Ian McEwan
Chesil Beach 2009 Traduzione di Susanna Basso ISBN 9788806197681
Chesil Beach
Ad Annalena
Uno Erano gi...
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Ian McEwan
Chesil Beach 2009 Traduzione di Susanna Basso ISBN 9788806197681
Chesil Beach
Ad Annalena
Uno Erano giovani, freschi di studi, e tutti e due ancora vergini in quella loro prima notte di nozze, nonché figli di un tempo in cui affrontare a voce problemi sessuali risultava semplicemente impossibile. Anche se facile non lo è mai. Si erano appena seduti a cena nella saletta minuscola al primo piano di una locanda in stile georgiano. Dalla stanza accanto, attraverso la porta aperta, si scorgeva un letto a baldacchino, piuttosto stretto, dalla sopraccoperta candida e tesa con una perfezione pressoché innaturale. Edward tenne per sé il fatto di non avere mai dormito in un albergo, mentre Florence, dopo tutti quei viaggi col padre da piccola, era una veterana. A livello superficiale, erano di ottimo umore. Il matrimonio, nella chiesa di St Mary a Oxford, era andato bene: una cerimonia decorosa, un rinfresco gradevole, i saluti dei compagni di scuola e del college commossi e incoraggianti. I genitori di lei non avevano assunto atteggiamenti paternalistici con quelli di lui, come si era temuto, e la madre di Edward si era comportata dignitosamente, evitando di scordare il motivo dei festeggiamenti. Gli sposi si erano allontanati a bordo di un'utilitaria di proprietà della madre di Florence e, sul fare della sera, erano arrivati nel loro albergo sulla costa del Dorset, con un clima magari non ideale per metà luglio e per la circostanza, ma assolutamente accettabile: non pioveva infatti, anche se non faceva nemmeno abbastanza caldo, secondo Florence, per cenare fuori in giardino come avevano sperato. Edward era di un altro avviso. Tuttavia, cortese fino all'eccesso, non si era nemmeno sognato di contraddirla proprio quella sera. Perciò ora cenavano in camera davanti alla portafinestra che, dal terrazzo, affacciava su un tratto di Manica e sulla sconfinata distesa di ciottoli di Chesil Beach. Li servivano, da un carrello parcheggiato nel corridoio, due ragazzi in smoking il cui andirivieni da quella che veniva solitamente definita la suite nuziale produceva nel silenzio circostante comici scricchiolii delle assi di quercia incerate. Fiero e protettivo, il giovane sposo stava attentissimo a cogliere eventuali gesti ed espressioni dal sapore vagamente ironico. Non avrebbe tollerato il minimo sorriso beffardo. Ma i ragazzi, che venivano dal paese vicino, svolgevano il proprio lavoro a testa bassa e occhi seri, e avevano modi incerti, le mani tremanti, mentre appoggiavano i vari piatti sulla tovaglia inamidata. Nervosi, anche loro. Non un buon momento, nella storia della cucina inglese, ma nessuno ci faceva molto caso, a parte i visitatori stranieri. Il pasto di gala iniziò, come accadeva quasi sempre al tempo, con una fetta di melone guarnita da un singolo esemplare di ciliegia candita. Fuori, nel corridoio, in vassoi d'argento intiepiditi da scaldavivande a candela, attendevano fette di un arrosto cotto
da tempo adagiate in un sugo denso, verdure arcilesse e patate dal colorito bluastro. Il vino arrivava dalla Francia anche se l'etichetta, impreziosita dal volo di un'unica rondine, non specificava nessuna regione di origine in particolare. A Edward non sarebbe mai passato per la mente di ordinare un rosso. Non vedendo l'ora che i camerieri se ne andassero, lui e Florence si volsero sulla sedia verso il panorama: un vasto tappeto d'erba e, più in là, un groviglio di arbusti in fiore e di alberi aggrappati alla sponda scoscesa di un viottolo che declinava verso la spiaggia. Si intravedeva l'imboccatura del sentiero da percorrere a piedi, un precipizio di gradini fangosi, un vicolo costeggiato da erba di proporzioni fiabesche: rabarbaro gigante e piante simili a cavoli i cui steli robusti alti più di un metro e mezzo parevano flettersi sotto il peso delle grandi foglie, venate di scuro. La vegetazione del giardino cresceva in un rigoglio di qualità tropicale, effetto esaltato dalla delicata luce grigia e dal velo di foschia in arrivo dal mare, il cui moto eterno di onda e risacca produceva a livello sonoro piccoli rombi di tuono e improvvisi risucchi sui ciottoli. Dopo cena si ripromettevano di infilare un paio di scarpe adatte e di scendere a passeggiare sulla lingua di spiaggia tra il mare e la laguna, nota con l'appellativo di Fleet, e qualora ne fosse rimasto, di portarsi l'avanzo di vino da bere a collo, come escursionisti. Quanti progetti, quanti vertiginosi progetti si accalcavano dinanzi a loro in quel futuro brumoso, impenetrabile e fitto come la flora estiva della costa del Dorset, e non meno incantevole. Dove e come avrebbero vissuto, quali amici avrebbero frequentato, il lavoro di lui nell'azienda del padre di lei, la carriera musicale di Florence, come gestire il denaro donatole dal padre, la certezza che non sarebbero mai stati come gli altri, perlomeno non a livello interiore. Erano ancora tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l'inizio di una terapia. Grossomodo estranei, eccoli là, stranamente insieme su una nuova vetta dell'esistenza, lieti al pensiero che il loro status recente promettesse di sospingerli sul radioso cammino di una interminabile giovinezza: Edward e Florence, finalmente liberi! Uno degli argomenti preferiti di conversazione tra loro era quello delle rispettive infanzie, non tanto le gioie puerili quanto la comica nebbia di equivoci dalla quale erano emersi, gli innumerevoli errori dei loro genitori e tutte le usanze all'antica di cui ora erano disposti a perdonarli. Dalle attuali altitudini scorgevano con chiarezza, ma non sapevano spiegare all'altro, certi sentimenti contraddittori: ciascuno viveva con apprensione la prospettiva, una volta conclusa la cena, di vedere messa alla prova la propria maturità appena acquisita, quel momento in cui si sarebbero coricati sul
