apprendere che faceva parte di una comunità. La considerava una comunità, quella degli uomini che comprendevano la possente esaltazione di quel momento di eiaculazione e di morte. Ma non era soltanto l'uccisione. Non più. Ormai c'era la sfida intellettuale. Il predatore aveva sempre amato i giochi. I giochi del padre, i giochi che faceva da solo nella sua stanza. Giochi di fantasia, giochi di simulazione. Era bravo a scacchi. Aveva vinto per tre anni di fila il torneo della scuola superiore, anche se giocava di rado al di fuori dei tornei. Ma esistevano giochi migliori. Come quelli che faceva suo padre. Anche il padre, però, era un surrogato del vero giocatore, l'avversario al tavolo, l'imputato. I veri giocatori erano gli imputati e i poliziotti. Il predatore sapeva che non avrebbe mai potuto essere un poliziotto. Ma poteva essere lo stesso un giocatore. E in quel momento, a 27 anni, andava incontro al suo destino. Giocava e uccideva, e la gioia dell'atto faceva cantare di piacere il suo corpo. Il gioco supremo. La posta suprema. Scommetteva la vita che non sarebbero riusciti a catturarlo. E vinceva vite di donne, come gettoni del poker. Gli uomini giocavano sempre per le donne; era quella la sua teoria. Erano loro la posta, in tutti i giochi miglio-
ri. Ai poliziotti, naturalmente, non interessava il gioco. I poliziotti erano notoriamente ottusi. Per aiutarli ad afferrare il concetto del gioco, a ogni delitto lasciava una regola. Parole ritagliate con cura dal quotidiano di Minneapolis, una breve frase incollata con il nastro adesivo Magic su un foglietto di taccuino. Per la prima uccisione nelle Città Gemelle, era stata MAI UCCIDERE UNA PERSONA CONOSCIUTA. Il messaggio aveva causato a tutti loro un terribile sconcerto. Lui aveva posato il foglio sul petto della vittima, in modo che non ci fosse dubbio su chi l'aveva lasciato. Con un ripensamento quasi scherzoso, lo aveva firmato: PREDATORE. Il motto del secondo omicidio era stato MAI AVERE UN MOVENTE. Con ciò, dovevano aver capito che avevano a che fare con un uomo di carattere. Anche se dovevano avere sudato sangue, i poliziotti avevano tenuto la storia lontana dai giornali. Il predatore sognava la stampa. Sognava di osservare i colleghi avvocati mentre seguivano il corso dell'indagine sui quotidiani. Sapere che gli parlavano di lui, senza sapere che era lui il colpevole. Quella idea lo eccitava. Con la terza esazione avrebbe raggiunto lo scopo. La polizia non poteva tenere segreta la storia per sempre. I dipartimenti di polizia perdevano notizie come colabrodo. Lo sorprendeva che avessero mantenuto il segreto tanto a lungo. La terza avrebbe avuto il motto MAI SEGUIRE UNO SCHEMA RICONOSCIBILE. Lasciò il foglio sopra un telaio. C'era una contraddizione, naturalmente. Il predatore era un intellettuale e ci aveva riflettuto sopra. Era prudente fino al fanatismo; non lasciava indizi. Sì, li creava di proposito. La polizia e gli psichiatri avrebbero potuto dedurre certe cose riguardo alla sua personalità dalla scelta delle parole. Dal fatto stesso che enunciava delle regole. Dall'impulso a giocare. Ma per quello non c'era niente da fare. Se l'essenziale fosse stato semplicemente uccidere, non dubitava di poterlo fare e restare impunito. Dallas lo aveva dimostrato. Poteva ripeterlo decine di volte. Centinaia. Andare in aereo a Los Angeles, comprare un coltello in un grande magazzino, uccidere una puttana, tornare in volo a casa la sera stessa. Una città diversa per ogni weekend. Non lo avrebbero mai preso. Non lo avrebbero nemmeno saputo.
L'idea aveva una certa attrattiva, ma in fin dei conti era sterile sul piano intellettuale. Lui si stava evolvendo. Voleva la sfida. Ne aveva bisogno. Il predatore scosse la testa nel buio e guardò giù dalla finestra alta. Le auto sfrecciavano sull'asfalto bagnato. Si sentiva un brontolio proveniente dall'interstatale 94, due isolati più a nord. Nessuno a piedi. Nessuno carico di sacchetti. Attese, camminando su e giù davanti alle finestre, sorvegliando la strada. Otto minuti, dieci minuti. L'intensità, il polso, la pressione aumentavano. Dov'era lei? Ne aveva bisogno. Poi la vide, mentre attraversava la strada in basso, con i capelli scuri che ondeggiavano sotto le luci ai vapori di mercurio. Era sola, portava una borsa della spesa. Quando uscì dalla sua visuale, proprio sotto di lui, il predatore si spostò verso il pilastro centrale e vi si addossò. Indossava jeans, una maglietta nera, guanti da chirurgo in latex e un passamontagna da sci di seta blu. Quando lei fosse stata legata al letto e lui si fosse spogliato, la donna avrebbe scoperto che il suo aggressore era depilato: aveva il pube glabro come un bambino di cinque anni. Non perché fosse un pervertito, anche se doveva ammettere che era... interessante. Ma aveva visto un caso in cui gli specialisti della Scientifica avevano recuperato una manciata di peli pubici dal letto di una donna e li avevano confrontati con i campioni prelevati dall'aggressore. Avevano ottenuto i campioni dall'aggressore con un regolare mandato di perquisizione. Ottimo tocco. Aveva retto in appello. Rabbrividì. Faceva freddo. Rimpianse di non avere messo la giacca. Quando era uscito di casa, la temperatura era di 15 gradi. Doveva essere scesa di almeno cinque gradi dopo il tramonto. Dannato Minnesota. Il predatore non era robusto, né vistosamente atletico. Per un breve periodo della sua adolescenza si era considerato snello, anche se il padre lo definiva "gracile". Guardandosi allo specchio doveva ammettere di essere ormai grassoccio. Alto un metro e 75, capelli rossi ricci, un accenno di doppio mento, un po' di pancetta... labbra simili a vermi rossi... L'ascensore era vecchio ed era stato concepito come montacarichi. Gemette una volta, due, poi si avviò. Il predatore controllò il suo equipaggiamento: l'assorbente Kotex che avrebbe usato come bavaglio era sistemato nella tasca posteriore destra dei pantaloni. Nella sinistra, il nastro adesivo che usava per fissare il bavaglio. La pistola infilata nella cintura, sotto la maglietta. La pistola era un'arma piccola, ma micidiale: una rivoltella Smith & Wesson modello 15. L'aveva acquistata da un uomo che sta-
va per morire, come poi era avvenuto. Prima di morire, quando l'aveva offerta in vendita, il moribondo aveva detto che sua moglie voleva che la tenesse per autodifesa. Aveva chiesto al predatore di non rivelare che l'aveva acquistata lui. Sarebbe rimasto un segreto fra loro. E così era perfetto. Nessuno sapeva che lui possedeva l'arma. Se mai avesse dovuto usarla, sarebbe stato impossibile identificarla, o almeno sarebbero risaliti soltanto a un morto. Estrasse la pistola, la tenne lungo il fianco e ripassò la sequenza di gesti: afferrare, pistola in faccia, costringere a terra, colpire con la pistola, un ginocchio puntato nella schiena, la testa all'indietro, ficcare in bocca il Kotex, trascinare sul letto, fissare col nastro adesivo le braccia alla testiera, i piedi alla sponda inferiore del letto. Poi rilassarsi e passare al coltello. L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. Lo stomaco del predatore s'irrigidì, una sensazione familiare. Piacevole, persino. Passi. Chiave nella porta. Il cuore gli martellava. Porta aperta. Luci. Porta chiusa. La pistola gli scottava in mano, l'impugnatura ruvida. La donna che passava... Il predatore si catapultò fuori dal nascondiglio. Vide in un attimo che era sola. La circondò col braccio, tenendole la pistola vicino al viso. Il sacchetto della spesa cadde e i barattoli bianchi e rossi di zuppa Campbell's rotolarono sul pavimento di legno, i pacchetti beige e rossi di bocconcini di pollo e lasagne da cuocere a microonde scricchiolarono sotto i piedi. «Grida» disse lui con una voce roca lungamente provata al registratore «e ti ammazzo.» Inaspettatamente, la donna si rilassò e il predatore fece involontariamente lo stesso. Un attimo dopo, il tacco della donna gli schiacciò il collo del piede. Il dolore fu insopportabile e, mentre lui apriva la bocca per gridare, lei gli si girò fra le braccia, ignorando la pistola. «Aaahhh» esclamò, per metà grido, per metà urlo di terrore soffocato. Fu come se il tempo si fermasse, mentre i secondi si frammentavano in minuti. Il predatore guardò la mano della donna sollevarsi e pensò che avesse una pistola e sentì la mano che teneva l'arma scostarsi dal corpo di lei, nella direzione sbagliata, e pensò: "No". Nel frammento cristallino di tempo che seguì, si accorse che lei non impugnava una pistola, ma un sottile cilindro argenteo. La donna gli spruzzò addosso il Mace, e il flusso del tempo scattò in a-
vanti a velocità accelerata. Lui guaì e le vibrò un colpo con la Smith, che gli sfuggì di mano. Colpì con l'altra mano e, più per fortuna che per abilità, la prese sul lato della mascella e lei cadde rotolando su se stessa. Il predatore cercò la pistola, semiaccecato, con le mani sul viso, i polmoni che non funzionavano più. Soffriva d'asma, e il Mace filtrava attraverso la maschera di seta - e la donna si stava rotolando e rialzando e tornava alla carica col Mace e ora gridava: «Stronzo, stronzo...» Le sferrò un calcio e la mancò. Lei spruzzò di nuovo e lui scalciò di nuovo e lei inciampò e stava rotolando e aveva ancora il Mace e lui non riusciva a trovare la pistola e le affibbiò un altro calcio. Fortunato ancora una volta, colpì la mano che stringeva il Mace e la bomboletta volò via. Il sangue sgorgava dalla fronte dove la donna era stata ferita dal mirino della pistola, scorrendo dal taglio slabbrato sugli occhi e sulla bocca e arrivando sui denti, mentre lei gridava: «Stronzo, stronzo...» Prima che il predatore potesse tornare all'attacco, la donna afferrò un tubo lucente d'acciaio inossidabile e lo brandì col piglio della persona che ha giocato a lungo a softball. Lui parò il colpo e arretrò, sempre cercando la pistola, ma era sparita e lei attaccava, e il predatore prese il genere di decisione che era allenato a prendere. Fuggì. Fuggì, e lei lo rincorse e lo colpì ancora una volta al dorso e lui quasi incespicò e si voltò e la raggiunse di striscio alla mascella, un pugno fiacco e inefficace, e lei scattò all'indietro e poi si fece di nuovo sotto col tubo, a bocca aperta, a denti scoperti, spruzzandolo di saliva e sangue mentre gridava, e lui riuscì a superare la porta e a chiuderla dietro di sé. «... stronzo...» Lungo il pianerottolo fino alle scale, semisoffocato dalla maschera. Lei non lo inseguì, ma rimase vicino alla porta chiusa lanciando l'urlo più penetrante che lui avesse mai udito. Una porta si aprì chissà dove, e il predatore proseguì alla cieca giù per le scale. Arrivato in fondo, si tolse il passamontagna, se lo ficcò in tasca e uscì. "Cammina piano" pensò. "Come per una passeggiata." Faceva freddo. Dannato Minnesota. Era agosto e lui stava gelando. La sentì urlare. Da principio debolmente, poi più forte. La puttana aveva aperto la finestra. Gli sbirri dovevano essere già in arrivo. Il predatore ingobbì le spalle e si diresse un po' più in fretta verso la macchina, scivolò all'in-
terno e si allontanò. A metà strada da Minneapolis, ancora in preda a un terrore mortale, tremante di freddo, si ricordò che le auto hanno il riscaldamento e lo accese. Era già a Minneapolis quando si accorse di essere malconcio. Maledetto tubo. "Mi verranno dei grossi lividi" pensò "spalle e schiena. Troia." La pistola non sarebbe stata un problema, non poteva essere rintracciata. Cristo, se faceva male. 2 L'uomo al banco era barricato dietro un muro di riviste porno. Sigarette, barrette dolci e bustine di cellophane piene di palline al formaggio, sfogliette di tacos, cotiche di maiale e altre leccornie cancerogene gli proteggevano il fianco. Vicino al registratore di cassa c'era un espositore girevole con tanti distintivi bianchi da portare all'occhiello; ognuno aveva un messaggio destinato a rispecchiare la filosofia esistenziale dell'acquirente. Salva le balene: arpiona una cicciona era uno dei più venduti. Così pure Basta con le buone maniere. In ginocchio, puttana. Il commesso non li guardava. Era stufo di guardarli. Teneva lo sguardo fisso fuori della vetrina costellata di moscerini e scrollava la testa. Lucas Davenport emerse senza fretta dalle profondità del negozio con il Daily Racing Form in mano e posò sul banco due dollari e 20 centesimi. «Ragazzini del cazzo» disse il commesso senza rivolgersi a nessuno in particolare, allungando il collo per vedere più su lungo la strada. Sentì gli spiccioli di Lucas urtare il banco e si voltò. Tentò un sorriso con quella faccia da basset-hound e decise per una semplice increspatura delle labbra. «Come va?» disse con un sibilo asmatico. «Che sta succedendo?» chiese Lucas, guardando oltre il commesso, verso la strada. «Un paio di ragazzi in skateboard.» Il commesso aveva l'enfisema e i polmoni intasati gli consentivano soltanto frasi brevi. «Correvano dietro un autobus.» Sibilo. «Se beccano un tombino...» Risucchio d'aria. «Sono morti.» Lucas guardò di nuovo. Per la strada non si vedevano ragazzi. «Se ne sono andati» spiegò il commesso imbronciato. Prese il Racing Form e lesse il primo paragrafo dell'articolo di fondo. «Ha controllato il tavolo delle occasioni?» Sibilo. «Un tale ha portato delle poesie.» Lo pronunciò "pose".
«Ah sì?» Lucas girò di lato al banco e controllò le file di libri malandati sul tavolo. Nascosto fra due rassegne della letteratura del Novecento dalla copertina cartonata, trovò con grande gioia un volumetto rilegato in tela delle poesie di Emily Dickinson. Lucas non andava mai in cerca di poesie; non comprava mai libri nuovi. Aspettava di trovarli per caso, e gli capitava con sorprendente frequenza: canzoni orfane nascoste fra collezioni di testi sull'ingegneria termoelettrica o la biochimica. Quell'Emily Dickinson costava un dollaro quando era stato stampato nel 1958 da una oscura casa editrice sulla Sesta Avenue, a New York. Trent'anni dopo, costava 80 centesimi in una libreria di University Avenue a Saint Paul. «Che ne dice di questo puledro?» Gorgoglio. «Questo Wabasha Warrior?» Il commesso batté il dito sul Racing Form. «Allevato nel Minnesota.» «È quello che penso» rispose Lucas. «Cosa?» «Allevato nel Minnesota. Dovrebbero rispedirlo a frustate sul culo fino alla fattoria Alpo. Naturalmente, c'è un tornaconto secondario...» Il commesso aspettò. Non aveva fiato per replicare. «Se Warrior riceve qualche incoraggiamento» riprese Lucas «saliranno le quote del vincitore.» «Che sarà...» «Provi Sun e Halfpence. Nessuna garanzia, ma i numeri ci sono.» Lucas spinse sul banco Emily Dickinson insieme con il prezzo di 80 centesimi segnato sull'adesivo, più cinque centesimi di tassa. «Mi lasci uscire dal negozio prima di chiamare l'allibratore, eh? Non voglio farmi incastrare per traffico illecito di informazioni.» «Come vuole.» Risucchio. «Tenente» aggiunse il commesso. Si scostò una ciocca dalla fronte. Lucas portò con sé a Minneapolis il volumetto di Emily Dickinson e parcheggiò nel garage pubblico di fronte al municipio. Attraversò la strada diretto verso la vecchia massa di granito color fegato, di spaventosa bruttezza, attraversò un'altra strada, superò una vasca riflettente ed entrò nel centro governativo della contea di Hennepin. Prese la scala mobile per scendere alla caffetteria, comprò una mela rossa a un distributore automatico, risalì e uscì dalla parte opposta dell'edificio, sul prato. Si sedette sull'erba in mezzo alle betulle argentee nel caldo sole di agosto, addentò la mela e lesse:
...ma nessun uomo mi colpì finché la marea Superò la mia semplice scarpa E il grembiule e la cintura E il corsetto ancora, E fu come se volesse consumarmi Come goccia di rugiada Su un soffione di tarassaco E allora mi mossi anch'io. Lucas sorrise e continuò a sgranocchiare la mela. Quando alzò gli occhi, vide una giovane donna bruna che stava attraversando il piazzale, spingendo una carrozzina a due posti. Le gemelle erano avvolte in due copertine rosa identiche e oscillavano da una parte all'altra mentre la mamma le portava a passeggio attraverso il piazzale. La mamma aveva i seni grandi e la vita sottile, e i capelli neri le ricadevano ondeggiando sulle gote chiare come una tenda di seta. Portava una gonna color prugna e una camicetta di seta beige ed era così bella che Lucas sorrise ancora, percorso da un'onda di piacere. Poi ne passò un'altra, nella direzione opposta, una bionda con un taglio corto da punk e un vestito di maglia rivelatore, appariscente in modo invitante. Lucas la guardò camminare e sospirò seguendo il suo ritmo. Lucas indossava una polo bianca da tennis, pantaloni color kaki, calzettoni blu e scarpe da barca con lunghi lacci di cuoio. Portava la polo fuori dei pantaloni in modo che non si vedesse la pistola. Era snello e scuro di carnagione, con i capelli neri e lisci spruzzati di grigio sulle tempie e il naso lungo sopra un sorriso obliquo. Uno degli incisivi centrali superiori era scheggiato e lui non lo aveva mai fatto incapsulare. Sarebbe potuto sembrare un indiano, se non fosse stato per gli occhi azzurri. Gli occhi erano caldi e inclini al perdono. Il calore era in un certo senso sottolineato dalla cicatrice verticale bianca che cominciava all'attaccatura dei capelli, scendeva fino all'orbita dell'occhio destro, saltava l'occhio e proseguiva lungo la guancia fino all'angolo della bocca. La cicatrice gli dava un'aria dissipata, ma non cancellava del tutto una punta d'innocenza, come Errol Flynn in Capitan Blood. Lucas avrebbe voluto poter dire alle ragazze che la cicatrice era il risultato di una rissa a bottigliate in un bar di Subic Bay, dove non era mai stato, o di Bangkok, dove pure non era mai stato. Invece la cicatrice era frutto di un amo da pesca schizzato via da un
ceppo marcio in cui si era impigliato sul fiume St. Croix, e lui lo diceva. Qualcuna gli credeva. Quasi tutte pensavano che nascondesse qualcosa, come una rissa in un bar a est di Suez. Per quanto gli occhi fossero caldi, lo tradiva il sorriso. Una volta era andato con una donna - la direttrice di uno zoo, guarda caso - in un nightclub di Saint Paul dove si smerciava cocaina nei gabinetti del seminterrato ai ragazzi dei sobborghi. Nel parcheggio fuori del locale, Lucas aveva incontrato Kenny McGuinness, che credeva in carcere. «Levati dai coglioni, Davenport» aveva detto McGuinness, indietreggiando. Tutt'a un tratto il parcheggio si era saturato di elettricità e ogni oggetto, dalla stagnola delle gomme alle bustine vuote da un quarto di grammo di coca, era diventato di colpo nitidissimo. «Non sapevo che fossi uscito, testa di cazzo» aveva ribattuto Lucas, sorridendo. La direttrice dello zoo stava a guardare, a occhi spalancati. Lucas si era proteso verso l'altro, gli aveva infilato due dita nel taschino della camicia e aveva tirato leggermente, come se fossero vecchi compari che si scambiavano ricordi. Lucas aveva bisbigliato con voce roca: «Lascia la città. Vattene a Los Angeles. Vattene a New York. Se non te ne vai, ti farò male.» «Sono in libertà vigilata, non posso lasciare lo Stato» aveva balbettato McGuinness. «Allora vattene a Duluth. Va' a Rochester. Ti do una settimana» aveva sussurrato Lucas. «Parla al papà. Parla alla nonna. Parla alle sorelle. Poi fila.» Si era rivolto di nuovo alla direttrice dello zoo, sempre sorridendo, dimenticandosi apparentemente di McGuinness. «Mi hai spaventato a morte» aveva detto la donna quando erano entrati nel locale. «Cos'era quella storia?» «A Kenny piacciono i ragazzini. Scambia crack con culetti di dieci anni.» «Oh.» La donna aveva sentito parlare di storie del genere, ma ci credeva allo stesso modo in cui credeva alla propria morte; una remota possibilità che non richiedeva ancora di essere presa in esame. Più tardi aveva detto: «Non mi è piaciuto quel sorriso. Il tuo sorriso. Sembravi uno dei miei animali.» Lucas le aveva rivolto un sogghigno. «Ah, sì? E quale? Il lemure?» Lei si era mordicchiata il labbro inferiore. «Pensavo piuttosto a un lupo» aveva risposto.
Se a volte il gelo del sorriso sopraffaceva il calore degli occhi, non accadeva tanto spesso da trasformarsi in un handicap sociale. In quel momento Lucas guardava la bionda con il taglio punk svoltare l'angolo del centro governativo e, un attimo prima di scomparire alla vista, la vide voltarsi a sorridergli. Dannazione. Sapeva che lui la stava guardando. Le donne lo capivano sempre. "Alzati" si disse "corrile dietro." Ma rinunciò. Ce n'erano tante, tutte belle. Sospirò e si stese di nuovo sull'erba, riprendendo in mano Emily Dickinson. Lucas era il ritratto della serenità. Più che il ritratto. La fotografia. La fotografia veniva scattata in quel momento dal retro di un furgone verde oliva parcheggiato lungo il marciapiede opposto di South Seventh Street. Due agenti degli Affari interni lavoravano in uno spazio angusto e soffocante insieme con macchine fotografiche e telecamere montate su cavalietti dietro un vetro unidirezionale. L'agente più anziano era grasso. Il collega era magro. A parte quello, si assomigliavano molto, con i capelli tagliati a spazzola, la faccia rosea, le camicie gialle a maniche corte e i pantaloni in gabardine di J. C. Penney. A intervalli di qualche minuto, uno di loro guardava nell'obiettivo da 300 mm. La macchina fotografica collegata all'obiettivo, una Nikon F3, era equipaggiata con un datario munito di orologio a batteria programmato fino al 2100. Quando i poliziotti scattavano le fotografie, sulla cornice della foto restavano impresse ora e data esatta. Se necessario, la fotografia poteva diventare un diario con valore probatorio delle attività del soggetto sorvegliato. Lucas aveva individuato la coppia un'ora dopo l'inizio della sorveglianza, quasi due settimane prima. Non sapeva perché lo sorvegliassero, ma da quando li aveva visti aveva smesso di parlare con gli informatori, gli amici, gli altri poliziotti. Viveva isolato in una bolla di vetro, ma non sapeva per quale motivo. Lo avrebbe scoperto. Era inevitabile. Nel frattempo, trascorreva più tempo che poteva all'aperto, costringendo gli agenti della sorveglianza a restare nascosti nel furgone caldo e angusto, senza poter mangiare, senza poter orinare. Lucas sorrise fra sé, di quel sorriso sgradevole, il sorriso del ghiottone, posò il libro della Dickinson e prese il Racing Form. «Pensi che quel pigliainculo se ne starà lì seduto per l'eternità?» chiese il
poliziotto grasso. Si dimenò, a disagio. «Pare che stia bello comodo.» «Devo fare una pisciata da cammello» disse quello grasso. «Non dovevi bere quella Coca. È la caffeina che fa quell'effetto.» «Potrei sgusciare fuori a fare un goccio d'acqua...» «Se si muove, devo seguirlo. Se resti a terra, Bendl ti appende per i coglioni.» «Solo se glielo racconti tu, leccaculo.» «Non posso guidare e scattare foto contemporaneamente.» Il poliziotto grasso si dimenò a disagio e cercò di calcolare le probabilità. Sarebbe dovuto andare appena aveva visto Lucas sistemarsi sul prato, ma allora non aveva un bisogno così impellente. Ora che ci si poteva aspettare che Lucas si allontanasse, si sentiva la vescica gonfia come un pallone da basket. «Guardalo» disse, scrutando Lucas attraverso un binocolo. «Guarda passare le fighette. Pensi che sia per quello che lo sorvegliamo? Una storia di donne?» «Non so. È una faccenda strana. Come l'hanno presentata, nessuno che ti dice una sega.» «Ho sentito che sa qualcosa sul conto del capo. Lucas, voglio dire.» «Dev'essere così. Non fa un cavolo. Gira per la città su quella Porsche e va alle corse tutti i giorni.» «Il suo curriculum sembra buono. Menzioni d'onore e tutto.» «Ha fatto qualche buon colpo» ammise l'agente magro. «Parecchi» ribatté il grasso. «Già.» «Ha ucciso degli uomini.» «Cinque. È il tiratore numero uno della polizia. Nessun altro ne ha beccati più di due.» «Tutti tiri fortunati.» «La stampa lo adora. Quel figlio di troia di Wyatt Earp.» «Perché ha la grana» ribatté il grassone in tono autorevole. «La stampa adora la gente con la grana, i ricchi. Mai conosciuto un giornalista che non volesse soldi.» Pensarono per un minuto ai giornalisti. I giornalisti somigliavano parecchio ai poliziotti, ma avevano la lingua più lunga. «Quanto pensi che guadagna, Davenport?» domandò quello grasso. Il poliziotto magro si morse le labbra sottili e rifletté sulla domanda. Lo
stipendio era una faccenda di un certo peso. «Con il suo grado e la sua anzianità, probabilmente si mette in tasca 42 mila, forse anche 45 mila dollari dall'amministrazione cittadina» azzardò. «Poi ci sono i videogiochi. Ho sentito dire che quando fa centro, può incassare anche centomila tondi tondi, a seconda delle vendite.» «Così tanto?» disse il grassone, meravigliato. «Io mi dimetterei, se guadagnassi tanto. Comprerei un ristorante. Magari un bar, su uno dei laghi.» «Sì, me ne andrei» convenne il tipo magro. Avevano fatto quel discorso tante volte che le risposte erano automatiche. «Mi domando come mai non lo hanno retrocesso a sergente. Voglio dire, quando lo hanno trasferito dalla Rapine.» «Ho sentito raccontare che ha minacciato di dimettersi. Ha detto che non intendeva tornare indietro. E loro hanno deciso che preferivano tenerselo... ha le sue fonti in tutti i bar e le botteghe di barbiere della città... così hanno dovuto lasciargli il grado.» «Come supervisore era un'autentica spina nel culo» disse il grassone. L'agente magro annuì. «Tutti dovevano essere perfetti. E invece non lo era nessuno.» L'uomo magro scosse la testa. «Una volta mi disse che era l'incarico peggiore che avesse mai avuto. Sapeva che stava combinando un casino, ma non riusciva a frenarsi. Uno sgarrava di un millimetro e Davenport gli piombava addosso come un falco.» Rimasero in silenzio per un altro minuto, osservando il sorvegliato attraverso il vetro unidirezionale. «Comunque non è un cattivo soggetto, basta che non sia il tuo capo» attaccò l'agente grasso, cambiando argomento. Gli agenti di sorveglianza diventavano esperti nelle tattiche di conversazione. «Una volta mi ha regalato uno dei suoi giochi. Per mio figlio, il genio dei computer. C'era un'illustrazione di questi alieni, come scarafaggi alti tre metri, che si facevano la guerra con armi laser.» «Al ragazzo è piaciuto?» In realtà l'agente magro se ne infischiava. Pensava che il figlio del grassone fosse iperprotetto e forse addirittura checca, anche se non lo avrebbe mai detto. «Sì. Lo ha portato al negozio e gli ha chiesto di firmarlo. Proprio sulla custodia, Lucas Davenport.» «Be', quel tipo non dorme sugli allori» disse l'agente magro. Fece una pausa di aspettativa. Un minuto dopo il grassone afferrò la battuta e cominciarono a ridere. Ridere non fa bene alla vescica. Il poliziotto grasso si dimenò di nuovo. «Senti, devo andare o me la faccio addosso» decise alla fine. «Se Da-
venport se ne va per raggiungere un posto che non sia la bottega, dovrà prendere la macchina. Se non sei qui quando torno, ti raggiungo fuori della rampa.» «Il culo è tuo» rispose il collega, guardando dal teleobiettivo. «Ha appena cominciato il Racing Form. Forse hai qualche minuto.» Lucas vide il poliziotto grasso sgattaiolare fuori del furgone e precipitarsi nel Pillsbury Building. Sogghignò fra sé. Era tentato di allontanarsi a piedi, sapendo che l'agente nel furgone avrebbe dovuto seguirlo e lasciare a terra il grassone. Ma avrebbe creato complicazioni. Preferiva tenerli là dove poteva controllarli. Quando il grassone tornò, quattro minuti dopo, il furgone era ancora lì. Il collega gli lanciò un'occhiata e disse: «Niente.» Dato che Lucas non aveva ancora fatto niente, le foto che scattavano non erano mai state sviluppate. Se lo fossero state, si sarebbero accorti che nella maggior parte delle inquadrature Lucas rivolgeva loro il dito medio, e forse avrebbero capito che li aveva individuati. Ma non aveva importanza, dato che la pellicola non sarebbe mai stata sviluppata. Mentre il poliziotto grasso risaliva affannato sul furgone e Lucas se ne stava disteso sull'erba, sfogliando di nuovo il libro di poesie, la sorveglianza stava per finire. Lucas leggeva una poesia intitolata Il serpente e il grassone lo sbirciava attraverso l'obiettivo della Nikon, quando il predatore ne uccise un'altra. 3 Le aveva rivolto la parola per la prima volta un mese prima, nell'archivio dell'ufficio del cancelliere della contea. Lei aveva i capelli di un nero corvino, tagliati corti, e gli occhi castani. Due orecchini d'oro a cerchio le pendevano dai lobi delicati. Portava un velo leggero di profumo e un vestito di un rosso caldo. «Vorrei vedere il fascicolo Burhalter-Mentor» aveva detto a un impiegato. «Non ho il numero. Dovrebbe essere compreso nell'ultimo mese.» Il predatore l'aveva osservata con la coda dell'occhio. Aveva quindici o vent'anni più di lui. Attraente. Il predatore non aveva ancora tentato con l'artista. I giorni erano colorati dal pensiero di lei, le notti consumate da immagini del suo viso e del suo corpo. Sapeva che l'avrebbe presa; la canzone d'amore era già cominciata. Ma quella era interessante. Più che interessante. Sentì la propria percet-
tività espandersi, godette dei giochi di luce sulla peluria serica di quell'avambraccio snello... E dopo l'artista, ce ne doveva essere un'altra. «È una pratica civile?» aveva chiesto l'impiegato alla donna. «Si tratta di un gruppo di ipoteche su un complesso di appartamenti giù a Nokomis. Voglio essere sicura che siano state estinte.» «Okay. Ha detto Burkhalter...» «Burkhalter-Mentor.» Lo aveva ripetuto lettera per lettera e l'impiegato era tornato nella sala degli schedari. "Fa l'agente immobiliare" aveva pensato il predatore. Lei aveva intuito la sua attenzione e gli aveva lanciato un'occhiata. «Lei fa l'agente immobiliare?» le aveva chiesto. «Sì» aveva risposto lei. Seria, affabile, professionale. Rossetto rosa, appena un velo. «Sono nuovo, qui a Minneapolis» aveva detto il predatore, avvicinandosi di un passo. «Sono un avvocato dello studio Felsen-Gore. Avrebbe un paio di secondi per rispondere a una domanda sul settore immobiliare?» «Certo.» A quel punto era cordiale, interessata. «Ho dato un'occhiata in giro intorno ai laghi, a sud di qui, il Lago delle Isole, Lago Nokomis, per intenderci.» «Oh, è una zona molto bella» aveva esclamato lei entusiasta. Aveva quella che i chirurghi plastici definivano una bocca turgida, che sorridendo rivelava una fila di denti candidi. «In questo momento ci sono molte case sul mercato. È la zona in cui sono specializzata.» «Be', non sono sicuro se preferirei un appartamento o una casa...» «Una casa conserva meglio il suo valore...» «Sì, ma sa, sono scapolo. Non ho proprio voglia di combattere con un grande giardino...» «Quello che le serve davvero è una villetta su un piccolo lotto di terreno, senza un grande giardino. Avrebbe più spazio che in un appartamento, e potrebbe abbonarsi a un servizio di manutenzione del prato per 30 dollari al mese. Sarebbe più economico delle spese di condominio per la maggior parte degli appartamenti, e conserverebbe il valore d'acquisto...» Il predatore aveva ricevuto il suo fascicolo e aveva aspettato che lei facesse una fotocopia delle ipoteche. Si erano allontanati insieme lungo il corridoio verso gli ascensori ed erano scesi al pianterreno. «Be', mmm, vediamo un po', a Dallas avevamo quel sistema, si chiamava lista multipla, o qualcosa del genere?» aveva detto il predatore. «Sì, servizio di lista multipla» aveva confermato lei.
«Se dovessi guardare in giro e trovarmi una casa, potrei chiamarla perché me la faccia visitare?» «Certo, lo faccio in continuazione. Aspetti che le do il mio biglietto da visita.» Jeannie Lewis. Lui aveva infilato il biglietto nel portafogli. Appena le aveva voltato le spalle e si era allontanato dalla sua presenza fisica, aveva rivisto l'artista, il suo viso e il suo corpo mentre camminava per le strade di Saint Paul. Era affamato di lei, e l'agente immobiliare era quasi dimenticata. Ma non del tutto. Per tutta la settimana seguente, aveva visto il biglietto ogni volta che tirava fuori di tasca il portafogli. Jeannie Lewis dai capelli corvini. Una candidata sicura. E poi il fiasco. La mattina dopo si era svegliato pesto, con le ossa che gli scricchiolavano. Aveva inghiottito mezza dozzina di aspirine per riprendersi e si era girato con cautela per guardarsi la schiena allo specchio del bagno. I lividi stavano cominciando a vedersi e sarebbero stati brutti, lunghe striature nere sul dorso e sulle spalle. L'ossessione per l'artista era spezzata. Quando era uscito dalla doccia, aveva visto nello specchio una faccia estranea, che fluttuava dietro la superficie appannata. Era già successo. Aveva allungato una mano e asciugato lo specchio con un lembo dell'asciugamano. Era Jeannie Lewis, che gli sorrideva, affascinata dalla sua nudità. L'ufficio della donna si trovava nel quartiere a sud del lago, in un vecchio negozio con una grande vetrata. Lui aveva girato per il quartiere, cercando un punto di osservazione. L'aveva trovato nel parcheggio sul viale, in diagonale rispetto all'ufficio di Lewis. Poteva restare seduto in macchina e osservarla attraverso la vetrata del negozio mentre stava nel suo cubicolo a parlare al telefono. La sorvegliò per una settimana. Tutti i pomeriggi, tranne il mercoledì, lei arrivava fra mezzogiorno e mezzo e l'una, portandosi un sacchetto con il pranzo. Mangiava alla scrivania mentre sbrigava le pratiche di ufficio. Usciva raramente prima delle due e mezzo. Era sensazionale. A lui piaceva soprattutto il modo in cui camminava, muovendo le anche in lunghe falcate fluide. Di notte la sognava, sognava Jeannie Lewis che gli veniva incontro nuda attraverso la vegetazione del deserto... Decise di prenderla un giovedì. Trovò una casa graziosa in una strada stretta di un quartiere che si stava rivalutando, a sei isolati dall'agenzia. Non c'erano case di fronte. Il vialetto era leggermente infossato nel prato, e
i gradini che conducevano alla porta principale erano riparati da uno schermo di sempreverdi. Se si fosse fatto accompagnare da Lewis alla casa e lei fosse entrata con la macchina nel vialetto, e lui fosse sceso dalla parte del passeggero, sarebbe stato praticamente invisibile dalla strada. La casa sembrava vuota. Controllò gli elenchi stradali usati dagli investigatori dello studio legale, trovò i nomi dei vicini. Chiamò il primo dell'elenco e parlò con un vecchio ficcanaso. Spiegò che avrebbe voluto fare un'offerta diretta per la casa, aggirando gli agenti immobiliari. Domandò se il vicino sapeva per caso dove si trovavano i proprietari. Lui rispose di sì, che erano in Arizona. Gli diede il numero. Non sarebbero tornati prima di Natale, e anche allora solo per due settimane. Ispezionando i dintorni, il predatore trovò un piccolo supermercato di fronte a un distributore Standard, a pochi isolati dalla casa. Il giovedì mise l'attrezzatura nel bagagliaio della macchina e indossò una giacca sportiva di tweed che gli stava un po' grande, con le tasche capaci. Controllò che Lewis fosse in ufficio, poi andò in macchina al supermercato, sistemò l'auto nel parcheggio affollato e la chiamò da un telefono pubblico. «Jeannie Lewis» rispose lei. Aveva una voce piacevolmente calma. «Sì, signora Lewis?» disse il predatore. Il cuore gli martellava contro le costole. «Ci siamo incontrati per caso nell'archivio dell'amministrazione un mese fa. Parlavamo di case nella zona dei laghi.» Ci fu un attimo di esitazione all'altro capo del filo e il predatore ebbe paura che si fosse scordata di lui. Poi la donna rispose: «Oh... sì, credo di ricordare. Siamo scesi insieme in ascensore?» «Sì, sono io. Ascolti, per farla breve, stavo girando in macchina da queste parti per dare un'occhiata, e ho avuto noie alla macchina. Così mi sono fermato a una stazione di servizio e mi hanno detto che ci voleva un paio d'ore, devono cambiare la pompa dell'acqua. Comunque, sono uscito per fare una passeggiata e ho trovato una casa molto interessante.» Lanciò un'occhiata al foglio che aveva in mano, con l'indirizzo, e glielo lesse. «Mi domando se potremmo fissare un'ora per visitarla.» «Si trova ancora a quel distributore Standard?» «Sono in una cabina telefonica sul marciapiede di fronte.» «In questo momento non ho niente da fare e sono a cinque minuti di strada. Potrei fermarmi dall'altro agente immobiliare, si trova a due minuti appena da qui, ritirare la chiave e venire a prenderla.» «Be', non vorrei disturbarla...»
«No, nessun problema. Conosco quella casa. È molto ben tenuta. Mi sorprende che sia ancora in vendita.» «Be'...» «Sarò lì fra dieci minuti.» Ce ne vollero quindici. Lui entrò nel supermercato, comprò un gelato da passeggio, sedette su una panchina alla fermata dell'autobus vicino alla cabina telefonica, e leccò il gelato. Quando la Lewis arrivò, su una station wagon marrone, lo riconobbe subito. Quando gli sorrise, lui le vide i denti oltre lo schermo azzurrato del parabrezza. «Come sta?» domandò aprendo lo sportello del posto accanto al sedile di guida. «Lei è l'avvocato. Me ne sono ricordata appena ho visto il suo viso.» «Sì. Le sono davvero grato. Mi sono presentato? Sono Louis Vullion.» L'assassino predatore lo pronunciava alla francese, con l'accento sulle ultime sillabe, mentre i genitori lo dicevano all'inglese, che faceva rima con "onion", cipolla. «Lieta di conoscerla.» E lo sembrava davvero. Il tragitto fino alla casa richiese tre minuti, mentre la donna sottolineava i pregi della zona. I laghi a pochi chilometri tanto da poterli raggiungere a piedi la sera, facendo jogging. Abbastanza lontani da non risentire del traffico. Scuole abbastanza vicine da favorire la rivalutazione della casa, se mai avesse desiderato venderla. Non tanto vicine perché i ragazzi rappresentassero un problema. Sufficiente stabilità nel quartiere perché gli abitanti si conoscessero fra loro e gli sconosciuti nella zona fossero notati. «Il tasso di criminalità da queste parti è molto basso in confronto ad altre zone della città» osservò la donna. Proprio in quel momento un jet rombò in alto, preparandosi all'atterraggio nell'aeroporto internazionale di Minneapolis-Saint Paul. A quello lei non accennò. Nemmeno Vullion vi accennò. Ascoltava solo quel tanto che bastava per annuire nei punti giusti. Dentro di sé, stava ripassando la solita visualizzazione. Stavolta non poteva fallire come aveva fatto con l'artista. Certo, si era assunto la responsabilità di quel fiasco; non c'era modo di evitarlo. Aveva sbagliato ed era stato fortunato a farla franca. Una donna di 60 chili in buona forma fisica poteva essere un'avversaria formidabile. Non lo avrebbe mai più dimenticato. Quanto a Lewis, non poteva commettere errori. Una volta iniziato l'attacco, lei doveva morire, perché lo aveva visto in faccia, sapeva chi era. Quindi si era allenato nel suo appartamento, come meglio poteva, colpen-
do un pallone da basket appeso a un gancio sulla porta del bagno. Come se fosse una testa umana. E ormai era pronto. Si era messo nella tasca destra della giacca un calzettone da ginnastica riempito con una grossa patata farinosa dell'Idaho. Il gonfiore era visibile, ma non molto. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, un'agenda per appuntamenti, un panino integrale. Un assorbente Kotex, il nastro adesivo, e un paio di guanti in latex da chirurgo nella tasca sinistra. Non avrebbe toccato nulla che conservasse impronte digitali prima di infilarsi i guanti. Ci ripensò, riprovò tutto dentro di sé e disse: «Ah sì?» nei punti giusti del discorso di imbonimento della Lewis. E mentre erano in macchina, sentì la propria percettività espandersi; si accorse, con una punta di disgusto, che lei probabilmente fumava. Aveva addosso un lievissimo odore di nicotina. Quando imboccarono il vialetto, cominciò a sentire un nodo allo stomaco come gli era accaduto con l'artista e le altre. «Una bella casa, almeno a vederla da fuori» osservò. «Aspetti di vedere l'interno. Hanno adottato un'ottima soluzione per i bagni.» Gli fece strada verso la porta d'ingresso, che era schermata rispetto alla strada dai sempreverdi. La chiave aprì la porta, e loro la spinsero. La casa era completamente arredata, ma nella stanza di soggiorno si respirava l'atmosfera troppo in ordine di un'assenza programmata da tempo. L'aria era ferma e leggermente stantia. «Vuole dare un'occhiata in giro?» La Lewis lo guardò. «Sicuro.» Lui osservò distrattamente la cucina, attraversò la stanza di soggiorno, salì i tre gradini fino al livello della camera da letto, si affacciò in tutte le stanze. Quando ridiscese, lei stringeva la tracolla della borsetta, esaminando con un certo interesse una lampada di cristallo sulla mensola del caminetto. «Quanto chiedono?» «Centocinque.» Lui annuì e lanciò un'occhiata verso la porta del seminterrato, vicino alla cucina. «Quello è il seminterrato?» «Sì, credo di sì.» Quando si girò verso la porta, lui tirò fuori dalla tasca la calza. La Lewis fece un altro passo verso la porta del seminterrato. Brandendo la calza come un manganello, la colpì con la patata dell'Idaho proprio sulla nuca, po-
co più su dell'orecchio sinistro. Il colpo le fece perdere l'equilibrio e Vullion l'adagiò sul dorso e la colpì ancora. Lei non era come quella puttana di artista. Era un tipo da scrivania, senza forza nelle braccia. Gemette una sola volta, stordita, e lui l'afferrò per i capelli in cima alla testa, le tirò bruscamente la testa all'indietro e le ficcò in bocca il Kotex. S'infilò i guanti, prese il nastro adesivo dalla tasca laterale e la imbavagliò in fretta. Mentre lei cominciava finalmente a lottare, la fece rotolare su se stessa, le unì i polsi e li legò col nastro. Stava cominciando a riprendersi, con gli occhi semiaperti, e lui la trascinò su per i gradini nella prima camera da letto e la gettò sul letto. Prima le fissò le braccia alla testiera, poi le gambe, divaricate, alle colonnine d'angolo del letto. Ansimava, ma sentiva l'erezione che pulsava all'inguine, l'eccitazione che gli saliva in gola. Fece un passo indietro per guardarla. Il coltello, pensò. "Spero che ce ne sia uno buono." Scese a guardare in cucina. Sul letto alle sue spalle, Jeannie Lewis gemette. 4 L'ippodromo delle Città Gemelle somiglia a una stazione dei pullman Greyhound progettata da uno chef pasticcere. L'agente grasso, non essendo un critico di architettura, lo trovava bello. Se ne stava seduto al sole con una fetta di pizza ai peperoni sulle ginocchia, una Diet Pepsi in una mano e una radio portatile nell'altra. Ricevette la chiamata sulla portatile poco prima della seconda corsa. «Subito?» «Subito.» Nonostante le interferenze, la voce era inconfondibile e tagliente come un coltello. Il poliziotto grasso guardò quello magro. «Cristo, il capo. Alla radio.» «A puttane anche la procedura.» Il poliziotto magro stava finendo di mangiare un hot dog e si era sgocciolato di salsa il davanti della giacca sportiva. La ripulì con un tovagliolino di carta. «Vuole Davenport» riferì quello grasso. «Dev'essere successo qualcosa» osservò quello magro. Erano fuori, sul terrazzo. Lucas si trovava in basso, nella tribuna asfaltata, a due settori di distanza. Era stravaccato su una panca di legno proprio di fronte al tabello-
ne del totalizzatore, a dieci metri dal terreno scuro della pista. Una bella donna con gli stivaletti da cowboy era seduta all'altro capo della panca e beveva birra da un bicchiere di plastica. I due agenti risalirono il passaggio centrale fino alla sommità della tribuna, scesero la scala e si fecero largo fra una piccola folla alla base della gradinata. «Davenport? Lucas?» Lucas si volse, li vide e sorrise. «Ehi, salve. Una giornata alle corse, eh?» «Il capo vuole vederti. Tipo subito.» Il poliziotto grasso non ci aveva pensato fino a quel momento, ma la faccenda poteva essere difficile da spiegare. «Hanno sospeso la sorveglianza?» chiese Lucas. Parlando, scopriva i denti. «Lo sapevi?» Il poliziotto grasso inarcò un sopracciglio. «Da un pezzo. Ma non perché.» Li guardò con aria di attesa. L'agente magro strinse le spalle. «Non lo sappiamo neanche noi.» «Ehi, vaffanculo, Dick...» Lucas si alzò con i pugni stretti, e il poliziotto magro fece un passo indietro. «Lo giuro su Dio, Lucas, non lo sappiamo» confermò l'agente grasso. «Era tutto segretissimo.» Lucas si voltò a guardarlo. «Ha detto subito?» «Ha detto subito. E sembrava che parlasse sul serio.» Lucas lasciò vagare lo sguardo e si girò verso la pista, fissando senza vederle le gabbie di partenza dei milleduecento metri, oltre la pista. I fantini spingevano i cavalli verso il cancello e la folla stava cominciando a spostarsi lungo la tribuna verso la linea d'arrivo. «È il predatore» disse Lucas un attimo dopo. «Sì» rispose l'agente grasso. «Potrebbe darsi.» «Dev'essere così. Merda, questo caso non lo voglio.» Ci rifletté qualche secondo e poi all'improvviso sorrise. «Voi avete dei cavalli per questa corsa?» L'agente grasso sembrò a disagio. «Oh, ho puntato due dollari su Skybright Avenger.» «Cristo, Bucky» sbottò Lucas esasperato «rischi due dollari per vincere due dollari e 40 cents se arriva primo. Cosa che non succederà.» «Be', io non...» «Se non sai giocare...» Lucas scosse la testa. «Senti, va' a puntare dieci dollari su Pembroke Dancer. Vincente.»
I due agenti si scambiarono un'occhiata. «Sul serio?» disse quello magro. «È "vergine", non puoi sapere...» «Ehi, sta a te, se vuoi scommettere. Comunque io resto per vedere la corsa.» I due agenti degli Affari interni si guardarono, guardarono di nuovo Lucas, poi fecero dietrofront e si precipitarono dentro, agli sportelli più vicini. L'agente magro puntò dieci dollari. Quello grasso esitò, guardando dentro il portafogli, si leccò le labbra, tirò fuori tre biglietti da dieci, si leccò di nuovo le labbra e li spinse sul banco. «Trenta su Pembroke Dancer» disse. «Vincente.» Lucas era di nuovo stravaccato sulla panca e aveva attaccato discorso con la donna in stivaletti da cowboy. Quando gli agenti della sorveglianza tornarono, si spostò verso di lei ma rivolgendosi a loro. «Avete puntato?» domandò. «Sì.» «Non essere tanto nervoso, Bucky. È perfettamente legale.» «Sì, sì. Non è quello.» «Ha un cavallo?» La donna con gli stivaletti da cowboy si protese in avanti e lanciò un'occhiata di sghembo a Lucas. Aveva gli occhi viola. «Una semplice intuizione» rispose Lucas pigramente. «È, come dire, un'intuizione privata?» «Abbiamo puntato tutti un paio di dollari su Pembroke Dancer» rispose Lucas. La donna con gli occhi viola aveva una copia di Racing Form sulla panca vicino a sé, ma invece di guardarla alzò gli occhi al cielo, mosse silenziosamente le labbra e poi voltò la testa e disse: «In allenamento ha fatto un tempo impressionante sui milleduecento. La pista era definita veloce, ma probabilmente non era tanto buona.» «Mmm» disse Lucas. Lei guardò il tabellone per alcuni secondi e disse: «Scusatemi, devo andare a incipriarmi il naso.» Si allontanò in gran fretta. Il poliziotto grasso si stava ancora leccando le labbra e osservava il totalizzatore. Davano Pembroke Dancer venti a uno. Altri tre cavalli, Stripper's Colors, Skybright Avenger e Tonite Delite avevano alle spalle buoni piazzamenti nelle ultime tre settimane. Pembroke Dancer era stato spedito dall'Arkansas due settimane prima. Nella prima gara era finito sesto. «Com'è la storia su questo cavallo?» chiese il poliziotto grasso.
«Una dritta da un amico.» Lucas accennò col pollice alle sue spalle, in alto verso la cabina della stampa. «Uno degli addetti all'handicap ha ricevuto una chiamata da Vegas. Mezz'ora fa un tale è entrato in una sala corse e ha puntato diecimila dollari su Pembroke Dancer, vincente. Qualcuno sa qualcosa.» «Cristo. Allora perché lui ha perso così male l'ultima corsa?» «Lei.» «Eh?» «Lei. Dancer è una puledra. E non so perché ha perso. Potrebbe essere un motivo qualsiasi. Magari il fantino strascicava i piedi.» Il tabellone del totalizzatore scattò e le quote su Pembroke Dancer salirono a 21 a uno. «Quanto hai puntato, Lucas?» domandò il poliziotto grasso. «È una combinata. Ho accoppiato Dancer con gli altri nove cavalli. Un centone per uno, quindi ho 900 dollari in gioco.» «Cazzo.» Il grassone si leccò di nuovo le labbra. Aveva altri venti dollari nel portafogli e ci pensò. Oltre la pista, il primo dei cavalli fu condotto verso le gabbie e il poliziotto grasso si mise comodo. Trenta erano già troppi. Se li perdeva, avrebbe pranzato a Cheetos per una settimana. «E così, avete qualche novità succosa?» chiese Lucas. «Cos'è questa storia su Billy Case e la recluta?» Il poliziotto grasso rise. «Quel rincoglionito di Case.» «C'era questa avvocatessa» cominciò il poliziotto magro «e un giorno ti guarda fuori dalla finestra dello studio, che si affaccia sul retro di una vecchia casa adattata a uffici. Il retro dello studio guarda sulla facciata posteriore dei palazzi di uffici della strada vicina. Anzi, guarda esattamente su un vicolo fra i due palazzi. All'altro capo del vicolo c'è un'inferriata con un cancello, come per chiudere il passaggio dalla parte della strada. Quindi dalla strada non si può guardare nel vicolo. Ma ci si può guardare dallo studio di questa avvocatessa, capisci? Be', lei guarda laggiù, ed eccoti questo agente, in divisa di ordinanza, che si fa lustrare la cappella da una figa nera. «Così l'avvocatessa sta a guardare e il tizio viene, tira su la lampo, e lui e la ragazza nera escono dal cancello nel recinto, tornando sulla strada. L'avvocatessa se ne sta buona, pensa che magari sono innamorati. Ma il giorno dopo, eccoteli in due, tutti e due agenti, più la ragazza nera, e lei li serve tutti e due. Così l'avvocatessa è seccata. Chiede in prestito al marito una macchina fotografica gigante e il giorno dopo, vero come Dio, eccoli
di nuovo lì con un'altra pupa, stavolta una bianca. Così l'avvocatessa scatta delle foto e porta questo rullino di Kodachrome al capo.» Il primo dei cavalli fu introdotto nel retro della gabbia e chiuso dentro. La donna dagli occhi viola tornò a sedersi all'estremità della panca. L'agente magro seguitò a raccontare. «Così il capo lo manda al laboratorio» disse «e sono semplicemente le migliori foto di un lavoro di bocca mai scattate. Potrei venderle a dieci dollari l'una. Così il capo e gli uomini della procura decidono che c'è qualche problema nella concatenazione delle prove, e noi finiamo nello studio di questa avvocatessa con una telecamera. Sicuro come l'oro, eccoli che arrivano. Ma stavolta si sono portati la ragazza nera e quella bianca. È come un Cinemascope o roba del genere. Panavision.» «E adesso che succederà?» chiese Lucas. L'agente grasso strinse le spalle. «Ce l'hanno nel culo.» «Che anzianità di servizio avevano?» «Case aveva sei anni, ma me ne sbatto il cazzo. Aveva un brutto curriculum. Siamo convinti che lui e una guardia giurata abbiano soffiato impianti stereo e lettori compact disc da un magazzino della Sears qualche mese fa. Ma mi dispiace per il novellino. Case gli aveva detto che era così che si lavorava sulla strada. Facendosi fare pompini nei vicoli.» Lucas scosse la testa. «Proprio sulla strada, in pieno giorno» aggiunse il poliziotto grasso. L'ultimo cavallo fu spinto nel retro della gabbia, chiuso dentro, e ci fu una pausa di un secondo prima che i cancelli si spalancassero e l'annunciatore proclamasse: «Sono tutti allineati... e sono partiti. Pembroke Dancer va in testa all'esterno, seguita da...» Dancer si staccò dal gruppo, di due lunghezze all'ingresso nella curva, quattro lunghezze in fondo al rettilineo, otto lunghezze sul filo del traguardo. «Figa» mormorò l'agente grasso in tono reverente. «Ho vinto seicento dollari.» Lucas si alzò in piedi. «Io vado» annunciò. Guardava il totalizzatore, facendo calcoli. Quando fu soddisfatto, si rivolse agli altri due. «Mi seguite? Andrò piano.» «No, no, noi abbiamo finito» disse il poliziotto grasso. «Grazie, Lucas.» «Dovreste filare adesso» disse Lucas. «Le altre corse fanno schifo. Non si possono fare previsioni. E, Bucky...» «Sì?» L'agente grasso alzò gli occhi dal biglietto vincente.
«Non ti scorderai di informare della vincita il fisco?» «Certo che no» ribatté l'altro, offeso. Mentre Lucas si allontanava sogghigando, l'agente grasso borbottò: «Col cavolo.» Guardò di nuovo la giocata e poi notò che la donna con gli occhi viola si affrettava a seguire Lucas. Lo raggiunse un attimo prima che entrasse, e il poliziotto grasso vide Lucas sorridere mentre si infilavano insieme nell'edificio. «Ma guarda un po'» disse all'agente magro. Ma l'agente magro stava guardando il totalizzatore e muoveva le labbra in silenzio. L'agente grasso guardò il collega e disse: «Che c'è?» Il poliziotto magro alzò una mano per sospendere la domanda, con le labbra ancora in movimento. Poi si fermarono e lui si voltò a seguire con gli occhi Lucas. «Che c'è?» disse il poliziotto grasso, guardando nella stessa direzione. Lucas e la donna dagli occhi viola erano spariti. «Non m'intendo molto di queste cagate delle corse dei cavalli» disse il poliziotto magro «ma se leggo bene il totalizzatore, le quote di questa combinata, Davenport si becca 22 mila e 250 dollari.» L'ufficio del capo della polizia si trovava al pianterreno del municipio, in una posizione d'angolo. Le due pareti che davano sulla strada erano dominate dalle finestre. Le altre due erano tappezzate di fotografie in cornice, alcune a colori, altre in bianco e nero, che risalivano nel tempo fino agli anni Quaranta. Daniel con la famiglia. Con gli ultimi sei governatori del Minnesota. Con cinque degli ultimi sei senatori. Con una lunga e anonima catena di facce che si assomigliavano tutte vagamente, facce che occupavano dei posti alle cene ufficiali per i politici di primo piano. Esattamente alle spalle del capo, c'era lo stemma del Dipartimento di polizia del Minnesota e una targa in onore degli agenti uccisi in servizio. Lucas sprofondò nella poltrona di pelle esattamente di fronte alla scrivania del capo. Era sorpreso, anche se tentava di non darlo a vedere. Era molto tempo che niente riusciva più a sorprenderlo, a parte le donne. «Seccato?» Quentin Daniel si protese sul piano di cristallo della scrivania, studiando Lucas. Daniel incarnava in modo così perfetto il ritratto di un capo della polizia che un certo numero di vecchi avversari politici, che ora facevano qualche altro mestiere, avevano commesso l'errore di pensare che avesse ricevuto l'incarico in virtù della sua faccia. Si sbagliavano. «Sì. Seccato. Soprattutto sorpreso.» Lucas non amava particolarmente Daniel, ma lo considerava forse l'uomo più brillante delle forze di polizia.
Sarebbe rimasto sorpreso, ancora una volta, di scoprire che il capo aveva esattamente la stessa opinione di lui. Daniel si girò a metà verso le finestre, con la testa piegata di lato, continuando a studiarlo. «Il perché può capirlo» disse. «Pensava che fossi stato io?» «Un paio di persone della Omicidi pensavano che valesse la pena di controllare» rispose Daniel. «Farà meglio a cominciare dal principio» ribatté Lucas. Daniel annuì, spinse la poltrona lontano dalla scrivania, si alzò in piedi e si avvicinò a una parete di fotografie. Ispezionò il viso di Hubert Humphrey come se fosse in cerca di nuove pecche. «Due settimane fa, il nostro uomo ha aggredito una donna di Saint Paul, un'artista di nome Carla Ruiz» disse, continuando l'ispezione al viso di Humphrey. «Lei è riuscita a metterlo in fuga. Quando la polizia di Saint Paul è arrivata sulla scena, il sergente l'ha trovata che guardava un biglietto. Era una di quelle regole che lascia in giro.» «Non ho saputo niente di questa Ruiz» disse Lucas. Il capo si girò e tornò alla poltrona, senza fretta, con le mani in tasca. «Già. Be', questo sergente è un tipo sveglio e sapeva dei biglietti dei primi due assassini. Ha chiamato il capo della Omicidi di Saint Paul e ci hanno messo sopra un coperchio. Le uniche persone al corrente sono il capo della polizia di Saint Paul e il capo della Omicidi di laggiù, i due agenti in divisa che hanno ricevuto la chiamata, un paio di uomini della Omicidi di qui e io. E l'artista. E adesso lei. E a tutti gli uomini è stato detto che se la storia trapela, ci saranno dei nuovi agenti in divisa di guardia alla discarica comunale.» «E in che modo questo portava a me?» chiese Lucas. «Non portava a lei. Non subito. Ma durante la lotta con l'artista il nostro uomo ha lasciato cadere la pistola. La prima cosa che abbiamo fatto è stata rilevare le impronte e controllarle. Nessuna impronta. Abbiamo controllato tutto, compresi i proiettili. Abbiamo avuto più fortuna con il proprietario. L'abbiamo individuato in dieci minuti. Era passata dalla fabbrica a un armaiolo di Hennepin Avenue, e da lì a un tale di nome David L. Losse.» «Il nostro David L. Losse?» «Ricorda il caso?» «Quello che sparò al figlio e disse che era stato un incidente? Che pensava che qualcuno si stesse introducendo in casa?»
«È lui. Fu condannato per omicidio colposo, anche se probabilmente era omicidio di primo grado. Si è preso sei anni, ne sconterà quattro. Ma c'è ancora un appello in sospeso. A causa dell'appello, le prove erano teoricamente custodite nel locale dei reperti. Siamo andati a controllare. La pistola è sparita. O meglio era sparita, finché l'assassino l'ha lasciata cadere.» «Merda.» Era già successo che sparissero degli oggetti dal deposito dei reperti. Cinque grammi di cocaina diventavano quattro. Venti riviste sadomaso si riducevano a 15. Per quanto ne sapeva Lucas, era la prima volta che scompariva una pistola. «Lei ha avuto accesso al deposito dei reperti un paio di volte. Durante il caso Ryerson e durante quella faccenda spinosa della banda di rapinatori di Chicago. Abbiamo eseguito un controllo incrociato su tutti i dati ricavati dagli omicidi e dalla testimone. Tempi, luoghi, la descrizione dell'artista. Potevamo eliminare dalla rosa dei sospetti tutte le donne che avevano avuto accesso al locale. Potevamo scartare gli agenti che erano certamente in servizio nel momento in cui erano avvenuti gli omicidi. Le uccisioni o aggressioni sono avvenute in tutti e tre i turni... Alla fine siamo arrivati al suo nome. In sostanza, lei ha la taglia giusta. Nessuno sa mai cosa combina. È un maniaco di giochi, e questo tizio sta facendo evidentemente una specie di gioco. E la pistola era uscita dal locale dei reperti. Non ho mai pensato veramente che fosse lei, ma... ecco com'è andata.» «Sì, lo vedo» replicò Lucas acido. «Grazie tante.» «Ehi, lei cosa avrebbe fatto?» ribatté Daniel sulla difensiva. «D'accordo, d'accordo.» «Ora sappiamo che è pulito» disse il capo. Si rilassò sulla poltrona, si stirò e accavallò le gambe. «Perché il nostro uomo l'ha fatto un'altra volta. Da quattro a sei ore fa. Calcoliamo che fosse più o meno l'ora in cui lei era seduto sul prato a mangiare quella mela.» Lucas annuì. «Questa dov'è?» «Vicino al Lago Nokomis. Proprio a ovest del lago, su fra quelle colline.» «Potete mantenerlo segreto?» «No.» Daniel scosse la testa. «Con questo sono tre. Se cercassimo di tenerlo segreto, prima di domani pomeriggio avremmo fughe di notizie peggio che da un rubinetto arrugginito. Provocherebbe guai maggiori che uscire allo scoperto. Ho già indetto una conferenza stampa per le nove di stasera. Questo darà il tempo alle stazioni televisive di inserirlo nel notiziario delle dieci. Voglio che lei partecipi. Descriverò a grandi linee gli omicidi,
lancerò un appello alla collaborazione, roba simile. E assegnerò lei al caso a tempo pieno.» «Non lo voglio» rispose Lucas. «Gli omicidi mi annoiano. Vai in giro tutto il giorno a parlare con civili che non sanno niente. Ci sono altri che lo fanno meglio di me. E poi ho una quantità di informazioni su questo traffico di crack. Ho individuato una mezza dozzina di persone...» «Sì, sì, sì, tutto questo è fantastico, ma i media ci appenderanno per le palle se non prendiamo questo maniaco» disse Daniel, interrompendo Lucas a metà frase. «Ricorda qualche anno fa, quando furono uccise due donne sulle rampe di un parcheggio? A due, tre settimane circa di distanza, due assassini diversi? Pura coincidenza? Ricorda come i media persero la testa? Come le stazioni televisive tenevano seminari di autodifesa? Come trasmettevano ogni sera bollettini sui progressi delle indagini? Ricorda?» «Sì.» Era stato un incubo. «Questa volta sarà peggio. Quei tali delle rampe di parcheggio, li prendemmo uno il giorno stesso, e l'altro un paio di giorni dopo il delitto. E lo stesso abbiamo avuto l'isteria collettiva. Questo tale ne ha uccise tre, aggredita un'altra, le ha violentate e pugnalate, ed è ancora a piede libero.» Lucas annuì e si sfregò la mascella con le dita. «Ha ragione. Daranno fuori di matto» ammise. «Garantito. Nelle Città Gemelle queste cose non succedono. Quindi in culo il crack. La voglio su questo caso. Lavorerà da solo, la Omicidi indagherà in parallelo. Ai media piacerà. La considerano una specie di genio.» «Che ne pensa la Omicidi del fatto che lavorerò al caso?» chiese Lucas. «Un paio di loro si lamenteranno, perché lo fanno sempre, ma ci verranno dietro. Inoltre non me ne importa di quello che pensano. Loro non hanno il culo che gli prude, io sì. Il prossimo anno mi presenterò per un nuovo mandato e non voglio proprio questa faccenda sul gobbo» rispose Daniel. «Avrò pieno accesso?» «Ho parlato a Lester. Collaborerà. Sul serio.» Lucas annuì. Frank Lester era il vice capo delle sezioni investigative e l'ex capo della Rapine e Omicidi. «Dovrò parlare con questa artista» disse Lucas. Daniel annuì. «Quella donna non ha mezzo centesimo di suo. Abbiamo dovuto installarle noi un telefono, due giorni dopo l'aggressione. Nel caso che il maniaco torni ad aggredirla. Ecco il numero e l'indirizzo.» Porse a Lucas un foglietto di carta. Lucas fece scivolare il foglietto nella tasca dei pantaloni. «Stanno trat-
tando il caso di Nokomis, in questo momento?» «Sì.» «È meglio che vada laggiù.» Si alzò e si diresse alla porta, si fermò e si girò a metà. «Davvero non credeva che fossi stato io?» Daniel scosse la testa. «L'ho vista ronzare intorno alle donne. Non pensavo che potesse far loro una cosa del genere. Ma dovevo saperlo con certezza.» Lucas fece di nuovo per allontanarsi, ma Daniel lo richiamò. «Davenport?» «Sì?» «Si trovi qui per la conferenza stampa, okay? Si vesta proprio così, con la polo e i pantaloni kaki. Ha dei jeans? Forse i jeans andrebbero meglio. Quelli, come si chiamano, jeans acidi?» «Potrei cambiarmi al ritorno. Ne ho un paio stinti.» «Quello che sono. Lo sa come vanno matte quelle tipe della TV per la routine del poliziotto di ronda. Mi ripeta un po', come si chiama il suo ufficio?» «Ufficio Indagini speciali.» Il capo fece schioccare le dita, annuì e scarabocchiò UIS sul blocco della scrivania. «Ci vediamo alle nove» disse. Jeannie Lewis era stesa sul letto stretto con le mani legate in alto, fissate col nastro adesivo alla testiera. Il viso era irrigidito in un'espressione di sofferenza indicibile, la bocca spalancata dal Kotex ficcato fra le mascelle, gli occhi rovesciati al punto che non si vedeva altro che il bianco sotto le palpebre socchiuse. Il dorso era arcuato dalla pressione dei legacci, i capezzoli dei seni piccoli puntavano a sinistra e a destra, quasi sbiancati dalla morte. Le caviglie erano legate agli angoli opposti ai piedi del letto, ma lei era riuscita ad accostare le gambe sottili, in uno sforzo estremo di difendersi. Il coltello sporgeva ancora dalla sommità dell'addome, appena sotto allo sterno, con l'impugnatura quasi a filo dello stomaco. Era stato inserito ad angolo acuto, per penetrare più direttamente nel cuore senza complicazioni di ossa o muscoli. «Lo ha infilato dentro e lo ha spostato avanti e indietro» disse l'assistente del medico legale. «Potremo dire di più dopo l'autopsia, ma si direbbe che sia così. Soltanto un piccolo taglio d'entrata, ma molti danni nella regione del cuore.» «Professionale?» chiese Lucas. «Un medico?»
«Non mi spingerei tanto in là. Non voglio fuorviarla. Ma è qualcuno che sa quello che fa. Sa dove si trova il cuore. Vogliamo lasciare il coltello al suo posto finché non arriveremo in centrale, per scattare alcune foto e fare radiografie, ma dall'aspetto del manico direi che è proprio il coltello più adatto per quel lavoro. Punta stretta, acuminato, lama rigida, piuttosto sottile. L'ideale per scivolare dentro.» Lucas si avvicinò al letto per guardare il manico del coltello. Era di legno levigato, lasciato al naturale. Sul legno era inciso a fuoco Coltelleria County Cork. «Coltelleria County Cork?» «Lasci perdere. Ce n'è un cassetto pieno in cucina.» «Quindi l'ha preso qui.» «Penso di sì. Ho esaminato la prima donna che ha ucciso, quella Lucy comesichiama. L'ha uccisa con un coltello dal manico di plastica, completamente diverso da questo.» «Dov'è il biglietto?» «Nella bustina, là sul cassettone. Lo manderemo in laboratorio per vedere se ne ricavano delle impronte.» Lucas si avvicinò al comò e guardò il biglietto. Carta comune da taccuino d'appunti. Anche se in casa di un sospetto ce ne fossero stati sei blocchi, non avrebbero dimostrato niente. Le parole erano ritagliate da un giornale e fissate alla carta con lo scotch: MAI PORTARE CON SÉ UN'ARMA DOPO AVERLA USATA. «Rispetta quelle regole» osservò il medico legale. «Non ha estratto il coltello, tanto meno se l'è portato via.» «Il biglietto sembra pulito.» «Be', non del tutto. Aspetti un secondo» disse il medico legale. Si sfilò i guanti di plastica, li sostituì con un paio più sottile di guanti da chirurgo, aprì la bustina di plastica e fece scivolare fuori il biglietto per metà. «Vede questa specie di strano semicerchio sotto il nastro adesivo?» «Sì. Un'impronta?» «Crediamo, ma se guarda bene può notare che non c'è nessuna impronta digitale. Eppure è ben definito. Quindi penso...» agitò le dita verso Lucas. «...che portasse guanti da chirurgo.» «Questo significa di nuovo medico.» «Può darsi. Può significare anche infermiera, o portantino, o tecnico. E dato che se ne possono acquistare nei negozi di ferramenta, potrebbe essere un commerciante di ferramenta. Chiunque sia, penso che porti i guanti
anche quando si siede a casa per preparare questi biglietti. Quindi ora sappiamo un'altra cosa: è un rotto in culo, ma un rotto in culo sveglio.» «Okay. Bene. Grazie, Bill.» Il medico legale fece scivolare di nuovo il biglietto nella bustina. «Possiamo portarla via?» domandò, accennando con la testa al cadavere di Jeannie Lewis. «Per me va bene, se la Omicidi ha finito.» Un agente della Omicidi di nome Swanson era seduto a un tavolo in cucina a mangiare un Big Mac con patatine fritte e latte al malto. Lucas avanzò sulla soglia della camera da letto e lo chiamò. «Io ho finito. Possono portarla via?» «Portatela pure via» rispose Swanson con la bocca piena di patatine fritte. Il medico legale sovrintese allo spostamento, con Swanson che si avvicinava per controllare. Le infilarono il sacco mortuario sulla testa, evitando con cura il coltello, e la trasferirono su una lettiga. Come un sacco di sabbia, pensò Lucas. «Non c'è niente sotto?» chiese Swanson. «Niente» rispose il medico legale. Per un attimo guardarono tutti le lenzuola; poi il medico legale rivolse un cenno ai suoi assistenti e loro spinsero la lettiga fuori della porta della camera da letto. «La Scientifica passerà tutto con l'aspirapolvere. Non hanno ancora rilevato le impronte dai mobili» disse Swanson. Quello che intendeva era di non toccare niente. Lucas sogghignò. «Porteranno giù le lenzuola per analizzarle.» «Non vedo macchie.» «No, sono pulite. Non credo che ci siano nemmeno peli. Ho guardato bene, ma non aveva unghie rotte, non aveva niente sotto le unghie, né pelle né sangue.» «Merda.» «Già.» «Voglio dare un'occhiata qua in giro. Niente di significativo?» «C'è la patata...» «Patata?» «Una patata dentro un calzino. È nel soggiorno.» Lucas lo seguì nel soggiorno, e Swanson usò il piede per indicare un punto sotto la panchetta di un pianoforte. C'era una comune calza a rombi scozzesi con un rigonfiamento a un'estremità. «Pensiamo che l'abbia colpita alla testa con quella» disse Swanson. «Il
primo agente che è entrato l'ha vista, ha sbirciato dentro, poi l'ha lasciata alla Scientifica.» «Per quale motivo pensate che l'abbia colpita con quella?» chiese Lucas. «Perché è a questo che serve una patata dentro una calza» rispose Swanson. «O almeno, una volta era così.» «Cosa?» Lucas era sconcertato. «Probabilmente era troppo presto per te» replicò Swanson. «Le cose stavano così: anni fa gli uomini andavano su a Loring Park a malmenare i finocchi, o i barboni giù a Washington Avenue. Si portavano dietro una patata. Non c'è niente di illegale in una patata. Ma mettine una dentro una calza e hai un ottimo sfollagente. Ed è morbida, quindi con un po' di attenzione non si rompe la testa a nessuno. Non ci si ritrova un cadavere fra i piedi e tutti che ti cercano.» «E come fa il predatore a saperlo? È frocio?» Swanson scrollò le spalle. «Può darsi. Oppure può darsi che sia un poliziotto. Una quantità di vecchi agenti di ronda deve sapere come si usa una patata.» «Questo non mi suona» osservò Lucas. «Non ho mai sentito parlare di un pluriomicida vecchio. Se devono farlo, cominciano da giovani. A dieci, venti, magari trent'anni.» Swanson lo squadrò con attenzione. «Farai tu le indagini su questo caso?» domandò. «Questa è l'intenzione» rispose Lucas. «Ti crea qualche problema?» «A me no. Sei l'unico fra le mie conoscenze che abbia mai risolto qualcosa. Ho la sensazione che stavolta ne avremo bisogno.» «E che ne pensano gli altri della Omicidi?» «Un paio dei nuovi pensano che ti stai intromettendo. Quasi tutti i vecchi lo capiscono subito quando sta per arrivare un puttanaio grosso. Vogliono soltanto scamparla. Non avrai grane.» «Lo apprezzo» disse Lucas. Swanson annuì e si allontanò. Jeannie Lewis era stata trovata nella camera da letto sul retro da un altro agente immobiliare. Aveva un appuntamento fissato per metà pomeriggio, e quando non si era fatta viva l'altro agente si era preoccupato ed era andato a cercarla. Quando Lucas era arrivato, facendosi largo nel circolo mesto di vicini in attesa intorno alla casa e sui prati dalla parte opposta della strada, Swanson lo aveva informato in poche parole sul passato della Lewis. «Cercava solo di vendere la casa» aveva concluso.
«Dove sono i proprietari?» «Sono una coppia anziana. I vicini dicono che si sono trasferiti a Phoenix. Hanno comprato una casa laggiù e stanno cercando di vendere questa.» «Nessuno è andato ancora a casa della Lewis?» «Oh, sì, Nance e Shaw. Nessun indizio, da quel lato. I vicini dicono che era una donna simpatica. Appassionata di giardinaggio, aveva un grande giardino dietro la casa. Il marito lavorava per la 3-M, è morto di infarto cinque o sei anni fa. Lei si è messa a lavorare in proprio, cominciava a cavarsela bene. È quello che dicono i vicini.» «Avete guardato nel garage?» «Sì. La macchina non c'era.» «Allora che cosa pensate?» Swanson aveva scrollato le spalle. «Secondo me lui la chiama e le dice che vuole visitare una casa, le dà un appuntamento da qualche parte. Le dice qualcosa che le fa credere che va bene e vengono qui insieme in macchina. Entrano, lui la fa fuori, se ne va con la sua auto, l'abbandona e prosegue a piedi. Stiamo cercando la macchina.» «Qualcuno sta controllando le sue agende in ufficio?» «Sì, abbiamo telefonato, ma il suo capo dice che non c'è niente sulla scrivania. Ha detto che portava con sé un'agenda per gli appuntamenti. L'abbiamo trovata, e c'è scritto solo "12.45." Pensiamo che potrebbe essere l'ora in cui lo ha incontrato.» «Dov'è la borsetta?» «Laggiù, vicino alla porta d'ingresso.» In quel momento, aggirandosi per la casa, Lucas rivide la borsa e si chinò vicino ad essa. Un angolo del portafogli della Lewis sporgeva e lui riuscì a sfilarlo e lo aprì. Denaro. Quaranta dollari e spiccioli. Carte di credito. Biglietti da visita. Lucas tirò fuori alcune buste di plastica trasparente per fotografie e le fece passare. Nessuna delle foto sembrava recente. Guardandosi attorno, vide Swanson in piedi vicino alla porta della camera da letto che parlava con qualcuno fuori della sua visuale. Sfilò una delle foto dalla busta. La Lewis appariva in piedi su un prato insieme a un'altra donna, tutt'e due che tenevano in mano una specie di targa. Lucas chiuse il portafogli, lo rimise nella borsa e s'infilò in tasca la fotografia. Faceva freddo quando lasciò la scena del delitto. Prese dalla macchina una giacca a vento di nylon, se la mise e sedette per un attimo al posto di
guida, osservando gli astanti. Nessuno fuori posto. Non che avesse pensato il contrario. Durante il tragitto di ritorno alla stazione di polizia, attraversò il fiume entrando a Saint Paul, si fermò a casa, si cambiò indossando un paio di jeans e sostituì la giacca di nylon con una giacca sportiva di lino azzurro. Ci pensò qualche secondo, poi prese una pistola automatica calibro 25 e una fondina da caviglia da un ripiano segreto della scrivania, la fissò alla caviglia destra e abbassò la gamba dei jeans per coprirla. I camion della televisione per le trasmissioni a distanza erano stipati fuori del municipio quando Lucas tornò al comando di polizia. Parcheggiò nel garage di fronte, si stupì ancora una volta dell'implacabile bruttezza del municipio. Entrò dall'ingresso posteriore e scese nel suo ufficio. Quando era stato allontanato dalla squadra antirapine, l'amministrazione aveva dovuto trovargli un posto. Il suo grado richiedeva una specie di ufficio. Lucas se lo era trovato da solo, un deposito con la porta d'acciaio nel seminterrato. Gli uscieri lo avevano ripulito e avevano dipinto un numero sulla porta. Non c'erano altri indizi sull'occupante dell'ufficio. A Lucas piaceva così. Aprì la porta chiusa a chiave, entrò e compose il numero telefonico di Carla Ruiz. «Sono Carla.» Aveva una voce piacevolmente roca. «Mi chiamo Lucas Davenport. Sono un tenente del Dipartimento di polizia di Minneapolis» disse. «Ho bisogno di interrogarla. Prima è, meglio è.» «Dio, stasera non posso...» «C'è stato un altro delitto...» «Oh, no. Chi era?» «Un agente immobiliare qui di Minneapolis. La storia completa sarà trasmessa nel notiziario delle dieci...» «Non ho il televisore...» «Bene, senta, che ne dice di domani? Se passassi da lei verso l'una?» «Andrebbe bene. Dio, è orribile per quest'altra donna.» «Già. Ci vediamo domani?» «Come farò a riconoscerla?» «Avrò una rosa fra i denti» ribatté lui. «E un distintivo dorato.» La sala riunioni era zeppa di apparecchiature, cavi, tecnici sudati e poliziotti annoiati. I cameramen discutevano la disposizione delle luci, i rap-
presentanti della stampa si lasciavano cadere sulle sedie pieghevoli per spettegolare o scarabocchiare sui taccuini, i giornalisti televisivi si affannavano a cercare brandelli di informazioni o voci che dessero loro un vantaggio sulla concorrenza. Una dozzina di microfoni erano fissati al podio al centro della sala, mentre le telecamere montate su cavalietti erano disposte a semicerchio sul fondo. Un usciere seccato riparava un'asta spezzata che sosteneva la bandiera americana. Un altro tentava di far entrare altre sedie pieghevoli nello spazio fra il podio e le telecamere. Lucas rimase fermo sulla soglia per un attimo, avvistò una sedia libera verso il fondo e fece un passo per raggiungerla. Una mano gli agganciò la manica della giacca da dietro. Lui si ritrovò a guardare dall'alto Annie McGowan. Canale 8. Capelli scuri, occhi azzurri, nasino all'insù. Bocca grande e mobile. Gambe sensazionali. Dizione impeccabile. Cervello di gallina. Lucas sorrise. «Che sta succedendo, Lucas?» sussurrò lei, standogli vicina. Tenendolo per il braccio. «Il capo sarà qui fra cinque minuti.» «Abbiamo un notiziario lampo fra quattro minuti. Ti sarei molto grata se sapessi che cosa succederà in tempo per annunciarlo» disse lei. Sorrise con aria pudica e accennò ai cavi che uscivano dalla porta. La conferenza veniva trasmessa direttamente alla sua sala stampa. Lucas si guardò attorno. Nessuno prestava loro particolare attenzione. Lui inclinò la testa verso la porta e uscirono insieme. «Se fai il mio nome finisco nei guai» bisbigliò. «Questo è un accordo personale e reciproco fra te e me.» Lei arrossì e disse: «Affare fatto.» «Abbiamo un pluriomicida. Oggi ha fatto la terza vittima. Le stupra e poi le ammazza a pugnalate. La prima è stata circa sei settimane fa, poi un'altra un mese fa. Tutte a Minneapolis. Abbiamo tenuto la cosa segreta nella speranza di catturarlo, ma ora abbiamo deciso di renderlo pubblico.» «Oh Dio» mormorò lei. Si volse e si lanciò quasi di corsa nel corridoio verso l'uscita, seguendo i cavi. «Che cosa hai raccontato a quella puttanella?» Jennifer Carey si materializzò tra la folla. Li aveva tenuti d'occhio. Una bionda alta, con il labbro inferiore turgido e gli occhi verdi, aveva ottenuto una laurea in giornalismo alla Stanford e una specializzazione in giornalismo alla Columbia. Lavorava per TV3.
«Niente» rispose Lucas. Meglio adottare la linea dura. «Balle. Abbiamo un notiziario lampo fra...» Guardò l'orologio. «Due minuti e mezzo. Se lei mi batte, non so cosa farò, ma sono molto brillante e tu te ne pentirai, e molto anche.» Lucas si guardò di nuovo attorno. «Okay» le disse, puntando un dito «ma le dovevo un favore. Se le dirai che ho passato questa notizia anche a te, non mi caverai più nemmeno una parola di bocca.» «Ti ascolto» rispose lei. «Di che si tratta?» Quella sera tardi, Jennifer Carey era distesa a faccia in giù sul letto di Lucas e lo guardava spogliarsi, lo guardava sganciare la pistola nascosta. «Usi quell'arma, qualche volta, oppure la porti per impressionare le donne?» gli domandò. «È troppo scomoda per quello» mentì Lucas. Jennifer a volte lo innervosiva. Aveva l'impressione che gli leggesse nel pensiero. «Torna utile. Voglio dire, se compri della roba da un tizio, non puoi portarti addosso una pistola. Ti prendono per un poliziotto o magari per una specie di squartatore psicopatico e non ci stanno, non trattano l'affare. Ma se hai un'arma nascosta in un posto strano e ne hai bisogno, puoi puntargliela in faccia prima che si accorgano di quello che fai.» «Non sembra roba da Minneapolis.» «Circola brutta gente da queste parti. Quando si sono in ballo certe somme...» Si sfilò i calzini e rimase in slip. «Doccia?» «Sì. Credo.» Si rotolò lentamente e scese dal letto e lo seguì nel bagno. Aveva impressi sul ventre e sulle cosce i segni del copriletto. «Avresti potuto portarti a casa quella McGowan, lo sai» gli disse mentre lui apriva l'acqua e la regolava. «È un po' che mi sta intorno» ammise Lucas. «Allora perché no? Non è che la novità ti dia fastidio.» «È stupida.» Lucas le spruzzò acqua calda sulla schiena e la fece seguire da un getto di schiuma da bagno sprizzata da un flacone di plastica. Cominciò a massaggiarle la schiena e le natiche. «Non mi pare che per te sia mai stato un problema» ribatté lei. Lucas seguitò a strofinare. «Tu conosci alcune delle donne che ho portato fuori. Dimmene una stupida.» Jennifer ci pensò. «Non le conosco tutte» rispose alla fine. «Ne conosci abbastanza per capire lo schema» ribatté lui. «Non esco con le oche.»
«Allora non parlarmi come se lo fossi io, Lucas. Questo assassino tortura le donne prima di ucciderle? Daniel è stato piuttosto evasivo. Pensi che le conosca? Come le sceglie?» Lucas la fece voltare e le premette l'indice sulle labbra. «Jennifer, non cercare di spremermi, okay? Se mi sorprendi con la guardia bassa e mi lascio sfuggire qualcosa e tu lo usi, potrei ritrovarmi in guai seri.» Lei lo scrutò con aria pensosa, l'acqua che gli ruscellava dal petto, gli occhi azzurri e miti incupiti da un'ombra di diffidenza. «Non lo userei senza dirtelo prima» precisò. «Ma tu non ti lasci mai sfuggire niente. Non senza averlo prima deciso. Sei un figlio di puttana furbo, Davenport. Sono tre anni che ti conosco e ancora non riesco a capire quando menti. E reciti più parti di chiunque abbia mai conosciuto. Credo che nemmeno tu te ne accorgi quando smetti.» «Avresti dovuto fare lo strizzacervelli» disse lui, scuotendo la testa con malinconia. Chiuse il rubinetto e aprì la porta della doccia. «Passami l'asciugamano grande. Ti asciugo le gambe.» Mezz'ora dopo, Jennifer disse con voce roca: «A volte arriva a un soffio dal dolore.» «È quello il trucco» disse Lucas. «Non superare la soglia.» «Ci vai così vicino» osservò lei. «Devi averla superata chissà quante volte, prima di capire dove fermarti.» Due ore dopo, Lucas aprì di scatto gli occhi nel buio. Qualcuno lo guardava. Rifletté. La pistola da caviglia era nella scrivania... Poi Jennifer lo punzecchiò, e capì da dove proveniva la sensazione. «Che c'è?» sussurrò. «Sei sveglio?» «Ora sì.» «Ho una domanda da farti.» Lei esitò. «Ti piaccio più delle altre donne o per te siamo tutte semplicemente pezzi di carne?» «Oh, Cristo Dio» gemette lui. «Rispondi.» «Lo sai. Mi piaci di più. Te lo dimostro.» «Come?» «Il tuo spazzolino da denti. È l'unico nell'armadietto del bagno vicino al mio.»