letto a baldacchino per mostrarsi all'altro senza veli di sorta. Da più di un anno Edward era mesmerizzato dall'idea che la sera di un certo giorno di luglio la parte più sensibile della sua persona fisica avrebbe trovato posto, seppure per breve tempo, all'interno di una cavità naturale che era parte di quella donna graziosa, vivace e straordinariamente brillante. Come arrivarci senza attraversare l'assurdo e il senso di delusione, lo preoccupava molto. Nello specifico l'ansia, fondata su un'unica sfortunata circostanza precedente, scaturiva dal rischio di un'eccitazione smodata, e di conseguenza di quello che aveva da alcuni sentito definire come «concludere troppo in fretta». La questione lasciava di rado i suoi pensieri ma, per quanto grande fosse la paura di fallire, anche più grande era la voglia, dell'estasi, del punto di svolta. Le apprensioni di Florence erano più gravi, e nel corso del viaggio da Oxford c'erano stati momenti in cui aveva pensato di fare appello a tutto il suo coraggio e parlare. Quello che l'angustiava però era inesprimibile, dato che quasi non era in grado di spiegarlo a se stessa. Se Edward infatti era semplicemente in preda alla tensione da prima notte, lei provava un autentico terrore viscerale, un disgusto impotente e inequivocabile come il mal di mare. Durante i mesi dei febbrili preparativi matrimoniali era in larga misura riuscita a ignorare quella macchia sulla superficie della sua felicità, ma ogni volta che il pensiero le andava a un abbraccio intimo, non tollerava altri modi per dirlo, le si chiudeva la bocca dello stomaco e un groppo di nausea le ostruiva la gola. Su un manuale moderno e progressista, in teoria studiato per offrire aiuto alle giovani spose, grazie allo stile spigliato tutto punti esclamativi e a una serie di illustrazioni numerate, si era imbattuta in certe frasi o vocaboli che per poco non la facevano vomitare: membrana mucosa, ad esempio, o glande, termine dallo scintillio sinistro. Altre espressioni offendevano invece la sua intelligenza, soprattutto quelle relative al verbo entrare: Poco prima che lui entri dentro di lei ... oppure, Ora finalmente lui entra dentro di lei ... o ancora, Per fortuna, poco dopo essere entrato ... Era dunque costretta la notte a trasformarsi per Edward in una specie di cancello o di sala da pranzo in cui lui avrebbe fatto il suo ingresso? Quasi altrettanto frequente era una parola che suscitava soltanto immagini di dolore fisico, di carni straziate da una lama di coltello: penetrazione. In momenti di maggior ottimismo si sforzava di convincersi che il suo problema fosse solo un eccesso di schizzinosità, destinato a passare. Certo, il pensiero dei testicoli di Edward penduli sotto il suo pene turgido, altro vocabolo orrendo, aveva il potere di piegarle in una smorfia il labbro, come l'idea di farsi toccare «là sotto» da un altro, anche se amato, le era ripugnante quanto, che so, un intervento chirurgico all'occhio. La
schizzinosità però non si estendeva ai bebè. Li adorava; si era occupata ogni tanto dei bambini di sua cugina e le era piaciuto. Era convinta che rimanere incinta di Edward l'avrebbe fatta felice e, almeno in astratto, non aveva paura del parto. Se solo avesse potuto, come la madre di Cristo, pervenire a quello stato interessante per magia... Florence sospettava di essere affetta da un'anomalia seria, una diversità antica che prima o dopo sarebbe saltata fuori. Il problema, a suo avviso, era più grave e profondo di un semplice disgusto fisico; l'intero suo essere si ribellava alla prospettiva di qualsivoglia unione carnale; ne sarebbero uscite violate la sua padronanza di sé e la sua stessa intima felicità. Molto banalmente, non aveva nessuna voglia di «far entrare» nessuno, né di essere «penetrata». Lungi dal costituire il coronamento della sua gioia, il sesso con Edward era anzi il prezzo da pagare per ottenerla. Sapeva che avrebbe dovuto dirlo molto tempo prima, non appena lui si era dichiarato, ben prima dell'incontro con il buon parroco che parlava sottovoce, e dei pranzi dei rispettivi genitori, prima di stilare la lista degli invitati alla cerimonia e concordare col grande magazzino quella dei doni nuziali, prima di procedere al noleggio del padiglione e all'ingaggio del fotografo e a tutti gli altri accordi irreversibili. Ma che cosa avrebbe potuto dire, in che termini si sarebbe potuta esprimere quando non era nemmeno in grado di nominare il problema? E poi, Edward lo amava, non di una passione bollente né incline al deliquio di cui aveva letto sui libri, ma di un attaccamento profondo, a volte filiale, a volte quasi materno. Le piaceva abbracciarlo, e sentire il gigantesco braccio di lui cingerle le spalle, le piaceva farsi baciare, benché non amasse la lingua in bocca e l'avesse chiarito, senza bisogno di ricorrere alle parole. Lo riteneva sotto ogni aspetto una persona originale, diversa da chiunque avesse conosciuto. Aveva immancabilmente con sé nella giacca un libro tascabile, in genere di argomento storico, in caso si fosse trovato in una coda o in una sala d'attesa. Sottolineava quel che leggeva con un mozzicone di matita. Era praticamente l'unico uomo di sua conoscenza che non fumasse. Non aveva mai due calzini uguali. Disponeva di un'unica cravatta, striminzita, lavorata ai ferri, blu scura, che portava quasi sempre sulla camicia bianca. Florence adorava la sua mente curiosa, il leggero accento provinciale, l'immensa forza che aveva nelle mani, le imprevedibili sterzate e derive delle sue conversazioni, la gentilezza con cui la trattava e il modo in cui i suoi dolci occhi castani la guardavano parlare facendola sentire avvolta in una soffice nuvola d'amore. A ventidue anni, Florence non aveva dubbi sul fatto di voler trascorrere il resto della vita con Edward Mayhew. Come poteva rischiare di perderlo? Non c'era nessuno con cui potesse parlare. Ruth, sua sorella, era troppo giovane, mentre la madre, persona stupenda a suo modo, era troppo
cerebrale, troppo fragile, la vera intellettuale d'altri tempi. Ogni volta che si affrontava un tema intimo, tendeva ad assumere il tono da sala di conferenza, impiegando paroloni sempre più lunghi e citazioni da libri che, a suo avviso, tutti dovevano aver letto. Solo dopo aver confezionato a dovere la faccenda poteva occasionalmente rilassarsi e diventare gentile, ma accadeva di rado, e anche allora il consiglio ricevuto era incomprensibile. Con le formidabili amiche di scuola e del conservatorio Florence aveva invece il problema opposto: adoravano chiacchierare di argomenti intimi e sguazzavano nelle altrui difficoltà. Si conoscevano tutte quante, e avevano il telefono e la penna troppo facili. Impossibile affidare loro un segreto, ma Florence non le biasimava, facendo parte del gruppo. Nemmeno a se stessa l'avrebbe affidato. Perciò era sola con un problema che non sapeva da che parte prendere, armata unicamente dei saggi consigli della sua guida pratica. Sulla cui copertina rosso sgargiante, come in gessetto sulla lavagna, un ipotetico bambino innocente aveva disegnato due sorridenti pupazzi-fiammifero dagli occhi a palla, che si tenevano per mano. In meno di due minuti finirono il melone mentre i ragazzi, anziché aspettare nel corridoio, se ne stavano ritirati accanto alla porta, tormentandosi cravattino, colletto stretto e polsini. La loro espressione vacua non cambiò quando videro Edward offrire a Florence, con un sussiego ironico, la sua ciliegia candita. Lei, con fare giocoso, gliela succhiò dalle dita e sostenne il suo sguardo mentre masticava lentamente, permettendogli di intravvederle di sfuggita la lingua, pur consapevole che flirtare in quel modo con lui avrebbe reso la sua situazione più rischiosa. Non avrebbe dovuto dare il via a un gioco che non era in grado di sostenere, ma compiacerlo con qualunque mezzo le era di conforto: la faceva sentire non proprio del tutto inutile. Se solo fosse bastato mangiarsi una ciliegia appiccicosa... Per dimostrare che la presenza dei camerieri non lo turbava, benché non vedesse l'ora che se ne andassero, Edward sorrise tornando al suo vino e, alzando la voce per farsi sentire, domandò: «Ce n'è ancora di quelle?» «Finite, signore. Spiacente.» Ma la mano che reggeva il bicchiere del vino tremava per lo sforzo di Edward di contenere la gioia improvvisa, l'esaltazione. Florence pareva brillare dinanzi a lui, ed era un incanto: bella, sensuale, virtuosa, buona oltre ogni dire. Il ragazzo che aveva parlato si sporse furtivo in avanti per sparecchiare. Il collega era appena fuori della stanza, impegnato a trasferire nei piatti il secondo, l'arrosto. Sospingere il carrello nella suite nuziale, per un vero e proprio servizio in camera, non era possibile a causa di un dislivello di due scalini tra corridoio e locale: difetto di progettazione che risaliva ai tempi in
cui il villino elisabettiano era stato «georgianizzato» verso la metà del diciottesimo secolo. Gli sposi rimasero soli un momento, anche se udivano rumore di posate contro i piatti, e il mormorio dei ragazzi alla porta. Edward appoggiò una mano su quella di Florence e per la centesima volta della giornata disse con un filo di voce: «Ti amo», e lei ricambiò all'istante, perché era verissimo. Edward si era laureato a pieni voti in storia presso lo University College di Londra. Per tre brevi anni aveva studiato guerre, rivolte, carestie, pestilenze, la nascita e il crollo di imperi rivoluzionari capaci di sfinire i propri ideatori, miserie agricole, squallore industriale, la crudeltà delle élite di potere: una vivida parata di oppressione, infelicità e false speranze. Aveva imparato quanto possono essere avare le vite, generazione dopo generazione. In una prospettiva allargata della realtà, il periodo di pace e benessere che l'Inghilterra stava attraversando era un fenomeno raro; l'attuale gioia sua e di Florence poi, un fatto eccezionale, per non dire unico. Durante il suo ultimo anno di corso, Edward si era interessato in particolare alla teoria storica dei «grandi uomini»: era davvero così anacronistico credere che singole personalità influenti potessero costruire un destino nazionale? Il suo docente di sicuro la pensava così: secondo lui, la Storia, quella doverosamente maiuscola, era guidata da forze ineluttabili verso esiti necessari e inevitabili, e presto la disciplina sarebbe rientrata nel novero delle scienze. Tuttavia le biografie che Edward aveva analizzato in dettaglio, quelle di Cesare, Carlo Magno, Federico II, Caterina la Grande, Nelson e Napoleone (su insistenza dell'insegnante aveva messo da parte Stalin), suggerivano piuttosto il contrario. Un'indole spietata, il bieco opportunismo e un colpo di fortuna, aveva argomentato Edward, potevano deviare il fato di milioni di persone, una conclusione ribelle che gli aveva abbassato parecchio l'esito dell'esame, rischiando addirittura di compromettergli la laurea a pieni voti. La sua scoperta incidentale fu che perfino il più leggendario dei successi procurava poca felicità, raddoppiando invece l'inquietudine e il tormento dell'ambizione. Mentre si vestiva da sposo quella mattina (frac, cilindro, una generosa innaffiata di acqua di colonia), si era detto che nessuno dei personaggi dell'elenco doveva aver conosciuto quel genere di soddisfazione. La sua euforia era di per sé una forma di grandezza. Eccolo, un uomo splendidamente appagato, o a un passo dall'esserlo. A ventidue anni appena, li aveva già superati in massa. In questo momento contemplava sua moglie, gli occhi fissi nel nocciola fittamente screziato di quelli di lei, in quelle due pozze bianco latte appena ombrate da una punta d'azzurro. Le ciglia erano folte e scure come quelle di una bambina, e qualcosa di infantile regnava nella solennità di tutto il suo viso tranquillo. Era un bel viso, dei tratti scolpiti che, sotto una certa luce,
facevano pensare a un'indiana d'America, una squaw di rango. Lo zigomo era alto, e il sorriso, largo e sincero, nasceva dalle piccole pieghe agli angoli degli occhi. Era di ossatura robusta, al matrimonio alcune signore espressero commenti esperti sui suoi fianchi generosi. Il seno, che Edward aveva toccato e perfino baciato, sebbene non quanto avrebbe voluto, era piccolo. Aveva mani da violinista, pallide e forti, come le lunghe braccia; ai tempi del liceo l'avevano giudicata adatta al lancio del giavellotto. Edward non era mai stato un appassionato di musica classica, ma ormai ne stava acquisendo il gergo vivace, legato, pizzicato, con brio. A poco a poco, grazie a una pedestre ripetizione d'ascolto, cominciava a riconoscere e perfino apprezzare certi brani. Uno in particolare, che Florence suonava con le amiche, lo emozionava molto. A casa, quando si esercitava su scale e arpeggi, Florence indossava una fascetta per i capelli, un tocco infantile che lo induceva a fantasticare della figlia che un giorno forse avrebbero avuto. Florence suonava con una precisione flessuosa, ed era apprezzata per la ricchezza del tono. Parlando di lei, un docente ebbe a dire di non aver mai incontrato allievo capace di infondere tanto calore a una corda vuota. Che fosse in piedi davanti al leggio nella sala prove di Londra, o in camera sua a casa dei genitori a Oxford, con Edward sdraiato sul letto a guardarla e desiderarla, la postura era sempre aggraziata: schiena eretta, capo alto e fiero, Florence interpretava la musica con un'espressione sicura, quasi altezzosa, che lo turbava. C'era in lei una tale certezza, una tale padronanza del percorso verso il piacere ... In fatto di musica, tutti i suoi gesti erano competenti e armoniosi, che stesse ingrassando l'archetto, sostituendo le corde o sistemando la stanza per l'arrivo dei tre compagni del quartetto d'archi che era la sua passione. Era Florence la leader indiscussa del gruppo, e a lei spettava sempre l'ultima parola nelle numerose dispute musicali che si presentavano. In tutti gli altri ambiti della vita, in compenso, era di una goffaggine e di un'insicurezza da lasciare allibiti, un continuo inciampare, far cadere oggetti, andare a sbattere. Le stesse dita capaci di un raddoppio su una partita di Bach si rivelavano altrettanto perfette nel rovesciare intere tazze di tè su tovaglie di lino, o bicchieri di vetro su pavimenti di marmo. Se si sentiva osservata incespicava: confidò a Edward che andare incontro a un amico da una certa distanza era per lei un supplizio. E ogni ansia o momento di timidezza la portavano a sollevare in continuazione la mano verso la fronte per scostare immaginarie ciocche di capelli in un gesto delicato e nervoso che perdurava ben oltre la scomparsa del motivo che l'aveva scatenato. Come non amare una creatura tanto insolita e appassionata, consapevole e onesta fino all'autolesionismo, qualcuno disposto a mettere a nudo ogni proprio pensiero ed emozione lasciandoli trasparire come particelle cariche attraverso la mutevolezza di espressioni e gesti? Anche in assenza della sua