Ci fu un momento di silenzio e poi lei gli si raggomitolò sul braccio. «Va bene» disse. «Rimettiti a dormire.» 5 Per i primi venti squilli si augurò che smettesse. Al ventunesimo scese dal letto e sollevò il ricevitore al venticinquesimo. «Che c'è?» ringhiò. La casa era fredda e lui era nudo, con la pelle che gli si accapponava sul dorso delle braccia, sulla schiena e sulle gambe. «Sono Linda» disse una voce compunta. «Il capo Daniel ha convocato una riunione per le otto in punto e devi partecipare anche tu.» «Okay.» «Lucas, vuoi ripetere, per favore?» «Otto in punto nell'ufficio del capo.» «Esatto. Buona giornata.» Aveva attaccato. Lucas rimase per un attimo a fissare il ricevitore, lo lasciò ricadere sulla forcella, sbadigliò e tornò lentamente in camera da letto. La sveglia sul cassettone segnava le sette e un quarto. Lui si protese verso Jennifer, le assestò una pacca sul sedere nudo e disse: «Devo andarmene.» «D'accordo» borbottò lei. Ancora nudo, Lucas ciabattò di nuovo lungo il corridoio fino al soggiorno, socchiuse la porta d'ingresso, controllò che non ci fosse nessuno nei paraggi, aprì di scatto la porta esterna e ritirò il giornale dal portico. In cucina, versò in una ciotola dei fiocchi di cereali, li coprì di latte e aprì il giornale. Il predatore occupava la prima pagina, un titolo in caratteri di scatola appena sotto la testata del Pioneer Press. L'articolo era imparziale e preciso, per quel che valeva, senza accenni a Ruiz. Il capo non aveva parlato di superstiti. Aveva mentito, anzi: aveva detto che le uniche aggressioni note dell'assassino erano le tre che si erano concluse con la morte. E non aveva accennato ai biglietti. C'era un trafiletto a parte sul ruolo di Lucas nelle indagini. Avrebbe lavorato in modo indipendente dalla Omicidi, ma parallelo. Personaggio controverso. Aveva ucciso cinque uomini in servizio. Menzioni d'onore. Ben noto inventore di videogiochi. L'unico poliziotto del Minnesota che andasse al lavoro su una Porsche. Lucas finì l'articolo e i cereali nello stesso momento, sbadigliò di nuovo
e si diresse in bagno. Jennifer si stava guardando nello specchio dell'armadietto dei medicinali e voltò la testa vedendolo entrare. «Gli uomini hanno la vita facile in fatto di aspetto, sai?» «Vero.» «Dico sul serio.» Si girò di nuovo verso lo specchio e tirò fuori la lingua. «Se qualcuno della stazione mi vedesse così, gli si drizzerebbero i capelli in testa. La faccia tutta impiastricciata di trucco. I capelli sembrano quelli del lupo mannaro. Mi fa male la schiena. Non so...» «Sì, sì, d'accordo, ma fammi spazio. Devo radermi.» Lei alzò un braccio e si fissò la corta peluria scura sotto l'ascella. «Anch'io» ribatté imbronciata. Lucas arrivò alla riunione con dieci minuti di ritardo. Vedendolo entrare, Daniel si accigliò e indicò la sedia vuota. Frank Lester, il vice capo delle squadre investigative, era seduto proprio di fronte a lui. Le altre sei sedie erano occupate da agenti investigativi della Rapine e Omicidi, compreso l'obeso capo della divisione Omicidi, Lyle Wullfolk, e il suo filiforme assistente, Harmon Anderson. «Stiamo elaborando un programma di lavoro» spiegò Daniel. «Riteniamo che almeno un uomo dovrebbe sapere tutto quello che sta succedendo. Lyle ha la sua divisione da dirigere, quindi sarà Harmon, quir» Daniel rivolse un cenno con la testa al vice capo della Omicidi. Anderson si stava curando i denti con uno stuzzicadenti di plastica rossa. S'interruppe quanto bastava per annuire di rimando. «Piacere» grugnì. «Non sarà tuo superiore, Lucas, sarai indipendente» aggiunse Daniel. «Se avrai bisogno di sapere qualcosa, Harmon te lo dirà, ammesso che lo sappiamo.» «Come va con i media, stamattina?» chiese Lucas. «Sono un po' dappertutto. Come i pidocchi. Mi volevano al notiziario del mattino, ma ho risposto che avevo questa riunione. Allora mi hanno chiesto di riprendere la riunione. Gli ho detto di andare a prenderlo in culo.» «Il sindaco è intervenuto al programma» disse Wullfolk. «Ha detto che abbiamo delle piste sulle quali stiamo lavorando e che prevede di catturare il nostro uomo entro le prossime due settimane.» «Testa di cazzo» borbottò Anderson. «È facile dirlo, per lei» osservò Daniel tetro. «È del servizio civile.» «Non ha tutti i torti» ribatté Anderson, sbirciando Lucas. Lui assentì e
cambiò argomento. «E l'arma presa dal locale dei reperti?» Anderson smise di stuzzicarsi i denti. «Abbiamo fatto un elenco» rispose. «Abbiamo 34 persone, fra agenti e civili, che avrebbero potuto prenderla. Probabilmente ce ne sono altri di cui non sappiamo niente. Ho scoperto che gli uscieri entrano là dentro in continuazione. Penso che una parte delle prove se la fumino. Tutti dicono di essere puliti, naturalmente. Abbiamo incaricato la DAI, la Divisione affari interni, di controllare.» «Voglio parlare con loro, tutti e 34» disse Lucas. «Tutti insieme. In gruppo. Invitate anche il rappresentante del sindacato.» «E perché?» chiese Wullfolk. «Li informerò che voglio sapere cosa è successo alla pistola, e il tizio che me lo dice non lo denuncerò. E che il capo revocherà l'indagine degli Affari interni e tutto finirà lì. Dirò che se nessuno mi parlerà, andremo avanti con i pigliamosche, e prima o poi scopriremo chi è, e allora incrimineremo quel figlio di puttana per complicità in omicidio e lo rinchiuderemo a Stillwater.» Anderson scosse la testa. «Se venisse a dirlo a me, non la berrei.» «Ha un argomento convincente?» chiese Daniel. Lucas annuì. «Penso di sì. Descriverò a grandi linee il modo in cui procederà l'interrogatorio e spiegherò che non gli leggerò i diritti o altro, così anche se venissero incriminati, l'intera faccenda sarebbe una trappola e il caso verrebbe respinto. Penso che potremmo presentarla in modo che il colpevole la beva.» Anderson e Daniel si scambiarono un'occhiata, e Anderson scrollò le spalle. «Vale la pena di tentare. Potrebbe fruttarci un risultato rapido. Fisserò un incontro per il tardo pomeriggio. Cercherò di farne venire il più possibile. Alle quattro?» «Bene» rispose Lucas. «Nel mio ufficio abbiamo messo insieme una banca dati, abbiamo una ragazza che digita tutti i dati in entrata e stampa quelli in uscita. Tutti gli uomini che lavorano al caso riceveranno un taccuino con tutti gli elementi che produrremo e tutti gli interrogatori» disse Anderson. «Esamineremo tutto quello che sappiamo di queste persone. Se esiste un nesso o uno schema, lo troveremo. Siete tenuti tutti a leggere i dossier ogni sera. Quando vedete qualcosa ditelo a me. Metteremo tutto nell'incartamento.» «Finora cosa abbiamo?» chiese Lucas. Anderson scosse la testa. «Non molto. Dati personali, schemi di massima, stronzate del genere. La numero uno è stata Lucy Bell, una cameriera, 19 anni. La numero due era una casalinga, Shirley Morris, 36 anni. La nu-
mero tre era l'artista che lo ha respinto, Carla Ruiz. Lei ha 32 anni. La numero quattro è stata questa agente immobiliare, Lewis, 46. Una era sposata, le altre tre no. Una delle altre tre, l'artista, è divorziata. L'agente immobiliare era vedova. La cameriera era una patita del rock and roll, una punk. L'agente immobiliare andava ai concerti di musica classica col suo amico. Le cose stanno così. L'unico punto in comune è che sono tutte donne.» Tutti rifletterono per un minuto. «Qual è l'intervallo fra gli omicidi?» chiese Lucas. «Il primo, Bell, è avvenuto il 14 luglio, poi Morris il 2 agosto, a distanza di 19 giorni; la volta dopo è toccata a Ruiz il 17 agosto, 15 giorni dopo la Morris; poi Lewis il 31 agosto, 14 giorni dopo» rispose Anderson. «L'intervallo diminuisce» osservò uno degli agenti. «Sì. È una tendenza degli assassini sadici, ammesso che questo lo sia» disse Wullfolk. «Se diventano più ravvicinati, li commetterà in preda al raptus, senza tanta prudenza» disse un altro agente. «Non lo sappiamo. Può darsi che le scelga con sei mesi di anticipo. Potrebbe averne un intero schedario» ribatté Anderson. «Qualche altro schema nei giorni?» chiese Lucas. «C'è un particolare, sono tutti compresi nella settimana. Un giovedì, un martedì, un mercoledì e un altro mercoledì. Nessun fine settimana.» «Non è un granché, come schema» disse Daniel. «C'è niente sulle donne?» domandò Lucas. «Tutte alte? Tutte con le tette grosse? Cosa?» «Sono tutte attraenti. È la mia opinione, ma penso che sia attendibile. Hanno tutte i capelli scuri, tre neri... la Bell, che si tingeva i capelli di nero, Ruiz e la Lewis. I capelli della Morris erano castano scuro.» «Uhm. Metà delle donne della città hanno i capelli biondi, o biondicci» osservò un altro investigatore. «Potrebbe essere qualcosa.» «Ci sono tutti i generi di possibilità in questo campo, ma dobbiamo essere prudenti, perché c'è da tener conto anche delle coincidenze. Comunque, cercate pure gli schemi. Farò un elenco di possibili schemi» disse Anderson. «Portate qui ogni pomeriggio i taccuini e vi darò gli aggiornamenti. Leggeteli.» «E la Scientifica? Si gira i pollici o cosar?» chiese Wullfolk. «Stanno usando tutti i metodi possibili. Esaminano il nastro che ha usato per legarle, setacciano la sporcizia che hanno raccolto con l'aspirapolvere,
guardano ogni oggetto in cerca di impronte. Non hanno trovato granché.» «Se uno di questi taccuini arriva ai media, voleranno teste» ammonì Daniel. «Avete capito tutti?» Gli agenti annuirono tutti insieme. «Non dubito che cominceremo ad avere delle indiscrezioni» disse Daniel. «Ma nessuno, ripeto, nessuno deve dire una parola sui biglietti che l'assassino si lascia dietro. Se scopro che qualcuno rilascia indiscrezioni su questi biglietti, trovo quel figlio di puttana e lo siluro. Lo abbiamo tenuto segreto, e così deve restare.» «Ci serve un elemento di identificazione a colpo sicuro di cui il pubblico non sia al corrente» spiegò Anderson. «Hanno capito di avere in mano il Figlio di Sam quando hanno guardato dalla finestra del suo appartamento e hanno visto dei biglietti come quelli che mandava alla polizia e ai media.» «Ci saranno molte pressioni» incalzò Daniel. «Su tutti. Tenterò di tenervele lontane dal collo, ma se questo ciucciacazzi ne farà fuori ancora una o due, ci saranno cronisti che vorranno parlare ai singoli agenti. Dobbiamo rimandare questo momento il più possibile. Se arriveremo a doverlo fare, convocheremo il procuratore in modo che vi suggerisca cosa dire e cosa no. Ogni intervista sarà autorizzata in anticipo da questo ufficio. Okay? Tutto chiaro?» I presenti annuirono di nuovo. «D'accordo. Al lavoro» disse. «Lucas, resti un momento.» Quando il resto degli agenti investigativi fu uscito trascinando i piedi, Daniel chiuse la porta. «Lei sarà il nostro canale di comunicazione con i media, fornirà il materiale ufficioso che ci serve far pubblicare sui giornali, lascerà filtrare quello che ci fa comodo a uno dei giornali e magari a una stazione televisiva, in qualità di fonte riservata, e quando gli altri verranno a chiedere conferma io coglierò l'occasione al volo. D'accordo?» «Sì. Sarò la fonte tanto dei rappresentanti dei giornali quanto di tutte le stazioni televisive. Il problema peggiore sarà non fargli capire che fornisco indiscrezioni a tutti.» «Allora inventi qualcosa. Lei è abile a escogitare stratagemmi. Ma ci serve una porta di servizio aperta con i media. È l'unico modo per farli credere in noi.» «Preferirei non mentire a nessuno» disse Lucas. «Attraverseremo il ponte quando ci arriveremo. Ma se deve bruciare qualcuno, lo bruci. Questa storia è troppo pesante per scherzarci su.»
«Okay.» «Ha un colloquio con quell'artista?» «Sì. Oggi pomeriggio.» Lucas guardò l'orologio. «Devo congelare la mia rete e tornare qui per le quattro. Sarà meglio che mi muova.» Daniel annuì. «Ho una sensazione davvero brutta, su questo caso. La Omicidi non lo prenderà, a meno di avere un colpo di fortuna. Le sto chiedendo aiuto, Davenport. Trovi questo figlio di puttana.» Lucas trascorse il resto della mattina per le strade, spostandosi da bar a telefoni pubblici, a edicole e botteghe di barbieri. Parlò con una mezza dozzina di spacciatori che andavano dai 14 ai 64 anni, e con tre dei loro clienti. Parlò con due allibratori e un'anziana coppia che gestiva un fermo posta di comodo e un centralino illegale, con alcune guardie giurate, un poliziotto corrotto, un guerriero sioux e un barbone che sospettava avesse ucciso due persone che se lo meritavano. Il messaggio fu per tutti lo stesso: «Me ne vado, ma spero che non mi dimenticherete, perché tornerò.» Congelare la rete lo preoccupava. Considerava la sua gente sulla strada come un giardino che richiedeva cure costanti - denaro, minacce, immunità, perfino amicizia - per evitare che cominciasse a spuntare la gramigna della tentazione. A mezzogiorno Lucas chiamò Anderson e fu informato che la riunione era stata fissata. «Alle quattro?» «Sì.» «Ci vedremo prima. Per parlarne.» «D'accordo.» Pranzò in un McDonald's sulla University Avenue, dividendo il tavolo con un drogato dalla testa che continuava a ciondolargli sul petto e che alla fine cadde addormentato con la faccia nelle patatine fritte. Lucas lo lasciò accasciato sul tavolo. L'adolescente foruncoloso dietro il banco osservava il drogato con gli occhi torpidi di un sedicenne che ha già visto tutto e preferisce lasciar correre. Il magazzino con lo studio della Ruiz era a dieci minuti di distanza, uno squallido cubo di mattoni con le finestre stile industriale che sembravano scacchiere sporche. L'unico ascensore era nato come montacarichi ed era azionato da un altro adolescente, con una carnagione vacua come i suoi occhi e una radio portatile delle dimensioni di un tavolino da caffè. Lucas
salì in ascensore al quarto piano, trovò la porta e bussò. Carla Ruiz lo guardò attraverso la fessura senza togliere la catena dalla porta e lui le mostrò il distintivo dorato. «Dov'è la rosa?» domandò lei. Lucas aveva il distintivo in una mano e una ventiquattrore nell'altra. «Ehi, me ne sono scordato. Dovevo tenerla fra i denti, vero?» Lucas le rivolse un largo sorriso. Lei rispose con un sorriso stentato e sganciò la catena. «Sono un mostro» disse aprendo la porta. Aveva il viso ovale e denti candidi che s'intonavano agli occhi scuri e ai capelli neri lunghi fino alle spalle. Indossava una larga blusa contadina sopra una gonna messicana variopinta. Il taglio aperto sulla fronte dal mirino della pistola si stava ancora rimarginando, con una zona tumefatta di un rosso infiammato intorno alla linea nera e frastagliata del taglio. I lividi intorno agli occhi e su un lato del viso si erano attenuati, passando dal nero bluastro al giallo verdognolo. Lucas entrò e si mise in tasca il distintivo. Mentre lei chiudeva la porta, la guardò in viso con attenzione, allungando un indice per alzarle il mento. «Sono a posto» disse. «Una volta che virano al giallo, sono in via di guarigione. Un'altra settimana e saranno spariti.» «Il taglio no.» «Guardi questo» disse Lucas, seguendo col dito la sua cicatrice sulla fronte e attraverso l'orbita dell'occhio. «Quando è successo, avevo la lenza da pesca conficcata nella faccia. Ora resta solo una linea. La sua sarà più sottile. Con un po' di frangia, nessuno la vedrà mai.» Accorgendosi improvvisamente di quanto fossero vicini, Carla Ruiz indietreggiò e poi lo guidò nello studio. «Mi hanno interrogata almeno sei volte» disse, toccandosi il taglio sulla fronte. «Penso di aver detto tutto quello che ho da dire.» «Tanto meglio» ribatté Lucas. «Io non lavoro affatto come gli altri. Le mie domande saranno un po' diverse.» «Ho letto di lei sul giornale» disse la Ruiz. «L'articolo diceva che ha ucciso cinque persone. Lucas si strinse nelle spalle.» Non è che lo volessi. «A me sembrano molte. Il padre del mio ex marito era un poliziotto. Non ha mai usato la pistola contro nessuno in tutta la sua carriera.» «Cosa posso dirle?» replicò Lucas. «Ho lavorato in zone dove capita. Se si lavora soprattutto alla Rapine o alla Omicidi, si può anche fare tutta la carriera senza mai usare la pistola. Se si lavora alla Narcotici o nella Buoncostume, è diverso.»
«Okay.» Lei scostò dal tavolo una sedia da cucina e gliela indicò, poi sedette dalla parte opposta. «Che cosa vuol sapere?» «Si sente al sicuro?» chiese lui posando la valigetta sul tavolo e aprendola. «Non so. Dicono che è entrato forzando le serrature, così il proprietario le ha cambiate tutte. Il poliziotto che è stato qui ha detto che ora sono buone. E mi hanno dato un telefono con un codice d'allarme speciale per il 911. Basta che dica "Carla" e gli agenti dovrebbero arrivare di corsa. La stazione di polizia è proprio qui di fronte. Tutti nel palazzo sanno cosa è successo e tengono tutti gli occhi aperti per individuare gli sconosciuti. Ma sa una cosa... non mi sento poi tanto sicura.» «Non credo che tornerà» disse Lucas. «È quello che hanno detto gli altri sbirri... oh, volevo dire gli altri poliziotti.» «Può chiamarci tutti sbirri» disse Lucas. «D'accordo.» Lei sorrise di nuovo e lui ammirò i denti bianchi e regolari. Non era proprio graziosa, ma molto attraente. «È solo che sono l'unica testimone. Questo mi spaventa. Non esco quasi più.» «Riteniamo che sia un vero maniaco» disse Lucas. «Un maniacomaniaco, diverso dagli altri. Sembra intelligente. È cauto. Non pare propenso a perdere il controllo. Non crediamo che tornerà, perché sarebbe un rischio.» «A me è sembrato pazzo» ribatté Carla Ruiz. «Allora me ne parli. Cosa ha fatto subito dopo averla aggredita?» chiese Lucas. Sfogliò la copia della deposizione che lei aveva reso agli uomini della Omicidi di Saint Paul e Minneapolis. «Com'è andata? Che cosa ha detto?» Per 45 minuti la guidò abilmente attraverso tutte le fasi dell'aggressione, avanti e indietro, fino a ricostruire ogni frazione di secondo. Osservò il suo viso mentre la riviveva. Alla fine lei lo interruppe. «Non posso continuare per molto» disse. «Avevo gli incubi. Non voglio che ricomincino.» «Nemmeno io lo voglio, ma volevo riportarla indietro, farglielo rivivere. Ora voglio che faccia ancora una cosa. Venga qui.» Chiuse la valigetta e gliela porse. «Questa è la spesa. Cominci dalla porta e passi davanti a quel pilastro.» «Io non...»
«Avanti» ringhiò Lucas. Lei tornò lentamente indietro verso la porta e poi si voltò, con le braccia strette intorno alla valigetta. Lucas si fermò dietro il pilastro. «Ora passi. Non guardi me» le ordinò. Lei passò e Lucas balzò fuori da dietro il pilastro e le mise un braccio intorno al collo. «Così.» «Ohh...» «Ho lo stesso odore? Allora?» Allentò il braccio. «No.» «Quale? Che odore aveva?» Carla Ruiz si girò verso di lui, col suo braccio ancora sulla spalla. «Io non... aveva una specie di colonia.» «Odorava di sudore? Traspirazione? I suoi abiti erano puliti o puzzavano?» Le teneva ancora il braccio intorno al collo. «No. Profumava di dopobarba, forse.» «Era grosso come me? Era forte?» La tenne stretta contro il petto e lei lasciò cadere la valigetta e gli si rivoltò contro, cominciando a dibattersi. Lui la lasciò lottare per un attimo, poi lei si rilassò di colpo. Lucas strinse più forte. «Merda» disse lei, si divincolò e Lucas la lasciò andare, e la donna si girò verso di lui, con gli occhi dilatati e furiosi. «Non lo faccia. Stia lontano.» Era sull'orlo del panico. «Era più forte?» «No. Era più fiacco. Aveva le mani morbide. E quando mi sono rilassata, si è rilassato anche lui. È stato allora che gli ho pestato il piede.» «Dove lo ha imparato?» «Dal padre del mio ex marito. Mi ha insegnato qualche tecnica di autodifesa.» «Venga qui.» «No.» «Venga qui, dannazione.» Lei fece controvoglia un passo avanti, spaventata, pallida. Lucas la fece voltare di nuovo e le passò il braccio intorno al collo senza stringere. «Ora, quando la teneva, ha detto qualcosa come di non gridare, se no l'avrebbe uccisa. Suonava così?» E Lucas rafforzò la stretta e la tirò verso l'alto, quasi sollevandola da terra, e disse con voce roca: «Grida e ti ammazzo.» Carla Ruiz si dibatté di nuovo e Lucas disse: «Ci pensi» e la lasciò anda-
re, scostandola da sé. Si allontanò fin quasi a raggiungere la porta. Lei aveva le mani alla gola, gli occhi spalancati. «Nuovo Messico» disse. «Che cosa?» Lucas sentì un guizzo di speranza. «Penso che potrebbe essere del Nuovo Messico. Non mi era mai venuto in mente, fino a oggi, ma non parlava proprio come la gente di qui. Non erano le parole. Non è un accento. È quasi come una sensazione. Non credo che lei se ne accorgerebbe, se non ci facesse caso. Ma era delle mie parti.» «Lei è del Nuovo Messico?» «Sì. Di origine. Sono qui da sei anni.» «Bene. E ha detto che profumava di colonia. Una colonia buona?» «Non so, soltanto colonia. Non riconoscerei la differenza.» «Ma non aveva cattivo odore? Come se non si lavasse?» «No.» «Indossava una T-shirt. Lei ha detto che era bianco. In che senso bianco?» «Proprio bianco. Più bianco di lei. Voglio dire, io sono olivastra, lei è abbronzato, lui era proprio bianco.» «Niente abbronzatura?» «No. Credo di no. Non mi sembra. Aveva quei guanti e ricordo che aveva la pelle bianca quasi quanto i guanti.» «Lei ha detto alla polizia di Saint Paul che portava scarpe da ginnastica. Sa di che modello?» «No. Mi ha semplicemente buttato a terra e io mi stavo alzando e ricordo le scarpe e quella piccola bolla di lato...» S'interruppe accigliandosi. «Agli altri agenti non ho parlato di quella bolla.» «Che genere di bolla?» «Quelle bolle trasparenti da cui si può guardare dentro la suola delle scarpe.» «Sì. Lo so. Lei va spesso nel centro commerciale di Saint Paul?» «A volte» rispose lei. «Se ne ha il tempo, vada a fare una passeggiata questo pomeriggio per guardare le scarpe, per vedere se c'è qualcosa di simile. D'accordo?» «Certo. Dio, non pensavo...» Lucas tirò fuori il portadocumenti con il distintivo, estrasse un biglietto da visita e glielo consegnò. «Mi chiami e me lo faccia sapere.» Parlarono altri dieci minuti, ma non c'era di più. Lucas prese qualche al-
tro appunto su un blocchetto stenografico e ripose il blocchetto e il taccuino delle indagini dentro la valigetta. «Mi ha spaventato» disse la Ruiz mentre Lucas chiudeva la valigetta. «Voglio prendere questo tizio» ribatté Lucas. «Ho immaginato che poteva esserci qualcosa che non avrebbe ricordato senza rivivere la scena.» «Mi verranno gli incubi.» «Forse no. Anche i peggiori sbiadiscono, dopo un po'. Non le chiederò scusa, considerata la situazione.» «Lo so.» Lei tirò un filo dalla cucitura della gonna. «È solo...» «Sì, lo so. Senta, devo fare una telefonata, va bene?» «Certo.» Lei si diresse a uno sgabello vicino a un telaio e sedette con le mani strette fra le gambe. Era spenta, quasi depressa. Lucas la osservò mentre chiamava il centralino informazioni, otteneva il numero del St. Anne's College, attaccava e formava il nuovo numero. «Pensi a qualcosa di completamente diverso» le suggerì dall'altro capo della stanza. «Ci provo, ma non ci riesco» rispose lei. «Non faccio altro che ripensarci. Mio Dio, è stato proprio qui...» Lucas alzò una mano per interromperla un istante. «Dipartimento di psicologia... Grazie... Suor Mary Joseph... Le dica il tenente investigativo Lucas Davenport...» Guardò di nuovo Carla. Aveva lo sguardo fisso fuori della finestra. «Pronto? Lucas?» «Elle, devo parlarti.» «A proposito del predatore?» chiese lei. «Sì.» «Quasi mi aspettavo che chiamassi. Quando vuoi venire?» «Ora sono a Saint Paul. Alle quattro devo tornare a Minneapolis per una riunione. Speravo che potessi concedermi un minuto adesso.» «Se vieni subito, possiamo fare un salto in gelateria. Ho un consiglio di facoltà fra tre quarti d'ora.» «Ci vediamo di fronte alla Fat Albert Hall fra dieci minuti.» Lucas lasciò ricadere il ricevitore sulla forcella. «Si sente bene?» domandò avviandosi alla porta. «Sono stato un po' rude.» «Sì.» Carla continuò a guardare dalla finestra e lui si fermò, con la mano sul paletto della porta. «Vuole fare un controllo in centro per me? Su quelle scarpe?»
«Certo.» Sospirò e si girò verso di lui. «Devo uscire di qui. Se può aspettare un minuto, prendo la borsa. Può accompagnarmi fuori del palazzo.» Fu pronta in un attimo. Scesero col vecchio ascensore fino al pianterreno. L'inserviente dell'ascensore aveva applicato una cuffia alla radio portatile, ma la musica heavy metal filtrava dai bordi. «Guarda che quelle stronzate fanno diventare impotenti» disse Lucas. Il ragazzo non rispose, continuando a dondolare la testa al ritmo martellante della musica. «Quel tizio dell'ascensore...» disse Lucas quando uscirono. La sua voce aveva un tono interrogativo. «Impossibile» rispose Carla. «Randy è talmente strafatto che fa fatica ad azzeccare il piano giusto. Non riuscirebbe mai a organizzare un'aggressione a qualcuno.» «D'accordo.» Le tenne aperto il portone e lei uscì sul marciapiede. «È piacevole stare all'aperto» osservò. «Il sole dà una sensazione magnifica.» L'auto di Lucas era parcheggiata a un isolato di distanza, verso il Town Center, e si avviarono insieme lungo il marciapiede. «Ascolti» disse Carla quando lui si fermò vicino alla Porsche. «Vengo a Minneapolis più o meno una volta la settimana. Espongo in una galleria laggiù. Se passassi da lei una mattina, potrebbe farmi sapere come vanno le cose? Chiamerei in anticipo.» «Sicuro. Io lavoro nel seminterrato del vecchio municipio. Basta lasciare la macchina...» «So dove sta» ribatté lei. «Ci vediamo. E la chiamerò questo pomeriggio, a proposito delle scarpe.» Si allontanò lungo il marciapiede e Lucas salì in macchina e accese il motore. La guardò per un attimo attraverso il parabrezza e lei ricambiò lo sguardo e sorrise. «Umf» grugnì Lucas. Avanzò a passo d'uomo finché non la raggiunse, accostò al marciapiede e abbassò il finestrino dalla parte del passeggero. «Dimenticato qualcosa?» chiese lei, affacciandosi al finestrino. «Che genere di musica ascolta?» «Che cosa?» Sembrava confusa. «Le piace il rock?» «Certo.» «Vuol vedere gli Aerosmith domani sera? Con me? Per uscire di casa?» «Oh. Bene, d'accordo. A che ora?» Non sorrideva, ma sembrava decisa-
mente interessata. «Passo a prenderla alle sei. Ci procureremo qualcosa da mangiare.» «Certo» rispose lei. «Ci vediamo.» Salutò con la mano e si staccò dall'auto. Lucas fece una inversione a U illegale e tornò indietro verso l'interstatale. Mentre si allontanava, lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore e vide che lei lo seguiva con lo sguardo. Era idiota, ma ebbe l'impressione che i loro occhi s'incontrassero. Suor Mary Joseph era cresciuta col nome di Elle Kruger nella zona nord di Minneapolis, a un isolato dalla casa in cui era nato Lucas. Erano andati alla scuola elementare nello stesso anno, con le madri che li accompagnavano insieme sui marciapiede pieni di crepe, passando davanti alle alte siepi verdi e oltre gli archi di mattoni rossi della scuola elementare St. Agnes. Elle visitava ancora i sogni di Lucas. Era stata una ragazzina bionda snella e adorabile, la più popolare della classe tanto fra gli alunni quanto fra gli insegnanti, la più veloce nella corsa sul terreno da gioco. Alla lavagna stracciava regolarmente i compagni nelle gare di moltiplicazioni. Lucas di solito finiva secondo. Nelle gare di ortografia era Lucas a vincere, Elle ad arrivare seconda. Lucas aveva lasciato il St. Agnes a metà della quinta, dopo la morte del padre. Lui e la madre si erano trasferiti nel quartiere meridionale e Lucas aveva cominciato a frequentare la scuola pubblica. Qualche anno dopo, a un torneo di hockey, si stava scaldando, descrivendo degli otto sul ghiaccio, e si era fermato sul lato opposto della pista per aggiustarsi i pattini. Lei era tra la folla, con un gruppo di ragazze della scuola superiore Holy Spirit. Non lo aveva visto, oppure non lo aveva riconosciuto bardato da hockey. Lui era rimasto paralizzato, inorridito. Erano passati cinque anni. Altre ragazze, sgraziate tanto quanto lei era stata bella, erano sbocciate. Elle no. Aveva il viso butterato e sfregiato dall'acne. Le guance, la fronte, il mento erano intersecati da focolai rossi e purulenti. La piccola zona del volto libera da cicatrici era ruvida come cartavetrata per i tentativi di cura. Lucas si era allontanato pattinando, descrivendo un giro della pista verso la panca della sua squadra, col viso di Elle che gli fluttuava nella mente. Qualche minuto dopo, i giocatori delle due squadre erano stati presentati e lui aveva raggiunto pattinando il centro della pista, mentre il suo nome rimbombava all'altoparlante, incapace di non guardare, e aveva scoperto gli occhi solenni di lei che lo seguivano.
Dopo l'incontro, si stava avviando pesantemente verso la galleria che conduceva agli spogliatoi, quando l'aveva vista ferma dalla parte opposta della staccionata. Quando i loro occhi si erano incontrati, aveva alzato una mano per salutarlo e lui si era fermato e si era sporto oltre la barriera per prenderle la mano dicendo: «Puoi aspettarmi? Fuori tra venti minuti?» «Sì.» L'aveva accompagnata a casa in macchina dopo un giro per i quartieri sud e ovest di Minneapolis. Avevano parlato come quando erano piccoli, ridendo al buio nella macchina. Arrivata a casa, lei era saltata fuori e salita di corsa sul portico. La luce si era accesa, ed era uscito il padre. «Papà, ti ricordi Lucas Davenport, abitava nella stessa strada?» «Sicuro, come stai, figliolo?» aveva detto il padre. Nella sua voce c'era una nota triste. Aveva invitato Lucas a entrare e lui era rimasto seduto un'altra mezz'ora a parlare con i genitori di Elle, prima di andarsene. Quando era uscito sul marciapiede, lei lo aveva chiamato dalla finestra della camera da letto al primo piano della casa, con la testa stagliata contro la carta da parati a fiori. «Lucas?» «Sì?» «Per favore, non tornare» gli aveva detto, e aveva richiuso la finestra. Lucas aveva ricevuto nuovamente sue notizie un anno e mezzo dopo, una settimana prima del diploma. Lei aveva chiamato per dirgli che sarebbe entrata in convento. «Sei sicura?» «Sì. Ho la vocazione.» Anni dopo, e precisamente due giorni dopo che Lucas aveva ucciso il primo uomo nelle vesti di agente di polizia, lei lo aveva chiamato. Era una specie di strizzacervelli, aveva detto. Poteva essergli di aiuto? No, veramente no, ma a lui avrebbe fatto piacere vederla. L'aveva portata in gelateria. Professore di psicologia, gli aveva spiegato. Affascinante. Osservare le menti al lavoro. Aveva davvero la vocazione? si era chiesto Lucas. O era il viso, quella croce che portava? Non se l'era sentita di chiederlo, ma quando erano usciti dalla gelateria lei lo aveva preso sottobraccio e aveva detto: «Ho la vocazione, Lucas.» Un anno dopo, lui aveva venduto il primo gioco, ed era stato un grande successo. Lo Star-Tribune aveva pubblicato un articolo sull'episodio e lei
lo aveva richiamato. Era appassionata di giochi, aveva detto. Esisteva un gruppo di appassionati al college che si riuniva regolarmente... Da allora la vedeva in pratica ogni settimana. Elle e un'altra suora, un droghiere e un allibratore, entrambi di Saint Paul, un avvocato penalista di Minneapolis e uno studente o due del St. Anne o dell'università del Minnesota formavano un gruppo regolare di appassionati di giochi di guerra. Si riunivano nella palestra, giocavano in un vecchio locale abbandonato che era stato uno spogliatoio per ragazze. Avevano arredato la stanza con mezza dozzina di sedie, un tavolo da ping-pong per stendere le mappe dei giochi, una lampada di seconda mano proveniente da una sala da biliardo e uno stereo scadente che Lucas si era procurato sulla strada. S'incontravano il giovedì. In quel periodo stavano lavorando alla più grande creazione di Lucas, una ricostruzione della battaglia di Gettysburg che non sarebbe mai riuscito a rendere commerciale. Era semplicemente troppo complicata. Aveva dovuto programmare un computer portatile soltanto per calcolare i risultati. Elle impersonava il generale Lee. Lucas parcheggiò la Porsche ai piedi della discesa di fronte all'Albertus Magnus Hall e calpestò le foglie cadute risalendo il pendio fino all'entrata. Appena arrivò in cima alle scale, lei uscì. Il viso era sempre uguale, e anche gli occhi, solenni e grigi, ma sempre con una scintilla di umorismo. «Non può fermarsi» gli spiegò mentre scendevano lungo la passeggiata. «Il predatore rientra in una categoria che gli psichiatri della polizia definiscono "assassino sadico". Lo fa per il gusto di farlo. Non sente comandi divini, non riceve ordini da voci. È ossessionato, certo, ma non è pazzo nel senso che è privo di controllo. È molto controllato, nel senso convenzionale del termine. È consapevole di quello che fa e di quali sono le pene. Fa dei progetti e prevede le emergenze. Potrebbe essere molto intelligente.» «In che modo sceglie le vittime?» Lei si strinse nelle spalle. «Potrebbe essere un incontro puramente casuale. Forse usa l'elenco del telefono. Ma è molto probabile che le veda di persona e, che ne sia cosciente o meno, probabilmente sceglie un certo tipo. Può esserci stato benissimo un incontro di qualche genere quando era giovane, con la madre, con un'amica della madre... qualcuno la cui identità sessuale gli si è impressa nella mente.» «Queste donne sono piccole e brune. Capelli scuri, occhi scuri. Una viene dal Nuovo Messico...» «Esatto. Così, quando incontra uno di questi tipi, in qualche modo gli si
imprime nella mente. Perché debba trattarsi proprio di quella particolare persona, quando esistono tante possibilità, non lo so proprio. In ogni caso, dopo che l'ha scelta non può sfuggirle. Le sue fantasie sono costruite intorno a lei. Diventa ossessionato. Alla fine... l'attacca. Realizza le sue fantasie.» In gelateria lei ordinò il solito, un gelato al caramello con cioccolato e una ciliegia al maraschino. Alcuni clienti lanciavano occhiate curiose ai due, la suora in abito nero, l'uomo alto e ben vestito che evidentemente era suo amico. Loro ignoravano la curiosità passeggera. «Quanto tempo ci vuole perché si fissi su una particolare donna? Può essere un fatto istantaneo?» «Può darsi. Più probabilmente, però, dovrebbe essere una specie di incontro. Un contatto, una conversazione. Potrebbe fare una valutazione della sua vulnerabilità. Ricorda, può darsi che sia un uomo molto intelligente. Alla fine, però, la situazione sfugge al suo controllo. Lei gli s'imprime nella mente, e lui non può sfuggire alla sua immagine più di quanto lei possa sfuggire all'aggressione.» «Cristo. Oh, scusa.» Lei gli sorrise. «È solo che non ne hai avuto abbastanza, lo sai? Se fossi rimasto a St. Agnes ancora due o tre anni, chissà? Magari saresti padre Davenport.» Lucas rise. «È un'idea da far drizzare i capelli in testa» esclamò. «Mi ci vedi a preparare quei piccoli selvaggi scatenati alla prima comunione?» «Sì» ribatté lei. «Per la verità, ti ci vedo.» Il telefono stava squillando quando Lucas rientrò in ufficio. Era Carla. Pensava che le scarpe del predatore fossero le Nike modello Air, ma non era sicura di quale versione si trattasse. «Ma la bolla sulla suola è quella. Non c'era nient'altro di simile» gli disse. «Grazie, Carla. Ci vediamo domani.» Lucas dedicò dieci minuti a chiamare i magazzini all'ingrosso di calzature, per informarsi sui prezzi, e poi salì le scale fino all'ufficio della Omicidi. Anderson era seduto nel suo cubicolo a controllare dei documenti. «Tutto pronto per la riunione?» chiese Lucas. «Sì. Ci saranno quasi tutti» rispose Anderson. Era un uomo sciatto, troppo magro, con i denti ingialliti dalla nicotina e gli occhietti porcini. La cravatta era troppo larga e di solito finiva al centro dello stomaco, 15 cen-
timetri più su della cintura. Parlava in modo sgrammaticato e l'alito gli sapeva spesso di salsiccia. Niente di tutto ciò contava granché per i colleghi. Anderson aveva una percentuale di casi risolti superiore a qualsiasi altro uomo del dipartimento. Nel tempo libero preparava programmi per i computer delle forze di polizia che si vendevano in tutto il paese. «Ne mancheranno quattro, ma comunque sono di importanza marginale. Potrai parlare con loro in seguito, se vorrai.» «E il sindacato?» «Li abbiamo fatti sbollire. Il rappresentante sindacale farà una dichiarazione prima che parli tu.» «Suona bene» osservò Lucas. Tirò fuori il taccuino. «Ho del materiale che voglio inserire nella banca dati.» «Okay.» Anderson si girò sulla poltroncina e batté un tasto del suo IBM. «Dimmi pure.» «Ha la carnagione molto chiara, il che significa che probabilmente è biondo o ha i capelli color sabbia. Probabilmente un impiegato o un funzionario, forse un professionista, e discretamente agiato. Può essere nato in uno stato del sud-ovest. Nuovo Messico o roba del genere. Arizona, Texas. Forse si è trasferito qui abbastanza di recente.» Anderson inserì i dati nel computer e quando ebbe finito alzò la testa con aria accigliata. «Cristo, Davenport, da dove lo hai ricavato?» «Parlando con la Ruiz. Sono ipotesi, ma penso che siano valide. Ora, manda qualcuno in giro per gli uffici postali a ritirare i moduli per il cambio di residenza di chiunque provenga da una di quelle zone. Aggiungi l'Oklahoma. Tutti quelli che si sono trasferiti nella zona metropolitana delle sette contee da quegli stati.» «Potrebbero essere centinaia.» «Sì, ma possiamo eliminarne di primo acchito un buon numero. Troppo vecchi, donne, negri, operai, uomini originari di qui che sono tornati... Inoltre, centinaia sono meglio di milioni, che è quanto abbiamo adesso. Una volta ottenuto un elenco, potremmo essere in grado di fare un controllo incrociato con altri, se ne otterremo.» Anderson si morse le labbra e poi annuì. «Lo farò» concluse. «Non abbiamo altro.» Erano riuniti nella stessa sala in cui si era tenuta la conferenza stampa della sera prima, trenta e passa fra agenti e civili, un vice procuratore della città, tre rappresentanti dei sindacati. Quando Lucas entrò nella sala, smi-
sero tutti di parlare. «Bene» disse lui, fermandosi al centro. «Questa è una faccenda seria. Vogliamo che il sindacato parli per primo.» Uno dei rappresentanti sindacali si alzò in piedi, si schiarì la gola, guardò un foglio di carta, lo piegò e lo rimise nella tasca della giacca. «Normalmente, il sindacato si opporrebbe a quello che sta per avvenire qui. Ma ne abbiamo parlato col capo e ritengo che non abbiamo lagnanze. Non a questo punto. Nessuno verrà accusato di niente. Nessuno verrà costretto a fare niente. Pensiamo che per il bene delle forze di polizia tutti dovrebbero ascoltare quello che dirà Davenport.» Si sedette e gli agenti tornarono a guardare Lucas. «Ciò che voglio dirvi è questo» cominciò Lucas, facendo scorrere gli occhi sul gruppetto. «Qualcuno ha preso una pistola dal locale dove si custodiscono i reperti. Era una Smith, modello 15. Dalla scatola di David L. Losse. Ricordate il caso Losse, l'uomo che freddò il figlio? Disse che era stato un incidente e se la cavò con una condanna per omicidio colposo.» Parecchi annuirono. «In ogni caso, probabilmente è stato qualcuno in questa stanza a prenderla. Qui c'è la maggior parte delle persone che avevano accesso al locale. Ora, l'arma è stata usata da questo assassino, il predatore. Noi vogliamo sapere in che modo se l'è procurata. Non pensiamo che qualcuno qui sia il predatore. Ma qualcuno qui dentro, in un modo o nell'altro, gli ha procurato questa pistola.» Parecchi agenti cominciarono a parlare nello stesso momento, ma Lucas alzò una mano e li fece tacere. «Aspettate un minuto. Ascoltate il resto. Potrebbero esserci infinite ragioni per cui qualcuno ha pensato che prendere l'arma fosse una buona idea. È una buona pistola, e magari qualcuno aveva bisogno di un'arma di scorta. Oppure di un'arma per la moglie, per proteggere la casa, e così è stata rubata. Comunque sia, il predatore ci ha messo le mani sopra. Noi stiamo cercando il collegamento. «Ora, il capo farà entrare in azione la Divisione affari interni, e loro parleranno con ciascuno di voi. Non faranno altro finché non scopriranno che cosa è successo.» Lucas s'interruppe e guardò di nuovo in giro per la stanza. «A meno che...» disse. «A meno che qualcuno non si faccia avanti per raccontarmi cosa è successo. Vi do queste garanzie. Primo, non lo riferirò a nessun altro. Non collaboro con la DAI. E una volta che l'avremo saputo,
be', il capo ammette che non ci sono motivi per spingere davvero a fondo l'indagine. Abbiamo cose più importanti da fare che dare la caccia a un tale che ha preso una pistola.» Lucas indicò il vice procuratore della città. «Parli loro del regolamento disciplinare.» Il vice procuratore avanzò al centro della sala e si schiarì la gola. «Prima che il capo possa punire un uomo, deve indicare una causa specifica. Il regolamento prevede che, se la causa è una presunta attività criminale, deve fornire le stesse prove che se fosse in tribunale. Non può punire su una base meno solida. In altre parole, non può dire: "Joe Smith, sei degradato perché hai commesso un furto." Deve provare il furto in base agli stessi criteri che userebbe in aula. In sostanza, ai fini pratici, deve ottenere una condanna.» Lucas riprese la parola. «Quello che vi sto dicendo è di chiamarmi, di dirmi dove posso incontrarvi. Portate un avvocato, se volete. Io mi rifiuterò di leggervi i diritti. Ammetterò di avervi teso una trappola. Farò qualunque cosa ragionevole che renda nulla la mia testimonianza in aula. In quel modo, anche se parlassi, voi non potreste essere puniti. E io non parlerò. «Voi mi conoscete. Non vi denuncerò. E dobbiamo prendere questo tizio. Distribuirò il mio biglietto, ho scritto sul retro il numero di casa. Voglio che tutti si mettano in tasca il biglietto, così l'uomo che ne ha bisogno non si tradirà da solo. Resterò in casa tutta la notte.» Porse un mucchietto di biglietti da visita a un poliziotto in prima fila, che ne prese uno, divise il resto a metà e li passò ai vicini in due direzioni. «Gli dica il resto, Davenport» sollecitò il rappresentante sindacale. «Già, il resto» disse Lucas. «Se nessuno mi parlerà, spingeremo a fondo l'indagine della Affari interni e spingeremo a fondo l'indagine sull'omicidio. Prima o poi identificheremo l'uomo che ha preso la pistola. E se dovremo farlo così...» Tentò di mettere a fuoco tutte le facce nella sala prima di aggiungere: «... troveremo un reato a cui attaccarci. Rinchiuderemo qualcuno a Stillwater.» Nel gruppo si propagò un brusio furioso. «Ehi, calma» disse Lucas, alzando la voce per sovrastare il frastuono. «Questo tizio ha macellato tre donne nel modo peggiore che vi riesce di immaginare. Andate a chiedere alla Omicidi, se volete i dettagli. Ma non rifilatemi discorsi di solidarietà. A me non piace più di quanto piaccia a
voi. Ma devo sapere di quella pistola.» Anderson lo raggiunse nell'atrio dopo la riunione. «Che ne pensi?» Lucas accennò col capo al corridoio, dove il pavimento era costellato da una mezza dozzina dei suoi biglietti da visita. «Quasi tutti hanno tenuto il biglietto. Non mi resta altro da fare che tornare a casa e aspettare.» 6 Nella testa gli svolazzavano pipistrelli, pipistrelli con ali affilate come rasoi che tagliavano come il fuoco. Mostri. Basso quoziente omicida, ma erano praticamente trasparenti, come lastre di vetro, e quasi invisibili di notte, fra i cespugli spinosi intorno al cupo castello... Lucas alzò gli occhi sull'orologio. Le 23,40. Dannazione. Se l'agente che aveva preso la pistola avesse avuto intenzione di chiamare, lo avrebbe già fatto. Lucas fissò il telefono, ordinandogli nella sua mente di suonare. Suonò. Per poco lui non cadde dallo sgabello da disegnatore per la sorpresa. «Sì?» «Lucas? Sono Jennifer.» «Ciao. Sto aspettando una chiamata. Mi serve la linea libera.» «Ho ricevuto una soffiata da un amico» disse Jennifer. «Sostiene che c'è stata una superstite. Una che ha respinto l'assassino. Voglio sapere chi è.» «Chi ti ha raccontato questa stronzata?» «Non scherzare con me, Lucas. Lo so per certo. È una specie di chicana, o qualcosa del genere.» Lucas esitò e si accorse con una frazione di secondo di ritardo che quella esitazione lo aveva tradito. «Ascolta, Jennifer, hai fatto centro, ma ti chiedo di non usare la notizia. Parlane prima col capo.» «Senti, è una storia fantastica. Se qualcun altro ci arriva e la pubblica, faccio la figura dell'idiota.» «È tua, d'accordo? Se la renderemo pubblica, informeremo te per prima. Ma il fatto è che non vogliamo che l'assassino ricominci a pensare a lei. Non vogliamo provocarlo.» «Andiamo, Lucas...» «Ascolta, Jennifer. Mi stai ascoltando?»
«Sì.» «Se userai questa storia prima di parlare al capo, troverò un modo per farti il culo. Dirò a tutte le stazioni televisive del mondo che hai dato in pasto a un assassino folle il nome e l'indirizzo di una donna innocente e ne hai fatto un bersaglio di omicidio e stupro. Ti caccerò nel bel mezzo del vespaio, e questo significa che perderai il tuo orticello. Finirai a fare la cronaca del torneo di slitta a Brainerd.» «Ho sentito che l'ha aggredita a casa sua, quindi sa già...» «Certo. E dopo una settimana circa di discussioni, probabilmente verrebbe fuori anche quello. Nel frattempo, le femministe locali ti ballerebbero il tip-tap sulla faccia e tu non riusciresti a trovare un lavoro in nessun posto a est dell'Unione Sovietica.» «Ma vaffanculo, Lucas. Quando posso parlare con Daniel?» «A che ora lo vuoi?» «Alle nove di domattina.» «Lo chiamo subito. Tu trovati laggiù alle nove.» Abbassò il ricevitore, lo fissò per un secondo, lo riprese in mano e compose il numero della casa di Daniel. Rispose la moglie del capo, e un attimo dopo venne al telefono Daniel. «Lo ha preso?» Pareva che parlasse mentre mangiava un panino. «Certo, come no» ribatté Lucas secco. «Vada a mettersi sul marciapiede di fronte al suo ufficio e lo scaricherò dalla macchina fra venti minuti. Se dovessi tardare non si preoccupi, mi farò vivo. Aspetti lì sul bordo del marciapiede.» Il capo masticò per un minuto, poi disse: «Ma che spiritoso, Davenport. Che vuole?» «Jennifer Carey ha appena chiamato. Qualcuno le ha parlato di Carla Ruiz.» «Merda. Non è stato lei, vero?» «No.» «Qualcuno mi ha detto che lei inzuppava il biscottino con la signorina...» «Cristo Dio.» «Okay, okay. Chiedo scusa. Allora che ne dice?» «Per il momento le ho chiuso la bocca. Verrà a trovarla in ufficio domani mattina. Alle nove. Preferirei tenerla alla larga dalla Ruiz almeno per un paio di giorni. Ma se qualcuno le ha fatto la soffiata, salterà fuori.»
«Allora?» «Allora quando la vedrà domani, le dica di soprassedere per un paio di giorni e poi le fisseremo un'intervista, se la Ruiz sarà d'accordo. Poi, se la Ruiz sarà disposta ad accettare, organizzeremo un'intervista alle sei di sera e la lasceremo registrare a Jennifer in tempo per l'ultimo notiziario. Mentre sarò lì con Jennifer, lei potrà convocare una conferenza stampa per le otto o le otto e mezzo. Allora io porto la Ruiz, lasciamo che la stampa la bersagli per una ventina di minuti, e loro avranno il nastro per le dieci.» «La Carey si seccherà, se la bruceremo.» «A quello penserò io. Le dirò che lei non acconsentirebbe a una rivelazione in esclusiva, ma che Jennifer sarà la sola a ottenere un'intervista personale per una stazione televisiva. Le altre stazioni non avranno altro che una conferenza stampa. Poi diremo alle altre stazioni che Jennifer aveva avuto una dritta e ci aveva messo con le spalle al muro, ma dato che lei è loro amico, ha deciso di procedere a una conferenza stampa. In quel modo, ci saranno tutti debitori.» «E i giornali? Loro restano fuori.» «Li lasciamo assistere all'intervista con la Carey in modo che possano tracciare lunghi profili. In ogni caso non pubblicheranno niente fino alla mattina dopo, quindi Jennifer avrà l'anteprima in ogni caso. Darò a intendere ai due quotidiani che è un trattamento speciale da parte sua. Li informerò che la sua imparzialità potrebbe cambiare, se cominciassimo ad avere fastidi da loro.» «D'accordo. Allora domani mattina vedrò la Carey alle nove, la terrò buona, magari le concederò qualche primizia. Tutto il resto potremo organizzarlo dopo nei dettagli.» «Ci vediamo domani.» «Non dimentichi la riunione.» Dopo aver riattaccato, Lucas si sfregò gli occhi e si chinò di nuovo sul tavolo da disegno. Leggeva numeri scritti a matita da un elenco su un blocco giallo formato protocollo, inserendoli in un calcolatore elettronico da tavolo. Sul piano del tavolo era posata una tazza di caffè quasi vuota. Bevve un sorso del residuo oleoso e fece una smorfia. Lucas creava videogiochi. Storie fantasy basate su giochi di ruolo, ricostruzioni storiche della guerra di Secessione, simulazioni di combattimenti della seconda guerra mondiale, della Corea, del Vietnam, di Stalingrado, della battaglia delle Ardenne, della Carica dei Seicento, di Bloody Ridge,
di Dien Bien Phu, del Tet. I giochi venivano commercializzati da un editore di New York che accettava tutti quelli che lui riusciva a creare, di solito due l'anno. L'ultimo era un'avventura fantasy basata su un gioco di ruolo. Erano i più redditizi, ma i meno interessanti in se stessi. Guardò di nuovo l'orologio. Mezzanotte e dieci. Si avvicinò allo stereo, scelse un compact disc, lo inserì nell'apparecchio lettore e tornò alle sue cifre mentre Eric Clapton attaccava I Shot the Sheriff. La trama del gioco fantasy era complicata. Un plotone di mezzi corazzati americani stava combattendo in Medio Oriente in un'epoca imprecisata del prossimo futuro. Il plotone riceveva la notizia che un missile tattico nucleare era puntato su di loro, e si nascondeva meglio che poteva. Nell'attimo previsto per la detonazione, si sprigionava un bagliore insostenibile e il plotone si ritrovava - completo di carri armati M3 - nel paese di Everwhen, una terra ricca di acque, felci e querce giganti. Dove regnava la magia e fate senz'anima danzavano di notte. La storia cominciava a dare a Lucas l'emicrania. Tutti i giochi di fantasy del mondo, pensava, presentavano un branco di maniaci del computer armati di spade che vagavano in contrade uscite dalla fantasia di Edgar Allan Poe insieme a belle ragazze rosse e lentigginose dai seni opulenti. Ma fruttavano denaro; e poi aveva una responsabilità nei confronti degli intellettuali preadolescenti che un giorno avrebbero potuto comprare il suo capolavoro, il Bosco. Pensò per un attimo al Bosco, il gioco di Gettysburg che stava perfezionando negli incontri settimanali a St. Anne. Il Bosco richiedeva un computer IBM e una stanza da gioco a parte, tutta per sé, insieme con squadre di giocatori. Come gioco era poco pratico e difficile da dominare. Ma affascinante. Picchiettò con la matita sui denti e fissò il tavolo da disegno senza vederlo. Alla quinta sera di gioco, Jeb Stuart non aveva ancora preso contatto con Lee, e si spingeva a est aggirando l'esercito dell'Unione che si spostava lentamente a nord verso Gettysburg. Quello era accaduto nel conflitto reale, ma questa volta, nel gioco, Stuart - nella persona del droghiere di Saint Paul «avanzava in modo più aggressivo per accorciare le distanze e raggiungere Gettysburg in tempo per esplorare il terreno favorevole a sud della città.» Nel frattempo, l'ordine di combattimento di Lee era stato sovvertito. Mentre avanzava attraverso le montagne verso Gettysburg, la divisione di Pickett marciava in testa e andava a caccia di orsi. Anche se Reynolds, uno
studente universitario, fosse arrivato prima di Stuart, e fosse riuscito a restare in vita, al contrario di quanto era accaduto nella battaglia autentica, l'aggressività di Pickett avrebbe potuto respingerlo e consentire ai Confederati di occupare le colline in fondo a Cemetery Ridge o addirittura l'intera catena montuosa. Se ci fosse riuscito, allora le forze dell'Unione che si stavano raccogliendo avrebbero dovuto scegliere fra una battaglia offensiva o una ritirata su Washington... Lucas sospirò e distolse la mente per tornare a Everwhen, che, naturalmente, era attaccata dalle forze del male. Il plotone di fanteria corazzata era stato evocato da un mago buono che progettava di introdurre in quella che ormai era una guerra perduta un elemento nuovo: la tecnologia. Una volta suggellato il patto con le forze del bene, il plotone corazzato avrebbe marciato sul castello avvolto di nubi del Maligno. La storia non era particolarmente originale. Elaborare i dettagli fino a farne un gioco logico era una fatica improba. Come gli M3, per esempio. Dove si procuravano carburante e pezzi di ricambio? Per magia. Come faceva il plotone ad acquisire capacità magiche? Grazie ad atti di valore. Salva una vergine da un drago e il quoziente magico sale. Se il drago ti prende a calci in culo, scende. Le creature di Everwhen erano un problema fastidioso. Dovevano essere pericolose, interessanti e discretamente originali. Dovevano anche essere esotiche, ma abbastanza familiari da risultare comprensibili. Le migliori erano imparentate morfologicamente con le creature terrestri familiari: lucertole, serpenti, ratti, ragni. Lucas trascorreva decine di serate invernali seduto sulla poltrona di cuoio dello studio, con un blocco giallo sulle ginocchia, a sognarli a occhi aperti. I rodenti facevano parte di quelle creature. Un rodente era un incrocio fra un pipistrello e un piatto di cristallo con gli orli taglienti come rasoi. I rodenti attaccavano di notte, riducendo a brandelli i loro bersagli. Erano troppo stupidi per essere influenzati dalla magia, ma era abbastanza facile ucciderli con la tecnologia giusta. Come i fucili, per esempio. Ma come si faceva a vederli? Okay. Come i pipistrelli, usavano una specie di sonar. Con la magia giusta, le radio del plotone potevano essere sintonizzate su quella frequenza. Era possibile colpirli tutti? Forse. Ma in caso contrario, c'erano delle soglie di punteggio da raggiungere. Tot punti, e un personaggio moriva. Lucas doveva fare attenzione a non far morire i personaggi troppo facilmente. I giocatori non lo avrebbero accettato. E il gioco non doveva essere troppo facile. Si trattava di restare in equilibrio
sul filo, di attirare sempre più i giocatori negli scenari creati con cura. Lavorava curvo sul tavolo da disegno nel cerchio di luce proiettato dalla lampada da disegnatore, digitando i numeri, bevendo caffè. Quando Clapton attaccò Lay Down Sally, lui si alzò per eseguire un assolo di ballo ben coordinato intorno alla sedia. Poi sedette, lavorò per 15 secondi e si alzò di nuovo per Willie and the Hand Jive. Ballava da solo nella stanza buia, guardando la durata della canzone scandita dall'orologio digitale del lettore di compact disc. Quando Hand Jive finì, si risedette, caricò un file sull'IBM, lesse le coordinate e tornò alle cifre dopo un'occhiata quasi inconscia all'orologio. Mezzanotte e un quarto. Lucas viveva in una casa in stile rustico con tre camere da letto, in pietra e legno di cedro, oltre Mississippi Boulevard e a circa trenta metri sul livello del fiume. Quando gli alberi perdevano le foglie in autunno e inverno, vedeva le luci di Minneapolis dal soggiorno. Era una casa grande. Sulle prime si era preoccupato al pensiero che lo fosse anche troppo, che sarebbe stato meglio comprare un appartamento in un condominio. Un posto sui laghi, dove avrebbe potuto guardare i singles usciti a correre, pattinare, fare vela. Invece aveva comprato la casa e non se n'era mai pentito. L'aveva pagata centoventimila dollari, in contanti, nel 1980. Ora ne valeva il doppio. E in fondo alla mente, mentre avanzava nella trentina e contemplava la prospettiva dei quarant'anni, pensava ancora a dei figli e a una casa per loro. Inoltre, come si era visto, aveva riempito in fretta lo spazio. Una robusta Ford a trazione integrale si era unita alla Porsche vecchia di cinque anni nel garage. Il tinello era diventato una piccola palestra, con bilancieri e un sacco da boxe e un pavimento di legno dove eseguiva i kata, gli esercizi formali del karate. Lo studio era stato trasformato in una biblioteca, con 1600 romanzi e opere di saggistica e altri duecento volumetti di poesia. Una profonda poltrona di cuoio con un poggiapiedi e una buona illuminazione erano i pezzi principali dell'arredamento. Per i momenti in cui la lettura non lo attirava, aveva aggiunto un televisore a colori da 25 pollici, un videoregistratore e un impianto stereo. Utensili, macchine per il bucato e attrezzature per gli sport all'aperto erano sistemati nel seminterrato, insieme con un sofisticato banco di ricarica e un armadietto per le armi. L'armadietto in realtà era una cassaforte di banca dei primi del secolo. Uno scassinatore esperto avrebbe potuto aprirla in venti minuti, ma Lucas non si aspettava che uno scassinatore esperto vi-
sitasse il suo seminterrato. Un semplice ladro non avrebbe avuto nessuna possibilità con la vecchia cassaforte. Lucas possedeva 13 pistole. L'arma con la quale lavorava tutti i giorni era una Heckler & Koch P7 9 mm con un caricatore da 13 colpi. In certe occasioni portava anche una Beretta 92F calibro 9. Quelle, e la piccola pistola alla caviglia, erano custodite in un cassetto segreto nella scrivania della stanza da lavoro. L'armadietto nel seminterrato conteneva due Colt Gold Cup .45, entrambe personalizzate da un armaiolo del Texas per gare di tiro da combattimento, e tre .22, compresa una Ruger Mark II con la canna da 14 centimetri, una Browning International Metalist e l'unica arma non automatica, una Anschutz Exemplar con otturatore a cilindro. In fondo all'armadietto, ben oliate, avvolte in un panno e incartate, c'erano quattro pistole che aveva raccolto sul lavoro. Armi da strada, che non si potevano fare risalire a nessuno in particolare. L'ultima arma, anch'essa custodita nell'armadietto, era un fucile Browning Citori calibro venti. Lo usava per andare a caccia. Nel resto della casa, le due camere da letto più piccole contenevano effettivamente dei letti. La camera da letto principale era diventata la sua stanza da lavoro, con un tavolo da disegno, strumenti da disegno e l'IBM. C'erano due pareti di libri che riguardavano armi ed eserciti: Alessandro Magno, Napoleone, Lee, Hitler e Mao, descrizioni delle lance dell'età del bronzo e dei carri armati russi e romanzi di fantascienza che trattavano di granate a ricerca automatica del bersaglio, armi teleguidate, fucili al plasma e superbombe nova. Idee che lui intesseva nella trama di un gioco. I rodenti saettavano nella mente di Lucas come schegge mentre lavorava al tavolo da disegno, battendo le cifre sui tasti. Quando squillò il telefono, trasalì. Squillava di rado; erano in pochi ad avere il numero. "Trenta e rotti in più da questa sera" pensò, posando la matita sul tavolo. Guardò l'orologio; mezzanotte e 22 minuti. Attraversò la stanza, abbassò il lettore di CD, azionò il registratore che aveva collegato al ricevitore e sollevò il microfono della derivazione. «Sì?» «Davenport?» Una voce di uomo. Di mezza età, o poco più. «Sì.» «Sta registrando?» Vagamente familiare. Conosceva quell'uomo. «No.»
«Come faccio a saperlo?» «Non può. Che cosa posso dirle?» Ci fu una pausa; poi la voce disse: «Ho preso io la Smith, ma voglio parlarne con lei faccia a faccia.» «Facciamolo subito» rispose Lucas. «Questa è una situazione molto pesante.» «Il patto resta quello che ha esposto questo pomeriggio?» «Esatto» disse Lucas. «Non ci sarà un seguito. Nessuna conseguenza.» Una pausa, poi: «Conosce quel locale tacos dall'altra parte della I-94 rispetto al Martin Luther College?» «Sì?» «Fra venti minuti. E venga solo, accidenti, mi sente?» Lucas ce la fece in 18 minuti. Il parcheggio del ristorante era deserto. Dentro, un cliente solitario guardava dalla vetrata stringendo fra le mani una tazza di caffè sopra il vassoietto di cartone della cena. Un dipendente stava lavando il pavimento e si voltò a guardare Lucas che entrava. La ragazza al banco, probabilmente una studentessa universitaria, sorrise con aria diffidente. «Mi dia una Diet Coke» le disse. «Nient'altro?» Ancora diffidente. Lucas si rese conto che con il giubbotto di cuoio, i jeans e gli stivaletti, la barba lunga di un giorno, poteva apparire minaccioso. «Sì. Si rilassi. Sono un poliziotto.» Sorrise, estrasse la custodia del distintivo dal taschino della camicia e gliela mostrò, e lei ricambiò il sorriso. «Abbiamo avuto dei problemi, qui» ammise. «Rapina?» «Il mese scorso e quello prima. Quattro mesi fa è successo due volte. Ci sono dei motociclisti nei paraggi.» Quando il poliziotto entrò, Lucas lo riconobbe all'istante. Grigio di capelli, vestito con una giacca beige di lana leggera e pantaloni marrone. Roe, pensò. Harold Roe. Un veterano. Doveva essere prossimo alla pensione. Roe si guardò attorno, si appoggiò al banco, prese un caffè e si avvicinò. «È lei?» chiese Lucas. «Porta un registratore addosso?» «No.» «Se lo fa, mi sta intrappolando.» «Lo ammetto. Se lo faccio, la sto intrappolando. Ma non è così.»
«Mi legga i miei diritti.» «No.» «Umf. Sa, queste sono tutte stronzate» osservò Roe, bevendo un sorso di caffè. «Se la fanno salire sul banco dei testimoni, può darsi che racconterà tutta un'altra storia.» «Non ci sarà nessun banco dei testimoni, Harry. Potrei uscirmene da qui in questo momento, andare da Daniel, dire: "Harry Roe è il nostro uomo", e la Affari interni monterebbe un caso in tre giorni. Sa come vanno le cose, appena hanno un punto di partenza.» «Sì.» Roe si guardò attorno con aria stanca e scosse la testa. «Cristo, come odio questa storia.» «Allora me la racconti.» «Non c'è molto da dire. Pensavo che quell'arma fosse pulita. Che non sarebbe mai ricomparsa neanche fra un milione di anni. C'era questo tale che abitava nel mio isolato, Larry Rice, si chiamava. Sono cresciuto insieme a lui. Lavorava alla manutenzione per conto del comune. Lo vedevo sempre in giro per il municipio. Probabilmente lo avrà visto anche lei. Un tipo tarchiato che zoppicava, portava sempre uno di quei berretti a strisce da macchinista.» «Sì, me lo ricordo.» «Comunque, stava morendo di cancro, un pezzetto per volta. Gli stava consumando il corpo. Prima non poteva più camminare, poi non riusciva a controllare l'intestino, roba così. La moglie lavorava e lui restava a casa. Un giorno i teppisti del quartiere entrarono e gli soffiarono il televisore e lo stereo proprio sotto il naso. Lui era sulla sedia a rotelle, ma non poteva reagire. Non poteva nemmeno identificarli, perché portavano dei sacchetti di carta sulla testa... Bastardi, ecco cos'erano.» «Così gli ha procurato la pistola?» «Be', la moglie venne da noi dopo che era successo questo, e chiese a mia moglie se avevo una pistola in più. Non l'avevo. Non sono un maniaco delle armi... Chiedo scusa, so che lei è appassionato di armi, ma io no.» «Non importa.» «Allora sono andato lassù, nel locale dove si conservano i reperti, e sapevo della pistola perché avevo lavorato al caso. Pensavo che per nulla al mondo sarebbe mai servita a qualcosa.» «E l'ha presa.» Roe bevve un sorso di caffè. «Sì.» «E questo Rice...»
«È morto. Due mesi fa.» «Merda. E la moglie?» «Lei abita ancora lì. Dopo la riunione di questo pomeriggio, sono andato a trovarla per chiederle della pistola. Lei ha risposto che non sapeva dove fosse. Ha guardato, ma era sparita. Ha detto che nelle ultime due settimane prima di morire Larry aveva venduto una quantità di oggetti personali per raccogliere denaro per lei. Aveva paura di non lasciarle niente. Ha detto che quando è morto le ha lasciato un migliaio di dollari.» «Non sa chi ha preso la pistola?» «No. Le ho chiesto come aveva venduto la roba e ha risposto che lui la vendeva solo a gente che conosceva, amici e così via. Aveva un piccolo avviso alla finestra, ha detto, ma non aveva messo inserzioni sul giornale o altro. La gente poteva vedere l'avviso passando sul marciapiede, ma era tutto.» Roe fece scivolare un foglio di carta sul tavolo. «Le ho detto che lei avrebbe voluto vederla. Ecco l'indirizzo.» «Grazie.» Lucas finì la Coca. «E adesso?» chiese Roe. «Adesso niente. Se sta dicendo la verità.» «È la verità» rispose Roe con voce pacata. «Mi sento uno stronzo.» «Sì, è un brutto colpo. Non andrà oltre questo tavolo, anche se immagino che, nel caso dovessimo far testimoniare la signora Rice, qualcuno potrebbe arrivarci. Ma non se ne farà niente.» «Grazie, amico. Le sono debitore.» Roe uscì per primo, sollevato di andarsene. Lucas guardò la sua auto allontanarsi dal parcheggio, poi si alzò e si avvicinò al banco. «Le spiace se faccio un commento?» chiese alla ragazza al banco. «No, dica pure.» Sorrise cortesemente. «Lei è troppo carina per lavorare in questo locale. Non le sto facendo proposte, mi limito a dirlo. È un'attrazione. Se resta qui, prima o poi le capiterà qualcosa di brutto.» «Ho bisogno dei soldi» ribatté lei, col viso teso e serio. «Non può averne tanto bisogno» disse Lucas. «Mi mancano ancora due anni di università, un anno per la laurea e altri nove mesi per il dottorato.» Lucas scosse la testa. «Se conoscessi i suoi genitori, li chiamerei. Ma non li conosco. Così lo dico semplicemente a lei. Se ne vada da qui. Oppure passi al turno di giorno.»
Si voltò per andarsene. «Grazie» gli gridò dietro lei. Ma Lucas sapeva che non ne avrebbe fatto niente. Uscì, rifletté sul problema per un minuto e rientrò. «Quanti tacos potrebbe prendere sottobanco senza che qualcuno se ne accorga? Ogni notte, voglio dire. Un paio di dozzine?» «Perché?» «Se offrisse una tazza di caffè e un taco gratis a tutti gli agenti di pattuglia che entrano, dalle dieci di sera alle sei del mattino, avrebbe poliziotti in giro, o in arrivo o in partenza, quasi tutta la notte. Le darebbe una certa protezione.» Lei pareva interessata. «Non avremmo qui centinaia di agenti o roba simile, vero?» «No. In una notte pesante, forse venti o trenta.» «Evviva» esclamò lei tutta allegra. «Il proprietario fatica a trattenere i dipendenti. È quasi disperato. Non credo che dovrei rubarli. Penso che lui accetterebbe.» Lucas tirò fuori un biglietto da visita e glielo porse. «Questo è il telefono del mio ufficio. Mi chiami domani. Se il capo dice di sì, passerò parola a proposito del caffè e dei tacos gratis. Lo dirò a tutt'e due le città, così avrete agenti in arrivo da tutte le parti.» «Chiamerò domani» promise lei. «Grazie mille davvero.» Lucas annuì e voltò le spalle. Se funzionava, avrebbe avuto un'altra fonte sulla strada. Quando Lucas progettava i giochi, ne stendeva un progetto su fogli di pesante carta bianca da disegno, formato 56 per 76, in modo da poter tracciare le connessioni logiche fra i vari elementi. La rappresentazione visiva lo aiutava a evitare le incongruenze che attiravano lettere cariche di pedante sarcasmo da parte dei giocatori adolescenti. Tornato a casa, prese quattro fogli di carta, li portò nella camera da letto libera e li fissò alla parete con le puntine da disegno. Con un pennarello a punta larga scrisse in testa a ogni foglio il nome di una vittima: Bell, Morris, Ruiz, Lewis. Sotto i nomi, scrisse le date, e sotto le date quelle che sperava fossero le caratteristiche personali rilevanti delle vittime. Quando ebbe finito, si stese sul letto, appoggiò la testa a un cuscino e guardò i fogli alla parete. Non scattò nessuna scintilla. Si alzò, ne prese un quinto e scrisse in alto PREDATORE. Sotto l'intestazione scrisse:
Benestante: porta scarpe Nike Air. Abiti puliti. Colonia. Ha convinto un agente immobiliare che poteva permettersi una casa costosa. Forse nuovo della zona: ha un accento particolare, portava una Tshirt in una sera di agosto. Forse proviene dal sud-ovest: Ruiz ha riconosciuto l'accento. Lavoro di ufficio: mani e corpo molli, braccia bianche. Non è un lottatore. Pelle chiara: braccia molto pallide. Probabilmente biondo. Maniaco sessuale? Appassionato di giochi? Entrambe le cose? Nessuna delle due? Intelligente. Non lascia indizi. Porta i guanti anche mentre prepara i biglietti e carica la pistola. Rifletté un istante e aggiunse: Conosceva Larry Rice? Scrutò la lista e allungò la mano per sottolineare agente immobiliare e conosceva Larry Rice? Se era nuovo della zona, forse stava cercando davvero una casa, e in quel modo aveva conosciuto la Lewis. Valeva la pena di controllare le agenzie immobiliari della zona. E poteva aver conosciuto Larry Rice. Ma quello contrastava con l'ipotesi che fosse nuovo della zona. Se Rice era morto di cancro, presumibilmente ci aveva messo parecchio, ed era difficile che facesse molte amicizie nel frattempo. Un ospedale? Un medico dell'ospedale? Era una possibilità. Avrebbe spiegato la delicatezza di tocco del predatore con il coltello. E un medico avrebbe avuto mani e corpo molli e sarebbe stato abbastanza agiato. E i medici, specie quelli laureati da poco, si trasferivano facilmente. Tutte quelle donne potevano essere state da un medico... Tornò in biblioteca per prendere dallo scaffale un volume sulla storia del crimine e sfogliarlo. Ai medici assassini era dedicata un'intera sezione. Il dottor William Palmer, inglese, aveva ucciso per denaro almeno sei persone, e forse 12, nell'Ottocento. Il dottor Thomas Cream aveva assassinato sei donne con aborti falliti e veleno nel Canada, negli Stati Uniti e in Inghilterra; il dottor Bennett Hyde ne aveva uccise almeno tre a Kansas City; il dottor Marcel Petiot aveva assassinato cone minimo 63 ebrei ai quali aveva promesso di farli uscire clandestinamente dalla Francia occupata dai nazisti; in Inghilterra, il dottor Robert Clements aveva ucciso
quattro mogli prima di essere catturato. Il "dottor tortura" di Chicago, che aveva studiato medicina ma senza mai diventare medico, aveva ucciso addirittura duecento giovani donne attirate in città dall'Esposizione Mondiale del 1893. I peggiori del gruppo, naturalmente, erano i nazisti. I medici associati ai campi di sterminio avevano ucciso migliaia di persone. La lista di medici che avevano commesso solo uno o due omicidi era lunga, compresi parecchi casi celebri negli Stati Uniti dopo il 1950. Lucas chiuse il libro, ci pensò e guardò l'orologio. Le due e mezzo. Davvero troppo tardi per chiamare. Camminò avanti e indietro e guardò l'orologio di nuovo. Affanculo. Andò nello studio, prese la valigetta con il numero telefonico di Carla Ruiz e la chiamò. Lei rispose al settimo squillo. «Pronto?» Mezza addormentata. «Carla? Ruiz?» «Sì?» Era ancora insonnolita, ma già sospettosa. «Sono Lucas... il poliziotto. Mi spiace svegliarla, ma sto qui sveglio a pensare a certi fatti, e ho bisogno di rivolgerle una domanda. D'accordo? È sveglia?» «Ehm, sì.» «Quando è stata l'ultima volta che si è fatta visitare da un medico, e dove?» «Oh, Cristo...» Ci fu un lungo silenzio. «Un paio di anni fa, credo. Una donna della clinica nella zona ovest.» «È sicura che sia stata quella l'ultima volta? Nessuna visita in ospedale, niente del genere?» «No.» «Neanche con un'amica, solo di passaggio, una visitina?» «No. Niente di simile. Credo di non essere mai stata in un ospedale da quando, be', da quando è morta mia madre, 15 anni fa.» «Ha conosciuto dei medici nelle sue frequentazioni?» «Alcuni vengono alla galleria, penso. Non ne conosco nessuno veramente, sul piano personale, voglio dire. Ho parlato con qualcuno alle inaugurazioni e così via.» «Va bene. Senta, torni a letto. Parleremo domani. E grazie.» Lasciò ricadere il telefono sulla forcella. «Merda» disse a voce alta. Era possìbile, ma era un'ipotesi azzardata. Prese un appunto mentale di controllare la galleria in cerca di clienti regolari che fossero medici. Ma non sembrava una pista promettente. Guardò ancora per qualche minuto i fogli, sbadigliò, spense la luce e si
diresse verso la camera da letto. Il tizio era sveglio. Pazzo, ma sveglio. Un giocatore? Forse. Forse un giocatore. 7 Lucas sgattaiolò nella sala riunioni, di nuovo in ritardo. «Dove cazzo è stato?» chiese Daniel infuriato. «In piedi fino a tardi» rispose Lucas. «Si sieda.» Daniel fece scorrere lo sguardo intorno alla stanza. Cinque o sei agenti investigativi studiavano con attenzione i taccuini di lavoro. «Per tirare le somme, quello che abbiamo sono circa trecento pagine di rapporti che non valgono un fico secco. Mi sbaglio? Qualcuno mi dica se sbaglio.» Harmon Anderson scosse la testa. «Io non vedo nessun elemento. Non ancora. Potrebbe essere qua dentro, ma non lo vedo.» «Che ne dici di queste notizie che hai ricavato, Lucas?» domandò uno degli agenti. «Sono affidabili?» Lucas strinse le spalle. «Sì, penso di sì. Ci sono in mezzo molte congetture, ma penso che siano valide.» «E con questo?» sbottò Daniel. «Così, cerchiamo un bianco di taglia media che lavora in un ufficio. Questo riduce le possibilità a mezzo milione di persone, senza contare Saint Paul.» «E che si è trasferito qui di recente dal sud-ovest» precisò Lucas. «Questo esclude altre 499 mila persone.» «Ma quella potrebbe essere una stronzata. Probabilmente lo è» sbuffò Daniel. «Fra un paio di ore potremmo saperne un po' di più» disse Lucas. Daniel inarcò un sopracciglio. «Il tizio della pistola ha chiamato stanotte. So dov'era finita la pistola.» «Cristo Dio, bene» esplose Daniel. Lucas scosse la testa. «Non ci speri troppo.» Spiegò in che modo la pistola era arrivata a Larry Rice e come Rice era morto. «La moglie ha detto al mio uomo che non sa dov'è finita la pistola. Probabilmente venduta. Potrebbe essere stata rubata, immagino.» «D'accordo, ma è qualcosa» disse Daniel. «Ha tenuto la pistola per quanto, sei mesi? E probabilmente l'ha venduta a qualcuno che conosceva.» Daniel puntò il dito su Anderson. «Il tuo uomo migliore. Il più abile ne-
gli interrogatori, mettilo alle costole della donna. La spremeremo fino all'ultima maledettissima goccia. Tutti quelli che il suo vecchio ha visto negli ultimi sei mesi. Deve conoscerli quasi tutti. L'assassino dovrebbe essere nella lista.» «Le parlerò questo pomeriggio» disse Lucas, guardando Anderson. «All'una. Il tuo uomo potrebbe trovarsi lì, ci andremo insieme.» «Così sapremo il nome di chi ha preso la pistola?» chiese Daniel. Lucas scosse la testa. «No. Ho giurato. Probabilmente potrebbe ricavarlo dalla donna, se vuole, ma è meglio che non lo sappia. Lo ha fatto per cortesia. È un gran brav'uomo.» Daniel lo guardò per un minuto e annuì. «D'accordo. Ma se diventerà rilevante...» «Potrebbe ottenerlo da lei» ripeté Lucas. «Da me non lo avrà.» Ci fu un momento di silenzio; poi Daniel lasciò correre. «Abbiamo un altro problema» disse. «Qualcuno ha passato a Jennifer Carey la notizia che abbiamo una superstite di un'aggressione. Devo parlarle fra dieci minuti e cercherò di dissuaderla. Qualcuno ha idea di chi le ha passato l'informazione?» Nessuno rispose. «Non possiamo tollerarlo» disse Daniel. Uno degli agenti investigativi si schiarì la gola. «Forse ho, ehm, un'idea in proposito...» «Quale?» «Lei ha girato quel documentario sugli agenti di Saint Paul, quello che hanno trasmesso alla PBS, no? Laggiù si è procurata delle fonti che non credereste.» «Okay. Forse è andata così. E allora non parleremo agli agenti di Saint Paul più del necessario. Siate cortesi, ma...» Cercò una parola. «Riservati.» Si guardò attorno. «Nient'altro?» Lucas aprì il taccuino e controllò un breve elenco sul risvolto di copertina. «Mi piacerebbe controllare i medici. Qualcuna di queste donne andava dallo stesso dottore? Il medico della Ruiz è una donna, ma forse ci sono dei medici maschi che frequentano la sua galleria. Potrebbe essere stata scelta lì, e dovremmo controllare.» «Possiamo farlo» disse Anderson «E quelle richieste di cambio di residenza?» «Quello è un problema» rispose Anderson. «Abbiamo chiamato gli uffi-
ci postali e non hanno moduli di richiesta per la gente in arrivo. Solo per quelli che se ne vanno. Quindi se vogliamo controllare i cambiamenti di indirizzo delle persone arrivate in città, dovremmo prendere i nomi delle Città Gemelle e di tutti i sobborghi e rivolgerci a tutti gli uffici postali del sud-ovest per controllarli.» «Non sono computerizzati?» «No. Il lavoro viene svolto negli uffici postali locali.» «Porca miseria.» Lucas guardò il capo. «Quanto ci vorrebbe per controllare tutte le città principali laggiù, dieci uomini per tre settimane? Qualcosa del genere?» «Tre mesi, è più probabile» rispose Anderson. «Ho guardato sull'elenco telefonico e ci sono circa ottanta uffici postali soltanto nell'area di Minneapolis, escludendo Saint Paul e i sobborghi di Saint Paul. Allora ho guardato su una mappa le città principali che dovremmo controllare, e calcolo che saranno forse duemila uffici postali, che coprono soltanto le città più grandi. E per ognuno dovremmo controllare tutte le diverse città e sobborghi di qui. Saremmo fortunati se un uomo potesse farne tre o quattro al giorno, anche con la collaborazione attiva degli uffici postali.» «Forse potremmo servirci degli uffici postali» suggerì Daniel. «Fate un elenco di tutti gli uffici postali, escogitate una specie di modulo da compilare e speditelo per posta. Spiegate quanto è importante, chiamate tutti questi uffici per accertarvi che rispondano...» «Con quel sistema, forse potremmo farcela con due, tre uomini a tempo pieno» ammise Anderson. «Non è necessario che siano poliziotti» disse Daniel. «Elabora un modulo e parlerò io con le poste. Manderò un paio di impiegati da loro a occuparsene.» «Patenti di guida» disse uno degli agenti investigativi. «Cosa?» «Se si è appena trasferito, probabilmente ha dovuto richiedere una nuova patente. Quando arrivi ti fanno consegnare quella vecchia. Il dipartimento della Sicurezza pubblica dell'amministrazione statale dovrebbe tenere delle registrazioni.» «Bene» disse Daniel. «Ci servono idee del genere. Controllate.» L'agente annuì. «Nient'altro? Lucas?» Lucas scosse la testa. «Va bene» disse Daniel «mettiamoci al lavoro.»
«Agente investigativo Davenport.» Lucas si voltò e la vide avvicinarsi lungo il corridoio, Carla Ruiz, tutta sorridente. «Salve. Che fa da queste parti?» Lei arricciò il naso. «Pratiche di divorzio. Quando me ne sono andata di casa, il mio ex marito avrebbe dovuto venderla e darmi la metà del ricavato. Non l'ha mai venduta, e stiamo cercando di convincerlo a darsi una regolata.» «Sgradevole.» «Sì. Non fa che tirare le cose in lungo. Sono stata qui già cinque o sei volte. Sono stufa.» «Il momento buono per una tazza di caffè?» propose Lucas, accennando con la testa alla caffetteria. «Ah, no, penso di no.» Lei controllò l'orologio. «Devo andare, per trovarmi nello studio del giudice fra 12 minuti.» «L'accompagno fino al mio angolo» disse Lucas. Si avviarono insieme e puntarono verso il tunnel che portava al tribunale della contea. «Mi spiace per quella telefonata assurda, stanotte.» «Non fa niente. Questa mattina pensavo quasi che fosse un sogno. È servita?» «Oh, penso di sì. Stavo pensando che forse è stato un medico. Forse tutte le donne avevano lo stesso dottore o qualcosa del genere. Lei ha semplicemente eliminato quella possibilità.» «Scommesso che l'ho resa felice» osservò lei, sorridendo di nuovo. «È presto per dirlo» ribatté lui. Camminarono insieme per un minuto e Lucas aggiunse: «Forse c'è un problema. Che riguarda lei.» «Ah sì?» Lei divenne all'improvviso seria. «Una delle stazioni televisive ha ricevuto un'informazione sul suo conto. Proprio in questo momento una giornalista, Jennifer Carey, sta parlando con il capo. Vuole un'intervista.» «Lui le darà il mio nome?» «No. Cercherà di dissuaderla, ma non durerà a lungo. La Carey ha delle buone fonti su a Saint Paul. Prima o poi lo scoprirà, e le farà passare le pene dell'inferno.» «Allora che si fa?» «Abbiamo pensato che forse sarebbe meglio concederle una intervista e poi ammettere le altre stazioni a una conferenza stampa con lei. Per farla
finita. In quel modo, potremmo tenerla sotto controllo. Non vogliamo che la colgano di sorpresa.» Lei rifletté, abbassando il viso. «Non mi fido di quella gente. Specialmente della TV.» «Carey è la migliore, forse» ribatté Lucas. «È una mia amica, a dire la verità. Non sono stato io a parlarle di lei, però. Non so da dove ha ricavato l'informazione. Forse a Saint Paul.» «Sarebbe davvero a posto?» «Probabilmente farebbe il lavoro più delicato. Una volta finita questa storia, la porteremmo fuori città per qualche giorno. Quando tutto si sarà raffreddato, lei potrà rientrare alla chetichella e probabilmente sarà tutto a posto.» «Posso pensarci?» chiese Carla. «Certo. Il capo probabilmente la chiamerà per parlarne.» «Se andassi fuori città, pagherebbe l'amministrazione comunale? Non è che sia ricca.» «Non so. Potrebbe chiedere al capo. Oppure, se vuole, può stare nel mio rifugio. Ho una casetta su un lago al nord, nel Wisconsin. È un posto grazioso, tranquillo, fuori mano.» «Potrebbe andar bene» disse lei. «Mi lasci riflettere.» «Certo.» Seguì un lungo momento di silenzio che Lucas interruppe chiedendo: «Allora, da quanto tempo ha divorziato?» «Quasi tre anni. Lui è un fotografo. Non è un cattivo soggetto. Ha perfino del talento, ma non lo usa. Non fa niente. Se ne sta semplicemente in ozio. Altri lavorano, lui sta in panciolle. Una delle ragioni per cui sono tanto ansiosa di ricavare il denaro dalla casa è che erano soldi miei.» «Ah. Buona ragione.» «Sono impaziente di sentire gli Aerosmith, stasera» aggiunse lei. «Voglio dire, se l'invito è ancora valido.» «Certo che è valido» rispose Lucas. Si fermò all'imbocco di un corridoio laterale. «Io svolto qui. Ci vediamo alle sei?» «Sì. E penserò alla faccenda della TV.» Si avviò, si voltò a metà per salutare e proseguì. Simpatica, pensò lui guardandola mentre si allontanava. Mary Rice non era molto sveglia. Stava accasciata su una sedia di cucina a guardare nervosamente Lucas e Harrison Sloan, il secondo agente investigativo incaricato di parlare con lei. Sloan aveva i modi accattivanti di un
rappresentante di aspirapolvere. «È d'importanza essenziale che otteniamo da lei un elenco completo» disse, facendo le fusa e accostando di un paio di centimetri la sedia a quella della Rice. Sembrava un ginecologo in una telenovela pomeridiana, decise Lucas. «Vorremmo ricavare un calendario o qualcosa del genere, in modo da poter ricostruire settimana per settimana e giorno per giorno chi ha visto suo marito.» «Non le dirò chi è stato a darmi la pistola» disse lei, col labbro inferiore tremante. «D'accordo. Gli ho parlato ieri notte ed è tutto sistemato» le assicurò Lucas. «Ma dobbiamo sapere di tutti gli altri.» «Non sono moltissimi. Voglio dire, non abbiamo mai avuto molti amici, e poi un paio sono morti. Quando a Larry venne il cancro, alcuni altri smisero di venire. Larry doveva portare quel sacchetto fuori del fianco, sa...» «Sì» disse Lucas, facendo una smorfia. «Ci sarà stato pure qualcuno» disse Sloan. «Postini, vicini, i medici o gli operatori sanitari che venivano qui...» «C'era solo un'infermiera» rispose lei. «Ma è proprio quello il genere di persone che stiamo cercando...» Lucas ascoltò ancora per qualche minuto mentre Sloan lavorava per rilassarla, poi lo interruppe. «Devo andare» disse alla Rice. «L'agente investigativo Sloan resterà a chiacchierare con lei, ma io ho un paio di domande veloci. D'accordo?» Le sorrise e lei lanciò un'occhiata a Sloan, poi di nuovo a lui, e annuì. «Sto cercando un bianco, all'incirca della mia taglia, che probabilmente lavora in qualche ufficio. Potrebbe avere un accento particolare, si direbbe del sud-ovest. Una specie di cowboy. Probabilmente benestante. Questo non le fa venire in mente qualcosa? Ricorda qualche tipo del genere?» Lei si accigliò e rivolse lo sguardo sulle sue mani, su Sloan, e poi sulla cucina intorno. Infine guardò di nuovo Lucas e disse: «Non ricordo nessuno del genere. Tutti i nostri amici sono bianchi. Non c'è mai stato nessuno di colore, qui. Nessuno con molti soldi, che io sappia.» «Okay» disse Lucas, con una punta di impazienza nella voce. «Sto cercando di ricordare» aggiunse lei, sulla difensiva. «Va bene» disse Lucas. «Suo marito ha fatto venire qui gente di cui lei era all'oscuro?» «Be', ha messo un avviso alla finestra per qualche oggetto che voleva vendere. Aveva alcune di quelle bamboline che aveva riportato dalla guer-
ra contro i giapponesi. Sa, quelle piccole sculture? Qualcuno le ha comprate. Ne ha ricavato 500 dollari, per quindici pezzi. Erano oggetti davvero carini. Per esempio porcellini e topi, tutti raggomitolati.» «Non sa chi è stato, chi li ha acquistati?» «Oh, penso di sì. Ho una specie di ricevuta da qualche parte.» Si guardò di nuovo attorno nella cucina, con aria vaga. «Ha mai visto l'uomo che li ha comprati?» «No, no, ma penso che fosse più vecchio. Sa, l'età di Larry. Mi sono fatta questa idea.» «Okay. Cerchi di trovare quella ricevuta e la dia all'agente investigativo Sloan. C'è stato qualcun altro?» «Il postino si fermava a parlare, è un tipo più giovane, forse sulla quarantina. E veniva un giovanotto dei servizi di assistenza pubblica. Noi non avevamo l'assistenza gratuita» si affrettò ad aggiungere «ma arrivavano degli aiuti dall'assistenza sociale...» «Certo» disse Lucas. «Senta, io devo scappare. Le saremo grati di tutta la collaborazione che potrà fornire all'agente Sloan.» Lucas uscì dalla porta della cucina, lasciò che gli si richiudesse alle spalle e scese i gradini. Passando davanti alla finestra della cucina sentì la Rice dire: «...quel tipo non mi piace. Mi rende nervosa.» «Parecchi sarebbero d'accordo con lei, signora Rice» disse Sloan in tono accattivante. «Posso chiamarla Mary? L'agente investigativo Davenport è...» «Aggressivo» completò la signora Rice. «Molti sarebbero d'accordo con lei, Mary. Ascolti, spero proprio che potremo lavorare insieme per catturare questo assassino...» Lucas sorrise e uscì diretto verso la macchina, aprì lo sportello, guardò all'interno per un attimo, poi lo richiuse e tornò verso la casa. Dentro, Sloan e la signora Rice stavano guardando un blocco stenografico sul quale Sloan aveva scritto un breve elenco di nomi. Entrambi alzarono la testa quando Lucas rientrò. «Potrei usare il telefono?» chiese Lucas. «Sì, è proprio...» Lei indicò la parete. Lucas guardò sul taccuino, compose un numero e sentì la voce di Carla Ruiz al secondo squillo. «Sono Lucas. Quante volte è stata in tribunale per il divorzio?» «Oh, quattro o cinque. Perché?» «Quanto prima di essere aggredita? Poco prima, o quando?»
«Mi lasci prendere la borsetta. Tengo un'agenda degli impegni...» Sentì posare il ricevitore sul tavolo e guardò la Rice. «Signora Rice, questo tizio dell'assistenza pubblica. È dovuta andare al tribunale della contea per vederlo, oppure è venuto qui lui, o cosa?» «No, no, Larry era invalido quando scoprimmo che poteva ricevere assistenza medica, così questo tale venne qui. Venne due volte. Un ragazzo simpatico. Ma penso che Larry lo avesse conosciuto prima, sul lavoro.» «Quel posto dipende dalla contea. Credevo che suo marito lavorasse per il comune di Minneapolis.» «Be', è così, ma sa, la gente va avanti e indietro in continuazione, fra il municipio e il tribunale. Col suo lavoro, Larry conosceva tutti. Ogni volta che qualcosa si guastava, chiamavano lui perché sapeva aggiustare tutto. Vedeva sempre... l'agente di polizia che ci ha dato la pistola, giù alla caffetteria.» Carla Ruiz tornò in linea. «Sono stata laggiù tre e quattro settimane prima» disse. «Prima di essere aggredita.» «Sì.» «Grazie. Ascolti, ci vediamo alle sei, ma cerchi di ricordare tutti quelli che ha visto in tribunale, d'accordo?» «Trovato qualcosa?» chiese Sloan quando Lucas attaccò. «Non lo so. Hai il numero di telefono dell'ufficio dove lavorava quella Lewis, l'agente immobiliare?» «Sì, penso di sì.» Sloan tirò fuori il taccuino dei dati, scorse la lista e dettò il numero a Lucas. Lui lo compose, parlò con il direttore dell'agenzia e spiegò cosa voleva. «...Quindi ci andava?» «Oh, certo, in continuazione. Una volta la settimana. Portava una quantità di scartoffie per noi.» «Così, dev'esserci andata prima di essere uccisa?» «Certo. Voi avete le sue agende da tavolo, ma non aveva preso ferie nei due mesi precedenti alla morte, quindi sono sicuro che era stata laggiù.» «Grazie» disse Lucas. «Allora?» chiese Sloan. «Non so» rispose Lucas. «Due delle donne sono state in tribunale poco prima di essere aggredite. Anche la donna di Saint Paul, e non è tanto frequente che qualcuno di Saint Paul venga nel tribunale della contea di Hennepin. E il signor Rice era sempre lì. Sarebbe una coincidenza davvero
strana.» «Un'altra delle donne, quella Bell, la cameriera punk, era stata arrestata al Target, in Lake Street, per taccheggio. Non è stato molto tempo fa. Me lo ricordo dal taccuino» disse Sloan. «Scommetto che è stata lì in tribunale. Per la Morris non so.» «Mi occuperò io della Morris» disse Lucas. «Potrebbe essere un indizio.» «Ho il numero di casa, forse il marito è lì» disse Sloan. Sfogliò il taccuino e lesse a voce alta il numero mentre Lucas lo componeva. Lucas lo lasciò squillare venti volte senza risposta, poi attaccò. «Lo troverò poi» disse Lucas. «Vuoi che controlli questo tizio dell'assistenza?» «Potresti dargli un'occhiata» disse Lucas. Si rivolse alla signora Rice. «L'assistente sociale aveva qualche genere di accento? Anche leggero?» «No, non che io ricordi. So che è di qui, del Minnesota, me lo ha detto lui.» «Dannazione» esclamò Lucas. «Potrebbe essere scandinavo» osservò Sloan. «Prendi alcuni di quegli svedesi e tedeschi del Minnesota centrale, hanno ancora l'accento. Forse la Ruiz ha sentito l'accento e ha pensato che fosse del sud-ovest.» «Vale la pena di controllare» disse Lucas. Arrivato in ufficio, chiamò Anderson e ottenne il telefono dell'ufficio del marito della Morris. L'uomo rispose al primo squillo. «Sì, ci è andata» disse. «Dev'essere stato circa un mese prima... Comunque, andava sempre in un club della salute in Hennepin Avenue, e all'incirca una volta la settimana prendeva una multa. Si limitava a ficcarla nel cassettino del cruscotto e scordarsene. Doveva averne accumulate dieci o quindici. Poi le arrivò l'avviso che stavano per spiccare un mandato d'arresto contro di lei, se non si presentava a pagare e ottenere il ritiro dell'ordine della corte. Così andò laggiù. Ci volle quasi un giorno intero per sbrogliare tutta la matassa.» «È stata l'unica volta che è andata laggiù?» «Be', di recente sì. Potrebbe averlo fatto altre volte, ma io non ne so niente.» Quando finì con Morris, Lucas chiamò il cancelliere e controllò la data del mandato di comparizione di Lucy Bell per l'accusa di taccheggio. Il 27 maggio. Controllò sul calendario. Un venerdì, poco più di un mese prima
che fosse uccisa. Dunque erano state tutte in tribunale. La pistola era venuta dal municipio, tramite un tale che frequentava spesso il tribunale. Lucas raggiunse l'ufficio di Anderson in fondo al corridoio. «E cosa significa?» chiese Anderson. «Che le abborda proprio qui?» «Che le sceglie, forse» rispose Lucas. «Tre di loro hanno avuto a che fare con il tribunale e devono avere dei fascicoli giudiziari. Il nostro uomo potrebbe rintracciarle per quella via.» «Controllerò chi ha esaminato i fascicoli» disse Anderson. «Fallo pure.» «Allora, cosa pensi?» chiese Anderson. «È stato troppo facile» replicò Lucas. «Questo tizio non cadrà tanto facilmente.» Gli Aerosmith furono magnifici. Lucas sedeva rilassato al suo posto, guardando divertito Carla che saltava su e giù al ritmo della musica, girandosi verso di lui, ridendo, sollevando un pugno in alto insieme con gli altri quindicimila fans urlanti per agitarlo verso il palco... Lo invitò a salire per un caffè. «È la cosa più divertente che faccio da... non so, da molto tempo» commentò mettendo due tazze piene d'acqua nel forno a microonde. Lucas si aggirava nello studio, guardando i suoi lavori di tessitura. «Da quanto tempo fa questo genere di cose?» le domandò. «Cinque o sei anni. Prima dipingevo, poi mi sono dedicata alla scultura, e alla fine sono approdata a questo. Mia nonna aveva un telaio, m'intendo di tessitura fin da quando ero piccola.» «E questa scultura?» domandò lui, accennando agli oggetti sospesi a forma di polipo. «Non so. Penso che fossero soprattutto uno sforzo di adeguarsi a una tendenza, capisce? A quel tempo mi sembravano okay, ma ora penso che stavo prendendo in giro me stessa. È tutto piuttosto imitativo. Ora sono tornata alla tessitura pura e semplice.» «Un racket duro. L'arte, voglio dire.» «Non sa quanto sia vero, amico» ribatté lei. Il forno a microonde emise un bip e lei tirò fuori le tazze, versò in ciascuna un cucchiaio di caffè solubile e mescolò. «Caffè alla cannella» disse, porgendogli una tazza. Lui bevve un sorso. «Scotta. Buono, però.»
«Volevo farle una domanda» disse Carla. «Dica pure.» «Pensavo di essermela cavata bene quando ho respinto quell'uomo» cominciò lei. «Infatti è così.» «Ma sono ancora spaventata. So quello che mi ha detto l'altra sera, a proposito del fatto che non tornerà. Ma la prima volta ho avuto fortuna. Non era preparato alla mia reazione. Se torna, potrei non essere tanto fortunata.» «Allora?» «Sto pensando a una pistola.» Lui rifletté un minuto, poi annuì. «Vale la pensa di pensarci» disse. «Alla maggior parte delle persone risponderei di no. Quando comprano una pistola, ne diventano all'istante le vittime più probabili. Poi, sempre come calcolo di probabilità, vengono coniuge e figli. Poi i vicini. Ma lei non ha marito né figli, ed è improbabile che resti coinvolta in una rissa con i vicini. E penso che sia abbastanza calma da usarla bene.» «Quindi dovrei procurarmene una.» «Non posso dirglielo. Ma se non è il tipo di persona da avere incidenti stupidi, se non è sbadata, se non ha tendenze suicide e non pensa che una pistola sia un giocattolo, allora potrebbe prenderne una. In effetti, esiste qualche probabilità che quel tale ritorni. Lei è l'unica testimone vivente di un'aggressione.» «Vorrei sapere cosa procurarmi» disse Carla. Bevve un sorso di caffè. «Non potrei spendere troppo. E vorrei un po' di aiuto per imparare a usarla.» «Potrei prestargliene una io, se le va, almeno finché non lo prenderemo» disse Lucas. «Mi faccia vedere la mano. La tenga sollevata.» Lei sollevò la mano, con le dita tese, il palmo rivolto verso di lui. Lucas premette il palmo contro il suo e guardò la lunghezza delle sue dita superare quella di Carla. «Mani piccole» osservò. «Ho una vecchia .38 Charter Arms Special che dovrebbe andarle proprio bene. E possiamo procurarci delle pallottole a punta piatta, in modo che non abbiano troppa forza di penetrazione e uccidano tutti i vicini, nel caso dovesse usarla.» «Cosa?» «Le pareti sono di gesso e cannicci» spiegò Lucas. Si protese all'indietro
per battere su una parete, e si staccarono briciole di intonaco. «Se usa un proiettile troppo potente, farà un buco in tutto l'edificio. E in chiunque si trovi sulla traiettoria.» «Non ci avevo pensato.» Sembrava preoccupata. «Faremo tutto per bene. Lei vive a un centinaio di metri dal poligono di tiro coperto della polizia di Saint Paul. Io vado lì ad allenarmi per le gare. Potrei fare in modo di darle alcune lezioni.» «Mi ci lasci dormire sopra» disse lei. «Ma penso di sì.» Quando lui uscì, Carla socchiuse la porta lasciando solo un minuscolo spiraglio e mentre lui si avviava lungo il corridoio esclamò: «Ehi, Davenport?» Lucas si fermò. «Sì?» «Mi inviterà di nuovo a uscire?» «Certo. Se è disposta a sopportarmi.» «Sono disposta» rispose lei, e chiuse piano la porta. Lucas fischiettò avviandosi all'ascensore, e Carla si appoggiò alla porta, ascoltando quel suono e sorridendo fra sé. Quella sera tardi, Lucas si stese sul letto nella camera libera e guardò i fogli appuntati alla parete. Dopo un po' si alzò per scrivere in fondo al foglio dell'assassino: "Frequenta il tribunale." 8 Fu entusiasta dei giornali. Sapeva che non avrebbe dovuto conservarli. Se un poliziotto li avesse visti... Ma del resto, se un poliziotto li avesse visti, lì nel suo appartamento, sarebbe stato comunque troppo tardi. Avrebbe significato che sapevano. E come poteva non conservarli? I titoli cubitali erano una gioia per l'anima. Lo Star-Tribune proclamava: MANIACO ASSASSINO MASSACRA TRE DONNE DELLA CITTÀ. Il Pioneer Press era più serio e impressionante: MANIACO ASSASSINO BRACCA LE DONNE DELLE CITTÀ GEMELLE. A lui piacque la parola "bracca". Rifletteva la sensazione di un processo continuo, anziché storico; di un lavoro programmato, anziché casuale. Per puro caso, la sera in cui la notizia si diffuse, vide l'annuncio in un notiziario lampo alle nove. La migliore giornalista della stazione, una bionda alta in impermeabile, sparò brutalmente la parola "omicidio" in un
microfono posto appena fuori del municipio. Un'ora dopo, lui registrò il notiziario delle dieci di TV3, che riprendeva le fasi chiave della conferenza stampa con il capo della polizia. La conferenza fu caotica. Il capo fu conciso, esplicito, proprio come le prime domande. Poi qualcuno alzò la voce, interrompendo la domanda di un altro giornalista, e l'intera conferenza sfuggì a ogni controllo. Alla fine, i fotografi erano saliti sulle sedie di fronte alla telecamera, bersagliando di flash il capo e un'altra mezza dozzina di poliziotti presenti. Rimase senza fiato. Guardò il nastro almeno sei volte, captando ogni sfumatura. Se solo avessero trasmesso l'intera conferenza stampa, pensava; quello sarebbe stato un gesto responsabile. Dopo averci riflettuto per un secondo o due, telefonò alla stazione televisiva. Le linee erano intasate e impiegò venti minuti per ottenere la comunicazione. Quando finalmente ci riuscì, la centralinista lo fece attendere un momento, poi tornò in linea per informarlo che non era previsto "per il momento" di trasmettere l'intera conferenza. «Potrebbero cambiare idea?» domandò. «Non lo so» rispose la donna. Sembrava seccata. «Può darsi. Stanno chiamando un milione di persone. Provi a guardare il Wake Up Show di domani mattina. Se decidono di trasmetterlo, lo diranno allora.» Quando attaccò il telefono, il predatore s'inginocchiò tenendo in mano le istruzioni per il videoregistratore per studiare in che modo programmare i comandi orari. A partire da quel momento voleva registrare tutti i notiziari principali. Prima di andare a letto, guardò ancora una volta il nastro, la parte con Lucas Davenport. Era apparso in una breve inquadratura, seduto a gambe accavallate su una sedia pieghevole. Indossava jeans e una giacca sportiva dall'aria costosa. Definito l'investigatore più brillante delle forze di polizia. Lavorava in modo indipendente. Si alzò presto per il Wake Up Show, ma non fu altro che un riciclaggio delle notizie della sera prima. Più tardi, leggendo i giornali del mattino, scovò un breve trafiletto su Lucas Davenport nel quotidiano di Saint Paul, con una piccola fotografia. Aveva ucciso cinque persone? Un inventore di giochi? Magnifico. Il predatore studiò attentamente la foto. Una mascella dalla linea crudele, decise. Un uomo spietato. Il predatore riuscì a stento a lavorare durante il giorno, sfogliando con impazienza la solita pila di pratiche immobiliari e fascicoli sull'omologa-
zione di testamenti che aveva davanti sulla scrivania. Dedicò qualche altro minuto a due cause penali di scarsa importanza di cui si stava occupando, ma alla fine accantonò anche quelle. Le cause penali erano le sue preferite, ma non gliene capitavano molte. Nello studio il predatore era riconosciuto come un esperto nelle ricerche, ma si diceva pure che non era capace di stare davanti a una giuria. In lui c'era qualcosa... Qualcosa che non andava. Nessuno lo diceva apertamente, ma era sottinteso. Il predatore viveva solo nei pressi dell'Università del Minnesota, in uno dei quattro appartamenti ricavati da una casa degli inizi del secolo ristrutturata e suddivisa in abitazioni. Dopo il lavoro si precipitò a casa, affrettandosi ad accendere il televisore per il telegiornale delle sei. Non c'erano altre informazioni concrete, ma TV3 aveva inviato delle troupes in tutta la città, per cogliere le reazioni della gente della strada. La gente della strada dichiarava che non aveva paura, che la polizia lo avrebbe catturato. Un agente di un'autopattuglia rivelò che si firmava "predatore", e i giornalisti televisivi adottarono subito il soprannome. Al predatore piacque molto. Dopo il telegiornale trascorse un'ora a pulire e riordinare l'appartamento già meticolosamente pulito. Di solito la sera guardava la TV o qualche cassetta presa a nolo sul videoregistratore. Quella sera non riusciva a stare fermo. Alla fine andò in centro, passando da un bar all'altro, gironzolando tra la folla. In una discoteca alla moda vide un aspirante sosia di James Dean, un giovanotto con lunghi capelli neri e spalle larghe, una T-shirt sotto il giubbotto di cuoio nero, un sorriso crudele. Stava parlando a una ragazza con un vestito bianco tanto corto da scoprire le gambe fino all'inguine e tanto scollato da mostrare quasi i capezzoli. "Tu pensi che sia pericoloso" pensò lui, rivolto alla ragazza "ma è tutta una messinscena. Sono io quello pericoloso. Tu non mi vedi nemmeno, in giacca sportiva e cravatta, ma sono io, io, quello che stanno cercando." Era tempo di ricominciare. Tempo di cominciare a cercare. L'impulso riprendeva a farsi sentire. Ormai lui conosceva lo schema. Nel giro di dieci giorni o due settimane, sarebbe diventato irresistibile. Finora l'aveva fatto con uria cameriera, una casalinga, una agente immobiliare. Perché non sceglierne una fuori dagli schemi? Una che avrebbe davvero confuso le idee ai poliziotti? Una puttana, come a Dallas? Non c'era fretta, ma era un'idea. Stava camminando a caso, immerso nei suoi pensieri, quando una voce lo chiamò per nome.
«Ehi, Louie. Louie. Quaggiù.» Si voltò. Bethany Jankalo, che Dio ti salvi. Una collega dello studio. Alta, bionda, con i denti leggermente sporgenti. Chiassosa. E, gli era stato assicurato, altamente disponibile. Era appesa al braccio di un tipo dall'aria professorale, alto, che succhiava una pipa e fissava sussiegoso il predatore. «Stiamo andando al vernissage del Mélange» disse Jankalo ad alta voce. Aveva la bocca grande e portava un rossetto di un rosa fluorescente. «Vieni. C'è da farsi un sacco di risate.» "Cristo" si disse lui "e pensare che è avvocato." Ciononostante, si unì a loro, mentre Jankalo faceva andare la bocca e il suo cavaliere succhiava la pipa, che sembrava vuota e gorgogliava a ogni aspirazione. Insieme camminarono per un isolato, fino a una galleria d'arte in un edificio di mattoni grigi. Davanti all'ingresso c'era una piccola folla. Jankalo fece strada, usando le spalle come un terzino. All'interno, professionisti di mezza età tenevano in equilibrio bicchieri di plastica pieni di vino bianco spostandosi da un angolo all'altro della gallerìa, mentre fissavano con aria vacua le tele allineate sulle pareti color avorio. «Chi ha fatto cadere la pizza?» Jankalo rise guardando la prima opera. Il suo cavaliere fece una smorfia. «Che mucchio di merda.» Ma non lo era tutta la mostra. Il predatore non s'intendeva di arte; non gli interessava. Alle pareti dell'ufficio aveva appeso due stampe di anitre, di quelle eseguite ogni anno dal poligrafico federale. Gli avevano detto che erano un buon investimento. Ma in quel momento spalancò gli occhi. La maggior parte delle opere era davvero molto scadente. Ma Larson Deiree esponeva dei nudi che attiravano l'attenzione, in posa su bizzarri sfondi estemporanei. I corpi contorti colti in esplicite offerte sessuali, i destinatari delle offerte, uomini in soprabito e cappello a tesa larga e scarpe con la punta rinforzata, il viso girato di lato, presentati come estranei privi di interesse. Transazioni di potere; le donne mostrate inequivocabilmente come premi. Il predatore rimase affascinato. «Prendi un po' di vino e un cracker, Louie» disse Jankalo, porgendogli un bicchiere di liquido giallo pallido e una pila di crackers delle dimensioni di gettoni da poker. «Della serie "Ho perorato la mia causa davanti alla Corte Suprema in reggiseno", eh?» osservò, guardando il quadro di Deiree alle spalle di lui. «Io...» Il predatore cercò affannosamente delle parole.
«Tu cosa?» disse Jankalo. «Ti piace?» «Be'...» «Louie, sei un pervertito» disse lei, così forte che praticamente urlò. Il predatore si guardò attorno. Nessuno prestava attenzione. «Proprio il mio tipo.» «Mi piace. Ha un significato» ribatté il predatore. Era sorpreso di sé. Non ragionava in quei termini. «Oh, balle, Louie» gridò Jankalo. «Non fa che esporre delle chicche per far lievitare le vendite.» Il predatore le voltò le spalle. «Louie...» Gli venne l'idea di ucciderla. Gli si affacciò alla mente così, tutt'a un tratto.. Avrebbe avuto una certa spontaneità artistica. Avrebbe seguito, in un certo senso, la massima di non seguire uno schema, perché non sarebbe stato un atto calcolato e programmato. E sarebbe stato divertente. Jankalo, lui non ne dubitava, avrebbe collaborato attivamente, fino al momento in cui il coltello fosse penetrato. Sentì un rimescolio all'inguine. «Louie, a volte sei proprio un rottinculo» disse Jankalo, allontanandosi. Aveva detto: «Louie, sei un pervertito... Proprio il mio tipo». Un'offerta? Se era così, lui l'aveva lasciata in sospeso troppo a lungo. Lei stava tornando dal suo professore. Il predatore non era abile nelle situazioni mondane. Addentò un cracker e si guardò attorno, ritrovandosi a fissare negli occhi Carla Ruiz. Si girò di scatto. Non voleva incontrare il suo sguardo. Il predatore era convinto che l'incontro degli sguardi fosse rivelatore; che lei avrebbe potuto guardarlo negli occhi e d'improvviso capire. Dopo tutto, avevano condiviso una notevole intimità. Si spostò in modo da poterla osservare di sbieco, attraverso altre persone. Il taglio sulla fronte aveva un brutto aspetto, i lividi tendevano al giallo. Il predatore aveva ancora dei brutti lividi anche lui, striature verdi sulla schiena e un braccio. Forse sarebbe dovuto tornare da lei. No. Così avrebbe violato troppe regole. E l'esigenza di ucciderla era svanita. Ma era allettante; per vendetta, se non altro, come la ragazza di campagna che aveva fatto volar via di sella. Il pensiero di uccidere lo faceva fre-
mere, lo eccitava, come un fumatore inveterato che è rimasto troppo a lungo senza sigarette. La necessità sarebbe aumentata. Meglio cominciare le ricerche lunedì. Al più tardi. 9 Jennifer Carey lo stava fissando di nuovo nell'oscurità. «Che c'è?» le domandò. «Come, che c'è?» «Mi stai fissando.» «Come fai a sapere che ti sto fissando? Guardi dall'altra parte.» «Lo sento.» Lucas sollevò la testa in modo da poterla vedere. Lei era seduta e lo guardava dall'alto. La leggera coperta autunnale le era ricaduta intorno ai fianchi e la candela tremolante dava alla sua pelle un caldo splendore roseo. «Ho 33 anni» disse lei. «Oh Dio» gemette lui affondando la testa nel cuscino. «Ho deciso di sospendere per un certo tempo l'attività di giornalista. Lavorerò part-time, come produttrice. Scriverò qualche articolo come freelance.» «Così puoi morire di fame» osservò Lucas. «Ho dei risparmi.» La voce di Jennifer era calma, quasi grave. «Lavoro da quando avevo 21 anni. Ho quel fondo che mi hanno lasciato i miei. E lavorerò sempre part-time con la stazione. Me la caverò.» «Che significa questa storia?» «È la vecchia storia dell'orologio biologico» rispose lei. «Ho deciso di avere un bambino.» Lucas non disse niente, non si mosse. Lei sorrise. «Ah, lo scapolo nervoso che cerca già le scappatoie.» Ci fu un altro lungo momento di silenzio. «Non è quello» disse lui alla fine. «Solo che è un po' improvviso. Voglio dire, tu mi piaci davvero. Stai cercando di sganciarti? Dovrei chiederti chi è il fortunato?» «No. Vedi, ho pensato che forse poteva non interessarti collaborare con il mio piano. D'altra parte, dal mio punto di vista, non capita spesso di incontrare un uomo che sia intelligente, fisicamente accettabile, eterosessuale e per di più disponibile. Ho deciso di prendere in mano la situazione, se mi capisci.»
Lucas era steso sulla schiena e fissava il soffitto. Guardandolo, lei vide i muscoli dello stomaco tendersi e il torace sollevarsi dal letto come se lui stesse levitando, la testa avvicinarsi, con gli occhi spalancati. «Jennifer...» «Sì. Sono incinta.» Lui ricadde all'indietro sul cuscino. «Oh.» Lei rise. «A volte sei uno degli uomini più divertenti che conosco.» «Perché mai?» «Ho cercato di immaginare cosa avresti detto quando ti avrei informato. Ho pensato di tutto tranne che "Oh".» Lui si mise di nuovo seduto, con un'espressione profondamente seria. «Dobbiamo sposarci. Domani, per esempio. Posso provvedere alle analisi del sangue...» Lei rise di nuovo. «Ehi, Davenport, sveglia. Non voglio sposarmi.» «Cosa?» «Appena qualche minuto fa hai detto che ti piaccio, non che mi ami. Per dirne una. Inoltre, non voglio sposarti.» «Jennifer...» «Ascolta, Lucas. Sono commossa dall'offerta. Non ero sicura che l'avresti fatta. E saresti un padre meraviglioso. Ma saresti un marito terribile e io non potrei sopportarlo.» «Jennifer...» «Ci ho riflettuto sopra.» «E a me non pensi, dannazione?» esclamò lui. Scostò le coperte e s'inginocchiò su di lei, con le mani pesanti strette a pugno, e lei si appiattì sul letto, improvvisamente, per la prima volta spaventata da lui. «È anche mio figlio. Giusto? Voglio dire, è mio?» «Sì.» «E io non voglio che mio figlio sia un piccolo bastardo merdoso.» «E allora che vuoi fare, picchiarmi per convincermi a sposarti?» Lui abbassò gli occhi sui pugni serrati e si rilassò di colpo. «No, naturalmente no» rispose piano. Si lasciò ricadere vicino a lei. «Senti. Io voglio avere il bambino» disse Jennifer. «Se vuoi che nessuno sappia che è tuo, va bene. Se non ti dispiace, mi farebbe piacere averti intorno ad aiutarmi. Resterò qui nelle Città Gemelle. Presumo che lo farai anche tu.» «Sì.»
«Quindi in realtà saremo insieme.» «No. Non divideremo il letto tutte le notti. Ascolta, te lo dico subito. Ho intenzione di passare i prossimi nove mesi...» «Sette mesi.» «...sette mesi a tentare di convincerti a sposarmi. Se non vuoi, che ne diresti di trasferirti qui, almeno?» «Lucas, questa casa è un circolo maschile. Ti mancano soltanto le sputacchiere.» «Ascolta, ti dirò io cosa...» «Lucas, abbiamo ancora mesi per escogitare la soluzione giusta. E in questo momento mi sento di nuovo sull'arrapato. Dev'essere stata la tua reazione. È stata molto migliore di quanto prevedessi.» Qualche minuto dopo disse: «Lucas, sei distratto.» E dopo qualche minuto rinunciò ancora. «È come tentare di far l'amore con una corda. Una corda corta. Senza offesa.» Lui non rise. Disse: «Cristo, avrò un figlio.» E poi allungò una mano per posargliela sullo stomaco. «Ho sempre desiderato un figlio. Magari due o tre.» La guardò. «Non pensi che potrebbero essere due gemelli, vero?» La mattina dopo, Jennifer si stava sbirciando nello specchio sopra il lavandino del bagno e Lucas si fermò vicino alla porta per guardarla. «Non si vede» osservò. «Fra un mese si vedrà» ribatté lei. Si girò per fronteggiarlo. «Voglio l'intervista con quella chicana.» «Il capo...» «Me ne sbatto del capo. Ho trovato dell'altro materiale su di lei, e andrò avanti con quello che ho, se non organizzate qualcosa. Stasera, domani.» «M'informerò.» Lei si guardò di nuovo allo specchio e tirò fuori la lingua. «Sarà una situazione curiosa» disse. La doccia stava scorrendo quando Lucas finì di vestirsi. Si precipitò al telefono della cucina, trovò il numero telefonico di Carla nell'agendina da tasca e la chiamò. La doccia smise di scrosciare proprio mentre veniva sollevato il ricevitore. «Carla? Lucas.» «Sì, salve. Cosa succede?» «Siamo sottoposti a forti pressioni per un'intervista con lei. La giornalista di TV3, Jennifer Carey, ha una fonte di informazioni. Sa qualcosa su di
lei ed è solo questione di tempo prima che qualcuno la rintracci. Forse sarebbe meglio se li precedessimo e concedessimo un'intervista mentre ancora possiamo controllare un po' la situazione.» Ci fu un istante di silenzio. «D'accordo. Se la pensa così.» «Sarà nel pomeriggio o nelle prime ore della sera. La richiamerò.» «Dovrei preparare una valigia?» «Oh... sì. Vuole che mi rivolga al capo per trovare un albergo, o preferisce il rifugio?» «Che ne dice del rifugio? Mi piacciono i laghi.» «Prepari una valigia. Andremo su stasera.» Lucas attaccò e formò un altro numero, chiamando Daniel sulla linea diretta. «Linda? Devo parlare al capo.» «È piuttosto occupato, Lucas. Lasciami chiedere.» «Jennifer Carey dice che andrà avanti con la storia della superstite.» «Resta in linea.» Jennifer si avviò lungo il corridoio, strofinandosi i capelli bagnati con un asciugamano, e prese un panino dal frigorifero. Lucas coprì il microfono con il palmo della mano. «Sta succedendo qualcosa» disse. Lei smise di masticare. «Cosa?» «Non lo so.» Jennifer scostò una sedia della cucina e sedette proprio mentre Linda tornava in linea. «Ora te lo passo» disse la segretaria. Daniel arrivò al telefono un attimo dopo. «Lucas? Stavo per chiamare io. Farà bene a venire qui.» «Che sta succedendo?» «Sloan ha interrogato la Rice a proposito della pistola.» «Sì. C'ero anch'io, ho assistito in parte.» «Lei ha nominato un tizio dell'assistenza pubblica. Sloan ha messo insieme questo elemento con la sua idea che lui scelga le vittime in tribunale e ha fatto qualche controllo. Questo tizio dell'assistenza ha molti punti in contatto con il profilo. È gay. È dell'età giusta e della taglia giusta. E senta questa: è appassionato di arte. Sloan stava lavorandosi una delle donne dell'ufficio di assistenza, l'ha portata a parlare di Smithe, e lei stava dicendo com'è sprecato quest'uomo. Aitante, attraente, ma ha detto che era andata all'inaugurazione di una mostra e lo ha visto lì con il suo ragazzo. Sloan ha
controllato con la Ruiz. All'apertura c'era anche lei. È stato una settimana prima che fosse aggredita.» «Dannazione.» Lucas rifletté un momento. «Non so.» «Cosa?» «Aspetti un secondo. Jennifer Carey è seduta qui.» Lucas mise di nuovo la mano sul microfono. «Ritorna in bagno e chiudi la porta.» «Ehi...» «Non crearmi problemi, Jennifer, per favore. Questa è una conversazione privata. Dovremo formulare delle regole, ma per ora...» «D'accordo.» Si alzò e uscì a precipizio dalla stanza lanciandosi nel corridoio, e lui sentì la porta chiudersi dietro di lei. Tolse la mano dal microfono. «L'ho rimandata in bagno. È seccata... Ecco, la porta si è chiusa. Le dirò una cosa, capo, sembra terribilmente facile. Quel tipo è troppo sveglio per lasciarsi prendere così facilmente. E una settimana è un tempo piuttosto breve per fare i controlli sulla donna.» «Certo, ma lo abbiamo preso soltanto per un incidente casuale. Non aveva previsto di perdere la pistola.» «Allora come mai non ci sono impronte sulle cartucce? Ha usato i guanti per caricare, quel figlio di puttana.» «Sicuro, ma scommetto che non sapeva da dove proveniva la pistola... che potevamo rintracciarla. Ed è frocio. Tutti gli strizzacervelli dicono che dev'essere così.» Lucas ci rifletté. «Questo è un buon argomento» ammise. «D'accordo. Pare che valga la pena di controllare.» «Non mandiamo tutto a puttane. Penso che ci sarà utile che lei... ottenga qualche informazione sul suo conto.» «Okay.» Daniel voleva che lui s'introducesse in casa dell'uomo. «Ascolti, Jennifer Carey vuole parlare con la Ruiz. Penso che dovrei organizzare l'incontro. La distoglierà da quest'altra faccenda.» «Che ne pensa la Ruiz?» «Sembra ben disposta. O in ogni caso potrei convincerla. Potremmo predisporre la cosa come avevamo detto. Questo terrebbe occupati tutti i giornalisti mentre noi lavoriamo su Smithe.» «Faccia pure. E venga qui. Ci riuniremo alle dieci.» «Vieni fuori» sbraitò lui. Uscì nel corridoio e notò che la porta del bagno era aperta. Raggiunse in fretta la camera da letto e spalancò la porta. Jennifer stava riavvitando il microfono sul ricevitore.
«Mi serviva solo un altro minuto» disse. Non stava scusandosi. «Puttana miseria, Jennifer» sbottò Lucas esasperato. «Io non prendo ordini riguardo alle notizie. Non dalla polizia» ribatté lei, stringendo bene la cornetta e posandola sulla forcella. «Dobbiamo escogitare una soluzione» disse lui, con le mani sui fianchi. «Che cosa hai sentito?» «Che avete un sospetto. È gay. Tutto qui. E della Ruiz.» «Non puoi servirtene.» «Non dirmi...» «Forse tu penserai che ascoltare sulla mia linea privata sia dovere di ogni giornalista veramente tosta, ma i tuoi legali non lo troverebbero tanto divertente. E nemmeno la stazione televisiva, dopo averci riflettuto sopra. Anche la commissione statale di vigilanza sulla stampa potrebbe avere qualcosa da ridire in proposito. E a dirti la verità, sono quasi convinto che questa checca potrebbe non essere l'uomo giusto. Se non lo è, e tu lo indichi in modo inequivocabile, dopo la denuncia per calunnia sarà lui il nuovo proprietario della stazione.» «Ci penserò.» «Jennifer, se dobbiamo avere un figlio insieme, non possiamo fare più questi giochetti. Devo poter avere fiducia in te. Sui casi ai quali sto lavorando, usa soltanto quello che ti dico io.» «Non faccio accordi di questo genere.» «È meglio che cominci, o avremo dei guai. Resteremo tutti e due a guardarci con la paura di parlare fra noi. Inoltre vale solo per i casi ai quali sto lavorando.» Lei ci rifletté. «Inventeremo qualcosa» rispose senza impegnarsi. «Non mi occuperò di te. Se m'imbatterò in una indiscrezione proveniente da un'altra fonte, me ne servirò.» «D'accordo.» «Quando comincerò a fare la produttrice, non sarà un grosso problema» disse Jennifer. «Mi concentrerò su questioni di portata più vasta. Non sulle indagini della polizia.» «Così andrebbe meglio per tutti e due. Ma su questa faccenda? Terrai la bocca chiusa, per ora?» «E la Ruiz?» «L'ho già chiamata, mentre tu eri sotto la doccia. Ha accettato. Dovremmo poter organizzare qualcosa per stasera. Hai sentito Daniel, lui dice di procedere.»
Jennifer ci pensò e finalmente annuì. «Va bene, affare fatto. Terrò la bocca chiusa sul sospetto purché tu mi prometta che avrò l'anteprima sulle rivelazioni. Ammesso che ce ne siano.» «Ti prometto che l'avrai.» «Cristo di Dio, Lucas...» «Jennifer...» «Sarà dura» disse lei. «D'accordo. Per ora. Se pensassi di cambiare idea, ti darò il preavviso.» Lui annuì. «Richiamerò la Ruiz per fissare un'ora precisa.» «L'uomo si chiama Jimmy Smithe» gli disse Anderson mentre percorrevano il corridoio diretti verso la sala riunioni. «Ho estratto dai computer il suo dossier personale e l'ho confrontato con il profilo psicologico costruito dagli psichiatri e le informazioni che abbiamo ottenuto. Ci sono delle coincidenze.» «Che mi dici delle divergenze?» chiese Lucas. «Viene dal sud-ovest?» «No. Per quanto mi risulta, è nato e cresciuto qui nel Minnesota, è andato all'Università del Michigan, ha lavorato per qualche tempo a Detroit, ha passato un periodo a New York ed è tornato qui per occupare un posto nell'assistenza pubblica.» «Hai controllato la sua fedina penale?» «Niente di serio. Quando aveva 17 anni la polizia di Stillwater lo ha schedato per possesso di una piccola quantità di marijuana.» «Com'è il suo curriculum all'assistenza pubblica?» «Sloan dice che è ottimo. Smithe è gay, d'accordo, non lo nasconde, ma non lo ostenta neppure. È intelligente. Va d'accordo con i colleghi del dipartimento, compresi gli uomini. È in lista per una promozione a supervisore.» «Non so, amico. Non mi sembra che quadri abbastanza.» «Fisicamente sì. E possiamo metterlo a confronto con due persone.» Quando Lucas e Anderson arrivarono, Daniel stava parlando agli altri otto poliziotti presenti nella sala. «Non voglio che una sola parola esca da questo gruppo» diceva. «Dobbiamo controllare questo tizio per bene senza che nessuno lo sappia.» Puntò un dito tozzo su Sloan. «Tu occupati dei vicini. Racconta che si tratta di un'indagine della sicurezza per un'offerta di lavoro nel dipartimento. Se dovessimo sostenere la
tesi, me ne uscirò con qualche balla su un funzionario di collegamento fra la polizia e la comunità gay riguardo all'Aids e altri problemi. Quello che la polizia può fare per rendersi utile, sensibilizzazione, eccetera. Dovrebbero berla.» «D'accordo» annuì Sloan. «In effetti non è una cattiva idea» osservò Lucas. «Abbiamo già abbastanza culi fra noi senza andare a cercarne fuori» replicò Daniel. Puntò il dito su Anderson. «Scopri tutto quello che puoi e confronta con le altre vittime. Lo abbiamo collegato alla Ruiz. Vedi se possiamo trovare qualche altro punto di contatto.» «Ora, voi» disse agli altri sei agenti «dovrete sorvegliare ogni sua mossa. Due uomini fissi, 24 ore su 24. Per gli straordinari, niente problemi. Se vedete una signora ottantenne dell'alta società violentata da un'intera banda, chiamate la centrale e scordatevi di lei. Non staccate mai gli occhi da questo figlio di puttana. Capito? Smithe è l'unica priorità. E voglio rapporti ogni 15 minuti sulla posizione. Chiamate Anderson durante il giorno, l'agente di guardia durante la notte.» «Mio marito ne sarà felice» brontolò una donna poliziotto. «Suo marito può andare a farsi fare un pompino» disse Daniel. «Vorrei farlo io» ribatté la donna «ma mi mettono sempre nel turno di notte.» Quando la riunione si sciolse, chiese a Lucas di restare. «Ha predisposto l'intervista con la Ruiz?» «Sì. Ho parlato con lei poco prima di venire. La faremo stasera, in casa sua. Alle sei. È disponibile, se può essere utile, e questo terrà a bada la Carey.» «Spero che con quella donna segua il suo cervello, e non il suo cazzo.» «È tutto sotto controllo» ribatté Lucas. «Informerò i giornali e i reporter della TV che lei convocherà una conferenza stampa. E convincerò i giornali a fare le interviste nello stesso tempo in cui la Carey girerà la sua. Saremo di ritorno qui alle nove per la conferenza stampa. Dopo di che, me ne andrò per un paio di giorni nel mio rifugio in montagna. Ho delle ferie arretrate.» «Cristo, non è il momento di andarsene in vacanza.» «Ho predisposto tutto. Lascerò il numero al comandante di turno, nel caso lei avesse bisogno di me.» «D'accordo, ma stasera prepari la Ruiz a lanciare una specie di appello
alla collaborazione, va bene? Conosce la solfa.» Daniel si rilassò sulla poltrona, appoggiò un piede sulla scrivania, guardò la parete di fotografie e cambiò argomento. «Lei sa cosa ci serve.» «Sì.» «Dirò a Anderson di fornirle i dati. Sappiamo già che vive solo. È una casetta giù a Lago Harriet.» «Non lontano da dove lavorava la Lewis. L'agente immobiliare.» «Ci abbiamo pensato» disse Daniel. «Non ha comprato la casa dalla sua agenzia, però.» «Senta, non si sbilanci troppo su questa faccenda, okay? Personalmente, voglio dire» raccomandò Lucas. «Se trapela qualcosa alla stampa, dica che sta indagando su un sospetto, ma pensa che sia inconsistente.» «Lei non ci crede?» «Ho una brutta sensazione.» «Può fare qualcosa questo pomeriggio? Potrebbe servire.» «Farò un tentativo.» Nessuno disse una parola a proposito di perquisizioni. Dal suo ufficio, Lucas telefonò a giornali e stazioni televisive e informò gli amici che Daniel avrebbe tenuto una conferenza stampa. Parlò separatamente con i capiredattori che assegnavano gli incarichi in entrambi i giornali e suggerì loro di tenere nei paraggi un cronista dal tocco delicato, perché verso le sei ci sarebbe stata qualche indiscrezione buona per il giorno dopo. Fatto questo, si procurò da Anderson l'indirizzo e il numero telefonico di Smithe e individuò la casa su una mappa della città. Conosceva la zona. Ci pensò un momento, mordendosi le labbra, poi aprì l'ultimo cassetto della scrivania, infilò la mano in fondo e trovò il grimaldello elettrico. Funzionava a batteria, aveva più o meno la stessa forma di un trapano, pur essendo grande solo la metà, con due rebbi che sporgevano dalla parte dove avrebbe dovuto trovarsi la punta del trapano. Uno - dei rebbi era ricurvo, l'altro diritto. Lucas svitò l'impugnatura, invertì la posizione delle batterie rendendole operative e premette il pulsante. I denti si mossero per un secondo e lui diminuì la pressione e sospirò. La casa di Smithe era intonacata di stucco nocciola, con un prato grande quanto un francobollo. Due file di ginepri alti quattro metri e mezzo fiancheggiavano i gradini di cemento che salivano verso la porta d'ingresso. Nelle strade tranquille intorno alla casa circolavano soltanto passanti ca-
suali. Lucas passò in macchina due volte, poi si diresse verso un telefono pubblico. «Anderson.» «Sono Davenport. Dov'è Smithe?» «Ho appena ricevuto una chiamata. È alla sua scrivania.» «Grazie.» Subito dopo compose il numero di Smithe e lasciò squillare il telefono. Dopo il trentesimo squillo, prese un paio di cesoie dal cassettino del cruscotto, si guardò attorno, tagliò il filo e lasciò cadere il ricevitore sul pavimento della macchina. Se il ricevitore era sparito, era poco probabile che un passante liberasse la linea abbassando la forcella. La Porsche era troppo vistosa per parcheggiarla davanti alla casa di Smithe. Lucas la lasciò a un isolato di distanza e s'incamminò lungo la strada, col grimaldello nella tasca della giacca. Un ragazzo stava percorrendo la strada in bicicletta e Lucas rallentò per lasciarlo passare. Arrivato alla casa di Smithe, imboccò il vialetto e puntò direttamente verso gli scalini senza guardarsi attorno. Sentì squillare il telefono dal portico. La serratura era originale, proveniente da una porta che probabilmente era stata installata negli anni Cinquanta. Il grimaldello l'aprì in meno di un minuto. Lucas spinse la porta con le nocche e si affacciò all'interno. «Eccomi qua» disse a voce alta. Fischiò. Niente. Entrò e richiuse la porta. La casa era silenziosa e odorava leggermente di un certo prodotto chimico. Quale? Cera per i mobili? Cera da pavimenti. Lucas si aggirò in fretta per il pianterreno in un esame preliminare, fermandosi solo per sollevare il ricevitore del telefono che squillava, facendolo tacere. Il soggiorno era arredato in modo sobrio ma gradevole, con un insieme di poltrona e divano imbottiti e un tavolino di vetro a goccia degli anni Cinquanta. La cucina era un locale accogliente e luminoso, con piastrelle gialle e cinque o sei piante posate sul banco vicino alla finestra. C'era un bagno con la vasca di ghisa, una camera da letto piccola con un letto matrimoniale spinto in un angolo, un cassettone vuoto e una scrivania con la sedia, usata evidentemente come ufficio e stanza per gli ospiti. Lucas controllò i cassetti della scrivania e trovò bollette, dichiarazioni dei redditi e copie delle ricevute delle tasse. La camera da letto principale era stata trasformata in stanza delle comunicazioni, con una coppia di casse stereo alte un metro e mezzo e un televi-
sore da 27 pollici sistemati di fronte a un lungo divano comodo. Una parete della stanza era ricoperta di fotografie. Smithe stava in piedi vicino a un'anziana coppia sorridente. Lucas pensò che dovevano essere i genitori. Un'altra foto lo mostrava insieme ad altri due uomini, tutti uniti da una forte somiglianza familiare, probabilmente i fratelli; indossavano la divisa da lotta libera della scuola superiore e mostravano al fotografo i bicipiti. C'era una foto di Smithe che scaricava fieno da un trattore insieme al padre. Smithe con un diploma. Smithe con un amico per le strade di New York, mentre si tenevano allacciati alla vita. "Dov'è la camera da letto?" Lucas arrivò in fondo al corridoio, trovò la scala per salire al piano di sopra. La camera da letto correva per tutta la lunghezza della casa e conteneva un letto gigantesco ancora disfatto dalla notte precedente. Jeans, biancheria e altri capi di abbigliamento erano sparsi in giro sulle poltrone. Una libreria conteneva alcuni libri, per lo più di fantascienza, e una piccola collezione di riviste porno per gay. Lucas guardò sul cassettone. Chiavi, colonia, un fermaglio per banconote con lo stemma della Ducks Unlimited, un piccolo portagioie, una fotografia di Smithe con un altro uomo, nudi dalla cintola in su, ciascuno col braccio sulle spalle dell'altro. Lucas aprì il primo cassetto. Profilattici. Due confezioni, una di quelli lubrificati, l'altra no, tutt'e due piene solo a metà. Ne prese uno del tipo lubrificato e se lo mise in tasca. Esaminò il resto dei cassetti; un fascio di lettere di un uomo di nome Rich, legate insieme con un elastico. Lucas ne guardò due; lettere innocue di un ex amante. Niente minacce, niente recriminazioni. Controllò l'armadio. Scarpe da atletica, cinque paia. Adidas, Adidas, Adidas, Adidas e Adidas. Niente Nike Air. Al piano di sotto, in bagno. L'armadietto delle medicine conteneva quattro flaconi acquistati con una ricetta medica: due di antibiotici, uno dei quali scaduto, un blando analgesico, una boccetta minuscola di collirio. Attraverso la cucina, sulle scale del seminterrato e al piano inferiore. Seminterrato in cemento grezzo. Una rastrelliera per le armi con tre fucili da caccia. La stanza sul retro: pesi. Una serie completa, con una sofisticata panca per gli esercizi. Foto di sollevatori di pesi con il corpo tutto unto d'olio, ripresi sotto sforzo e durante la flessione. Un grafico degli esercizi compilato a mano, con i segni vicino ai giorni della settimana in cui ogni esercizio veniva eseguito. Li saltava di rado. Di nuovo nella stanza principale. Un cassettone. Altre armi? Lucas la e-
saminò da cima a fondo, nient'altro che attrezzi. Di sopra, in soggiorno. Due bei disegni, entrambi a carboncino, nudi di donne lunghe e sinuose. Un'occhiata all'orologio: nove minuti, ormai. Nell'ufficio. Fuori i cassetti. Bilanci, lettere. Niente di interessante. Acceso il computer IBM. Caricato il programma Word Perfect. Caricati dischetti. Lettere, corrispondenza d'affari. Smithe si portava il lavoro a casa. Niente di simile a un diario. Ultimo controllo. Ancora un'occhiata alle fotografie nella stanza dei media. Felice, pensò Lucas. Ecco come appariva. Controllo dell'ora. Diciassette minuti. E fuori. Passò dall'ufficio di Daniel. «Allora?» Daniel sembrava affaticato. Lucas infilò una mano in tasca, estrasse l'anello racchiuso nella plastica del preservativo, lo gettò sulla scrivania. Daniel abbassò gli occhi senza toccarlo, poi li rialzò. «Share» lesse sulla confezione. Guardò Lucas. «Sul taccuino c'è una lista preparata dal laboratorio, dei profilattici che usano il tipo di lubrificante trovato nelle donne.» «Già.» «Questo c'è?» «Sì.» «Puttana eva. Abbiamo in mano qualcosa per procurarci un mandato?» «Non reggerebbe.» Daniel allungò la mano e premette un pulsante sull'interfono. «Linda, mi cerchi l'agente Sloan. L'agente Anderson, giù alla Omicidi, dovrebbe essere in grado di rintracciarlo. Voglio parlargli immediatamente.» Staccò il dito dal pulsante e guardò Lucas. «Qualche problema, laggiù?» «No.» «Non voglio che compaia in televisione nei prossimi giorni. Resti alla larga da questa conferenza stampa, nel caso qualcuno l'abbia vista per la strada.» «D'accordo. Ma sono entrato senza problemi.» «Cristo, se è lui, faremo una bella figura. Giù a Los Angeles sono capaci dare la caccia a questi tipi per anni, e alcuni non li prendono mai.» Daniel si passò le dita fra i capelli. «Dev'essere lui.» «Non deve pensarla così» disse Lucas in tono pressante. «Rifletta luci-
damente. Quando fermeremo qualcuno, i media impazziranno. Se non è lui, la appenderanno a un ramo. Per le palle. Specialmente con tutti i politicanti gay che ci sono in giro.» «D'accordo, d'accordo» disse Daniel con aria infelice. Agitò una mano nell'aria come per scacciare dei moscerini. Il telefono squillò e lui lo afferrò di scatto. «Sì. Stiamo aspettando.» Guardò Lucas e sillabò: "Sloan". «Avete mai controllato quella lista di case vendute dalla Lewis?... Sì. Quante?... E le date?... Uhm. Okay. Resti su quel terreno, raccolga tutto quello che riesci a trovare. Parli al suo amico, veda quali bar frequentavano, un qualsiasi punto di contatto con Smithe... Sì. Potremmo richiedere un mandato... Cosa?... Aspetti un momento. Daniel guardò Lucas.» «Sloan dice che la spazzatura viene ritirata domani. Vuole sapere se deve prelevarla, nel caso Smithe la metta fuori.» «Buona idea. Non è protetta; non ci serve un mandato. Se ci troviamo dentro qualcosa, questo potrebbe garantirci il mandato.» Daniel annuì e tornò al telefono. «Prelevi la spazzatura, d'accordo. E buon lavoro... Sì.» Sbatté il ricevitore sulla forcella. «La Lewis ha venduto una casa nell'isolato vicino. Sette settimane prima di essere uccisa.» «Oh, diavolo, non so...» «Aspetti, stia a sentire. Sloan ha parlato alla gente laggiù. Smithe è uno che fa jogging e d'estate corre lungo quello stesso isolato quasi tutte le sere. Proprio davanti alla casa che lei ha venduto.» «Non regge.» «Lucas, se troviamo un altro elemento, uno qualsiasi, intendo chiedere un mandato. Il giudice di turno è Laushaus, lui ci darebbe un mandato per perquisire anche la biancheria del governatore. Col governatore dentro.» «Non è ottenere il mandato che mi preoccupa. Sono preoccupato per la reazione.» «Me ne occuperò io. Ci andremo cauti.» Lucas scosse la testa. «Non so. Ho la sensazione che tutti stiano cominciando a correre in una sola direzione.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Devo fare delle telefonate per l'intervista alla Ruiz. Ci vada piano, eh?» Lucas parlò con un capo redattore del Pioneer Press. «Wally? Lucas Davenport.» «Salve, Lucas, come pende il batacchio?»
«Magnifica espressione, Wally. Dove l'hai sentita?» «Pensavo che i porci parlassero così. Scusami, volevo dire i poliziotti. Cercavo solo di essere cordiale.» «Bene. Hai per caso uno dei tuoi scagnozzi che possa incontrarsi con me sotto il portico davanti alla centrale di polizia di Saint Paul, diciamo verso le sei?» «Che bolle in pentola?» «Be', a dire la verità, abbiamo una superstite di un'aggressione del predatore e vogliamo renderlo pubblico.» «Uau. Resta in linea.» Si sentì una serie di esclamazioni soffocate all'altro capo del filo, poi una voce diversa, femminile. Denise Ring, direttore dell'edizione cittadina. «Lucas, sono Denise. Da dove salta fuori questa donna?» «Ciao, Denise. Come pende il batacchio?» «Cosa?» «Wally mi ha appena chiesto come pendeva il batacchio. Pensavo che fosse il gergo dei giornalisti.» «Va' a cagare, Lucas. E anche Wally. Cos'è questa storia della superstite?» «Ne abbiamo una. L'abbiamo tenuta segreta perché dovevamo parlare con lei a lungo. Ma Jennifer Carey lo ha scoperto...» «Da te?» «No. Non so dove lo ha saputo. Dalla polizia di Saint Paul, credo.» «Tu vai a letto con lei.» «Cristo Dio, cos'è, mi aprite la posta di nascosto?» «Lo sanno tutti. Voglio dire, pensavamo che fosse solo questione di tempo. Era l'ultima donna disponibile in città. O lei, o avresti dovuto cominciare a cercarti le ragazze fuori dello Stato.» «Senti, Denise, la vuoi questa storia o no?» «Sì. Non ti agitare.» «Jennifer ha detto che l'avrebbe resa pubblica, che noi collaborassimo o meno, così abbiamo parlato alla superstite e lei ha detto che era disposta a lanciare un appello. Jennifer voleva l'esclusiva, ma Daniel ha detto di no. Ha detto di chiamare voi e lo Star-Tribune, ed è quello che sto facendo.» «Alle sei? Ci sarà Cammeretta. E la parte artistica?» «Mandate un fotografo. Jennifer avrà una telecamera.» «È questo l'argomento della conferenza stampa delle nove?» «Sì. La superstite parlerà al pubblico per le altre stazioni, ma voi e TV3
e lo Star-Tribune avrete l'esclusiva dell'intervista alle sei.» «Per noi non sarà un'esclusiva. L'avrà per prima Jennifer.» «Ma non quanto...» «E con noi ci sarà anche lo Star-Tribune.» «Ma sono certo che voi la farete meglio.» «Come sempre... D'accordo. Alle sei. Come hai detto che si chiama?» Lucas rise. «Susan B. Anthony. Aspetta, forse ho capito male. Lo saprò con certezza alle sei.» «Ci vedremo allora.» Lucas premette il pulsante per interrompere la comunicazione, richiamò lo Star-Tribune, raccontò al capo redattore la stessa storia, e poi chiamò Carla. «Lei ci sarà, vero?» Sembrava preoccupata. «Sì. Verrò verso le cinque e parleremo di quello che vorrà dire. Poi, quando sarà ora, andrò alla stazione a prenderli. Questo verso le sei. Ci saranno Jennifer Carey di TV3, un cameraman, due giornalisti dei quotidiani e due fotografi dei giornali. Li conosco tutti e sono brava gente. Interromperemo verso le sette. Poi usciremo a mangiare qualcosa e verremo qui a Minneapolis per la conferenza stampa. Di quella potremo parlare durante il tragitto.» «D'accordo. Io andrò dal parrucchiere. C'è altro?» «Si metta una camicetta semplice. Non gialla. Celeste andrebbe bene, se ne ha una. I jeans vanno benissimo. Lasci stare il trucco. Appena un'ombra di rossetto. Jennifer è molto brava. Lei se la caverà benissimo.» «Sono Jennifer Carey. Come sta?» «Sto benissimo. La vedo al notiziario...» Lucas le guardò parlare mentre il cameraman di Jennifer, i due giornalisti e i due fotografi si guardavano attorno nello studio, incuriositi. Jennifer osservava attentamente il viso di Carla, valutando il suo viso e le sue reazioni, sorridendo, incoraggiandola a parlare. «Okay, ragazzi, state a sentire» disse alla fine Jennifer, rivolgendosi ai giornalisti. «Perché non facciamo così? A me serve il tempo per la ripresa, quindi perché non facciamo raccontare la storia a Carla per voi, mentre noi la filmiamo, e voi potete scattare le foto? Questo permetterà a Carla di riflettere su quello che vuole dire. Poi faremo la nostra intervista.» «Io voglio restare durante la tua intervista» disse il cronista dello StarTribune. Il giornalista del Pioneer Press annuì.
«Non c'è problema, ma niente interruzioni.» Lucas rimase a guardare mentre i due giornalisti facevano raccontare a Carla la sua storia. Lei si rilassò sotto quell'attenzione amichevole, diventando quasi effervescente nel raccontare come l'assassino era fuggito per salvarsi. Dopo un quarto d'ora Lucas chiese una pausa. «Dobbiamo cominciare la conferenza stampa alle nove» ricordò a Jennifer. «È meglio che cominci.» «Vorremmo che lei ripercorresse lo stesso itinerario, per mostrarci in che punto l'uomo l'ha afferrata e cosa è successo da quel momento in poi. Ce ne serviremo per le foto» spiegò uno dei fotografi dei quotidiani. Carla ricreò la scena, partendo dalla porta, la pantomima di una donna che torna con la spesa e poi viene aggredita all'improvviso. Mentre si muoveva, sempre più animata, i fotografi le danzavano intorno, con i flash che balenavano come lampi. Quando ebbero finito, Jennifer gliela fece rivivere di nuovo, recitando la parte dell'aggressore. Fatto questo, le due donne si sedettero a chiacchierare, mentre il cameraman le riprendeva ciascuna di fronte, facendo primi piani sul viso. «Okay. C'è qualcosa che abbiamo dimenticato?» domandò Jennifer. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Non credo» rispose Carla. «Avete finito, ragazzi?» chiese agli altri cronisti. Annuirono tutti e due. «Va bene, io chiudo bottega» annunciò Lucas. «Nessuno torni indietro per un'ultima parola. Se vi viene in mente qualcosa che dovete sapere, fatevela dire dai vostri colleghi alla conferenza stampa. D'accordo? Tutti soddisfatti?» Cinque minuti dopo li accompagnò alla porta. «Che ne pensa?» chiese a Carla dopo che furono usciti. «È stato interessante» rispose lei, con gli occhi scintillanti. «Sì, be', la conferenza stampa sarà diversa. Molte domande rapidissime, forse cattive. Non accenni a questa intervista o le altre stazioni andranno su tutte le furie. Quando vedranno TV3, vogliamo che lei sia irreperibile.» Mentre si trasferivano alla conferenza stampa, Carla disse: «Da quanto tempo conosce Jennifer Carey?» Lui le lanciò un'occhiata in tralice. «Anni. Perché?» «È entrata nel suo spazio. E lei non ci ha badato. Questo di solito implica... intimità a un certo livello.» «Siamo amici dà molto tempo» disse Lucas in tono neutro.
«È andato a letto con lei?» «Non ci conosciamo abbastanza da parlare di questo genere di argomenti.» «A me sembra un grosso sì» disse lei. «Cristo.» «Uhm.» La conferenza stampa fu breve, chiassosa e verso la fine cattiva. Il capo prese la parola dopo Carla. «Avete dei sospetti?» gridò un giornalista. «Stiamo seguendo tutte le piste...» «Questo significa no» gridò il giornalista. «No, non è così» ribatté Daniel. Lucas fece una smorfia. «Allora avete un sospetto» esclamò una donna. «Non ho detto questo.» «Vuole dirci che cosa intende? In poche parole?» Un'ora dopo la conferenza stampa, mentre sfrecciavano a nord sull'interstatale 35 a bordo della Porsche di Lucas, Carla era ancora sovreccitata. «E così avrà i nastri dell'intervista di Jennifer?» «Sì, il videoregistratore era programmato. Potrà guardarli quando tornerà.» «Certo che è andato tutto a rotoli, dopo che il capo ha dato del cretino a quel tipo» osservò Carla. Lucas rise. «Mi è piaciuto. Quel tipo era cretino. Ma è servito anche a calmare Daniel. È un bene. Starà più attento.» «E lei non ha intenzione di parlarmi del sospetto?» «No.» Ci vollero tre ore di viaggio per raggiungere il rifugio di Lucas. Fecero una sosta in un emporio per comprare delle provviste e Lucas si fermò un momento a parlare di pesca col proprietario. «Due grossi, la settimana scorsa» disse il negoziante. «Grossi quanto?» «Conosce Henning, il medico, quello che va a pesca con la tirlindana? Ne ha preso uno lungo un metro e venti al largo dell'isola grande, in mezzo a quella vegetazione. Ha calcolato che pesava 16 chili. Poi un tizio dalla parte opposta del lago, un turista di Chicago, credo che stesse pescando nelle acque di Wilson, ne ha catturato uno di 14 chili.»
«Henning lo ha rimesso in acqua?» «Sì. Dice che non ne terrà nessuno a meno che non ci sia la possibilità che arrivi a venti chili.» «Potrebbe aspettare a lungo. Non sono molti, nei boschi settentrionali, quelli che possono vantarsi di avere appesa al muro una preda da venti chili.» «È bellissimo» disse Carla, guardando il lago. «La luna lassù non guasta. È quasi imbarazzante. Sembra la pubblicità di una birra.» «È bellissimo» ripeté lei. Rientrò nel rifugio. «Quale camera da letto devo prendere?» Lui le indicò l'angolo. «Quella grande. Tanto vale prendere quella, dato che io non sarò qui. In garage c'è una bicicletta, ci sono 800 metri da qui all'emporio, cinque chilometri fino in città. Giù alla darsena c'è una barca. Ha mai guidato un fuoribordo?» «Certo. Andavo al nord con mio marito tutte le estati. Una cosa che sapeva fare era pescare.» «Ci sono cinque o sei canne da pesca in una rastrelliera sul portico e un paio di cassette di esche sotto il dondolo, se vuole provare a pescare un po'. Se si spinge al largo di quella punta laggiù, ai margini del banco di vegetazione, potrà prendere qualche pesce gatto del nord.» «Okay. Torna indietro subito?» «Fra un po'. Metto i viveri nel frigorifero e poi mi prenderò una birra e mi siederò sul portico.» «Io vado a cambiarmi, a fare una doccia» disse Carla. Lucas sedette sul divanetto a dondolo e lo fece oscillare dolcemente, puntando i piedi contro il basso davanzale della finestra, sotto la rete. Le notti stavano diventando più fresche e c'era vento sufficiente per portargli la fragranza e il suono dei pini. Un procione passò sotto la luce del cortile di una casa vicina, dirigendosi verso i bidoni della spazzatura. Dalla parte opposta, verso il lago, una donna rise e si sentì uno scroscio d'acqua. Dalla capanna di tronchi alle sue spalle, la doccia smise di scorrere. Pochi minuti dopo, Carla uscì sul portico. «Vuole un'altra birra?» «Mmm. Sì. Un'altra.» «Vado a prenderla.»
Lei indossava un accappatoio di cotone rosa e sandali di gomma per la doccia. Gli portò una Schmidt e gliela porse, si sedette vicino a lui sul dondolo e ripiegò le gambe sotto di sé. Aveva i capelli bagnati e le gocce d'acqua scintillavano come diamanti alla luce indiretta delle finestre. «Fa un po' fresco, adesso» osservò. «Viene mai quassù d'inverno?» «Vengo qui ogni volta che ne ho la possibilità. D'inverno vengo a sciare di fondo. Ci sono piste dappertutto. Si può sciare per chilometri e chilometri.» «Sembra magnifico.» «È invitata» disse prontamente Lucas. Mentre parlavano sentiva il calore che si sprigionava da lei, dopo la doccia. «Sente freddo?» «Non ancora. Forse tra qualche minuto. Per ora è una sensazione di freschezza.» Lei si voltò e si appoggiò all'indietro, con la testa sulla spalla di lui. «Sembra strano che un poliziotto possieda una casa come questa. Voglio dire, un poliziotto della Narcotici con la Porsche.» «Ordini del medico. Ero arrivato al punto che non facevo altro che lavorare» spiegò Lucas. Le passò un braccio dietro la spalla. «Restavo per le strade tutto il giorno e a volte metà della notte, poi tornavo a casa e lavoravo ai miei giochi. Ero diventato così teso da non riuscire a dormire nemmeno quando ero tanto stanco che non mi reggevo in piedi. Così andai a farmi visitare dal medico. Pensavo di dover prendere dei tranquillanti legali, e lui mi disse invece che quello di cui avevo bisogno era un posto per non lavorare. Quassù non lavoro mai. Non per guadagnare, voglio dire. Spacco la legna, sistemo il garage, lavoro alla darsena, roba del genere. Ma non faccio lavori redditizi.» «Sai una cosa?» disse Carla. «Cosa?» «Sotto questo accappatoio non ho niente addosso.» Lei ridacchiò, una risatina alticcia. «Dio. Tutta nuda, eh?» «Sì. Ho pensato, perché no?» «Allora posso considerarlo un invito ufficiale?» «Preferisci di no?» «No, no, no no no.» Lui si protese in avanti per baciarla sulla mascella, proprio sotto l'orecchio. «Stavo cercando disperatamente di calcolare le chances. Mi ero comportato così bene che mi sembrava un po' grossolano
cominciare tutto d'un tratto a fare avances.» «È per questo che ho deciso di farmi avanti io» ribatté Carla. «Perché non mi saltavi addosso come certi individui.» Molto più tardi, durante la notte, lei disse: «Devo dormire. Comincio proprio a sentire il peso della giornata.» «Soltanto una cosa» disse lui nel buio. «Quando abbiamo ricostruito la scena su nel tuo appartamento, la prima volta che ti ho interrogato, hai detto che il tizio che ti aveva aggredito sembrava più molle di me. Lo pensi ancora?» Lei rimase in silenzio per un attimo, poi rispose: «Sì. Ho la netta impressione che fosse un po'... non grasso, ma flaccido. Che ci fosse del grasso sotto la pelle e che non fosse poi così muscoloso. Voglio dire, era molto più forte di me, ma io peso poco più di 50 chili. Non credo che sia un duro.» «Merda.» «Ha importanza?» «Forse. Io temo che potrebbe averne.» La mattina dopo di buon'ora, Lucas raggiunse la sua auto, frugò sotto il sedile e recuperò una rivoltella Charter Arms calibro 38 Special in una fondina di nylon nero e due scatole di cartucce. Le portò in casa. «Che cos'è?» domandò Carla quando la portò dentro. «Una pistola. Pensavi di averne bisogno.» «Mmm.» Carla chiuse un occhio e lo scrutò con l'altro. «L'hai portata con te, ma non l'hai tirata fuori ieri sera. Questo lascia capire che prevedevi di trattenerti.» «Un argomento che non merita ulteriori discussioni» dichiarò Lucas con un largo sorriso. «Mettiti le scarpe. Facciamo un'escursione.» Si addentrarono nei boschi dalla parte opposta della strada, seguirono uno stretto torrentello guadabile con un salto, che alla fine si trasformò in un lungo acquitrino, poi imboccarono una gola che conduceva alla base di una ripida collina. Sbucarono su un pianoro erboso di fronte al banco intagliato creato da un torrente. «Spareremo nel banco di sabbia» annunciò Lucas. «Cominceremo da tre metri e arretreremo fino a sei.» «Perché così vicino?» «Perché se sei più lontana, ti conviene scappare o chiamare aiuto. Spara-
re serve in caso di disperazione a distanza ravvicinata» rispose Lucas. Si guardò attorno e accennò a un tronco abbattuto. «Parliamone un momento.» Sedettero sul tronco e Lucas smontò la pistola, illustrò la funzione di ogni pezzo e come caricarla e scaricarla. Stava inserendo le cartucce di ottone nel cilindro quando sentirono un chiacchierio in alto. Lucas alzò la testa e vide lo scoiattolo rosso. «Okay» sussurrò. «Ora guarda qui.» Si girò lentamente facendo perno sul tronco e sollevò la pistola verso lo scoiattolo. «Che hai intenzione di fare?» «Dimostrarti cosa può fare una calibro 38 a un essere vivente» ribatté Lucas, gli occhi fissi sullo scoiattolo. L'animale era seminascosto da un grosso ramo di un abete rosso, ma di tanto in tanto scopriva il corpo intero. «Perché? Perché vuoi ucciderlo?» Carla aveva gli occhi dilatati, il viso pallido. «Non si può capire che effetto fa veramente un proiettile finché non lo si vede. Devi mettere le dita nelle ferite. Come l'incredulo Tommaso, sai?» «Ehi, non farlo» ordinò lei. «Avanti, Lucas.» Lucas puntò l'arma contro lo scoiattolo, con tutt'e due gli occhi aperti, in attesa. «Colpisci quel piccolo bastardo dritto in mezzo agli occhi, e non sente niente...» «Lucas...» La voce di Carla divenne stridula, e la donna gli afferrò con forza il braccio armato, abbassandolo. Era inorridita. «Sembri inorridita.» «Dio Cristo, lo scoiattolo non ha fatto niente...» «Sei spaventata?» Lei lasciò andare il braccio e si calmò. «Questa è una specie di lezione?» «Sì» rispose Lucas, voltando le spalle allo scoiattolo. «Aggrappati alla sensazione che hai provato. L'hai provata per uno scoiattolo. Ora pensa a come sarebbe scaricare una .38 su un essere umano.» «Cristo, Lucas...» «Tu colpisci un uomo al torace, non al cuore, ma semplicemente al torace, e gli fai saltare i polmoni e lui resta lì disteso col sangue rosso vivo che sgorga dalla bocca, pieno di bollicine, e di solito gli occhi sembrano fatti di cera e a volte si dondola avanti e indietro e sta morendo e non c'è niente che qualcuno possa fare, tranne forse Dio...»
«Non voglio la pistola» disse lei all'improvviso. Lucas le mise l'arma sotto gli occhi. «Sono cose terribili» disse. «Ma c'è una cosa che lo è ancora di più.» «Quale?» «Quando sei tu lo scoiattolo.» Le insegnò gli elementi basilari del tiro a distanza ravvicinata, sparando contro rozze figure a grandezza naturale disegnate nella sabbia della riva. Dopo trenta colpi lei cominciò a colpire regolarmente il bersaglio. A cinquanta cominciò a torcere involontariamente il polso e a mandare a vuoto i colpi. «Stai torcendo il polso» le disse Lucas. Lei sparò di nuovo, ripetendo l'errore. «No, non è vero.» «Io lo vedo.» «Io no.» Lucas estrasse il cilindro, lo vuotò, mise tre proiettili in camere scelte a caso, e le restituì la pistola. «Spara un altro colpo.» Lei sparò ancora, con la torsione, mancando il bersaglio. «Ancora.» Questa volta il percussore colpì la camera vuota e non ci fu lo sparo, ma lei torse il polso facendo deviare la pistola. «Questa si chiama torsione» disse Lucas. Lavorarono per un'altra ora, interrompendosi a intervalli di qualche minuto per parlare di sicurezza, di come nascondere la pistola nello studio, di tiro da combattimento. «Ci vuole molto per diventare un tiratore veramente abile» le spiegò Lucas mentre lei guardava l'arma che teneva in mano. «Non stiamo cercando di insegnarti questo. Quello che devi imparare è colpire il bersaglio con sufficiente sicurezza a distanza di tre e di sei metri. Questo non dovrebbe essere un problema. Se mai ti trovassi in una situazione in cui devi sparare a qualcuno, punta la pistola e continua a premere il grilletto finché non smette di sparare. Dimentica le regole o l'eccesso di legittima difesa o roba del genere. Continua solo a premere.» Spararono 95 dei cento colpi prima che Lucas decidesse di smettere e le consegnasse l'arma, caricata con gli ultimi cinque proiettili. «Così ora avrai una pistola carica in casa» disse, consegnandola a lei. «Portala con te, mettila dove pensi sia meglio. Scoprirai che è una specie di peso. È la consapevolezza che c'è un pezzetto di morte in casa.»
«Avrò bisogno di fare ancora esercizio» disse lei semplicemente, soppesando la pistola. «In macchina ho altri trecento proiettili. Vieni qui tutti i giorni, spara da 25 a 50 colpi. Controllati per evitare la torsione. Devi prenderci la mano.» «Ora che ce l'ho, mi rende più nervosa di quanto avrei immaginato» disse Carla mentre tornavano al rifugio. «Ma nello stesso tempo...» «Cosa?» «Tenerla in mano mi dà una sensazione piacevole» disse lei. «È come un pennello o qualcosa del genere.» «Le armi sono strumenti straordinari» disse Lucas. «Incredibilmente efficienti. Molto precisi. È un piacere usarli, come una Leica o una Porsche. Un piacere legittimo. È un peccato che per realizzare il loro scopo si debba uccidere qualcuno.» «Che bel pensiero» disse Carla. Lucas si strinse nelle spalle. «Anche le spade dei samurai sono così. Sono opere d'arte complete soltanto quando uccidono. Al nostro mondo non è certo una novità.» Quando attraversarono la strada per tornare a casa, lei domandò: «Devi andare?» «Sì. C'è un gioco.» «Questo non lo capisco» disse lei. «I giochi.» «Io nemmeno» ribatté Lucas, ridendo. Se la prese comoda per tornare nelle Città Gemelle, godendosi il paesaggio, deciso a non pensare al predatore. Arrivò dopo le sei, passò dall'ufficio di Anderson, scoprì che era tornato a casa per la sera. «Sloan è ancora in giro, chissà dove» disse il comandante di turno. «Ma nessuno mi ha detto di fare attenzione a qualcosa di speciale.» Lucas se ne andò, si cambiò d'abito a casa, si fermò in un ristorante della Grand Avenue a Saint Paul, cenò e arrivò senza fretta a St. Anne. «Ah, ecco Longstreet, lento come al solito» lo salutò Elle. Anche nel ruolo del generale Robert E. Lee, portava l'abito dell'ordine, scuro e frusciante sotto le luci della sala. Un'altra suora, che indossava normali abiti da passeggio e impersonava il ruolo del generale George Pickett, stava scorrendo una pila di fogli di spostamenti di truppe. L'avvocato, il maggior generale George Gordon Meade, comandante in capo degli eserciti dell'Unione, e l'allibratore, il comandante della cavalleria John Buford, stavano studiando le loro posizioni sulla mappa. Uno studente universitario, che
nel gioco rivestiva il ruolo del generale John Reynolds, stava inserendo dati nel computer. Alzò la testa per salutare con un cenno quando Lucas entrò. Il droghiere, Jeb Stuart, non era ancora arrivato. «A proposito del gioco» disse l'allibratore a Lucas «deve fare qualcosa per Stuart. Forse scartarlo come personaggio attivo. Non fa che restare isolato, e quando scambia messaggi con Lee scombina tutto.» Lucas si rilassò e cominciò a discutere. Era nel suo elemento. Il droghiere arrivò dieci minuti dopo, scusandosi per il ritardo, e cominciarono. La battaglia volgeva al peggio per l'Unione. Stuart stava rimandando gli esploratori verso il grosso delle forze, quindi Lee capì che erano in arrivo le giubbe blu. Concentrò le truppe a Gettysburgh più in fretta di quanto fosse accaduto nella realtà storica, e la divisione di Pickett - marciando per prima anziché per ultima - spazzò via la cavalleria di Buford, fece irruzione nella città e conquistò Culp's Hill e l'estremità settentrionale di Cemetery Ridge. A quel punto smisero. Quella sera tardi, mentre erano seduti intorno al tavolo discutendo delle mosse della giornata, l'avvocato sollevò l'argomento del predatore. «Che sta succedendo con questo tizio?» domandò. «È in cerca di un cliente?» chiese Lucas. «No, a meno che non abbia un mucchio di dollari» ribatté l'avvocato. «Questo è il genere di caso che appesta l'intero Stato. Ma è interessante. Potrebbe essere un osso duro per voi, in effetti, a meno che non lo prendiate in flagrante. Ma quello che lo tirerà fuori... puzzerà di avvoltoio.» «Alcune delle persone che partecipano a questo gioco hanno notato un odore come di avvoltoio» commentò il droghiere. Si sentiva espansivo. Stava riabilitando il vecchio J.E.B. Stuart, facendone di nuovo un eroe. L'avvocato fece roteare gli occhi. «Allora, che sta succedendo?» chiese a Lucas. «Lo prenderete?» «Non facciamo grandi progressi» rispose Lucas, prendendo un trancio di pizza fredda da una scatola unta. «Che si fa con un pazzo da legare? Non c'è modo di individuarlo. La sua mente non funziona come quella di un uomo qualsiasi. Non lo fa per denaro. Non lo fa per droga, o per vendetta, o per impulso. Lo fa perché gli piace. Se la prende comoda. Potrebbe non essere del tutto casuale... abbiamo individuato alcuni schemi... ma ai fini pratici non servono granché. Come il fatto che aggredisce donne brune. Saranno forse soltanto il trenta o il quaranta per cento delle donne delle due città, il che suona promettente finché non ci pensi. Quando ci pensi ti
accorgi che, anche eliminando le vecchie e le bambine, stai parlando di qualcosa come 250 mila possibilità brune?» L'allibratore e il droghiere annuirono. L'altra suora e lo studente mangiavano la pizza. Elle, che stava tormentando il lungo rosario che le pendeva sul fianco, disse: «Forse potresti indurlo a venire da te.» Lucas la guardò. «Come?» «Non so. Lui si fissa sulle persone e conosciamo il tipo. Ma se metti avanti un'esca femminile, come puoi sapere anche solo se lo vedrebbe? Questo è il problema. Se riuscissi a mettergli davanti un'esca, forse potresti spingerlo a un'aggressione sotto i tuoi occhi.» «Lei ha una mente perversa, sorella» osservò l'allibratore. «È un brutto problema» ammise lei. «Ma...» «Che cosa?» L'avvocato la stava guardando con un sorrisetto sulle labbra. «Interessante» completò lei. «Daniel ti sta dando la caccia.» Anderson sembrava affaticato, e si tormentava i radi capelli biondi mentre varcava la soglia dell'ufficio di Lucas. Lui era appena arrivato ed era in piedi, con le chiavi che gli tintinnavano in mano. «Qualche sviluppo?» «Potremmo richiedere un mandato.» «Per Smithe?» «Sì. Sloan ha passato la notte a frugare nella sua spazzatura. Ha trovato degli involucri di preservativi che usano lo stesso tipo di lubrificante riscontrato sulle donne. E hanno trovato un fascio di inviti a mostre d'arte. Il presupposto è che conosca effettivamente questa Ruiz.» «Parlerò al capo.» «Si può sapere dov'era?» chiese Daniel. «Nel mio rifugio in montagna. Ho nascosto Carla Ruiz lassù» rispose Lucas. Daniel fece schioccare le dita, ricordando. «È vero. Diavolo, non sapevo che venisse con lei. Come mai il rifugio?» Lucas scrollò le spalle. «Era disposta a concedere l'intervista soltanto se poi avessimo potuto allontanarla. Mi è sembrato più semplice fare così che indurre l'amministrazione comunale a ospitarla in albergo.» Daniel socchiuse gli occhi, poi rivolse a Lucas un lievissimo cenno della testa. «E quanto ci vuole, tre ore di viaggio, per arrivare lassù?» «Sì.»
«Okay. Dovremo farcela tornare. Vogliamo che le mostri una serie di fotografie, per vedere se riesce a identificare Smithe. Prenda l'elicottero.» «Anderson diceva che lei vuol chiedere un mandato» disse Lucas. «Forse. Una volta accertato cosa dovevamo cercare, abbiamo incaricato Sloan di esaminare i rifiuti uno per uno. Come previsto, ha trovato degli involucri di quei preservativi Share. Quindi lo abbiamo collegato a Rice, sappiamo che è stato alle stesse mostre d'arte della Ruiz, e può benissimo aver visto la Lewis. Quanto alla ragazza punk, frequentava i locali dalle parti di Hennepin, mescolandosi con le checche per le strade, lui potrebbe averla conosciuta per caso lì. E abbiamo il lubrificante, e l'opportunità di conoscere le donne qui ih tribunale. Ed è culo. A seconda di quello che otterrà lei, potremmo decidere di muoverci. Abbiamo Laushaus pronto a firmare tutto quello che ci serve.» «Potremmo trovare venti individui che corrispondono allo stesso schema.» «Qual è il problema, Davenport?» chiese Daniel esasperato. «Ha arrestato altri in base a un decimo di quello che abbiamo in mano stavolta.» «Certo. Ma sapevo che era giusto. Questa volta potremmo sbagliarci. Non abbiamo altro che elementi facili, e nient'altro. Io penso che sia un maniaco dell'esercizio fisico; la Ruiz dice che l'aggressore era flaccido. Quest'uomo è originario del Minnesota; la Ruiz dice che ha l'accento del sud-ovest e dice che il tizio portava scarpe Nike Air: lui non aveva nessun paio di Nike Air nell'armadio. Otto paia di scarpe, ma niente Nike Air.» «C'è il preservativo.» «Quello è l'unico dato concreto, e non è decisivo.» «S'intende di armi.» «Non di pistole. Non c'era una pistola in tutta la casa.» «Senta, vada lassù con le foto» disse Daniel. «Ne hanno un pacchetto pronto per lei giù al laboratorio.» «Presenterà lei la richiesta di mandato? Oppure lascerà fare alla Omicidi?» «Ci sono dentro fino al collo» ribatté Daniel. «Non vorrei scaricare la responsabilità sulle spalle di qualcun altro.» «Lasci presentare la richiesta dalla Omicidi» insistette Lucas. «Faranno quello che vuole lei, ma potrà sempre cambiare idea se si presenterà un problema. E un'altra cosa. Forse dovrebbe suggerire che si tengano il mandato in tasca. Convochi l'uomo, gli procuri un avvocato, gli dica che ha il mandato e poi, se può presentare un elemento qualsiasi che raffreddi il ca-
so, lei si limita a stracciare il mandato e stringergli la mano.» «Potrebbe non accettare.» «Amico, ho proprio un brutto presentimento su questo caso.» «Qui c'è gente che viene uccisa» ribatté Daniel. «E se abbiamo ragione e lo lasciamo andare e lui ne fa fuori un'altra?» «Gli metta intorno una rete più stretta. Se ci prova, lo avremo in pugno.» «E se aspetta tre settimane? Ha visto la televisione? È come l'ayatollah con gli ostaggi. "Il quindicesimo giorno del regno di terrore del predatore". Ci siamo quasi.» «Dannazione, capo...» Daniel lo congedò con un cenno. «Ci penserò. Lei vada lassù e mostri le foto alla Ruiz. Poi, chiami per riferire.» Lucas tentò di chiamare Carla dalla stazione di polizia e dall'aeroporto, ma non ebbe risposta. «Trovata?» chiese il pilota. «No. La troverò quando arriveremo lassù.» L'elicottero ridusse la durata del viaggio fino al rifugio a meno di un'ora, sorvolando le foreste di latifoglie dalle infinite sfumature di colore e la zona di transizione al verde cupo dei boschi settentrionali. Il pilota fece posare l'apparecchio vicino a un incrocio stradale a trecento metri di distanza dal rifugio, e lui e Lucas lo raggiunsero a piedi con le buste piene di fotografie. Carla era in attesa sul portico posteriore. «Ero fuori in barca e ho sentito l'elicottero. Non mi è venuto in mente nessun altro da cui potesse andare. Che cosa è successo?» Spostava lo sguardo dall'uno all'altro, incuriosita. «Vogliamo farti vedere alcune foto» spiegò Lucas mentre entravano in casa. Indicò il pilota. «Questo è Tony Rubella. Pilota l'elicottero, ma è un poliziotto anche lui. Devo registrare l'interrogatorio.» Lucas posò il registratore sul tavolo, fece una prova del suono, riavvolse la cassetta e ascoltò finché non fu ben certo che funzionava. Poi la fece ripartire e lesse ora, data e luogo. «Conduce l'interrogatorio Lucas Davenport, tenente del Dipartimento di polizia di Minneapolis, insieme all'agente Anthony Rubella, del Dipartimento di polizia di Minneapolis. L'interrogata è la signorina Carla Ruiz di Saint Paul. Carla Ruiz è nota al tenente Davenport come vittima di un'aggressione nella sua abitazione da parte di un uomo che si ritiene abbia commesso una serie di omicidi nella città di Minneapolis. Mostreremo alla
signorina Ruiz un gruppo di foto di 12 uomini e le chiederemo se ne riconosce qualcuno.» Lucas rovesciò sul tavolo una dozzina di fotografie, tutte di uomini giovani, tutte scattate per la strada, tutte vagamente simili per aspetto, taglia e abbigliamento. Undici di loro erano agenti o dipendenti civili del Dipartimento di polizia. Il dodicesimo era Smithe. Lucas le dispose in fila e Carla si piegò in avanti per studiare le facce. «Conosco sicuramente questo tizio» disse, battendo un dito sulla fotografia di uno degli agenti. «È un poliziotto. Nel tempo libero lavora come sorvegliante in quella drogheria in fondo a Nicollet.» «Bene» disse Lucas a beneficio del registratore. «La signorina Ruiz ha identificato in una foto un uomo che conosce e dice che ritiene si tratti di un agente di polizia. I dati in nostro possesso indicano che è un agente di polizia. Ora chiederò alla signorina Ruiz di voltare la fotografia, contrassegnarla con la lettera A e firmare con il nome e la data. Signorina Ruiz, vuole farlo adesso?» Carla firmò la foto e tornò a dedicarsi alla serie. «Quest'uomo mi sembra familiare» disse, battendo sulla foto di Smithe. «L'ho visto nell'ambiente artistico, sapete, inaugurazioni, ricevimenti, occasioni del genere. Non so perché, ma mi sono fatta l'idea che sia omosessuale. Penso che forse ci hanno presentati.» «Okay. Ne è sicura?» «Abbastanza.» «Bene. La signorina Ruiz ha appena riconosciuto la fotografia di Jimmy Smithe. Chiederò alla signorina Ruiz di contrassegnare la foto sul retro con una B maiuscola e di firmarla con nome e data.» Carla firmò la seconda foto e Lucas le chiese di guardare di nuovo la serie di foto. «Non vedo nessun altro» disse lei alla fine. «Ora mostrerò alla signorina Ruiz altre fotografie di Jimmy Smithe e le chiederò se conferma l'identificazione nella serie disposta a caso.» Carla guardò il secondo gruppo di foto e annuì. «Sì. Lo conosco.» «La signorina Ruiz ha confermato di conoscere il sospetto, Jimmy Smithe. Ha inoltre aggiunto dei dettagli, per esempio che lo ritiene omosessuale e che lui frequenta gallerie d'arte e che può darsi che siano stati presentati. Signorina Ruiz, le viene in mente qualcos'altro di notevole riguardo al signor Smithe?»