bellezza statuaria, non amarla sarebbe stato impossibile. Per non parlare dell'amore che lei gli riservava, l'intensità, quello struggente riserbo fisico. Ne risultava eccitata non solo la passione di lui, incrementata dalla mancanza di sfogo, ma anche l'istinto protettivo. Tuttavia, era sicuro che Florence fosse poi così vulnerabile? Una volta Edward aveva sbirciato nel suo dossier scolastico scoprendo l'esito del test di intelligenza: 152, ben 17 punti più alto del suo. In quel periodo si affidava a tali quozienti la misurazione di una grandezza ritenuta tangibile, non meno di peso o statura. Quando gli capitava di assistere a una prova del quartetto e lei entrava in contrasto su un fraseggio, un tempo o una dinamica con Charles, il pingue e autoritario violoncellista sul cui viso luccicava un tardo residuo di acne, Edward si sorprendeva della pacatezza di Florence. Non litigava mai, ascoltava con calma e poi annunciava la propria decisione. Neanche l'ombra, in quei casi, del tic della mano fra i capelli. Conosceva la materia e, da vero primo violino, era determinata a imporsi. Pareva in grado di far fare quello che desiderava anche al temibile padre. Questi, su suo suggerimento, aveva offerto a Edward un impiego, parecchi mesi prima delle nozze. Che lui lo volesse o meno, e osasse o no rifiutarlo, era un'altra faccenda. Inoltre, grazie a un fenomeno di osmosi femminile, Florence sapeva esattamente che cosa servisse per la cerimonia, dalle dimensioni del padiglione alla quantità di dolce, fino alla cifra che il padre avrebbe ragionevolmente acconsentito a sborsare. «Ecco che arrivano», sussurrò stringendogli la mano per avvisarlo di rimandare la prossima improvvisa intimità. I camerieri sopraggiungevano con i piatti dell'arrosto, quello di lui in porzione doppia rispetto alla sua. Portarono anche zuppa inglese, formaggio e cioccolatini alla menta, che appoggiarono su una mensola. Dopo aver farfugliato qualcosa riguardo al campanello accanto al camino, occorreva schiacciare forte e tenere premuto, i ragazzi si ritirarono, chiudendosi la porta alle spalle con estrema cura. Si udi allora il tintinnio del carrello che si allontanava nel corridoio, e dopo una pausa, un grido di esultanza o forse disapprovazione che poteva senz'altro arrivare dal bar dell'albergo al piano di sotto, e a quel punto gli sposi restarono, come si dice, finalmente soli. Un'inversione o un intensificarsi del vento portò loro il suono delle modeste onde che si frangevano sulla riva, come un lontano fragore di vetri. La foschia diradava rivelando qua e là il profilo stondato delle colline basse che seguivano la linea della costa in direzione est. Fra rami e foglie si scorgeva un grigiore terso e luminescente che poteva essere tanto la serica superficie del mare o della laguna, quanto una striscia di cielo: difficile dirlo. La nuova brezza trascinava con sé un incanto da porte e finestre socchiuse, un profumo salmastro di ossigeno e aria che sembrava in contraddizione con la
tovaglia di lino inamidato, il sugo denso carico di glutammato, e le grevi stoviglie lucide d'argento che i giovani avevano nelle mani. Il rinfresco di nozze era stato ricco e lunghissimo. Non avevano fame. In teoria, dipendeva solo da loro lasciare i piatti, afferrare la bottiglia del vino e correre giù alla spiaggia, sfilarsi le scarpe e godersi la libertà assoluta. Non c'era anima viva all'albergo che avrebbe voluto fermarli. Erano adulti, una buona volta, in vacanza, e liberi di fare di testa loro. In capo a pochi anni, anche gente senza pretese si sarebbe comportata esattamente così. Ma per adesso, i tempi lo impedivano. Anche quando erano soli, migliaia di regole tacite continuavano a essere in vigore per Edward e Florence. Proprio perché erano adulti, non potevano abbandonarsi a gesti puerili come alzarsi da tavola snobbando piatti che qualcuno si era preso la briga di cucinare. Era ora di cena, no? E poi, essere infantili non era ancora onorevole, e neppure di moda. Ciononostante, Edward era tormentato dal richiamo della spiaggia, e se solo avesse saputo come proporlo, o come giustificarlo, avrebbe suggerito di uscire subito. Una guida che aveva letto a Florence spiegava che migliaia d'anni di tempeste battenti avevano vagliato e livellato la dimensione dei ciottoli lungo le diciotto miglia di spiaggia, disponendo i più grossi all'estremità orientale. La leggenda voleva che, attraccando di notte, i pescatori sapessero esattamente dove si trovavano dalla sola grandezza dei ciottoli. Florence aveva proposto di verificare di persona confrontando campioni raccolti a un miglio di distanza l'uno dall'altro, e battere la spiaggia per la sua lunghezza era sempre meglio che starsene li seduti. Il soffitto, già piuttosto basso, sembrava pesargli sulla testa sempre di più. Dal piatto si alzava un odore colloso, tipo fiato di cane, che si mescolava alla brezza marina. Dopotutto forse non era poi così di buonumore come ostinatamente si ripeteva. Percepiva una pressione tremenda e soffocante sui suoi pensieri, sulle parole, e provava un acuto disagio fisico: calzoni : mutande sembravano essersi ristretti. Perciò, se un genio si fosse presentato alloro tavolo per esaudire il suo desiderio più urgente, Edward non avrebbe mai chiesto nessuna spiaggia al mondo. L'unica cosa che voleva, la sola idea nella sua mente, era quella di lui e Florence nudi sul letto o fra le lenzuola nella stanza accanto, finalmente sul ciglio di quell'esperienza solenne che appariva lontana dalla vita di tutti i giorni quanto può esserlo una visione di estasi religiosa, per non dire la morte stessa. La prospettiva, davvero sarebbe successo? E proprio a lui?, tornò a trafiggergli di lame ghiacciate le viscere, Edward si trovò preda di un breve deliquio che mascherò dietro un sospiro appagato. Come molti giovani di quel periodo, anzi di tutti i tempi, avendo poca disinvoltura e rara occasione di esprimere a propria sessualità, Edward si abbandonava di continuo a quella pratica che un illuminato esperto in materia aveva di recente definito «piacere solitario».