«No, no, in realtà non lo conosco. Lo ricordo perché è carino e ho avuto l'impressione che sia intelligente.» «D'accordo. Nient'altro?» «No.» «Bene. Questo conclude l'interrogatorio. Grazie, signorina Ruiz.» Lui premette il pulsante del nastro, lo riavvolse, lo ascoltò, poi tolse la cassetta dal registratore, la ripose nella custodia protettiva e se la fece scivolare in tasca. «E adesso?» chiese Carla. «Devo usare il telefono» ribatté Lucas. Chiamò direttamente il capo. «Davenport? Che c'è?» «Lo conosce» disse Lucas. «Lo ha individuato senza problemi.» «Andiamo a prenderlo.» «Ascolti, farà a modo mio?» «Non so se sarà possibile, Lucas. I media hanno fiutato il marcio.» «Chi?» «Don Kennedy di TV3.» «Merda.» Kennedy e Jennifer erano stretti collaboratori. «Va bene, sarò di ritorno fra un'ora e mezza. Quando lo arresterete?» «Stavamo aspettando la sua chiamata. Abbiamo qui un paio di uomini e prenderemo degli agenti di custodia. Lui sta lavorando alla sua scrivania nella sede della contea. Ci presenteremo semplicemente per arrestarlo.» «Chi ha presentato la richiesta? Per ottenere il mandato?» Ci fu una pausa. Poi: «Lester.» «Magnifico. Si attenga a questa linea.» Daniel attaccò e Lucas si rivolse a Rubella. «Tieni pronto l'elicottero. Dobbiamo tornare indietro in fretta.» Quando Rubella fu uscito, lui prese le mani di Carla. «Hanno montato un'accusa contro questo individuo, ma a me non piace. Penso che stiano commettendo un errore. Quindi sta' calma, d'accordo? Guarda il notiziario alla televisione. Io chiamerò tutte le sere. Cercherò di tornare quassù fra un paio di giorni, se la situazione sbollirà.» «Okay» disse lei. «Fa' attenzione.» Lui la baciò sulle labbra e si avviò di corsa lungo il sentiero polveroso per raggiungere Rubella. Il volo di ritorno fino alle Città Gemelle e il tragitto in macchina dall'aeroporto richiesero due ore. Quando Lucas arrivò, Anderson era seduto alla scrivania, con i piedi in alto. Fissava distrattamente un calendario a muro.
«Dove lo tenete?» domandò Lucas. «Giù nella stanza degli interrogatori.» «C'è il suo avvocato?» «Sì. Quello potrebbe essere un problema.» «Perché mai?» «Perché è quel figlio di puttana di McCarthy» rispose Anderson. «Accidenti.» Lucas si passò le mani fra i capelli. «Il solito bullo?» «Sì. Piccola testa di cazzo.» «Vado giù.» «C'è il capo.» «Non riusciamo a cavargli niente.» Daniel era appoggiato alla parete fuori della stanza degli interrogatori. «Quel faccia di merda di McCarthy non gli lascia dire una parola.» «Fiuta un buon incarico» disse Lucas. «Se questo caso finisce in aula e lui tira fuori Smithe, potrà lasciare la contea e fare sul serio un po' di grana con la libera professione.» «Allora cosa ha intenzione di fare?» chiese Daniel. «Farò il buono. Un vero angioletto. E poi andrò su tutte le furie e screditerò McCarthy.» «Non troppo. Potrebbe compromettere la nostra posizione.» «Voglio solo piantare il seme del dubbio.» Daniel strinse le spalle. «Tanto vale tentare.» Lucas si tolse la giacca, allentò la cravatta e si scompigliò i capelli, tirò un respiro profondo ed entrò dalla porta di slancio. Gli agenti incaricati dell'interrogatorio, l'avvocato e Smithe erano seduti intorno a un tavolo e alzarono la testa, sorpresi. «Cristo. Chiedo scusa, avevo paura di non trovarvi» disse Lucas. Abbassò gli occhi su McCarthy. «Salve, Del. Si occupa lei di questo caso, immagino?» «Secondo lei il papa va a cagare nei boschi?» McCarthy era un uomo basso di statura, con un completo marrone pieno di borse. I capelli color sciacquatura di piatti si gonfiavano intorno alla testa in un'acconciatura stile afro, e le basette scendevano ai lati del viso squadrato. «Un orso è forse cattolico?» «Giusto.» Lucas guardò gli agenti incaricati dell'interrogatorio. «Ho l'autorizzazione di Daniel. Vi spiace se faccio qualche domanda?» «Fa' pure, non stiamo cavando un ragno dal buco» rispose l'agente più
anziano, facendo roteare un fondo oleoso di caffè freddo in un bicchiere di plastica. Lucas annuì e si rivolse a Smithe. «Glielo dico subito, sono stato uno degli agenti che ha interrogato la superstite della terza aggressione. Non credo che sia stato lei.» «È la solita scena del poliziotto buono, Davenport?» chiese McCarthy, inclinando la sedia all'indietro e sogghignando divertito. «No, non è così.» Lui puntò un dito su Smithe. «Quella era la prima cosa che volevo dirle. La seconda è che ho intenzione di parlare per qualche minuto. A un certo punto, McCarthy qui potrebbe dirle di non ascoltare più. Sarà meglio che non...» «Ehi, aspetti un momento» esclamò McCarthy, riportando le gambe della sedia a terra con un tonfo. Lucas gli diede sulla voce. «...perché come può nuocerle ascoltare, se non ammette niente? E le priorità del suo avvocato non sono necessariamente le sue.» McCarthy si alzò in piedi. «Questo è troppo. Esigo che smetta.» «Io voglio sentirlo» disse inaspettatamente Smithe. «Le consiglio...» «Voglio sentirlo» ripeté Smithe. Indicò con la testa McCarthy, continuando a guardare Lucas. «Per quale motivo le sue priorità non sono le mie?» «Non voglio mettere in dubbio l'etica personale dell'avvocato» rispose Lucas «ma se questo caso finisce in aula, sarà uno dei grandi processi del decennio. Non abbiamo pluriomicidi qui nel Minnesota. Se la tira fuori di galera, si sarà fatto un nome. Lei, d'altro canto, ne uscirà completamente distrutto, qualunque cosa accada. È un peccato, ma così vanno le cose. Lei ha bazzicato il tribunale abbastanza a lungo per capire di cosa parlo.» «Basta così» disse McCarthy. «Lei sta pregiudicando il caso.» «No, niente affatto. Sto soltanto pregiudicando il suo incarico. E non intendo parlarne oltre. Voglio solo...» McCarthy s'interpose fra Lucas e Smithe, voltando le spalle a Lucas, e si protese verso Smithe. «Stia a sentire. Se non vuole che la rappresenti, va bene. Ma in questo momento glielo dico come suo legale, è meglio per lei che non parli...» «Voglio ascoltare. Tutto qui» ribadì Smithe. «Lei può stare lì seduto e ascoltare con me oppure andare a farsi un giro, e io mi troverò un altro avvocato.»
McCarthy si raddrizzò e scosse la testa. «Io l'ho messa in guardia.» Lucas si spostò dove Smithe poteva di nuovo vederlo. «Se ha un alibi, soprattutto un buon alibi, per uno qualsiasi dei momenti in cui sono avvenuti gli omicidi, è meglio che lo tiri fuori adesso» disse Lucas in tono incalzante. «Questo è il mio messaggio. Se ha un alibi, può lasciarci arrivare al processo e magari umiliarci, ma dovrebbe affrontare un brutto periodo. Resterebbe sempre un'ombra. E ci sarebbe sempre una traccia sulla sua fedina legale. Viene fermato da un agente della stradale a New York e quello chiama il Centro informazioni sui Crimini nazionali, e riceve un foglio che dice che una volta lei è stato arrestato per una serie di omicidi. E poi c'è l'altra possibilità.» «Quale?» «Che sia condannato anche se è innocente. C'è sempre una buona probabilità che anche con un buon alibi la giuria la dichiari colpevole. Succede. Lei lo sa. La giuria pensa: che diavolo, se non era colpevole, la polizia non lo avrebbe arrestato. McCarthy, qui, glielo può confermare.» Smithe inclinò la testa di nuovo verso McCarthy. «Lui mi ha detto che se appena comincio a fornire degli alibi, voi sguinzagliate gli agenti per le strade nel tentativo di smantellarli.» Lucas si piegò sul tavolo degli interrogatori. «Ha perfettamente ragione. Lo faremo. E se non ci riusciremo, le garantisco che lei tornerà in circolazione e non ci saranno conseguenze. Nessuna. Lei non è stato ancora registrato. Non lo sarebbe mai. Ora come ora, abbiamo in mano carte abbastanza buone per arrestarla, e forse portarla in aula. Non so cosa le abbiano detto questi agenti, ma posso assicurarle che possiamo collegarla con due delle vittime e con un terzo individuo che ha un'importanza cruciale nel caso, e che esistono prove fisiche. Ma un buon alibi farebbe crollare tutto.» Smithe impallidì. «Non può essere. Prove fisiche. Voglio dire...» «Lei non sa di che si tratta» ribatté Lucas. «Ma le abbiamo. Ora, suggerisco che lei e il signor McCarthy andiate a confabulare in corridoio un paio di minuti e poi torniate qui.» «Sì, faremo così» disse McCarthy. Furono di ritorno cinque minuti dopo. «Abbiamo finito di parlare» annunciò McCarthy, con aria soddisfatta di sé. Lucas guardò Smithe. «Sta commettendo un grave errore.» «Lui ha detto...» cominciò Smithe, ma McCarthy lo afferrò per il braccio e scosse la testa.
«Lei sta facendo la parte del buono» disse McCarthy a Lucas. «Stando a quel che ha detto, ci sono soltanto due possibilità: non avete nessuna prova e volete disperatamente costruirne. Nel qual caso non lo registrerete. Oppure avete prove, nel qual caso Io registrerete qualsiasi cosa diciamo, e userete le sue dichiarazioni contro di lui.» «McCarthy, qualcuno fuori nel corridoio ha detto che lei è un testa di cazzo» disse Lucas in tono stanco. «Aveva ragione. Non riesce neppure a vedere la terza possibilità, che è quella per cui stiamo sudando sangue tutti quanti.» «Qual è?» «È che abbiamo un buon caso che ad alcuni di noi sembra cattivo. Vogliamo semplicemente sapere. Abbiamo accertato con una certa precisione l'ora esatta per due delle aggressioni, con molta precisione per la terza. Se il signor Smithe era fuori città, se stava parlando con i clienti, se è stato in ufficio tutto il giorno, sarebbe a posto. Come può nuocergli dircelo adesso, prima che lo registriamo...» «Lei ha semplicemente paura di registrarlo a causa di quello che succederebbe se vi sbagliaste.» «Cazzo, giustissimo. Il dipartimento farà una figura di merda. E Smithe, non incidentalmente, se lo troverebbe in culo, senza offesa.» «E questo che cazzo significa?» «Sa che sono omosessuale» intervenne Smithe. «Questa è un'osservazione pregiudiziale, se mai ne ho...» «Andate a cagare» sbottò uno degli agenti. «Non voglio più stare a sentire.» Uscì dalla stanza a grandi passi e un attimo dopo entrò Daniel. «Niente accordo?» chiese a Lucas. Lucas scrollò le spalle. «Niente accordo» disse McCarthy. «Portalo di sopra e registralo» disse Daniel all'agente rimasto. «Aspetti un momento» disse Smithe. «Registralo» ringhiò Daniel. Uscì dalla stanza come una furia. «Bel lavoro, McCarthy, ha appena costruito una croce per appenderci il suo cliente» commentò Lucas. McCarthy scoprì i denti in quello che non era certo un sorriso. «Vada a pisciare controvento» disse. Uscirono in gruppo: Smithe, McCarthy e il poliziotto incaricato dell'interrogatorio. Mentre uscivano, l'agente sì rivolse a Lucas.
«Sa che differenza c'è fra una puzzola morta sull'autostrada e un avvocato morto sull'autostrada?» «No, qual è?» McCarthy volse la testa. «Davanti alla puzzola ci sono segni di frenata» disse l'agente. Lucas rise e McCarthy scoprì di nuovo i denti. «Ma guardali laggiù, come pulci su un cane» osservò Anderson in tono tetro, esplorandosi le gengive con uno stuzzicadenti di plastica. Nella strada sottostante, cameramen della televisione, giornalisti e tecnici pullulavano come vespe intorno ai camion per la trasmissione a distanza, parcheggiati di fronte al municipio. «Già. Pare che Lester avrà tutti i letti occupati» disse Lucas. La testa di Jennifer spiccò per un istante sopra la folla, si diresse verso l'entrata sotto di loro. «Devo scappare» disse Lucas. La raggiunse appena entrata, nonostante le proteste la trascinò per i corridoi fino al suo ufficio, la spinse sulla sedia della scrivania e chiuse la porta. «Hai passato a Kennedy l'informazione sul gay. Mi avevi detto che non l'avresti fatto.» «Non l'ho informato io, Lucas, lo giuro su Dio.» «Cazzate, cazzate, cazzate» sbottò Lucas. «Vi date sempre una mano fra voi, ve l'ho già visto fare. Appena Daniel mi ha detto che Kennedy aveva l'informazione, ho capito che proveniva da te.» «E allora cosa hai intenzione di fare, Lucas? Eh?» Adesso era infuriata. «Lo faccio per vivere. Merda, non lo faccio mica per hobby.» «Bel modo di merda per guadagnarsi da vivere.» «Meglio che farsi arruolare come mercenario d'assalto.» Lucas serrò i pugni sui fianchi e si piegò vicino al viso di Jennifer. Lei non si tirò indietro nemmeno di un millimetro. «Lo sai cosa hai combinato, per fare una rivelazione giornalistica? Hai spinto il dipartimento a registrare un innocente, cosa che probabilmente lo ucciderà. Lavora nel dipartimento dell'assistenza pubblica, circondato da donne, e loro non avranno mai più fiducia in lui, comunque vada a finire. È sospetto, d'accordo, ma non credo che sia stato lui. Stavo cercando di convincerli ad andarci piano, ma la tua maledetta soffiata li ha spinti ad arrestarlo.» «Se non credono che sia stato lui, non dovrebbero arrestarlo.» Lucas si diede una manata sulla fronte. «Ma Cristo, tu pensi che sia
sempre così facile? Smithe potrebbe essere colpevole. O magari no. Potrei sbagliarmi sul suo conto, e se è così e se convincessi il dipartimento a lasciarlo andare, potrebbe tornare sulla strada e macellare qualche altra donna. Ma potrei avere ragione io e noi distruggeremo quell'uomo, mentre il vero assassino sta meditando di sventrare qualcun'altra. A noi serviva solo un po' di tempo, e tu hai origliato una conversazione privata in casa mia.» «E allora?» Lucas si calmò. «Devo prendere delle decisioni riguardo al fatto se sia opportuno continuare a parlarti.» «Non avevo veramente bisogno di sentire quella telefonata in casa tua» disse Jennifer. «L'avrei saputo comunque. Qui ho fonti che non t'immagini nemmeno. Non ho bisogno di te, Lucas. Potrei anche dirti di andare a prenderlo in culo.» «Correrò il rischio. Non posso ammettere lo spionaggio. Sto prendendo in considerazione, e ti faccio presente che ho detto in considerazione, l'idea di chiamare un avvocato e fargli telefonare al tuo direttore generale per dirgli in che modo hai ottenuto l'informazione e minacciarlo di denunciare la stazione per sottrazione di informazioni riservate.» «Lucas...» «Fuori di qui.» «Lucas...» Di colpo lei scoppiò in lacrime e Lucas indietreggiò di alcuni passi. «Mi spiace» disse, mortificato. «Non posso proprio... Jennifer... piantala, maledizione...» «Dio, sono un mostro, il trucco... Non potrò partecipare a questa conferenza stampa... Dio... posso usare il tuo telefono?» Si tamponò il viso con un fazzoletto di carta. «Voglio chiamare la stazione, avvertirli di farla seguire da Kathy Lettice. Dio, sono un tale disastro...» «Cristo, smettila, telefona pure» disse Lucas esasperato. Ancora tirando su col naso, lei sollevò il ricevitore e formò il numero. Appena risposero, la sua voce si schiarì improvvisamente. «Don? Jen. L'uomo si chiama Smithe e lavora per l'assistenza pubblica...» «Porca puttana, Jennifer!» gridò Lucas. Afferrò il telefono, glielo strappò di mano e lo sbatté sulla forcella. «Sono brava a piangere, vero?» E uscì dalla porta. «Davenport, Davenport» gemette Daniel. Si afferrò manciate di capelli alle tempie mentre guardava Jennifer concludere la trasmissione.
«...definito da alcuni l'agente più brillante del dipartimento, mi ha detto personalmente che non ritiene Smithe colpevole dei sensazionali omicidi e teme che l'arresto prematuro possa stroncare la promettente carriera di Smithe nel dipartimento dell'assistenza pubblica...» «Promettente carriera? La gente della TV non dovrebbe usare paroloni» borbottò Lucas. «E adesso?» domandò Daniel furioso. «Come diavolo ha potuto farmi questo?» «Non me ne sono accorto» rispose Lucas in tono mite. «Credevo che fosse una conversazione privata.» «Glielo avevo detto che con quella donna doveva seguire il cervello e non il cazzo» disse Daniel. «Cosa diavolo racconterò a Lester? Si è presentato davanti alla telecamere per esporre il caso e intanto alle sue spalle lei parlava a questa ragazza. Gli ha tolto il terreno sotto i piedi. Adesso, vorrà la sua testa.» «Gli dica che mi sospende. Che c'è di male? Due settimane. Poi presenterò appello alla commissione per il servizio civile. Anche se la commissione confermerà la sospensione, passeranno mesi. Dovremmo riuscire a tirare in lungo finché questa storia sarà conclusa, in un modo o nell'altro.» «Okay. Potrebbe andare.» Daniel annuì e poi rise in modo sgradevole, scuotendo la testa. «Cristo, sono contento di non essere io a trovarmi sui carboni ardenti. È meglio che esca di qui prima che arrivi Lester, o dovremo metterlo dentro per aggressione.» Alle due del mattino squillò il telefono. Lucas alzò la testa dal tavolo da disegno al quale stava lavorando su Everwhen, allungò la mano e sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Ancora incazzato?» chiese Jennifer. «Brutta puttana. Daniel vuole sospendermi. Concederò interviste a tutti tranne che a voi, potete andare a succhiare...» «Cattivo, cattivo...» Lucas sbatté il ricevitore sulla forcella. Un attimo dopo il telefono squillò di nuovo. Lui lo guardò come un cobra, poi rispose, incapace di resistere. «Arrivo» disse lei, e attaccò. Lucas fece per richiamarla, per dirle di non venire, ma si fermò con la mano sul ricevitore.
Jennifer indossava un giubbotto di cuoio nero, jeans, stivaletti neri e guanti da guida. La sua due posti giapponese era ferma nel vialetto come un fascio di muscoli di metallo rosso. Lucas aprì la porta interna e la salutò con un cenno della testa attraverso il vetro della porta esterna. «Posso entrare?» chiese lei. Invece delle solite lenti a contatto, portava occhiali con la montatura di filo dorato. Gli occhi sembravano grandi e liquidi dietro le lenti. «Certo» rispose lui goffamente, armeggiando con il paletto. «Sembri una regina dell'heavy metal.» «Grazie tante.» «Era un complimento.» Lei lo guardò, in cerca di sarcasmo, non ne trovò, si sfilò il giubbotto e si diresse verso il divano del soggiorno. «Vuoi un caffè?» chiese Lucas chiudendo la porta. «No, grazie.» «Birra?» «No, sto bene così. Tu fa' pure, se vuoi.» «Magari una birra.» Quando rientrò, Jennifer era raggomitolata su un divanetto a due posti, con il ginocchio sollevato sul cuscino accanto. Lucas sedette sul divano di fronte a lei, guardandola. Fra loro c'era un tavolino da caffè col piano di marmo. «E allora?» le disse, accennando un gesto con la bottiglia di birra. «Sono molto stanca» disse lei semplicemente. «Della storia? Del predatore? Di me?» «Della vita, penso» rispose Jennifer con aria triste. «Forse il bambino è stato un tentativo di reagire.» «Cristo.» «Quella scena con te oggi... Dio, non so. Tento di fare buon viso a cattivo gioco, sai? Bisogna essere svelti, bisogna essere duri, bisogna sorridere quando piovono legnate. Non puoi farti mettere i piedi addosso da nessuno. A volte mi sento come... ti ricordi quella piccola Chevrolet che avevo, quella piccola Nova che ho distrutto prima di comprare la Z?» «Sì?» «Ecco come mi sento il cuore, a volte. Tutto schiacciato. Come se ogni cosa fosse ancora al suo posto, ma tutta contorta. Schiacciata, stritolata.» «È quello che succede ai poliziotti.» «Non proprio. Non credo.» «Senti, mostrami un agente in servizio di pattuglia da dieci o 15 anni...»
Lei alzò una mano, interrompendolo. «Non sto dicendo che non sia duro e che non resti bruciato. Ai poliziotti succedono cose orribili. Ma ci sono momenti vuoti. Puoi prenderti delle pause. Io non ho mai tempo. Se il ritmo rallenta, Cristo, devo inventarmi delle storie. Tu mostrami una giornata fiacca, in cui un agente potrebbe girare al minimo, e io ti mostrerò una giornata in cui Jennifer Carey è fuori a intervistare una bambina che si è ustionata al viso due mesi fa o due anni fa perché dobbiamo trasmettere qualcosa alle sei del pomeriggio, o altro. E non abbiamo il tempo per pensarci. Lo facciamo e basta. Se sbagliamo, paghiamo dopo. Fallo subito e paga dopo. Quel che è peggio è che non esistono regole. Soltanto alla fine scopri se hai ragione o torto. A volte non lo scopri mai. E quello che un giorno è giusto, il giorno dopo è sbagliato.» S'interruppe e Lucas bevve un sorso di birra e la guardò. «Sai di cosa hai bisogno?» disse infine. «Di cosa? Di una buona scopata?» chiese lei sarcastica. «Non era quello che intendevo dire.» «Allora cosa?» «Quello che ti serve è lasciare il lavoro per un po', sposarti, trasferirti qui.» «Pensi che fare la casalinga sistemerà tutto?» Lei sembrava quasi divertita. «Io non ho detto casalinga. Lo hai detto tu. Volevo suggerirti di traslocare qui e non fare un cazzo di niente. Seguire un corso. Riflettere. Fare un viaggio a Parigi prima dell'arrivo del piccolo. Qualcosa. La discussione di questo pomeriggio, quelle false lacrime, Dio mio, eri così dura da sembrare disumana.» «Le lacrime non erano false» ribatté lei. «L'alibi sì. Stavo pensando, non posso crollare e piangere sul lavoro. Poi sono tornata a casa e mi sono detta, perché no? Voglio dire, non sono stupida. Tu mi hai fatto quella lezioncina su Smithe, pensi che non sappia che potrei averlo danneggiato? Lo ammetto. Potrei averlo danneggiato. Ma non ne sono sicura. Io...» «Ma guarda per cosa ti stai riducendo così. Hai fatto sapere il nome a Kennedy, e con questo? Un vantaggio di dieci minuti sugli altri giornalisti? Cristo...» «Lo so, tutto questo lo so. Ecco perché sono qui. Sono spompata. Non so se ho torto, ma non sono sicura di avere ragione. Sto vivendo nella melma e non riesco a smettere.» Lucas scosse la testa. «Non so che fare.»
«Bene.» Lei abbassò la gamba dal cuscino del divanetto. «Potresti venire qui e sederti vicino a me per un minuto?» «Uhm...» Lucas si alzò in piedi, girò intorno al tavolo e si sedette vicino a lei. «Passami il braccio sulle spalle.» Lui le passò un braccio sulle spalle e lei gli affondò il viso nel petto. «Sei pronto?» domandò con una voce stranamente acuta, stridula. Lucas tentò di tirarsi indietro per guardarla, ma Jennifer gli si aggrappò. «Pronto per cosa?» Lei premette ancora più forte il viso contro di lui, e pochi secondi dopo cominciò a piangere. Niente sesso, disse. Solo dormire. Lui era quasi addormentato quando gli disse sottovoce: «Sono contenta che sia tu il papà.» 11 Louis Vullion non rise. Tornato a casa tardi la sera dell'annuncio, trascurò di guardare le videocassette e seppe dell'arresto la mattina dopo, leggendo lo Star-Tribune. «Non è giusto» disse, impietrito al centro del soggiorno. Indossava pigiama e pantofole di cuoio. Una ciocca di capelli gli stava dritta sulla testa, ancora scomposta dopo la notte. «Non è giusto!» sibilò. Appallottolò il giornale e lo scaraventò nella cucina. «Questa gente è idiota» urlò il predatore. Si dedicò alle videocassette e assistette all'annuncio, con ira crescente. Poi il viso di Jennifer Carey, con la dichiarazione che l'inventore di giochi, il tenente, Lucas Davenport, non era d'accordo, pensava che avessero preso l'uomo sbagliato. «Sì» disse lui. «Sì.» Riavvolse il nastro e lo proiettò di nuovo. «Sì.» «Dovrei chiamarlo» si disse. Guardò l'orologio. «Non c'è fretta. Dovrei pensarci su» disse. "Non commettere errori, adesso." Poteva essere un complotto? L'uomo dei giochi lo stava incastrando? No. Era semplicemente impossibile. Il gioco era libero, ma esistevano delle regole; Davenport o gli altri poliziotti - chiunque fossero - non avrebbero osato permettere che quell'uomo, quel gay, fosse crocifisso come parte di un complotto. Ma perché era stato ar-
restato? A parte l'uomo dei giochi, Davenport, la polizia sembrava convinta di avere in mano le prove. Come poteva essere accaduto quell'errore? «Che stupidi» disse il predatore rivolto alle pareti color avorio. «Quegli stupidi rincoglioniti.» Non riusciva a pensare a nient'altro. Restò seduto alla scrivania a fissare i documenti sparsi sopra senza vederli, finché la segretaria che divideva con un collega gli domandò se si sentiva poco bene. «Sì, un po', credo; qualcosa che ho mangiato, penso» le rispose. «Ho il patteggiamento nel caso Barin e poi credo che mi porterò il resto del lavoro a casa. In un posto più vicino ai... ehm, servizi.» Barin era un adolescente che aveva bevuto troppo e aveva investito con la macchina un gruppo di persone in attesa di attraversare la strada a un angolo. Nessuno era rimasto ucciso, ma parecchi erano finiti in ospedale. La patente di guida gli era stata sospesa prima dell'ultimo incidente, anche allora per guida in stato di ebbrezza, e lui aveva scontato due giorni di carcere per il reato precedente. Quella volta, la faccenda era più seria. Lo Stato era impegnato in una campagna contro l'alcolismo. Parecchie vacche fino allora sacre, a cui fino a un anno prima si applicava abitualmente la multa, avevano già scontato delle condanne. E Barin era un cazzettino molesto attaccato a una bocca grande e sporca. Il padre, sfortunatamente, possedeva una società di computer che pagava sostanziose parcelle allo studio legale del predatore. Il padre voleva che il ragazzo se la cavasse. Ma il ragazzo era condannato. Il predatore lo sapeva. E anche il resto dello studio, il che spiegava come mai era stato concesso al predatore di occuparsi del processo. Barin avrebbe scontato da tre a sei mesi, e forse anche di più. Il predatore non sarebbe stato biasimato. Non c'era niente da fare. I soci anziani lo stavano spiegando pazientemente al padre, e il predatore, già indennizzato contro il fallimento, sperava in segreto che il giudice mettesse al fresco quello stronzetto per un anno. Il patteggiamento era l'ultimo della giornata. Il predatore arrivò in anticipo e scivolò su una panca in fondo all'aula. Il giudice stava guardando una ragazza giovane in jeans e camicetta bianca. «Quanti anni ha, signorina Brown?» «Diciotto, giudice.» Il giudice sospirò. «Signorina, se lei avesse 16 anni, resterei decisamente
sorpreso.» «No, signore, ne ho 18, compiuti tre settimane fa...» «Silenzio, signorina Brown.» Il giudice sfogliò i documenti d'accusa mentre il pubblico ministero e il difensore d'ufficio sedevano pazienti ai loro tavoli. La ragazza aveva grandi occhi da cerbiatta, molto belli, ma il viso era segnato dall'acne e i lunghi capelli castani pendevano senza corpo sulle spalle gracili. Gli occhi erano il suo pregio maggiore, decise il predatore. Spaventati ma consapevoli. Il predatore la guardò mentre stava ritta, spostando il peso da un piede all'altro, lanciando occhiate in tralice al difensore. Il giudice si rivolse al pubblico ministero. «Un precedente, stesso patto?» «Stesso patto, Vostro onore. Otto mesi fa. Da allora è stata a casa, ma sua madre l'ha messa di nuovo alla porta. L'assistente sociale dice che la madre è una cocainomane assidua.» «Cosa ha intenzione di fare se la lascio andare, signorina Brown?» chiese il giudice. «Be', ho fatto la pace con mia madre e penso che mi guadagnerò un po' di denaro in modo da poter andare al college il prossimo trimestre. Voglio diplomarmi in fisioterapia.» Il giudice abbassò gli occhi sulle carte e il predatore pensò che tentasse di nascondere un sorriso. Alla fine alzò la testa, sospirò di nuovo e guardò il difensore d'ufficio, che scrollò le spalle. «Protezione infantile?» chiese il giudice al pubblico ministero. «L'ultima volta l'hanno mandata in una casa in affidamento, ma dopo un paio di giorni la madre adottiva non ha voluto più saperne» rispose lui. Il giudice scosse la testa e si rimise a leggere i documenti. Lei era una creatura molto sensuale, a modo suo, decise il predatore, guardandola leccarsi nervosamente le labbra. Una vittima predestinata, del tipo che scatenerebbe l'assalto di un lupo. Il giudice alla fine decise che non c'era niente da fare. La multò di 150 dollari come rea confessa di adescamento. Barin, il verme, fu introdotto in aula appena chiuso il caso. Un'ora dopo, quando il predatore tornò nell'ufficio del cancelliere, il fascicolo di Heather Brown era nel cestino degli arrivi. Lo sfilò e lo lesse da cima a fondo, notando che era stata fermata a South Hennepin. Il vero nome di Heather Brown era Gloria Ammundsen. Batteva le strade da un anno o più. Il predatore notò con interesse in una sezione narrativa che all'agente che l'aveva
arrestata aveva offerto una varietà di svaghi, compresi sadomaso e sport acquatici. Il predatore si portò a casa il lavoro supplementare, ma non riuscì a concludere niente. Consumò una cena rapida: fette di prosciutto, frutta, mezza spremuta. Ancora agitato, prese la macchina e si diresse verso il centro, parcheggiò e proseguì a piedi. Attraverso Loring Park, dove i gay incrociavano e si riunivano in gruppetti che si scioglievano continuamente. Verso Hennepin Avenue e a sud, allontanandosi dal centro. Punk per le strade, che lo guardavano passare. Un ragazzo con l'acconciatura mohawk e una giacca nera sudicia, privo di sensi su una pila di tappeti scartati davanti a un drugstore. Teste rasate con svastiche tatuate sul cuoio capelluto. Ragazzi dei sobborghi che gironzolavano, tentando di sembrare dei duri con le sigarette e il trucco nero. Qualche prostituta. Non troppo vistose, non pronte a fermare le auto, ma disponibili lungo le strade per chiunque avesse bisogno dei loro servizi. Le guardò con attenzione, passando. Tutte giovani. Tredici, 14, 15 anni, pensò. Meno sedicenni, meno ancora diciottenni. Pochissime più grandi. Le più vecchie erano del tipo da pompino veloce nei portoni, rifiuti umani così malridotti dalla strada, non più all'altezza di lavorare all'interno, in una sauna, in una stanzetta, da essere poco più che caldi, umidi ricettacoli inerti nella notte, esposti a ogni sorta di abuso possibile. Individuò Heather Brown davanti a un ristorante fast-food. Quasi tutte le battone erano bionde, naturali o artificiali. Heather, con i capelli scuri, gli ricordava... Chi? Non lo sapeva, anche se aveva l'impressione che ci fosse un'ombra in fondo alla memoria. Di notte, lontano dalle luci al neon del tribunale, era più graziosa. A parte gli occhi. In tribunale i suoi occhi erano stati vivi. Là fuori avevano lo sguardo fisso in lontananza che si osserva nei casi di choc da combattimento. Indossava una blusa nera, una gonna di pelle che arrivava appena alla coscia, scarpe alte con il tallone aperto, e portava una borsa nera formato gigante. Il suo corpo, il suo viso, gli dicevano qualcosa. Il suo sguardo lo chiamava. «Salve» disse mentre lui si avvicinava e rallentava. «Che succede?» «Solo una passeggiata» rispose lui in tono cordiale. «Bella nottata per passeggiare, agente.» L'ombretto verde sembrava applicato con una pala. Il predatore sorrise. «Non sono un poliziotto. Anzi, non voglio nemmeno
tentare di rimorchiarti. Chissà, potresti esserlo tu. Un poliziotto, voglio dire.» «Oh, certo» ribatté lei, facendo sporgere un fianco in modo che la minigonna risalisse. «Buona fortuna» disse il predatore. «Navi che s'incrociano nella notte» commentò lei, guardando già alle sue spalle lungo la strada. «Ma se una sera dovessi tornare, di solito esci a passeggio da queste parti?» Lei si girò a guardarlo di nuovo, la scintilla d'interesse riaccesa. «Certo» rispose. «Questo è un po' il mio territorio.» «Hai un posto dove potremmo andare?» «A fare che?» s'informò lei con prudenza. «Magari un bocchino più scopata, se non costa più di cinquanta. Oppure forse tu conosci qualcosa di più eccitante.» Lei si rischiarò. Lui aveva fatto l'offerta, specificando un atto preciso e il denaro, quindi non era un poliziotto. «Nessun problema, tesoro. Conosco tutti i modi per mandare un ragazzo su di giri. Sono qui quasi tutte le sere tranne il giovedì, quando il mio uomo mi porta fuori. E la domenica, perché non c'è movimento.» «Bene. Magari fra una sera o due, eh? E hai un posto dove possiamo andare?» «Tu mettici i contanti, io ci metto il resto» rispose lei. «Come ti chiami?» Dovette rifletterci un momento. «Heather» rispose alla fine. «Stai commettendo uno sbaglio» disse il predatore. Camminava su e giù nel soggiorno. «Dev'essere uno sbaglio.» Ma era una tentazione irresistibile. Guardò l'elenco personale sul tavolo. Davenport, Lucas. Il numero. Doveva essere uno sbaglio, ma in che senso? Sorpreso a casa sua, di sera tardi, doveva avere la guardia abbassata. Nessun nastro automatico a registrare la voce. Ci pensò e alla fine scrisse il numero su un foglietto di carta, uscì di nuovo in macchina, percorse più di un chilometro fino a una cabina pubblica e compose il numero. Il telefono all'altro capo squillò una volta sola. Rispose una voce baritonale, perfettamente chiara. Non c'era traccia di sonno. «L'agente investigativo Davenport?»
«Sì. Chi parla?» «Un informatore. Ho visto il servizio alla televisione ieri sera, il suo dissenso dalle azioni dei suoi superiori, e voglio farle sapere questo: lei ha perfettamente ragione riguardo al predatore. Non è stata quella checca. Non è stata quella checca. Capito?» «Chi parla?» «Questo non glielo dirò, naturalmente, ma so che avete arrestato l'uomo sbagliato. Se gli chiederà dei biglietti, lui non ne saprà niente, vero? Non saprà che non si deve mai uccidere una persona conosciuta. Mai avere un movente. Mai seguire uno schema riconoscibile. Lei dovrebbe fare qualcosa per rimediare a questo disguido, oppure temo che si troverà in grave imbarazzo. Il predatore dimostrerà l'innocenza di quest'uomo in un momento qualsiasi del prossimo futuro. Ha afferrato tutto, tenente? Lo spero, perché non ho altro da dire. Addio.» «Aspetti...» Il predatore attaccò, si precipitò verso la macchina e ripartì. Dopo un isolato attaccò a ridacchiare per l'eccitazione. Non aveva previsto l'impeto di gioia, ma eccola lì, come se fosse sopravvissuto a un combattimento corpo a corpo. E in un certo senso era così. Aveva sfiorato il volto del nemico. 12 Lucas era seduto al tavolo da disegno, con un tabulato delle regole di Everwhen sul piano del tavolo. Si sfregò la barba di un giorno, riflettendo. I biglietti. Il tizio sapeva dei biglietti. E l'accento c'era, ed era quello giusto. Quasi impercettibile, ma c'era. Texas. Nuovo Messico. Sollevò il ricevitore e chiamò Daniel. «Parla Davenport.» Il capo era stordito. «Davenport? Lo sa che ore sono?» Lucas guardò l'orologio. «Sì, sono le due e 12 minuti del mattino.» «Che c'è?» «Il predatore mi ha appena chiamato.» «Cosa?» La voce di Daniel si schiarì all'istante. «Mi ha citato i biglietti. Aveva l'accento. Sembrava autentico.» «Merda.» Ci fu una pausa di cinque secondi. «Che ha detto?» Lucas ripeté la conversazione. «E sembrava autentico?»
«Sembrava autentico. C'è dell'altro. Sembrava seccato. Ha visto il servizio di Jennifer, a proposito del fatto che non pensavo fosse stato Smithe. Vuole che ristabilisca la verità. Amico, vuole vedersi riconoscere il credito.» Seguì un lungo silenzio. «Capo?» Daniel gemette. «Così adesso abbiamo Smithe in galera e il predatore sta per sventrarne un'altra.» «Dobbiamo cominciare a fare marcia indietro con Smithe. Domani vada a lisciare il difensore d'ufficio. McCarthy è attaccato al collo di Smithe come una lampreda. Se riusciamo a staccarlo, forse potremo ispirare un po' di buon senso al tizio perché ci fornisca un alibi. Se lo fa... se ci dà qualcosa... possiamo metterlo in libertà.» «E se non lo fa?» «Non lo so. Cercheremo di escogitare qualcos'altro. Ma se il tipo che mi ha chiamato era autentico, e scommetterei il coglione sinistro che lo era, allora ho il sospetto che Smithe se ne uscirà con qualcosa. Ormai ha passato un po' di tempo nel carcere di Hennepin, e lei conosce quel posto.» «D'accordo. Faremo così. Dio, la prima apparizione è stata 14 ore fa, e stiamo già ballando il passo doppio. Domani parlerò al difensore d'ufficio, e vedrò se si può raggiungere un accordo. In mattinata passi alla Omicidi a fare una deposizione sulla telefonata. L'udienza preliminare è lunedì? Se ci muoviamo, dovremmo farcela prima di allora. Oppure il predatore potrebbe precederci. Il che sarebbe come trovarsi uno stronzo nella minestra, non le pare?» «Di solito colpisce a metà settimana» replicò Lucas. «È giovedì mattina. Se si attiene allo schema, agirà stasera o aspetterà fino alla prossima settimana.» «Al telefono ha detto "nei prossimi giorni"?» «Sì. Non sembra pronto ad agire. Ma del resto, potrebbe... dissimulare.» «Buon lavoro.» «Ha cominciato lui. Me ne sto qui seduto a cercare di ricordare le parole esatte che ha usato, e ne ha usato alcune buone. "Dissenso" e "disguido". Forse anche qualche altra. È un tipo intelligente. Ha una certa cultura.» «Lieto di saperlo» ribatté Daniel in tono stanco. «Affanculo. Ne parleremo domani.» Quando attaccò, Lucas non riuscì a concentrarsi sul gioco e alla fine lasciò perdere. Si diresse in cucina, prese una birra dal frigorifero e spense la
luce. Mentre la luce si spegneva, un rettangolo bianco e giallo attirò la sua attenzione, e non a caso. Lui fece un passo avanti nel corridoio, si accigliò, tornò indietro e accese la luce. Era la copertina dell'elenco telefonico. «Dove ha preso il mio numero?» si domandò Lucas a voce alta. Non era nell'elenco. «Quel dannato elenco dell'ufficio. Dev'essere così.» Sollevò il ricevitore e richiamò Daniel, ma la linea era occupata. Riabbassò il microfono, camminò su e giù per un minuto di orologio e ritentò. «Che stracazzo c'è? Eh?» Il capo ormai ringhiava. «Sono di nuovo Davenport. Ho appena avuto un pensiero sgradevole.» «Tanto vale che me ne parli» sbottò Daniel esasperato. «Aggiungerà colore ai miei incubi.» «Si ricorda quando mi ha messo sotto sorveglianza? Quando pensava che poteva essere un poliziotto, e aveva un paio di motivi?» «Sì.» «Mi è appena venuto in mente. Il tizio mi ha telefonato a casa. L'unico elenco in cui è compreso il mio numero è quello dell'ufficio. E Carla ha identificato in una delle foto che ha visto un poliziotto...» «Oh, oh.» Un altro lungo silenzio, poi: «Lucas, vada a dormire. Ho tirato giù dal letto Anderson per informarlo della telefonata. Lo richiamerò per parlargli di questo. Domani potremo escogitare qualcosa.» «Faremmo la figura degli idioti se Carla avesse identificato l'assassino nel confronto e noi lo avessimo ignorato.» «Faremmo una figura ben peggiore. Sembreremmo cospiratori criminali.» Il telefono squillò di nuovo e Lucas socchiuse gli occhi. Luce. Doveva essere giorno. Guardò l'orologio. Le otto e mezzo. «Salve, Linda» disse sollevando il ricevitore. «Come facevi a sapere che ero io, Lucas?» «Perché ho la sensazione che la merda stia per volare.» «Il capo vuole vederti subito. Ha detto di vestirti in modo dignitoso ma di venire presto.» Daniel e Anderson erano curvi sulla scrivania del capo quando Lucas arrivò. Lester era seduto in un angolo a leggere un fascicolo. «Cosa è successo?» «Non lo sappiamo» rispose Daniel. «Ma nell'attimo in cui sono entrato
dalla porta, è cominciato a squillare il telefono. Era il difensore d'ufficio. Smithe vuole parlare a lei.» «Magnifico. Gli ha detto niente della telefonata di stanotte?» «Non una parola. Ma se è pronto a fornire un alibi, forse possiamo trovare un modo per scaricare tutta la faccenda su McCarthy... qualcosa sul genere che Smithe ha deciso di collaborare e con la sua collaborazione abbiamo potuto eliminarlo dalla rosa dei sospetti. Potremmo uscirne bianchi come gigli.» «Se riusciremo a eliminarlo» intervenne Anderson. «E a proposito di quel poliziotto?» chiese Lucas. «Quello riconosciuto da Carla?» «Sono venuto qui stanotte dopo che il capo mi aveva chiamato» disse Anderson. «Ho consultato i registri dei turni. Era in servizio quando è stata aggredita la Ruiz, con un collega, su a nord-ovest. Ho parlato al collega e conferma che erano là. Hanno ricevuto una dozzina di chiamate intorno all'ora dell'aggressione. Siamo andati a controllare i nastri, e lui c'è.» «Quindi è pulito» disse Lucas. «Grazie a Dio per questi piccoli favori» esclamò Daniel. «È meglio che alzi le chiappe per andare al centro di detenzione a parlare con Smithe. La stanno aspettando.» McCarthy e Smithe aspettavano in una piccola stanza per gli interrogatori. L'arredamento era semplice, progettato per non assorbire i fluidi corporei. McCarthy stava fumando e Smithe sedeva nervosamente su una sedia imbottita da sala d'aspetto, sfregandosi le mani, guardandosi i piedi. «Questa storia non mi piace e scriverò una memoria in proposito» sputò McCarthy appena Lucas entrò. «Sì, sì.» Lui si rivolse a Smithe. «Potrei chiederle di alzarsi in piedi un minuto?» «Aspetti. Volevamo parlare...» cominciò McCarthy, ma Smithe lo fece tacere con un cenno e si alzò. «Odio questo posto» disse. «È peggio di quanto avessi potuto immaginare.» «Per la verità, è un'ottima prigione» ribatté Lucas in tono conciliante. «È quello che mi dicono» rispose Smithe avvilito. «Perché devo stare in piedi?» «Fletta i pettorali e gli addominali.» «Cosa?»
«Fletta i pettorali e gli addominali. E faccia forza.» Smithe sembrava sconcertato, ma rilassò le spalle ed eseguì. Lucas allungò la mano con le dita allargate e spinse con forza contro il torace di Smithe, poi abbassò la mano e spinse contro lo stomaco. I muscoli sotto la camicia sembravano tavole. «Lei fa esercizi con i pesi?» «Sì, parecchi.» «Che significa?» domandò McCarthy. «La donna che è sopravvissuta. L'assassino l'ha afferrata alle spalle, l'ha circondata con le braccia. Lei ha detto di aver sentito un corpo grassoccio e flaccido.» «Non sono io» esclamò Smithe, improvvisamente più fiducioso. «Ecco, si volti.» Lucas si voltò e Smithe si mise alle sue spalle e lo strinse in una presa. «Si liberi» disse Smithe. Lucas cominciò a lottare e dibattersi. Era abbastanza pesante da costringere Smithe a muoversi in cerchio in un balletto teso e controllato, ma le braccia che lo circondavano sembravano quasi meccaniche. Per quanto tentasse, non riuscì a liberarsi. «Okay» disse Lucas, col respiro affannoso. Smithe lo lasciò andare. «Se l'avessi afferrata, non mi sarebbe sfuggita» disse sicuro di sé. «Questo dimostra qualcosa?» «Per me sì» ribatté Lucas. «Molti altri non si lascerebbero convincere.» «Ho visto quel servizio in televisione, sul fatto che lei mi crede» disse Smithe. «E non ce la faccio a sopportare il carcere. Ho deciso di fidarmi di lei. Ho un alibi. Anzi, ne ho due.» «Potremmo fare tutto questo all'udienza preliminare» lo ammonì McCarthy. «Mancano quattro giorni» ribatté brusco Smithe. Si rivolse a Lucas. «Se gli alibi sono validi, quando potrò uscire?» Lucas scrollò le spalle. «Se sono validi e se possiamo controllarli, potremmo farla uscire di qui questo pomeriggio.» «E va bene» disse all'improvviso Smithe. «Il signor McCarthy mi ha portato la mia agenda. Il giorno che è stata aggredita la Lewis, quel pomeriggio, stavo tenendo un corso d'istruzione interno. Ho cominciato alle nove di mattina e sono andato avanti fino alle cinque. In aula c'erano dieci persone. Abbiamo pranzato tutti insieme. Non è passato molto tempo, quindi se ne ricorderanno.
«E il giorno che è stata uccisa Shirley Morris, la casalinga? Quella mattina alle sette ho preso un aereo per New York. Ho i biglietti e un amico mi ha accompagnato all'aeroporto, mi ha visto salire sull'aereo. Ho le fatture dell'albergo di New York, riportano l'ora in cui mi sono registrato al banco. La Morris è stata uccisa nel pomeriggio, e io sono arrivato in albergo di pomeriggio. Scommetto che si ricorderanno anche loro di me, perché quando sono salito in camera col fattorino, lui ha ripiegato il lenzuolo e sotto c'era un topo e il ragazzo è scappato di corsa. Io ho dato fuori di matto. Dicono che quello è un buon albergo. Sono sceso in portineria e mi hanno dato un'altra stanza, ma scommetto che si ricordano di quel topo. Può controllare al telefono. E il signor McCarthy ha in ufficio le fatture e i biglietti d'aereo.» «Avrebbe dovuto dircelo» osservò Lucas. «Ero spaventato. Il signor McCarthy diceva...» Si girarono entrambi a guardare McCarthy. «È stato tutto troppo repentino. Voi lo torchiavate, tutti correvano di qua e di là sbraitando, dovevamo lasciar raffreddare la situazione, o avremmo potuto commettere un errore» si difese McCarthy. «Be', così un errore lo abbiamo fatto di sicuro» ribatté Smithe. «La mia famiglia sapeva che ero omosessuale, genitori e fratelli e sorelle e alcuni amici giù a casa, ma la maggior parte dei miei compagni di scuola no, la maggior parte dei vicini...» A un tratto crollò a sedere e scoppiò in singhiozzi. «Ora lo sanno tutti. Sapete come sarà dura tornare alla fattoria? A casa?» McCarthy si alzò e prese a calci la sedia. Nell'atrio del centro di detenzione, Lucas si fermò a un telefono e fece una sola telefonata, «Lucas Davenport» disse. «Potremmo incontrarci in un posto discreto? Presto?» «Certo» rispose lei. «Dimmi dove.» Lui le disse di una rivendita di libri usati sulla parte settentrionale della circonvallazione. Quando lei arrivò, Lucas notò come sembrava fuori posto. Con una pettinatura perfetta e un trucco impeccabile, si aggirava fra le pile di libri come Alice nel Paese delle Meraviglie, sbalordita dalla presenza di tanti oggetti sconcertanti. Annie McGowan, vanto di Canale 8, la conduttrice di Now Report. «Lucas» mormorò quando lo vide.
«Annie.» La raggiunse e lei gli venne incontro a mani tese, come se si aspettasse che Lucas la prendesse fra la braccia. Lui invece la prese per le mani e se l'attirò vicino. «Quello che ti dirò ora deve restare segreto. Devi garantirmi l'immunità giornalistica, altrimenti non posso dirtelo» cominciò, guardandosi alle spalle. Introduzione al Corso di recitazione 1043, due crediti. «Sì, naturalmente» ansimò lei. Aveva l'alito profumato di cannella e spezie. «Sai quel finocchio che abbiamo arrestato per gli omicidi del predatore? Non è stato lui» bisbigliò Lucas. «Ha due alibi eccellenti che vengono controllati proprio mentre stiamo parlando. Dovrebbe essere rilasciato oggi stesso, nel tardo pomeriggio. Non lo sa nessuno, ma proprio nessuno, al di fuori del dipartimento di polizia, tranne te. Se aspetti fino alle tre e mezzo circa, probabilmente potrai sorprendere il suo avvocato... conosci McCarthy, il difensore d'ufficio?» «Sì, lo conosco» disse lei in un soffio. «Potrai sorprenderlo davanti al centro di detenzione, pronto a firmare per la scarcerazione di Smithe. Meglio appostarsi lì verso le tre. Non credo che potrebbero farcela prima.» «Oh, Lucas, è splendido.» «Sì. Se riesci a tenerlo per te in esclusiva. E ti darò un'altra informazione, ma anche questa deve venire da "una fonte bene informata".» «E cioè?» «Queste donne ufficialmente sono state violentate, ma nessuno ha mai trovato sperma. Pensano che l'assassino possa usare una specie di... corpo estraneo, perché è impotente.» «Oh, cielo. Poverino.» «Eh, sì.» «Che genere di oggetto?» «Oh, be', non sappiamo con esattezza.» «Vuoi dire come uno di quegli enormi cazzi di gomma?» Le parole sgorgarono da quelle labbra perfette in modo così incongruo che Lucas rimase a bocca aperta. «Oh, be', non lo sappiamo. Qualcosa. Comunque, se riuscirai a trattare bene questa storia e a coprirmi, avrò altre indiscrezioni in esclusiva per te. Ma ora devo andarmene da qui. Non possiamo farci vedere insieme.» «Non ancora, almeno» disse lei. Si volse per andarsene, e poi tornò indietro.
«Senti, quando mi chiami alla stazione, capiranno chi è la mia fonte, se continui a lasciare il tuo nome. Voglio dire, se non mi trovi.» «Allora?» «Allora forse dovremmo usare un nome in codice.» «Buona idea» rispose Lucas, sbalordito. Prese un biglietto dal portafogli, ci scrisse dietro il numero di casa sua. «Puoi telefonarmi in ufficio o a casa. Io ti chiamerò dall'uno o dall'altro posto. Quando chiamerò, dirò: "Messaggio per McGowan. Chiama Cavallo Rosso."» «Cavallo Rosso» bisbigliò lei, nuovendo le labbra come per impararlo a memoria. «Cavallo Rosso. Come quello degli scacchi?» "Piuttosto come il pesciolino rosso, quello velenoso" pensò Lucas. McGowan avanzò ancora di un passo e lo baciò sulle labbra, poi in un turbinio di occhi neri e mantello di lana alla moda sparì fra le pile di libri. Il proprietario del negozio, un grassone prosaico che collezionava antiche edizioni della Vita sul Mississippi di Mark Twain, comparve nello stretto passaggio dicendo: «Cristo, Lucas, che stai combinando là dietro, te la spassi?» Lucas si fermò all'ufficio di Daniel per esporre a grandi linee gli alibi di Smithe. Insieme si recarono alla Squadra omicidi e li riferirono a Lester e Anderson. «Voglio che tutti lascino ogni altro incarico, voglio che siano verificati subito» ordinò Daniel. «Potete cominciare andando all'ufficio dell'assistenza pubblica, a controllare questo corso di addestramento interno. Questo ci darà un responso immediato. Poi controllate i biglietti, fate qualche telefonata. Se tutto quadra, e scommetto di sì, fisseremo un appuntamento con l'ufficio del procuratore. Per l'una o le due. Decideremo il da farsi.» «Vuol dire lasciar cadere le accuse» disse Lester. «Sì. Probabilmente.» «La stampa ci mangerà vivi» osservò Anderson. «No, se giocheremo bene le nostre carte. Diremo che Davenport era l'unico di cui Smithe si fidava, gli ha raccontato i fatti, Davenport è venuto da noi e ci siamo resi conto dell'errore.» «A me sembra che faccia acqua da tutte le parti» disse Lester. «Non abbiamo altro» ribatté Daniel. «È meglio che farcelo cacciare in gola da McCarthy.» «Cristo.» Lester era grigio in faccia. «Ho presentato io la richiesta. Mi piomberanno addosso tutti. Televisione di merda.»
«Potrebbe essere peggio» replicò Daniel con filosofia. «Come?» «Potrebbe toccare a me.» Lucas e Anderson scoppiarono a ridere, poi Daniel, e alla fine sorrise anche Lester. «Già, inconcepibile» disse Lester. Lucas trascorse il resto della mattinata in ufficio, parlando ai suoi contatti nelle Città Gemelle. Non c'era nessun movimento di rilievo. Correva voce che qualcuno fosse stato ucciso durante una partita a poker a poste alte nella zona nord-orientale, ma lui aveva già sentito una voce del genere tre settimane prima e cominciava a suonargli fasulla. Parecchie centinaia di carte Visa false avevano inondato le città e stavano arrivando ai grandi magazzini e ai centri commerciali; alcuni commercianti di grosso calibro erano sconvolti e volevano parlare al sindaco. Si vociferava di armi, armi automatiche che uscivano dal paese attraverso le piste di atterraggio nella Red River Valley. Quella era una notizia curiosa e meritava una verifica. E infine il proprietario di un locale di spogliarelli si lamentava che un bar delle vicinanze metteva in mostra giovani talenti: «Non è leale, queste ragazze non sono abbastanza grandi neanche da averci il pelo. Gli altri non fanno più affari, vanno tutti giù da Frankie.» Lucas gli assicurò che avrebbe controllato. «Tutto quadra» disse Daniel. «Abbiamo trasmesso via fax una fotografia a New York, abbiamo fatto accorrere la polizia nell'albergo, e il fattorino si ricorda di lui e del topo. Non riusciva a rammentare la data esatta, ma ricorda di che settimana si trattava. È la settimana giusta.» «E per l'addestramento interno?» «Corrisponde. È stato quello l'elemento chiave, perché non ci sono dubbi. Appena abbiamo fatto la domanda, al dipartimento dell'Assistenza pubblica si è sparsa la voce che avevamo toppato. Prima di stasera si saprà in tutto il tribunale.» «Allora?» «Abbiamo una riunione alle due con il procuratore e il difensore d'ufficio» rispose Daniel. «Raccomanderemo che le accuse siano lasciate cadere. Stasera terremo una conferenza stampa.» «Ci farà causa» predisse Anderson. «Chiederemo un non luogo a procedere» disse Daniel. «Non c'è pericolo» ribatté Lucas. «Quel tizio è spaventato.» Guardò Da-
niel. «Non credo che dovrei farmi vedere alla conferenza stampa.» «Sarebbe meglio di no.» «Se qualcuno chiede di me, potete rispondere che sono in vacanza. Ho intenzione di prendermi un paio di giorni di ferie.» Lucas lasciò il municipio alle tre e raggiunse a piedi il centro di detenzione, fermandosi soltanto a comprare un sacchetto di popcorn. Annie McGowan e un cameraman erano appostati fuori del centro, in attesa. Lucas sedette su una panchina alla fermata dell'autobus, a un isolato di distanza, e mezz'ora dopo vide McCarthy uscire dal centro seguito da Smithe. C'erano con loro due persone anziane, un uomo e una donna, in cui Lucas riconobbe i genitori di Smithe dalle foto in casa sua. La McGowan piombò su di loro in un lampo e, dopo qualche tira e molla, evidentemente accettarono una breve intervista televisiva. Lucas appallottolò il sacchetto di popcorn vuoto, lo gettò sotto la panchina e sorrise. «Conferenza stampa alle sette» lo avvertì Anderson, avvistando Lucas che passava velocemente nel corridoio. «Stasera ho qualcosa in ballo» rispose Lucas. «E sto cercando di restarmene in disparte per un po'.» Prima di andarsene, prese accordi per ottenere rinforzi da una pattuglia e tornò a casa in tempo per il telegiornale delle sei. Annie McGowan aveva un aspetto magnifico, mentre faceva il suo scoop. Dopo due minuti di intervista registrata davanti al centro di detenzione, le telecamere tornarono su di lei in studio. «Now Report di Canale 8 ha appreso inoltre che secondo la polizia il vero assassino sarebbe sessualmente impotente e le donne in realtà sarebbero state violentate usando un qualche oggetto spuntato, poiché è incapace di stuprarle egli stesso.» Si rivolse al cameraman e sorrise. «Fred?» «Grazie per il servizio esclusivo, Annie...» Lucas passò su Canale 4. L'ultimo servizio del notiziario era una sintesi di quello di McGowan, ovviamente rubata: «Abbiamo appena appreso che Jimmy Smithe, che era stato arrestato nel corso delle indagini sui numerosi omicidi di donne nelle Città Gemelle, è stato rilasciato e che ora la polizia lo ritiene innocente dei crimini...» Jennifer gli telefonò cinque minuti dopo. «Lucas, gliel'hai passata tu?»
«Passato cosa?» chiese Lucas in tono innocente. «Hai passato ad Annie McGowan la notizia del rilascio di Smithe?» «È stato rilasciato?» «Mascalzone, la prossima volta che vengo a casa tua farai bene a metterti il sospensorio d'acciaio, perché mi porterò un coltello.» Più tardi, quella sera, Lucas pattugliava Lake Street a bordo di una macchina del dipartimento priva di contrassegni, osservando i nottambuli, i bevitori, le prostitute, cercando una qualsiasi fra decine di facce. Ne trovò una poco prima delle dieci. «Harold. Sali in macchina.» «Ehi, tenente...» «Sali su questa cazzo di macchina, Harold.» Harold, che trafficava in farmaceutici sul mercato libero, salì in macchina. «Harold, mi devi un favore» cominciò Lucas. Harold non pesava più di 65 chili e quasi spariva nel giaccone militare verde oliva. «Che vuoi, amico?» piagnucolò. «Non ho parlato con nessuno...» «Quello che voglio da te è che entri nel locale di Frankie e bevi qualcosa di leggero. A spese mie. Ma leggero. Vino, birra. Non ti voglio sbronzo.» «Qual è la parte cattiva?» chiese Harold, improvvisamente più sveglio. «Nel bar faranno esibire una fichetta giovane. Molto giovane. Quando lo faranno, voglio che tu esca a dirmelo. Io sarò in fondo all'isolato. Vieni fuori appena comincia, capito? Non due minuti dopo, appena comincia.» Consegnò a Harold un deca. «Dieci? Vuoi che resti a bere lì dentro con dieci dollari?» protestò l'altro. Lucas afferrò il davanti del giaccone militare di Harold e lo scrollò una volta sola. «Ascolta, Harold, sei fortunato che non ti faccio pagare per il privilegio, okay? Ora, alza le chiappe ed entra lì dentro, o ti spacco quella faccia di merda.» «Dio Cristo, tenente...» Harold scese, e Lucas scivolò giù sul sedile, osservando i passanti. Per la maggior parte bevevano o erano già bevuti. Passarono alcuni drogati. Un magnaccia e una della sua scuderia; Lucas lo conosceva, e abbassò ancor più la testa, alzando la mano per nascondere la faccia. Il protettore non guardò mai dalla sua parte. Uno spacciatore, un altro spacciatore, un ragazzo dalla faccia tonda che sembrava appena arrivato dalla campagna, e un commesso viaggiatore ubriaco. Lui guardò la sfilata per una mezz'ora prima che Harold si accostasse alla macchina. «Ce n'è una in azione, ed è proprio giovane» sussurrò.
«Bene. Fila.» Harold si dileguò. Lucas usò la radio per mandare un messaggio prestabilito alla pattuglia di rincalzo, si mise un berretto da caccia in tweed e un paio di occhiali non graduati, scese dalla macchina, la chiuse a chiave e si avviò verso il locale di Frankie. Il bar puzzava di birra stantia e vino scadente. La sala anteriore che dava sulla strada era vuota, fatta eccezione per due donne dall'aria infelice sedute l'una di fronte all'altra in un separé di similpelle rossa. Il barista stava asciugando i bicchieri e guardò distrattamente Lucas passare fra i tavoli vuoti dirigendosi verso l'entrata ad arco della sala sul retro. Il locale era zeppo, una quarantina di uomini e cinque o sei donne avvolti in una nube di fumo, che battevano le mani al ritmo della musica rock sprigionata da un jukebox. La ragazza ballava sul bancone, coperta soltanto da un minuscolo reggiseno e da un paio di mutandine blu trasparenti. Lucas si fece largo tra la folla e scorse Frankie in persona dietro il bar, occupato a riempire bicchieri di plastica di birra alla spina con tutta la velocità che il getto gli consentiva. Lucas alzò la testa verso la ragazzina. Undici anni? Dodici? Lei diede un colpo d'anca e mise una mano dietro la schiena, mordendosi il labbro inferiore con un sorriso semiprofessionale. Stava attizzando l'entusiasmo della folla. Con un altro colpo d'anca, sganciò il reggiseno e se lo sfilò lentamente, facendo attenzione nel frattempo a coprire con le braccia i seni minuscoli. Dopo qualche altro ancheggiamento, lanciò il reggiseno dietro il banco e passò a un nuovo ballo, con i seni scoperti che sussultavano sotto le luci abbaglianti del soffitto. «Nuda, nuda, nuda» cantava in coro la folla, e la ragazza infilò i pollici nell'orlo superiore delle mutandine e dopo averle abbassate pudicamente di un centimetro qui e di un centimetro là, girandosi, piegandosi, sbirciando all'indietro fra le gambe, si raddrizzò e le fece scivolare a terra, voltando le spalle al pubblico, e poi si voltò per completare la danza. E il barista dall'ingresso urlò: «Ci sono i poliziotti qua fuori!» «Via» strillò Frankie. Mentre la folla si divideva puntando verso le due porte, lui si sporse per afferrare la ragazza nuda per la caviglia. Lucas si lanciò in avanti ed estrasse la pistola, poggiando i gomiti sul bancone, e puntò la canna dell'arma contro la guancia di Frankie. «Non farmi capitare un incidente, Frank» lo ammonì. «Quest'arma ha un grilletto molto sensibile.» Frankie rimase pietrificato. Tre agenti in divisa arrivarono di corsa dall'entrata, schiacciando i clienti contro la parete mentre passavano. Una decina di sacchetti di cocaina e crack finirono sul pa-
vimento. Lucas alzò gli occhi sulla ragazza. «Scendi» le disse. Lei si protese e, presa bene la mira, gli sputò in faccia. «E cosa ne è stato di lei?» chiese Carla. Erano seduti sull'orlo del pontile, con i piedi che dondolavano sull'acqua. Mancava un'ora al tramonto ed erano appena tornati al molo dal poligono di tiro nei boschi. Il pomeriggio era fresco e tranquillo, la sfumatura violetta del cielo si rifletteva nell'acqua. A meno di cento metri, un pescatore stava lavorando con un'esca galleggiante lungo i bordi di un'isola sommersa. L'acqua era piatta come una tavola e potevano sentire il rumore meccanico dell'esca quando il pescatore la recuperava. «L'abbiamo affidata alla protezione infantile» rispose Lucas. «Loro cercheranno di accertare chi sono i genitori e di riportargliela. Fra due settimane fuggirà di nuovo e comincerà a prostituirsi o a fare lo spogliarello o chissà cosa. Alla sua età, è l'unico genere di lavoro che può trovare.» «E Frankie?» «Lo abbiamo incriminato di tutti i reati che ci sono venuti in mente. Riusciremo a farlo condannare per alcuni di questi reati, roba da poco. Sconterà un po' di carcere, perderà la licenza per la vendita di alcoolici.» «Bene. Dovrebbero... Non so. Una ragazzina di 12 anni.» Lucas scrollò le spalle. «L'età media delle prostitute per le strade è probabilmente di 14 anni. A sedici diventano troppo vecchie. Più sono giovani, più rendono; è questo che vogliono gli uomini. Carne giovane.» «Gli uomini sono dei tali pervertiti» disse Carla, e Lucas scoppiò a ridere. «Che cosa vuoi fare, andare a pesca o entrare in casa e darci alla pazza gioia?» «Ho già pescato» rispose lei, arricciando il naso. 13 La segretaria del predatore fungeva da centrale dei pettegolezzi nello studio. Questo avrebbe potuto aiutarlo nella politica dello studio - se lui avesse partecipato alla politica dello studio - ma non era in buoni rapporti con la segretaria. Quando parlava con lei, distoglieva gli occhi. Era cosciente di quell'abitudine e si sforzava di correggerla per guardarla negli occhi. Non ci riusciva, e aveva preso l'abitudine di fissarle l'attaccatura del naso. Lei sapeva che non riusciva a guardarla negli occhi.
La situazione era complicata dal suo aspetto. Era di gran lunga troppo carina per il predatore. Appena arrivata aveva messo subito in chiaro che non avrebbe gradito approcci. A modo suo, lui gliene era grato. Se lo avesse adescato, se fosse stata Prescelta, avrebbe dovuto morire, il che avrebbe violato una delle regole principali: Mai uccidere una persona conosciuta. Quando lui entrò in ufficio, c'erano altre tre donne riunite intorno a lei, che parlavano. «Hai sentito, Louis?» Una delle donne del crocchio gli stava rivolgendo la parola. Si chiamava Margaret Wilson. Era un'avvocatessa specializzata in lesioni personali e, anche se non aveva ancora trent'anni, si diceva che fosse uno degli avvocati meglio pagati dello studio. Aveva occhi color nocciola, seni grandi e cosce pesanti. Rideva troppo, pensò il predatore; in effetti, gli faceva un po' paura. Si fermò. «Sentito cosa?» domandò. «Ricordi quel gay che avevano arrestato, quello che credevano fosse il predatore? Non è lui.» «Sì. L'ho visto al telegiornale ieri sera. Che peccato. Pensavo che lo avessero preso» rispose il predatore, sforzandosi di mantenere la voce calma. La conferenza stampa, negli spezzoni che ne aveva visto alla TV, lo aveva mandato in estasi. Fece un altro passo verso il suo ufficio. «Dicono che non riesce a farselo rizzare» aggiunse la Wilson. Lui si fermò di nuovo, confuso. «Prego?» «Sai Canale 8, Annie McGowan? La giornalista con i capelli scuri alla paggetto come la pattinatrice sul ghiaccio, quella comesichiama? Ha parlato con qualcuno della polizia. Dicono che è impotente ed è quello che lo fa impazzire» spiegò lei. Lo stava stuzzicando? Nel suo tono sembrava che ci fosse un tono di sfida. «Be', si sono sbagliati a proposito dell'omosessuale...» cominciò il predatore con voce esitante. «È tutta psicologia da strapazzo» disse la segretaria del predatore in tono sprezzante. «Tutti gli altri dicono che le violenta. Se non può farselo rizzare, come fa a...» «Non hanno mai trovato sperma» ribatté Margaret Wilson. «Sono convinti che usa qualcosa.» Tutte le donne si scambiarono un'occhiata, e il predatore disse: «Bene» entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. Rimase là immobile per un secondo, accecato dalla rabbia. Impotente? Usa qualcosa? Di cosa stavano parlando?
Dall'esterno si sentì uno scroscio di risa, e capì che stavano ridendo di lui. Usa qualcosa. Probabilmente come il vecchio Louis. Mi domando cosa usa Louis, stavano dicendo. Non sapevano chi era lui, cosa era; non conoscevano il potere. E ridevano di lui. Si diresse alla scrivania, posò la borsa, si sedette e guardò la stampa di anitre appesa al muro. Tre germani reali che al crepuscolo si addentravano in un folto di code di volpe al crepuscolo. Il predatore la fissò senza vederla, in preda a un'ira crescente. Oltre la porta si sentì un altro scroscio di risa. Se avesse avuto con sé una pistola, sarebbe uscito nel corridoio e le avrebbe uccise tutte. Lasciò l'ufficio alle undici e mezzo e tornò a casa per vedere il telegiornale di mezzogiorno. Di preferenza guardava TV3, convinto che fosse più facile trovarvi quel minimo di dignità consentito alla stampa televisiva. Ma se quella McGowan aveva delle fonti speciali, avrebbe dovuto cambiare canale. Lasciò la macchina nel vialetto e si precipitò in casa. Era un po' in anticipo e aveva il tempo di prepararsi una tazza di minestra calda prima che cominciasse il notiziario. Sedette sulla poltrona imbottita del soggiorno sorseggiando la mistura salata e bollente e quando cominciò il telegiornale, il servizio della McGowan fu il pezzo forte della trasmissione. Evidentemente era una rielaborazione della sera prima, con il nastro di lei che intervistava l'omosessuale sui gradini del carcere della contea e poi ripeteva la storia dell'impotenza. Il suo viso limpido e grazioso era tutto compreso della serietà dell'informazione: mentre la telecamera chiudeva sul suo viso per l'ultima inquadratura, il predatore si sentì rimescolare, nello stesso momento in cui l'ira cominciava a riaccendersi. La controllò, respirando a fondo, e spense il televisore. Annie McGowan. Il suo viso rimase impresso come una sagoma luminosa sullo schermo televisivo. Era un tipo interessante. Meglio della bionda di TV3. La copia mattutina dello Star-Tribune era ancora sul tavolo della cucina. La ricontrollò. C'era un grosso articolo sul rilascio di Smithe, ma nessun accenno alla presunta impotenza. Per quale motivo la polizia avrebbe detto alla McGowan che lui era impotente? Dovevano sapere che non era vero. Dovevano sapere che era falso. Poteva essere un tentativo di indurlo a scoprirsi? Qualcosa per mandarlo in collera di proposito? Ma sarebbe stato... folle. Avrebbero fatto di tutto per evitare di farlo infuriare. O no? Tornò al lavoro, ancora fremente di collera. Avvertiva la tentazione di
cercare Heather, di coglierla subito. Ma non ancora, decise mentre se ne stava seduto in mezzo ai libri e ai blocchi di carta gialla. Poteva sentire la forza che si accumulava, ma non aveva ancora raggiunto l'urgenza che garantiva quel tipo di esperienza trascendente che era arrivato a esigere. Uccidere Heather in quel momento significava colpire la polizia, ma avrebbe avuto un effetto... sgradevole sul suo bisogno di lei. Sarebbe stato prematuro, pensò, e quindi deludente. Avrebbe aspettato. Il predatore lavorò tutto il weekend, sentendo il bisogno della ragazza crescere, sbocciare dentro di lui. Ne godeva. Il sabato pomeriggio e la domenica l'ufficio restava vuoto, e tutti lo lasciarono solo, come lui preferiva. E aveva trovato un caso interessante. Dato che sarebbe andato in giudizio, non lo avrebbero affidato a lui, ma uno dei soci penalisti anziani lo aveva passato ai ricercatori, chiedendo un parere. L'imputato si chiamava Emil Gant. Aveva molestato l'ex moglie e i suoi attuali amici. Li aveva seguiti, aveva scambiato insulti con loro, alla fine li aveva minacciati di violenza. Le minacce erano attendibili. Emil Gant era in libertà vigilata, dopo avere scontato trenta mesi di una condanna a 45 per un'accusa di aggressione aggravata. La donna era preoccupata. L'attuale accusa era stata spiccata dopo che Gant era stato sorpreso del garage della sua ex moglie. La donna era sola in casa, di notte. Un vicino aveva visto Gant sgattaiolare dentro da una porta aperta. Il vicino aveva telefonato alla donna, la donna aveva chiamato il 911 e i poliziotti erano arrivati in meno di un minuto. Gant era stato trovato nascosto dietro una macchina. Una volta sarebbe stato accusato di molestie. Quel reato non esisteva più. Non poteva essere accusato di aggressione perché non aveva aggredito nessuno. Non poteva essere accusato di effrazione perché non si era introdotto nel garage con la forza. Alla fine era stato accusato di violazione di domicilio. Per la verità, alla pubblica accusa non importava molto di cosa era accusato. Una condanna, in base a qualsiasi accusa, avrebbe rimandato Gant diritto filato nella prigione statale di Stillwater per i restanti 15 mesi della condanna iniziale. Ma il predatore, studiando la legge dello Stato sulla violazione di domicilio, aveva trovato una piccola scappatoia pulita. La legge era stata formulata per tenere a bada i cacciatori che sconfinavano nel terreno delle fattorie senza autorizzazione, non per punire i criminali. Nessuno voleva arre-
stare migliaia di cacciatori ogni autunno. Gran parte di loro aveva diritto di voto. Quindi le leggi sulla violazione di proprietà prevedevano misure speciali. Il particolare più importante era che il trasgressore doveva essere ammonito e gli si doveva offrire una possibilità di andarsene - e di rifiutare, o rimandare in modo sostanzioso - prima che l'atto della violazione fosse completo. Il predatore controllò i rapporti della polizia. Nessuno aveva detto niente all'uomo prima che arrivassero gli agenti. Non gli era stata offerta la possibilità di andarsene. Il predatore sorrise e cominciò a stendere le istruzioni per la difesa. Quel caso non sarebbe mai arrivato in aula: Gant non aveva compiuto gli elementi essenziali del reato secondo la legge del Minnesota. E così, era stato sorpreso nascosto in un garage privato poco prima di mezzanotte? E con questo? Nessuno gli aveva detto di andarsene... Il predatore lasciò il documento sul tavolo della segretaria prima di uscire dall'ufficio, domenica pomeriggio. Il lunedì mattina si trovò per caso nello stesso ascensore con l'avvocato che era a capo della sezione processi e il suo assistente. Salutarono con un cenno il predatore e gli volsero le spalle, guardando i numeri che cambiavano. A metà strada l'assistente si schiarì la gola. «Ho qualcosa per lei su quel caso Gant» disse. «Ah sì?» Olson vestiva in modo accurato. Completi grigi, cravatte cachemire, grossi denti bianchi scoperti in un sorriso facile. «Credevo di avere già messo un timbro su quel pollo per rispedirlo a Stillwater.» «Non proprio, maestro» ribatté l'assistente. «Mi è venuta in mente la legge statale sulle violazioni di proprietà e ho fatto un salto qui durante il weekend per darle un'occhiata. Sicuro, c'è una disposizione...» Dopodiché l'assistente ripeté, paragrafo per paragrafo, la relazione del predatore. Quando arrivarono all'ultimo piano Olson stava ridendo, e batté sulla spalla dell'assistente gracchiando: «Accidenti, Billy, sapevo che c'era un motivo per cui ti avevo assunto.» Il predatore rimase esterrefatto in fondo alla cabina. Nessuno dei due lo aveva notato. Nel giro di mezz'ora, era in preda alla collera. Non poteva presentarsi da Olson e rivendicare il lavoro come suo. Sarebbe sembrato meschino. L'assistente avrebbe semplicemente sostenuto di avere avuto la stessa idea. Era sempre andata così. Lui era stato sempre ignorato. La collera alimentò il bisogno che provava della ragazza. Si accumulò come un rombo
di tuono, e lui tornò a casa con quel bisogno che gli ribolliva nelle vene. Heather Brown era tornata al suo isolato. Indossava una minigonna di pelle e una camicetta turchese aperta fino alla cintura. Una collana di perle di vetro penzolava sul petto gracile costellato di lentiggini; una fascia tratteneva i capelli all'indietro. Il predatore tornò indietro lungo il marciapiede verso di lei, facendo scorrere gli occhi sul suo corpo. Era vestito con molta cura; più che per uno qualsiasi degli altri omicidi, perché l'incontro sarebbe avvenuto in pubblico e potevano esserci benissimo dei testimoni. Il predatore indossava jeans e stivaletti, una giacca a vento di nylon rosso e un berretto con la visiera John Deere. Era leggermente fuori posto, a Hennepin. Non tanto da essere vistoso, ma abbastanza perché il suo abbigliamento potesse restare impresso nella mente a qualcuno. Era un agricoltore, puro e semplice. In mezzo a una folla di agricoltori, si sarebbe inserito senza la minima increspatura, pensò, a patto che tenesse la bocca chiusa. Aveva praticato un foro nella cucitura della tasca della giacca e teneva nella fodera un lungo coltello acuminato della Chicago Cutlery. «Heather» disse avvicinandosi. Si guardò attorno. La persona più vicina era un nero seduto su una panchina dell'autobus sul marciapiede di fronte. Voltò le spalle all'uomo. Heather stava guardando oltre e riportò lo sguardo a fuoco su di lui. «Come va, tesoro?» «Ti ho parlato l'altra sera...» «Non mi ricordo di te.» «Ti ho offerto cinquanta per un bocchino più scopata...» «Ah, sì.» Piegò la testa di lato, perplessa. «Sembri molto diverso.» Il predatore abbassò gli occhi su di sé, annuì e cambiò argomento. «Hai detto che potevi inventare qualche giochetto più eccitante, se riuscivo a procurarmi i soldi.» «Ce li hai?» «Ho un centone.» «Allora cosa hai in mente, cowboy?» Il motel era piacevolmente decrepito. Heather entrò nell'ufficio, prese una chiave e tornò un minuto dopo. Dentro la stanza, il predatore si guardò attorno, annusò. Disinfettante. Dovevano spruzzarlo nelle camere. Il bagno era minuscolo, sul pavimento mancavano delle mattonelle, il copriletto era
sottile e logoro. «Perché non sistemiamo prima la questione dei soldi?» chiese Heather Brown. «Oh, sì. Cento?» Il predatore prese le banconote dalle tasche dei pantaloni e le gettò sul cassettone. Cinque biglietti da venti. «E se davvero possiamo fare... sai... ne ho altri cinquanta.» «Ehi, mi piaci, amico» esclamò lei con un sorriso luminoso. «Perché non andiamo là dentro e ne parliamo mentre facciamo una doccia?» «Comincia tu, arrivo subito» rispose lui. Fece per togliersi la giacca e, quando lei entrò nel bagno, estrasse dalla tasca il coltello e lo fece scivolare sotto il letto. La doccia fu un tormento. Lei gli lavò accuratamente il pene e, vedendo che non succedeva niente, chiese: «Hai qualche problema?» Si accigliò, un'increspatura in mezzo agli occhi. Gli impotenti non erano il lato peggiore del mestiere, ma certo rallentavano il ritmo. «No, no, no, se possiamo...» Lei aveva delle sciarpe di seta nella borsa, quattro, per i polsi e le caviglie. «Non legarle troppo strette» gli raccomandò. «Basta un laccio.» «So farlo» rispose lui a denti stretti. Le legò prima i piedi, uno a ogni angolo in fondo al letto, poi le mani, ai lati, fissandole alle sponde del letto. «Come va, tesoro?» «A meraviglia» rispose, voltandosi verso di lei. Aveva una mezza erezione, ormai, il pene gli stava discosto dal corpo. «Se vuoi portarlo qui un minuto, posso aiutarti a finire» si offrì lei. «No, no, sto benissimo; ma voglio usare un preservativo... scusami...» «No, non è un problema» rispose lei incoraggiante. Lui si girò per raccogliere la giacca dal pavimento, trovò un preservativo, lo estrasse dalla confezione e se lo applicò. Poi prese dalla stessa tasca il Kotex e si stese al suo fianco. «Apri bene» ordinò. Intuendo che qualcosa non andava, lei cercò di mettersi seduta, aprì la bocca, forse per gridare, e il predatore l'afferrò ai lati della gola e strinse, spingendola in basso verso il letto. Lei ricadde all'indietro, torcendo le spalle, tendendo le sciarpe che la legavano. Man mano che lui stringeva, la bocca si spalancava sempre più, e lei riuscì a emettere un gemito, non abbastanza forte da attirare l'attenzione in un motel come quello, e allora lui
le spinse in bocca il Kotex, pigiandolo dentro. Quando fu a posto, le coprì la bocca con una mano e frugò nella tasca della giacca con l'altra, trovò i guanti e se li infilò, uno alla volta. La ragazza lo guardava, lottando ancora contro i legami, con gli occhi ormai dilatati e terrorizzati. Quando si fu infilato i guanti, lui prese il nastro adesivo dall'altra tasca e glielo passò due volte intorno alla testa e sopra il bavaglio. Poi ricontrollò i legacci; reggevano bene. «Ora guarda» disse alla ragazza, inginocchiandosi sopra di lei. «Questa è la realtà. E hanno tentato di dire che sono impotente.» Lei aveva smesso di dibattersi e si ritrasse sul letto, guardandolo. «Così ora ci divertiremo un po'» le disse. Trovò il coltello sotto il letto, lo tirò fuori e glielo fece vedere, con la lama d'acciaio che scintillava alla luce della lampada. «Non farà troppo male. Sono bravissimo» disse. «Cerca di tenere gli occhi aperti quando entra; mi piace guardare gli occhi.» Lei distolse lo sguardo, e d'improvviso nella stanza si sentì un cattivo odore e lui abbassò gli occhi sul pube della ragazza e si accorse che se l'era fatta addosso. «Oh, Cristo» imprecò. Ma era deliziato. Se l'era fatta sotto dalla paura. Riconosceva il potere. Ma ora non l'avrebbe violentata. Il pensiero di giacere nell'urina gelata era sgradevole. E lo stupro non era essenziale. Il predatore si stese accanto a lei, si sporse per baciarla dolcemente sulla guancia mentre tentava di tirarsi indietro. «Ci vorrà solo un secondo» le disse. Lei cominciò a tendere freneticamente le braccia per liberarsi dai legami. Lui posò la punta del coltello appena sotto lo sterno e sentì l'orgasmo crescere dentro di sé mentre spingeva il coltello dentro e in alto. Gli occhi della ragazza si aprirono, dilatandosi, dilatandosi, e poi la luce si spense e per lei tutto finì. Il predatore la guardò negli occhi mentre la luce svaniva, sentì le ondate dell'orgasmo ritirarsi e la tensione defluire dal cervello. Era andata molto bene, pensò. Molto bene. Si scostò dal letto e la guardò. Non era bella, pensò, ma c'era qualcosa di grazioso nel suo atteggiamento. Si tolse il preservativo e lo gettò nel gabinetto tirando lo sciacquone, poi cominciò a vestirsi, interrompendosi spesso per ammirare la sua opera. Dentro di sé, gioiva. Quando fu vestito, le diede ancora una lunga occhiata, tendendo la mano per accarezzare la gamba che si stava raffreddando, e si diresse alla porta. «Ooops» esclamò a voce alta. «Non devo dimenticare il biglietto.» Lo prese dalla tasca della giacca e lo lasciò cadere sul corpo.