Era stato lieto li scoprire quell'espressione. Nato nel 1940, era venuto al mondo troppo tardi nel secolo per credere che tale abitudine costituisse un abuso del corpo, che la vista ne avrebbe risentito o che Dio vegliasse con severa incredulità sulla sua quotidiana fatica. E perfino che chiunque potesse accorgersene dal pallore o dai suoi modi introversi. Eppure incombeva su quegli strapazzi una indefinibile sventura, un senso di fallimento e di spreco oltre che, è ovvio, di solitudine. Il piacere rappresentava insomma un beneficio collaterale. L'intento vero era darsi sollievo da un desiderio violento e soggiogante di ciò che non era possibile avere subito. Davvero strano come quelle poche gocce che gli sgorgavano chiare dal corpo potessero liberargli la mente restituendolo allo studio del decisivo ruolo di Nelson nella baia di Abukir. L'unico contributo di rilievo di Edward ai preparativi per le nozze fu un' astinenza di una settimana. Era dall'età di dodici anni che non conosceva tanta purezza nei riguardi del proprio corpo. Voleva essere in forma smagliante per la sua sposa. Non facile, specie di notte a letto, o la mattina al risveglio, e nelle lunghe ore del pomeriggio, o in quelle prima di pranzo, o dopo cena, in quelle prima di coricarsi. E adesso, eccoli finalmente qui, sposati e soli. Ma perché non lasciava perdere l'arrosto, non la copriva di baci e la conduceva al letto a baldacchino nella camera accanto? Non era così semplice. Aveva una certa esperienza nella gestione della timidezza di Florence. Era arrivato ad averne rispetto, ad apprezzarla perfino, scambiandola per una manifestazione di civetteria, un velo di forma gettato su una natura profondamente sensuale. A conti fatti, un aspetto della sua personalità intensa e complessa, e la dimostrazione del suo valore. Si convinse che la preferiva così. Non se lo disse a chiare lettere, ma la reticenza di lei si accordava con la sua ignoranza e la sua insicurezza; una donna più esplicita ed esigente, una donna libera, avrebbe potuto terrorizzarlo. Il loro corteggiamento era stato simile a una pavana per liuto dal ritmo solenne, determinato da taciti protocolli mai concordati, ma perlopiù rispettati. Del resto non si discuteva mai di nulla, e nemmeno si aveva nostalgia di chiacchiere confidenziali. Erano faccende, quelle, che andavano oltre le parole, che scavalcavano le definizioni. La lingua e la pratica dell'analisi, il libero corso a sentimenti minuziosamente condivisi e reciprocamente studiati, non si erano ancora diffusi in modo capillare. Se già si sentiva di gente molto agiata che si sottoponeva all'analisi, non era ancora consueto considerare se stessi nella propria routine in termini di enigma, di esercizio narrativo, o di problema in attesa di essere risolto. Tra Edward e Florence, nulla accadeva rapidamente. I progressi importanti, le licenze mute che dilatavano la rosa di ciò che era
possibile vedere o accarezzare, venivano ottenuti in modo rigorosamente graduale. Il giorno di ottobre in cui per la prima volta le aveva visto il seno nudo aveva preceduto di parecchio quello in cui glielo aveva potuto toccare: vale a dire il 19 dicembre. L'aveva baciato in febbraio, ma non sui capezzoli, che era riuscito a sfiorare con le labbra soltanto in maggio. Quanto a Florence, la cautela con cui si concedeva di perlustrare il corpo di lui era anche maggiore. Gesti improvvisi o movimenti audaci da parte di Edward potevano disfare mesi di paziente lavoro. Quella sera al cinema, durante la proiezione di Sapore di miele, prendendole la mano e portandosela tra le cosce, Edward aveva riportato il processo indietro di settimane. Non che Florence fosse diventata algida, e nemmeno fredda, non era nella sua natura, solo impercettibilmente remota, delusa forse, per non dire un po' offesa. In qualche modo si ritirò da lui senza mai permettergli di dubitare del suo amore. Poi finalmente si rimisero in marcia: trovandosi soli un sabato pomeriggio verso fine marzo, mentre fuori dal salotto caotico del villino che i suoi avevano nei Chiltern diluviava, Florence posò per un attimo una mano se non proprio sopra, almeno accanto al suo pene. Per meno di quindici secondi, in un crescendo di speranza e d'estasi, Edward poté sentirla attraverso due strati di stoffa. Non appena Florence tolse la mano, lui seppe di non poter più andare avanti così. E le chiese di sposarlo. Come poteva immaginare quanto le fosse costato mettere quella mano anzi il dorso di quella mano, in un posto simile? Lo amava, desiderava compiacerlo, ma doveva superare una buona dose di ripugnanza. Lo sforzo fu onesto: accorto forse, ma in lei non c'era scaltrezza. Tenne la mano ferma finché ci riusci, finché percepì un moto e un indurimento sotto la flanella grigia dei pantaloni. Sfiorò un corpo vivo, del tutto estraneo dal resto di Edward, e si ritrasse. A quel punto lui sbottò nella proposta e tra l'emozione, l'allegria beata, il sollievo e gli abbracci improvvisi, Florence per un momento scordò il suo piccolo trauma. Lui d'altro canto era talmente stupito della propria determinazione, oltre che mentalmente bloccato dal desiderio irrisolto, da non riuscire a farsi un'idea dello stato contraddittorio in cui Florence visse da quel giorno in poi, della relazione segreta tra gioia e disgusto. Erano soli dunque, e liberi in teoria di fare ciò che volevano, ma conclusero un pasto per il quale nessuno dei due aveva appetito. Florence appoggiò il coltello, raggiunse la mano di Edward e gliela strinse. Dal piano di sotto udirono la radio, i rintocchi del Big Ben che introducevano il notiziario delle dieci. Lungo quel tratto di costa la ricezione televisiva lasciava a desiderare a causa dei colli nel primo entroterra. Gli ospiti più maturi dovevano essere giù in soggiorno, a prendere le misure del
mondo sorseggiando l'ultimo goccio, l'albergo disponeva di una discreta selezione di whisky al malto, e alcuni uomini si stavano probabilmente caricando la pipa un'ultima volta di quella giornata. Radunarsi intorno all'apparecchio per l'ascolto del giornale radio era una consuetudine del tempo di guerra che non avrebbero mai interrotto. A Edward e Florence giunsero, benché attutiti, i titoli di apertura e il nome del primo ministro; poi un paio di minuti dopo riconobbero la nota voce, stentorea, da discorso ufficiale. Harold Macmillan era intervenuto in congresso a Washington a proposito della corsa agli armamenti, e della necessità di un accordo antinucleare. Chi poteva negare che fosse follia portare avanti i test atomici nell'atmosfera diffondendo radiazioni su tutto il pianeta? Ma nessun cittadino sotto i trent'anni, di sicuro non Edward e Florence credeva che un primo ministro britannico potesse avere grande influenza nella politica mondiale. Anno dopo anno l'Impero si riduceva in seguito al doveroso processo di indipendenza di un'ulteriore manciata di nazioni. Ormai non era rimasto quasi nulla, e il mondo era di proprietà di americani e russi. Il Regno Unito, l'Inghilterra, era una potenza minore: affermare questo gli procurava un certo piacere blasfemo. Da basso, naturalmente, erano di diverso avviso. Chiunque avesse superato i quarant'anni doveva aver combattuto, o comunque sofferto, durante la guerra, e