Fuori, era una bella sera d'autunno, pungente. Attraversò il parcheggio asfaltato, arrischiandosi a gettare una rapida occhiata verso la portineria del motel. Si vedeva l'impiegato dietro lo sportello, con il viso inondato dalla luce azzurrina di un televisore. Non guardava fuori. Tenendo la testa rivolta dalla parte opposta per prudenza, il predatore camminò lungo il marciapiede e svoltò l'angolo, e dopo averlo superato si tolse la giacca e il berretto. Arrotolò la giacca intorno al berretto e se la mise sotto il braccio. Svoltò di nuovo e raggiunse l'auto. Salì a bordo e gettò la giacca sul fondo della vettura. Se qualcuno lo avesse visto salire in macchina, non avrebbe visto di certo un uomo in giacca a vento rossa con un berretto a visiera. Percorse sei isolati in direzione della circonvallazione e si fermò a un bar. Un'autopattuglia, con le luci rosse accese ma senza sirena, passò a tutta velocità diretta a Hennepin mentre luì beveva il primo drink. Strinse il bicchiere fra le mani, poi fece segno al barista che voleva un altro giro. Quando uscì, era passata un'ora dal momento in cui aveva lasciato la stanza del motel. «Un altro rischio inutile» si disse. «Non passerò là davanti in macchina, però. Mi avvicinerò soltanto quanto basta per guardare.» Da un semaforo a un isolato di distanza, poté vedere almeno quattro macchine della polizia ferme al motel. Mentre aspettava il verde, un camion della televisione raggiunse il motel e una ragazza dai capelli scuri scese dal posto vicino al conducente. La riconobbe subito. Annie McGowan, la donna che sosteneva che lui era impotente. Un clacson suonò alle sue spalle e lui guardò lo specchietto retrovisore e poi il semaforo, che era passato al verde. Svoltò l'angolo e accostò al marciapiede. La McGowan stava parlando a un poliziotto e l'agente scuoteva la testa. Un gruppo di persone passò sul marciapiede superando l'auto del predatore, attirata dalle luci della polizia e dal camion della televisione. Il predatore fu tentato di unirsi a loro, ma decise di no. Troppo rischioso; aveva corso già abbastanza rischi. Inoltre, dall'assassinio aveva ricavato gioia sufficiente per tornarsene a casa, dove avrebbe potuto rilassarsi e assaporarla. Un lungo bagno caldo, chiudere gli occhi, e rivivere il momento in cui la luce si era spenta in Heather Brown. 14 Era stato uno dei weekend più belli dell'anno, con le giornate tiepide e le notti fredde, pungenti. I boschi conservavano ancora la brillantezza dei co-
lori, e nell'aria aleggiava l'aroma lieve dei ceppi di betulla che ardevano. «Abbiamo almeno un'altra settimana per le foglie. Forse due» disse Carla. Un gruppo di aceri sulla riva nord del lago era di un arancio fiammeggiante. «Peccato che tu non abbia più aceri.» «Ci ho pensato quando ho comprato il terreno» ribatté Lucas. «Non volevo aceri. Sono belli, ma io volevo i pini. Danno al posto un'atmosfera nordica. Un po' più a sud, giù nel paese degli aceri e delle querce, sembra una zona agricola.» Andavano alla deriva lungo la sponda, usando le mosche artificiali di pelo di cervo intorno alla vegetazione emergente, ai moli e ai tronchi abbattuti. «C'è chi dice che è già troppo tardi per le mosche artificiali, ma io non sono d'accordo. E poi è più divertente lanciarle» disse Lucas. In tre ore di lanci avevano preso cinque lucci e si erano lasciati sfuggire due persici. «Giornata negativa per i persici, eh?» disse Carla mentre tornavano verso il pontile. «Mi spiace doverlo ammettere, ma è stata una buona giornata. Due tentativi falliti sono una buona media. Il più delle volte non li vedi nemmeno.» «Che divertimento.» «Almeno non devi disturbarti a pulire i pesci» ribatté lui con un sogghigno. «Quando devo andarmene da qui?» chiese Carla. «Che vuol dire che devi andartene?» «Presumo che la caccia da parte dei giornalisti televisivi si sarà calmata, ormai. Potrei tornare in città. Ma sai, ho vissuto tanto tempo in quello studio in compagnia di un forno. Detesto l'idea di andarmene.» «Ehi, resta pure un mese, se vuoi» disse Lucas. «Io devo tornare quassù fra due o tre settimane per smontare il pontile. Poi non ci sarà molto da fare finché non arriveranno il gelo e la neve.» «Ci sto» disse Carla, ridendo, «Forse non un mese, ma un paio di settimane ancora. Non sai che sollievo sia per me. Ho portato su un paio di blocchi da disegno e dei pastelli e me la passo benissimo.» «Bene. È a questo che serve la casa.» Lei gli lanciò un'occhiata. «Sono contenta che tu possa restare un giorno in più. Qui è sempre tranquillo, ma il sabato e la domenica c'è un po' di gente in giro. Oggi è tutto per noi. Durante la settimana è davvero speciale.»
Dopo cena, Lucas accese il fuoco nel caminetto, portando dentro i ceppi di betulla tagliati l'autunno precedente. Quando il fuoco ebbe preso, si sedettero sul divano a parlare e a guardare la televisione e poi una videocassetta presa a nolo, Il grande freddo. Verso la fine del film Lucas cominciò ad armeggiare con i bottoni della camicetta di Carla. Quando squillò il telefono, le aveva sfilato la blusa e Carla era seduta a cavalcioni su di lui e lo stuzzicava. Alzò gli occhi su di lei e disse, improvvisamente serio: «Non ho voglia di rispondere. Ne ha uccisa un'altra.» Carla smise di ridere e si girò a metà, allungando la mano per afferrare il ricevitore e ficcarglielo in mano. Lui lo guardò per un secondo e poi lo prese a malincuore. «Davenport» disse, mettendosi a sedere. «Lucas» rispose Anderson «ne abbiamo un'altra.» «Merda.» Lui guardò Carla e annuì. «È meglio che vieni.» «Chi è?» «Una battona. Abbiamo un nome d'arte, nient'altro. Heather Brown. Quindici anni, forse. Coltello, proprio come le altre. C'è il biglietto.» «Non la conosco. Avete controllato Smithe?» «Sì, è su nella fattoria di famiglia. Calcoliamo che sia morta verso le sette di sera. Una troupe televisiva lo ha seguito alla fattoria. Hanno fatto delle riprese alle sei. Lui è ancora lassù. Non c'entra.» «E il pappone della ragazza?» «Lo stiamo cercando. Quello è uno dei motivi per cui ti vogliamo quaggiù... vogliamo che tu le dia un'occhiata per vedere se la riconosci e per scovare qualcuno della sua risma.» «L'Antidroga è al lavoro?» «Sì. La conoscono, ma non hanno ancora concluso niente.» «Dov'è successo?» «Giù a Hennepin sud. Da Randy.» «Sì, lo conosco. Va bene, sarò lì il più presto possibile.» Attaccò e si rivolse a Carla, che si stava infilando la camicetta. Tese una mano e premette il palmo contro uno dei seni. «Devo andare» disse. «Chi era?» Lei aveva una voce bassa, depressa. «Una prostituta. In un motel a ore. È lui, certo, ma è piuttosto... strano. Sembra quasi spontaneo. Ed è la prima volta che avvicina una prostituta.»
Esitò. «Ho un favore da chiederti, ma non voglio che tu la prenda male.» Lei corrugò la fronte e scrollò le spalle. «Allora chiedi.» «Potresti fare quattro passi fino al pontile per qualche minuto?» «Certo...» «Devo fare una telefonata e...» Fece un gesto d'impotenza. «Non è che non mi fido di te, ma sarebbe meglio se parlassi in privato. A volte faccio cose che vengono considerate ai margini della legge. Se mai convocassero una giuria istruttoria... non vorrei che tu dovessi giurare il falso o anche solo pensare di doverlo fare.» Lei sorrise con aria incerta. «Sicuro. Vado a fare una passeggiata. Non è un problema.» «A me pare che lo sia» ribatté Lucas, passandosi le mani fra i capelli. «Ogni volta che mi caccio in questa situazione con una donna, loro pensano che non abbia fiducia in loro.» «Sono state molte?» «Uscivo con una giornalista. Mi ha fatto impazzire.» «D'accordo. Del resto, sei un poliziotto.» Prese una delle camicie di flanella a maniche lunghe che Lucas indossava nelle serate fredde e gli sorrise. «Non preoccuparti per questo. Sarò giù al pontile, quando avrai finito chiamami.» Lui la guardò scendere gli scalini e allontanarsi lungo il sentiero che attraversava il giardino, e un attimo dopo vide la sua silhouette stagliarsi contro l'acqua scura quando passò sul pontile. Sollevò il ricevitore e formò un numero. «Ho bisogno di parlare subito con Annie McGowan. È un'emergenza.» «Posso dirle chi parla, per favore?» «Le dica Cavallo Rosso.» Un attimo dopo la McGowan era in linea. «Cavallo Rosso?» «Annie, c'è stato un altro omicidio. Lo hai già sentito?» «No.» Aveva la voce pronta, ansiosa. «Dove?» «È una puttana, al Randy's Motel, giù a Hennepin. Una ragazza giovane. Il nome d'arte era Heather Brown. In questo momento i nostri uomini sono sul posto, è meglio che mandi una troupe laggiù. E lascia che ti dia un'altra informazione su di lui, elaborata dai nostri strizzacervelli. Il capo e gli altri agenti investigativi cercheranno di smentirlo, perché non vogliono che questo genere di informazioni delicate vengano diffuse, ma ci aspettavamo che uccidesse una prostituta.» «Dio mio, perché?»
«I nostri psichiatri pensano che lui probabilmente sia così brutto, così poco attraente per le donne che non solo non riesce a farselo rizzare, ma non riesce nemmeno a procurarsi una donna da solo. Probabilmente una cosa contribuisce all'altra. Non sappiamo se si tratta dell'aspetto, però. Forse è un fatto di chimica corporea o qualcosa del genere. Sai, magari ha un odore insopportabile.» «Uau.» «Sì, hai afferrato l'idea. Veramente repellente, come una lucertola umana. Non darei queste informazioni a nessuno, ma mi è piaciuto il modo in cui hai inserito nel servizio la mia ultima soffiata a proposito dell'impotenza. Ora che ha ucciso la prostituta, penso che forse quest'ultima informazione offrirà agli spettatori di Now Report un'occasione esclusiva per spiare nella mente di un pluriomicida, capisci.» «Questa è davvero forte, Luc... Cioè, Cavallo Rosso. Lasciami preparare il servizio e mi farò risentire. Sei a casa?» «No. Sono su al nord, a tre ore di viaggio. Sto per tornare, arriverò poco prima di mezzanotte. Probabilmente sarò a casa all'incirca dopo l'una, e resterò in piedi fino alle tre o giù di lì. Se devi chiamarmi, chiama allora.» «Okay. Grazie, Cavallo Rosso.» Carla era sul pontile, avvolta nella camicia di flanella. «Te ne vai?» «Sì.» «Ti accompagno alla macchina.» «Volevo restare ancora un po'» disse lui. «Allora torna.» «Se posso.» L'abbracciò e la baciò e lei gli si strinse contro per un attimo, poi si sciolse dall'abbraccio e tornò verso casa. Lucas salì sulla Porsche, descrisse un circolo per invertire la marcia e partì per le Città Gemelle. Guidare a tutta velocità sulle strade strette della regione delle foreste era eccitante, ma di solito lo faceva alla luce del giorno. Di notte i boschi ai lati sembravano avanzare, premere ai bordi della strada. Correva più veloce dei fari, con la vegetazione e i pali del telefono che saettavano dentro e fuori del suo raggio visivo senza lasciargli il tempo di riflettere. Cinquanta chilometri più avanti, appena oltrepassato il confine del Minnesota, superò una piazzola di sosta e le luci rosse si accesero dietro di lui,
mentre un'autopattuglia della stradale si lanciava sulla carreggiata. Lucas sterzò bruscamente verso la banchina stradale e scese col distintivo in mano. L'agente della stradale era già sulla strada, una mano sull'arma, l'altra stretta su una lunga torcia elettrica d'acciaio. «Sono un poliziotto di Minneapolis e sto correndo in città per un'emergenza» spiegò Lucas avvicinandosi all'agente, tendendo la custodia del distintivo. «Tenente Lucas Davenport. Il predatore ha appena ucciso una prostituta, una ragazzina. Sto cercando di rientrare in città.» «Oh-oh» disse il poliziotto della stradale. Guardò il distintivo e la tessera di riconoscimento alla luce della torcia, poi la puntò per un attimo in faccia a Lucas. «Se può chiamare l'operatore radio e farsi mettere in contatto con la centrale...» «L'ho vista in televisione» ribatté l'agente. Gli restituì il distintivo. «Non le farò la multa, ma uomo avvisato mezzo salvato, d'accordo? L'ho cronometrata a centotrenta chilometri l'ora. Se prosegue da qui verso l'interstatale a 90 anziché a centotrenta, le costerà solo due minuti in più. Se guida a centotrenta e investe un cervo o un orso, è spacciato. È stato fortunato a non averne già investito uno. In questo periodo si spostano parecchio. Se colpisse una vecchia orsa di quelle grosse con questa macchina, sarebbe come schiantarsi contro un muro di mattoni.» «Giusto. È solo che sono un po' agitato.» «Allora si calmi» ribatté l'agente. «Chiamerò le altre pattuglie, avvertirò gli agenti sull'interstatale che sta cercando di guadagnare un po' di tempo. Una volta raggiunta l'interstatale, si mantenga sotto i 160 e la lasceranno in pace.» «Grazie, agente.» Lucas tornò verso la macchina. «Ehi, Davenport.» Lucas si fermò con lo sportello semiaperto. «Sì?» «Lo prenda, quel rotto in culo.» Il motel era una costruzione malandata a un solo piano, con un cartello dipinto a mano che prometteva sempre stanze libere. C'erano una mezza dozzina di autopattuglie e quattro camion della televisione parcheggiati davanti, quando Lucas arrivò. Vide Jennifer e, poco più avanti, Annie McGowan, tutt'e due con gli operatori. Lucas riuscì a infilare la Porsche fra due autopattuglie, scese, la chiuse a chiave e si diresse verso il nastro giallo che sbarrava il vialetto d'accesso del motel.
«Lucas.» «Ciao, Jennifer...» «Figlio di puttana, le hai dato un'altra informazione.» «A chi?» «Lo sai chi. McGowan.» Jennifer voltò là testa per fissare con ira l'altra donna lungo la strada. «Non sono stato io» mentì Lucas. «Cristo, ero su al nord nel mio rifugio.» «Be', qualcuno le sta passando notizie scelte. Lei se la ride sotto i baffi di tutti noi.» «È così che vanno le cose nel mondo dell'informazione, no?» Lui si chinò per passare sotto il nastro. «Chiamami domani, vedrò se riesco a procurarti qualcosa.» «Ehi, Lucas, non sarai ancora in collera? Per quella storia di Smithe?» «Dobbiamo parlare» rispose lui. «Dobbiamo escogitare una specie di accordo. Sei libera domani sera?» «Sì, certo.» «Allora ti porterò a cena in un posto tranquillo. C'inventeremo qualcosa.» «Magnifico.» Lei sorrise e Lucas si voltò e vide Anderson in mezzo a una folla davanti all'ufficio del direttore del motel. «Allora?» domandò, prendendo Anderson per la manica. «Vieni a dare un'occhiata.» La guidò verso il retro del motel. «Chi l'ha trovata?» «Il portiere di notte» rispose Anderson, lanciando un'occhiata all'indietro. «La ragazza aveva l'abitudine di fermarsi a bussare alla finestra, all'entrata e all'uscita. Ha bussato entrando, ma non è mai uscita. Dopo un po', lui si è affacciato e dice di aver visto una riga di luce intorno alla porta. Evidentemente l'assassino non aveva chiuso bene, uscendo. Questo ha incuriosito il portiere, che si è avvicinato e ha bussato. E lei era là.» «Ha visto l'assassino? Il portiere?» «No. Lui dice di non aver visto nessuno.» «Questo portiere, è per caso Vinnie Short?» «Non so come si chiama» rispose Anderson. «È basso, comunque.» Heather Brown era legata come le altre, ma a differenza delle altre aveva le braccia tese ad angolo retto rispetto al corpo, come se fosse crocifissa. Il manico del coltello sporgeva dal petto sotto lo sterno. La testa era rivolta di lato, con gli occhi e la bocca aperti. Si vedeva la lingua sporgente, di un
pallore osceno. Sulle cosce aveva lunghe cicatrici chiare, che risaltavano bianche sull'abbronzatura troppo regolare della lampada. «Non la conosco» disse Lucas. Entrò un agente dell'Antidroga. «La conosci?» gli domandò. «L'ho vista qualche volta in giro, batteva il marciapiede da un paio d'anni» rispose l'agente dell'Antidroga. «Viveva dalle parti dell'università, a Saint Paul, ma il suo vecchio si è fumato il cervello con il crack e lei è sparita per un po'.» «Stai parlando di Louis il Bianco?» «Sì. Vedi le cicatrici sulle gambe? Quello era il marchio di Louis. Le picchiava con gli appendiabiti. Diceva che non c'era mai stato bisogno di farlo più di due volte.» «Ma è morto» osservò Lucas. «Otto mesi fa. Grazie al cielo. Ma ti dirò una cosa. Le sue ragazze facevano lavoretti speciali. Pioggia dorata, sadomaso, sculacciate, roba del genere. Questo tizio può averla conosciuta così. Il modo in cui è legata... sarebbe difficile legare qualcuno in quel modo, se non collaborasse.» «Voi altri non sapete chi la sfruttava adesso?» «No. Era un po' che non la vedevo in giro» rispose l'agente dell'Antidroga. «Abbiamo parlato con il portiere di notte, ma sostiene di non sapere niente di lei» aggiunse Anderson. «Dice che è in circolazione da due o tre settimane. Entrava nell'ufficio, pagava la stanza, usciva. Prendeva una stanza per la notte, ci portava due o tre clienti, bussava alla finestra entrando e uscendo. Si rifaceva il letto da sola.» «Quanto pagava per la stanza?» «Non so» rispose l'agente dell'Antidroga. «Posso controllare.» «Di solito l'accordo è un cliente per una tariffa. Di solito non la prendono per tutta la notte. A meno che il motel non sappia quello che succede.» «Quel tipo lo sa» disse l'agente dell'Antidroga. «È Vinnie Short?» «Sì.» «Ci conosciamo da tempo. Andrò a parlargli io» disse Lucas. Guardò di nuovo in giro per la stanza. «Niente, eh?» «Non molto. Il biglietto.» «Che cosa dice?» «Mai portare un'arma dopo averla usata.» «Figlio di puttana. Non ci lascia granché.»
Anderson uscì. Lucas guardò di nuovo il corpo, poi prese la borsa della Brown e la esaminò. Un portafogli da quattro soldi in plastica conteneva 15 dollari, una patente di guida, una tessera della sicurezza sociale e mezza dozzina di foto. Prese la più nitida dal portafogli e lo lasciò cadere sul fondo della borsa. In una tasca laterale trovò due bustine di plastica. Cocaina. «Abbiamo un paio di quarti di grammo, qui» disse all'agente dell'Antidroga. «Avevi già inventariato la borsa?» «Non ancora.» «Affacciati nel corridoio e chiama Anderson, per favore.» Quando il poliziotto uscì, Lucas intascò la fotografia presa dal portafogli e lo richiuse. «Sì?» Anderson rientrò nella stanza. «Ho trovato della droga. È meglio mettere questa borsa in un sacchetto per i reperti, prima che sparisca.» Vincent Short era basso di nome e di fatto. Aveva anche lunghi e radi capelli rossi e credeva di somigliare a Woody Allen. Non sapeva niente. Si grattava la testa e la scuoteva, poi si grattava di nuovo. La forfora cadeva come una nevicata sul golf nero con il collo alto. Due agenti dell'Antidroga gli stavano intorno e lo guardavano quando Lucas entrò. Short alzò la testa e impallidì. «Tenente» disse nervosamente. «Vincent, amico mio, dobbiamo parlare» disse Lucas in tono allegro. Guardò gli agenti. «Potrei avere una conversazione privata con quest'uomo? Siamo vecchi amici.» «Non c'è problema» rispose uno degli agenti. «Ehi, dico, avete trovato la scheda di registrazione della ragazza?» «Sì, eccola qui.» Uno degli agenti gliela porse e Lucas sbirciò il totale. Trenta dollari. «Grazie. Ci vediamo.» Quando furono usciti, Lucas si rivolse a Short, che si stava facendo piccolo piccolo sulla sedia. «Forse dovremmo tornare nell'ufficio, dove possiamo parlare» suggerì. «Vaffanculo, Davenport...» Short cominciò a piangere. Lucas si chinò sulla sedia e parlò in tono gentile. «Vincent, tu sai chi è il pappone della ragazza. Ora devi decidere. Hai più paura di lui o di me? E lascia che ti dia una piccola spinta. Qui stiamo lavorando su un maniaco omicida. Sono io che ho il culo sul fuoco. Quindi ti conviene decisamente
avere più paura di me.» «Va' a farti...» «E forse dovresti pensare a quello che dirà il proprietario, quando scoprirà che affittavi una stanza a una prostituta, per tutta la notte, per trenta dollari. Dovevi ricevere qualche cosina sottobanco, vero? Magari un po' di svago, magari un tiramisu? Eh, Vincent?» «Va' a fartelo...» Lucas lanciò un'occhiata alle finestre che davano sulla strada. Nessuno guardava dentro. Allungò la mano e strinse fra l'indice e il pollice la carne fra le narici di Short, ficcandoci dentro l'unghia del pollice. Short inarcò la schiena come se fosse seduto sulla sedia elettrica e tirò indietro la mano di Lucas, ma Lucas mantenne la presa e premette l'altro pollice sulla gola di Short sotto il pomo di Adamo, in modo che non potesse gridare. Lottarono per alcuni secondi e poi Lucas lo lasciò andare e indietreggiò, e Short si piegò in due sulla sedia, affondando il viso fra le mani, mentre un lungo gemito gli sfuggiva dalle labbra. Lucas si protese in avanti e si ripulì le dita sulla maglia di Short, accostando il viso al suo. «Chi è il pappa?» chiese piano. «Dài, Davenport.» «Se pensi che questo faccia male, so un paio di trucchetti in posti che non crederesti nemmeno» disse Lucas. «E non si vedono neppure.» «Sparks» borbottò l'altro. La sua voce era quasi impercettibile. «Non dirgli che te l'ho detto io.» «Chi?» «Jefferson Sparks. Lei lavora per Sparks.» «Sparky. Porca puttana.» Lucas assestò una pacca sulle spalle di Short. «Grazie, Vincent. La polizia apprezza la collaborazione dei cittadini.» Short alzò la testa verso di lui, con gli occhi orlati di rosso, le guance rigate di lacrime. «Vattene da qui, pompinaro.» «Se non è vero, se non è Sparky, tornerò» promise Lucas. Sorrise a Short. «Buona giornata.» Fuori, stavano portando via il corpo, spingendo la lettiga sotto le luci abbacinanti delle telecamere. I poliziotti dell'Antidroga se ne stavano riuniti in gruppetto sul marciapiede, guardando, quando Lucas uscì. «Il tuo vecchio amico ti ha detto niente?» «Lavorava per Jefferson Sparks» rispose Lucas.
«Sparky» esclamò entusiasta uno degli agenti. «Credo proprio di sapere dove sta.» «Va' a prenderlo» disse Lucas. «Adescamento o altro. Gli parleremo domattina alla centrale.» «Certo.» Anderson stava parlando al medico legale. Quando finì, si avvicinò a Lucas, scuotendo la testa. «Niente?» chiese Lucas. «Niente di niente.» «Setaccerete il vicinato in cerca di testimoni?» «Ho mandato agenti dappertutto. Non sapremo niente fino a domani.» «Abbiamo un nome per lo sfruttatore» disse Lucas. «L'Antidroga sta andando a cercarlo. Probabilmente lo avremo domattina.» «Spero che sappia qualcosa» disse Anderson. «Questo caso sta diventando vecchio.» Lucas lavorò al gioco per mezz'ora, scrivendo la sceneggiatura. Era la parte più ingrata del lavoro. Le rifiniture non finivano mai. Con l'omicidio di Heather Brown, non riusciva a concentrarsi sul lavoro. Smise alle due di notte, mangiò uno yogurt alla fragola, controllò le porte e spense le luci. Era a letto da dieci minuti quando suonarono alla porta. Scendendo dal letto, passò in punta di piedi nello studio in modo da poter guardare fuori da una finestra per tutta la lunghezza della casa, fino alla porta d'ingresso. Il campanello della porta suonò di nuovo mentre lui sbirciava fuori. Annie McGowan, sola alla luce del lampione, imbarazzata mentre attendeva alla porta. Lucas si sedette con le spalle alla parete, lo sguardo fisso nella stanza buia. Jennifer era incinta. Carla lo aspettava nella casa di montagna. Lucas amava le donne, donne nuove, donne diverse. Amava parlare con loro, mandare fiori, far l'amore la notte. Annie McGowan era sensazionale, una donna con il viso di Elena e quello che prometteva di essere un corpo superbo, capezzoli rosa, carni bianche e sode. Ed era stupida come un'oca. Lucas ci rifletté, pizzicandosi l'attaccatura del naso. Fuori, Annie McGowan aspettava, e dopo un altro minuto si allontanò tornando verso la macchina. Lucas si alzò e sbirciò da una fessura fra la tenda e la parete mentre lei apriva lo sportello, esitava, guardava indietro
verso la casa. La finestra si apriva verticalmente con una maniglia. Lui aveva la mano sulla maniglia e ci sarebbe voluto solo un secondo per aprire, per chiamarla prima che si allontanasse. Non si mosse. Lei scivolò al posto di guida, chiuse lo sportello e uscì a marcia indietro dal viale. Un attimo dopo era sparita. Lucas rientrò in camera da letto, si stese e tentò di prendere sonno. Visioni di Annie... 15 La porta dell'ufficio di Lucas era aperta e l'agente dell'Antidroga entrò con aria avvilita e si lasciò cadere su una delle sedie libere. «Sparky è sparito» disse. «Maledizione. Sta andando tutto storto» esclamò Lucas. «Abbiamo trovato la sua casa, giù a Dupont, ma lui se l'è filata ieri sera» spiegò l'agente. «Il tizio che vive di sopra ha detto che Sparky è tornato a casa verso mezzanotte, ha buttato la sua roba in macchina ed è partito con una delle sue donne. Ha detto che non aveva l'aria di voler tornare.» «Sapeva di quella Brown» disse Lucas, appoggiandosi allo schienale e posando i piedi sul piano della scrivania. «Già. Pare di sì.» «E dove potrebbe andare?» L'agente dell'Antidroga scrollò le spalle. «Stiamo chiedendo in giro. Ha un paio di altre donne. Abbiamo sentito che gestiscono una sauna in Lake Street. Lavoravano in un locale chiamato Iron Butterfly, ma quello ormai è chiuso. Così stiamo cercando.» «Parenti?» «Non ne conosco.» «Quando è stata l'ultima volta che lo abbiamo pizzicato?» chiese Lucas. «Circa un anno fa, credo. Atti contro la morale, incitamento alla prostituzione.» «Ha scontato una pena?» «Tre mesi in casa di lavoro.» «Il fascicolo è di sopra?» «Sì. Potrei procurarmelo.» «Non importa» disse Lucas. «Non riesco a combinare niente. Andrò a dare un'occhiata di persona.» «Continueremo a cercarlo» disse l'agente dell'Antidroga. «Daniel ci sta
alle costole.» Lucas accostò la porta dell'ufficio e stava per chiuderla a chiave quando squillò il telefono. Rientrò e sollevò il ricevitore. «Lucas? Sono Jennifer. Usciamo, stasera?» «Certo. Alle sette?» Gli saettò nella mente un'immagine di Carla, con la schiena arcuata, i seni appiattiti, la bocca socchiusa. Carla Ruiz. Jennifer Carey, incinta. «Sì, va bene. Passi a prendermi qui?» «Ci vediamo alle sette.» Il predatore aspettava i fascicoli nell'ufficio del cancelliere, quando entrò Lucas. Il predatore lo riconobbe subito e s'impose di abbassare gli occhi sul dossier che teneva in mano. Lucas non gli prestò attenzione. Superò il cancelletto a molla, passando dietro il banco di servizio, e attraversò la stanza diretto verso il gabbiotto del capufficio. Si affacciò alla porta e disse qualcosa che il predatore non riuscì a distinguere. Il capufficio, che era una donna, alzò la testa dalla scrivania e rise, e Lucas entrò e si appollaiò sull'orlo della scrivania. L'agente investigativo aveva un'aria disinvolta. Il predatore la riconobbe e la invidiò. La capufficio era un'incorruttibile veterana dei tribunali che aveva visto di tutto, eppure Davenport la faceva arrossire come un'adolescente. Mentre stava a guardare, Lucas si voltò all'improvviso e lo fissò, e i loro occhi s'incontrarono per un attimo. Il predatore si riscosse e abbassò di nuovo gli occhi sul dossier. «Chi è quel tipo al banco?» s'informò Lucas. La capufficio guardò alle sue spalle, in direzione del predatore, che lasciò cadere il fascicolo nel cestino del materiale restituito e si avviò alla porta. «Un avvocato. Non riesco a ricordare il nome dello studio, ma negli ultimi tempi viene spesso. Ha difeso quel Berin, sa, quel ragazzo ricco che ha investito una folla...» «Ah sì.» Il predatore sparì oltre la porta e Lucas lo liquidò. «Jefferson Sparks. Un brutto ceffo. Magnaccia. Mi servono le ultime notizie sul suo conto.» «Vado a prenderle. Può usare la scrivania di Lori. È in congedo per malattia» disse la capufficio, indicando una scrivania vuota dietro il banco del pubblico. Sparks aveva tre fascicoli recenti, ciascuno con un sottile fascio di copie
carbone. Lucas le lesse da capo a fondo e trovò una mezza dozzina di riferimenti al Silk Hat Health Club. Sollevò il ricevitore, chiamò l'Antidroga e chiese dell'agente col quale aveva parlato quella mattina. «Il Silk Hat è ancora diretto da Shirley Jensen?» domandò quando l'agente fu in linea. «Sì.» «Ho trovato il nome in un paio di passi nel fascicolo di Sparky. Potrebbe essere lì che lavorano le sue donne?» «Potrebbe darsi. Ora che ci penso, Shirley teneva i registri della contabilità al Butterfly.» «Grazie. Ci farò un salto.» «Fatti sentire.» Lucas attaccò, gettò i fascicoli nel cestino del materiale da riordinare e guardò l'orologio. Mezzogiorno passato da poco. Shirley doveva essere al lavoro. Il Silk Hat era una vetrina verniciata di nero stretta fra un negozio di abiti usati e un'agenzia di noleggio di mobili. L'insegna al neon nella vetrina diceva SI K HAT EALTH CLUB e i vetri della finestra e della porta erano stati dipinti di nero come gli infissi. Sopra la porta c'era una piccola lanterna di ferro battuto e qualche furbastro l'aveva dipinta di rosso con la vernice spray. O forse non era un furbastro, pensò Lucas. Forse era il proprietario. Lucas spinse la porta entrando in una piccola sala d'aspetto. C'erano due sedie di plastica su un tappeto di lana ruvida rossa dietro un tavolino da caffè. Un acquario pieno di pesciolini tropicali era posato sul davanzale della finestra oscurata. Sul tavolino c'era una mezza dozzina di copie della rivista Penthouse piene di orecchie. Le sedie erano disposte di fronte a un banco da ufficio lungo un metro e venti che sembrava rubato dall'anticamera di un medico. Una porta vicino al banco dava sul retro dell'esercizio. Appena Lucas entrò nella sala d'aspetto, sentì un cicalino suonare nel retro, e pochi secondi dopo una giovane donna in abito nero scollatissimo apparve dietro il banco. Masticava gomma, e sulla collinetta del seno sinistro era appena visibile il tatuaggio di un calabrone. Sembrava Betty Boop ma profumava di Juicy Fruit. «Sì?» «Voglio parlare con Shirley» disse Lucas. «Non so se c'è.» «Le dica che Lucas Davenport sta aspettando e se non porta di qua il cu-
lone, io spacco tutto.» La donna lo fissò per un attimo, masticando la gomma finché non schioccò. Non era impressionata. «Che duro» osservò laconica. «Ho qui un tipo che sarebbe meglio che vedesse. Prima di spaccare tutto.» «Chi?» Lei lo squadrò e decise che forse avrebbe riconosciuto il nome. «Bald Peterson.» «Bald? Sì. Dica anche a lui di portare di qua il culone» disse Lucas entusiasta. Infilò la mano sotto la giacca e tirò fuori la P7 e la donna spalancò gli occhi e alzò le mani come per parare un proiettile. Lucas le rivolse un largo sorriso e prese a calci il pannello frontale del banco, che si scheggiò, poi lo prese di nuovo a calci e la donna si voltò e cominciò a correre verso il retro. «Bald, ciucciacazzi, vieni fuori» gridò Lucas verso il retro. Si sporse oltre il banco, afferrò il lato posteriore del ripiano e tirò, e il pannello si sollevò con un gemito e lui lo lasciò andare, sferrò un altro calcio al pannello frontale e un pezzo di asse si spezzò. «Bald, figlio di puttana...» Bald Peterson era alto un metro e 95 e pesava 135 chili. Aveva alle spalle una modesta carriera come pugile e una, di poco più gloriosa, come lottatore professionista. A Lake Street alcuni erano certi che fosse psicopatico. Lucas era sicuro di no. Bald aveva aggredito Lucas una volta, anni prima, quando era ancora in servizio di pattuglia. Era successo in un parcheggio davanti a un locale notturno, loro due da soli. Bald aveva usato i pugni. Lucas aveva usato uno sfollagente lungo 22 centimetri, appesantito col piombo e rivestito di cuoio. Bald era andato al tappeto dopo sei secondi del primo round. E dopo che era andato al tappeto, Lucas aveva usato i piedi e una massiccia torcia d'acciaio per spezzare a Bald parecchie ossa delle braccia, quasi tutte quelle delle mani, le tibie, le ossa dell'arco dei piedi, la mascella, il naso e parecchie costole. Lo aveva anche preso a calci nelle palle cinque o sei volte. Mentre aspettavano l'ambulanza, Bald si era svegliato e Lucas lo aveva sollevato per la camicia e gli aveva detto che se mai avesse avuto di nuovo guai con lui, gli avrebbe tagliato il naso, la lingua e l'uccello. Lucas era stato sospeso dal servizio per sospetto eccesso di uso della forza. Bald era rimasto in ospedale quattro mesi e sulla sedia a rotelle per altri sei. Se Bald fosse stato psicopatico, ragionava Lucas, lo avrebbe attaccato con una pistola, con un coltello, oppure, se era davvero pazzo, con i pugni, appena fosse stato in grado di camminare. Non lo aveva fatto. Non aveva
mai più guardato Lucas da allora, e si era tenuto alla larga da lui. «Bald, testa di cazzo...» gridò Lucas. Prese a calci la parte anteriore della scrivania, che s'infossò. Si sentì un rumore di tacchi sulle scale del retro e lui smise di tirare calci e Shirley Jensen si affrettò lungo il corridoio verso il banco. Lucas rinfoderò la P7. «Stronzo merdoso» gridò Shirley Jensen. «Silenzio, Shirley» ordinò Lucas. «Dov'è Bald?» «Non è qui.» «Quell'altra figa larga mi ha detto di sì.» «Non c'è, Davenport, Cristo in croce, guarda che disastro...» Shirley Jensen aveva superato da un pezzo la quarantina, e aveva il viso segnato da anni di lampada solare, bourbon, sigarette e patate. Aveva almeno cinquanta chili di troppo. Il grasso le sussultava sotto il mento, sulle spalle e sulle braccia, e tremolava come gelatina stretta dalla cintura di lamè dorato. Il viso le si contrasse, e Lucas pensò che stesse per piangere. «Voglio sapere dov'è andato Sparky.» «Non sapevo che se ne fosse andato» ribatté lei, continuando a guardare il banco rovinato. Lucas si protese in avanti finché il suo viso fu a un palmo appena dal naso di lei. Il cerone si stava crepando come il fondo di un lago del Dakota prosciugato dalla siccità. «Shirley, io faccio a pezzi questo posto. Con questo predatore mi sto giocando la carriera, e Sparky potrebbe avere qualche informazione che mi serve. Aspetterò qui...» Guardò l'orologio, come per cronometrarla. «Cinque minuti. Poi scavalcherò il banco. Va' a scoprire dove si trova.» «Sparky sa qualcosa del predatore?» L'idea la stupì. «Quella che è stata uccisa stanotte era una delle sue ragazze. Il predatore comincia a prendersela con le troie. È molto più facile che agganciare le donne oneste.» «Non dare altri calci al banco» lo ammonì Shirley, e gli voltò le spalle per allontanarsi ciabattando lungo il corridoio e sparire. Pochi secondi dopo la porta d'ingresso si aprì e Lucas indietreggiò e si allontanò. Un uomo magro con il viso grigiastro, le spalle strette e un vestito da 70 dollari entrò, fissò il banco rovinato sbattendo le palpebre e guardò Lucas. «Dio buono, che è successo?» «Gli sbirri stanno facendo una perquisizione» rispose Lucas tutto allegro. «Ma se vuole fare solo un po' di esercizi, sa, tipo flessioni, e bere un
po' di succo di frutta, faccia pure. Vada nel retro.» Il pomo di Adamo dell'uomo magro fece due volte su e giù e lui disse: «Va bene» e scomparve dalla porta. Lucas scrollò le spalle, si lasciò cadere su una delle sedie di plastica e prese una copia di Penthouse. "Non credevo che cose del genere accadessero davvero" lesse "ma prima che ve ne parli, forse dovrei descrivere me stesso. Sono matricola in una grossa università del Midwest e le mie compagne di studi dicono che sono piuttosto ben fornito. Una volta una ragazza me lo ha misurato e ha detto che erano 22 centimetri di roccia..." «Davenport...» Shirley emerse dal retro. «Sì?» Lasciò cadere la rivista sul tavolo. «Non so dove si trova con esattezza, in quale albergo» disse la donna «ma è dalle parti di Cedar Rapids, in qualche albergo del centro...» «Iowa?» «Sì. Fa un giro da quelle parti un paio di volte l'anno. Sioux City, Des Moines, Waterloo, Cedar Rapids. Così una delle sue ragazze dice che è laggiù, non sa esattamente dove, ma dice che è un albergo del centro.» «Okay.» Lucas annuì. «Ma se non è lì...» «Va' a cagare, Lucas, mi hai distrutto la scrivania.» Jennifer amava i fiori. Su ogni tavolo c'erano due garofani, uno rosso e uno bianco, in un vaso a collo lungo. Il ristorante era gestito da una famiglia vietnamita, profughi che si erano lasciati dietro un ristorante francese a Saigon. Il vecchio patriarca e la moglie lo finanziavano, i figli gestivano il locale e cucinavano, i generi e le nuore lavoravano ai tavoli e al bar e alla cassa, i nipotini di dieci anni sparecchiavano i tavoli e lavavano i piatti. «Il grosso problema di questo locale» disse Jennifer «è che sta per essere scoperto.» «Tanto meglio» ribatté Lucas. «Se lo merita.» «Immagino di sì.» Jennifer guardò il vino rosso nel bicchiere, osservando i riflessi della luce che filtravano dalle veneziane sulla strada. «Che cosa faremo?» chiese dopo un attimo di silenzio. Lucas si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le gambe. «Non possiamo andare avanti così. Mi hai danneggiato sul serio. Daniel sa della nostra relazione, e ogni volta che qualche indiscrezione arriva alla stampa, guarda me. Anche se si tratta di Canale 8.» «Ho smesso di fare servizi di cronaca, almeno per ora» rispose lei. Inclinò la testa, lasciando ricadere i capelli lontano dal viso, e gli occhi di Lu-
cas percorsero la curva dolce del mento e lui pensò che era innamorato. «Sì, ma se fiuti una pista... dimmi che non la passerai a uno dei tuoi colleghi» replicò lui. Jennifer bevve un sorso di vino, posò il bicchiere sul tavolo, passò il dito intorno all'orlo e all'improvviso lo guardò negli occhi. «Sei andato a letto con Annie McGowan?» «Porca troia, Jennifer» sbottò Lucas esasperato. «No. Non ci sono andato.» «E va bene. Ma non sono sicura di te» disse lei. «Qualcuno le passa delle indiscrezioni e, chiunque sia, è addentro alle indagini.» «Non sono io» disse Lucas. Si protese in avanti e disse: «Inoltre, le notizie che riceve...» S'interruppe, si morse il labbro. «Potrei dirti una cosa, ma temo che mi citeresti e mi rovineresti davvero.» «È una storia?» domandò lei. Lucas rifletté. «Potrebbe esserlo, forse. Sarebbe piuttosto insolito. Taglieresti le gambe alla McGowan.» Jennifer scosse la testa. «Non lo farei. Non lo fa nessuno, in televisione. È troppo pericoloso, scatenerebbe una guerra. Perciò dimmelo. Se è come dici tu, giuro che nessuno lo saprà da me.» Lucas la guardò per un minuto. «Sul serio?» «Sul serio.» «Sai» disse lui noncurante, come se non avesse importanza «ho minacciato di non parlarti più, in passato, ma c'erano sempre delle ragioni per tornare insieme. Riuscivo sempre a trovare una scusa per quello che facevi.» «Generoso da parte tua.» «Aspetta un momento. Lasciami finire. Stavolta hai fatto una promessa. Niente se, e, o ma. Se trapela, saprò da dove è venuta. E allora vorrà dire che fra noi non esisteranno mai le basi per una fiducia reciproca. Mai. Neanche con il bambino. Non sto giocando, adesso. Questa è la vita reale.» Jennifer si appoggiò allo schienale, alzò gli occhi al soffitto, poi li abbassò su di lui. «Quando ero adolescente, avevo fatto un patto con mio padre» disse lentamente. Alzò la testa. «Se qualcosa era veramente importante e lui doveva sapere la verità, gli avrei detto la verità e poi avrei aggiunto "Sul mio onore di scout". E se lui voleva dirmi qualcosa e sottolineare che era importante e non stava scherzando o raccontando frottole, diceva "Sul mio onore di scout" e mi faceva il segnale di riconoscimento dei boy scout. So che suona sciocco, ma non lo abbiamo mai violato. Non abbiamo mai
mentito.» «E non dirai...» «Sul mio onore di scout» disse lei, facendo il segno con le tre dita. «Cristo, se ci vedessero sembreremmo ridicoli.» «Va bene» disse Lucas. «Quello che volevo dirti è questo. Non so da dove vengono le informazioni della McGowan, ma per la maggior parte sono completamente false. Lei dice che riteniamo che l'assassino sia impotente o abbia un cattivo odore o un aspetto strano, e noi non pensiamo niente di simile. Sono tutti pettegolezzi di corridoio. Secondo noi li ottiene da qualche agente in divisa ai margini delle indagini.» «Sono tutte balle?» chiese Jennifer, incredula. «Sì. È incredibile, ma la verità è questa. Ha fatto tutti questi grandi scoop, e sono tutte stronzate. Per quanto mi risulta, se le inventa di sana pianta.» «Non mi racconteresti frottole, vero, Davenport?» Lei lo fissava attentamente e lui ricambiò lo sguardo con fermezza. «No» rispose. «Sei andato a letto con Annie McGowan?» «No» disse lui. Sollevò la mano facendo con tre dita il segno degli scout. «Sul mio onore di scout» aggiunse. Lei giocherellò con lo stelo del bicchiere da vino, guardando il vino roteare all'interno. «Devo riflettere un po' su di te, Davenport. Ho già avuto delle... passioni, per altri uomini. Questa sta diventando qualcosa di diverso.» La mattina dopo dormirono fino a tardi. Jennifer stava leggendo il Pioneer Press e Lucas preparava la colazione quando squillò il telefono. «Parla Anderson.» «Sì.» «Ha chiamato un poliziotto di Cedar Rapids. Hanno arrestato Sparky per cospirazione a scopo di prostituzione, e hanno...» «Cospirazione a cosa?» «Una specie di accusa fasulla. Lui ha detto che il procuratore della contea li prenderà a calci in culo quando lo scoprirà. Dovranno dirglielo questo pomeriggio, prima che finisca l'orario di lavoro. Ti abbiamo prenotato un aereo per le dieci. Il che ti lascia un'ora per arrivare all'aeroporto. Il biglietto ti aspetta lì.» «Quanto ci vuole in macchina?»
«Cinque o sei ore. Non ce la faresti mai, non prima che debbano informare il procuratore della contea. Allora probabilmente dovranno rimettere Sparky in libertà.» «Va bene, va bene, dimmi la linea aerea.» Lucas scrisse i dati su un blocchetto, attaccò e andò a informare Jennifer. «Non té lo chiederò» disse lei, sorridendo. «Te lo dirò, se vuoi. Ma mi servirebbe il giuramento di scout che non lo ripeterai.» «No. Posso vivere anche senza saperlo» ribatté lei. Stava ancora sorridendo. «E se devi prendere l'aereo, forse dovresti attaccarti al bourbon.» La linea aerea che collegava il Twin Cities International a Cedar Rapids era affidabile al cento per cento. Non aveva mai avuto incidenti mortali e se ne vantava negli annunci pubblicitari. Lucas si teneva aggrappato a tutt'e due i braccioli della poltroncina con una stretta mortale. L'anziana signora che gli sedeva accanto lo guardava incuriosita. «Questa non può essere la prima volta che vola» osservò dopo dieci minuti di volo. «No. Purtroppo» rispose Lucas. «È molto più sicuro che viaggiare in macchina» disse la vecchia signora. «È più sicuro che attraversare la strada.» «Sì, lo so.» Lui teneva lo sguardo fisso in avanti. Si augurò che la vecchia fosse colpita da un infarto. Qualsiasi cosa, purché tacesse. «Questa linea aerea ha un record di sicurezza invidiabile. Non hanno mai avuto incidenti.» Lucas annuì e borbottò: «Uhm.» «Comunque non si preoccupi, arriveremo fra un'ora.» Lucas girò penosamente la testa verso di lei. Aveva la sensazione che la spina dorsale gli si fosse arrugginita. «Un'ora? Ormai siamo in volo da parecchio tempo.» «Appena dieci minuti» ribatté lei pimpante. «Oh Dio.» Lo psicologo della polizia aveva sentenziato che lui temeva di perdere il controllo. «Lei non può sopportare l'idea che la sua vita sia nelle mani di qualcun altro, non importa quanto competente. Quello che deve ricordare è che la sua vita è sempre nelle mani di qualcun altro. Potrebbe uscire per la strada ed essere falciato da un ubriaco su una Cadillac. È molto più probabile di
un incidente aereo.» «Sì, ma con un ubriaco potrei vederlo arrivare, forse. Potrei intuirlo. Potrei saltare. Potrei avere fortuna. Qualcosa. Ma quando un aereo smette di volare...» Lucas aveva mimato un aereo che finiva col muso a terra sulle sue ginocchia. «Addio. Polpette.» «È irrazionale» aveva osservato lo strizzacervelli. «Lo so» aveva replicato Lucas. «Voglio sapere cosa fare in proposito.» Lo strizzacervelli aveva scosso la testa. «Be', c'è l'ipnosi. E ci sono dei libri che dovrebbero servire. Ma se fossi in lei, mi limiterei a bere un paio di bicchierini. E a cercare di non volare.» «E non esistono medicine?» «Potrebbe provare dei tranquillanti; ma le farebbero venire l'emicrania. Non lo farei, se deve essere in piena forma quando arriva nel posto dove sta andando.» Sul volo per Cedar Rapids non si servivano alcoolici. Lui non aveva pillole. Quando scese il carrello, il cuore gli si arrestò. «È soltanto il carrello che scende» disse premurosa la vecchia signora. «Lo so» gracchiò Lucas. Lucas si fece rimborsare il prezzo del biglietto aereo di ritorno. «Ci rimetterà» lo avvertì l'impiegato. «Quello è il minore dei miei problemi» ribatté Lucas. Prese a nolo una macchina che poteva riconsegnare a Minneapolis e chiese indicazioni per raggiungere la stazione di polizia. La stazione era un edificio vecchiotto, un parallelepipedo di cemento in cui la funzione prevaleva sulla forma. Piacevole, lo Iowa, pensò lui. Un poliziotto di nome MacElreney lo stava aspettando. «Carroll MacElreney» si presentò. Aveva i denti larghi e i baffi da pilota della R». Indossava una giacca sportiva verde a quadri, pantaloni marrone e scarpe bicolori bianche e marrone. «Lucas Davenport.» Si strinsero la mano. «Le siamo debitori. Ci troviamo in una situazione critica.» «L'ho letto sui giornali. Il sergente Anderson ha detto che non pensate che sia stato Sparks, ma che lui potrebbe sapere qualcosa. È esatto?» «Sì. Può darsi.» «Andiamo a vedere.» MacElreney gli fece strada verso una stanza per gli interrogatori. «Il signor Sparks è scontento di noi. Pensa di essere vittima di un'ingiustizia.»
«È un cazzone» ribatté Lucas. «Avete trovato la ragazza?» «Sì. Giovane.» «Come tutte, del resto.» Sparks era seduto su una delle tre sedie metalliche da ufficio quando Lucas entrò nella stanza seguendo il poliziotto di Cedar Rapids. "Sta invecchiando" pensò Lucas, guardando l'altro. Aveva visto per la prima volta Sparks sulla strada al principio degli anni Settanta. A quell'epoca i suoi capelli erano di un magnifico nero lucente, lunghi e acconciati secondo la moda afro. Ormai erano diventati grigi, e solchi profondi attraversavano la fronte di Sparks scendendo verso l'estremità interna delle sopracciglia. Il naso era una massa appiattita, i denti erano ingialliti dalla nicotina e guasti. Aveva l'aria preoccupata. «Davenport» disse senza inflessioni particolari. Aveva gli occhi gialli quasi quanto i denti. «Sparky. Mi spiace vederti di nuovo nei guai.» «Perché non tagli con le stronzate e mi dici che cosa vuoi?» «Vogliamo sapere per quale motivo hai lasciato la città quindici minuti dopo che una delle tue donne si è fatta spaccare il cuore.» Sparks fece una smorfia. «È per questo che...» «Non rifilarmi cagate, Sparky. Vogliamo soltanto sapere dove hai gettato il coltello.» Lucas all'improvviso s'interruppe per guardare MacElreney. «Gli ha letto i suoi diritti?» «Soltanto per l'accusa di sfruttamento della prostituzione.» «Dio Cristo, è meglio che lo rifaccia, aspettate che prendo il tesserino...» Lucas fece per tirare fuori il portafogli e Sparks lo interruppe. «Ehi, aspetta un minuto, Davenport» disse, ancor più preoccupato. «Cazzo, ci ho i testimoni che non ho fatto niente del genere. Io amavo quella ragazza.» Lucas si rimise in tasca il portafogli. «Hai visto chi è stato?» «Be', non so...» Lucas si protese in avanti. «Personalmente non credo che sia stato tu, Sparky. Ma devi darmi qualcosa su cui lavorare. Qualcosa da riportare indietro. Quelli dell'Antidroga vogliono impiccarti. Lo sai cosa dicono in giro? Dicono: certo, potrebbe non essere colpevole di questo. Ma è colpevole di tutto il resto e possiamo inchiodarlo per questo reato. Sbattete il vecchio Sparky a Stillwater, ci risolverebbe un sacco di problemi. Ecco cosa dicono. Hanno trovato della coca nella borsetta della tua donna, e anche
questo non è che te la fa girare bene...» Sparks si leccò le labbra. «Lo sapevo che quella troia mi nascondeva qualcosa.» «A me non importa, Sparky. Che cosa hai visto?» «Ho visto quel tizio...» «Lasciami accendere il registratore» disse Lucas. Sparks aveva il vizio del crack, e gli era difficile controllarlo. La notte in cui Heather Brown era stata uccisa, era seduto su una panchina alla fermata dell'autobus sul marciapiede di fronte, in attesa che lei guadagnasse un po' di soldi. Aveva visto il suo ultimo cliente avvicinarsi a lei. «Non era buio?» «Sì, ma laggiù ci hanno quei grossi lampioni azzurri.» «Okay.» Non c'era niente di particolarmente notevole nel predatore. Statura media. Bianco. Lineamenti regolari, viso rotondetto. Sì, forse un po' pesante. Era andato direttamente da lei, non sembrava che ci fossero state molte contrattazioni. «Pensi che la conoscesse?» «Sì, forse. Ma non lo so. Mai visto prima, e lei batteva da un pezzo. Mica un cliente fisso. Cioè, non mentre lei stava con me.» «Praticava ancora la disciplina?» «Sì, c'erano ragazzi che venivano ogni tanto.» Alzò le mani con un gesto difensivo. «Non glielo facevo fare io. Ci piaceva. Si lasciava sculacciare un po'. Faceva un casino di soldi, pure.» «Torniamo a questo tizio. Com'era vestito? Elegante?» «No. Mica elegante» rispose Sparks. «C'aveva l'aria di una specie di contadino.» «Un contadino?» «Sì. C'aveva uno di quei berretti a visiera, sai, di quelli con le scritte davanti. E portava una di quelle giacche del cazzo che trovi alle stazioni di servizio. Giacche da baseball.» «Sicuro che è stato quello l'ultimo cliente?» «Sì. Per forza. Lei è andata al motel e io me ne sono andato a bere una birra. Subito dopo sento le sirene in strada.» «Un contadino non mi suona giusto» disse Lucas. «Be'...» Sparks si grattò la testa. «Anche a vederlo non sembrava giusto. C'era qualcosa...» «Che cosa?»
«So mica. Ma qualcosa.» Si grattò di nuovo la testa. «Hai visto la sua macchina?» «No.» Lucas insistette, ma non c'era altro. «Pensi che lo riconosceresti?» «Mmm.» Sparks guardò il pavimento in mezzo ai piedi, riflettendoci sopra. «Non credo. Può darsi. Cioè, se lo vedo camminare per la strada di sera con gli stessi vestiti, direi, ecco, è quello il bastardo. Ma se è in fila per un confronto, credo di no. Ero sul marciapiede di fronte. Non c'era altro che quei lampioni.» «Okay.» Lucas spense il registratore. «Ti vogliamo di nuovo nelle Città Gemelle, Sparky. Puoi dirigere le tue ragazze. Nessuno ti darà noia finché non prenderemo questo pollo. Quando lo individueremo, gradiremmo che tu venissi a dargli un'occhiata. Per ogni evenienza.» «Non mi mettete dentro?» «Se te ne starai buono, no.» «D'accordo. E questa accusa di merda qui?» MacElreney scosse la testa. «Possiamo rilasciarti in dieci minuti, se Minneapolis non ti vuole.» «Non lo vogliamo» confermò Lucas. Si rivolse di nuovo a Sparks. «Ma ti vogliamo di ritorno nelle Città. Se cominci a fare il giro delle altre città dello Iowa lungo la strada, ti faremo arrestare in tutte. Torna a Minneapolis.» «Sicuro. Sarà un sollievo. Quaggiù c'è troppo letame per un tipo come me.» Lanciò un'occhiata a MacElreney. «Senza offesa.» MacElreney sembrava offeso. Lucas aveva già aperto lo sportello dell'auto presa a nolo quando MacElreney lo richiamò dai gradini della stazione di polizia. Sparks era proprio dietro di lui e si avviarono insieme lungo il marciapiede. «Ho pensato a quello che c'era di strano in quel tipo» disse Sparks. «Era il taglio dei capelli.» «Il taglio dei capelli?» «Sì. Vedi, quando si sono allontanati da me per andare verso il motel, lui si è tolto il berretto. Non vedevo la faccia o altro, solo la nuca. Ma ricordo che pensavo che non aveva i capelli da contadino. Sai che i contadini c'hanno sempre le orecchie scoperte? O così, oppure sembra che la loro vecchia gli ha tagliato i capelli con una ciotola? Be', i capelli di quello là
sembravano tipo messi in piega. Come i tuoi, o di un uomo d'affari o un avvocato o un medico o roba del genere. Lisci. Non come un contadino. Mai visto un contadino così.» Lucas annuì. «Okay. Biondo, vero?» Sparks corrugò la fronte. «Be', no. No, bruno.» Lucas gli si avvicinò. «Sparky, sei sicuro? Non potresti sbagliarti?» «No, no. Era bruno".» «Merda.» Lucas ci pensò. Non quadrava. «Nient'altro?» chiese infine. Sparks scosse la testa. «Niente, a parte che stai invecchiando. Mi ricordo la prima volta che ci siamo incontrati, quando le hai suonate a Bald Peterson. Avevi la faccia liscia come il culetto di un neonato. Ti va a sfiga.» «Grazie, Sparks» ribatté Lucas. «Ne avevo proprio bisogno.» «Invecchiamo tutti.» «Certo. E a proposito, mi dispiace per la tua donna.» Sparks scrollò le spalle. «Le donne si fanno ammazzare. E poi le troie mancano mica.» Il viaggio di ritorno in macchina richiese il resto della giornata. Dopo una sosta al confine dello Iowa per un hamburger al formaggio con patatine fritte, Lucas fissò la velocità di crociera a centoventi l'ora e superò il fiume Minnesota entrando a Minneapolis poco dopo le otto. Riconsegnò l'auto a nolo all'aeroporto e prese un taxi fino a casa, sentendosi sporco e teso per il viaggio. Una doccia bollente gli rimise in sesto la schiena malconcia. Quando fu di nuovo vestito prese una birra dal frigo, andò nella stanza da letto degli ospiti, posò la lattina di birra sul pavimento vicino al letto e si sdraiò, guardando i cinque fogli fissati alla parete. Bell, Morris, Ruiz e Lewis. Il predatore. Le date. Caratteristiche personali. Le lesse da cima a fondo, sospirò, si alzò in piedi, attaccò alla parete un sesto foglio di carta e scrisse in cima "Brown" col Magic Marker. Prostituta. Giovane. Occhi e capelli scuri. La descrizione fisica era esatta. Ma era stata uccisa in un motel, dopo essere stata abbordata per la strada. Tutte le altre erano state aggredita in case private, in casa loro o nel loro appartamento o, nel caso della Lewis, nella casa vuota che cercava di vendere. Lucas riepilogò gli altri aspetti dell'omicidio Brown, includendo la sua apparizione in tribunale. Il predatore poteva essere un avvocato? O addirittura un giudice? Un cronista giudiziario? E che dire di un funzionario della corte o di un altro del personale? Ce n'erano a dozzine. E poi annotò il col-
tello. Per quella uccisione il predatore lo aveva portato con sé. La Chicago Cutlery era una marca costosa e si vendeva bene nelle Città Gemelle, nei migliori magazzini e negozi specializzati. Poteva essere una specie di gourmet? Un maniaco della cucina? Era possibile che avesse acquistato il coltello di recente e che un controllo dei negozi indicasse qualcuno che aveva venduto un solo coltello a un bianco grassoccio? Lucas guardò gli appunti riportati sul foglio del predatore. Che era benestante, che poteva essere nuovo della zona. Arrivato lì dal sud-ovest. Lavoro di ufficio. Sparks aveva confermato che era chiaro di carnagione. La faccenda dei capelli era un problema: Carla era sicura che fosse molto pallido, e quello faceva pensare a capelli chiari. C'erano degli irlandesi dai capelli scuri, e alcuni finlandesi corrispondevano alla descrizione, ma significava stiracchiare un po' le cose. Lucas scosse la testa, aggiunse "capelli scuri?" In fondo alla lista scrisse: "Taglio di capelli costoso. Capelli scuri? Parrucca? Si traveste (contadino). Gourmet?" Tornò a stendersi, appoggiando la testa a un cuscino, bevve un sorso di birra, posò la lattina in equilibrio sul petto e rilesse la lista. Povero, ricco, mendicante, ladro, dottore, avvocato, capo indiano. Sbirro. Lanciò un'occhiata all'orologio. Le nove e tre quarti. Scese dal letto, con la birra ancora in mano, tornò nello studio e sollevò il ricevitore. Dopo un attimo di esitazione compose il numero di Canale 8. «Le dica che è Cavallo Rosso» disse. Quindici secondi dopo Annie McGowan era in linea. «Cavallo Rosso?» «Sì. Ascolta, Annie, questa è un'esclusiva. C'era un testimone per la strada vicino alla scena del delitto Brown. Ha visto addirittura il predatore. Dice che sembrava un contadino. Portava uno di quei berretti con la visiera, sai? Quindi è possibile che arrivi in macchina dalla campagna.» «Un assassino pendolare?» «Sì, si potrebbe dire così.» «Come dire che viene nelle Città Gemelle per assassinare queste donne, poi se ne torna a casa, dove è uno dei tanti agricoltori che raccolgono patate o quello che è?» «Be', uh, pensiamo che possa essere un allevatore di maiali. Questo tizio, il testimone, lo ha sfiorato, si è chiesto cosa ci faceva quel contadino con una pollastra come la Brown. In ogni caso, ha detto che c'era una spe-
cie di puzzo che gli aleggiava intorno, capisci?» «Vuoi dire... sterco di maiale?» «Ehm, escrementi di maiale, sì. Questo sembra confermare quello che pensavamo già.» «Ottimo, Cavallo Rosso. C'è qualche possibilità di portare questo tizio davanti alle telecamere?» «No. Nessuna. Se succederà qualcosa che cambierà la situazione, ve lo faremo sapere, ma per ora terremo segreta la sua identità. Se il predatore scoprisse chi è, potrebbe cercare di eliminarlo.» «Va bene. Fammi sapere se ci saranno cambiamenti. Nient'altro?» «No. È tutto.» «Grazie, Cavallo Rosso. Voglio dire, te ne sono davvero, davvero grata.» Ci fu un momento di silenzio, di tensione. Lucas lo interruppe. «Oh, sì» disse. «Ci vediamo.» 16 Un allevatore di maiali? Il predatore si aggirò infuriato per tutto l'appartamento. Dicevano che era un allevatore di maiali. Dicevano che puzzava di sterco di maiale. Faticava a mettere a fuoco la situazione. Il vero problema. Doveva tenere a mente il vero problema: qualcuno lo aveva visto e ricordava com'era vestito. Lo avevano visto in faccia? C'era un disegnatore al lavoro sui manifesti con l'identikit? Li avrebbero attaccati sui muri del tribunale la mattina dopo? Si mordicchiò l'unghia del pollice, camminando avanti e indietro. Una scossa di dolore gli percorse la mano. Abbassò lo sguardo e scoprì che si era strappato un pezzetto di unghia, staccandola dalla pelle sottostante rosea come un'ostrica. La lacerazione fu inondata dal sangue. Imprecando, si precipitò in bagno, trovò un tagliaunghie, cercò di pareggiare l'unghia con la mano tremante. Quando ebbe finito, con l'unghia che continuava a pulsare, l'avvolse in una benda di plastica e tornò a guardare la televisione. Sport. Riavvolse il nastro della videocassetta e guardò Annie McGowan annunciare il suo scoop. Allevatore di maiali, diceva. Assassino pendolare. Puzza di sterco di maiale, questo potrebbe spiegare la sua incapacità di attrarre le donne. Lui azzerò l'audio per guardare soltanto le immagini, i capelli scuri con la frangia che spioveva sulla fronte, gli occhi scuri e pro-
fondi. Ora lo eccitava. Somigliava a... chi? Qualcuno di tanto tempo prima. Fermò il nastro, lo riavvolse, lo proiettò di nuovo, con l'audio spento. Lei era Prescelta. Annie McGowan. Sarebbero state necessarie delle ricerche, ma aveva tempo. Era una buona scelta per molte ragioni. Sarebbe stata soddisfacente; e sarebbe stata una lezione. Lui non era uno di cui ridere. Non era uno da definire allevatore di maiali. Le Città Gemelle sarebbero rimaste inorridite; nessuno avrebbe riso. Avrebbero riconosciuto il potere. Lo avrebbero riconosciuto tutti. Camminò avanti e indietro in fretta, facendo il giro del soggiorno, osservando il viso della McGowan, riavvolgendo il nastro, guardandolo di nuovo. Una fantasia. Una lezione. Una lezione per dopo. C'era un'altra Prescelta. Si muoveva nei suoi sogni e nelle sue fantasticherie da sveglio. Si muoveva; non camminava. Abitava a meno di due isolati dal predatore. Lui l'aveva vista parecchie volte, mentre spingeva sul marciapiede la sedia a rotelle. Un incidente d'auto, aveva saputo. Lei era iscritta all'università quando era successo. Era andata a folleggiare di notte con un ragazzo di una confraternita studentesca, a bordo della sua potente auto sportiva. Lui si era spezzato il collo nell'impatto quando avevano urtato contro un piedritto del soprapassaggio, lei aveva avuto la spina dorsale fratturata dall'intelaiatura di un sedile. C'era voluta un'ora per estrarla dalla macchina. Entrambi i quotidiani avevano riportato l'incidente. Ma lei si era salvata, e i due quotidiani avevano pubblicato articoli sulla sua convalescenza. Si era laureata alla facoltà di economia e commercio, aveva intrapreso gli studi di legge. Un'avvocatessa; ormai ce n'erano dovunque. Teneva uno zaino appeso da un lato della sedia a rotelle, per portare i libri. Spingeva le ruote a forza di braccia, quindi doveva essere forte. Viveva da sola in un appartamento sul retro di una casa decrepita a sei isolati dalla facoltà di legge. Il predatore aveva già ispezionato l'appartamento. Era di proprietà di una vecchia, una vedova, che abitava sul davanti insieme a una mezza dozzina di gatti tigrati. Al piano di sopra vìveva una coppia di studenti. L'invalida abitava sul retro. Una rampa a livello del terreno le consentiva di entrare
direttamente nella cucina dell'appartamento di tre stanze. I ritagli di giornale dicevano che teneva alla propria solitudine, alla propria indipendenza. Portava al collo un anello d'acciaio appeso a una catenina; era appartenuto al ragazzo rimasto ucciso nell'incidente. Lei diceva che doveva vivere per entrambi, ormai. Altri ritagli. Il predatore aveva fatto le ricerche in biblioteca, trovando il suo nome negli indici, leggendo gli articoli sui microfilm. Alla fine ne era stato certo. Era Prescelta. Purché avesse la possibilità di prenderla. Ma era stato visto. Riconosciuto. Che cosa gli avrebbe portato il mattino? Camminò avanti e indietro per un'ora, girando intorno all'appartamento, poi si gettò sulle spalle un soprabito e uscì. Freddo. Di sicuro una gelata. L'inverno alle porte. Percorse un isolato, poi un altro, passando davanti alla casa dell'invalida. L'appartamento al piano di sopra era illuminato. Quello al pianterreno, che apparteneva alla vecchia, era buio. Proseguì e si voltò a guardare il fianco della casa; anche la finestra dell'invalida era buia. Lanciò un'occhiata all'orologio. L'una di notte. Era la prima del corso, dicevano i ritagli di giornale. Lui si leccò le labbra, sentì il morso del vento sulla bocca umida. Aveva bisogno di lei. Tanto. Continuò la passeggiata, attraversando la strada, camminando per un altro isolato, e poi un altro ancora, con l'immagine dell'invalida che gli turbinava nella mente. Era stato visto. Il suo viso sarebbe comparso sui giornali il giorno dopo? La polizia avrebbe ricevuto una telefonata? Poteva darsi che la stessero ricevendo proprio in quel momento? In quel momento potevano essere diretti al suo appartamento, cercando lui. Rabbrividì, continuò a camminare. L'invalida riaffiorò nella sua mente. Qualche tempo dopo, si ritrovò di fronte a un dormitorio universitario. Un edificio nuovo, di mattoni rossi. Dentro c'era un telefono. Davenport. Il predatore entrò nel dormitorio virtualmente in trance. Una studentessa bionda con la tuta di felpa bianca di una squadra di sci gli lanciò un'occhiata mentre lui oltrepassava la porta entrando nell'atrio, passando davanti al banco della portineria. Il telefono si trovava su una parete di fronte agli alloggi. Lui premette la fronte sui mattoni freddi. Non avrebbe dovuto farlo. Frugò in tasca cercando un quarto di dollaro. «Pronto?» «Davenport?» Avvertì una tensione improvvisa all'altro capo. «Sì?»
«Cos'è questo gioco? Cos'è questa storia dei maiali?» «Ah, lei potrebbe...?» «Lei sa chi sono; e lasci che l'avverta. Ho scelto la prossima. E quando lei fa dei giochi, manda in collera Lui; e la Prescelta pagherà. Ora andrò a guardarla. Sono tanto vicino. La guarderò.» Le parole suonavano formali alle sue stesse orecchie. Piene di dignità. Agganciò il ricevitore e tornò indietro attraversando l'atrio deserto, spinse la porta a vetri. Allevatore di maiali. Gli occhi gli bruciavano. Chinò la testa, tornando esausto verso casa. Il cammino alternò visioni della Prescelta e della McGowan e rapide inquadrature di Davenport nell'ufficio del cancelliere, col viso rivolto verso di lui, che lo guardava. Il predatore non prestò attenzione a dove andava, finché inaspettatamente si ritrovò fermo di fronte al suo appartamento. I piedi avevano trovato la strada da soli; fu come ridestarsi da un sogno. Entrò, cominciò a togliersi il soprabito, esitò, prese l'elenco telefonico, trovò il numero e chiamò lo Star-Tribune. «Cronaca cittadina.» La voce era brusca, frettolosa. «Quando escono i giornali?» «Dovrebbero essere già in strada. Da un momento all'altro.» «Grazie.» Dall'altra parte attaccarono prima che la parola gli fosse uscita del tutto di bocca. Il predatore raggiunse la macchina, la mise in moto, attraversò il ponte di Washington Street in direzione del centro. C'erano due grandi edicole verdi davanti alla sede dello Star-Tribune. Lui frenò, depositò le monete e guardò la prima pagina: IL PREDATORE È UN ALLEVATORE DI MAIALI? COSÌ AFFERMA UN SERVIZIO TELEVISIVO. L'articolo era ricavato direttamente dalla trasmissione televisiva della McGowan. Era completato da una breve intervista telefonica con il capo della polizia. "Non so dove abbia preso le informazioni, ma non ne so niente" dichiarava Daniel. Non smentiva tuttavia la possibilità che l'assassino fosse un agricoltore. "A questo punto, tutto è possibile" aggiungeva. Non c'era nessun disegno. Nessuna descrizione. Lui tornò alla macchina, salì al posto di guida e sfogliò in fretta tutto il giornale. A pagina tre c'era un altro articolo sugli omicidi, messi a confronto con una serie simile di omicidi nello Utah. Nient'altro. Tornò alla prima pagina. Allevatore di maiali, diceva. Non lo avrebbe permesso.
17 Daniel si appoggiò allo schienale della poltrona, premendosi la parte gommata di una matita gialla contro i denti inferiori e fissando Sloan. Anderson e Lester erano stravaccati su due sedie vicine. Lucas camminava avanti e indietro. «Lei mi sta dicendo che non abbiamo in mano niente» concluse Daniel quando l'agente investigativo finì. «Niente che possiamo usare per catturarlo» ribadì Sloan. «Abbiamo informazioni che potremo usare per inchiodarlo quando lo troveremo. Potremmo anche metterlo a confronto con Jefferson Sparks, vedere se gli fa venire in mente qualcosa. Ma non abbiamo niente da usare contro di lui.» «E con le patenti? Abbiamo concluso qualcosa?» Anderson scosse la testa. «Le patenti concesse a chi si trasferisce nello Stato non vengono archiviate per nominativo.» Lucas misurava a lunghi passi il perimetro della stanza. «E quegli uffici postali?» «Stiamo ottenendo delle risposte. Fin troppe. Finora abbiamo 136 trasferimenti, relativi agli ultimi due anni, e abbiamo avuto riscontro soltanto da un decimo degli uffici postali che coprono gli stati che c'interessano. Se la percentuale aumenta, arriveremo a circa 1400 nomi. Stiamo anche scoprendo che i più mobili sono i giovani scapoli. Assommano a un terzo del totale, probabilmente. Significa qualcosa come 500 sospetti. E il tutto si basa sull'idea che forse quel tizio ha un accento.» «E se si è trasferito qui tre anni fa, invece che negli ultimi due, siamo fregati in ogni caso» osservò Daniel. «Ma è pur sempre qualcosa» insistette Lucas. «Quanti di quelli che avete finora sono scapoli? Ammesso che sia quello che stiamo cercando?» «Trentotto su 136. Ma alcuni di loro evidentemente si sono trasferiti qui insieme a una donna o si sono messi con una donna dopo il loro arrivo qui, oppure sono vecchi. Abbiamo un paio di uomini impegnati in un rapido controllo dei nomi, e ce ne sono circa 22 che corrispondono ai requisiti base: giovani, scapoli, privi di legami.» «Impiegati?» chiese Lucas. «Tutti tranne due. La gente non viene qui in cerca di posti da operaio. Ci sono più posti di lavoro nel Texas, e fa meno freddo» rispose Anderson. «Allora cosa contiamo di fare?» chiese Daniel.
«Be', controllare questi 22. Dovremmo riuscire a scartarne la metà o più con una semplice passeggiata. Allora potremo concentrarci sul resto. Certo, avremo continuamente nuovi nomi in arrivo.» «Lucas? Nient'altro?» Lucas fece un altro giro in fondo alla stanza. La sera prima aveva riferito a Daniel la telefonata ricevuta dal predatore, e all'inizio della riunione ne aveva parlato agli altri. Aveva registrato la telefonata. Ormai le registrava tutte. La mattina, per prima cosa, aveva portato una copia del nastro all'università e aveva rintracciato un paio di linguisti per farlo esaminare. Avevano chiamato Daniel nel corso della riunione: Texas, aveva detto uno di loro. L'altro non era tanto sicuro. Texas, o un'altra zona circoscritta del sud-ovest. L'angolo orientale del Nuovo Messico, forse, intorno a White Sands. L'Oklahoma e l'Arkansas erano esclusi. «L'accento rivela un forte influsso del Midwest» aveva aggiunto il secondo linguista. «C'è quell'espressione, "Ora andrò a guardarla." Se si ascolta attentamente e la si suddivide in segmenti, si nota che la pronuncia è tipica del Midwest. Del Midwest superiore, centro-settentrionale. Quindi penso che abbia vissuto là per un certo tempo. Non tanto da perdere del tutto l'accento del sud-ovest, ma quanto basta perché se ne avverta l'influsso.» «Ah» esclamò Lucas. Gli investigatori lo guardarono incuriositi. «Ieri sera stavo guardando Canale 8. Va in onda la McGowan e fa quella tirata sull'allevatore di maiali. Così il predatore mi chiama, tre quarti d'ora dopo. Ho controllato col Pioneer Press e lo Star-Tribune per vedere a che ora sono uscite le prime edizioni. Riportavano tutt'e due dei commenti sul servizio della McGowan. Quando il predatore ha telefonato, non ne era uscita nessuna.» «Quindi l'ha visto alla televisione» disse Anderson. «E mi è venuto da pensare alla McGowan» riprese Lucas. «Corrisponde al tipo a cui il predatore dà la caccia...» «Ah, Cristo» proruppe Daniel. «C'era qualcosa in quella telefonata. C'è qualcosa di speciale in questa Prescelta di cui parla. Lo sento.» «Lei pensa che potrebbe prendersela con la McGowan?» «La guarda alla TV. E fisicamente rientra nel suo tipo. E racconta tutte quelle storie strane. Pare che lui voglia l'attenzione, ma dal suo punto di vista tutto quello che lei dice è negativo. Lui parla di essere l'Unico e lei dice che è impotente e puzza e alleva maiali. Ieri sera era seccato.»
«Basta così» disse Daniel, col viso arrossato. «Voglio che la McGowan sia sorvegliata 24 ore su 24.» «Cristo, capo...» cominciò Anderson. «Non m'importa quanti uomini ci vogliono. Prendetene qualcuno degli agenti in divisa, se necessario. Voglio che le stiano intorno durante la giornata e voglio una sorveglianza sulla casa di notte.» «Ma con delicatezza» aggiunse Lucas. «Cosa?» «Lei è la nostra occasione per catturarlo» spiegò Lucas. Sollevò le mani per prevenire interruzioni. «Lo so, lo so, dobbiamo essere prudenti. Non correre rischi con lei. Tutto questo lo so. Ma potrebbe essere la nostra occasione migliore.» «Se lei ha ragione, potrebbe tenerla d'occhio in questo stesso momento» disse Lester. «In questo istante.» «Non credo che ci proverà durante il giorno. Lei sta sempre in mezzo alla gente. Se tenterà, lo farà di sera. Mentre lei sarà diretta a casa o quando ci sarà. Potrebbe introdursi in casa sua di giorno e aspettarla. Dovremmo prevedere quella possibilità.» «Ci ha riflettuto parecchio» osservò Daniel, socchiudendo gli occhi. Lucas si strinse nelle spalle. «Sì. Forse mi sono inculato il cervello. Ma sembra una possibilità, proprio come quando lei ha messo sotto sorveglianza me.» «D'accordo» disse Daniel. Si voltò e abbassò una levetta sull'interfono. «Linda, chiami Canale 8 e li informi che voglio parlare d'urgenza al direttore della stazione.» Spense l'interfono e disse: «Lucas, resti qui un momento. Tutti gli altri si dedichino ai compiti essenziali. Cominciate a esaminare la lista di uomini che si sono trasferiti qui. Non servirà a niente, se davvero è qui da qualche tempo, ma dobbiamo verificare. Anderson, voglio che lei riesamini tutti i biglietti che abbiamo, per vedere se ci è sfuggito qualcosa di cui avremmo dovuto accorgerci.» Mentre gli altri uscivano tediati dalla stanza, Lucas si appoggiò a una parete, fissando il tappeto. «Che c'è?» domandò Daniel. «Quest'uomo è pazzo in un modo diverso da come avevo pensato. Non è un assassino gelido. C'è qualcos'altro che non gli va nella testa. Il modo in cui parlava dell'Unico e della Prescelta...» «Che differenza fa?» «Non so. Potrebbe rendere più difficile il compito di batterlo in astuzia.
Potrebbe non reagire come ci aspettiamo.» «Vada come vada» disse Daniel liquidando l'argomento. «Volevo chiederle un'altra cosa. Da dove prende la McGowan le balle che racconta in trasmissione?» Lucas scosse la testa. «Probabilmente da un agente in divisa che è abbastanza vicino alle indagini da raccogliere qualche briciola, ma non abbastanza da afferrarle bene.» «Insomma, lei è andato a Cedar Rapids ieri, ed è la prima volta che qualcuno pronuncia la parola "contadino" in tutta l'indagine. La prima cosa che sento, è che la McGowan in trasmissione dice che il predatore è un contadino.» «Un allevatore di maiali. C'è una differenza. Chiunque le passi le notizie, sta denigrando l'assassino. Sparks non crede neppure che il predatore sia un contadino. Io nemmeno. Ho fatto una sosta durante il viaggio di ritorno per comunicare quello che aveva detto Sparks, in modo che Anderson potesse inserirlo nella banca dati. Dopo di che, chissà. C'è una fuga di notizie, ma è tutto confuso.» «Okay» disse Daniel. Era sospettoso, pensò Lucas. Più che sospettoso. Sapeva, e parlava per la cronaca. «Non le chiederò altro su questa coincidenza. Ma vorrei farle notare che se qualcuno sta giocando una partita, potrebbe diventare pericolosa.» «Stiamo già giocando una partita pericolosa» ribatté Lucas. «Il predatore non ci lascia scelta.» Lucas trascorse il pomeriggio per le strade, avvicinando informatori, amici, contatti, spargendo la voce che era vivo. Un colombiano era stato in città, a quanto pareva per negoziare una rete a quattro per la vendita all'ingrosso di cocaina che coprisse la zona metropolitana. Sarebbe stata gestita da tre uomini e una donna, ciascuno con territori e responsabilità distinti. Se uno di loro avesse tentato di fare una mossa contro il territorio di un altro, il colombiano avrebbe tagliato i rifornimenti al piantagrane. Lucas era interessato. La maggior parte della cocaina nelle Città Gemelle si vendeva in sacchetti da un etto o meno, e veniva acquistata da rivenditori di Detroit e Chicago e, in misura minore, Los Angeles. C'erano già state in passato voci di rapporti diretti con la Colombia, ma non si erano mai concretizzate. Questa volta la storia aveva una consistenza diversa. Incalzò gli informatori chiedendo nomi, promettendo in cambio denaro e immunità.
C'erano altre voci di attività delle bande, reclutamento di affiliati locali da parte di Chicago e Los Angeles. Nelle Città lo sviluppo delle bande era lento. I membri venivano torchiati in modo sistematico dalle squadre di entrambe le città e finivano in carcere così spesso, e così a lungo, che qualunque ragazzotto con un quoziente d'intelligenza superiore a 90 se ne stava alla larga. Gli indiani di Franklin Avenue parlavano di una donna che si era lanciata o era stata gettata dal ponte di Franklin Avenue. Non era venuto a galla nessun cadavere. Lucas prese nota di chiamare la pattuglia fluviale dello sceriffo. Era tornato alla sua scrivania, nel tardo pomeriggio, quando Annie McGowan lo chiamò. «Lucas? Non è magnifico?» disse spumeggiante. «Che cosa?» «Sai di questa storia del predatore? Che mi metteranno sotto sorveglianza?» «Sì, sapevo che il capo si sarebbe fatto vivo.» «Be', ho accettato la sorveglianza, ma solo a patto che possiamo filmarne una parte. Sai, collaboreremo e tutto, ma ogni tanto, quando sembrerà naturale, porteremo in casa una telecamera e gireremo qualche ripresa di me che cucino o cucio o faccio qualche altra cosa. Metteranno un posto di guardia nella casa di fronte e un altro sul retro. Lasceranno venire una telecamera per riprendere i poliziotti che sorvegliano la mia casa con il binocolo e tutto.» Era più che eccitata, pensò Lucas. Era in estasi. «Dio Cristo, Annie, questo non è un avvenimento sportivo. Sarai protetta, certo, ma si tratta di un maniaco.» «Non m'importa» ribatté lei con fermezza. «Se mi aggredisce, la storia verrà trasmessa. Comparirò in tutti i notiziari del paese, e ti dico una cosa: se mi capita un'occasione del genere e la sfrutto come si deve, me ne andrò da qui. Nel giro di sei settimane sarò a New York.» «È una buona idea, ma la morte sarebbe un brutto inconveniente» disse Lucas. «Non succederà» replicò lei fiduciosa. «Avrò otto agenti, 24 ore al giorno. Non mi raggiungerà in nessun modo.» "E se la raggiungesse, non avrebbe scampo" pensò Lucas. «Spero che concorderanno con te una specie di allarme d'emergenza.» «Oh, certo. Ci stiamo lavorando proprio adesso. È come un cercapersone e lo porto alla cintura. Non lo tolgo mai. Appena premo il pulsante, arriva-
no tutti di corsa.» «Non esagerare in fiducia. Carla Ruiz non lo ha nemmeno visto arrivare, lo sai. Se non fosse stata preoccupata di uscire in strada da sola e non avesse portato quel Mace, sarebbe morta.» «Non preoccuparti, Lucas. Me la caverò benissimo.» La voce della McGowan si abbassò. «Mi farebbe piacere vederti, capisci, fuori del lavoro. Volevo parlartene, ma ora, con questa sorveglianza 24 ore al giorno...» «Certo» si affrettò a dire lui. «Non sarebbe bene se il capo o anche i tuoi collaboratori scoprissero quanto siamo vicini.» «Magnifico» esclamò lei. «Ci vediamo, buon vecchio Cavallo Rosso.» «Stammi bene.» La sorveglianza diretta fu affidata agli agenti investigativi della Narcotici, dell'Antidroga e della Buoncostume, spalleggiati da agenti di pattuglia in abiti civili a cui erano state assegnate auto prive di contrassegni nelle strade adiacenti alla casa della McGowan. Lucas si tenne alla larga la prima notte, quando vennero fissati i posti di guardia. Troppi poliziotti, troppi andirivieni avrebbero attirato l'attenzione dei vicini. La seconda notte uscì in coppia con un agente dell'Antidroga che si chiamava Henley. «Hai mai visto la casa?» chiese Henley. «No. Graziosa?» «Niente male. Una piccola casa vecchiotta dalla parte opposta di Minnehaha Creek. Due piani. Un lotto e mezzo. C'è un grande cortile laterale a est con un paio di meli. A ovest c'è un'altra casa, a una decina di metri, tutti allo scoperto. Dev'esserle costata almeno centomila.» «Guadagna parecchio» disse Lucas. «Con una faccia come la sua in TV, lo credo.» «Hai detto che state di guardia da tutt'e due le parti?» «Sì. Abbiamo una postazione proprio di fronte e una oltre il vicolo sul retro» rispose Henley. «Stiamo di guardia in soffitta in tutt'e due le case.» «In affitto?» «Il tizio dalla parte del torrente Minnehaha non ha voluto soldi, ha detto che era felice di collaborare. Lo abbiamo avvertito che potremmo restarci un paio di mesi, ha risposto che non c'erano problemi.» «Che tipo simpatico.» «Un vecchio, un architetto in pensione. Penso che gli faccia piacere avere compagnia. Ci lascia mettere la roba nel frigorifero, usare la cucina.» «E sul retro?»
«Quella è una coppia anziana. Erano disposti a darci lo spazio, ma sembravano a corto di soldi, così lo abbiamo preso in affitto. Un paio di centoni al mese, abbiamo versato due mesi in anticipo. Sono stati felici di prenderli.» «Buffo. È un quartiere piuttosto ricco» osservò Lucas. «Ho parlato con loro, non se la cavano troppo bene. Il vecchio dice che sono vissuti troppo a lungo. Si sono ritirati negli anni Sessanta, avevano tutti e due una pensione, credevano di essersi sistemati per tutta la vita. Poi è arrivata l'inflazione. È salito tutto. Tasse, tutto. Ce la fanno appena a restare a galla.» «Umf. Da chi stiamo andando?» «Dall'architetto. Parcheggiamo dalla parte opposta del torrente e attraversiamo il ponte. Arriviamo dietro una fila di case lungo l'acqua, poi entriamo dal retro della casa. Ci evita di passare per la strada sul davanti.» La casa dell'architetto era grande e ben tenuta, legno lucido e tappeti orientali, oggetti di acciaio e bronzo, splendide acqueforti e incisioni appese alle pareti color avorio. L'agente dell'Antidroga fece strada su per quattro rampe di scale fino a una soffitta fiocamente illuminata e rimasta grezza. C'erano due poliziotti seduti in poltrona, con un telefono ai piedi, binocolo e cannocchiale in mezzo. Sul pavimento, da una parte della stanza, era disposto un materasso. Vicino c'era una radio portatile che trasmetteva musica easy-listening. «Come va?» chiese uno degli agenti. L'altro salutò con un cenno. «Succede qualcosa?» «Un tale ha portato a spasso il cane.» Lucas si avvicinò alla finestra e guardò fuori. La finestra era stata coperta all'interno con una sottile pellicola lucente di plastica. Dalla strada la finestra sarebbe apparsa trasparente, come se lo spazio dietro non fosse occupato. «È in casa?» «Non ancora. Presenta il notiziario delle dieci, si strucca, di solito esce a mangiare qualcosa. Poi torna a casa, a meno che non abbia un appuntamento. Nelle prossime due settimane verrà direttamente a casa.» Lucas si sedette sul materasso. «Io penso... non sono sicuro... ma penso che se l'attaccherà, lo farà col buio ma prima di mezzanotte. È un tipo prudente. Non vorrà andare in giro a un'ora in cui la gente potrebbe notarlo, ma vorrà il buio per nascondere la faccia. Prevedo che tenterà di introdursi in casa mentre lei è fuori, per saltarle addosso quando torna. È così che ha
fatto con la Ruiz. L'altra possibilità sarebbe sorprenderla proprio sulla porta mentre sta entrando. Stordirla, spingerla dentro. Se lo facesse come si deve, darebbe l'impressione di incontrarla sulla porta.» «Noi abbiamo pensato che potrebbe tentare qualche trucchetto» disse uno degli agenti di sorveglianza. «Sa, presentarsi alla porta, dire che è un fattorino con un messaggio da parte della stazione o roba del genere. Per indurla ad aprire la porta.» «È una possibilità» ammise Lucas. «Continuo a preferire l'idea...» «Eccola che arriva» disse il poliziotto alla finestra. Lucas si alzò e metà strisciando, metà camminando, raggiunse la finestra e guardò fuori. Una Toyota sportiva rossa accostò al marciapiede proprio di fronte alla casa della McGowan, e un attimo dopo scese lei, portando un sacchetto della spesa. Evitò con cura di guardarsi intorno e si diresse rigida verso casa, aprì la porta ed entrò. «Dentro» disse il primo agente di guardia. Il secondo proiettò una minitorcia sull'orologio da polso e contò. Trenta secondi. Un minuto. Un minuto e mezzo. Un minuto e 45. Il telefono squillò e il primo agente di guardia rispose. «Signorina McGowan? Tutto a posto? Bene. Ma tenga addosso il cicalino finché non va a letto, d'accordo? Buona notte.» «Verrai tutte le sere?» chiese distrattamente Henley. «Quasi tutte, a metà settimana. Per tre ore circa, dalle nove a mezzanotte o l'una, più o meno» rispose Lucas. «Se lo fai troppo a lungo, il cervello ti va in pappa.» «E se non lo fa il servizio di sorveglianza, lo farà questa cazzo di musica da ascensore» ribatté Lucas. La musica easy-listening continuava a fluire dalla radio portatile. Uno degli agenti di guardia sogghignò e indicò il compagno. «Un compromesso» spiegò. «A me piace il rock, lui non può sopportarlo. Lui ama il country e io non riesco ad ascoltare tutte quelle lagne da contadini. Così abbiamo raggiunto un compromesso.» «Potrebbe essere peggio» intervenne Henley. «Impossibile» ribatté Lucas. «Mai sentita la New Age?» «Hai vinto» riconobbe Lucas. «Potrebbe essere peggio.» «Oh, merda, gente, ecco che lo rifà.» «Cosa?» Lucas strisciò dal materasso verso la finestra.
«Pensavamo che forse non si rendeva conto che c'è uno spiraglio fra le tende» disse il poliziotto. Il collega tenne il binocolo fisso sulla casa della McGowan e disse: «Su, bella.» Lucas scostò il primo poliziotto dal cannocchiale e sbirciò dentro. L'obiettivo era puntato su uno spazio fra le tende a una finestra del primo piano. Dapprima non si vide niente, poi Annie McGowan passò attraverso un fascio di luce che proveniva da quello che secondo Lucas era il bagno. Si stava spazzolando i capelli, con le braccia incrociate dietro la nuca. Indossava un paio di mutandine di cotone bianco. Nient'altro. «Guarda lì» sussurrò l'agente col binocolo. «Dammi quell'arnese» disse Henley, tentando di strapparglielo di mano. «Fichetta giornalista americana al cento per cento» mormorò in tono reverente l'agente di guardia, passando il binocolo al poliziotto dell'Antidroga. «Secondo voi, lo sa che stiamo guardando?» "Lo sa" pensò Lucas, guardandole il viso. Era tutta rossa. Annie McGowan era eccitata. «Probabilmente no» disse a voce alta. Cinque giorni di sorveglianza non produssero risultato. Nessuna auto sospetta controllava la casa, nessun approccio per la strada. Nient'altro che foglie cadenti e vento freddo che scuoteva le tegole sulla soffitta dell'architetto. Le tende non si chiusero mai. «Cavallo Rosso?» Era mezzogiorno e Lucas chiamava da casa. «Sì, Annie. Questa non è un'informazione scottante, ma sono stato in giro e ho notato una cosa che forse potrebbe interessarti. Uno dei circoli femminili assisterà a una conferenza tenuta da uno strizzacervelli dell'università sul tema... leggo da un volantino... "I rapporti fra l'inadeguatezza sessuosociale e l'attività antisociale, con riferimento al maniaco omicida che in questo momento terrorizza le Città Gemelle". Mi suona promettente. Forse sarebbe il caso di portare una telecamera laggiù per vedere quel tale prima che tenga la conferenza.» «Sembra interessante. Com'è il nome?» «Lucas?» Era Jennifer, un po' ansimante. «Jennifer. Stavo per chiamarti io. Come ti senti?» «Ho un po' di nausea la mattina.» «Sei andata dal medico?» «Cristo, Lucas, sto bene. Sono soltanto le nausee mattutine. Spero che non peggiorino molto. Ho quasi vomitato la colazione.»
«Ci credo, con quello che mangi. Devi piantarla con quella robaccia a base di uova e salsicce e pane tostato col burro. Anche se non ti dà la nausea mattutina, ti ucciderà. Avrai il colesterolo a 608. Compra un po' di fiocchi d'avena o al malto. Prendi delle vitamine. Non riesco a capire come fai a non pesare un quintale. Cristo, vuoi...?» «Sì, sì, sì. Ascolta, non ti ho chiamato per ricevere consigli dietetici. Questa è una telefonata ufficiale. Ho sentito strane voci. Che sta succedendo qualcosa di grosso che riguarda il predatore. Che tu sai chi è e lo stai sorvegliando.» «Assolutamente falso» rispose Lucas con decisione. «Non posso dimostrarlo, ovviamente, ma non è vero.» «Non te lo chiederò sul tuo onore di scout, perché quello è un fatto personale e questa è una telefonata ufficiale.» «Bene, sta' a sentire, dato che sei la donna che ha in grembo mio figlio, non voglio che corri in giro fino a sfiancarti, d'accordo? Quindi su basi puramente personali ti dico, parola di scout, che non abbiamo idea di chi sia.» «Ma stai combinando qualcosa?» «Questa è una domanda ufficiale. Posso ricominciare a mentire.» Jennifer rise e Lucas si sentì risollevato. «Io ti leggo come un libro aperto» disse lei. «Scommetto che scoprirò quello che sta succedendo entro, diciamo, una settimana.» «Buona fortuna, cicciona.» Anderson e Lucas stavano parlando nell'ufficio di Lucas quando Daniel entrò. Non aveva mai visto l'ufficio di Lucas prima di allora. «Niente male» commentò. «È grande quasi quanto il mio armadio a muro.» «C'è una parete scorrevole che si apre trasformandolo in un ufficio dirigenziale, ma lo faccio soltanto quando sono solo» ribatté Lucas. «Non voglio far ingelosire i peones.» «Stavamo riesaminando il caso» disse Anderson, guardando il capo. «Sono passati dieci giorni dall'ultima volta che il predatore ha colpito. Se gli psichiatri hanno ragione, dovrebbe tentare un altro colpo. Probabilmente la settimana prossima.» «Cristo, dobbiamo fare qualcosa» disse Daniel. Si torceva le mani e Lucas pensò che era dimagrito. Fatto insolito per lui, aveva i capelli arruffati, come se si fosse dimenticato di spazzolarli prima di uscire di casa. Il predatore gli stava logorando i nervi.
«Niente sulla faccenda McGowan?» domandò. «No.» «Lucas, mi dica qualcosa.» «Non ho niente di preciso. Potremmo essere in grado di tranquillizzare i mezzi dì informazione. Sto pensando che dovremmo comunicare qualche notizia sul suo conto. Qualcosa che gli renda più difficile colpire le vittime.» Daniel fece una pausa. «Come per esempio?» «Un bollettino che descriva il tipo di donna che attacca... capelli scuri, occhi scuri, giovane o di mezza età, attraente. Poi forse qualche accenno su di lui. Che ha la carnagione chiara, i capelli scuri, è un po' pesante, forse si è trasferito qui di recente dal sud-ovest. Che almeno una volta si è vestito da contadino, ma che riteniamo sia un impiegato o un funzionario. Un appello a tutte le donne che rientrano nel tipo, e che ricevono approcci da uomini di quel genere, con la richiesta di telefonarci.» «Cristo, lo sai quante chiamate riceveremmo?» chiese Anderson. «È inevitabile» disse Lucas. «Ma non stiamo ottenendo nessun risultato, e se la prossima settimana ne ucciderà un'altra... Staremmo meglio se la stampa pensasse che stiamo facendo qualcosa in proposito.» Daniel si morse le labbra, fissando con aria assente l'intonaco granuloso della parete dell'ufficio di Lucas. Alla fine annuì. «Sì. Facciamo così. Almeno concluderemo qualcosa.» «E magari si potrebbe proclamare un allarme per la settimana prossima» suggerì Lucas. «Far scendere nelle strade parecchi poliziotti in più. Facciamo in modo che i media lo sappiano, ma chiediamo loro di non fare pubblicità. Non lo faranno, e questo darà loro l'impressione di essere parte dell'ingranaggio.» «Niente male» ammise Daniel con un sorriso stentato. «E quando sarà finita, potremo presentarci tutti in televisione per discutere dell'etica dei media, se avrebbero dovuto collaborare con la polizia o meno.» «Ha afferrato l'idea» disse Lucas. «Vanno matti per quelle stronzate.» Lucas la chiamò da un telefono pubblico. «Cavallo Rosso?» «Ascolta, Annie, Daniel ha ordinato a Anderson... sai, quello della Rapine e Omicidi?... gli ha ordinato di stendere un elenco delle caratteristiche tanto delle vittime quanto del predatore e di rilasciarla ai media. Probabil-
mente entro questo pomeriggio. Alcune sono già risapute, ma altre sono rimaste riservate fino ad ora.» «Se posso averla entro dieci minuti, la inserisco nel notiziario di mezzogiorno.» «Non posso riferirtela tutta, ma riteniamo che sia nuovo della zona. Pensiamo che abiti qui solo da qualche anno e che provenga dal sud-ovest.» «Vuoi dire Washington, Marshall, laggiù?» «No, no, non dal sud-ovest del Minnesota, dagli stati del sud-ovest. Texas, probabilmente. Forse Nuovo Messico. Qualcosa del genere. Daniel dichiarerà ufficialmente che è stato visto vestito da agricoltore, proprio come hai riferito tu. Ma ora pensano che possa essere un travestimento e che in realtà sia un impiegato.» «Magnifico. Davvero, Cavallo Rosso. Che altro?» «Nella lista ci sarà dell'altro, ma questo è il meglio. E ascolta, prima di andare in onda, chiama Anderson e chiedigli notizie in proposito. Te lo dirà lui. Adesso è nel suo ufficio.» Le diede il numero della linea diretta di Anderson. «Grazie. Ti vedrò in trasmissione fra 15 minuti.» Metà pomeriggio. Lucas soffriva di depressione post-prandiale, e sollevò il ricevitore con un gesto fiacco. «Lucas?» «Come ti senti, Jennifer?» «Cos'è questa storia della McGowan?» «Jennifer...» «No, no, no. Non ti sto chiedendo se te la sei scopata. Su questo punto mi hai già dato la tua parola di boy scout. Quello che voglio sapere è cosa sta succedendo con Annie McGowan e la sorveglianza. Perché i poliziotti la sorvegliano?» Lucas esitò prima di rispondere, e capì subito di aver commesso un errore. «Ah, allora la state sorvegliando» cantò vittoria Jennifer. «Jennifer, ricordi quando ti ho chiesto di parlare al capo prima di prendere qualsiasi iniziativa su Carla Ruiz? Ora ti chiedo di farlo di nuovo.» Sera. Il sole tramontava decisamente presto, ormai. L'estate era finita. Lucas aspettava davanti alla porta dell'ufficio di Daniel. Aspettava da 15 minuti, quando Daniel arrivò dall'esterno. «Entri pure» gli disse. Si tolse il soprabito e lo gettò sul divano. «Glielo
chiederò a bruciapelo. Ha informato lei Jennifer Carey della sorveglianza?» «Assolutamente no. Ha le sue fonti. Mi ha chiamato e io l'ho mandata da lei.» Daniel gli puntò un dito contro. «Se scopro che le cose stanno diversamente, le rompo il culo.» «Non sono stato io. Cosa è successo quando ha chiamato?» «Ho telefonato al direttore della stazione, ho convocato lui e la Carey per una riunione e li ho ammoniti duramente. La Carey ha attaccato la solita solfa sull'etica dei media e il direttore della stazione l'ha zittita. Ha detto che non era disposto ad accettare che la sua stazione fosse messa sotto accusa se una diva di un'altra stazione veniva assassinata dal predatore.» «Tutto qui?» «Hanno preteso parità di accesso con Canale 8. Porteranno una telecamera nella casa durante il weekend, quando non succede niente, gireranno un po' di pellicola sulla McGowan che stira le camicie o altro. Li lasceremo entrare nelle postazioni di sorveglianza per qualche minuto. Una volta sola.» «E loro terranno in cantiere il film finché non lo prenderemo?» «L'accordo è questo.» «Niente male come accordo» osservò Lucas con approvazione. «Che cosa aveva da dire Jennifer in proposito?» «Era scontenta, ma accetterà. Produrrà lei l'intervista con la McGowan. Sarà un ragazzo a farla» rispose Daniel. «A dire la verità, penso che sia un po' gelosa. Penso che vorrebbe starci lei, al posto della McGowan.» «Ricordi quella poesia orribile che mi hai scritto quando abbiamo cominciato a uscire insieme? Sul fatto che volevi un figlio da me?» «Non era tanto orribile» ribatté Lucas, sollevandosi su un gomito. Aveva la voce un po' dura. «A me sembrava complessa.» «Complessa? Sembrava un sottoprodotto rock'n roll del 1959.» «Senti, lo so che non apprezzi particolarmente la mia...» «No, no, no. L'adoro. L'ho conservata. L'ho attaccata col nastro adesivo all'interno del carrello della macchina da scrivere, e all'incirca una volta la settimana l'apro per leggerla. L'ho letta proprio oggi, e stavo pensando: "Be', sto per avere davvero il suo bambino."» Lucas premette l'orecchio sulla pelle nuda di Jennifer all'altezza del diaframma.
«Dovrei sentire già qualcosa?» «Stai ascoltando molto attentamente?» «Sì.» Lui premette ancora più forte. «Be', se ascolti davvero attentamente...» «Sì?» «Probabilmente sentirai la Budweiser che ho bevuto prima di venire a letto.» Lucas arrivò al lago in tempo per ammirare il tramonto del sabato sera. Carla era uscita in bicicletta, ma tornò mezz'ora dopo con una piccola borsa di provviste e una bottiglia di vino rosso. Lucas si trattenne nel rifugio la notte del sabato e la domenica, e quasi tutta la notte della domenica. Alle due del mattino baciò sulle labbra Carla e tornò in macchina alle Città Gemelle, mettendosi a letto poco dopo le cinque. Arrivò di nuovo in ritardo alla riunione generale. «Che ne è stato della lista di persone che abbiamo ottenuto dalla Rice?» chiese Lucas. Lunedì mattina nell'ufficio del capo. Almeno metà degli agenti investigativi avevano l'aria stonata, sfiniti da un'altra settimana di straordinari. «Sapete, quando stavamo controllando la pistola del predatore e chi l'aveva acquistata dal marito?» «Be', abbiamo controllato tutti quelli che lei è riuscita a ricordare» rispose Sloan, che aveva interrogato la signora Rice. «Niente?» «Non li abbiamo interrogati tutti, per la verità. Li abbiamo controllati. Se non corrispondevano al profilo, lasciavamo perdere. Sai, donne, vecchi, ragazzi, li abbiamo lasciati correre. Abbiamo interrogato effettivamente tutti quelli che potevano avvicinarsi al profilo, e siamo rimasti a becco asciutto. Volevamo ricontrollare gli altri, ma tutto è andato a rilento quando Jimmy Smithe ha cominciato a sembrare un candidato probabile. È rimasto tutto arenato.» «Dovremmo tornare all'idea di interrogare tutti» propose Lucas, rivolgendosi a Daniel. «Sappiamo che quella dannata pistola è un elemento cruciale. Forse qualcuno l'ha comprata per rivenderla. Io dico, controlliamo le donne, i ragazzi, i vecchi, tutti.» «Datevi da fare» ordinò Daniel a Anderson. «Avevo dato per scontato che fosse già fatto.» «Be'...»
«Datevi da fare e basta.» Lucas stava seduto sul pavimento della soffitta. «Mercoledì. Non credevo che saremmo arrivati a mercoledì» disse l'agente di guardia. «È in ritardo.» «Fa freddo qui dentro» disse Lucas. «Si sente filtrare il vento.» «Già. Teniamo la porta aperta, ma non ci sono caloriferi. Stiamo pensando di portare su una stufa elettrica.» «Buona idea.» «Il fatto è che la centrale non vuole pagarla. E noi non vogliamo rimetterci i soldi di tasca nostra.» «Ne parlerò a Daniel» disse Lucas. «Arriva una macchina» riferì il secondo agente di guardia. L'auto passò lentamente lungo la strada, si fermò sotto di loro e poi proseguì, svoltando l'angolo. «Hai preso la targa?» «Lo fa quello in fondo alla strada, su una delle macchine. Ha un binocolo a luce stellare.» Una radio posata vicino al materasso emise un gorgoglio improvviso. «Visto?» chiese l'agente di guardia. «Sì. Un vicino.» «Ha rallentato davanti alla casa.» «È il tizio del 66, ma ne prenderò nota» disse la voce alla radio. «Come va?» «Fa freddo» rispose l'agente sull'auto. Si rimisero ad aspettare. «Postazioni all'erta» disse l'agente di guardia venti minuti dopo. «Passo al cannocchiale.» Lucas guardò attraverso il binocolo. Annie McGowan indossava un vaporoso negligé rosa e un minuscolo slip in tinta. Si spostava avanti e indietro oltre l'apertura fra le tende larga venti centimetri, più provocante di qualsiasi spogliarellista professionale. «Deve saperlo» disse l'agente di guardia. «Io credo di no» ribatté Lucas. «Penso che sia tanto abituata a quello spiraglio fra le tende che non fa caso...» «Stronzate. Guarda lì, quando si stira. Si mette in mostra. Ma non mostra mai tutto. Se ne va in giro senza reggiseno, ma non la sorprendi mai senza mutande, nemmeno quando esce dalla doccia. Ci sta stuzzicando. Io dico che lo sa...»
Stavano ancora discutendo, quando il predatore uccise l'invalida. 18 Il predatore ricevette un volantino nell'ufficio del cancelliere della contea, un foglio di carta rosa che gli consegnarono mentre usciva dalla porta. Lo lesse mentre aspettava in piedi davanti alla fila di ascensori. Non c'era nemmeno un tentativo di identikit e nessuna vera descrizione. Dicevano che era un impiegato o un funzionario, forse collegato in qualche modo al centro governativo della contea di Hennepin o al municipio di Minneapolis. Chiaro di carnagione. Accento del sud-ovest, forse del Texas. Una volta era stato visto vestito da agricoltore, ma probabilmente quello era un travestimento. Il predatore ripiegò il foglio e rimase a guardare le luci sull'indicatore dell'ascensore. All'arrivo della cabina entrò, rivolse un cenno agli altri due occupanti e si voltò a fissare la porta. Non gli era venuto in mente che poteva avere un accento. Era vero? A lui sembrava di parlare come tutti gli altri. Sapeva che parlare a Davenport sarebbe stato uno sbaglio. Ora forse lo avrebbe pagato. La mente del predatore scivolò senza rendersene conto nell'atteggiamento del legale. Che cosa potevano farsene? Così, aveva un accento. Centinaia di persone lo avevano. Svolgeva un lavoro di ufficio. Altrettanto faceva la maggior parte degli abitanti di Minneapolis. Frequentava spesso il centro governativo. Lo facevano diecimila persone al giorno, alcune perché avevano qualcosa da fare al centro, altre di passaggio. Un verdetto di condanna? Impossibile. O poco probabile, comunque. Bisognava tener conto dei colpi di testa delle giurie. Ma sarebbe finito davvero di fronte a una giuria? Quella era una prospettiva da contemplare. Se lo catturavano, poteva chiedere un processo senza giuria. Nessun giudice lo avrebbe condannato in base a quello che c'era sul volantino. Ma che altro avevano in mano? Il predatore si morse il labbro. Che altro? Man mano che si preoccupava, il bisogno di un'altra cresceva. Il volto della studentessa in legge fluttuava davanti a lui, sullo sfondo delle porte d'acciaio. Era tanto preso da quella visione che quando le porte si aprirono sussultò, e la donna accanto a lui gli lanciò un'occhiata curiosa. Il predatore si affrettò a uscire dall'ascensore, attraversò i sottopassaggi e tornò in ufficio. La segretaria era andata chissà dove. Passando davanti alla sua
scrivania, vide l'angolo di un foglio di carta rosa sotto una cartella d'archivio. Si fermò, si guardò attorno in fretta e lo sfilò. Un volantino. Lo rimise a posto. Dov'era? Entrò nel suo ufficio, lasciò cadere la borsa portadocumenti vicino alla scrivania, sedette e si prese là faccia tra le mani. Era ancora seduto in quella posizione quando sentì bussare alla porta con una lieve esitazione. Alzò la testa e vide la segretaria che lo guardava attraverso il pannello verticale di vetro di fianco alla porta. La invitò a entrare con un cenno. «Sta bene? L'ho visto seduto così...» «Una giornataccia» rispose il predatore. «Qui ho quasi finito. Me ne vado a casa.» «Va bene. Il signor Wexler ha mandato il fascicolo sul divorzio Carlson, ma sembra semplice routine» disse lei. «Comunque, non ci sarà niente di nuovo prima della fine della settimana.» «Grazie. Se non ha niente da fare, tanto vale che si prenda il resto della giornata di libertà» le disse. «Oh, bene» rispose lei tutta allegra. Mentre usciva diretto alla macchina, ripensò a quella conversazione innocente. Aveva detto: «Una giornataccia». Aveva detto: «Qui ho quasi finito. Me ne vado a casa.» Era quello che pensava di aver detto. Ma la segretaria, che cosa aveva sentito? Aveva sentito un accento particolare? Aveva sentito un'espressione del Texas, oppure la usavano anche lassù? Lui aveva forse la stessa voce di Lyndon Johnson? Entrato nell'appartamento, il predatore guardò nel congelatore, tirò fuori una cena da cuocere a microonde, fissò il timer del forno e premette il pulsante di avvio. Il suo viso si rifletteva nella finestrella del forno a microonde. Labbra che sembravano vermi rossi. La sua mano scivolò nella tasca della giacca e incontrò il volantino. Lo tirò fuori e lo rilesse. Le vittime, diceva, rispecchiavano un tipo. Occhi scuri, capelli scuri. Attraenti. Da giovani a donne di mezza età. Ci pensò. Avevano ragione, naturalmente. Forse doveva scegliere una bionda. Ma le bionde non lo attiravano. Pelle chiara, capelli chiari. Persone a sangue freddo. E non voleva una vecchia. Era disgustoso. Le vecchie ne sapevano troppo, della morte. Le sue donne dovevano affrontare quella prospettiva per la prima volta. "Non cambierò" si disse. Non ce n'era bisogno, in realtà Nelle Città Gemelle vivevano oltre un milione di donne. Probabilmente un quarto di mi-
lione fra loro corrispondeva al suo "tipo". Un quarto di milione di possibili Prescelte. Da quel punto di vista, la descrizione di un "tipo" era priva di significato. La polizia non aveva la minima speranza. Provò un impeto di sicurezza: l'intera faccenda era priva di significato. Dopo che lui era stato respinto da una donna e visto da un altro testimone per l'omicidio Brown, la polizia aveva meno elementi di quanto si fosse aspettato. Ammesso che dicessero tutto. Il forno a microonde emise un bip e lui tirò fuori la cena e la mise in tavola. "Se mi prendono" pensò mentre consumava il pasto solitario "potrei usare le microonde come elemento a discarico. Come quel tipo che sosteneva di essere impazzito per iperglicemia provocata da un'overdose di Twinkies." La difesa Twinkle; la sua sarebbe stata la difesa a microonde. Infilzò uno dei tocchetti di patate e lo scrutò, poi se lo ficcò in bocca. "Stasera" pensò. "Non posso più aspettare." Telefonò in casa dell'invalida poco dopo le sei, ma non ottenne risposta. Richiamò alle sette. Nessuna risposta. Alle otto rispose qualcuno. «Phyllis?» chiese lui con la sua voce più acuta. «Deve avere sbagliato numero.» Era la prima volta che sentiva la sua voce. Era bassa e musicale. «Oh cielo» esclamò lui. Suonava affettato alle sue stesse orecchie; tutt'altro che un assassino. Le diede un numero con una cifra diversa dal suo. «Ha sbagliato numero» replicò lei. «Io ho il 5476.» «Oh, mi scusi» disse lui, e attaccò. Si preparò con cura, con eccitazione crescente ma tenuta a freno. L'eccitazione del cacciatore, la gioia del cacciatore. Avrebbe indossato la sua migliore giacca sportiva di tweed, il soprabito di cachemire nero, mocassini neri. Un cappello di feltro a tesa rigida. Il soprabito aveva delle grandi tasche. Avrebbero contenuto la patata. La patata aveva funzionato molto bene, l'altra volta. Si avvicinò all'armadio, prese un Kotex dalla scatola che aveva comprato tre mesi prima. Nastro adesivo. Guanti di latex sotto i guanti da guida in cuoio. Una sciarpa gli avrebbe nascosto la parte inferiore del viso, offrendogli maggiore protezione contro un eventuale riconoscimento: era una novità, dopo tutto, un'azione nel suo quartiere. Doveva tenersi pronto a rinunciare, pensò. "Se qualcuno mi vede davanti alla sua porta, addio." Coltello? No. Lei doveva averne uno. Quando fu pronto, passò dalla porta laterale nel garage adiacente, salì in
macchina, premette il pulsante del telecomando che apriva la porta del garage, uscì in strada a marcia indietro, chiuse il garage, percorse due isolati e parcheggiò la macchina. Allungò la mano verso il divanetto posteriore e prese una busta marrone da ufficio, aprì il lembo e guardò all'interno. Mezza dozzina di moduli, ricavati da un bidone dei rifiuti al pianterreno del centro governativo. Richieste d'impiego. Mentre si avvicinava alla porta, l'eccitazione divenne quasi intollerabile. "Sto arrivando" salmodiava "sto arrivando per la Prescelta; si avvicina l'Unico." Sentiva sul viso il vento gelido e ne godeva, l'odore del nord-ovest, l'inverno in arrivo. Si diresse verso la casa a passo svelto, un uomo d'affari in missione d'affari, e senza cambiare andatura percorse il marciapiede. La porta aveva quattro piccoli pannelli di vetro incastonati al centro, proprio all'altezza della testa, coperti in parte da una tendina. Guardò nella cucina. Lei non si vedeva. Il predatore bussò alla porta. E attese. Bussò ancora. Un rumore? Poi la vide, mentre spingeva la sedia a rotelle sul pavimento di linoleum. Non era una donna sana, ma che viso; un viso così fresco, per una che era rimasta ferita in modo così grave. Un'ottimista. Lei aprì a metà la porta interna, lasciando chiusa quella esterna. «Sì?» «La signorina Wheatcroft? Sono Louis Vullion, un avvocato dello studio Felsen-Gore. Appartengo al comitato per l'assegnazione delle borse di studio dell'Ordine degli avvocati del Minnesota.» Introdusse una mano nel soprabito, tirò fuori un biglietto da visita, aprì la porta esterna e glielo porse. Lei lo guardò e disse incuriosita: «Sì?» Lui tenne sollevata la busta marrone. «Poco fa stavo parlato con il preside Jensen della facoltà di legge. A dir la verità, ero lì per ritirare le domande per i posti di praticante nello studio Felsen, e il preside Jensen mi ha detto che deve aver dimenticato di presentare la sua. O così, oppure è andata perduta.» Agitò la busta marrone verso di lei, cominciò a tirar fuori goffamente i moduli di domanda in bianco. «Non ne so niente» rispose lei. «Non ne ho mai sentito parlare.» «Mai sentito parlare?» Il predatore era perplesso. Come poteva non averne sentito parlare? «Mi spiace, immaginavo che tutti gli studenti migliori fossero al corrente dei posti di praticante. Pagano così bene e, sa, probabilmente ci sì fa più esperienza nel campo delle aggressioni personali e ingiurie al massimo livello. Sono ricercati almeno quanto i posti nell'uffi-
cio del cancelliere, soprattutto perché sono così ben pagati.» Lei esitò, guardò il suo viso, i vestiti, la busta marrone, il biglietto da visita. «Forse è meglio che entri, signor...» «Vullion» disse lui, entrando in casa. «Louis Vullion. Che serataccia, vero?» Questa fu diversa. Consolante, in un certo senso. Impiegò quasi venti minuti per ucciderla, disteso nudo al suo fianco sul letto, con il preservativo che lo proteggeva saldamente da possibili dispersioni di sperma. Ne aveva bisogno. Venne una prima volta mentre lavorava su di lei e poi di nuovo quando finalmente le infilò il coltello sotto lo sterno e lei inarcò la schiena e lo lasciò. E lui si sentì insonnolito, guardandola, e le posò la testa sul seno. Fredda. Rigida. Si mise seduto, si guardò attorno. Dio, si era addormentato. Fu assalito dal panico e abbassò gli occhi sul corpo di lei che si stava raffreddando, poi gettò occhiate allucinate qua e là per la stanza. Da quanto? Da quanto? Guardò l'orologio. Le nove e tre quarti. Si alzò, tolse il preservativo, lo gettò nel gabinetto. Aveva il corpo coperto di sangue. Entrò nel bagno minuscolo, aprì la doccia e si sciacquò. Tenne sulle mani i guanti in latex; non voleva lasciare impronte. Non quella volta. Non nell'ora più bella vissuta fino a quel momento. Quando si fu tolto di dosso quasi tutto il sangue, uscì dalla doccia ma la lasciò aperta. Se aveva perso dei capelli o dei peli sotto la doccia, l'acqua li avrebbe fatti finire nello scarico. Prese un asciugamani, poi lo posò. Sempre i capelli. Si asciugò con la camicia e, quando fu abbastanza asciutto, la ficcò nella tasca del soprabito. Il pensiero dei peli lo rendeva paranoico. Aveva continuato a radersi i peli del pube, ma temeva di perdere peli del torace o capelli. Prese il rotolo di nastro adesivo, se lo avvolse intorno alla mano e tamponò il letto nel punto in cui era stato disteso. Quando ebbe finito, guardò il nastro; c'erano rimasti attaccati piccoli filamenti pelosi e forse uno o due peli pubici neri, della donna. Niente di rosso, niente di suo. Ficcò il nastro nella tasca del soprabito insieme con la camicia umida, entrò nel bagno, chiuse la doccia e si rivestì. Quando fu pronto, guardò in giro, fece l'inventario. Portava ancora i guanti di latex. Giacca sportiva, soprabito, cappello, sciarpa, guanti da guida. Dimenticava niente? Il biglietto da visita. Lo trovò sul pavimento. Era il colmo. Lasciare la calza con la patata sul pavimento. Posarle sul pet-
to il biglietto: PREMUNIRSI DAL RISCHIO DI ESSERE SCOPERTI PER CASO. Pronto. Le diede una pacca sul pancino e se ne andò. Uscì, percorse il marciapiede e girò intorno alla casa, sfilandosi i guanti di latex mentre camminava. L'appartamento della vecchia era al buio. C'era una luce al piano di sopra, all'interno tre, ma nessuno alla finestra. S'incamminò di buon passo lungo il marciapiede e, mentre passava sotto un lampione, notò una macchia scura sul dorso di una mano. Esitò, guardandola. Sangue? La sfiorò con la lingua. Sangue. Dolce. Non incontrò nessuno per la strada mentre raggiungeva la macchina. L'aprì, salì a bordo e partì. Verso l'interstatale 94. Pressione dietro gli occhi. Doveva farlo. Telefono su un pilastro, davanti a una lavanderia automatica. Un uomo dentro, intento a leggere un giornale mentre i suoi vestiti giravano nell'essiccatoio. Era stato uno sbaglio in passato, sarebbe stato di nuovo uno sbaglio. Ma ne aveva bisogno. Ne aveva bisogno come aveva bisogno delle donne. Qualcuno con cui parlare. Qualcuno che potesse capire. Il predatore si fermò al telefono della lavanderia, chiamò Davenport a casa. E gli rispose una segreteria telefonica. «Lasciate un messaggio» disse concisa la voce di Davenport, senza identificarsi. Si sentì un segnale acustico. Il predatore era deluso. Non era la stessa cosa che un contatto umano. Sfiorò con la lingua la macchia di sangue sul dorso della mano, l'assaporò, poi disse: «Ne ho ucciso un'altra.» La linea rimase aperta e lui s'inumidì le labbra. «È stato delizioso» disse. 19 «È stato delizioso.» Lucas ascoltò per la seconda volta, mentre la disperazione gli cresceva dentro. «Figlio di puttana» sussurrò. Riavvolse il nastro e lo riascoltò. «È stato delizioso.» «Figlio di puttana.» Si sedette di schianto alla scrivania, vi appoggiò il gomito sopra, posò la fronte sulla mano. Restò seduto per tre minuti, incapace di riflettere. La casa lo avvolgeva come un bozzolo, semibuia, protettiva, silenziosa. Per la strada passò una macchina, con i fari che illuminavano la parete. Riscuotendosi, chiamò Minneapolis e chiese del comandante di turno.
«Qui niente» gli risposero. Saint Paul diede la stessa risposta. Niente a Bloomington. C'erano troppi sobborghi per controllarli tutti. E Lucas riteneva probabile che il predatore avesse ucciso una donna proprio nella sua giurisdizione. Ormai era una sfida. Esplicita. «Lucas?» La voce di Daniel aveva qualcosa di sgradevole. «Ho ricevuto una telefonata. Dice di averne uccisa un'altra.» «Oh, Cristo di Dio beato» esclamò Daniel. Sullo sfondo Lucas sentì la moglie di Daniel chiedere se ce n'era stata un'altra, e dove. «Non so dove» rispose Lucas. «Non me lo ha detto. Mi ha detto solo che è stato delizioso.» La studentessa in legge fu trovata solo due giorni dopo, nel tardo pomeriggio. Saltava di rado le lezioni. Quando rimase assente il primo giorno, la sua assenza fu notata, ma non provocò indagini. Quando mancò il secondo giorno senza comunicare messaggi, o scuse, un'amica telefonò al suo appartamento, ma senza ottenere risposta. All'ora di cena l'amica passò da casa sua e vide la luce sul retro. Bussò, sbirciò dalla finestra, vide l'impugnatura rivestita di gomma della sedia a rotelle sporgere dalla soglia della camera da letto. Preoccupata, andò dalla vecchia signora, che portò le sue chiavi. Insieme trovarono la Prescelta. «Avevo paura che il predatore l'avesse uccisa» disse piangendo l'amica quando arrivarono i primi agenti. «Ci ho pensato mentre venivo qui. E se l'ha presa il predatore?» «Cavallo Rosso?» «Annie, ce n'è un'altra» disse Lucas. Le diede il nome e l'indirizzo. «Dalle parti dell'università. Una studentessa in legge, paralizzata alle gambe. Si chiamava Cheryl...» «Dovresti compitarlo.» «Wheatcroft, C-h-e-r-y-l W-h-e-a-t-c-r-o-f-t. Sono stati scritti molti articoli su di lei, mi pare, sullo Star-Tribune.» «Posso guardare. Abbiamo un archivio informatizzato.» «Guarda anche sul Pioneer Press. Era all'ultimo anno, proprio la prima del suo corso. I genitori sono qui; vivono nella zona est di Saint Paul. Non lo sa ancora nessun altro, ma lo scopriranno tutti molto presto. C'è almeno un milione di agenti per la strada, che entrano ed escono. E il medico legale. Stiamo attirando vicini e studenti. Ma se porti qui una troupe abbastanza in fretta, dovresti prendere i genitori mentre escono.»
«Cinque minuti» rispose lei, e attaccò. «Cheryl Wheatcroft» ripeté Daniel. Era in piedi nella cucina, senza cappello, senza cappotto, infuriato. «Cosa ha fatto per meritarsi questo, Davenport? Ha peccato? Ha fornicato di notte? Non è andata a messa la domenica? Che diavolo ha fatto, Davenport?» Lucas distolse l'attenzione da quello scoppio d'ira, tentò di stornarlo con una domanda. «Cosa hanno fatto vedere ai genitori?» «Il viso. E basta. La madre voleva vedere il resto, ma ho detto al vecchio di portarla via. Stava male quasi quanto sua moglie, ma sapeva di cosa stavamo parlando e l'ha fatta uscire. Avevano quella telecamera puntata proprio in faccia. Cristo, quelli sono animali, quei telecronisti di merda, sono come quel bastardo di predatore.» Gli agenti della Omicidi si aggiravano per l'appartamento a testa bassa, come se con un atteggiamento afflitto potessero in qualche modo sfuggire all'ira di Daniel. Si parlavano a bisbigli. Continuarono a bisbigliare anche dopo che Daniel se ne fu andato. Quando uscì dalla porta, le telecamere sul marciapiede opposto inquadrarono il suo viso e vi rimasero fisse. Per tutta la settimana seguente, il suo profilo, indurito dall'angoscia come un blocco di ghiaccio del Lago Superior, fu usato per annunciare il telegiornale della sera su Canale 8. Lucas rimase sulla scena mentre i tecnici del laboratorio la esaminavano. «C'è qualcosa di estraneo allo schema?» chiese al medico legale. Sulla scena c'era il capo della Medicina legale in persona. Rivolse gli occhi verso Lucas e gli fece un cenno quasi impercettibile. «Sì. L'ha massacrata. Con le altre, era clinico. Inserire il coltello, uccidere. Questa l'ha sventrata. È rimasta viva fin quasi alla fine.» «Sesso?» «Vuoi sapere se l'ha violentata? No. Pare di no. Presenta numerose pugnalate nella regione pelvica, su fino all'apertura vaginale, nel retto, e poi nella zona anteriore delle pelvi...» «Che cosa?» «Davanti, davanti, proprio davanti. Sembra quasi... Dio buono...» Il medico legale si passò le mani fra i capelli grigi. «Sam...» «Pare che tentasse di scoprire dove cominciava il dolore. Lei ha una quantità di referti medici, e stando a quanto posso dire, la lesione spinale che l'ha paralizzata era relativamente alta. Sopra la vita, al di sotto dei seni.
Doveva aver perso la sensibilità epidermica... Cristo, Lucas, questa storia mi fa impazzire. Non puoi aspettare i rapporti?» «No. Voglio sentirla.» «Be', quando hai una lesione alla spina dorsale, perdi in misura variabile il controllo dei muscoli e la super... la sensibilità nella parte inferiore del corpo. La perdita può variare da una leggera invalidità alla paralisi totale, in cui perdi tutto. È quello che è successo a lei. Ma a seconda del punto in cui la spina dorsale resta danneggiata, perdi la sensibilità superficiale... in varie zone. Stiamo parlando di sensibilità al dolore. E pare che lui abbia lavorato sistematicamente sul corpo, tentando di scoprire dove cominciava.» «E tutte quelle pugnalate nella zona vaginale?» «Stavo per dire che non rientra nello schema delle altre ferite. Sembrano di natura sessuale. E questo non è insolito quando dietro l'omicidio c'è un movente sessuale. C'era anche un'estesa decorticazione dei seni...» «Cosa? Decorticazione?» «La stava scuoiando. Penso che si sia fermato quando si è accorto che stava morendo. È stato allora che finalmente l'ha pugnalata, in modo da poterlo fare lui. Da poterla uccidere.» «Dio.» I tecnici entravano e uscivano con passo pesante. Lucas frugò fra gli effetti personali dell'invalida, trovò una piccola collezione di foto scattate il giorno del diploma conservata nel primo cassetto del comò. Lei indossava la toga nera e il tocco, con la nappina a sinistra. Lui s'infilò in tasca la fotografia e uscì. Lucas era ancora sveglio quando il giornale urtò contro la porta a vetri. Rimase un momento a occhi chiusi, poi cedette e uscì per andare a prenderlo. La prima pagina riportava un titolo cubitale. Il resto della pagina era dominato da una foto a colori su quattro colonne, un'immagine del corpo nascosto da una coperta che veniva portato verso la familiare del medico legale su una lettiga. Il fotografo aveva usato un obiettivo che deformava il viso degli uomini che spingevano la lettiga. HANDICAPPATA, diceva il titolo. TORTURATA, aggiungeva. Lucas chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete. La riunione cominciò in un clima turbolento e continuò sullo stesso to-
no. «Allora non c'è niente di sostanziale?» Erano riuniti nell'ufficio di Daniel - Lucas, Anderson, Lester, una dozzina dei migliori agenti investigativi. «È come negli altri casi. Non ci ha lasciato niente» rispose Anderson. «Non intendo più accettare questo tipo di risposta» gridò a un tratto Daniel, vibrando un pugno sul piano della scrivania e fissando Anderson. «Non voglio sentire queste stronzate su...» «Non sono stronzate» gridò di rimando Anderson. «È quello che abbiamo. Non abbiamo niente. E non voglio sentire altre puttanate da lei o Davenport sulle bordate della stampa. Cazzo, è la prima cosa che ha detto appena siamo entrati: e i media? In culo ai media. Cazzo, stiamo facendo del nostro meglio e cazzo, non voglio sentire altre merdate, cazzo, altre puttanate su questa storia...» Si voltò e uscì dalla stanza come una furia. Daniel, interrotto in pieno sfogo dallo scoppio d'ira di Anderson, ricadde sulla sedia. «Qualcuno vada a richiamarlo» disse un minuto dopo. Quando Anderson rientrò, Daniel gli rivolse un cenno con la testa. «Mi spiace» disse, sfregandosi gli occhi. «Sto perdendo la testa. Dobbiamo finirla con queste fesserie. Dobbiamo prenderlo. Idee. Qualcuno mi dia delle idee.» «Non sospendete la sorveglianza alla McGowan» disse Lucas. «Penso ancora che lei sia una possibilità.» «Ha imperversato sulla scena, laggiù a casa della Wheatcroft» disse uno degli agenti. «Come ha fatto a saperlo? È arrivata mezz'ora prima degli altri giornalisti.» «Non ci pensate» scattò Daniel. «E voglio che la sorveglianza su di lei sia così stretta che una formica non potrebbe raggiungerla nemmeno strisciando. Okay? Che altro? Qualcosa? Qualcuno? Che ne è stato del controllo sulle persone che potrebbero aver ottenuto la pistola da Rice?» «Oh, per quello abbiamo scoperto un particolare curioso» disse Sloan. «Rice era stato in Giappone subito dopo la seconda guerra mondiale e aveva riportato a casa dei souvenir, delle figurine d'avorio, no? Dei netsuke. Be', ne ha parlato con un tizio, un vicino, e il vicino gli ha parlato di una galleria che commercia in oggetti d'arte orientale. Il tizio della galleria viene e compra questi oggetti. Ha pagato a Rice cinquecento dollari per 15 pezzi. Abbiamo la ricevuta. Sono andato a parlare col tizio, si chiama Alan Nester, sta a Nicollet.» «Ho visto il posto» disse Anderson. «Alan Nester, Objets d'Art Orien-
taux. Al pianterreno del Balmoral Building.» «Indirizzo elegante» commentò Lucas. «È lui» disse Sloan. «Comunque, non era disposto a dirmi nemmeno che ora fosse. Ha detto che non sapeva niente, che aveva soltanto parlato un minuto con Rice e se n'era andato. Non ha mai visto nessuna pistola, non sa della pistola.» «E allora?» chiese Daniel. «Pensa che potrebbe essere lui?» «No, no, è troppo alto, dev'essere uno e novanta, ed è inagrissimo. E poi è troppo vecchio rispetto al profilo. Dev'essere sulla cinquantina. Uno di quei cazzoni spocchiosi che portano una sciarpa invece della cravatta.» «Un foulard?» «Sì, quel che è. Non credo che sia lui, ma era nervoso e mi ha mentito. Probabilmente non sa niente del predatore, ma c'è qualcosa che lo innervosisce.» «Guardate in giro, vedete cosa riuscite a scoprire» ordinò Daniel. «E le altre persone?» «Ne abbiamo ancora sei da controllare» rispose lui. «Sono le meno probabili.» «Controllatele per prime. Chissà, magari una salta su e vi morde il culo.» Si guardò attorno. «Nient'altro?» «Io non ho niente» rispose Lucas. «Non riesco a pensare. Questo pomeriggio andrò per le strade, cercherò di combinare qualcosa lì, poi me ne andrò su al nord. Qui non servo a niente.» «Aspetti un momento, per favore» disse Daniel. «Tutti gli altri possono andare. E scusami, Andy. Non avevo intenzione di alzare la voce.» «Non l'avevo nemmeno io» replicò Anderson con un sorriso triste. «Il predatore ci sta uccidendo tutti.» «Anderson non vuole parlare dei media» disse Daniel, battendo sulla pila di giornali che aveva sulla scrivania. «Ma dobbiamo fare qualcosa. E non parlo di salvare il nostro posto di lavoro. Potremmo assistere a scene di panico, là fuori. A Los Angeles potrebbe essere un fatto di routine, ma la popolazione di qui... Non lo accetta e basta. Si sta spaventando.» «Che cosa intende per panico? Gente in fuga per le strade? Non succederà. Probabilmente se ne staranno rintanati...» «Sto parlando di gente che porta armi in pubblico. Sto parlando di uno studente che torna a casa dall'università senza che i genitori lo aspettino, nel cuore della notte, e il vecchio gli fa saltare la testa con la Colt di fami-
glia. Ecco di cosa sto parlando. Lei probabilmente è troppo giovane per ricordarsi di quando Charlie Starkweather ammazzava la gente su nel Nebraska, ma c'erano persone che giravano per le vie di Lincoln armate di fucile. Non vogliamo niente di simile. E non vogliamo che l'Associazione nazionale tiratori insceni la sua campagna del terrore, un'arma in ogni casa e un carro armato in ogni garage.» «Dovremmo parlare ai direttori dei giornali e delle stazioni televisive o ai proprietari» disse Lucas dopo un attimo di riflessione. «Loro possono ordinare che la pressione diminuisca.» «E pensa che lo faranno?» Lucas rifletté per un altro momento. «Se sapremo presentare nel modo giusto la questione, sì. Quelli che lavorano nei media vengono generalmente detestati, ma sono come tutti gli altri: vogliono essere amati. Dia loro una possibilità di dimostrare che sono davvero bravi ragazzi, e le leccheranno le scarpe. Ma la proposta deve partire da lei. Da capo a capo, per così dire. E forse dovrebbe portare con sé i suoi vice. Forse il sindaco. Questo li lusingherebbe, dimostrerebbe loro che li rispetta. Faranno domande sul tipo di: "Vuole che ci autocensuriamo?" Lei deve rispondere: "No, non vogliamo questo. Vogliamo soltanto farvi valutare i pericoli del panico popolare; vogliamo sensibilizzarvi a questo rischio."» «Vuol dire che devo dividere queste riflessioni con loro?» chiese Daniel in tono sarcastico. Lucas puntò un dito su di lui. «La smetta. Niente umorismo. Ha a che fare con la stampa. E sì, diciamo condividere. Loro parlano così. "Mi lasci condividere questo con lei."» «E la berranno?» «Penso di sì. Questo offre ai giornali un'occasione di mostrarsi responsabili. Possono farlo, perché tanto violando l'accordo non ci guadagnano. Non si ottiene un maggior numero di contratti pubblicitari pubblicando articoli sugli omicidi del predatore. E loro non si curano molto dei vantaggi a breve termine. Non possono vendere neanche quelli.» «E la televisione?» «Quello è un problema più grosso, perché i loro indici di gradimento variano, e questo effettivamente conta. Cristo, mi pare di aver letto la settimana scorsa che si avvicina il momento dei sondaggi. Se non concludiamo una specie di accordo con la TV, andranno a nozze con la storia del predatore.» Daniel gemette. «I sondaggi. Mi ero dimenticato dei sondaggi. Dio, que-
sto dovrebbe essere un dipartimento di polizia. Dovremmo catturare delinquenti, e io me ne sto qui a sudare pensando ai sondaggi sugli indici di gradimento.» «Mi procurerò i nomi di tutti quelli con cui vuole parlare» replicò Lucas. «Li darò a Linda fra un'ora. Con i numeri di telefono. Meglio chiamarli direttamente. Così penseranno che lei sa chi sono.» «D'accordo. Una sola riunione? Oppure due? Una per i giornali e una per la TV?» «Una sola, penso. La gente della TV ama trovarsi gomito a gomito con i rappresentanti dei giornali. Li fa sentire più seri.» «E la radio?» chiese Daniel. «Affanculo la radio.» Anderson si appoggiò alla porta dell'ufficio di Lucas. «Può darsi che guidi una Thunderbird di colore scuro, nuova, probabilmente blu notte» disse con una punta appena di soddisfazione. «Da dove è saltato fuori?» domandò Lucas. «Okay. Il medico legale ha detto che lei è stata uccisa fra mercoledì sera e giovedì mattina. Sappiamo che alle sette era viva perché ha parlato al telefono con un'amica. Poi un tizio che vive di fronte lavora al turno di notte, è arrivato a casa alle undici e venti e ha notato che la luce era ancora accesa. Lo ha notato perché di solito la Wheatcroft andava a letto presto.» «E lui come lo sa?» «Ci sto arrivando. Il tizio ha un turno a rotazione alla 3-M. Quando lavorava al turno di giorno, dalle sette alle tre, la vedeva sempre passare sul marciapiede uscendo per andare al lavoro. Una volta le ha chiesto perché si alzava così presto, e lei ha risposto che lo aveva sempre fatto, che era l'ora migliore della giornata. Non riusciva a studiare di sera. Così lui ha notato la luce. Ha pensato che forse aveva un esame importante.» «E...» «E così riteniamo che a quell'ora fosse già morta. O moribonda. Poi, verso le dieci... in questo caso non siamo certi dell'ora, ma c'è uno scarto di 15 minuti appena... un ragazzo stava tornando a casa e ha notato un tale che camminava sul marciapiede opposto. Camminando nella stessa direzione. Statura media. Cappotto scuro. Cappello. Sulla strada che passa davanti alla casa della Wheatcroft. Be', camminano di pari passo per un paio di isolati, senza che il ragazzo presti molta attenzione. Ma lo sai come si fa caso alla gente, quando si è fuori di notte a piedi?»
«Sì.» «È andata così. Camminano per un paio di isolati e il tizio si ferma vicino alla macchina, una Thunderbird. Il ragazzo la nota perché la macchina gli piace. Così il tizio apre lo sportello, sale a bordo e se ne va. Quando il ragazzo sente parlare della Wheatcroft, ci ripensa e gli viene in mente che quel tipo era un po' strano. C'era un milione di posti liberi per la la strada, da quelle parti, e faceva freddo, quindi perché parcheggiare a due o tre isolati dal posto in cui si va?» «Ragazzo sveglio.» «Già.» «E lo hai visto di persona?» chiese Lucas. «Sì. È a posto. Uno studente universitario di ingegneria. Ha una borsa di studio con alloggio. Anche il vicino di casa sembra a posto.» «Umf.» Lucas si sfregò il labbro. Anderson si strinse nelle spalle. «Non è un grosso indizio, ma è pur sempre qualcosa. Stiamo controllando le registrazioni delle assicurazioni sulle Thunderbird, risalendo indietro di tre anni, in cerca di persone che abbiano trasferito le polizze quassù da qualche altro stato. Come il Texas.» «Buona fortuna.» La riunione si tenne il giorno dopo, a metà della mattinata, in una sala da conferenze dello Star-Tribune. Indossavano tutti un completo a giacca. Anche le donne. La maggior parte degli intervenuti portava una cartella di cuoio piena di blocchi legali gialli formato protocollo. Chiamavano per nome il sindaco e Daniel. Chiamavano Lucas "tenente". «Ci sta chiedendo di autocensurarci» dichiarò il capo del consiglio di redazione dello Star-Tribune. «No, veramente no, e non intendiamo farlo, perché sappiamo che non accettereste» rispose Daniel con un sorriso mielato. «Stiamo solo cercando di... condividere con voi delle preoccupazioni, di mettere in rilievo la possibilità che scoppi il panico generale. Quest'uomo, l'assassino, è pazzo. Stiamo facendo tutto il possibile per identificarlo e arrestarlo, e non voglio minimizzare la... l'orribilità... esiste questa parola? di questi crimini. Ma vorrei sottolineare che finora ha ucciso esattamente cinque persone su una popolazione di quasi tre milioni nell'area metropolitana. In altre parole, le probabilità di morire in un incendio, di essere assassinati da un membro della propria famiglia, di essere investiti da una macchina, per non parlare della probabilità di morire per un attacco cardiaco improvviso, sono molto
più rilevanti delle probabilità di imbattersi in questo assassino. Il punto è che un'informazione che produce panico è irresponsabile e controproducente...» «Controproducente a cosa? Alla sua permanenza in carica?» domandò un editorialista dello Star-Tribune. «Questo lo ritengo offensivo» scattò Daniel. «Immagino fosse effettivamente fuori luogo» commentò in tono blando l'editore del giornale. «In ogni caso non ha da preoccuparsene» intervenne il sindaco di Minneapolis, che era seduto a capotavola. «Il capo Daniel sta facendo un ottimo lavoro e intendo rinnovare la sua nomina per un altro mandato, qualunque sia l'esito di questa indagine.» Daniel lanciò un'occhiata al sindaco e annuì. «Abbiamo un problema» disse il direttore della stazione per TV3. «Questa è la storia più interessante che abbia mai riguardato la zona finora. Non ho mai visto niente di simile. Se noi riduciamo deliberatamente la copertura giornalistica, e i nostri colleghi di Canale 8 e Canale 6 e Canale 12 no, potremmo essere danneggiati in termini di audience. Non abbiamo un settore stampa sul quale contare, i rilevamenti dell'indice di gradimento sono la nostra linfa vitale. E dato che siamo la stazione più seguita...» «Solo alle dieci, non alle sei» precisò il direttore di Canale 8. «E dato che siamo la stazione più seguita» riprese il direttore di TV3 «abbiamo più da perdere. Francamente, dubito della possibilità di concludere una specie di accordo al quale si atterrebbero tutti. C'è una posta troppo alta in gioco.» «Che ne direbbe se io e un gruppo di altri poliziotti facessimo il giro degli agenti, uno per uno; e li informassimo che una particolare stazione ci danneggia con i suoi servizi? Se chiedessimo a tutti i poliziotti, dai comandanti di turno in giù, di non parlare a quella stazione? In altri termini, di chiudere i contatti di una stazione con le forze di polizia. Tagliarvi fuori. Questo avrebbe un impatto sull'indice di gradimento?» «Ecco, questa è una proposta pericolosa» disse il rappresentante dei quotidiani di Saint Paul. «Se avremo del panico generato dai mezzi d'informazione, quella sì che sarebbe una proposta pericolosa» ribatté Lucas. «Se un ragazzo che vive nel dormitorio dell'università torna a casa di notte inaspettatamente, e il suo vecchio lo fa saltare in aria perché crede che sia il predatore, di chi sarà la colpa? Di chi sarà la colpa di aver creato il terrore?»
«Questo non è leale» osservò il direttore di TV3. «Certo che lo è. Solo che a voi non sta bene» replicò Lucas. «Si calmi, tenente» disse il sindaco dopo un istante di silenzio. Guardò i presenti riuniti intorno al tavolo. «Sentite, vi chiediamo solo di non essere così martellanti. Ieri sera ho cronometrato Canale 8, e avete dedicato più di sette minuti a questo caso, in quattro segmenti separati. In termini di notiziari televisivi, penso che sia eccessivo. Quasi non c'erano altre storie. Suggerisco soltanto a tutti di guardare ogni servizio e chiedersi: "È necessario? Farà davvero salire il gradimento? E se il capo della polizia Daniel e il sindaco e il consiglio comunale e la legislatura dello stato si arrabbiano sul serio e cominciano a parlare di stampa irresponsabile e a fare nomi? Questo farà salire gli indici di gradimento?"» «In sostanza, allora, state dicendo: "Non fateci arrabbiare"» concluse il direttore dei notiziari di Canale 12. «In sostanza, sto dicendo: "Siate responsabili". Se non lo sarete, potreste pagarlo caro.» «Questa sembra una minaccia» ribatté il direttore dei notiziari. Il sindaco alzò le spalle. «Lei ha una visione drammatica dei fatti.» Attraversando l'atrio per uscire in strada, Daniel guardò il sindaco. «Ho apprezzato quella dichiarazione sulla riconferma» disse. «Non esca ancora a festeggiare» replicò il sindaco a denti stretti. «Potrei cambiare idea, se non prenderà questo figlio di una troia sfatta.» 20 I due giorni fra l'omicidio e la scoperta del corpo erano stati giorni di deliziosa anticipazione. Il predatore era rilassato, sorridente. La segretaria lo trovava quasi attraente. Quasi. A parte le labbra. Il predatore fece scorrere più volte le registrazioni, osservando il servizio della McGowan dalla scena del delitto Wheatcroft. «Qui Annie McGowan, che vi parla dalla scena dell'ultimo della serie dei delitti commessi dall'uomo da tutti conosciuto come il predatore» diceva lei, formando con le labbra delle O sensuali. «Il capo della polizia di Minneapolis, Quentin Daniel, si trova all'interno della casa, a tre isolati appena dal campus dell'università del Minnesota. È qui che una studentessa in legge handicappata, Cheryl Wheatcroft, ammirata come una delle nienti più brillanti del corso di laurea in legge, è stata torturata, uccisa a
coltellate e mutilata sessualmente da un uomo che la polizia giudica di poco superiore a una bestia selvaggia...» Gli piaceva. Gli piaceva perfino la "bestia selvaggia". L'"allevatore di maiali" era finito, dimenticato. Lui gioiva dei giornali, leggeva e rileggeva gli articoli, si stendeva sul letto per rivivere il ricordo della morte della Wheatcroft. Si masturbava, col viso della McGowan che giganteggiava sempre più nelle sue visioni. La reazione dei media crebbe durante la settimana, culminando in tre pagine di servizi sul giornale della domenica di Minneapolis, e in una inchiesta più ridotta ma più analitica sul quotidiano di Saint Paul. Il lunedì i servizi cessarono. Non c'era quasi niente, il che lo lasciò perplesso. Era già bruciato? Quel pomeriggio, andò nell'ufficio del registro della contea e si presentò educatamente come un avvocato che svolgeva ricerche sulle imposte relative alle proprietà immobiliari. Mostrò la tessera e lo iniziarono all'uso dei registri fiscali computerizzati. McGowan? I nomi scorrevano sul monitor del computer; McGowan, Adam, Aileen, Alexis, Annie. Eccola lì. Proprietaria unica di una casa. Un bel quartiere. Il computer gli fornì superficie in metri quadri, prezzi. Avrebbe dovuto fare altre ricerche. Si spostò dai files del computer ai registri delle mappe e guardò le carte della zona. «Se le servono foto aeree, le troverà in quei raccoglitori lassù» disse l'impiegata, sorridendo cordialmente. «Sono archiviate nello stesso modo.» Foto aeree? Bene. Le studiò, individuando la casa della McGowan, notando la sua posizione in rapporto alle case vicine, lo steccato dei giardino, il garage separato. Seguì con la punta di un dito il vicolo dietro la casa. Arrivando dal lato nord, poteva avvicinarsi dal vicolo e raggiungere direttamente la porta di servizio, forzarla ed entrare. Se fosse arrivato abbastanza presto, quando sapeva che la McGowan era in trasmissione, avrebbe avuto la possibilità di esplorarla. E se c'era un altro occupante? Abbastanza facile scoprirlo; era a questo che serviva il telefono. Avrebbe chiamato di notte e di giorno, mentre lei era al lavoro, in attesa di una voce diversa; ormai conosceva così bene la sua. Forse aveva una compagna di stanza. Ci pensò, chiuse gli occhi. Avrebbe potuto fare un colpo doppio. Due nello stesso tempo. Ma non suonava bene. Ogni esperienza era personale, un rapporto uno a uno. Doveva essere suddiviso, non moltiplicato. Tre erano già una folla. Il predatore lasciò l'ufficio del registro e uscì nuovamente in un'altra
splendida giornata d'autunno per dirigersi alla biblioteca, sezione criminale, e cominciò a prendere dagli scaffali libri di memorie di scassinatori. Erano destinati, almeno secondo gli autori, ad aiutare i proprietari a difendere la loro proprietà. Da tutt'altra prospettiva, costituivano anche un corso accelerato di furto. Ne aveva studiati un paio prima di introdursi nello studio di Carla Ruiz. Gli erano stati utili. Il predatore credeva nelle biblioteche. Sfogliò i libri, scelse i quattro che non aveva letto. Mentre usciva dagli scaffali, superando file di libri su delitti e criminali, il nome "Sam" attirò la sua attenzione. Il Figlio di Sam Aveva letto di lui, ma non quel libro in particolare. Lo prese Fuori, alla luce del sole, il predatore trasse un respiro profondo e guardò la gente che camminava frettolosa. Formiche, pensò. Ma era difficile prendere sul serio l'idea. La giornata era troppo bella per sciuparla. Come il principio della primavera nel Texas. Il predatore non poté non restarne colpito. I libri sul furto gli offrirono materia di meditazione; il libro sul Figlio di Sam, ancor di più. Sam non avrebbe dovuto essere catturato, non quando era avvenuto, almeno. Nella sua ultima missione, così la definiva il predatore, aveva sparato a una giovane coppia, uccidendo uno, ferendo e accecando l'altra. Aveva parcheggiato a una certa distanza, vicino a un idrante antincendio. La sua auto era stata multata. Una donna uscita per portare a spasso il cane aveva visto la multa e, più tardi, un uomo che raggiungeva la macchina di corsa e si allontanava. Quando gli ultimi delitti di Sam erano finiti sui giornali, lei aveva telefonato alla polizia. A quell'ora di notte erano state comminate poche multe nella zona, e una sola per parcheggio vicino a un idrante. La polizia era riuscita a leggere il numero di targa sulla copia carbone della multa. Sam era stato catturato. Il predatore stava leggendo a letto. Si lasciò cadere il libro sullo stomaco e fissò il soffitto. Conosceva già la storia, ma l'aveva dimenticata. Pensò al suo ultimo biglietto, quello lasciato sul corpo della Wheatcroft. "Premunirsi dal rischio di essere scoperti per caso" diceva. Pensò alla macchina. Sarebbe bastata una multa. Ora che ci pensava, era certo che la polizia controllava le multe inflitte vicino al luogo degli omicidi.
Lanciò il libro sul letto e ciabattò fino in cucina, riscaldò l'acqua in un bollitore per il tè e si preparò una tazza di cioccolata solubile. Il cacao era una delle sue ghiottonerie preferite. Appena il cioccolato dolceamaro e bollente gli sfiorò la lingua, si ritrovò al ranch, in piedi nella cucina con... Con chi? Si riscosse e tornò in camera da letto. Con la Wheatcroft si era comportato a puntino. C'era andato in macchina in modo da non farsi vedere mentre lasciava la casa a piedi. Aveva parcheggiato e raggiunto la casa a piedi in modo che la sua auto non fosse riconosciuta sul luogo del delitto. Raggiungere il posto a piedi. Tenere la macchina in disparte. Controllare e ricontrollare che l'auto non fosse in sosta vietata. E avvicinarsi alla casa quanto bastava per poterla raggiungere in un minuto o due, di corsa, ma non tanto da far ricordare subito la presenza di una vettura sconosciuta vicino al teatro di un delitto. Cinque isolati? A quanto corrispondevano cinque isolati? Prese un foglio di carta e disegnò strade e isolati. Va bene, se parcheggiava a cinque isolati di distanza, i poliziotti avrebbero dovuto controllare almeno cinquanta isolati prima di arrivare alla sua macchina. Se parcheggiava a sei isolati dalla casa della McGowan, avrebbero dovuto controllare 72 isolati. Sarebbero stati il doppio, se non fosse stato per quel dannato torrente che scorreva dalla parte opposta della strada. Guardò la mappa e fece dei calcoli. Se parcheggiava a nord della casa, poteva arrivare a sei isolati di distanza lungo quelli in fondo, che erano stretti. Inoltre avrebbe avuto accesso ai vicoli che sbucavano dagli isolati in fondo, buoni nascondigli, se fosse stato necessario nascondersi. I registri catastali indicavano che i lotti erano profondi poco più di venti metri, con un vicolo largo quattro metri e mezzo. Le strade erano larghe nove metri. Fece i conti sul foglio di carta. Poco più di duecento metri. Sarebbe dovuto riuscire a coprirli di corsa in meno di un minuto. Si alzò, tornò in cucina, trovò una carta della città in un cassetto e contò sei isolati. Non sei, pensò. Cinque isolati, sarebbe stato meglio. Se parcheggiava a cinque isolati, si sarebbe trovato su una strada che aveva accesso all'interstatale 35. Una volta in macchina poteva raggiungere la superstrada in meno di un minuto, anche senza superare il limite di velocità. Chiuse gli occhi e visualizzò la scena. Correndo a perdifiato, in una situazione di panico, c'erano otto minuti dalla casa della McGowan alla superstrada. Una volta lì, otto minuti fino al suo garage. Avrebbe dovuto riflettere.
Il predatore ricavò il numero telefonico della McGowan da un'agenda commerciale della città. La chiamò a casa, le parlò: «Phyllis?... Mi scusi, devo avere sbagliato numero» disse. Richiamò. Richiamò ancora. Una segreteria telefonica, ma mai una voce estranea. Il predatore fece una ricognizione. La fece a bordo della Thunderbird blu notte. Domenica pomeriggio. Annie McGowan era in visita dai genitori a Brookings, nel Sud Dakota. Doveva tornare al lavoro il lunedì. C'erano ancora agenti che sorvegliavano la casa: uno sul davanti, in casa dell'architetto, l'altro sul retro, nella casa dell'anziana coppia. I poliziotti ai lati, in macchina, erano stati ritirati temporaneamente mentre lei era fuori città. Partita la McGowan, era difficile prendere sul serio la sorveglianza. L'agente nella postazione sul retro stava leggendo una pila di fumetti del 1950 che aveva trovato in soffitta, chiedendosi se sarebbe stato possibile rubarli. Dio solo sapeva quanto valevano, e la vecchia coppia non sembrava davvero curarsene e nemmeno ricordarsi della loro esistenza. A intervalli di due o tre minuti il poliziotto lanciava un'occhiata dalla finestra al retro della casa della McGowan. Ma tutti sapevano che il predatore non attaccava mai nel fine settimana. Non prestava molta attenzione. Stava leggendo un albo di Superman, quando il predatore passò sul davanti. Se avesse imboccato il vicolo dietro la casa, il poliziotto l'avrebbe visto senz'altro: avrebbe sentito passare la macchina e avrebbe potuto sorprenderlo o identificarlo subito. Ma un bidone della spazzatura si era rovesciato in fondo al vicolo. Quando il predatore fece per imboccare la svolta, lo vide, ci ripensò e fece marcia indietro. Non aveva senso farsi vedere fuori della casa, alla luce del giorno, a maneggiare il bidone della spazzatura di qualcun altro. Il poliziotto in casa dell'architetto, davanti alla casa della McGowan, avrebbe dovuto vederlo di fronte. Sapeva che il predatore poteva guidare una Thunderbird di colore scuro. Ma quando il predatore passò, era al pianterreno, con la testa nel frigorifero, incerto fra uno yogurt e una banana per accompagnare la Diet Coke senza caffeina. Non aveva fretta di tornare in soffitta. La soffitta era noiosa. In tutto, rimase lontano dalla finestra una ventina di minuti, anche se a lui sembrarono solo quattro o cinque. Quando tornò, aprì il vasetto di yogurt e guardò dalla finestra. Un ragazzo lungo la strada stava lavando la macchina del padre. Un cane lo guardava lavorare. Nient'altro. Il predatore
era venuto e se n'era andato. E diceva fra sé: "Domani sera." 21 Quando Lucas arrivò, Carla era seduta in cortile, avvolta in un vecchio cardigan di lana con un album da disegno sulle ginocchia. Lui scese dall'auto, si avvicinò calpestando le foglie secche, respirando a pieni polmoni l'aria cristallina dei boschi del nord. «Che splendida giornata» osservò. Si lasciò cadere vicino a lei e guardò l'album. Lei stava disegnando le foglie cadute con un carboncino color seppia su carta azzurrina. «E che bello.» «Penso... non sono sicura, ma penso che da questi disegni ricaverò i tessuti più belli che abbia mai fatto» disse Carla. Si accigliò. «Uno dei problemi con le forme è che le migliori sono simboliche, mentre l'arte migliore non lo è.» «Giusto» disse Lucas. Si distese sulle foglie e alzò lo sguardo al cielo azzurro limpidissimo. Un vento leggero che soffiava da sud increspava la superficie del lago. «Sembrano sciocchezze, non è vero?» domandò lei, sorridendo, con leggere increspature all'angolo degli occhi. «Sembrano discorsi seri» replicò lui. Voltò la testa e vide un gruppetto di pianticelle verdi che spuntavano tra le foglie morte. Si protese per staccare alcune delle foglie verdi e lucenti. «Chiudi gli occhi» le disse, tendendo la mano verso di lei e schiacciando le foglie fra i polpastrelli. Lei chiuse gli occhi e lui le tenne sotto il naso le foglie schiacciate. «Ora annusa.» Lei annusò, sorrise e aprì gli occhi. «Che profumo dolce» disse entusiasta. «Gaultheria?» «Sì. Cresce dappertutto.» Lei gli prese di mano le foglie schiacciate e annusò di nuovo. «Dio, che profumo di aria aperta.» «Sei ancora decisa a tornare?» «Sì» rispose lei, con una nota di rammarico evidente nella voce. «Devo lavorare. Ho un centinaio di disegni e devo cominciare a farne qualcosa. E poi, ho telefonato alla galleria di Minneapolis e ho venduto un paio di buoni pezzi. Ci sono dei soldi che mi aspettano.» «Potresti quasi cominciare a guadagnarti da vivere con questo» disse Lucas con malizia.
«Quasi. Mi dicono che uno di Chicago, un gallerista, ha visto alcune delle mie opere. Vuole parlarmi di un accordo. Quindi devo darmi da fare.» «Puoi sempre tornare. In qualsiasi momento.» Carla smise di disegnare per un attimo e gli batté sulla gamba. «Grazie. Mi piacerebbe tornare in primavera, forse. Non hai idea di quanto mi abbia fatto bene questo mese. Dio, ho tanto lavoro da fare che non riesco nemmeno a pensarci. Ne avevo bisogno.» «Torniamo martedì sera?» «Va bene.» Lucas si alzò e si diresse al pontile, guardò la barca. Era uno scafo in fibra di vetro lungo quattro metri e mezzo con un fuoribordo Johnson da 25 cavalli fissato a poppa. Una barca piccola, tutta aperta, ideale per la pesca. C'era una linea viscosa intorno alla chiglia. La barca non era stata usata abbastanza durante l'autunno. Risalì sulla riva. «Voglio portar fuori la barca prima che ce ne andiamo» disse. «Non è stata usata molto. Il predatore ci ha rovinato l'autunno.» «E io ero troppo occupata a passeggiare nei boschi per uscire in barca» disse Carla semplicemente. «Vuoi venire a pescare? Adesso?» «Certo. Dammi dieci minuti per finire questo.» Lei alzò la testa per guardare il lago. «Dio, che giornata.» Nel pomeriggio, dopo pranzo, tornarono nei boschi. Carla portava la pistola alla cintura. Alla base della collina, sparando nel banco di sabbia da venti metri, riuscì a piazzare 18 colpi consecutivi in una zona grande quanto la mano di un uomo robusto. Erano centri nella sagoma che aveva disegnato sulla sabbia. Quando sparò l'ultimo colpo, si portò alle labbra la canna della pistola e con aria noncurante soffiò sul fumo inesistente. «Discreto» disse Lucas. «Discreto? Io credevo che fosse magnifico.» «No. Soltanto discreto» ripeté Lucas. «Se mai dovessi usarla, dovrai prendere le decisioni in un secondo o poco più, forse al buio, forse con l'aggressore che ti attacca. Sarà diverso.» «Cristo, allora a che serve?» «Aspetta un momento» si affrettò a dire Lucas. «Non intendo scoraggiarti. È un risultato davvero buono. Ma non montarti la testa.» «Come dicevo io, magnifico.» Gli rivolse un largo sorriso. «Che ne pensi della fondina? Carina, no?» Aveva ricamato una rosa sulla linguetta di
nylon nero. Molto più tardi, quella notte, lei soffiò nell'ombelico di Lucas, alzò la testa e disse: «Questa potrebbe essere la più bella vacanza che abbia mai fatto. Compresi i prossimi due giorni. Voglio farti una domanda, ma non vorrei sciupare tutto.» «Impossibile. Non riesco a immaginare domande che possano sciuparlo.» «Bene. Prima abbiamo un preambolo.» «Adoro i preamboli; spero che tu finisca con un poscritto. Anche un indice ci starebbe bene, o magari...» «Sta' zitto. Ascolta. Oltre a fare una vacanza, ho realizzato una quantità enorme di lavoro, quassù. Penso di avere sfondato. Penso che diventerò un'artista come non sono mai stata prima d'ora. Ma ho conosciuto altri uomini come te... c'è un pittore di Saint Paul che ti somiglia terribilmente, sotto certi aspetti... e tu passerai ad altre donne. Lo so, sta bene così. Il punto è, quando succederà, potremo restare amici? Potrò ancora venire quassù?» Lucas rise. «Non c'è niente come un po' di onestà per distruggere un'erezione incipiente.» «Possiamo farla tornare» ribatté lei. «Ma voglio sapere...» «Stammi a sentire, non so che cosa succederà fra noi. Ho avuto... un certo numero di relazioni nel corso degli anni, e molte donne sono ancora mie amiche. Un paio di loro vengono quassù, in effetti. Non così, per un mese di seguito, ma per il weekend. A volte andiamo a letto insieme. A volte no, se la relazione è cambiata. Veniamo semplicemente qui a oziare. Quindi...» «Bene» disse lei. «Non resterò distrutta quando romperemo. Anzi, sarò tanto occupata che non so se potrei tenere in piedi una relazione. Ma mi piacerebbe tornare.» «Certo che lo farai. Ecco perché i miei amici dicono che è un deposito di fighe... Ahi, ahi, piantala, maledizione...» «Hai un minuto?» Sloan era appoggiato allo stipite della porta. Stava succhiando una sigaretta di plastica. «Certo.» Lucas era tornato a Minneapolis tanto rilassato che gli sembrava di non avere più la spina dorsale. Alla centrale di polizia la sensazione era durata non più di 15 minuti, mentre parlava con Anderson e aggiornava il taccuì-
no. Era sceso nel suo ufficio, mentre l'atmosfera dei boschi settentrionali svaniva del tutto. Appena aveva infilato la chiave nella serratura, Sloan era apparso nel corridoio, lo aveva visto ed era entrato. «Ricordi che ti ho parlato di un esperto di arte orientale?» chiese Sloan sedendosi sull'unica sedia libera di Lucas. «Sì. C'è qualcosa?» «Qualcosa. Non so cosa. Mi domando se potresti scambiare quattro chiacchiere con lui.» «Se può servire.» «Penso di sì» rispose Sloan. «Io sono abbastanza abile a usare le buone maniere. Questo tizio ha bisogno di un trattamento più energico... al più presto.» Quando entrarono, Alan Nester era curvo su un minuscolo piattino di porcellana, con le spalle rivolte alla porta. Lucas si guardò attorno. Il pavimento a parquet era ricoperto da un tappeto orientale. Pochissimi oggetti in porcellana, ceramica e giada erano in mostra nelle vetrinette di quercia chiara. La scarsità stessa di oggetti esibiti sottintendeva un magazzino situato altrove. Nester girò su se stesso al suono del campanello della porta e il suo viso magro e pallido fu increspato da un'espressione accigliata. «Sergente Sloan» disse contrariato. «Le ho detto molto chiaramente che non ho niente da dichiarare.» «Ho pensato che avrebbe fatto meglio a parlare col tenente Davenport» ribatté Sloan. «Ho pensato che forse lui potrebbe spiegarle le cose in modo più chiaro.» «Lei sa che stiamo indagando, e il sergente Sloan ha la sensazione che nasconda qualcosa» disse Lucas. Prese un delicato vaso di porcellana cinese e lo guardò socchiudendo gli occhi. «Questo non possiamo proprio permetterlo... Ah, mi scusi, non intendevo usare un tono tanto severo. Ma il fatto è che abbiamo bisogno di ogni parola che possiamo ottenere. Tutto. Se lei nasconde qualcosa, deve avere una certa importanza, altrimenti non la terrebbe per sé. Vede da quale considerazione partiamo?» «Ma io non nascondo niente» esclamò Nester esasperato. Si alzò in piedi, un uomo alto ma sottile come un airone azzurro, e attraversò il tappeto per togliere il vaso di mano a Lucas. «La prego di non toccare niente di quello che vede. Questo è materiale delicato.» «Sì?» disse Lucas. Mentre Nester rimetteva a posto il vaso, lui prese in mano una piccola ciotola di ceramica.
«Vogliamo sapere soltanto» insistette «tutto quello che è successo in casa Rice. E poi ce ne andremo. Non ha di che preoccuparsi.» Nester socchiuse gli occhi mentre osservava Lucas tenere la piccola coppa per il bordo. «Mi scusi un secondo.» Si avvicinò a una vetrinetta in fondo alla sala, sollevò il ricevitore del telefono e compose un numero. «Sì, qui Alan Nester. Mi faccia parlare con Paul, per favore. Presto.» Guardò Lucas dalla parte opposta della stanza mentre aspettava. «Paul? Sono Alan. Sono tornati i poliziotti, e uno di loro tiene per il bordo una ciotola della dinastia S'ung che vale 17 mila dollari, minacciando ovviamente di lasciarla cadere. Non ho niente da dirgli, ma non vogliono credermi. Potresti venire qui?... Oh? Così andrebbe bene. Tu hai il numero.» Nester posò il ricevitore. «Era il mio avvocato» spiegò. «Se aspettate un momento, potrete ricevere una telefonata o dal vostro capo o dal vice sindaco.» «Umf» borbottò Lucas. Sorrise, scoprendo gli incisivi. «Pare che non siamo proprio i benvenuti, vero?» Posò con cautela la ciotola sullo scaffale e si rivolse a Sloan. «Andiamo» disse. Fuori, Sloan lo guardò in tralice. «Non è stato granché.» «Torneremo» disse Lucas soddisfatto. «Hai perfettamente ragione. Quel faccia di merda nasconde qualcosa. È una buona notizia. Qualcuno ha qualcosa da nascondere nel caso del predatore, e noi lo sappiamo.» Chiamarono Mary Rice da un telefono pubblico. Accettò di parlare con loro. Sloan lo guidò fino alla casa e bussò. «Signora Rice?» «Siete i poliziotti.» «Sì. Come si sente?» Il viso di Mary Rice era invecchiato, con la pelle di un giallo cupo e brunito, tesa e dura come un'arancia lasciata troppo in frigorifero. «Avanti, non lasciate entrare il freddo» disse. Non era esattamente un gemito. La casa era calda in un modo insopportabile, ma Mary Rice era avviluppata in un pesante cardigan di orlon e portava pantaloni di lana. Aveva il naso rosso e gonfio. «Abbiamo parlato con l'uomo che ha comprato le statuine d'avorio da suo marito» disse Sloan mentre si accomodavano intorno al tavolo di cucina. «E ci stiamo facendo delle domande sul suo conto. Suo...» «Pensate che sia l'assassino?» chiese lei, sgranando gli occhi.
«No, no, stiamo solo cercando di inquadrarlo meglio» rispose Sloan. «Suo marito ha detto qualcosa su di lui che le è sembrata insolita o interessante?» Lei corrugò la fronte concentrandosi. «No... no, solo che aveva comprato quelle statuine e aveva chiesto se Larry aveva altri oggetti. Sapete, vecchie spade e roba simile. Larry non ne aveva.» «Hanno parlato di qualcos'altro?» «No, non so... Larry ha detto che quell'uomo aveva un po' fretta e non voleva caffè né altro. Gli ha dato soltanto i soldi e se n'è andato.» Sloan guardò Lucas. Lui rifletté un minuto e chiese: «Che aspetto avevano queste statuine?» «Ne ho ancora una» si offrì lei. «È l'ultima. Larry me l'ha data come regalo di matrimonio. Potreste guardare quella.» «Se è possibile.» Mary Rice si allontanò trotterellando verso il retro della casa. Tornò qualche minuto dopo e tese la mano verso Lucas. Racchiuso nel palmo c'era un minuscolo topolino d'avorio. Lucas lo prese, lo guardò e trattenne il fiato. «Okay» disse un minuto dopo. «Possiamo prenderlo in prestito, signora Rice? Le firmeremo una ricevuta.» «Sicuro. Ma non ho bisogno di ricevute. Siete poliziotti.» «D'accordo. Ve lo riporteremo.» Fuori, Sloan domandò: «Che c'è?» «Penso che abbiamo in pugno il nostro Alan Nester, ma credo anche di sapere su cosa mente. E non è il predatore» rispose Lucas in tono tetro. «Tutto quello che so di arte si può scrivere sul retro di un francobollo, ma guarda quest'oggetto. Nester ha pagato cinquecento dollari per 15 di queste statuine. Io scommetto che questa vale cinquecento dollari da sola. Non ho mai visto niente di simile. Guarda l'espressione del topo. Se questo non è un lavoro da cinquecento dollari, ti bacio il culo sul prato del tribunale.» Stavano scrutando tutti e due il palmo di Lucas. Il topolino era delizioso, le minuscole zampette stringevano un filo di paglia, cosicché un foro correva fra le zampe per tutta la lunghezza. «Dovevano usarlo per qualcosa, come bottone o roba del genere» osservò Lucas. Sloan alzò la testa e Lucas si voltò per seguire il suo sguardo. In strada c'era un'autopattuglia, quasi ferma, con i due agenti che li fissavano dal finestrino del posto di guida. «Pensano che stiamo trattando una partita di droga» disse ridendo Sloan.
Estrasse il distintivo e si avviò verso la macchina. Gli agenti abbassarono il finestrino e Lucas gridò: «Volete vedere un topo sensazionale?» L'Istituto d'Arte era chiuso quando uscirono da casa Rice, e Lucas si portò il topolino a casa per la notte. Restò posato su una pila di libri nel suo studio, a fissarlo mentre lui finiva l'ultima tavola dei punteggi per il gioco di Everwhen. «Cazzo, mi piacerebbe tenerti» disse Lucas poco prima di andare a letto. La mattina dopo si alzò presto e per prima cosa andò a guardarlo. Aveva l'impressione che si fosse mosso durante la notte. Ci volle parecchio per scoprire qualcosa sul suo conto. Lucas passò a prendere Sloan a casa. La moglie di Sloan lo accompagnò fuori e disse: «Ho sentito tanto parlare di lei che mi pare quasi di conoscerla.» «Sempre bene, spero.» Lei rise, e Lucas si disse che gli piaceva. Lei aggiunse: «Abbia cura di Sloan» e rientrò in casa. «Perfino mia moglie mi chiama Sloan» disse lui mentre si allontanavano. Un curatore dell'Istituto d'Arte diede un'occhiata attenta al topolino, fischiò e disse: «Questo è di quelli buoni. Fatemi prendere i libri.» «Come fa a sapere che è buono?» chiese Lucas tallonandolo. «Perché dà l'impressione che potrebbe andarsene in giro di notte» ribatté il curatore. La ricerca richiese tempo. Sloan si aggirava nella galleria fotografica quando Lucas tornò. «Allora?» disse, alzando la testa. «Ottomila» rispose Lucas. «Per cosa? Per il topo o per tutti e 15?» «Per il topo. Ed è una stima bassa. Ha detto che all'asta potrebbe valere il doppio. Quindi, se vale ottomila e se gli altri sono altrettanto buoni, Nester ha pagato a un uomo morente di cancro cinquecento dollari per dei netsuke che valgono fra i 120 e i 250 mila dollari.» Pronunciava "net-ski". «Porca puttana.» Sloan era quasi indifferente. Le cifre erano troppo alte. «È così che si chiamano? Net-ski?» «Penso di sì. Era quello che diceva il curatore.» «Non lo sapevo.» «Scommetto che Alan Nester invece sì.»
Si fermarono a casa Rice. «Ottomila dollari?» esclamò lei sbalordita. Una lacrima le scivolò su una guancia. «Ma ne ha comprati 15...» «Signora Rice, immagino che quando suo marito invitò il signor Nester a venire qui, tutto ciò che voleva era una valutazione in modo da poterli vendere in seguito, non è così che le disse?» chiese Lucas. «Be', veramente non ricordo...» «Io ricordo che me lo ha detto nel primo interrogatorio» insistette Sloan. «Be', può darsi» disse lei incerta. «Perché se lo ha fatto, lui l'ha imbrogliata» disse con insistenza Lucas. «Ha commesso una frode, e lei potrebbe recuperarli.» «Be', è per quello che era venuto, per stimarli» disse Mary Rice, annuendo con vigore, la memoria improvvisamente più limpida. Prese in mano il topolino, tenendolo delicatamente. «Ottomila dollari.» «E adesso? Ci procuriamo un mandato?» chiese Sloan. Erano di nuovo sul marciapiede di fronte a casa Rice. «Non ancora» disse Lucas. «Non so se abbiamo abbastanza. Colpiamo prima Nester. Gli diciamo quello che abbiamo scoperto, gli chiediamo di collaborare sulla faccenda della pistola. Gli diciamo che, se collabora, lasceremo che diventi una causa civile fra il suo avvocato e l'avvocato della Rice. Se non accetta, chiediamo un mandato, lo arrestiamo e lo facciamo finire sui giornali. Come ha defraudato un uomo che stava morendo di cancro e voleva lasciare qualcosa alla moglie.» «Oh, che cattivo.» Sloan sorrise. «Mi piace.» «Dov'è Nester?» L'uomo dietro il banco era piccolo, bruno e molto più giovane di Nester. «Non c'è» rispose. C'era un certo gelo nell'aria: Lucas e Sloan non avevano l'aria di clienti. «Posso chiedere chi vuole saperlo?» «Polizia. Abbiamo bisogno di parlargli.» «Temo che sia impossibile» disse il giovanotto, inarcando le sopracciglia. «È partito per Chicago a mezzogiorno. Sarà già lì e non ho idea di quanto si tratterrà.» «Merda» esclamò Sloan. «Quando deve tornare?» chiese Lucas. «Martedì mattina. Dovrebbe essere qui a mezzogiorno.» «Avete dei netsuke?» chiese Sloan.