conosciuto la morte su scala straordinaria, non potendo perciò accettare l'idea che la ricompensa a tale sacrificio si riducesse a una progressiva deriva nell'irrilevanza. Edward e Florence avrebbero votato per la prima volta alle prossime elezioni politiche e speravano di cuore in uno slittamento a sinistra simile, per proporzioni, alla celebre vittoria del 1945. In capo a un paio d'anni, la generazione passata che ancora sognava l'Impero avrebbe senz'altro dovuto cedere il passo a politici come Gaitskell, Wilson, Crosland, uomini nuovi, con una visione moderna del paese, che prevedeva uguaglianza e fatti, non parole. Se l'America poteva vantare un presidente bello ed esuberante come John Kennedy, anche l'Inghilterra doveva procurarsi qualcosa di analogo, almeno a livello di ideali, visto che nel Partito Laburista nessuno era così affascinante. I Conservatori ottusi, ancora impegnati a combattere l'ultima guerra, ancora pieni di nostalgia per la disciplina e le privazioni belliche, avevano fatto il loro tempo. La sensazione di Edward e Florence che un bel giorno non molto lontano il paese sarebbe cambiato in meglio, che nuove energie come vapore compresso premessero per venire a galla, si mescolava all'euforia della loro avventura d'amore. Gli anni Sessanta erano il decennio del loro ingresso nella vita adulta, perciò sentivano senza dubbio di appartenervi. I fumatori del piano di sotto, avvolti nei loro golf dai bottoni argentati, con in mano un doppio Whisky al malto, in mente i ricordi di
campagne in Nord-africa e Normandia, e sulle labbra calcolati residui di gergo militare, non potevano avanzare diritti sul futuro. Tempo scaduto, signori, prego! La foschia rarefatta continuava a svelare alberi vicini, scogliere nude alle loro spalle e spicchi di mare d'argento, mentre l'aria tersa della sera entrava a fiotti a circondare la tavola, e gli sposi imperterriti fingevano di mangiare, intrappolati nel tempo delle loro angosce personali. Florence si limitava a spostare il cibo nel piatto. Edward masticava simbolici bocconi di patata, incidendoli con la punta della forchetta. Ascoltarono impotenti il secondo servizio del giornale radio, consapevoli entrambi di quanto fosse squallido da parte loro aggregare la propria attenzione a quella degli ospiti dell'albergo. La prima notte di nozze, e non trovavano niente da dirsi. Le parole giungevano attutite dal piano di sotto, ma riuscirono a distinguere «Berlino» e seppero all'istante che si parlava della vicenda che di recente aveva appassionato le masse. Il tentativo di fuga dalla Germania comunista alla Berlino ovest, a bordo di un traghetto sequestrato sul Wannsee, con i transfughi ammassati accanto alla timoneria per scansare i proiettili delle guardie tedesco-orientali. Ascoltarono la notizia per intero per poi passare, era da non credere, al terzo servizio, riguardo alla giornata conclusiva di un congresso islamico a Baghdad. Incatenati agli eventi mondiali dalla loro stessa stupidità! così non si poteva andare avanti. Era il momento di agire. Edward si allentò la cravatta e depose con risolutezza coltello e forchetta paralleli sul piatto. «Tanto vale scendere, almeno sentiamo come si deve.» Sperava di fare dell'umorismo, di indirizzare il proprio sarcasmo su entrambi, ma le parole gli uscirono con sorprendente ferocia, e Florence arrossi. Pensò che ce l'avesse con lei e l'accusasse di preferire la radio, e senza lasciargli il tempo per addolcire o alleggerire il commento, si precipitò a dire: «Oppure possiamo andare a sdraiarci sul letto,» per poi scostarsi dalla fronte un capello invisibile con gesto nervoso. Per dimostrargli quanto si sbagliasse, gli proponeva la cosa che lui desiderava più di ogni altra e lei più di ogni altra temeva. Florence in effetti sarebbe stata più contenta, o meno scontenta, di scendere in sala e passare il tempo a chiacchierare tranquilla con le signore sui divani a fiori, mentre gli uomini si concentravano sul notiziario, travolti dalle burrasche della storia. Tutto, tranne questo. Suo marito le sorrideva ritto in piedi, porgendole cortesemente la mano. Anche lui era un po' rosso in viso.
Il tovagliolo gli restò appeso in vita per un istante e penzolò in modo assurdo, come un perizoma, poi svolazzò a terra senza fretta. Non c'era più niente da fare, tranne svenire, e Florence era un disastro come attrice. Si alzò e gli prese la mano, sapendo che il sorriso con cui rispondeva a quello di lui era tirato e poco convincente. Non le sarebbe stato di nessun aiuto sapere che Edward, trasognato com'era, non l'aveva mai vista così bella. C'era qualcosa nelle braccia di lei, ricordò di aver pensato in seguito, talmente sottili, talmente delicate, e pronte a cingergli amorevolmente il collo. E in quei suoi splendidi occhi castani, accesi di una passione innegabile, e nel tremito del labbro inferiore che in quel preciso momento Florence inumidiva con la lingua. Usando la mano libera, Edward cercò di afferrare le bottiglie e i bicchieri semivuoti, ma il gesto si rivelò troppo complicato e impegnativo; i bicchieri battevano l'uno contro l'altro incrociando gli steli e rovesciando il vino. Optò per la bottiglia sola, che afferrò dal collo. Nonostante lo stato d'animo euforico e concitato, gli pareva di comprendere la consueta riservatezza di lei. Ulteriore ragione di gioia dunque, che ora affrontassero insieme quel momento così solenne, quello spartiacque esistenziale. E il dato entusiasmante restava che fosse stata Florence a suggerire di mettersi a letto. La condizione recentemente acquisita doveva averla emancipata. Sempre tenendola per mano, Edward fece il giro del tavolo e si avvicinò per baciarla. E ritenendo volgare farlo con la bottiglia di vino in pugno, decise di posarla di nuovo. «Sei bellissima,» le bisbigliò. Lei si impose di ricordare che lo amava moltissimo. Era un uomo gentile, sensibile, innamorato, che non le avrebbe mai fatto del male. Si inabissò nell'abbraccio di lui, premendosi contro il suo petto e respirando il profumo di sempre, la cui nota legnosa la rassicurava. «Sono così felice di essere qui con te.» «Sono tanto felice anch'io,» disse lei sottovoce. Mentre si baciavano, Florence gli senti subito la lingua, vigorosa e dura, aprirsi un varco oltre i suoi denti, come un prepotente che si faccia strada dentro una stanza. Per entrare dentro di lei. Per reazione, la sua si ritrasse a cucchiaio in un moto di involontario disgusto, creando solo ulteriore spazio per quella di Edward. Lo sapeva benissimo che lei non gradiva quel tipo di baci, e in passato non era mai stato altrettanto deciso. Con le labbra premute strette contro le sue, Edward scandagliò l'arco morbido della bocca di Florence, per poi muoversi intorno ai denti della chiostra inferiore fino alla sede vuota che tre anni prima aveva ospitato un dente del giudizio cresciuto storto e quindi estratto in anestesia