Le sopracciglia del giovanotto s'inarcarono di nuovo. «Credo di sì, ma dovreste chiedere ad Alan. Gli oggetti più costosi li tratta tutti lui.» 22 Lucas si tolse il soprabito e lo lanciò sul materasso. I due agenti incaricati della sorveglianza, uno alto, l'altro basso, erano seduti su sedie pieghevoli, uno di fronte all'altro, con una terza sedia in mezzo. Stavano giocando a gin, con le carte disposte sul sedile della sedia al centro. Uno degli agenti guardava la finestra mentre l'altro studiava le carte. Erano bravi. Il loro turno copriva le prime ore della serata. «Niente?» chiese Lucas. «Niente» rispose il poliziotto alto. «E dalle auto?» «Niente di niente.» «Chi c'è a bordo?» «Davey Johnson e York, su a nord, dietro la casa della McGowan. Sally Johnson e Sickles, a est. Blaney è sul lato ovest insieme con una recluta, Cochrane. Non lo conosco.» «Cochrane è quel ragazzo alto, biondo, gioca a pallacanestro nella lega» intervenne il poliziotto basso. Dispose le carte a ventaglio, le posò sul sedile della sedia in mezzo a loro e disse: «Gin.» Una radio appoggiata a una parete trasmetteva vecchi successi rock. Vicino c'era una radiotrasmittente della polizia, muta. «Il tempo è quasi scaduto» disse Lucas, aguzzando lo sguardo verso la strada. «Questa settimana» convenne l'agente basso. «Il che è strano, a pensarci bene.» «Che cosa è strano?» «Be', uno dei biglietti che ha lasciato diceva qualcosa come: "Non stabilire uno schema fisso". E lui che fa? Ammazza qualcuno ogni due settimane. Se non è uno schema questo...» «Uccide quando ne sente il bisogno» disse Lucas. «L'esigenza si accumula, e alla fine non riesce a resistere.» «Ci mette due settimane ad accumularsi?» «A quanto pare.» La radio della polizia emise un rutto e tutti e tre si voltarono a guardarla. «Auto» disse. E un attimo dopo: «Qui Cochrane. È una Pontiac Bonneville
rossa.» Il poliziotto alto si allungò all'indietro, prese un microfono e rispose: «Tienila d'occhio. È della misura giusta, anche se il colore è sbagliato.» «Viene dalla vostra parte» disse Cochrane. «Abbiamo la targa, la controlleremo.» Lucas e l'agente di sorveglianza osservarono la macchina passare lungo la strada e accostarsi al marciapiede due case più avanti. Rimase ferma con i fari accesi un minuto, due, e Lucas disse: «Io scendo.» Era sulle scale quando l'agente alto lo richiamò: «Ferma.» «Che c'è?» «È la ragazza.» «Una studentessa delle superiori che abita più avanti» spiegò il poliziotto basso. «Ora sta entrando in casa. Doveva essere un appuntamento.» Lucas rientrò in tempo per vederla entrare in casa dal portico. La macchina si allontanò. «Potrebbe esserci qualcosa ai telefoni» osservò poco dopo il poliziotto basso. Il posto di ascolto del telefono era nell'altra postazione, sul retro della casa di Annie McGowan. «Quali? Vuoi dire quelli della McGowan?» chiese Lucas. «La settimana scorsa e per tutto il weekend ci sono state parecchie chiamate. Ce n'era un gruppo intero, a intervalli di mezz'ora, più o meno. Ma chiunque sia, non lascia un messaggio alla segreteria telefonica. La macchina risponde e loro attaccano.» «Lo fanno tutti... attaccare alla segreteria telefonica» disse Lucas. «Sì, ma questo è un po' diverso. È la prima volta che succede, tanto per dirne una, che riceva una serie di telefonate. E poi il numero non compare sull'elenco. Se fosse un amico, penso che lascerebbe un messaggio invece di richiamare.» «È come se qualcuno la controllasse» disse il poliziotto alto. «Non è possibile rintracciarle?» «Sono due squilli e uno scatto, poi attacca.» «Forse dovremmo cambiare la segreteria» disse Lucas. «Forse. Quando deve tornare a casa, fra un'ora e mezza?» «All'incirca.» «Potremmo farlo allora. Fissarla a cinque squilli.» Lucas tornò al materasso e i due agenti ricominciarono a giocare a gin. «Quanto ti devo?» chiese il poliziotto alto.
«Centocinquantamila» rispose quello basso. «Una sola partita, pari o raddoppio?» Lucas sorrise, chiuse gli occhi e tentò di pensare ad Alan Nester. Lì sotto c'era qualcosa. Probabilmente la paura che l'acquisto dei netsuke fosse scoperto e messo in discussione. L'acquisto sconfinava nella frode. Quello era quasi certo. Dannazione. Che altro c'era? Mezz'ora dopo, la radio della polizia emise un altro suono. «Parla Davey» disse una voce, con una nota di eccitazione. «Amici, comincia lo spettacolo.» Lucas si alzò di scatto e il poliziotto alto si sporse all'indietro per afferrare il microfono. «Che cosa avete, Davey?» «Maschio bianco con pantaloni scuri, giacca scura, guanti scuri, berretto, scarpe scure, a piedi» rispose Davey Johnson. Era di pattuglia per le strade da anni. Non si eccitava senza motivo, e aveva la voce arrochita dall'ansia. «Si dirige dalla vostra parte, camminando lungo la strada proprio verso di voi. Se va verso la casa della McGowan, fra un minuto sarà visibile sul fianco della casa nel lotto posteriore. Questo ha in mente qualcosa, amico, non è uscito a fare quattro passi.» «York è con te?» «È andato a piedi, dietro questo tizio, senza farsi vedere. Io resto con l'unità. Porca troia, sta proseguendo diritto, attraversa la strada, voi della aerea, cominciate a muovervi, dannazione...» «Lo vediamo dalle finestre laterali della casa» disse un'altra voce. «Questo è Kennedy, dall'altra postazione» spiegò il poliziotto alto a Lucas. Lucas si voltò e si diresse verso le scale. «Io vado.» «Sta entrando nel vicolo» sentì annunciare da Kennedy, mentre scendeva di corsa i primi due gradini. «È nel cortile. Muovetevi, voi altri...» Lucas scese di corsa le tre rampe di scale fino alla porta principale e passando sfiorò il canuto architetto che era fermo nell'ingresso con il giornale e la pipa in mano e corse fuori nel cortile. Il predatore aveva parcheggiato a cinque isolati di distanza dalla casa della McGowan, di fronte all'interstatale. Aveva controllato i segnali stradali. Il parcheggio era autorizzato. C'erano molte macchine sullo stesso lato della strada. Il tempo era peggiorato nelle prime ore della mattinata. Nel pomeriggio
era caduta per un po' una pioggia fredda, poi era cessata, era ripresa, era cessata. Ora sembrava quasi neve. Il predatore non aveva chiuso a chiave lo sportello della macchina. Non si correvano troppi rischi, in quella zona. Il marciapiede era ancora umido, e lui camminava svelto, facendo oscillare un braccio, mentre l'altro stringeva contro il fianco un piede di porco corto e robusto. Proprio l'ideale per una porta di servizio. Un isolato, un altro, tre, quattro, fino all'isolato della McGowan. Una macchina si era avviata nelle vicinanze e il predatore aveva voltato la testa in quella direzione, aveva rallentato. Nient'altro. Aveva lanciato una rapida occhiata in giro, una volta sola, sapendo che un atteggiamento furtivo attira di per sé l'attenzione. L'inguine aveva cominciato a formicolargli di eccitazione, nel pregustare l'ingresso in casa. Quello sarebbe stato il suo capolavoro. Avrebbe fatto parlare tutta la città. Lo avrebbe reso più famoso di Sam, più famoso di Manson. Forse di Manson no, pensò. Imboccò il vicolo. Un altro motore. Due macchine? Percorse il vicolo, raggiunse il cortile della McGowan, si guardò di nuovo attorno, fece cinque o sei passi nel cortile. Le gomme di un'auto fischiarono per la decelerazione violenta a un isolato da lì, all'altro capo del vicolo. Poliziotti. In quell'istante, quando le ruote stridettero contro l'asfalto, capì di essere stato incastrato. Lo sapeva. Poliziotti. Tornò indietro di corsa da dove era venuto. Un'altra macchina, lungo l'isolato. Un tremendo fragore alle sue spalle; una delle auto aveva urtato qualcosa. Altri poliziotti. Una porta sbatté. Sul marciapiede opposto. Un'altra, dietro la casa della McGowan. Uscì dal vicolo, con il piede di porco che gli scivolava dalla giacca e cadeva sull'erba, e corse attraverso il prato a una casa di distanza da quella della McGowan, s'impigliò in una ragnatela, correndo nella notte, urtò un cespuglio di lillà, cadde, mentre la gente gridava: «Fermati fermati fermati...» Il predatore fuggì. Al volante c'era Cochrane, il novellino, e le gomme fischiarono mentre rallentava e sterzava a sinistra nel vicolo, uno stridio involontario, e il collega sbottò: «Cristo!» e, svelto come un ratto in fuga, videro il predatore correre nel vicolo davanti a loro. Cochrane lanciò la macchina nel vicolo,
travolse due bidoni della spazzatura vuoti, e lo inseguì. Il predatore correva fra le case quando l'auto all'altra ala irruppe nel vicolo venendo verso di loro e Cochrane rischiò di investirla. Gli sportelli dell'altra auto si aprirono di scatto e i due agenti a bordo saltarono fuori e si lanciarono all'inseguimento del predatore. Il compagno di Cochrane, Blaney, gridò «Fa' il giro, fa' il giro fino alla strada» e Cochrane aggirò l'altra autopattuglia puntando verso la strada in fondo al vicolo. Sally Johnson balzò giù dalla macchina e vide Lucas arrivare dal marciapiede opposto, correndo in maniche di camicia, e si volse per correre dietro al suo collega, Sickles, in mezzo alle case, mentre l'auto di Cochrane aggirava la sua e sbucava sulla strada. Il predatore aveva quasi attraversato la strada seguente, e Sally Johnson si staccò la radio dalla cintura e tentò di trasmettere, ma non riuscì a trovare le parole mentre correva a cinque metri da Sickles, che aveva estratto la pistola. Un altro agente, York, arrivò di lato e rimase indietro, con la pistola spianata, e Sally Johnson tentò di estrarla anche lei e vide il predatore scavalcare uno steccato di legno dalla parte opposta della strada e puntare in avanti. Il predatore, reso cieco dalla paura e dall'adrenalina a qualunque cosa non fosse il tunnel di spazio davanti a lui, spazio privo di poliziotti, scattò attraverso la strada, più veloce di quanto avesse mai corso, urtò lo steccato e lo scavalcò in un solo movimento. Non avrebbe mai saputo farlo se ci avesse pensato, uno steccato alto un metro e venti, che gli arrivava al torace, ma lo affrontò come un atleta olimpico e atterrò in un cortile con una piscina vuota, una barchetta avvolta in una tela cerata e un canile. Il canile aveva due scompartimenti separati con i tappetini all'ingresso, e dentro ciascuno scompartimento c'era un dobermann pinscher nero e marrone, uno di nome Luglio e l'altro Agosto. Agosto sentì il trambusto, drizzò le orecchie e fece capolino, e proprio in quel momento il predatore volteggiò sopra lo steccato, incespicò, scattò attraverso il giardino e scavalcò lo steccato sul retro. L'uno o l'altro dei due cani avrebbe potuto prenderlo, se avessero avuto la minima idea che stava arrivando. Così stando le cose, Luglio, uscendo con un balzo dal canile, lo azzannò per un attimo alla gamba, la ferì superficialmente e poi l'uomo scomparve. Ma c'erano altri clienti in arrivo. Luglio aveva appena perso l'uomo scomparso oltre il recinto posteriore, che ne arrivò un altro dal da-
vanti. Il predatore non vide nemmeno il dobermann finché non lo attaccò di lato. E fu un bene, perché avrebbe potuto esitare. Lo vide solo quando raggiunse lo steccato, un'ombra nera ai suoi piedi, e sentì il dolore lacerante al polpaccio mentre scavalcava lo steccato sul retro. Carl Werschel e la moglie Lois erano quasi pronti per andare a letto, quando i cani impazzirono nel cortile posteriore. «Che c'è?» chiese Lois. Era una donna nervosa. Aveva sempre paura di essere violentata su una remota superstrada fra le foreste del nord da una banda di motociclisti neri, anche se né lei né nessun altro avevano mai visto una banda di motociclisti neri nelle foreste del nord. Ciò nonostante, la scena le appariva chiara in sogno, i motociclisti chini su di lei, con i corvi che roteavano in alto, mentre compivano il misfatto su quello che sembrava il cofano di una Cadillac del '47. «Sembra...» «Aspetta qui» disse Carl. Era un uomo molto grasso, che si preoccupava delle bande di motociclisti neri e aveva accumulato una quantità di munizioni e tute mimetiche per ogni evenienza. Prese il fucile a pompa Remington calibro 12 da sotto il letto e si precipitò verso la porta di servizio, inserendo una cartuccia nella camera mentre scendeva. Per un brevissimo istante Sickles, che aveva 45 anni, provò un impeto di gioia nello scavalcare lo steccato. Aveva 15 metri e uno steccato di svantaggio nei confronti del predatore ed era in buona forma, e con un po' di fortuna e gli altri che arrivavano ai lati... I cani lo colpirono come un uragano e lui cadde, stringendo la pistola ma perdendo la torcia che teneva nell'altra mano. I cani lo azzannarono alle spalle, alla schiena, impazziti, abbaiando, ringhiando, lacerandogli le mani, la nuca... Sally Johnson superò lo steccato e quasi atterrò sulla mischia convulsa che circondava Sickles, e uno dei cani si rivoltò contro di lei, sbavando, attaccando, e Sally Johnson sparò al cane due volte e poi l'altro stava arrivando e lei si voltò e puntò la pistola, notando che Sickles era carponi sulla sinistra, lasciando abbastanza spazio libero, e premette il grilletto una volta, due...
Carl Werschel uscì di corsa dalla porta di servizio con il calibro 12 e vide la puttana in jeans e giubbotto nero che sparava ai suoi cani, li abbatteva. Urlò: «Ferma!» ma non intendeva veramente "Ferma!", voleva dire: "Crepa!", e con la gioia atavica del guerriero prussiano sparò un colpo di fucile da dieci metri alla testa della giovane Sally Johnson. L'ultima cosa che Sally Johnson vide fu la lunga canna del fucile che si sollevava, e rimpianse di non essere riuscita a dire qualcosa alla radio per impedire che accadesse... Sickles aveva sentito i cani lasciarlo, e aveva cominciato a rotolare su se stesso, quando il lungo dito di fuoco si protese per abbattere la collega che lo aveva appena salvato dai cani. Quello almeno lo sapeva, che era stato salvato. Il dito di fuoco lampeggiò ancora e Sally cadde. Sickles aveva abbastanza esperienza da pensare: "Fucile", e la cantilena proverbiale dei poliziotti mormorava in fondo al suo subcosciente mentre rotolava semiaccecato dal sangue: "Due in pancia, uno in testa, abbattono un uomo e lo fanno secco". Sparò tre volte, col primo colpo perforando il ventre di Werschel, spappolando il fegato, facendolo cadere all'indietro, col secondo spaccandogli il cuore. Werschel era già morto quando toccò terra, anche se la sua mente continuò a vivere ancora qualche secondo. Il terzo colpo di Sickles perforò la parete della casa, passando in sala da pranzo, attraversando una vetrinetta di porcellane e una pila di piatti esposti all'interno, penetrando nella parete opposta e, per quanto poterono accertare i poliziotti che condussero in seguito le indagini, perdendosi nel vuoto. Quando Werschel aprì il fuoco con il fucile, il predatore aveva attraversato la strada ed era caduto in una trincea scavata per riparare una fognatura guasta. Era piena di argilla gialla e umida. Lui uscì dalla parte opposta, ridotto a un ammasso di fango, senza riuscire a capire come mai non lo avevano ancora preso. E lo avrebbero preso, non fosse stato che l'auto a nord, con Davey Johnson a bordo, aveva fatto una conversione sull'isolato quando il colpo di fucile aveva illuminato la zona. Johnson lasciò l'autopattuglia e si lanciò nella mischia. Il suo collega York, a piedi, era stato colto di sorpresa quando il predatore aveva cambiato direzione, non lo aveva visto e aveva finito per seguire Sickles e Sally Johnson, precedendo di poco Lucas, che aveva tagliato attraverso il cortile della McGowan.
Cochrane e Blaney erano usciti dal vicolo con l'intenzione di svoltare a nord, nella direzione in cui correva il predatore, quando era scoppiata la sparatoria. Il fuoco richiedeva la priorità assoluta. Erano convinti che Sickles e Sally Johnson avessero inchiodato il predatore, lo avessero trovato armato e avessero aperto il fuoco. E quando il cattivo usa un fucile... Come Davey Johnson, avevano abbandonato la macchina e proseguito a piedi. Lucas aveva appena superato lo steccato, con la pistola in pugno, gridando che qualcuno chiamasse le ambulanze e i rinforzi, quando il predatore uscì dal fosso e attraversò di corsa un altro cortile buio, oltrepassò un vicolo, un altro cortile, e proseguì. In quaranta secondi raggiunse la macchina. Ancora un minuto, e stava per raggiungere l'interstatale. Niente fari alle sue spalle. Era successo qualcosa, ma cosa? Nel giardino dei Werschel, Lucas stava infilando la camicia in un foro spalancato nel collo di Sally Johnson, pur sapendo che era inutile, e Sickles cantilenava: «Oh Dio, oh Dio» e Cochrane scavalcò lo steccato con la pistola in pugno e gridò: «Cos'è stato, cos'è stato?» e indicò il morto Werschel urlando: «È lui?» Lois Werschel uscì dalla porta di servizio di casa sua e chiamò: «Carl?» Blaney chiese rinforzi pochi secondi dopo la sparatoria. La registrazione della radio, in seguito rilasciata ai media, indicava che erano passati sei minuti quando Lucas aveva chiamato con la radio di Cochrane per chiedere che tutte le Thunderbird scure ultimo modello di Minneapolis Sud fossero bloccate e gli occupanti controllati. L'operatrice radio della polizia perse per un attimo il sangue freddo quando sentì che un agente era morto, e cominciò a chiedere l'identità e le condizioni e ad avviare ambulanze e rinforzi nella zona. Non ritrasmise la richiesta che tutte le Thunderbird fossero bloccate prima di altri due minuti, presumendo che fosse una priorità inferiore al resto del traffico radio. A quel punto, il predatore stava passando nel centro di Minneapolis. Due minuti dopo aveva raggiunto l'uscita, e meno di un minuto dopo aspettava nel vialetto di casa sua che il congegno automatico sollevasse la porta del garage. I paramedici arrivarono a casa Werschel prima che il predatore arrivasse a casa sua, ma per Sally Johnson e Carl Werschel era troppo tardi. Gli infermieri diedero un'occhiata a Werschel e lo scartarono, ma Sally aveva
ancora un filo di pulsazioni e loro attaccarono con la soluzione salina e tentarono di tamponare la ferita al collo, mentre non c'era niente da fare per la ferita alla testa, e la caricarono sull'ambulanza dove persero il battito, iniettarono uno stimolante e partirono verso il Centro Medico Hennepin, ma lei aveva le pupille fisse e dilatate e loro seguitarono a tentare ma sapevano che era andata... Lucas sapeva che se n'era andata. Quando la portarono fuori, era fermo sul viale davanti alla casa dei Werschel e guardò i lampeggiatori finché scomparvero. Poi tornò nel giardino recintato, dove altri due paramedici stavano assistendo Lois Werschel e Sickles, entrambi in preda a choc. Cari Werschel, simile a una balena arenata, giaceva a pancia in su in un'aiuola di calendule brune, uccise dal gelo. «Chi c'era su quella macchina che ha sgommato?» chiese Lucas a bassa voce. Blaney lanciò un'occhiata a Cochrane e Lucas intercettò l'occhiata, Cochrane aprì la bocca per spiegare e Lucas lo colpì con un pugno sul naso. Cochrane finì a terra e in quel momento la luce li investì e Lucas afferrò Cochrane per la camicia e lo sollevò a mezz'aria e lo colpì di nuovo alla bocca con l'altra mano, e York strinse Lucas con una presa alle spalle e lo allontanò di peso. «Figlio di puttana, hai ucciso Sally, stronzo ignorante» urlò Lucas, e la luce lo accecò e York gridava: «Piantala piantala» e Cochrane si copriva il naso rotto e i denti spezzati con una mano e tentava di sollevarsi da terra con l'altra, il viso rivolto verso Lucas, gli occhi dilatati dal terrore. Per alcuni secondi Lucas lottò per liberarsi da York e alla fine si accasciò, rilassato, York lo lasciò andare e Lucas si voltò e vide la telecamera e le luci oltre lo steccato, puntate sul gruppo nel cortile. Le figure dietro le luci erano irriconoscibili, e si era avviato verso di loro, con l'intenzione di spegnere le luci, quando Annie McGowan emerse dallo sfondo e disse: «Lucas? Lo hai preso?» L'alba filtrava dalle finestre dell'ufficio quando la riunione incominciò. Il viso di Daniel appariva teso, quasi scavato. Non si era rasato, non portava la cravatta. Lucas non lo aveva mai visto in ufficio senza cravatta. I due vice sembravano sbalorditi e si dimenavano nervosi sulle sedie. «...non capisco come mai non abbiamo fermato automaticamente tutte le Thunderbird nel momento in cui è cominciata l'azione» stava dicendo Daniel.
«Avremmo dovuto, ma nessuno sapeva decidere chi doveva fare la chiamata. Quando la situazione è precipitata ed è cominciata la sparatoria e Blaney ha attaccato a tuonare chiedendo rinforzi e poi ambulanze, abbiamo semplicemente perso la bussola» spiegò il supervisore delle squadre di sorveglianza. «Lucas ha trasmesso l'ordine abbastanza presto, sei minuti...» «Sei minuti, Cristo di Dio» proruppe Daniel, appoggiandosi allo schienale a occhi chiusi. Parlava con calma, ma la voce era scossa. «Se una delle squadre di sorveglianza avesse chiamato nel momento in cui sono cominciati i guai, l'appello sarebbe stato ritrasmesso e avremmo avuto delle auto in viaggio prima che Blaney riuscisse a trasmettere. Questo avrebbe evitato il casino combinato dall'operatrice radio. Avremmo avuto otto o nove minuti in più. Se Lucas ha ragione e il predatore aveva parcheggiato vicino all'entrata dell'interstatale, quando abbiamo cominciato a cercare la macchina lui era già in centro a bere un drink.» Ci fu un lungo silenzio. «E per questo Werschel che si fa?» chiese uno dei vice. Daniel aprì un occhio e guardò un assistente procuratore della città che stava seduto in fondo alla stanza, con una cartella portadocumenti fra i piedi. «Non abbiamo ancora trovato una soluzione» disse l'assistente del procuratore. «Ci sarà un'azione legale, ma eravamo chiaramente in diritto di entrare nel giardino inseguendo un omicida. Tecnicamente, i cani avrebbero dovuto essere legati, qualunque fosse l'altezza dello steccato. E quando l'uomo è uscito e ha aperto il fuoco, Sickles era chiaramente in diritto di difendere se stesso e la collega. Ha agito bene.» «Quindi non abbiamo nessun problema» osservò uno dei vice. «Una giuria potrebbe concedere alla moglie un piccolo risarcimento, ma non starei a preoccuparmene» rispose l'assistente del procuratore. «Il nostro problema» intervenne Daniel con voce remota «è che questo assassino è ancora a piede libero, e noi facciamo la figura di un branco di pagliacci che vanno in giro ad ammazzare civili e colleghi. Per non parlare di picchiarsi dopo.» Seguì un altro silenzio. «Rimettiamoci al lavoro» disse infine Daniel. «Lucas? Voglio parlare con lei.» «Che altro ha in testa?» domandò quando furono soli. «Niente. Avevo... un presentimento su Annie McGowan...»
«Cazzate, Lucas, lei l'ha usata come esca e lo sa quanto me e, che Dio mi aiuti, se potessimo tornare indietro le direi faccia pure. Avrebbe dovuto funzionare. Bastardo. Rottinculo.» Daniel calò il pugno sul piano della scrivania. «Lo avevamo sul palmo della mano. Lo avevamo in pugno, quella merda.» «Ho rovinato tutto io» disse Lucas, di malumore. «È scoppiata quella sparatoria e io ho scavalcato lo steccato e ho visto Werschel lì disteso e sapevo che non era il predatore, perché il predatore era tutto vestito di nero. E Sally era a terra e perdeva sangue e c'era Sickles per aiutarla, e gli altri, e io avrei dovuto continuare a inseguirlo. Avrei dovuto scavalcare lo steccato seguendo il predatore e affidare Sally agli altri. L'ho pensato. Ho provato l'impulso di proseguire, ma Sally perdeva sangue e nessuno si muoveva...» «Ha fatto bene» disse Daniel, interrompendo la litania. «Dico, un agente viene ferito proprio sotto i suoi occhi. È semplicemente umano fermarsi.» «Ho rovinato tutto» disse Lucas. «E ora non ho niente a cui aggrapparmi.» «Le unghie» disse Daniel. «Cosa?» «Mi pare di sentire i media che sfoderano le unghie. Ci metteranno in croce.» «Ormai mi riesce difficile badare a queste cose» disse Lucas. «Aspetti un paio di giorni. Vedrà che comincerà a badarci.» Daniel esitò. «Dice che Canale 8 ha ripreso la scena di lei e Cochrane?» «Sì. Accidenti, mi dispiace. È solo una recluta. Ho proprio perso la testa.» «Stando a quel che ho sentito, sarà piuttosto difficile rimangiarsi quello che ha detto. Quasi tutti gli agenti sul posto pensano che avesse ragione lei. E Sally aveva alcuni anni di servizio. Se solo Cochrane l'avesse presa con calma, sarebbe arrivato in fondo a quel vicolo prima che il predatore si accorgesse del suo arrivo. Lo avreste preso in mezzo e nessuno sarebbe mai entrato nel giardino con quei cani merdosi.» «Sapere quanto ci siamo arrivati vicino non migliora la situazione» osservò Lucas. «Vada a dormire un po' e torni qui nel pomeriggio» ordinò Daniel. «A quel punto la faccenda dovrebbe entrare nel vivo. Sapremo che cosa aspettarci dai media. E potremo cominciare a pensare alla prossima mossa da fare.»
«Non posso dirle che cosa fare» replicò Lucas. «Ho la mente in riserva.» 23 Non vennero ad arrestarlo. In fondo in fondo non riusciva a crederci, che non venissero ad arrestarlo. Superò barcollando la porta di comunicazione fra il garage e l'appartamento, fece un passo nel soggiorno, si accorse di lasciare impronte gialle e appiccicose sul tappeto, e si fermò. Rimase immobile per un minuto, ansimando, riorganizzandosi, poi indietreggiò con cautela sul pavimento di piastrelle della cucina e si spogliò. Si tolse tutti gli indumenti, compresa la biancheria, e li lasciò ammucchiati sul pavimento. La gamba gli sanguinava, e sedette sull'orlo della vasca per darle un'occhiata. I morsi non erano profondi, ma erano slabbrati. In altre circostanze, sarebbe andato al pronto soccorso a farsi mettere dei punti. Ora non poteva. Lavò con cura le ferite, con sapone e acqua calda, ignorando il dolore. Quando le ebbe ripulite meglio che poteva, tirò la tenda della doccia intorno alla vasca e si lavò il resto del corpo. Deterse con cura le mani, i capelli, il viso. Dedicò particolare attenzione alle unghie, dove poteva essersi annidata qualche particella d'argilla. A metà della doccia s'interruppe, assalito da conati di vomito. Si appoggiò alla parete, soffocato dall'adrenalina e dalla paura. Ma non poteva lasciarsi andare. Non poteva concedersi quel lusso. E nemmeno il lusso di contemplare la situazione. Doveva agire. Il predatore lottò per dominarsi. Finì di lavarsi, si asciugò con un lenzuolo di spugna ruvida e bendò le ferite alla gamba con garza e nastro adesivo. Poi andò in camera da letto, indossò abiti puliti e tornò in cucina. Tutti gli indumenti che aveva indossato quella notte erano anonimi: jeans Levi's, una comunissima maglia a collo alto, una giacca a vento nera acquistata in un negozio di articoli sportivi. Biancheria di cotone. Un berretto a visiera di tessuto sintetico senza marchi. Scarpe da corsa. Vuotò le tasche della giacca. Il Kotex, i guanti, il nastro, la calza con la patata, la confezione di preservativi, finirono tutti in un mucchio sul pavimento. Mentre correva aveva perso il piede di porco, ma doveva essere pulito; i poliziotti non ne avrebbero ricavato niente. Portò la pila di abiti e scarpe nella lavanderia e li gettò nella lavatrice. Mentre faceva il bucato, prese un piccolo aspirapolvere, andò in garage e
ripulì la macchina. Un po' di argilla era ancora umida e aderiva tenacemente ai tappetini. Lui rientrò in casa, prese una bottiglia di detersivo per piatti e una casseruola, uscì di nuovo e lavò accuratamente ogni zona che mostrasse tracce di argilla. Se i poliziotti avessero mandato l'auto a un laboratorio criminale, forse avrebbero trovato ancora qualche particella della sostanza. Avrebbe dovuto pensarci. E per sicurezza avrebbe passato di nuovo l'aspirapolvere dopo che i tappetini umidi si fossero asciugati. Quando ebbe finito con la macchina, il predatore rientrò in casa e controllò la lavatrice. Il ciclo di lavaggio era finito. Trasferì vestiti e scarpe nell'asciugatrice. Poi trovò la scatola di guanti da chirurgo che usava per gli attacchi e se ne infilò un paio. Da sotto il lavello prese un rotolo di sacchetti di plastica nera per la spazzatura, ne aprì uno, estrasse il sacchetto dall'aspirapolvere e lo gettò dentro. Subito dopo vi gettò l'attrezzatura che aveva tolto dalla giacca, insieme con la scatola di Kotex rimanenti che aveva conservato in un ripostiglio. Nient'altro? Le patate. Ma quello era ridicolo. Tutti tenevano in casa delle patate. D'altra parte, forse esisteva una specie di esame genetico che poteva rivelare che provenivano dallo stesso posto. Le patate finirono nel sacco dei rifiuti. Gli abiti erano ancora nell'asciugatrice, e il predatore tornò in camera da letto e tirò fuori la cartellina di ritagli dei giornali. MANIACO ASSASSINO BRACCA LE DONNE DELLE DUE CITTÀ diceva il primo. Lo sfilò e lo lesse in fretta da cima a fondo, per l'ultima volta, mentre portava la cartellina in bagno. Estraendo i ritagli uno per uno, li strappò in minuscoli frammenti e li gettò nel gabinetto. I vestiti, una volta asciutti, finirono in un altro sacco. Alle undici aveva finito di raccogliere tutta la sua attrezzatura e gli indumenti che aveva portato quella sera. Telefonò a un autonoleggio dell'aeroporto e gli risposero che sarebbe rimasto aperto ancora per un'ora. Prenotò una macchina con la carta di credito Visa, chiamò un taxi, si fece accompagnare all'aeroporto, firmò per ritirare una macchina e la riportò a casa. Sarebbe stato meglio, pensò, non far circolare la sua auto per qualche tempo. C'era stato tanto trambusto laggiù a casa della McGowan, con la sparatoria, che tutto il vicinato doveva essersi svegliato. Se qualcuno aveva notato la sua macchina che si allontanava... E la polizia poteva essere tanto disperata da fermare tutte le Thunderbird che trovava sulla superstrada, annotando i nomi e svolgendo controlli. Tornato nell'appartamento, caricò i sacchi della spazzatura pieni di vesti-
ti e attrezzatura sull'auto presa a nolo. Qualche minuto dopo la mezzanotte s'immetteva sull'interstatale 94, diretto a est, attraversando Saint Paul ed entrando nel Wisconsin. Si fermò in tutte le aree di sosta fra Saint Paul e Eau Claire, liberandosi di vari pezzi del suo equipaggiamento e abbigliamento in altrettanti cassonetti separati. Aveva pagato la giacca a vento 160 dollari e detestava darla via. Ma doveva liberarsene. Poteva avere particelle microscopiche di argilla gialla impigliate nel tessuto in modo inestricabile. Non poteva gettarla in un cassonetto. Era troppo costosa. Qualcuno avrebbe potuto chiedersi perché era stata scartata, e la pubblicità sull'attentato da parte di un predatore vestito di nero sarebbe stata notevole. Alla fine lasciò la giacca appesa a un gancio nella toilette di un posto di ristoro per camionisti aperto tutta la notte, come se fosse stata dimenticata. Con un po' di fortuna, sarebbe finita a Boise, nell'Idaho. Aveva lo stesso problema con le scarpe. Erano Reebok nuove, di un nero opaco alla moda. Gli piacevano. Le gettò separatamente dal finestrino nella cunetta della strada, a più di un chilometro l'una dall'altra. Avrebbe dovuto comprarne un paio nuovo, per sostituire le Nike Air ormai vecchiotte. Era meglio restare fedele alle Air, pensò, nel caso che i poliziotti trovassero delle orme in quel fossato fangoso e le confrontassero con le Reebok. A Eau Claire il predatore si fermò in un motel fuori mano e pagò con la carta Visa. La ricevuta non aveva il timbro con l'ora. Se un giorno la polizia fosse arrivata lì seguendo le sue tracce, il portiere insonnolito non si sarebbe certo ricordato di lui, tanto meno dell'ora in cui era arrivato. E lui aveva una ricevuta a dimostrare che la notte dell'aggressione si trovava a Eau Claire. Chiuso nella stanza, si spogliò, si fece di nuovo la doccia e applicò una nuova medicazione sui morsi del cane. Alle tre del mattino era tutto fatto e lui era a letto, a luci spente, con le coperte rimboccate fin sotto il mento. Tempo di riflettere. Giacque sveglio al buio e ripercorse con la mente l'itinerario dalla macchina fino alla casa della McGowan. Lungo le strade secondarie buie. L'auto che si avviava. Lui dov'era? Il predatore non aveva ancora imboccato il vicolo. Poi la seconda macchina che si metteva in moto. Il predatore sapeva che un giorno o l'altro lo avrebbero catturato. Su quello non si faceva illusioni. Ma aveva immaginato che se fosse stato preso, sarebbe accaduto per una combinazione di circostanze incontrollabili e imprevedibili. Aveva immaginato, nei suoi incubi a occhi aperti, la collut-
tazione con una donna, forse simile alla lotta con Carla Ruiz. E l'intervento di un altro uomo, o forse addirittura di una folla; una folla pronta al linciaggio. Chissà perché, in quelle visioni la folla sembrava dargli la caccia in un grande magazzino, fra rastrelliere di vestiti da donna che volavano di qua e di là e clienti che strillavano e vetrinette che andavano in frantumi. Era ridicolo, ma sembrava reale, le interminabili corsie di vestiti fra le quali fuggiva, con la folla che lo inseguiva a uno o due rastrelliere di distanza e si avvicinava ai lati. Non aveva immaginato di essere manipolato, raggirato, incastrato. Non aveva immaginato di perdere la partita per inferiorità nel gioco. Eppure era quasi successo. In fondo alla mente non riusciva ancora a credere che non fossero venuti ad arrestarlo. Che non sapessero chi era. Riepilogò dentro di sé la distruzione delle prove nel suo appartamento. Concluse che aveva fatto un buon lavoro, ma c'era una traccia rivelatrice di fango in qualche punto? Era possibile che qualcuno avesse visto la targa della macchina? La videocassetta. Dannazione. Si era dimenticato la videocassetta con i notiziari registrati. Ma un momento; non aveva mai saputo quando le trasmissioni avrebbero contenuto servizi sul predatore, e quindi aveva registrato accuratamente interi notiziari. Alcuni non riportavano niente sul predatore... non che fossero stati molti, nelle ultime settimane. Quindi il nastro doveva essere innocuo. Non indicava in modo specifico il predatore, come i ritagli di giornale. Provò una punta di rammarico per la distruzione dei ritagli. Forse avrebbe dovuto conservarli, magari portarli in macchina, e l'indomani a Eau Claire avrebbe potuto prendere in affitto una cassetta di sicurezza. Troppo tardi. E probabilmente era un'idiozia. Una volta finito con le donne, quando avrebbe lasciato le Città Gemelle - e forse era ora - avrebbe potuto procurarsene le copie in biblioteca. Con gli avvenimenti della serata che gli rimbalzavano nella mente come la pallina di una roulette, il predatore tirò un po' più su le coperte, con il polpaccio che ormai gli bruciava come un fuoco, e attese l'alba. 24 Prima di andare a casa, Lucas tornò a casa di Annie McGowan. C'erano una mezza dozzina di autopattuglie, tre auto della polizia municipale e un
furgone della Scientifica davanti a casa Werschel. Altre due autopattuglie erano parcheggiate di fronte alla casa. Un camion di Canale 8 con un'antenna parabolica a microonde era entrato a retromarcia nel cortile, e cinque o sei cavi neri si snodavano come serpenti dal retro del camion, scomparendo all'interno. Un tenente di pattuglia vide Lucas avvicinarsi lungo il marciapiede e scese dalla macchina. «Lucas. Pensavamo che fossi andato a casa» disse il tenente. «Ci sto andando. Come va?» «Stiamo setacciando tutto. Abbiamo ricavato delle impronte di scarpe da quel fosso, pare che ci sia caduto dentro in pieno. Potrebbe essersi fatto male.» «Niente sangue?» «No. Ma abbiamo diramato un appello generale agli ospedali con la descrizione riportata sul bollettino e qualche aggiunta a proposito dell'argilla. Dovrebbero tenere gli occhi aperti nel caso che si presenti.» «Bene. Avete trovato qualcuno che lo abbia visto dopo che è uscito dal fosso? Più a nord?» «Finora nessuno. Busseremo di porta in porta fino a sei o sette isolati di distanza...» «Concentratevi sulla via che porta alla superstrada. Scommetterei che è là che ha parcheggiato.» Il tenente annuì. «Lo abbiamo già fatto. Abbiamo cominciato che era ancora buio, tirando la gente giù dal letto. Niente.» «E le impronte dei piedi? Qualcosa di nitido?» «Sì. Sono buone. Portava...» «Nike Air» intervenne Lucas. «No» lo contraddisse il tenente, aggrottando la fronte. «Erano Reebok. Quando abbiamo chiamato la centrale, abbiamo riferito al tecnico che avevamo delle orme e lui ha portato un manuale di confronto. Stiamo prendendo dei calchi, quindi potranno ricontrollare in laboratorio, ma non ci sono dubbi. Erano Reebok nuove di zecca. Nessun segno di usura sulle suole.» Lucas si grattò la testa. «Reebok?» Annie McGowan era effervescente. Le sette del mattino, e sembrava già sveglia da ore. «Lucas» esclamò appena lo vide dalla porta. «Entra pure.»
«Che spettacolo, stasera, eh?» «Di' piuttosto a mezzogiorno, di pomeriggio e di sera. Proprio ora ci stiamo preparando per una trasmissione a distanza per il Wake Up Show.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Fra 15 minuti.» Un produttore uscì dal soggiorno, vide Lucas e si affrettò ad avvicinarsi. «Tenente, c'è qualche possibilità di ottenere qualche minuto di trasmissione con lei?» «A che proposito?» «Dell'intera rete di sorveglianza. Come ha funzionato, cosa è andato storto.» Lucas scrollò le spalle. «Abbiamo mandato tutto a puttane. Vuole che vada in onda questo?» «Con questo caso, se lei vuole dirlo, penso che potremmo farlo» rispose il produttore. «Userete il nastro della rissa?» Il produttore socchiuse gli occhi. «È una scena d'azione incredibile» rispose. «Se lo farete, non rilascerò commenti» disse Lucas. «Tenetelo da parte e parlerò.» «Questo non glielo posso promettere» disse il produttore. «Ma posso parlare al direttore dei notiziari.» «D'accordo» disse Lucas con voce stanca. «Vi concederò un paio di minuti. Ma voglio sapere quali saranno le domande e non voglio trabocchetti.» «Magnifico.» «E si occuperà di non far trasmettere la registrazione della rissa?» «Sì, certo.» La registrazione richiese quasi un'ora, con una pausa per la trasmissione della McGowan. Quando arrivò a casa, Lucas staccò le spine dei telefoni e cadde sul letto a faccia in giù, senza neanche spogliarsi. Fu svegliato da un rumore martellante, si mise a sedere, guardò l'orologio. Mancava poco all'una del pomeriggio. I colpi cessarono e lui posò i piedi sul pavimento, si massaggiò la nuca e si alzò in piedi. Dalla finestra della camera da letto giungeva un tamburellio imperioso e lui si accigliò e scostò la veneziana. Jennifer Carey, in piedi nel prato.
«Apri la porta» disse infuriata. Lui annuì. Lasciò ricadere la veneziana e andò ad aprire. «Me lo ero immaginato» esclamò lei furiosa. «Non so come mai non l'avevo capito prima, ma appena abbiamo saputo dell'aggressione me lo sono immaginato.» Non si tolse il soprabito e, invece di andare in cucina come faceva di solito, rimase ferma in piedi nell'ingresso. «Immaginato cosa?» chiese Lucas insonnolito. «Hai usato la McGowan come esca. Di proposito. Le passavi quelle informazioni strane per mandare in collera il predatore e attirarlo verso di lei.» «Ah, Cristo, Jennifer.» «Ho ragione, vero?» Lui la liquidò con un cenno e fece per tornare nel soggiorno. «Be', quant'è vero Dio ti ha ripagato con gli interessi» aggiunse Jennifer. Lucas si voltò. «Che cosa vuoi dire?» «Quell'orribile nastro della tua confessione. Sai, dire che è stata tutta colpa tua. E poi la ripresa della rissa, con te che picchiavi quel povero ragazzo.» «Quella non dovevano trasmetterla» disse Lucas con voce spenta. «Avevamo fatto un patto.» «Cosa?» «Io ho concesso l'intervista e il produttore ha detto che avrebbe chiesto al direttore dei notiziari di non usare la registrazione della rissa.» Jennifer scosse la testa. «Dio, Lucas, a volte sei così incredibilmente ingenuo. E tu sapresti tutto sul comportamento dei media, eh? Ma era impensabile che non usassero quel nastro. Amico, quella è azione pura. Una grave sparatoria con due morti, e un tenente di polizia che picchia a sangue un altro poliziotto che l'ha provocata? Quel nastro probabilmente sarà il pezzo forte del telegiornale di stasera.» «Ah, in culo.» Lucas si accasciò sul divano e si passò le dita fra i capelli. Jennifer si raddolcì e gli sfiorò la testa. «Così sono venuta a vedere se potevamo usarti ancora una volta. E intendo proprio dire usarti.» «Cosa?» «Vorremmo un'intervista congiunta con te e Carla Ruiz. Tu che esponi quello che sai dell'assassino, con Ruiz che interviene rievocando l'aggressione. Ellie Carlson condurrà l'intervista, e io la produrrò.» «Perché adesso?»
«Vuoi la verità? Perché se non avremo qualcosa di forte da presentare stasera, Annie McGowan e Canale 8 ci assesteranno un colpo così grave che ne risentiremo per settimane. Lo faranno in ogni caso, ma con un'intervista congiunta potremmo mantenere una fetta rispettabile dell'audience, almeno per uno dei telegiornali. Soprattutto se la promozione sarà ben fatta.» «I sondaggi sono per questa settimana?» «Hai afferrato al volo.» «Dovrò parlarne al capo.» Daniel era tetro, chiuso in se stesso. Indicò a Lucas una sedia e fece un giro sulla poltroncina, guardando fuori dalla finestra del suo ufficio, verso la strada. «Ho visto il nastro dell'intervista con Canale 8. In cui si addossa la colpa. Bel tentativo.» «Ho pensato che potesse servire.» «Figurarsi. Ho concesso a Cochrane due settimane di ferie retribuite, gli ho ordinato di restare alla larga dai media, di farsi sistemare la faccia. Lo ha conciato davvero male.» «Cercherò di trovarlo, di parlargli» disse Lucas. «Non saprei» rispose Daniel. «Forse sarebbe meglio se si tenesse alla larga per un po'.» Lucas si agitò, a disagio. «Questo è un brutto momento per parlarne, ma Jennifer Carey vuole un'intervista congiunta con me e Carla Ruiz. È molto insistente. È per via dei sondaggi di questa settimana. Comunque pensa che se riusciranno a ottenere qualche minuto di registrazione e a fare la giusta promozione, questo potrebbe ridurre l'impatto di Canale 8. Almeno ne ricaveremmo qualcosa di positivo.» «Faccia pure, se crede» rispose Daniel. Sembrava indifferente e continuava a guardare dalla finestra. «I tecnici sul posto hanno trovato qualcosa che possiamo utilizzare?» «Che io sappia, no» rispose Daniel. Rimasero in silenzio per un attimo, poi Daniel sospirò e fece girare la poltroncina su se stessa. «La Omicidi non lo prenderà, se non per un caso fortuito» disse. «Con questa pronta reazione, potremmo spaventarlo per una settimana, o forse due, ma tornerà all'attacco. Oppure forse lascerà la città e comincerà da qualche altra parte. E sa una cosa? Non voglio che lo faccia. Voglio inchiodarlo qui. E dovrà essere lei a farlo. La faccenda McGowan è stata un
disastro, d'accordo, ma continuo a pensare che non sia un disastro totale. E se ci è riuscito una volta, forse può rifarlo. Forse... non so.» «Non ho uno straccio di idea in testa» disse Lucas. «È confuso» riconobbe Daniel. «Ma le passerà. La testa riprenderà a funzionarle.» «Lei sbaglia sul modo in cui risolveremo il caso» ribatté Lucas. «Non accadrà perché io sia in grado di batterlo in astuzia, perché non è così. Quando lo prenderemo, sarà solo per un colpo di fortuna.» «Detesto dipendere dalla fortuna; speravo che potessimo fare conto su qualcosa di più affidabile.» «Non esiste niente di affidabile, almeno a questo mondo» ribatté Lucas. «Il predatore ha avuto un gioco fantastico. La Ruiz avrebbe potuto dirci più di quanto ha fatto... voglio dire, gli ha messo addirittura le mani addosso. Se gli avesse strappato la maschera... Avremmo potuto ricavare una descrizione migliore dall'aggressione alla Brown. Non faccio che pensare: "Se solo Sparks fosse stato sull'altro marciapiede, avrebbe potuto vederlo in piena faccia." Non faccio che pensare: "Se solo la Lewis avesse scritto il nome del cliente sull'agenda. O se avesse scritto una cosa qualsiasi su di lui." Avremmo potuto inchiodarlo a casa della McGowan; quando è fuggito, avremmo dovuto riuscire a bloccare la macchina, se davvero è una Thunderbird. Ha avuto una fortuna incredibile. Ma nel mondo del gioco esiste una sola certezza: la fortuna gira. Quando lo prenderemo, sarà per un colpo di fortuna.» «Lo sa Cristo che tocca a noi» commentò Daniel. Jennifer aveva già parlato a Carla di un'intervista, e quando Lucas chiamò per accettare, gli disse che Carla era pronta. L'avrebbero girata alle tre del pomeriggio e ne avrebbero trasmesso una prima versione condensata alle sei. Una versione più lunga sarebbe stata annunciata per il notiziario delle dieci, che la stazione aveva deciso di ampliare per accogliere l'intervista. Mettiti un vestito, gli aveva detto, e una camicia azzurra. Fatti di nuovo la barba. L'intervista durò un'ora, con Lucas freddo e distante, Carla calda e insistente. Con un buon taglio, sarebbe risultata ottima. Jennifer guardò l'intervistatrice parlare con loro e a metà dell'intervista si rese conto che Lucas e Carla andavano a letto insieme. O ci erano andati. Quando l'intervista fu conclusa, rimase indietro con Lucas, seguendo il
cameraman e il tecnico del suono che trasportavano l'attrezzatura giù al furgone. Sola con lui in ascensore, gli disse: «Credevo che andassi a letto con la McGowan. Vedo che mi sbagliavo. Era Carla Ruiz.» «Ah, Jennifer, oggi non ce la faccio ad affrontare questo discorso» disse Lucas, fissando l'indicatore dei piani dell'ascensore. «Non che me ne importi molto» disse lei tristemente. «Sapevo che sarebbe successo. Speravo solo che non fosse così presto.» «Penso che sia già finita» replicò Lucas depresso. «Una cosa del tipo "dentro, fuori e buonanotte ai suonatori?» Lucas scosse la testa. «Qualche giorno fa mi ha fatto un discorsetto. Le piaccio, ma è pronta a mollarmi appena entro in conflitto con il suo lavoro.» «Oh cielo, non era mai successo finora, vero?» disse Jennifer. Il tono era leggero, quasi sarcastico, ma una lacrima le scivolava sulla guancia. Lucas tese la mano per asciugarla col pollice. «Cristo, non fare così.» «Perché no? Non riesci a tollerare le emozioni autentiche?» Lui fissò il pavimento ai suoi piedi, poi la guardò inclinando la testa. «A volte le persone non si conoscono bene quanto si pensa. Tu mi fai la ramanzina e io dovrei prendere la purga da uomo, giusto? Lo sai come mi sento? Mi sento di andare a casa e cacciarmi in bocca la mia .38 e farmi saltare le cervella. Sono stato sconfitto da un pazzo. Forse mi riprenderò. Forse no. Ma non lo dimenticherò mai, finché vivo.» Le porte dell'ascensore si aprirono e lui uscì senza voltarsi indietro. Elle lo guardò dalla parte opposta del grande tavolo da gioco. L'allibratore e l'avvocato se n'erano andati insieme. I due studenti li avevano seguiti poco dopo. Il droghiere stava ancora fissando la mappa, facendo calcoli. Meade non era uno stupido. Dopo una giornata di combattimenti, in cui il Sud aveva conservato il controllo di gran parte delle alture a sud di Gettysburg, si era ritirato cautamente a sud, verso Washington. Là c'erano delle postazioni pronte in attesa. Ora la palla era nel campo di Lee. Lee - Elle, con la collaborazione di Lucas, nei panni di Longstreet - poteva continuare l'invasione del Nord, che appariva sempre più insostenibile. Oppure poteva attaccare l'esercito di Meade al sud. Quell'esercito avrebbe dovuto essere distrutto in ogni caso. Ma se Lee attaccava Meade, sarebbe stato quel tipo di attacco napoleonico che nella vera Gettysburg era mancato. Una volta ingaggiato un combattimento ravvicinato intorno a Washington, con le montagne a ovest e le acque del Potomac a sud, sarebbe stata questione di
vita o di morte. Il gioco di Lucas poteva porre fine alla Guerra Civile con due anni di anticipo. «Non puoi continuare a pensarci» disse Elle. «Che?» Lucas si teneva in equilibrio sulle gambe posteriori della sedia, fissando il soffitto. «Non puoi seguitare a rimuginare sulla tragedia avvenuta a casa della giornalista. È inutile. E lo avevi quasi preso. Lo avevi attirato in trappola. Se la piantassi di commiserarti, te ne usciresti con qualche idea nuova.» Lucas lasciò ricadere la sedia a terra e si alzò. «Il problema è che non riesco a pensare. Ho la testa paralizzata. Penso che se ne sia andato.» «No. Succederà qualcosa» disse Elle. «Lo sai che esiste un ritmo in questi giochi, no? Un momento in cui sappiamo tutti che sta per succedere qualcosa, anche quando non dovrebbe? Io sento qui lo stesso tipo di ritmo. Il ritmo dice che tutta la faccenda sta per risolversi.» «Il problema è, in che modo?» interloquì il droghiere. «È questo il problema» disse Lucas, facendo schioccare le dita verso il droghiere. «Proprio così. E se il tizio decidesse di risolverlo partendo? Potrebbe ricominciare da capo in qualche altro posto, e noi non lo sapremmo nemmeno. E non abbiamo proprio niente su cui basarci. Non ho un solo bandolo in tutta la matassa. Se vuole andarsene, non ha che da farlo.» «Non lo farà» ribatté Elle con fermezza. «Questa storia si sta avviando alla conclusione. Sento gli ingranaggi in moto.» «Lo spero» disse Lucas. «Non credo di poter sopportare ancora molto.» «Stiamo pregando per te» disse Elle, e Lucas si accorse che anche l'altra suora lo guardava. Lei annuì. «Tutte le sere. Dio risponderà. Devi prenderlo.» 25 Il predatore telefonò da Eau Claire per darsi malato. Rimase a letto a guardare la televisione via cavo dalle Città Gemelle e alla fine lasciò il motel poco prima di mezzogiorno, l'ora in cui bisognava lasciare la stanza. Rientrò nel suo appartamento nel primo pomeriggio, si rinfrescò, andò in macchina allo studio e disse che si sentiva meglio. Tentò di lavorare. Non ci riuscì. Il fiasco in casa della McGowan era la notizia del giorno. Tutto l'ufficio ne parlava. Il predatore non provò alcun piacere in quei discorsi, non sentì
scaturire il potere. Era stato preso in trappola come un topo. Era stato Davenport, lo aveva attirato lui lì. A tal punto Davenport lo capiva bene. Lo aveva braccato. Aveva fallito soltanto per una serie di circostanze tanto bizzarre che non avrebbero mai potuto ripetersi. Il predatore riconosceva di essere stato fortunato. Molto. Era tempo di rimeditare il gioco. Forse doveva fermarsi. Era in vantaggio. Aveva i punti. Ma poteva farlo? Non ne era sicuro. Se non poteva, forse avrebbe dovuto trasferirsi in qualche altro posto. Tornare nel Texas. Andarsene dal freddo. Modificare il gioco. Fu impegnato fin dopo le cinque a liberare la scrivania, sbrigare il lavoro di routine sulle proprietà immobiliari e sulle successioni. Quando uscì, c'era un televisore acceso in uno degli uffici degli associati, un lusso che non era ammesso durante il regolare orario di lavoro. Sullo schermo c'era il viso di Lucas Davenport, con la telecamera fissa sui suoi lineamenti. Aveva ombre scure sotto gli occhi, ma per il resto era molto controllato. L'immagine s'immobilizzò per un attimo e poi le telecamere passarono sulla conduttrice del programma. Lui si avvicinò per ascoltare. «...l'intervista completa con la superstite Carla Ruiz e il tenente Lucas Davenport costituirà stasera un'edizione ampliata del notiziario delle dieci di TV3». Era diviso fra Canale 8 e TV3. Durante il gioco Canale 8 aveva trasmesso tutte le notizie più interessanti, ma l'intervista di TV3 poteva dirgli di più sull'uomo che lo aveva intrappolato. Alla fine, dopo aver consultato le istruzioni del videoregistratore, decise che poteva registrare TV3 mentre guardava Canale 8. Tentò con un telefilm, e funzionò. La McGowan, così bella, presentava il telegiornale della sera, lo dominava. Riferì sulla sorveglianza, mostrò il trasmettitore d'allarme che aveva portato alla cintura. Parlò di come la notte era rimasta sveglia da sola in camera da letto, ascoltando ogni rumore, chiedendosi se fosse il predatore che arrivava. Si era fatta riprendere mentre cucinava una porzione di pollo fritto. Alle pareti erano appese casseruole di rame inutilizzate. Un vecchio orologio a pendolo ticchettava sullo sfondo. Descritta la scena, rievocò l'aggressione, muovendosi nell'oscurità con una telecamera che la seguiva sussultando, e concluse con una rievocazione della sparatoria, in cui interpretò tutte le parti. Poi oltrepassò lo steccato fino a raggiungere il canale di scolo, dove indicò le orme del predatore nell'argilla gialla.
Era un brillante pezzo di teatro, e come tutte le scene brillanti si concluse con un colpo di coda: la lotta sotto la luce intensa, Davenport che distruggeva la recluta, colpendo così in fretta che le mani si vedevano appena. Poi Davenport che si dirigeva verso le telecamere, con uno sguardo omicida, finché la voce della McGowan lo fermava. Brutale. Davenport non era solo un giocatore. Era una belva. Quando la trasmissione ebbe termine, il predatore fissò il televisore per alcuni istanti, poi inserì la cassetta dell'intervista a TV3. Di nuovo Davenport, ma stavolta diverso. Più freddo. Calcolatore. Un cacciatore, non un lottatore. Il predatore riconobbe d'istinto quella qualità, l'aveva vista nei proprietari terrieri intorno al ranch di suo padre, gli uomini che parlavano del mio cervo e della mia antilope. Carla Ruiz lo attirava ancora, con quel viso, quegli occhi scuri. Il rapporto non era essenziale, non era quello che provava con una Prescelta. Lei aveva ormai perso quel privilegio. Ma c'era un residuo innegabile del rapporto precedente, e il predatore lo sentì e vi rifletté. Lo stavano manipolando di nuovo? Era forse un altro trucco di Davenport? Pensava di no. Il predatore non aveva mai avuto una relazione con una donna, ma era acutamente sensibile ai rapporti fra gli altri. A metà dell'intervista si rese conto che Davenport e Carla Ruiz erano legati in qualche modo. Sul piano sessuale? Sì. Più li guardava, più si convinceva di avere ragione. Interessante. 26 «Su, andiamo.» Sloan era appoggiato allo stipite della porta. «Non serve a niente, amico» rispose Lucas. Si sentiva in letargo, bloccato sul piano emotivo. «Lo sappiamo cosa nasconde. È preoccupato per la sua reputazione. Ha truffato i Rice e ha paura che qualcuno lo scopra.» «Come ti senti?» «Cosa?» «Come ti senti, dopo il Fiasco?» Lucas sorrise suo malgrado. Il disastro in casa McGowan era stato etichettato come il Fiasco. Usavano tutti quell'espressione, dal sindaco agli uscieri. Lucas sospettava che lo facessero tutti gli abitanti della città. «Mi sento di merda.» «Allora vieni» insistette Sloan. «Andiamo a dare una scrollata a quel
damerino. Dovrebbe sbloccarti le ghiandole.» Era meglio che restare in ufficio. Lucas balzò in piedi. «D'accordo. Ma guido io. E dopo possiamo andare a mangiare qualcosa di decente.» «Offri tu?» Il commesso andò nel retro a chiamare Nester, che non fu lieto di vederli. «Credevo che aveste capito la mia posizione» disse, dirigendosi verso il telefono. «Queste ormai stanno diventando molestie. Per prima cosa chiamerò il mio avvocato, anziché stare a sentirvi.» «La scelta è sua, Nester» disse Lucas, scoprendo i denti. «Anzi, forse non è una cattiva idea. Stiamo tentando di decidere se arrestarla per frode o lasciare che l'avvocato della signora Rice le intenti una causa civile. Faccia l'ostinato, e noi le metteremo le manette e la trascineremo in centrale per formalizzare subito l'arresto.» Il commesso spostava la testa da una parte all'altra come uno spettatore a una partita di tennis. Nester gli lanciò un'occhiata, sempre con la mano sul telefono, e disse: «Non so di cosa state parlando.» «Certo che lo sa» ribatté Lucas. «Stiamo parlando di netsuke che potrebbero valere un quarto di milione di dollari, che le è stato chiesto di valutare a fini assicurativi. Lei ha detto al proprietario che in pratica non valevano niente e li ha comprati per un tozzo di pane.» «Mai» disse Nester strozzandosi dalla collera. «Non mi hanno mai chiesto di stimare quei netsuke. Me li hanno offerti in vendita e ho pagato il prezzo richiesto. Nient'altro.» «Non è quello che dice la signora Rice. È disposta a portare il caso in tribunale.» «E lei pensa che una giuria crederebbe a una... una donna delle pulizie invece che a me? È la mia parola contro la sua...» «Lei non avrebbe una sola possibilità» replicò Sloan con voce melliflua. «Neanche una. Ecco qua un uomo che ha combattuto per il suo paese e ha acquistato dei souvenir, senza sapere cosa aveva fra le mani. Poi fa la sua vita, un brav'uomo, addetto alle pulizie, e infine muore di un cancro che lo consuma lentamente, uccidendolo un centimetro alla volta. Vuole vendere i pochi oggetti personali che ha per aiutare la moglie dopo la sua morte. Anche lei sta invecchiando, e vivono in modo frugale. Probabilmente mangiando cibo per cani... le garantisco che lei lo farà, quando gli avvocati avranno finito di occuparsene.»
«Magari cibo per gatti. Scarti di tonno» intervenne Lucas. «E hanno in mano questo tesoro senza saperlo» riprese Sloan. «Potrebbe essere un lieto fine, proprio come in un telefilm. Ma che succede? Si presenta un losco trafficante di oggetti d'arte, che dà loro cinquecento dollari per capolavori che valgono un quarto di milione. Crede davvero che una giuria si schiererebbe dalla sua parte?» «Se lo crede, vive nel mondo dei sogni» incalzò Lucas. «Io ho degli amici nella stampa, sa? Quando passerò loro questa storia, lei diventerà più famoso del predatore.» «Non è una cattiva idea, sai?» disse Sloan, guardando in tralice Lucas mentre coglieva l'imbeccata. «Potremmo fermarlo, arrestarlo per frode e rendere pubblica la storia. Forse allenterebbe un po' la...» «Sarà meglio che veniate nel mio ufficio» disse Nester, ormai pallido come un morto. Lo seguirono nel retro superando una porta stretta. La maggior parte dello spazio era occupata da un deposito protetto da una rete d'acciaio, con un ufficio piccolo ma arredato con eleganza sistemato in un angolo. Nester si sedette alla scrivania, sfogliò per un attimo il calendario, poi disse: «Cosa possiamo fare per rimediare?» «Potremmo arrestarla per frode, ma in realtà non c'interessa. Ci occupiamo d'altro» rispose Lucas, calandosi su una sedia antica. «Se ci dirà quello che voglio sapere, suggerirò alla signora Rice di trovarsi un avvocato e risolvere la questione nel foro civile. Oppure lei potrebbe negoziare un accordo.» «Ho già parlato con questa persona» protestò Nester, accennando a Sloan. «Gli ho riferito tutto quello che è successo fra il signor Rice e me.» «Ho avuto la nettissima impressione che nascondesse qualcosa» ribatté Sloan. «E di solito non mi sbaglio.» «Be', francamente ho pensato che se aveste saputo del prezzo pagato per i netsuke... che era quello richiesto dal signor Rice, lasciatemi sottolineare... avreste pensato che era... inadeguato. Non intendevo nasconderlo, volevo solo essere discreto.» Lucas fece una smorfia. «Se ce lo avesse detto, o almeno suggerito, non l'avremmo infastidita» ribatté. «Stiamo cercando di rintracciare la pistola che era in possesso di Rice. Stiamo controllando tutti quelli che gli hanno parlato mentre ne era in possesso.» «Non ho mai visto una pistola, lui non vi ha mai accennato né si è offerto di vendermene una» disse Nester. «Mentre ero là non ho visto nessun al-
tro, nemmeno la signora Rice. Non abbiamo parlato. Io sono entrato e ho detto che ero interessato a esaminare i netsuke. Lui è indietreggiato con la sedia a rotelle, li ha presi da una scatola e me li ha dati, poi si è rimesso a leggere. Gli ho chiesto quanto voleva, mi ha risposto cinquecento dollari. Gli ho dato un assegno e me ne sono andato. Non avremo scambiato più di cinquanta parole.» «Non è da lui» osservò Sloan. «Pare che fosse un gran parlatore.» «Non con me» ribadì Nester. Lucas guardò Sloan e scosse la testa. «Penso fosse perché era tanto impegnato con il testamento» aggiunse Nester. «Doveva leggerlo e firmarlo prima che il suo avvocato passasse a ritirarlo.» «Il suo avvocato?» chiese Lucas. Si rivolse a Sloan. «Il suo avvocato?» Sloan cominciò a sfogliare il taccuino. «Mi disse che stava per arrivare l'avvocato» ripeté Nester, spostando lo sguardo dall'uno all'altro. «È utile?» «Non ci risulta nessun avvocato» disse Sloan. Lucas si sentì serrare la gola. «Le disse come si chiamava l'avvocato?» «Niente affatto. Oppure non me lo ricordo» rispose Nester. «Forse dovremo parlare ancora con lei» disse Lucas, alzandosi. «Su, vieni, Sloan.» Sloan inserì un quarto di dollaro nel telefono. Mary Rice rispose al primo squillo. «Il testamento di suo marito, signora Rice, ne ha per caso una copia? Potrebbe prenderla? Aspetterò.» Lucas rimase al suo fianco, guardando in su e in giù lungo la strada, sollevandosi sulle punte dei piedi, facendo calcoli. Un avvocato. Quadrava. Ma era ridicolo. Sarebbe stato troppo facile. Sloan spostò il peso da un piede all'altro, in attesa. «Ha guardato nel primo cassetto del comò?» disse infine Sloan. «Ricordo che una volta mi ha detto che metteva tutto là dentro... Sì, posso aspettare.» «Che sta combinando?» proruppe Lucas. Avrebbe voluto strappare il telefono a Sloan e urlare fino a ridurre la donna in uno stato di obbedienza servile. «Non riesce a trovarlo» rispose Sloan. «Andiamo di corsa laggiù e buttiamo per aria la casa o...» Sloan alzò una mano e riprese a parlare. «L'ha trovato? Bene. Guardi l'ultima pagina. C'è il nome dell'avvocato? No, non dello studio, dell'avvo-
cato. Ci dovrebbe essere una firma con il nome dattiloscritto sotto... Okay, me lo detti lettera per lettera. L-o-u-i-s V-u-1-l-i-o-n. Grazie, grazie.» Scrisse il nome sul taccuino, mentre Lucas sbirciava di sopra la sua spalla. «Mai sentito nominare» disse Lucas, scuotendo la testa. «Un'altra telefonata» disse Sloan. Prese un'agendina nera dalla tasca della camicia, trovò un numero e infilò una mano in tasca cercando un quarto di dollaro. La ritirò vuota. «Hai un quarto di dollaro?» chiese a Lucas. Lucas si frugò nelle tasche. «No.» «Merda, dobbiamo cambiare...» «Aspetta, aspetta, possiamo usare la mia tessera, basta formare lo zero. Qua, dammi il telefono. Chi è, comunque?» «Una ragazza che conosco alla Sicurezza pubblica dello stato.» Lucas compose il numero e passò il ricevitore a Sloan appena cominciò a squillare. Sloan chiese di Shirley. «Parla Sloan» disse «della polizia di Minneapolis. Come va?... Sì. Sì. Magnifico. Ascolta, ho un tipo che scotta, potresti controllarlo per me?... Adesso?... Grazie. Si chiama Louis Vullion.» Glielo compitò. Attese un momento, poi disse: «Sì, dammi tutto.» Ascoltò, esclamò: «Oh, merda» e: «Oh» e: «Grazie, tesoro.» Attaccò e si girò verso Lucas. «Sì?» «Louis Vullion. Maschio, bianco. Ventisette anni. Altezza un metro e 75, 95 chili, occhi azzurri. Più una notizia buona e una cattiva. Quale vuoi per prima?» «La cattiva» rispose subito Lucas. «Sparks è sicuro che aveva i capelli scuri. Lui no. È un rosso.» Lucas fissò per un attimo Sloan, si leccò le labbra. «Capelli rossi?» «È quanto risulta dalla patente.» «Che meraviglia» mormorò Lucas, col viso impietrito «Cosa?» Sloan era sconcertato. «Carla era sicura che avesse la pelle chiara. Ne era certa. Ora, non esiste nessuno più chiaro di carnagione di una persona con i capelli rossi. Sparky era certo che avesse i capelli scuri. Io non riuscivo a capire. Ma metti un rosso sotto quei lampioni ai vapori di mercurio di Hennepin, la sera...» Puntò il dito contro il petto di Sloan, pungolandolo. «Figlio di puttana. Potrebbe sembrare bruno» disse Sloan, tutt'a un tratto eccitato.
«"Potrebbe" una sega» ribatté Lucas. «Sembrerebbe senz'altro bruno. Specie in lontananza. Quadra; è una poesia.» Si leccò di nuovo le labbra. «Se questa era la cattiva notizia, qual è quella buona?» Sloan alzò un dito. «Proprietario ufficiale di una Ford Thunderbird blu notte. L'ha acquistata tre mesi fa.» La porta di Daniel era chiusa. La segretaria, Linda, stava battendo a macchina delle lettere. «Chi c'è dentro?» chiese Lucas, indicando la porta. Sloan si teneva in equilibrio sui talloni. «Pettinger della contabilità» rispose Linda. «Lucas aspetta, non puoi entrare...» Lucas entrò nell'ufficio, seguito dall'imbarazzato Sloan. Daniel trasalì, alzò gli occhi sorpreso, vide le loro facce e si rivolse al capo contabile. «Dovrò metterti alla porta, Don» gli disse. «Riprenderemo questo pomeriggio.» «Oh, certo.» Il contabile raccolse un fascio di tabulati, guardò incuriosito Lucas e Sloan e uscì. Daniel chiuse la porta con energia. «Chi è?» domandò con voce roca. «Un avvocato» rispose Lucas. «Un avvocato che si chiama Luois Vullion.» 27 «Dov'è?» Lucas parlò in una ricetrasmittente mentre accostava al marciapiede, a un isolato di distanza dall'appartamento del predatore. La Ford Escort vecchia di cinque anni si mimetizzava perfettamente con l'ambiente. «Sta attraversando il ponte, puntando a sud. Pare che sia diretto verso il centro commerciale di Burnsville Mall. Ora siamo proprio a nord di lì.» Intorno al predatore era stata tesa una rete di sei unità, 12 agenti, sette donne e cinque uomini. Lo avevano seguito dal suo appartamento fino a un garage non lontano dallo studio legale. Lo avevano osservato entrare in ufficio, consumare un pranzo solitario in una tavola calda del centro. Zoppicava un po', così avevano riferito, e cercava di non appoggiare il peso su una gamba. A causa della caduta nel fosso? Lo avevano seguito di nuovo in ufficio, durante una visita in tribunale, su nell'ufficio del cancelliere, di ritorno in ufficio. Mentre trascorreva il pomeriggio lavorando, un tecnico elettronico aveva
fissato sotto il paraurti della sua auto una radiotrasmittente piccola ma potente. Quando il predatore aveva lasciato lo studio di sera, gli osservatori lo avevano seguito di nuovo fino alla macchina. Era tornato nell'appartamento, evidentemente aveva cenato, e poi era uscito di nuovo. Diretto a sud. «È entrato nel parcheggio del centro commerciale.» Lucas lanciò un'occhiata all'orologio. Se pure il predatore avesse invertito la direzione e fosse tornato a casa a tutta velocità, ci avrebbe messo almeno venti minuti. Era un tempo quasi sufficiente. «Scende dalla macchina, entra» gracchiò la radio. La rete ormai doveva essere posata, e si stava stringendo. Lucas spense la radio e se la mise nella tasca della giacca. Non voleva che le chiamate della polizia gli venissero fuori dalla tasca in un momento inopportuno. Il grimaldello elettrico e una torcia usa e getta erano sotto il sedile. Li prese, mise la torcia elettrica in un'altra tasca e fece scivolare il grimaldello dentro la giacca, sotto l'ascella. Scese dalla macchina, rialzò il colletto e si avviò in fretta sul marciapiede, col vento alle spalle e le ultime foglie secche autunnali che gli turbinavano intorno alle caviglie. Il predatore viveva in un complesso di quattro appartamenti, ognuno composto da due piani più una soffitta, che occupavano ciascuno un angolo in verticale di quella che per il resto si presentava come una palazzina vittoriana. Ciascuno dei quattro appartamenti era completato da un garage a un posto e da un minuscolo portico anteriore con una corta ringhiera per esporre petunie e gerani. I vasi da fiori erano vuoti e freddi. Lucas si avviò direttamente all'appartamento del predatore, imboccò il vialetto d'ingresso e salì in fretta i gradini. Premette il campanello, una volta, due, tese l'orecchio per sentire il telefono. Stava ancora squillando. Si guardò attorno, tirò fuori il grimaldello elettrico e lo inserì nella serratura. L'arnese produceva un baccano infernale, ma era efficiente. La porta si aprì di scatto, poi si fermò quando la catena di sicurezza si tese. Il predatore era uscito dal garage, e quella porta doveva chiudersi automaticamente. Lucas imprecò, frugò nella tasca e tirò fuori una scatoletta di puntine da disegno e un paio di elastici di gomma. Guardandosi di nuovo intorno, non vide altro che una strada deserta, e aprì la porta finché non raggiunse la massima estensione della catenella. Allungando la mano il più possibile, inserì una puntina nel legno dalla parte interna della porta, passandovi sotto l'elastico. Poi tese l'elastico finché riuscì a passarne un cappio sul notto-
lino della catena. Quando chiuse piano la porta, l'elastico si contrasse e tirò il nottolino della catena fino in fondo alla scanalatura. Con un paio di scrolloni, cadde fuori. «Ehi, Louis, come gira?» esclamò Lucas spalancando la porta. Non ebbe risposta. Fischiò per chiamare un eventuale cane. Niente. Richiuse la porta, accese la luce dell'ingresso e sfilò la puntina dalla porta. Il forellino era impercettibile. Tirò fuori la radio, l'accese e chiamò la squadra di sorveglianza. «Dov'è?» «È appena entrato in un negozio di articoli sportivi. Sta guardando le giacche.» Lucas regolò la radio sul monitoraggio e controllò in fretta l'appartamento in cerca di qualsiasi indizio evidente che Vullion fosse il predatore. Passando vicino al telefono che squillava, lo sganciò e poi lasciò ricadere il ricevitore, facendolo tacere. In un rapido esame del pianterreno trovò una stanza adibita a lavanderia con scaldabagno, lavatrice ed essiccatoio, e un piccolo banco da lavoro incassato nel muro con un cassetto pieno a metà di attrezzi poco costosi. Una porta nel locale dava sul garage. L'aprì, accese la luce e guardò in giro. Un piccolo spartineve, un paio di pale da neve e una pila di quotidiani conservati in sacchetti marroni della spesa per essere gettati. Se ne avesse avuto il tempo, si sarebbe fermato a controllare i giornali. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto trovarne uno che era stato ritagliato per preparare i messaggi lasciati sul corpo delle vittime del predatore. Non c'era nient'altro di interessante. Chiuse la porta del garage, attraversò il cucinino, aprendo e chiudendo sportelli di armadietti mentre passava, fece capolino nel soggiorno, controllò un piccolo gabinetto e uno studio leggermente più grande, con un computer IBM e alcuni testi di diritto. Il primo piano era suddiviso in due camere da letto e un grande bagno. Una delle camere da letto era arredata; l'altra era usata come ripostiglio. Nella stanza di sgombero trovò le valigie del predatore, vuote, una tastiera elettronica evidentemente mai usata, e una modesta panca per i pesi con una serie di bilancieri da dilettante. Controllò i bordi dei pesi. Come la tastiera, apparivano praticamente intatti. Vullion era un uomo dagli interessi non consumati... In un angolo c'era un divano malconcio, insieme con tre casse piene di riviste, una collezione di Playboy che sembrava risalire a una dozzina
d'anni prima o più. Lasciò la stanza e si diresse verso l'altra camera da letto. Nel soffitto del corridoio fra le due camere da letto c'era una botola di accesso alla soffitta, con una maniglia d'acciaio applicata. Lucas tirò la maniglia, e una leggera scaletta pieghevole si abbassò nel corridoio. Salì qualche gradino, si affacciò nella soffitta e proiettò intorno la luce della torcia. La soffitta era suddivisa fra i quattro appartamenti con sottili pannelli di compensato. Lo spazio di Vullion era vuoto. Lui arretrò, rimise a posto la scaletta con il pannello annesso e tirò fuori la radio. «Dov'è?» «Ancora nel negozio.» Era ora di lavorare. Lucas si rimise in tasca la radio, prese dall'altra un miniregistratore, lo avviò ed entrò nella camera da letto. «Camera da letto» dettò. «Armadio a muro. Giacca sportiva, 48 regolare. Completo, 48 regolare. Pantaloni, cintura 36 regolare. Scarpe. Nike Air, azzurre, finestrella trasparente sulla suola esterna. Niente Reebok... «Cassettone della camera da letto... profilattici Trojan lubrificati, confezione da 12, sette mancanti... «Studio» proseguì. «Fatture dell'Associazione laureati in legge dell'Università del Minnesota. Ricevute di tasse federali otto anni. Minnesota, Minnesota, Minnesota, Minnesota, Minnesota, Texas, Texas, Texas. Riportano un indirizzo di Houston, Texas, sotto il nome Louis Vullion. «Files sul computer, tutto materiale giuridico e corrispondenza, all'apertura la corrispondenza si dimostra di lavoro... «Cucina. Sotto il lavello. Sacchetto di cipolle, niente patate...» Lucas esaminò con metodo tutto l'appartamento in cerca di qualsiasi indizio che collegasse direttamente Vullion con gli omicidi. A parte le Nike Air, non c'era niente. Ma le prove indirette si accumulavano: la vita nel Texas prima dell'anno alla facoltà di legge del Minnesota, gli abiti che indicavano che la taglia era giusta, i preservativi... «Dov'è?» «Sta guardando le scarpe.» L'assenza di prove dirette era esasperante. Se Vullion avesse conservato dei souvenir dei delitti, se Lucas avesse trovato una scatola di guanti da chirurgo insieme con una scatola di Kotex, con un rotolo di nastro adesivo vicino... oppure se il tavolo della cucina fosse stato cosparso di frammenti di un giornale da cui era stato ritagliato uno dei messaggi...
Se lui avesse conservato quegli oggetti, avrebbero potuto trovare un modo per ottenere un mandato e arrestarlo. Ma non ce n'erano. Fermo al centro del soggiorno con le mani allargate, Lucas guardò intorno a sé la stanza ordinata in modo innaturale, e in quel momento capì: era un ordine innaturale. «Abbiamo spaventato lo stronzo e lui ha ripulito la casa» disse Lucas a voce alta. Se avessero parlato con Nester la settimana precedente, prima dell'incidente in casa di McGowan... Non serviva a niente pensarci. Stava per uscire dal soggiorno, quando la sua attenzione fu attirata dal videoregistratore. Non c'erano cassette in giro, ma c'era una scatola di cartone vuota vicino al televisore. Si abbassò per accendere l'apparecchio e premette il pulsante di espulsione. Dopo un minuto di ronzio, il VCR sputò una cassetta. «Dov'è?» «Sta uscendo dal negozio di scarpe.» Lucas accese il televisore e fece partire il nastro. Era vergine. Lo fermò, lo riavvolse, lo fece ripartire, e restò sorpreso quando sullo schermo apparve di colpo il suo viso. «Porca puttana, l'intervista» mormorò Lucas. La telecamera inquadrò Carla. Lui guardò l'intervista fino alla fine, attese che lo schermo diventasse bianco e spense il videoregistratore e il televisore. I pochi dubbi che gli restavano erano stati dissolti dalla registrazione. Tornò in camera da letto, sollevò il copriletto e introdusse il braccio fra materasso e rete. Niente. Pescò in fondo alla tasca della giacca, tirò fuori una busta e la rovesciò per estrarre le fotografie. Lewis, Brown, Wheatcroft, le altre. Maneggiando le foto per i bordi, le spinse sotto il materasso più lontano che poté. Con una perquisizione accurata le avrebbero trovate. Dopo aver finito, raddrizzò il copriletto e cominciò a uscire dall'appartamento, lavorando con lo stesso metodo col quale era entrato. Tutto al suo posto. Tutto controllato. Tutte le luci spente. Sbirciò il marciapiede all'esterno. Nessuno in giro. Rimise la catena alla porta d'ingresso e passò nel garage. Impiegò dieci minuti per controllare i giornali. Nessuno era ritagliato. Li rimise nello stesso ordine in cui li aveva trovati, e uscì dalla porta del garage. Tornato sul marciapiede, si allontanò in fretta. Era quasi arrivato alla Ford Escort quando il cicalino suonò. «È uscito dal centro commerciale, si dirige verso la macchina. Tre e cin-
que restano a terra, le auto di testa partono ora...» Lucas e Daniel erano soli nell'ufficio fiocamente illuminato di Daniel, e si guardavano nel cerchio di luce gialla proiettato da una lampada da tavolo. «Così, anche se entrassimo, non troveremmo niente» concluse Daniel. «Su questo non ci giurerei, ma mi sembra che abbia ripulito la casa. Forse può avere nascosto qualcosa... non ho avuto tempo a sufficienza per frugare veramente da cima a fondo» ribatté Lucas. «Ma non ho trovato niente di decisivo. Le Nike sono giuste, i profilattici sono giusti, la taglia è giusta, la macchina è giusta. Ma lei sa quanto me che potremmo riscontrare questa combinazione in almeno 50 persone, là fuori.» «Cinquanta persone che siano anche avvocati e frequentino il tribunale e abbiano l'accento del Texas e abbiano ottenuto una pistola da Rice?» «Ma non abbiamo prove dirette che abbia ricevuto la pistola da Rice. E tutti gli altri elementi sono davvero fragili. Deve pensare che avrebbe accanto l'avvocato migliore, e un buon avvocato ci farebbe a pezzi.» «E le analisi vocali sui nastri?» «Lo sa cosa ne pensano i giudici.» «Ma è un altro elemento.» «Sì, lo so. È allettante...» «Ma?» «Ma se continuiamo a sorvegliarlo, dovremmo prenderlo. Non è riuscito a uccidere. Ora sarà spaventato, ma se prova il bisogno irresistibile di uccidere, tornerà alla carica. Prima o poi. Io scommetto entro la prossima settimana. Stavolta non ce lo lasceremo sfuggire. Lo beccheremo mentre entra in qualche casa e avrà con sé tutto l'armamentario, il Kotex e la patata e i guanti. Lo coglieremo sul fatto.» «Ne parlerò al procuratore della contea. Gli dirò quello che abbiamo in mano adesso e quello che potremmo ottenere. Vedremo che cosa dirà. Ma in sostanza penso che abbia ragione lei. È troppo poco per rischiare.» Furono istituiti posti di sorveglianza in un appartamento di fronte a quello del predatore, una casa più in là; e sul retro, due case più in là. «È stato il meglio che siamo riusciti a trovare, e non è male» disse il capo della sorveglianza. «Possiamo vedere tutti e due gli ingressi e tutte le finestre. Con la superstrada a sud, può uscire dal quartiere soltanto a nord, e noi ci troviamo più a nord di lui. E in ogni caso non ci vedrà.» «Cos'è quel chiarore? Legge a letto?»
«Una lampada notturna, pensiamo» rispose il capo della sorveglianza. Lucas annuì. Ricordava di averne visto una nella camera da letto, ma non poteva dirlo. «Sta cercando di tenere a bada gli incubi» disse invece. «Se non ne ha lui, non vedo chi altri dovrebbe averne» commentò il capo della sorveglianza. «Lavorerà con noi regolarmente?» «Sarò qui tutte le sere» rispose Lucas. «Se si discosta dallo schema operativo regolare durante il giorno, voglio essere avvertito con la radio. Arriverò di corsa. Non ha mai colpito nessuno di prima mattina, quindi tornerò a casa dopo che sarà andato a letto. Per dormire un po'. La mattina per prima cosa controllerò la squadra di sorveglianza.» «Resti nei paraggi. Quando arriverà il momento, potrebbe succedere tutto molto rapidamente.» «Già. Io ero al Fiasco, ricorda?» Lucas guardò dalla finestra l'appartamento del predatore, il tenue chiarore costante che filtrava dal primo piano. Stavolta non ci sarebbe stato un fiasco. 28 Il predatore non avrebbe dovuto accorgersi della sorveglianza. Fu un puro caso. Un pomeriggio sul tardi uscì da una banca dopo la conclusione di una compravendita immobiliare nella cittadina di Hastings, sul fiume Mississippi, circa 35 chilometri a sud delle Città Gemelle. Era buio. Attraversò il Mississippi sul ponte di Hastings e si diresse a nord sulla superstrada 61, attraversando i centri suburbani di Cottage Grove, Saint Paul Park e Newport. Passando per Saint Paul Park, si trovò a seguire un autocarro scoperto carico di ghiaia. I sassolini cadevano dal cassone del camion e rimbalzavano sulla superstrada. Uno grande poteva incrinare il parabrezza. Il predatore, pensando alla vernice lucente della Thunderbird nuova, si spostò sulla corsia di sinistra e accelerò per superare il camion. L'auto di sorveglianza che lo tallonava raggiunse il camion con un attimo di ritardo. Dato che il predatore non sembrava avere una fretta particolare, ma ci teneva soltanto a precedere l'autocarro, l'auto di sorveglianza rimase in coda. La ghiaia pioveva intorno all'auto di sorveglianza, ma i poliziotti a bordo non ci badavano. L'auto era a posto sul piano meccanico ma, come la maggior parte delle auto della sorveglianza, a vedersi non era granché, una
semplice Dodge color vaniglia. Qualche ammaccatura in più o in meno non avrebbe fatto nessuna differenza. E il camion di ghiaia forniva una copertura eccellente. Niente di tutto ciò avrebbe avuto importanza, se un ciottolo particolarmente grosso non fosse rimbalzato dalla carreggiata spaccando la copertura di plastica ambra del lampeggiatore di sinistra. Gli agenti a bordo sentirono il rumore, ma non potevano vedere il fanalino rotto. «Dovremmo fare la multa a questo stronzo» disse uno degli agenti della sorveglianza mentre il ciottolo ricadeva a terra. «Giusto» ribatté il conducente. «Come no, metti pure la luce sul tetto.» «Te la immagini la faccia di Daniel? Noi diciamo: "Be', lo stavamo seguendo quando ci siamo imbattuti in questo incredibile figlio di puttana con un camion carico di ghiaia..."» «Ci schiafferebbe in prigione» disse il primo poliziotto. «Troverebbe lui il modo.» Il predatore decise di fermarsi in un ristorante fast-food sul raccordo con l'interstatale, la I-494. Il raccordo intersecava la superstrada 61 proprio a nord della cittadina di Newport. Quando il predatore imboccò la rampa circolare d'accesso all'interstatale 494, lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore e notò, senza particolare interesse, l'insolito segnale di svolta di una macchina che procedeva un centinaio di metri più indietro. Il lampeggiatore rivelava una curiosa combinazione di luce ambra e bianca. L'auto della sorveglianza che lo tallonava era più vicina all'auto del predatore di quanto sarebbe stata normalmente. L'auto di testa aveva proseguito sulla superstrada 61 attraverso lo svincolo dell'interstatale 494 e ora avrebbe dovuto trovare un posto adatto per invertire la direzione di marcia e raggiungerli alle spalle. Nel frattempo, finché una delle auto in coda non fosse riuscita a portarsi in testa, gli agenti sull'auto di sorveglianza ravvicinata non potevano correre rischi. Si tenevano a breve distanza. Erano ancora vicini quando il predatore deviò verso l'uscita di Robert Street, puntando verso uno dei ristoranti a nord dello svincolo. Scendendo la rampa e rallentando per fermarsi al semaforo in fondo, il predatore notò di nuovo l'auto con quello strano lampeggiatore. C'era qualcosa che non andava, pensò. Un fanalino rotto o qualcosa del genere. L'auto procedeva piano scendendo la rampa più indietro. Quando il semaforo passò al verde, il predatore se ne dimenticò e svoltò a sinistra, risalì la collina e si fermò nel parcheggio di un ristorante. All'ingresso comprò una copia di USA Today e la portò dentro.
Mentre il predatore cenava e leggeva il giornale, gli agenti della sorveglianza fecero provvista a turno di hamburger e Coca Cola in un McDonald's a 800 metri di distanza. C'erano sempre due squadre alle costole del predatore. Uscendo dal ristorante, il predatore decise di raggiungere Saint Paul proseguendo su Robert Street. Era una strada affollata e insidiosa, ma non lontano c'erano due cinema. Un film ci sarebbe stato bene. Vide il lampeggiatore rotto a metà di Robert Street. Era indietro di tre auto. Sulle prime non ne era certo, ma poi lo vide ancora, più chiaramente. E ancora. Gli erano addosso. Lo sapeva. Rimase fermo mentre il semaforo era già verde, fissando la strada davanti a sé senza vederla, finché gli automobilisti alle sue spalle cominciarono a suonare il clacson. Doveva fuggire? No. Se davvero lo sorvegliavano, quello sarebbe stato il segno che aveva capito. Gli occorreva tempo per riflettere. Inoltre, forse si sbagliava. Non era sicuro del fanalino. Poteva essere una coincidenza. Ma non lo sembrava. Superò un centro commerciale, svoltò a destra e s'inserì sulla superstrada 3, che andava a nord per intersecare l'interstatale 94. In fondo alla rampa di uscita, guardò il retrovisore. Un'auto lo seguiva scendendo la rampa, ma era troppo lontana perché lui riuscisse a vedere il lampeggiatore. Pensò di fermarsi, fingendo un guasto alla macchina, ma avrebbe fatto precipitare la situazione, forzando loro Ja mano. Non era sicuro di quello che voleva fare. Fece un riepilogo mentale. Nell'appartamento non c'era niente. Niente. Niente sulla macchina. Non c'era niente per incastrarlo. Se lo stavano davvero sorvegliando, dovevano aspettare un'aggressione. Avvicinandosi allo svincolo dell'interstatale 94 sul Lafayette Bridge, il predatore lasciò che la velocità calasse bruscamente. Le auto che lo seguivano cominciarono ad avvicinarsi, e lui scorse la macchina della sorveglianza in un'altra corsia. Non riusciva ancora a vederla chiaramente, ma c'era senz'altro qualcosa che non andava nel lampeggiatore. Due agenti su un'auto in coda si erano spostati in avanti e infine superarono il predatore mentre procedevano tutti a nord sulla superstrada 3. Avvicinandosi alla I-94, le donne poliziotto a bordo della nuova auto di testa pensarono secondo logica che il predatore volesse tornare a Minneapolis sull'interstatale. Imboccarono la rampa. Dietro di loro, il predatore prose-
guì attraverso lo svincolo e si addentrò nel buio labirinto di strade di Saint Paul's Lowertown. La rete si allargò intorno a lui su strade parallele, in continuo contatto. Ancora una volta, con l'auto di testa fuori gioco, la vettura di sorveglianza ravvicinata accostò un po' di più. Tanto che quando svoltarono un angolo e trovarono il predatore fermo, che entrava a retromarcia in un parcheggio, dovettero proseguire. E il predatore, che li aspettava, scorse chiaramente il fanalino rotto dell'indicatore direzionale. Lo stavano sorvegliando. Le coincidenze erano una cosa, ma credere che tutti quegli avvistamenti fossero coincidenze significava credere nelle favole. Il predatore chiuse a chiave la macchina, entrò di buon passo in un centro commerciale e salì due piani. La rete era più rada, ma ancora in posizione. I conducenti delle auto di coda erano stati avvertiti dall'auto di sorveglianza ravvicinata che il predatore stava parcheggiando. I passeggeri erano già scesi prima che il predatore avesse completato la manovra. Lo seguirono all'interno del cinema. Là dentro poteva riflettere. In che modo erano risaliti fino a lui? Forse, nel corso della sorveglianza alla casa della McGowan, avevano annotato come di routine le targhe di tutte le auto viste nella zona. Forse qualcuno aveva udito gli spari, lo aveva visto allontanarsi in macchina e aveva preso nota della targa. Forse non avevano altro che un numero che non corrispondeva al quartiere. Forse doveva cominciare a prepararsi un alibi per spiegare la sua presenza laggiù. Così su due piedi non gli veniva in mente nulla, ma se avesse riflettuto sul problema avrebbe potuto escogitare qualcosa. Se lo seguivano, c'era ben poco da fare. Non osava eludere la sorveglianza. Avrebbe confermato la sua colpevolezza. Aveva eliminato tutte le prove che lo avrebbero collocato sulla scena del delitto. Per quanto ne sapeva, non esistevano prove decisive contro di lui, da nessuna parte. Quando il film fu finito, il predatore tornò alla macchina, resistendo con fatica alla tentazione di guardarsi attorno, di scrutare negli androni in cerca di osservatori. Non li avrebbe visti, naturalmente. Erano troppo abili. Rimase sulle strade cittadine fino a raggiungere l'I-94, poi svoltò a est verso la propria uscita. Lungo il percorso fino all'interstatale non vide il lampeggiatore rotto. Non significava niente, pensò, ma non seppe reprimere un barlume di speranza. Forse era stata davvero una coincidenza. L'interstatale era frequentata, e per quanto aguzzasse gli occhi, non vide nessuna macchina con i fanalini rotti. Sospirò, sentì la tensione allentarsi.
Quando raggiunse l'uscita, lanciò la macchina su per la rampa fino al semaforo e attese. Un'altra auto sopraggiunse alle sue spalle. Affrontò la rampa lentamente. Troppo. Il semaforo passò al verde. Il predatore attese. L'altra macchina si avvicinò. Il lampeggiatore di sinistra era rotto, la luce bianca brillava nuda accanto a quella ambrata. Il predatore alzò gli occhi, vide il verde, e svoltò a destra. «Ehi, non ha una buona cera. Si sente male?» La segretaria sembrava preoccupata. «No, no. Ho sofferto semplicemente un po' d'insonnia, ieri notte. Potrebbe prendermi i documenti per la stipula Parker-Olson?» Il predatore era seduto alla sua scrivania, con la porta chiusa e un blocco giallo nuovo di fronte. "Pensa." Gli articoli sulla sorveglianza alla casa della McGowan riferivano che la polizia aveva istituito postazioni di sorveglianza sul davanti e sul retro. Avevano fatto lo stesso a casa sua? Probabilmente sì. Nell'isolato c'erano degli appartamenti liberi, aveva visto i cartelli, senza prestare molta attenzione. Non conosceva nemmeno i vicini, a parte i saluti agli altri occupanti della sua palazzina. Sarebbe riuscito a individuare altri posti di sorveglianza? Il predatore si alzò per avvicinarsi alla finestra, le mani nelle tasche della giacca, fissando la strada senza vederla. Forse. Forse poteva individuarli, forse poteva dedurre dove si trovavano. E questo dove lo avrebbe portato? Se fossero venuti a prenderlo, non avrebbe opposto resistenza. Sarebbe stato inutile. E poi, non si era immaginato in aula, mentre si difendeva dai suoi accusatori? Non aveva sognato di conquistare la giuria con la sua eloquenza? Era vero. Ma in quel momento la visione di una magnifica difesa non si lasciava evocare con tanta facilità. In fondo al cuore, sapeva che avevano ragione. Non era un buon avvocato; non in aula, almeno. Non aveva mai portato alla luce quella realtà per guardarla in faccia, ma era lì, come un macigno. Cominciò a fare due passi avanti, due indietro, mordendosi il labbro. Lo sorvegliavano. Per quanto reprimesse a lungo l'impulso di uccidere un'altra donna, alla fine sarebbero venuti a prenderlo. Non avrebbero atteso all'infinito. Si sedette, guardò il blocco giallo e ricapitolò:
Non erano ancora abbastanza sicuri da arrestarlo. Non potevano aspettare all'infinito. Cosa avrebbero fatto? Pensò a Davenport, il giocatore. Cosa avrebbe fatto il giocatore? Un giocatore lo avrebbe incastrato. Impiegò mezzo minuto, in ginocchio nel garage, per trovare il trasmettitore sulla macchina. Ci volle un'altra ora per trovare le fotografie sotto il materasso. Il trasmettitore lo lasciò al suo posto. Le foto le fissò, spaventato. Se la polizia fosse entrata dalla porta in quel momento, lui sarebbe finito in carcere per 18 anni, l'equivalente di una condanna all'ergastolo nel Minnesota. Portò le fotografie in cucina e, una per una, le bruciò, guardando le immagini che si arricciolavano e si consumavano sulla fiamma del fornello a gas. Quando furono distrutte, carbonizzate, schiacciò i frammenti anneriti riducendoli in polvere e vi fece scorrere sopra l'acqua del rubinetto. Quella notte s'impose di restare a letto per 15 minuti, poi si avvicinò di soppiatto alla finestra e guardò nella strada. C'era una scacchiera di finestre illuminate, e molte altre erano buie. Si mise di guardia, e dopo un po' strisciò di nuovo verso il letto, prese i due cuscini e ne dispose uno sul pavimento e l'altro in piedi contro la parete, dove poteva appoggiarvisi. Sarebbe stata una lunga notte. Tre ore dopo, il predatore sonnecchiava, con la testa che gli ciondolava in avanti. La raddrizzò di scatto e sbirciò dalla finestra con gli occhi appesantiti dal sonno. Tutto era più o meno uguale, ma non poteva restare sveglio ancora per molto. C'erano soltanto due luci accese, le aveva notate, ed era semplicemente troppo stanco per continuare. Si alzò, prendendo i cuscini, e si lasciò andare sul letto a faccia in giù. Paradossalmente, appena si predispose al sonno, si sentì più sveglio. I pensieri gli sfrecciavano nel cervello come un treno notturno, nitidi e rapidi e appena riconoscibili come idee indipendenti. Una sarabanda di immagini: le sue donne, i loro occhi, Lucas Davenport, la rissa davanti alla casa della McGowan, il lampeggiatore rotto. Dalla sarabanda scaturì un'idea. Il predatore dapprima vi resistette, perché somigliava a un incubo, richiedendo un'azione di ampio respiro in condizioni di estremo stress. Alla fine la considerò e parò le obiezioni, una per una. Più la considerava dentro di sé, più diventava consistente.
Era un colpo vincente. E la sorveglianza? Quale alibi migliore poteva trovare? Avrebbe avuto il coraggio di tentare il colpo? Oppure se ne sarebbe rimasto lì seduto come un coniglio spaventato, in attesa di farsi torcere il collo dal cacciatore? Si morse il labbro. Se lo morse con tanta forza che la mattina dopo trovò sangue sul cuscino. Ma aveva deciso. Avrebbe tentato. 29 Lucas era seduto su uno sgabello alto a treppiede, chino sul banco da lavoro e intento a manipolare pezzi di tubo in polivinilcloride bianco del diametro di cinque centimetri, dadi ad alette, bulloni, tubi di alluminio e strisce di quel tessuto isolante usato di solito per intelare i cappotti invernali. Aveva sperato di sistemare il predatore di persona, invece l'indagine si stava trasformando in un tedioso e interminabile gioco di arrocco. L'esito probabilmente sarebbe stato determinato da laboriose manovre, anziché da un coup de maître. Ciò nonostante, lui si preparava al coup, nell'eventualità che se ne presentasse uno inatteso. Il primo tentativo di costruire un silenziatore gli costò sangue. «Non so» disse a voce alta. Doveva funzionare, ma aveva un aspetto orribile. Un tratto di tubo in pvc di 30 centimetri, tagliato per lungo e riunito con dadi ad alette che però lasciavano delle fessure aperte lungo la commettitura. Dalle fessure fuoriusciva in soffici sbuffi l'isolante, avvolto strettamente su se stesso. Al centro, il tubo di alluminio era perforato da decine di fori praticati col trapano. Fissò l'insieme alla canna di una delle sue armi non identificabili raccolte sulla strada, una Smith & Wesson modello 39 convertita in parabellum calibro 9. Accese un miniregistratore, inserì un colpo nella camera, puntò l'arma contro una pila di pagine gialle di Saint Paul e premette il grilletto. Lo sparo produsse ben poco rumore, ma si sentì uno scatto metallico mentre gli elenchi telefonici sussultavano e nello stesso istante il silenziatore gli si torceva fra le mani e si spaccava in due. Un orlo tagliente del tubo in pvc gli penetrò nel dito medio, di lato. «Merda, merda» esclamò. Spense il registratore e salì al piano di sopra, controllò il taglio, che era superficiale, lo lavò, lo fasciò e ridiscese le scale.
Il registratore aveva captato il suono dello sparo, insieme con il clank nel momento in cui il silenziatore si era disintegrato, ma nessuno dei due suoni sarebbe stato riconoscibile come uno sparo. Il silenziatore era un disastro. Il tubo interno aveva perso l'allineamento con la canna dell'arma, o per la fuoriuscita dei gas dell'esplosione o per effetto del proiettile. Ciò non aveva alterato di molto la traiettoria del proiettile. Prese nota dentro di sé delle modifiche da apportare al silenziatore. Il requisito essenziale era che si doveva staccare facilmente dalla pistola e smontare con altrettanta facilità. La precisione non aveva importanza. Quando ebbe finito di smontare il silenziatore e di decidere i perfezionamenti da apportare, estrasse il proiettile dagli elenchi e lo esaminò. Era un proiettile da caccia a punta tenera, ed era tanto deformato che ci sarebbe voluto un esperto per identificarne il calibro esatto. Lucas annuì. Aveva le munizioni giuste, ma gli serviva tempo per lavorare sul silenziatore. Tarda mattinata. Una luce grigia filtrava dalle finestre della cucina mentre lui tentava di svegliarsi con il caffè e un panino stantio. La Smith, con il silenziatore perfezionato e montato, si trovava dentro una borsa da ginnastica dall'aria malconcia che lui aveva scovato in fondo a un ripostiglio. La combinazione pistola-silenziatore era altamente illegale. Se, in un modo o nell'altro, l'avessero scoperta a bordo della sua auto, avrebbe sostenuto di averla trovata per la strada. Poco lontano, lo sportello di una macchina sbatté e lui prese la tazza di caffè, si spostò nell'ingresso e sbirciò dalla finestra sul davanti. Carla Ruiz che risaliva il vialetto, un taxi che si allontanava. Lui ficcò la borsa da ginnastica sotto il lavello, tornò in camera da letto e indossò i pantaloni di una tuta felpata. Il campanello suonò e lui s'infilò la maglia felpata sulla testa, andò ad aprire e la fece entrare. «Ciao» disse lei piano, a testa bassa, guardandolo appena di sottecchi. «Cosa c'è che non va?» «Pensavo che avremmo bevuto un po' di caffè.» «Certo» rispose lui incuriosito. «Ho dell'acqua calda.» La precedette in cucina, versò un cucchiaio abbondante di caffè solubile in una tazza enorme di ceramica e gliela porse. «Jennifer Carey è venuta a trovarmi ieri sera» disse lei sedendosi. Sbottonò la giacca, ma se la tenne addosso. «Oh.» Lucas si sedette dalla parte opposta del tavolo.
«Abbiamo parlato.» Lucas distolse lo sguardo da lei per fissare l'ingresso. «E avete deciso il mio futuro? Fra tutt'e due?» Carla accennò un sorriso tirato. «Sì» rispose. Bevve un sorso di caffè. «Gentile da parte vostra informarmi» ribatté Lucas con una punta di asprezza. «Ci pareva la cosa più educata» disse Carla, e Lucas fu costretto a sorridere suo malgrado. «Che cosa avete deciso?» «L'affidamento lo ottiene lei» rispose Carla. «A te non importa?» «M'importa, più o meno. Mi manda in bestia il fatto che tu abbia dormito con noi a turno, con una qui, con l'altra su nei boschi. Ma avevo previsto che la nostra relazione non sarebbe durata a lungo. Viviamo in due mondi diversi. Io faccio la tessitrice, tu spari alla gente. E mi è sembrato che lei avesse diritto di precedenza, con quella storia del bambino.» «E quello che voglio io?» «Abbiamo deciso che non contava granché. Jennifer ha detto che avresti fatto un po' di storie, ma alla fine avresti accettato.» «Questo sì che mi fa incazzare» disse Lucas, senza più sorridere. «Peggio per te» replicò Carla. Si guardarono oltre il tavolo. Lucas distolse lo sguardo per primo. «Potrei dare il benservito a Jennifer» disse. «Non ora che è incinta» ribatté Carla, scuotendo la testa. «È impossibile. Questo è il parere di Jennifer, e io sono d'accordo con lei. Le ho chiesto cosa farebbe se tu andassi con un'altra. Ha risposto che andrebbe a parlare anche con l'altra.» «Cristo» mormorò Lucas. Chiuse gli occhi e piegò la testa all'indietro massaggiandosi la nuca. «Cosa ho fatto per meritarmi questo?» «Sei andato a letto con una donna di troppo» rispose Carla. «In realtà è lusinghiero, se ci pensi bene. Lei è bella e intelligente. E, in modo contorto, è innamorata di te. Mentre io, in modo altrettanto contorto, non lo sono. Anche se mi piacerebbe continuare a usare il tuo rifugio un paio di volte l'anno. Finché non me ne potrò permettere uno tutto mio.» «Quando vuoi» rispose Lucas malinconico. Avrebbe voluto dire altro, ma non gli veniva in mente niente. Carla bevve un ultimo sorso di caffè, spinse al centro del tavolo la tazza ancora piena a metà e si alzò.
«È meglio che vada» disse. «Il taxi dovrebbe tornare.» Lucas restò seduto dov'era. «Be', era tutto vero.» «E questo che vuol dire?» chiese lei prendendo la borsetta. «È quello che si dice quando non si riesce a trovare niente da dire.» «Okay.» Lei si abbottonò la giacca. «Ci vediamo.» «Come mai non è stata Jennifer a portare il messaggio?» «Ne abbiamo parlato, e abbiamo deciso che dovevo farlo io. Questo avrebbe provocato una rottura netta fra noi. Inoltre, ha detto che tu avresti provato per una mezz'ora un senso di colpa cattolico, poi ti saresti infuriato e avresti preso a calci i mobili, e alla fine avresti tentato di parlarle al telefono per poterla insultare. Dopo due ore circa, avresti cominciato a riderci su. Ha detto che preferiva risparmiarsi i preliminari.» Carla guardò l'orologio. «Sarà qui fra due ore.» «Che puttana» disse Lucas incredulo. «Hai afferrato bene» commentò Carla uscendo dalla porta. C'era un taxi giallo in attesa. Lei si fermò, con la porta esterna ancora aperta. «Ti chiamerò la prossima primavera. Per il rifugio in montagna.» Passarono quasi tre ore. Quando arrivò, Jennifer non era affatto imbarazzata. «Ciao» disse quando lui aprì la porta. Gli passò vicino, si tolse il cappotto e lo gettò sul divano. «Carla ha chiamato, mi ha detto che la conversazione è andata bene.» «Sono un bel po' incazzato...» cominciò Lucas, ma lei lo zittì con un gesto. «Risparmiami. A proposito, la McGowan passerà a una rete nazionale. Tutta la città ne parla.» «In culo alla McGowan.» «Se vuoi proprio, è meglio che ti sbrighi» ribatté Jennifer. «Se ne va fra un mese. Ma sono ancora del parere che quello che hai fatto è stato orribile. Solo che la McGowan è tanto scema che non se ne accorge.» «Puttana miseria, Jennifer...» «Se hai intenzione di alzare la voce, forse sarebbe meglio fare questa conversazione in un altro momento.» «Non ho intenzione di alzare la voce» replicò lui truce. Aveva l'impressione di strozzarsi. «D'accordo. Allora, ho pensato che potrei esporti il mio punto di vista. Cioè, se a te interessa sentirlo.»
«Certo. Cioè, perché no? Stai decidendo del resto della mia vita.» «Il mio punto di vista è che sono incinta e che il paparino non dovrebbe scopare nessun'altra finché il bambino sarà nato, e forse...» Fece una pausa, quasi considerando l'equità della sua proposta. «...forse fino a quando compirà un anno. O magari due. Così potrò quasi fingere di essere sposata e parlarti del bambino e di quello che abbiamo fatto durante il giorno e delle sue prime parole e di come cammina, senza dovermi preoccupare che tu folleggi in giro. E poi, quando non ne potrai più e ricomincerai a folleggiare, potrò semplicemente fingere di essere divorziata.» Gli sorrise radiosa. Lucas era attonito. «È la proposta più gelida che abbia mai sentito» le disse. «Non è proprio un discorso improvvisato» spiegò lei. «L'ho riscritto 12 volte. Mi sembra espresso con una logica abbastanza stringente, ma con sufficiente emotività da renderlo persuasivo.» Lucas scoppiò a ridere, poi smise e si sedette. Sembrava affaticato, pensò lei. O teso. «D'accordo. Mi arrendo» disse. «D'accordo su tutti i punti?» «Sì. Su tutti.» «Sul tuo onore di scout?» «Certo.» Lui tenne sollevate tre dita. «Sul mio onore di scout.» A sera tarda, Lucas se ne stava disteso sul materasso della squadra di sorveglianza e rifletteva. Poteva accettare la situazione, si disse. Per due anni? Forse. «È strano. Lo vedi?» domandò il primo agente di sorveglianza. «Io non ho visto niente» rispose il compagno. «Che cosa?» domandò Lucas. «Non so. È come se ci fosse del movimento, laggiù. Appena un po', lungo il bordo della finestra.» Lucas si avvicinò strisciando e guardò fuori. L'appartamento del predatore era buio, a parte il lieve chiarore della lampada notturna. «Non vedo niente» disse. «Pensi che stia combinando qualcosa?» «Non so. Forse niente. È solo che ogni tanto... è come se fosse lui a sorvegliare noi.» 30 Era il colpo vincente. Se avesse avuto fegato, avrebbe potuto farcela.
Immaginò la faccia di Davenport. Lui avrebbe capito, ma non avrebbe mai saputo come, e non avrebbe potuto farci niente. Sotto certi aspetti, naturalmente, sarebbe stata la sua missione più intellettuale. Non aveva effettivo bisogno di quella donna in particolare, ma l'avrebbe presa lo stesso. Agli occhi della polizia - non di Davenport, ma degli altri «ci sarebbe stata una certa logica. Una logica che loro potevano capire.» Nel frattempo, l'altra pressione aveva cominciato ad accumularsi. C'era una donna che viveva nella cittadina di Richfield, una maestra con gli occhi a mandorla e folti capelli corvini, i denti larghi come una ragazza russa. L'aveva vista insieme a una scolaresca nel seminterrato del centro governativo, mentre allestivano una mostra d'arte della scuola elementare... No. La escluse dalla sua mente. L'esigenza sarebbe aumentata, ma lui poteva controllarla. Era questione di volontà. E la sua mente doveva essere limpida per occuparsi del colpo. Per prima cosa doveva liberarsi, anche solo per due ore. Non li vedeva, ma c'erano, ne era certo, una ragnatela di osservatori che lo scortavano per le vie e i sottopassaggi della città. Le veglie notturne e le esplorazioni in soffitta avevano dato i loro frutti. Credeva di sapere dove si trovavano due dei loro posti di sorveglianza. L'illuminazione delle finestre non poteva essere quella tipica delle case di famiglie o persone sole, e lui aveva visto delle auto arrivare e ripartire a ore strane della notte, sempre dalle stesse due case. Una delle due, ne era sicuro, era rimasta disabitata fino a poco tempo prima. Stavano aspettando che facesse una mossa. Prima di poterla fare, doveva liberarsi. Solo per due ore. Credeva di conoscere un sistema. Lo studio legale Woodley, Gage & Whole occupava tre piani di un palazzo a due isolati dal suo. In occasione della stipula di affari immobiliari, aveva incontrato due volte uno dei loro associati, un uomo che si chiamava Kenneth Hart. In entrambe le occasioni avevano pranzato insieme. Se mai qualcuno avesse chiesto al predatore chi erano i suoi amici, avrebbe nominato Hart. Ora sperava che Hart si ricordasse di lui. Alla Woodley e Gage lo status era simboleggiato dal piano. La zona della reception si trovava al secondo piano, quello occupato dai soci. I piccoli calibri stavano al terzo. Quelli più piccoli ancora erano al quarto. In uno studio meno prestigioso, un cliente arrivato alla reception del secondo piano chiedendo di un avvocato del terzo o del quarto, sarebbe stato rimandato indietro lungo il corridoio fino agli ascensori. In quello studio non era
necessario un giro così ampio. Esistevano un ascensore interno e una scala interna. Meglio ancora, c'erano delle uscite sul garage a tutti e otto i piani. Se lui riusciva a entrare da Woodley e Gage al secondo piano, e se i poliziotti erano all'oscuro dell'ascensore interno, poteva svignarsela dal quarto piano. Prima di potersi servire di Woodley e Gage, sarebbe stata necessaria un'escursione preliminare, e avrebbe dovuto farla sotto il naso dei suoi pedinatori. Il predatore uscì presto dall'ufficio a bordo della Thunderbird completa di trasmittente, si diresse a sud fino a Lake Street, trovò un posto per parcheggiare, scese e s'incamminò lungo la fila di negozi fatiscenti. Passando davanti a un antiquario, sbirciò oltre i vetri scuri e tirò un sospiro di sollievo. Le esche artificiali erano ancora in vetrina. Percorse ancora mezzo isolato fino a una rivendita di articoli per computer, dove comprò una scatola di carta da computer, e tornò lentamente indietro verso la macchina, continuando a guardare le vetrine. Si fermò di nuovo davanti all'antiquario, fingendo di essere incerto se entrare o meno. Non doveva calcare troppo la mano, pensò; gli osservatori erano professionisti e potevano intuire qualcosa. Entrò. «Posso esserle utile?» Una donna venne avanti dal fondo del negozio. Aveva i capelli grigio ferro raccolti in una crocchia sulla nuca e le mani strette in grembo. Se avesse portato uno scialle, sarebbe sembrata l'imitazione della nonnina ritratta su un pacco di biscotti al cioccolato. Invece indossava un modesto tailleur blu con una cravatta rossa e aveva lo sguardo stanco e cisposo dell'alcolizzata cronica. «Quelle esche artificiali in vetrina, costano molto?» domandò il predatore. «Alcune sì, altre no» rispose la donna. Lo precedette verso la vetrinetta, tenendo i piedi divaricati per reggersi in equilibrio. "È ubriaca" pensò il predatore. «E l'avannotto azzurro?» chiese. «Quello è lavorato e dipinto a mano, su a Winnibigoshish. Ci sono molti falsi in giro, ma questo è autentico. Ho comprato tutto dal vecchio proprietario di una riserva di pesca, l'estate scorsa; voleva ripulire la cantina.» «Allora quanto?» Lei lo guardò pensierosa. «Venti?» «Affare fatto.»
La donna parve pentita di non aver chiesto di più. «Tasse escluse» precisò. Lui uscì dal negozio con l'esca in un sacchetto di carta marrone e andò in banca, dove compilò un assegno per duemila dollari. L'avannotto era intagliato in un pezzo unico di legno di pino e aveva tre ami arrugginiti che penzolavano in basso. Un'antica esca da lucci, spiegò la donna, probabilmente creata negli anni Trenta. Il predatore non sapeva nulla di esche artificiali, ma quella aveva la rustica autenticità della vera arte popolare. Se mai fosse diventato un collezionista, pensò, avrebbe potuto collezionare oggetti del genere, come faceva Hart. Avrebbe chiamato Kenneth Hart l'indomani, subito dopo pranzo. Durante la notte ripensò all'intero progetto e decise di rinunciare. All'alba, intontito, si trascinò barcollando in bagno per prendere mezza compressa di sonnifero. Poco prima che facesse effetto, cambiò di nuovo idea e decise di procedere. «Pronto, Ken?» «Sì, Ken Hart...» Un po' diffidente. «Sono Louis Vullion, dello studio Felsen...» «Oh, certo. Cosa c'è?» Cordiale, adesso. «Resterai in ufficio nei prossimi minuti?» «Ho una riunione alle due...» «Voglio vederti solo un minuto. Ho qualcosa per te, a dire il vero.» «Vieni pure.» Immaginò che la rete invisibile gli si stendesse intorno mentre si spostava. Tentò di non guardare, ma non poté farne a meno. Molti degli osservatori dovevano essere donne, lo sapeva. Erano le migliori. Almeno così dicevano i libri. Il predatore lasciò in ufficio il solito soprabito di lana e andò fino allo studio di Hart indossando soltanto la giacca e tenendo in mano una borsa portadocumenti. Dentro la borsa c'era un modesto trench nocciola arrotolato, insieme con un cappello floscio di tweed. Il predatore salì direttamente fino alla reception dello studio di Hart, al secondo piano. «Sono qui per vedere il signor Hart» disse alla signorina. «Ha un appuntamento, signor...?» «Vullion. Sono un avvocato dello studio Felsen-Gore. Ho chiamato Ken qualche minuto fa per avvertirlo che stavo arrivando.»
«Va bene.» Lei gli sorrise cordialmente. «Prosegua lungo il corridoio...» Lui ricambiò il sorriso con tutta la cordialità possibile. «Conosco la strada.» Percorse il corridoio e chiamò l'ascensore privato per il quarto piano. Si augurò che la rete fosse rimasta bloccata alla reception del secondo piano. «Ken?» L'altro avvocato stava sfogliando le istruzioni per una causa e alzò la testa all'entrata del predatore. «Salve, Louis. Entra pure, accomodati.» «Oh, non posso proprio, vado di fretta» rispose il predatore, guardando l'orologio. «Volevo lasciarti una cosa. Ricordi che quando abbiamo pranzato insieme, hai accennato che facevi collezione di esche da pesca antiche? Un paio di settimane fa ero su al nord...» Fece scivolare l'esca dal sacchetto di carte sulla scrivania di Hart. «Ehi, è di quelle buone» esclamò Hart, con aria felice. «Grazie, amico. Quanto ti devo?» «L'ho praticamente rubata» rispose il predatore scuotendo la testa. «Mi sentirei in imbarazzo a dirtelo. Certo, se vorrai offrirmi i cheeseburger dopo la prossima stipula...» «Affare fatto» disse Hart con entusiasmo. «Accidenti, questa è davvero buona.» «Devo andarmene. Posso uscire da questo piano, o devo ridiscendere...?» «No, no, basta arrivare in fondo al corridoio» rispose Hart. Lo accompagnò fino alla porta dell'ufficio e indicò la direzione. «E grazie infinite, Louis.» "Grazie a te" pensò il predatore mentre usciva. L'intera pantomima era stata una scusa per uscire dalla porta al quarto piano. Prima di spingerla, esitò. Era il momento cruciale. Se ci fossero state delle persone fuori nel corridoio, e se una per caso fosse venuta dalla sua parte mentre usciva attraverso la rampa del parcheggio, avrebbe dovuto rinunciare. Prese fiato e superò la porta. Il corridoio era vuoto. Il predatore proseguì per tutta la larghezza dell'edificio fino alla rampa del parcheggio, si fermò davanti alla porta tagliafuoco d'acciaio, tirò fuori impermeabile e cappello, li indossò e uscì. La rampa aveva un ascensore proprio, ma il predatore scese per le scale, guardando ogni rampa prima di affrontarla. Arrivato al pianterreno tenne la testa bassa e uscì sul marciapiede a un intero isolato dall'ingresso del palazzo di Hart. Attraversò la strada schivando le auto, entrò in un altro palazzo di uffici, salì un piano e
imboccò uno dei corridoi più isolati del complesso. Camminò un paio di minuti e si guardò alle spalle. Non c'era nessuno dietro di lui. Era solo. Il predatore chiamò un taxi e si fece portare direttamente da un rivenditore di auto usate in University Avenue, a un chilometro e mezzo dal suo appartamento. Esaminò la fila di macchine e scelse una Chevrolet Cavalier marrone. Sul parabrezza c'era scritto con la vernice $1.695. Lui sbirciò dentro dal finestrino del posto di guida. Il contachilometri segnava 94.651. Un venditore si avvicinò di sghembo come un granchio attraverso lo spiazzo, sfregandosi le mani quasi fossero chele. «Che gliene pare del tempo, davvero magnifico, eh?» Il predatore ignorò la mossa d'apertura. La macchina andava bene. «Sto cercando qualcosa di economico per mia moglie. Qualcosa che superi l'inverno.» «Questa fa al caso suo, ci può scommettere» ribatté il venditore. «Una bella macchinetta. Consuma un po' di olio, ma...» «Le dò 1.400 dollari e lei si accolla le tasse» propose il predatore. Il venditore lo squadrò. «Millecinque e lei si accolla le tasse.» «Millecinquecento netti» ribatté il predatore. «Millecinquecento e facciamo a metà per le tasse.» «Ha qui i titoli di proprietà?» domandò il predatore. «Certo.» «Faccia ripulire da qualcuno la scritta sul parabrezza e tolga il cartello dal finestrino laterale» disse il predatore. Mostrò al venditore un fascio di biglietti da cinquanta. «La porto via subito.» Disse loro di chiamarsi Harry Baker. Con quel fascio di biglietti da cinquanta, nessuno gli chiese i documenti. Lui firmò una dichiarazione affermando di essere assicurato. Lungo il tragitto fino al suo appartamento, il predatore si fermò in un magazzino di oggetti di recupero e acquistò un tratto di manichetta di gomma lungo sessanta centimetri, un sacchetto di lettiera per gatti, un rotolo di nastro isolante argenteo e un paio di guanti da lavoro. Passando vicino alla cassa, vide in mostra delle bombolette di gas lacrimogeno simili a quella usata da Carla Ruiz contro di lui. «Quegli affari funzionano?» chiese al commesso. «Certo. Sono una bomba.» «Me ne dia una.»
In macchina, avvolse il nastro isolante intorno a un'estremità aperta della manichetta fino a sigillarla, poi riempì il tubo di lettiera per gatti e sigillò l'altro capo. Quando ebbe finito, aveva ottenuto un manganello di gomma imbottito e leggermente flessibile lungo sessanta centimetri. Mise il manganello sotto il sedile e il nastro nel sacchetto della lettiera. E adesso, se ricordava bene dai tempi dell'università... I distributori automatici del motel erano tutti riuniti in una nicchia in disparte. Inserì le monete e ritirò la confezione singola di Kotex che si mise in tasca. Altre monete gli fruttarono due piccoli rotoli di cerotto. Gettò il sacchetto di lettiera per gatti e il nastro isolante nel cassonetto di un motel, chiuse a chiave tutto il resto nel bagagliaio della macchina e raggiunse il suo quartiere guidando in fretta ma con prudenza. Parcheggiò in una traversa a tre isolati dall'appartamento, controllando attentamente di trovarsi in un posto dove non era" vietata la sosta. L'auto sarebbe stata al sicuro per alcuni giorni. Con un po' di fortuna, e se i nervi gli reggevano, non avrebbe dovuto aspettare più di qualche ora. Lanciò un'occhiata all'orologio. Era uscito dall'ufficio di Hart un'ora e mezza prima. Se avesse voluto tentare di raggiungere il vertice dell'eleganza nel gioco, sarebbe tornato all'ufficio di Hart al quarto piano, sarebbe sceso per le scale e sarebbe uscito passando davanti all'addetta alla reception. C'era una probabilità - perfino discreta - che i poliziotti non avessero fatto domande sul posto in cui si trovava. Ma se lo avevano fatto, e sapevano che era uscito dall'ufficio di Hart, un falso ritorno li avrebbe messi sull'avviso. Avrebbero capito che sapeva. Si sarebbero mossi per prenderlo, se potevano, e lui non voleva far scattare troppo presto le trappole. D'altro canto, se fosse passato con aria innocente davanti all'ufficio al terzo piano nel frequentato corridoio centrale, proprio davanti agli occhi degli osservatori, solo con la giacca addosso, senza soprabito né cappotto... Avrebbero immaginato quasi certamente che per quanto fosse uscito, era andato a fare una passeggiata innocente. A pranzo. Sperava che la pensassero così. Il colpo dipendeva da quello. Il predatore si diresse verso un dormitorio dell'università per chiamare un taxi. 31
«Vi ha seminati?» Gli occhi di Lucas erano incupiti dalla rabbia. «Per due ore almeno» ammise il capo della sorveglianza, avvilito. Ricordava Cochrane e la rissa dopo il Fiasco. «Non sappiamo se ci sia sfuggito di proposito oppure si sia allontanato semplicemente.» «Che cosa è successo?» Erano seduti sui sedili anteriori della macchina di Lucas di fronte all'ufficio di Vullion. Il predatore era dentro, al lavoro. «È uscito esattamente come fa sempre, con la borsa portadocumenti in mano, solo che non portava né cappotto né cappello o altro.» «Niente cappotto?» «Niente cappotto, e dire che fa freddo. Be', si è fatto due isolati a piedi fino a un altro studio legale. Uno grosso. Ha una reception tutta vetri al secondo piano dello Hops Exchange.» «Sì. lo conosco. Woodley e soci.» «Proprio quello. Così mettiamo una guardia al portone e il resto si piazza al secondo piano, nel caso uscisse dal retro. Avevamo degli agenti al livello del passaggio coperto e al primo piano, per controllare le uscite da lì. Dopo un'ora e mezza all'incirca, vedendo che non usciva, abbiamo cominciato a preoccuparci. Abbiamo fatto telefonare da Carol...» «Spero che avesse una buona scusa.» «Era una mezza stronzata, ma ha funzionato bene. Così ha chiamato e ha detto che aveva un messaggio importante per il signor Vullion e ha chiesto all'addetta alla reception se poteva trovarlo. La ragazza ha chiamato qualcuno... noi guardavamo attraverso il vetro... e poi torna in linea dicendo a Carol che è uscito da parecchio. Si è fermato solo un attimo per vedere un tizio di nome Hart per cinque minuti.» «E allora dov'è andato?» «Ci sto arrivando» replicò il capo della sorveglianza, sulla difensiva. «Allora Carol dice che questo messaggio è importante e chiede da ragazza a ragazza se lo ha visto per caso uscire. Lui è tanto distratto, dice, lei sa come sono gli avvocati. L'addetta alla reception risponde che no, non lo ha visto andare via, ma ha dato per scontato che fosse uscito dal quarto piano. Si può entrare soltanto dalla reception, ma ci sono tre piani, e si può uscire da uno qualsiasi. Hanno un ascensore interno, e noi non lo sapevamo.» «Lui poteva saperlo» disse Lucas. «Probabilmente lo sapeva. Lo ha fatto di proposito? Lei crede che vi abbia individuato?» «Credo di no. Ho parlato agli uomini, pensano tutti che sia pulito.» «Cristo, che casino» esclamò Lucas. «Pensa che dovremmo fermarlo?»
«Non so. Come lo avete ripreso?» «Be', stavamo dando fuori di matto e io parlavo con tutti per vedere se c'era qualcosa, anche una minima traccia. Ed eccolo che arriva, in carne e ossa, proprio dal passaggio centrale. Ha la sua brava borsa e una copia del Wall Street Journal arrotolata sotto il braccio e fila via davanti all'uomo appostato nel passaggio come se avesse fretta.» «È tornato direttamente in ufficio?» «Difilato.» «E allora che ne pensa?» Il capo della sorveglianza si mordicchiò il labbro e rifletté sul problema. «Non so» rispose alla fine. «Il punto è che se avesse cercato deliberatamente di seminarci, avrebbe potuto uscire dalla rampa del parcheggio al quarto piano. Ma l'altro punto...» «Sì?» lo sollecitò Lucas. «Detesto ammetterlo, ma potrebbe essere sfuggito all'uomo di guardia nel passaggio. In modo del tutto innocente. Avevamo molti punti da bloccare, per evitare che ci sfuggisse in un modo o nell'altro. Avevamo un uomo nel passaggio, che sorvegliava tanto gli ascensori quanto le scale. Se gli ascensori si sono aperti al momento giusto e il nostro uomo li ha guardati, e Vullion è schizzato fuori dalle scale proprio in quel momento e ha imboccato la direzione opposta...» «Avrebbe potuto sfuggire?» «Avrebbe potuto. Anche senza sapere che eravamo là.» «Cristo. Quindi non sappiamo» concluse Lucas. Alzò lo sguardo verso la finestra dell'ufficio di Vullion, schermata da veneziane. Le luci erano ancora accese. «Secondo me...» «Cosa?» incalzò Lucas. «C'è una quantità di ristorantini discreti dalla parte da cui proveniva quando lo abbiamo ripreso. E lui teneva quel giornale tutto arrotolato, come se lo avesse già guardato. Non ci giurerei in tribunale, ma penso che potrebbe essere andato semplicemente a pranzo. Non aveva ancora mangiato.» «Umf.» «Allora? Che si fa?» Lucas si ravviò i capelli con le dita e pensò al Fiasco. Non avrebbe dovuto influenzarlo, lo sapeva, eppure era così. «Lasciatelo stare» decise Lucas. «Spero soltanto che non salti fuori nes-
sun cadavere sotto il bancone di un negozio del sottopassaggio.» «Bene» rispose il capo della sorveglianza, sollevato. Se avessero dovuto prendere Vullion perché la sorveglianza era fallita, in febbraio qualcuno sarebbe finito a lavorare alla rimozione auto. Il gioco era finito; la serata finale era stata dedicata alla discussione, non al gioco. Era stato giudicato un grande successo. Forse si potevano auspicare dei piccoli ritocchi... Lee era stato circondato dalle truppe fresche di Meade, trincerate lungo Pipe Creek. Anche Meade aveva subito gravi perdite. I tre giorni di combattimenti erano stati confusi e cruenti come le battaglie di Wilderness o di Shiloh. La sorte peggiore era toccata a Pickett: la sua divisione, la prima entrata a Gettysburg, aveva mantenuto il terreno elevato a sud della città. Durante l'inseguimento delle forze dell'Unione che si ritiravano verso Washington, la divisione di Pickett era stata l'ultima nel ruolino di marcia. Il giorno decisivo, a Pipe Creek, Lee aveva gettato al centro dello schieramento la divisione relativamente fresca di Pickett. E là era stata decimata. L'Unione aveva mantenuto le posizioni e i Confederati erano inclini a una ritirata frettolosa attraverso il Potomac. La marea sudista stava scemando. «Qualcosa è cambiato» disse Elle a Lucas. Stavano in piedi vicino all'uscita, lontano dagli altri. Elle parlava a voce bassa. Lucas annuì, abbassando la voce per adeguarsi a lei. «Crediamo di sapere chi è. Forse sono state semplicemente le tue preghiere: un dono del cielo. Un incidente. Fato. Chissà?» «Perché non lo avete arrestato?» Lucas scrollò le spalle. «Sappiamo chi è, ma non possiamo dimostrarlo. Non completamente. Aspettiamo che faccia una mossa.» «È un uomo intelligente?» «Veramente non lo so.» Lanciò un'occhiata alla stanza, abbassò la voce di un'altra nota. «Un avvocato.» «Fa' attenzione» gli raccomandò Elle. «Stai saltando alle conclusioni. Lui ha fatto un gioco, e se è un vero giocatore sono certa che lo sente anche lui. Potrebbe andare in cerca di un coup de maître.» «Non vedo come gli sia possibile. Lo stritoleremo semplicemente.» «Può darsi» disse lei, sfiorandogli la manica della giacca. «Ma ricorda, la sua idea di vittoria può non essere lo sfuggire ai poliziotti. È avvocato; forse si vede già vincere in tribunale. Allontanarsi dal banco dei testimoni con l'impunità garantita da un patteggiamento. È una posizione molto dif-
ficile, da una parte e dall'altra.» Lucas lasciò il St. Anne alle otto di sera, tornò a casa guidando in modo spericolato, accese il word processor, sedette nel cerchio di luce della lampada e tentò di apportare i tocchi finali alla sceneggiatura di Everwhen. La prosa di apertura doveva essere sontuosa, doveva lasciar intravedere vergini pettorute dalle natiche generose, duelli di spada in buie gallerie, lunghe peripezie e gagliardi amici per la pelle. Tutto ciò che un patito di computer quindicenne dei sobborghi non ha e che desidera ardentemente. E doveva ottenere tutto questo evitando scrupolosamente la pornografia o qualsiasi altra cosa che offendesse la madre del ragazzo. Lucas non si sentiva in vena. Sospirò e spense il computer, gettò il dischetto per la videoscrittura nel classificatore del software, e andò in biblioteca per sedersi al buio a riflettere. Quel vuoto di due ore lo preoccupava. Poteva essere stato un caso. Ma se il predatore si era dileguato di proposito, per quale motivo lo aveva fatto? Dov'era andato? Come e quando aveva individuato i pedinatori? Non era uscito per uccidere: non aveva il necessario, a meno che non se lo portasse in giro nella borsa portadocumenti, e non era tanto stupido. Anche la visita dall'antiquario del giorno prima era preoccupante. Era vero, il predatore si era fermato prima al negozio di computer per acquistare una scatola di carta. Ma Lucas ricordava di aver visto una confezione piena a metà sotto la stampante. Non ne aveva davvero bisogno. Non al punto da fare un viaggio apposta per comprarla. Poi era entrato nella bottega di antichità e uno degli osservatori, che era passato sul marciapiede di fronte, aveva visto la proprietaria prendere l'esca artificiale dalla vetrina. L'informazione era stata confermata dopo che il predatore era uscito, quando Sloan era stato mandato dentro per far parlare la donna. Un'esca artificiale antica. Perché? L'appartamento del predatore era praticamente spoglio di ornamenti, quindi Lucas non poteva credere che lo avesse comprata per sé. Un regalo? Ma per chi? Per quanto risultava, non aveva amici. Non faceva telefonate, se non di lavoro, e non riceveva nessuno in casa. La sua corrispondenza consisteva in fatture e volantini pubblicitari. A che serviva l'esca? Seduto al buio, a occhi chiusi, lui rigirava il problema nella mente, lo manipolava come un cubo di Rubik, e si ritrovava sempre con i lati spaiati. Non serviva a niente starsene lì, pensò. Guardò l'orologio. Le nove. Si
alzò, infilò una giacca e uscì diretto alla macchina. Ormai le notti stavano diventando molto fredde, e il vento sul viso risvegliò il ricordo dello sci. Era tempo di mettere a punto gli sci da discesa e di levigare e sciolinare quelli da fondo. Era sempre stufo dell'inverno, quando finiva, ma l'inizio gli piaceva abbastanza. L'appartamento del predatore distava meno di dieci chilometri dalla casa di Lucas. Si fermò a un'edicola per comprare Powder e Skiing, due riviste di sci. «Niente» riferì l'agente di sorveglianza quando lui arrivò in cima alle scale. «Guarda la televisione.» Lucas sbirciò dalla finestra l'appartamento del predatore. Non riusciva a vedere altro che il riverbero bluastro di un televisore attraverso le tende del soggiorno. «Muoviti, merdoso» mormorò. 32 Il predatore s'impose di cenare, di rigovernare. Tutto come al solito. Alle sette accese il televisore. Le tende erano tutte tirate. Si guardò attorno. Adesso o mai più. Il predatore non aveva mai avuto molta dimestichezza con gli attrezzi, ma quello non sarebbe stato un lavoro sofisticato. Prese dal laboratorio un cacciavite a impugnatura lunga, un martello da falegname, un paio di pinze e una lanterna elettrica, e li portò di sopra. In camera da letto s'infilò due paia di calzettoni pesanti per attutire il suono dei passi. Quando fu pronto, abbassò la scala della soffitta. La soffitta era poco più di un'intercapedine sotto il tetto di tegole, suddivisa fra i quattro appartamenti con sottili tramezzi di compensato. Dato che il materiale termoisolante rivestiva solo il pavimento della soffitta e che il locale stesso non era riscaldato, era gelida, e adatta a riporre soltanto articoli che non avrebbero risentito del rigido inverno del Minnesota. Il predatore ci aveva messo piede soltanto due volte, prima di allora: una volta quando aveva preso in affitto l'appartamento, e poi quando aveva ideato il colpo, per esaminare i tramezzi di compensato. Ciabattando in silenzio sul pavimento della soffitta, il predatore si diresse verso il tramezzo che la separava da quella dell'appartamento vicino, che dava sulla strada. I pannelli divisori di compensato fra la sua parte della soffitta e quella adiacente erano stati fissati con chiodi inseriti dalla sua parte. Il lavoro era malfatto, e lui riuscì a inserire la punta del cacciavite
sotto il bordo del pannello e a staccarlo piano. Impiegò venti minuti per allentare il pannello quanto bastava per estrarre i chiodi con il martello da falegname e le pinze. Anche in quel caso il lavoro era stato negligente: per fissare il pannello non avevano usato più di una dozzina di chiodi. Quando il pannello fu staccato, lo scostò quanto bastava per poter sgusciare nella parte opposta della soffitta. Era vuota quasi quanto la sua, a parte alcune scatole di puzzles accatastate vicino alla scala pieghevole. A quel punto il silenzio era essenziale, e lui se la prese comoda col lavoro successivo. Aveva tempo in abbondanza, pensò. Non si sarebbe mosso finché le spie della polizia non avessero creduto che era a letto. Lavorando in silenzio e con ostinazione alla luce della lampada elettrica, smontò i pannelli di compensato fra la soffitta del vicino e quella della donna che abitava nell'appartamento situato nell'angolo opposto rispetto al suo. Era quella la sua meta. La proprietaria era un'infermiera diplomata, divorziata da poco, e da quando si era trasferita nell'appartamento lavorava nel turno di notte al centro traumatologico del Saint Paul Ramsey Medical Center. Lui aveva chiamato l'ospedale dall'ufficio, chiedendo di lei, e gli avevano risposto che sarebbe entrata in servizio alle undici di sera. Ci volle mezz'ora di lavoro al freddo per introdursi nel suo spicchio di soffitta. Quando ebbe libero accesso, rimise a posto i pannelli accostandoli senza fare rumore, in modo che un'ispezione casuale non rivelasse i chiodi mancanti. Scese di soppiatto la scala fino alla sua camera da letto, lasciando torcia, attrezzi e chiodi in cima alle scale. Al ritorno avrebbe inserito di nuovo i chiodi nei fori esistenti meglio che poteva. L'indomani mattina, mentre i vicini erano al lavoro, e prima che fosse ritrovata l'ultima vittima del predatore, sarebbe tornato per inchiodarli al loro posto col martello. Ridisceso al piano inferiore, meditò di fare una rapida uscita fino al vicino supermercato. Una passeggiata. Poteva essere una provocazione superflua, ma lui non lo credeva. Spense il televisore, si mise la giacca, controllò il portafogli e uscì dalla porta principale. Tentò di tirare in lungo il percorso di due isolati, mostrando di non avere fretta. Attraversò il parcheggio asfaltato del supermercato, entrò, comprò dei dolci, fiocchi di cereali, un cartoncino di latte e una copia di Penthouse. Uscito, addentò un biscotto, assaporando il ripieno alla ciliegia che gli sprizzò in bocca, e si diresse verso casa con tutta calma. Così poteva bastare. Li avrebbe preparati psicologicamente all'idea che sarebbe rimasto in casa per il resto della serata. Attraversò il portico, entrò in casa, chiuse la porta a chiave, ripose i cereali e il latte e accese il televi-
sore per guardare la partita di football. Era appena cominciata. Cowboys contro Giants. Guardò il primo tempo, fissando lo schermo senza vedere, senza interessarsi molto a quello che accadeva; interessandosi ancor meno quando i Giants cominciarono a dominare la partita. Arrivato a metà, inserì nel videoregistratore il nastro di Davenport e guardò l'intervista. Davenport, il giocatore. Carla Ruiz, un tempo Prescelta e poi ripudiata. La passò di nuovo e poi spense e fece deliberatamente il giro dell'appartamento. In cucina. Guardare nel cassetto dell'argenteria. Aprire il frigorifero, bere il latte, mettere il bicchiere sullo scolapiatti. Le dieci e tre quarti. Sollevare il ricevitore, telefonare all'infermiera. Venti squilli. Trenta squilli. Quaranta. Cinquanta. Fu tentato di chiamare l'ospedale e chiedere di lei, ma era meglio di no. Il telefono poteva essere sorvegliato. Un rischio, ma avrebbe dovuto correrlo. Spense le luci e salì al primo piano, dove si spogliò, lasciò cadere i vestiti sul pavimento e cominciò a rivestirsi. Golf scuro a collo alto. Jeans. Nike Air, con i lacci uniti e legati alla caviglia. Giacca a vento nuova, blu scuro con uno zigzag turchese sul petto. Guanti. Berretto a visiera. Spense la luce in camera da letto. Uscì nel corridoio e salì la scala della soffitta a piedi scalzi, orientandosi nel buio con una mano appoggiata alla parete. In cima alle scale trovò l'interruttore della luce, lo accese e s'introdusse nel quadrante opposto della soffitta, e poi nel settore dell'infermiera. Abbassò la scala della soffitta, aprendo la botola di uno spiraglio appena, e si mise in ascolto. Non un suono. Niente luci. L'appartamento della donna era una copia speculare del suo. Controllò per prima la camera da letto, facendo lampeggiare la torcia attraverso la porta aperta. Il letto era rifatto ordinatamente e vuoto. Scese in cucina, vide il telefono, si fermò e pensò: "Perché no?" Controllò l'elenco del telefono, chiamò l'ospedale e chiese di lei. «Sylvia.» Lui attaccò, facendo scattare il gancio in fretta, come se fosse caduta la linea. Lei era all'ospedale. Passò attraverso la cucina nella lavanderia e socchiuse la porta del garage. Vuoto. Visto il panorama - la siepe che recintava il lotto sul retro - avrebbe dovuto poter aprire la porta di un palmo e più senza essere visto. Controllò che la porta del garage non fosse chiusa a chiave e la sollevò con estrema lentezza. Quando fu a un palmo da terra, uscì scivolando sulla schiena. Era una notte buia, nuvolosa, e lui rimase disteso per un attimo sulla so-
glia, facendo appello al suo coraggio. Quando ebbe ripreso il controllo di sé, abbassò quasi del tutto la porta, lasciando aperto appena uno spiraglio. Al ritorno sarebbe stato più facile sollevarla. Ora veniva il difficile, pensò. Avanzando carponi, si diresse verso la base della siepe e la seguì fino al marciapiede. Guardò in su e in giù. Le case circostanti erano tutte occupate da famiglie. Le due case occupate dalla sorveglianza, che coprivano i lati del suo appartamento, erano ormai alle sue spalle. L'unico problema era l'eventuale presenza di auto in appoggio sulla strada, invisibili dal suo appartamento. Non avrebbe avuto molto senso, dal punto di vista della polizia, disporre gli uomini in posizioni da cui non potevano vedere l'appartamento del bersaglio, ma chi poteva sapere cosa combinavano? Facendosi forza, tentò la sua mossa. Uscì sul marciapiede e s'incamminò, con la testa ciondoloni, allontanandosi da casa sua. Tentava di non darlo a vedere, ma controllava le auto in sosta. Nessuno. Se c'erano auto di sorveglianza, dovevano essere ai lati. Era improbabile che fossero parcheggiate dietro, verso l'interstatale; da quella parte non c'erano uscite. Percorse tre isolati per raggiungere la macchina. Aprì lo sportello, salì a bordo e fece un esame della situazione. Se li era scrollati di dosso, ne era certo. Lo sentiva. Restò seduto per un attimo, captando l'atmosfera intorno a sé, dilatandosi nella notte. Era libero. Accese i fari, avviò il motore e partì. Aveva riflettuto su quel momento, e non aveva ancora deciso. Lo fece allora. Davenport guidava una Porsche, dicevano i giornali. L'avrebbe parcheggiata davanti a uno delle postazioni di sorveglianza? Ammesso che esistessero postazioni di sorveglianza. Imboccò la strada parallela alla sua, passando vicino alla casa di cui sospettava. Due auto, anonime berline Ford. Del tipo che potevano guidare dei poliziotti. E l'altra casa? Svoltò a sinistra, due isolati, investendo in pieno con i fari una macchina che sopraggiungeva. Una Porsche, per l'appunto. Intravide per un attimo il viso di Davenport mentre abbordava la curva. Il predatore rallentò, fece un'inversione a U e tornò indietro. L'auto di Davenport si era fermata davanti al secondo posto di osservazione. Luì stava scendendo con una scatola bianca rettangolare... Una pizza. Una pizza. Era la risposta al secondo problema. Lui non aveva deciso in che modo introdursi nell'appartamento della Ruiz. Aveva pensato di tirare l'allarme antincendio. L'avrebbe colpita mentre lei usciva sul pianerottolo. Ma appena il custode avesse scoperto che era un falso allarme, avrebbe potuto
controllare tutti gli occupanti dell'edificio per vedere se qualcuno aveva problemi. E c'era la possibilità che qualcun altro uscisse sul pianerottolo prima della Ruiz. Aveva pensato di imitare la voce di Lucas - ma se la porta aveva la catena e lei sbirciava fuori e si trovava davanti uno sconosciuto? Avrebbe capito. Ma una pizza... Si fermò a comprare una pizza, aspettando con impazienza mentre il pizzaiolo indolente lavorava l'impasto, lo lanciava in aria, lo spianava e lo infilava nel forno. La cottura richiese altri dieci minuti. Il predatore guardò l'orologio. Doveva sbrigarsi. Il custode di solito chiudeva il portone del magazzino della Ruiz a mezzanotte. Impiegò altri dieci minuti per raggiungere il vecchio e basso magazzino di Saint Paul; lo scorse già dall'interstatale, mentre imboccava la rampa d'uscita. Parcheggiò vicino all'ingresso principale e prese dal bagagliaio la sua attrezzatura: il tubo pieno di lettiera per gatti, la bomboletta di Mace, il rotolo di cerotto, i guanti da lavoro. Finì tutto nelle sue tasche, tranne il tubo. Entrò dal portone e salì le scale; il custode, che aveva anche il compito di azionare l'ascensore, di solito se ne stava vicino alla porta dell'ascensore, dove poteva ascoltare la radio portatile. I primi due piani erano silenziosi. Al secondo qualcuno ascoltava la radio, e una risatina sommessa filtrava giù per i corridoi di cemento. Il terzo piano era tranquillo, e così pure il quarto. La quinta porta. Una luce al di sotto. Lui tirò un sospiro di sollievo. Era in casa. Si era preparato a rinunciare, a ritentare, se fosse stato necessario. Ma non sarebbe stato così. Il colpo sarebbe stato messo a segno. S'infilò i guanti gialli di cotone, prese fiato, espirò, bussò alla porta e disse: «Pizza.» Lei non lo aveva mai visto in faccia. Sentì i suoi passi avvicinarsi alla porta. «Non ho ordinato nessuna pizza» disse dalla parte opposta della porta. «Be', io ho un'ordinazione per questo studio da parte di Lucas Davenport. Dovrei avvertire che il vino è in viaggio, se non è già arrivato.» Ci fu un attimo di silenzio, poi un sommesso: «Oh no.» Cosa? Cosa non andava? Il predatore s'irrigidì, pronto a fuggire, ma la porta si aprì. C'era la catena. La Ruiz sembrava sola. Sbirciò fuori, vide la scatola. «Un minuto solo» disse con una nota di rassegnazione nella voce. C'era sotto qualcosa che lui non riusciva a capire. La donna richiuse la porta e
lui sentì sganciare la catena. Teneva la pizza in equilibrio sulla mano che impugnava il tubo. Nell'altra aveva il Mace. La Ruiz aprì la porta, senza nessuno alle spalle. Il predatore le mise bruscamente in mano la pizza e fece un passo avanti. Lei indietreggiò guardandolo, sorpresa che la pizza fosse stata consegnata con tanto malgarbo, vide i guanti e allora, in un lampo, capì, ma la bomboletta era già sollevata e lui la investì con lo spruzzo sulla bocca e sugli occhi e lei lasciò cadere la pizza e tentò di proteggersi il viso, tossì e arretrò barcollando. Il predatore la incalzò spingendola nell'appartamento e vibrò un colpo col tubo. Lei aveva un braccio sollevato e lo parò. Assalita da conati di vomito, si voltò a metà, barcollando, verso uno scaffale di libri con la mano protesa, e il predatore si fermò appena un attimo per chiudere la porta con un calcio, poi attaccò. Lei tastava lo scaffale, ancora accecata, cercando freneticamente qualcosa, ma il predatore era già su di lei e lei serrò una mano intorno a una piccola pistola cromata e lui la colpì col tubo e lei cadde a terra continuando a stringere l'arma, ma lui, con una vista acuta e limpida e pura come acqua di fonte, vide che la teneva solo per il calcio, che non aveva le dita infilate nel ponticello del grilletto, e perse appena una frazione di secondo prima di assestare il colpo, e la prese di nuovo alla nuca, e poi ancora, rimbalzando sulle spalle, e ancora in piena faccia... lei smise di muoversi, si rannicchiò in posizione fetale. Il predatore, ansimando, lasciò cadere il tubo e si gettò sulla donna come una tigre su una capra impastoiata. Tirandole la testa all'indietro, le ficcò in bocca il Kotex, le passò il cerotto intorno alla testa. Era stordita e non opponeva resistenza. Lui ebbe per un attimo paura di averla uccisa e pensò, assurdamente: "Questa non è una Prescelta, stavolta è una missione, non fa differenza quando muore..." La pistola era finita sul pavimento e lui la spinse lontano, si alzò, l'afferrò per il colletto della camicia e la trascinò in camera da letto, dove usò il cerotto per legarla al letto. Indossava una camicia da uomo di flanella e lui gliela aprì con uno strappo, facendo schizzar via un bottone che tintinnò contro la parete, nitido all'orecchio straordinariamente sensibile del predatore, ormai travolto dalla marea dell'eccitazione sensoriale. Afferrò di lato il reggiseno e tirò il fermaglio dietro, spezzandolo e strappando le spalline. Le slacciò i jeans, glieli abbassò fin sulle gambe. Lacerò gli slip all'altezza del pube e li tirò su fino all'ombelico... Si raddrizzò, osservò la prigioniera. Andava benissimo. Non era una Prescelta, ma poteva essere divertente. Si protese per sfregarle il ciuffo di
peli sul pube. «Resta qui con me» disse con sarcasmo. «Mi servirà qualcosa di appuntito per continuare.» 33 «È andato a letto?» domandò Lucas. «Sì» rispose il primo agente di sorveglianza, quello alto. «Merda.» Lucas alzò gli occhi al soffitto, rimuginando. Forse li aveva individuati. «Deve muoversi presto. Deve.» «Per il momento è il mio stomaco che si muove» disse il secondo agente. «Ho bisogno di mangiare qualcosa.» «Ancora tre ore» replicò il primo. «Cristo.» Il secondo agente guardò Lucas. «Allora, che hai intenzione di fare?» Lucas era steso sul materasso della squadra di sorveglianza, e leggeva la copia di Powder. «Uh...» «Immagino che non vuoi una pizza, vero?» «Come no.» Lucas si alzò in piedi. «C'è un locale vicino all'università. Niente male» disse il poliziotto affamato. «Telefono, così sarà pronta quando arrivi.» «Hai la radiotrasmittente?» chiese il primo poliziotto. «Sì.» «Se succede qualcosa, urlo.» Quando arrivò, la pizza non era pronta, ma gliela consegnarono cinque minuti dopo. La portò alla macchina e tornò indietro, lasciando correre un po' la Porsche, sfiorando pericolosamente una macchina che sopraggiungeva quando imboccò la strada che portava al posto di sorveglianza. "Non me lo posso permettere" pensò, mentre i fari dell'altra auto lo investivano. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era una scazzottata con qualche bifolco di un altro Stato che non amava vedersi tagliare la strada. Portò di corsa la pizza bollente su per tre rampe di scale fino al posto di osservazione all'ultimo piano. «Niente» riferì il primo poliziotto. «Tranquillo come un topolino» confermò quello affamato. Sollevò il coperchio della scatola di pizza. «Se ci sono le acciughe, sei un uomo mor-
to.» Lucas prese un trancio di pizza e tornò alla sua rivista. «La lampada notturna si dev'essere fulminata» osservò poco dopo il primo agente. «Mmm?» «Niente lampada notturna, stasera.» Lucas raggiunse strisciando la finestra e guardò fuori. La finestra della stanza da letto del predatore era un piatto rettangolo nero. Non un baluginio di luce. Era strano, pensò Lucas. Se un tizio dormiva con l'abat-jour, di solito ne aveva bisogno... «Porca troia» disse, girandosi e sedendo con la schiena contro la parete e le ginocchia piegate davanti a sé. «Che c'è?» «Non so.» Voltò la testa e guardò in direzione del davanzale. «Mi dà i brividi. Non va bene.» «È solo una stupida lampada» replicò il poliziotto affamato mentre finiva la pizza e si leccava le dita. «Non va bene» ripeté Lucas. Fiutava qualcosa di strano. Lo sorvegliavano ormai da quasi due settimane, e teneva la luce accesa tutte le notti. Ma non esistevano altre vie di uscita dalla casa. A meno che non avesse aperto un foro nelle pareti. La soffitta, pensò. Quella soffitta di merda. Lucas strisciò fino al telefono. «Qual è il suo numero?» chiese al primo agente, facendo schioccare le dita. «Cristo, intendi...» «Dammi quel cazzo di numero» scattò Lucas, con voce fredda. Il primo poliziotto lanciò un'occhiata al collega non più affamato, che scrollò le spalle, cavò di tasca un'agendina e lesse il numero. Lucas lo compose. «Se risponde, abbiamo semplicemente sbagliato numero» disse, guardando gli altri. «Chiederò di Louise.» Il telefono del predatore squillò. Quindici volte. Trenta. Cinquanta. Nessuna luce alla finestra. Niente. «Figlio di puttana» mormorò il primo agente. «Ridammi il numero. Forse ho sbagliato» disse Lucas. Il poliziotto gli lesse il numero e lui lo compose di nuovo. «Sicuro che sia giusto?» «È giusto» rispose il poliziotto. Il telefono squillò. E squillò. Nessuna risposta. «Lasciatelo squillare» ordinò Lucas, correndo verso la porta. «Io vado
laggiù.» «Dio Cristo...» Lucas uscì sbattendo la porta dall'ingresso principale della casa, attraversò di corsa la strada fino al portico del predatore. Sentiva squillare il telefono e premette il pulsante del campanello e lo tenne schiacciato. Cinque secondi, dieci. Nessuna luce. Con uno strappo aprì la porta a rete e provò quella interna. Chiusa a chiave. Non c'era tempo per le finezze. Indietreggiò di un passo e sferrò un calcio con tutte le sue forze sulla serratura della porta, spalancandola. Una volta dentro, corse ai piedi delle scale. «Vullion?» Aveva con sé la P7 Heckler & Koch, e la tenne in pugno mentre saliva le scale. «Vullion?» Nel soggiorno si accese una luce, e Lucas girò di scatto la testa e vide il primo agente di sorveglianza che lo seguiva con la pistola spianata. Lucas proseguì fino in cima e vide la scaletta della soffitta. Era abbassata nel corridoio. «Quel figlio di puttana se n'è andato» urlò all'agente dietro di lui. «Stacca quel telefono, per favore.» Lucas controllò la camera da letto, poi salì la scala fino alla soffitta. I tramezzi che separavano i settori della soffitta erano allentati. Il telefono smise di squillare mentre Lucas scendeva a ritroso la scaletta. «È passato dalla soffitta per entrare in uno degli altri appartamenti e uscire da quella via» gridò al poliziotto. «Fa' scendere tutti in strada, cercate un uomo a piedi. Arrestatelo. Possiamo incriminarlo per effrazione, se non altro.» L'agente di sorveglianza uscì correndo dalla porta principale. Lucas attraversò il soggiorno, si girò e lo guardò. Niente. Non un indizio. Socchiuse gli occhi e risalì in camera da letto, infilò la mano sotto il materasso. Poi cercò in giro. Le fotografie erano sparite. Ridiscese e si diresse verso il telefono. "Chiama Daniel" si disse. "Fa' venire qui dei rinforzi." Mentre sollevava il ricevitore, il suo sguardo fu attirato dalla minuscola spia rossa rettangolare sul videoregistratore. Vullion aveva guardato una cassetta. Lucas mollò il telefono, accese il televisore, fece scorrere di poco il nastro all'indietro e premette il pulsante di avvio. Carla. Lucas alzò la testa, con lo sguardo improvvisamente vacuo. L'intervista. Carla. Corse, soppesando le possibilità con la mente e facendo già con il corpo
quello che la mente avrebbe deciso alla fine. Vullion voleva aggredire Carla. Non avrebbe preso un autobus, quindi doveva essersi procurato in qualche modo un mezzo di trasporto. Lucas aveva una ricetrasmittente. Poteva chiamare la polizia di Saint Paul e far arrivare qualcuno nell'appartamento di Carla nel giro di tre o quattro minuti. Era quanto ci sarebbe voluto ai colleghi per capire quello che lui stava dicendo, per organizzarsi e raggiungere il magazzino di Carla. Ma lui era a soli dieci chilometri. Tutti sull'interstatale. La Porsche poteva farcela in cinque minuti, sei al massimo. Quei minuti in più avrebbero significato la morte per lei? In caso contrario, poteva tentare il colpo. 34 Lucas si tuffò a bordo della Porsche, mise in moto e schiacciò l'acceleratore, affrontò la prima curva sbandando, raggiunse la seconda a 70 chilometri l'ora, frenò per imboccare la rampa dell'interstatale. Una Honda Civic lo precedeva sulla rampa e Lucas finì con due ruote sull'erba e superò la Honda a 110, lasciandosi dietro il viso atterrito dell'altro automobilista, simile a una mezza luna. All'uscita dalla rampa aveva raggiunto i 135 e premette l'acceleratore a tavoletta, col tachimetro che saliva senza esitazioni oltre la tacca dei 160, dei 170, dei 180. Rimase inchiodato lì, mentre lui superava sfrecciando le altre auto sulla superstrada e le uscite sfrecciavano via regolari come battiti cardiaci. Due minuti. Lexington Avenue. Tre minuti. Dale. Tre minuti, venti secondi, imboccando l'uscita di Tenth Street, scalando le marce, incuneando la macchina nello svincolo, con i magazzini che gli si profilavano di fronte. Arrestò di colpo la macchina lungo il marciapiede, prese dietro il sedile la borsa da ginnastica con la pistola munita di silenziatore e corse verso l'ingresso di servizio dell'edificio. Mentre si avvicinava, comparve il custode con le chiavi in mano. «No» gridò Lucas, e il custode si fermò. Lucas frugò nel taschino della camicia, trovò il distintivo e glielo fece balenare davanti mentre spalancava la porta. «Tu resta qui» disse al custode, che rimase fermo a bocca aperta. «Stanno arrivando dei poliziotti di Saint Paul, e devi portarli su in ascensore. Tu aspetti qui, capito?» Il custode annuì. «Aspetto qui» ripeté. «Bene.» Lucas gli diede una pacca sulla spalla e sfrecciò su per le scale.
La porta di Carla aveva delle serrature migliori, pensò ansimando mentre saliva gli ultimi gradini, ma era pur sempre una porta schifosa. Comunque non era il momento di pensarci. Cristo, se il predatore non c'era, sarebbe stato imbarazzante. Si precipitò verso la porta, vide la luce filtrare di sotto. Lasciò cadere a terra la borsa da ginnastica, fece un passo indietro e colpì la porta con un calcio. Fu catapultato nella stanza, con la pistola impugnata a due mani. Lo studio era vuoto. 34 Si sentì un suono sommesso sulla sinistra, come un gatto che saltasse giù da uno scaffale di libri. Ma non era un gatto. Lucas piroettò su se stesso e puntò la pistola. C'era una stanzetta buia, cavernosa. Un gemito. Fece un passo avanti. Non riusciva a vedere. Avanzò, ancora non riusciva a vedere. Un altro passo, a un metro dalla porta. Una sagoma bianca, legata, inarcata, sul letto, un altro gemito, poi niente... Un altro passo, e di colpo Vullion era lì, gli occhi tondi e sgranati simili a uova sode, le mani ricoperte da guanti di un giallo lanuginoso, una specie di tubo in una mano, sollevato per sferrare un colpo, e Lucas spostò la pistola di quegli otto centimetri che gli servivano per sparare e il tubo lo colpì con violenza sul dorso della mano e l'arma finì sul pavimento. Lucas sentì le ossa della mano destra spezzarsi e scostò il tubo con la sinistra, mentre l'altra mano di Vullion si alzava in un lungo arco e il coltello scintillava come una spada corta puntando verso le viscere di Lucas. Lui girò su se stesso e parò il colpo con la mano fratturata e sentì la mano piegarsi e urlò, ma la lama lo sfiorò senza danni, passando sotto l'ascella, e lui afferrò con la sinistra la mano di Vullion che impugnava il coltello e piantò il gomito destro nell'orbita di Vullion. L'impatto lo fece arretrare, e barcollarono insieme all'indietro nella minuscola stanza da letto e le gambe di Vullion si piegarono quando urtò il letto e caddero insieme sopra Carla, e Lucas colpì Vullion al viso con l'avambraccio una, due, tre volte, mentre il dolore della mano rotta gli saettava nel cervello. E poi Vullion si fermò. Allora Lucas gli torse il braccio con il coltello, e la lama cadde sul pavimento. Vullion era stordito, non svenuto. Lucas lo colpì due volte con la sinistra, schiaffeggiandolo sull'orecchio, poi lo fece rotolare giù dal corpo di Carla nello spazio stretto fra il letto e la parete e s'inginocchiò sopra la testa e le spalle dell'altro.
«Figlio di puttana» gemette. Il respiro suonava ansimante e irregolare alle sue stesse orecchie. Infilò goffamente in tasca la mano sana e tirò fuori il portachiavi. Dall'anello penzolava un coltellino Tekna. Estrasse il coltello dal fodero di plastica e fece scivolare dolcemente la lama sotto il cerotto che circondava la testa di Carla, tenendo a posto il bavaglio. Quando le tolse di bocca il Kotex, lei ansimò e poi uggiolò, con un verso animalesco, come quello di un coniglio. Era viva. «Mi fa male» gemette Vullion sotto le ginocchia di Lucas. «Sono ferito.» «Zitto, figlio di puttana» ribatté Lucas. Lo colpì sulla testa con il pugno sinistro serrato e Vullion fremette e si lamentò ancora. Lucas si protese in avanti per tagliare il cerotto che legava al letto le braccia di Carla, poi le liberò le gambe. «Sono io, Lucas» le disse all'orecchio. «Ti rimetterai. Sta arrivando l'ambulanza, tu resta qui.» Si sollevò dal letto, afferrò Vullion per il dorso della camicia e lo sollevò di peso dal pavimento, per metà trascinandolo, per metà guidandolo nello studio. La pistola di Lucas era ancora contro la parete. Con un calcio fece perdere l'equilibrio a Vullion, e mentre cadeva gli sostenne la parte superiore del corpo fino al pavimento, proteggendo la testa. Non lo voleva incosciente. Vullion si accasciò come un pupazzo di stracci. Mentre era a terra, Lucas raccolse la pistola e tornò in fretta nell'ingresso, prese la borsa da ginnastica e la portò dentro. Chiuse la porta col piede. Vullion, disteso prono, si portò le mani agli orecchi. «Alzati» ordinò Lucas a Vullion. Il predatore non reagì, e Lucas gli sferrò un calcio all'anca. «Alzati. Avanti, in piedi.» Vullion si sforzò di alzarsi, ricadde sullo stomaco, poi si sollevò su un ginocchio. Il sangue gli scorreva dal naso nella bocca. La pupilla di un occhio era dilatata. L'altro occhio era chiuso, con la palpebra e la carne intorno all'orbita gonfie e sanguinolente. «In piedi, stronzo, o giuro su Cristo che ti ammazzo a calci.» Vullion lo guardava come meglio poteva, ancora stordito. Con una spinta esausta si mise in piedi e vacillò. «Ora indietreggia. Di cinque passi.» Lucas ficcò la pistola nel torace di Vullion. Lui arretrò con cautela, ma dava l'impressione di riprendersi. «Ora fermo lì» ordinò Lucas, avvicinandosi al telefono. «Sapevo della sorveglianza» disse Vullion con l'aria che sibilava tra i denti spezzati.
«L'ho capito dieci minuti fa» ribatté Lucas. Accennò un gesto con la sinistra. «Ha la mano rotta?» «Silenzio» esclamò Lucas. Sollevò il ricevitore. «Mi ha attirato qui di proposito? Con la sua amica? Come aveva fatto con la McGowan?» «Stavolta no. Annie McGowan è stata davvero un'esca, però» rispose Lucas. «Lei è peggiore di me, sotto certi aspetti» disse Vullion. Il sangue gli sgocciolò sul mento. Barcollò di nuovo e si appoggiò al lavello di Carla per tenersi in equilibrio. «Io prendevo persone che erano... Pedine. Lei ha intrappolato un'amica. Se io avessi un'amica, non lo farei mai.» «Come ho detto ai giornali, lei non è granché come giocatore» disse Lucas con una voce poco più alta di un bisbiglio. «Questo lo vedremo» disse il predatore. Stava riacquistando le forze, e Lucas rimase impressionato suo malgrado. «Ho delle difese. Non riuscirà a provare nessuno degli omicidi. Dopo tutto, non ho ucciso la signorina Ruiz. E noterà che stavolta il metodo è diverso. Non troverà nessun biglietto. Dovevo prepararlo qui, dopo. Se si verrà a patti, otterrò l'infermità mentale. Qualche anno nel manicomio statale e sarò fuori. E anche nel peggiore dei casi, se mi toccasse una condanna di primo grado, be', sono soltanto 17 anni a Stillwater. Posso farcela.» Lucas annuì. «Ci ho pensato. Sarebbe come perdere, vedere che la scampi restando vivo. Non potrei proprio sopportarlo. Non con un giocatore inferiore.» «Cosa?» Lucas lo ignorò. Frugò nella tasca dei pantaloni e prese un solo proiettile da 9 mm. Sorvegliando con attenzione Vullion, tenne la pistola contro l'ascella ed estrasse il caricatore dal calcio della pistola. Era in quel momento che Vullion doveva agire, se ne aveva l'intenzione, ma non lo fece; rimase immobile, sconcertato, mentre Lucas inseriva la cartuccia a salve nell'alloggiamento superiore, rimetteva il caricatore nel calcio e faceva scattare la cartuccia nella camera. «Cosa sta facendo?» chiese Vullion. Stava accadendo qualcosa. Qualcosa che non andava. «Per prima cosa chiamo la polizia» rispose Lucas. Si avvicinò al telefono a muro di Carla e chiamò il 911. Quando la centralinista fu in linea, si identificò e chiese un'ambulanza e dei rinforzi. L'operatrice gli chiese di
lasciare la linea aperta e Lucas rispose che lo avrebbe fatto. Era la normale procedura operativa. Lucas lasciò penzolare il ricevitore e si allontanò. Vullion lo osservava ancora, accigliato. Quando Lucas si allontanò dal telefono, il predatore si scostò dal lavello. Lucas puntò la pistola verso il soffitto, sparò un colpo, seguendo con gli occhi il bossolo espulso, mentre il predatore dilatava gli occhi involontariamente per la brusca esplosione. Stava ancora reagendo quando Lucas sparò altri due colpi. Uno colpì Vullion al polmone destro, l'altro al sinistro. I tre spari scandirono un ritmo musicale veloce, un bang-bang-bang. Vullion fu sospinto indietro di un passo, due, e poi cadde, abbattendosi di colpo come se le ossa gli si fossero fuse. Mosse la bocca alcune volte e rotolò sul dorso. I colpi erano mortali, ma non troppo buoni; non troppo precisi. Doveva sembrare una sparatoria. Lucas si avvicinò per guardare il morente. «Cosa è successo?» La voce sembrava quella di un animale. Lucas si voltò, e vide Carla in piedi sulla soglia della camera da letto. Non sanguinava più, ma era malconcia, col naso rotto e la faccia tagliuzzata. Barcollò in direzione di Lucas. «Devi tornare indietro e stenderti» disse Lucas. Un testimone lo avrebbe rovinato. «Aspetta» disse Carla mentre la prendeva per un braccio. Abbassò gli occhi su Vullion. «È morto?» «Sì. È andato.» Ma Vullion non era del tutto andato. I suoi occhi si spostarono di un'inezia verso la donna dai capelli scuri che lo dominava dall'alto, e un rivoletto di sangue gli sgorgò dall'angolo della bocca mentre le sue labbra fremevano e si aprivano. «Mamma?» mormorò. «Cosa?» disse Carla. Le gambe di Vullion furono scosse da uno spasimo. «Lascia perdere» ordinò Lucas. La trasportò di peso verso la camera da letto, la spinse sul letto. «Resta qui. Sei ferita.» Lei annuì stordita e si lasciò ricadere all'indietro. Ormai non c'era quasi più tempo. La polizia di Saint Paul sarebbe arrivata fra pochi secondi. Uscì in fretta dalla stanza, avvicinandosi a Vullion. Era morto. Lucas annuì, prese la borsa da ginnastica ed estrasse la pistola col silenziatore. L'adattò alla mano guantata di Vullion, la puntò verso lo
scaffale di libri d'arte di Carla e premette il grilletto. Si sentirono un lieve sibilo e uno schiocco quando il proiettile colpì una copia alta dieci centimetri del Grande Libro dell'Impressionismo Francese. Lucas smontò il silenziatore dalla canna e depose l'arma sul pavimento a pochi passi dalla mano protesa di Vullion. Guardò in giro sul pavimento, trovò il bossolo della cartuccia a salve che aveva sparato e se lo mise in tasca. Gli ascensori cominciarono a salire e Lucas smontò il silenziatore mentre ricapitolava la scena. Ci sarebbero stati residui di polvere da sparo, nitriti, sul guanto di Vullion, sul polso scoperto, sulla manica della giacca e sul viso. Il proiettile nello scaffale, se fosse stato possibile recuperarlo, sarebbe risultato uguale ai colpi della Smith trovata sul pavimento vicino al corpo di Vullion. Tanto la Smith quanto la P7 di Lucas erano calibro 9, e quello avrebbe giustificato il fatto che gli spari avevano lo stesso suono sul nastro del 911. E gli spari si succedevano a distanza così ravvicinata che nessuno avrebbe dubitato che Lucas aveva sparato per legittima difesa. La storia avrebbe retto, pensò soddisfatto. Avrebbe dovuto lavorarci un po'. Lui e Vullion avevano lottato in camera da letto. Lui aveva allontanato Vullion, non volendo che Carla rimanesse ferita, ed erano usciti dalla stanza. Vullion aveva estratto la pistola, che portava infilata nella cintola. Così poteva andare. Nessuno avrebbe voluto saperne troppo, comunque. Si diresse a una finestra, l'aprì e gettò fuori i due grossi pezzi di plastica del silenziatore. Nient'altro che rifiuti sulla strada, come tanti altri. Gli strati di isolante e il tubo interno li gettò nella riserva di filati per la tessitura di Carla. Li avrebbe recuperati in seguito per liberarsene. Infilò la sua pistola nella fondina e tornò nella stanza di Carla. Lei giaceva immobile sul letto, ma il petto si alzava e si abbassava regolarmente. «Sono di nuovo Lucas» le disse, stringendole una gamba con la mano sana. «Andrà tutto a posto. Sono Lucas.» Sentì il primo poliziotto di Saint Paul entrare nella stanza e urlò: «Qui, polizia di Minneapolis, Lucas Davenport, ci serve un'ambulanza al più presto...» Mentre gridava, il viso sbalordito e morente di Vullion balenò in fondo alla mente di Lucas. Pensò: "E con questo sono sei." 35
Due giorni dopo Natale, con la mano ancora ingessata dopo sei settimane di operazioni e di lenta riabilitazione, Lucas attraversò un campus deserto sotto una furiosa tempesta di neve, dirigendosi verso l'ufficio di Elle Kruger nella Fat Albert Hall. L'ufficio era al secondo piano. Salì i logori gradini di cemento, aprendo la lampo del parka e scuotendosi la neve dai capelli mentre saliva. Il corridoio del secondo piano era buio. In fondo, un solo ufficio mostrava un pannello illuminato di vetro smerigliato. I suoi passi destarono un'eco mentre si avvicinava e bussava. «Entra pure, Lucas.» Lui aprì la porta. Elle stava leggendo, seduta su una poltrona che si trovava di fianco alla scrivania, di fronte a un divanetto. Uno stereo economico suonava La Grande Porta di Kiev, dai Quadri a un'esposizione. Lucas le porse un pacchetto che aveva tenuto nella tasca della giacca. «Un regalo.» Lei sorrise felice, col volto illuminato, soppesando in mano il pacchetto. «Spero che non sia costato caro.» Lucas appese il parka a un attaccapanni e si lasciò cadere sul divano. «A dire la verità, costa un occhio della testa.» Il sorriso di lei sbiadì leggermente. «Lo sai che noi aspiriamo alla povertà.» «Questo non ti farà arricchire» ribatté Lucas. «Se mai lo venderai, verrò qui a strangolarti.» «Ah. Allora immagino...» Lei scosse la testa e cominciò a scartare la scatola. «Il mio problema più grande, la causa dei miei peccati più gravi, è la curiosità.» «Io non capirò mai la Chiesa» disse Lucas. La suora aprì il piccolo astuccio rosso e ne estrasse un medaglione d'oro giallo appeso a una lunga catena d'oro. «Lucas» esclamò. «Leggilo» la invitò lui. Lei lo rigirò tra le mani e lesse: «"Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis"... è preso dal messale. "Agnello di Dio, che togli i peccati dal mondo, abbi pietà di noi."» «Molto pio.» Lei sospirò. «È pur sempre oro.» «Allora portalo con sprezzo. Quando comincerà a piacerti, mandalo a Madre Teresa di Calcutta.» Lei scoppiò a ridere. «Madre Teresa» ripeté. Guardò di nuovo il medaglione, poi lo studiò con maggiore attenzione e disse: «Che cos'è questo? Sull'altro lato.»
«Un'iscrizione secondaria.» «Che lettere piccole.» Lo tenne a un palmo dal naso, scrutandolo. La necessità non ha leggi Come la descrive Agostino, Così il predatore finì sotto terra Con l'aiuto della Monaca Saggia. Lei ansimò, poi cominciò a ridere, rovesciando la testa all'indietro e lasciando sgorgare liberamente il riso. «È tremendo!» disse alla fine. «Sant'Agostino si starà rivoltando nella tomba.» «Non è poi tanto brutta» obiettò Lucas, un po' gelido. «Anzi...» «Lucas, è orribile.» Elle ricominciò a ridere, e finalmente Lucas scoppiò a ridere insieme a lei. Quando smise, la suora si asciugò le lacrime dagli occhi e disse: «Lo terrò per sempre come un tesoro. Non so che cosa penseranno le mie consorelle quando lo troveranno sul mio corpo...» «Potranno mandarlo loro, a Madre Teresa» suggerì Lucas. Parlarono come vecchi amici; di falsi svenimenti durante il rosario dopo la scuola, del ragazzo che in quarta elementare aveva confessato di non credere in Dio. Si chiamava Gene, era tutto quello che riuscivano a ricordare di lui. «Stai bene?» chiese Elle dopo un po'. «Credo di sì.» «E la tua relazione...» «Va bene, grazie. Io voglio sposarla, ma lei non accetta.» «Ufficialmente, sono stravolta. Ufficiosamente, ho il sospetto che sia una donna molto intelligente. Tu sei senza dubbio un aspirante marito ad alto rischio... E Carla Ruiz?» «È andata a Chicago. Ha un nuovo amico.» «E gli incubi?» «Stanno peggiorando.» «Oh, no.» «Va da uno psichiatra.» Più tardi ancora. «Non provi rimorsi per la morte di Louis Vullion?» «Nessuno. Dovrei?»
«Le circostanze mi avevano lasciato perplessa.» Lucas rifletté un istante. «Elle, se vuoi sapere tutto, ti dirò tutto.» Toccò a lei meditare. Si voltò verso la grande finestra, una silhouette nera sullo sfondo della neve che turbinava contro il vetro. Infine scosse la testa, e lui notò che stringeva in mano il medaglione. «No. Non voglio sapere tutto. Non sono un confessore. E pregherò per te e per Louis Vullion. Ma quanto a sapere...» Si girò verso di lui, con un lieve sorriso severo sul volto. «...mi accontenterò di restare la Monaca Saggia.» FINE