generale. E alla cavità verso cui la sua stessa lingua tendeva a portarsi quando Florence era sovrappensiero. Per associazione mentale dunque rappresentava piuttosto un'idea che un semplice punto del corpo, un luogo privato e immaginario più che un buco nella gengiva, e le pareva strano che ci potesse arrivare un'altra lingua oltre alla sua. Era proprio la punta rigida di quel muscolo estraneo e fremente di vita a farle schifo. La mano sinistra di lui le premeva al di sopra delle scapole, appena sotto il collo, per avvicinare il livello delle due teste. Claustrofobia e senso di soffocamento aumentarono mentre si rafforzava in Florence la consapevolezza di non poter accettare di offenderlo. Ecco, restava sotto la lingua, gliela sospingeva verso il palato; ora invece era sopra e premeva in giù, poi scivolava tutto intorno, come se avesse in mente di farle in bocca un bel nodo. Era deciso a coinvolgere la sua lingua in una misteriosa attività privata, a sedurla in un odioso duetto senza parole, ma Florence riusciva solo a ritrarsi e a concentrarsi sulla volontà di non lottare, non opporre resistenza, non entrare in panico. Le passò per la testa un pensiero assurdo: e se gli avesse vomitato in bocca? Il matrimonio sarebbe finito li, e lei sarebbe dovuta tornare a casa a spiegare tutto ai suoi. Florence capiva perfettamente che quella storia della lingua, quella penetrazione, costituiva una messinscena su scala ridotta dell'atto, un tableau vivant rituale di ciò che ancora doveva venire, come il prologo di un vecchio dramma in cui si riassuma tutto ciò che sta per accadere. In attesa che quel momento passasse, mentre, per ragioni di convenienza, teneva le mani appoggiate ai fianchi di Edward, Florence si rese conto di essersi imbattuta in una elementare verità vuota, ed evidente con il senno di poi, primordiale e antica come un danegeld o un droit de seigneur, e di una semplicità pressoché ineffabile. Decidendo di sposarsi, era esattamente a questo che aveva offerto il proprio consenso. Aveva concesso il diritto di fare quella cosa, e di farsela fare. Nel momento in cui tutti insieme, lei, Edward e i genitori di entrambi, si erano attardati nel buio della sacrestia dopo il rito a firmare il registro, era a sigillo di quell'atto che avevano apposto il proprio nome; tutto il resto, la presunta maturità, il lancio di riso, la torta nuziale, erano giusto distrazioni educate. E se non le garbava, la responsabilità era soltanto sua, visto che ogni scelta nell'arco dell'anno passato conduceva a quello, era solo colpa sua, e a quel punto credette sul serio di essere li li per vomitare. Sentendola gemere, Edward ebbe la certezza di avere quasi raggiunto l'apice della felicità. Aveva l'impressione di una deliziosa assenza di peso, di fluttuare a svariati centimetri da terra in modo da sovrastare Florence dolcemente. Il modo in cui il cuore batteva forte fino a pulsare li in fondo alla gola gli procurava un dolore-piacere. Era emozionato dal tocco leggero delle mani di lei non molto lontane dall'inguine, e dalla cedevolezza del suo
bel corpo stretto fra le braccia, e dal suono caldo del suo respiro vibrante fra le narici. La lingua di Florence avvolta intorno alla sua che spingeva lo condusse a un vertice di estasi sconosciuta, fredda e pungente, appena sotto il costato. Chissà, forse un giorno non troppo lontano, magari stasera stessa, e magari di sua volontà, l'avrebbe persuasa a prendergli il sesso in quella sua bocca morbida e meravigliosa. Ecco un pensiero che andava scacciato però il più in fretta possibile, perché Edward correva davvero il pericolo di concludere troppo in fretta. Già lo sentiva accadere, già si sentiva in bilico sulla vergogna. Appena in tempo, pensò al giornale radio, alla faccia da tricheco del primo ministro, Harold Macmillan, l'eroe di guerra, il vegliardo alto e curvo che a tutto faceva pensare tranne che al sesso: ideale per l'attuale bisogna. Disavanzo commerciale, congelamento salariale, prezzi minimi imposti. Alcuni ce l'avevano con lui perché aveva svenduto l'Impero, ma in effetti non c'era alternativa dato il «vento del cambiamento» che soffiava sull'Africa. Da un laburista nessuno avrebbe mai accettato un messaggio del genere. E aveva pure spedito a casa un terzo dei suoi ministri nella cosiddetta «notte dei lunghi coltelli». Doveva esserci voluto un bel po' di fegato. Mac il Coltello, aveva titolato un giornale; Macbeth!, rilanciava un altro. I benpensanti lo accusavano di aver sotterrato la nazione sotto una valanga di televisori, automobili, supermercati e pattume vario. Lui dava alla gente quello che la gente chiedeva. Panem et circenses. Una nuova nazione, e adesso si era messo in testa di farci diventare europei, e come essere certi che avesse torto? Finalmente stabilizzatosi, Edward poté lasciar svanire i pensieri, e tornare a identificarsi con la propria lingua, con la punta della propria lingua per la precisione, e in quello stesso momento Florence decise che non ce la faceva più. Le pareva di soffocare, si sentiva inchiodata, aveva la nausea. E udiva un suono crescente, non in staccato come una scala, bensì in un lento glissando, e non su una tonalità di violino o di voce, bensì a metà tra le due e sempre più forte, sempre più forte, quasi insopportabile ma comunque nell'ambito dell'udibile, un ibrido voce-violino che sembrava costantemente sul punto di significare qualcosa, di comunicarle qualcosa di urgente facendo ricorso a sibilanti e vocali più antiche delle parole. Poteva arrivare dalla stanza stessa, o da fuori nel corridoio, o essere solo nelle sue orecchie, come un tintinnio. Era perfino possibile che fosse lei stessa a produrlo. Non le importava: al momento doveva uscire. Liberò con uno strattone la testa e si divincolò dalle braccia di Edward. Mentre lui la guardava allibito, a bocca aperta e con il principio della domanda nell'espressione del viso, gli prese la mano e lo trascinò verso il letto. Era assurdo da parte sua, per non dire folle, quando avrebbe in realtà voluto
fuggire da quella stanza, traversare di corsa i giardini e il viottolo e andare a sedersi in spiaggia, da sola. Anche un minuto soltanto avrebbe giovato. Ma aveva un senso del dovere dolorosamente forte e non sapeva resistergli. Non sopportava l'idea di deludere Edward. E poi era convinta di essere in pieno torto. Se tutti gli ospiti delle nozze e i parenti si fossero stipati dentro quella stanza a osservare non visti, i loro fantasmi avrebbero preso le parti di Edward e dei suoi desideri pressanti, giustificati. Avrebbero pensato che ci fosse qualcosa che non funzionava in lei, e avrebbero avuto ragione. Florence sapeva inoltre di aver tenuto un comportamento penoso. Per sopravvivere, per sottrarsi a quella circostanza odiosa, doveva alzare la posta, concentrarsi sul passo successivo, dando l'impressione controproducente di desiderare la stessa cosa anche lei. L'atto finale non poteva essere rimandato per sempre. Il momento stava per arrivare, e lei gli andava incontro come un'idiota. Era intrappolata in un gioco del quale non poteva mettere in discussione le regole. Non poteva evitare la logica che la vedeva alla guida, nell'atto di trascinare Edward in fondo alla stanza verso la porta aperta della camera e verso il piccolo letto a baldacchino dalla candida sopraccoperta tesissima. Non aveva la minima idea di che cosa avrebbe fatto una volta li, ma perlomeno il suono era cessato e nei pochi secondi necessari per arrivare, bocca e lingua le erano state restituite, poteva respirare di nuovo e provare a riprendere possesso di se stessa.
Due Come si erano conosciuti, e come mai due innamorati dell'era moderna si rivelavano così timidi e ingenui? Pur reputandosi troppo evoluti per credere al destino, restava paradossale ai loro occhi il fatto che un incontro di quella portata potesse essersi verificato per caso, determinato da centinaia di contingenze e scelte insignificanti. L'eventualità che non succedesse affatto era un pensiero tanto terrificante quanto possibile. E, nell'impeto amoroso dei primi tempi, ragionavano spesso su come le loro strade si fossero quasi incrociate nella prima adolescenza, nelle occasioni in cui Edward scendeva in visita a Oxford dalle squallide lontananze di casa sua, nei Chiltern. Amavano trastullarsi con il pensiero di essersi sfiorati a uno dei celebri eventi giovanili locali, alla fiera di St Giles magari, la settimana iniziale di settembre, o all'alba del primo maggio per il tradizionale May Morning, una consuetudine ridicola, a giudizio di entrambi sopravvalutata; oppure alla darsena Cherwell per affittare un barchino (sebbene Edward l'avesse fatto un'unica volta in vita sua); o ancora, qualche anno dopo, durante una sbronza proibita a spasso per Turl Street. Edward era anche convinto della possibilità di avere raggiunto in autobus la Oxford High School in compagnia di molti altri tredicenni, per farsi stracciare in una gara di cultura generale da un branco di ragazzine misteriosamente informate e ammodo come altrettante adulte. Magari era un'altra scuola. Florence non ricordava di aver fatto parte della squadra, ma confessò che era il genere di attività in cui le piaceva cimentarsi. Quando confrontavano le rispettive mappe mentali e geografiche di Oxford, le scoprivano parecchio simili. Poi gli anni dell'infanzia e della scuola ebbero fine e, nel 1958, entrambi scelsero Londra, University College lui, conservatorio lei, e naturalmente non si incontrarono. Edward stava da una zia vedova a Camden Town e raggiungeva Bloomsbury in bicicletta ogni mattina. Lavorava di giorno, e il fine settimana giocava a pallone, e beveva birra con gli amici. Fino a quando la cosa non cominciò a farlo vergognare di sé, non gli dispiaceva ogni tanto menare le mani all'uscita dal pub. L'unico passatempo serio e non strettamente fisico era la musica: ascoltava quei vigorosi brani di blues elettrico che si rivelarono autentici precursori e impulso vitale del rock'n'roll britannico. Quella musica, con il senno di poi, era di gran lunga superiore alle strampalate canzonette da tre minuti l'una in arrivo da Liverpool e destinate a conquistare il mondo nel giro di qualche anno. Spesso la sera Edward lasciava la biblioteca e percorreva Oxford Street fino all'Hundred Club per ascoltare i Powerhouse Four di John Mayall, o Alexis Korner, o Brian Knight. Nel triennio da studente, le sere al club furono il
massimo dell'esperienza intellettuale, e per anni a venire ritenne che quella musica avesse formato il suo gusto e perfino plasmato la sua vita. Le poche ragazze che conosceva, non ce n'erano tante nelle università, al tempo, arrivavano dalla periferia solo per le lezioni e se ne ripartivano nel tardo pomeriggio, con l'ordine preciso, a quanto dicevano, di farsi trovare a casa entro le sei. Senza bisogno di essere esplicite, comunicavano il chiaro intento di «preservarsi» per il futuro marito. Nessun malinteso possibile: per fare del sesso con una di loro era necessario sposarla. Un paio di amici, entrambi discreti giocatori di calcio, fecero quella scelta, si sposarono prima di finire il secondo anno di studi e sparirono dalla circolazione. Uno dei due sventurati in particolare diventò una specie di leggenda, un monito per gli altri. Aveva messo incinta un'impiegata della segreteria amministrativa dell'ateneo e, a sentire gli amici, fu «trascinato all'altare»; scomparve per un anno e infine qualcuno lo sorprese su Putney High Street mentre spingeva una carrozzina, attività ancora degradante per un uomo in quei giorni. La Pillola era una diceria sui giornali, una promessa ridicola, l'ennesimo sproposito su quanto accadeva in America. Dai brani che ascoltava all'Hundred Club, Edward ricavava l'impressione che intorno a lui, appena fuori dal suo limitato campo visivo, giovanotti della sua età conducessero vite sessuali prorompenti e instancabili, ricche di ogni sorta di gratificazione. La musica pop era castigata, ancora pudica al riguardo, i film, un tantino più espliciti, ma nella cerchia di Edward i maschi dovevano contentarsi di barzellette oscene, qualche goffa spacconata sessuale e farneticanti cameratismi incoraggiati da grandi bevute che riducevano ulteriormente le possibilità di incontrare una ragazza. I cambiamenti sociali non procedono mai con passo regolare. Correva voce che nel dipartimento di inglese, e più giù verso la School of Oriental and African Studies, nonché alla London School of Economics, su Kingsway, maschi e femmine fasciati in jeans e dolcevita nere non facessero altro che sesso matto, senza bisogno di conoscere i rispettivi genitori. Si rumoreggiava addirittura di spinelli. Ogni tanto Edward si faceva una passeggiata sperimentale dalla facoltà di storia a quella di lettere, nella speranza di trovare tracce di paradisi terrestri, ma corridoi, bacheche, e perfino le studentesse gli sembravano identici. Florence stava sul lato opposto della città, nei pressi dell'Albert Hall, in un lindo ostello femminile dove alle undici si spegnevano le luci, i visitatori maschi non erano ammessi a nessuna ora del giorno e della notte, e c'era un continuo viavai di ragazze da una camera all'altra. Lei si esercitava cinque ore al giorno e andava ai concerti con le amiche. Amava soprattutto quelli di musica da camera alla Wigmore Hall, specie i quartetti per archi, e le
capitava di seguirne anche cinque alla settimana, diurni e serali. Le piaceva la solennità ombrosa del luogo, i vecchi muri scrostati del dietro le quinte, la boiserie luccicante e la moquette rosso cupo dell'atrio, la galleria dorata dell'auditorium, la celebre cupola sovrastante il palco sulla quale, le avevano detto, era raffigurato l'anelito umano verso l'astrazione magnifica della musica, con il Genio dell'Armonia rappresentato in forma di sfera di fuoco perenne. La sua reverente ammirazione andava ai signori d'altri tempi, gli ultimi vittoriani, quelli che impiegavano diversi minuti a scendere da un taxi e, aiutandosi con il bastone da passeggio, raggiungevano barcollando il loro posto a sedere, per ascoltare musica in un attonito silenzio critico, gettandosi a volte sulle ginocchia il plaid scozzese che si erano portati da casa. Quei fossili, quei piccoli crani bozzuti umilmente chini verso il palcoscenico, rappresentavano, agli occhi di Florence, saggezza critica e raffinata competenza, o suggerivano l'idea di una perizia musicale che le dita artritiche non erano più in grado di onorare. C'era inoltre l'elementare emozione di sapere che tanti interpreti di fama mondiale avevano suonato lì e che proprio su quel palcoscenico avevano avuto inizio carriere prestigiose. Era lì che Florence aveva ascoltato la violoncellista sedicenne Jacqueline du Pré eseguire il suo primo concerto. I gusti di Florence non erano magari estrosi, intensi però si. L'opera 18 di Beethoven la ossessionò per qualche tempo, seguita a ruota dagli ultimi grandi quartetti. Schumann, Brahms, e infine, durante l'ultimo anno di corso, i quartetti di Frank Bridge, poi Bartek e Britten. Nell'arco dei tre anni, ebbe modo di ascoltare tutti questi compositori alla Wigmore Hall. Al secondo anno le fu offerto un impiego part-time in teatro: doveva servire il tè ai musicisti nell'ampia sala verde, stando incollata al buco della serratura per poter aprire la porta quando gli artisti lasciavano il palcoscenico. Inoltre, girava le pagine degli spartiti ai pianisti durante i brani di musica da camera, e una sera poté addirittura restare accanto a Benjamin Britten in un programma di cantate che comprendeva Haydn, Frank Bridge e lo stesso Britten. Erano presenti il ragazzino cui era affidata la partitura per voci bianche e Peter Pears, che le allungò un biglietto da dieci scellini allontanandosi con il grande compositore. Florence scopri le aule di prova vicine, sotto la sala dei pianoforti, dove pianisti leggendari del calibro di John Ogdon e Cherkassky tuonavano per mattinate intere scale e arpeggi su e giù per la tastiera, come forsennati allievi del primo anno di corso. La Wigmore Hall diventò per lei una specie di seconda casa: era gelosa di ogni suo negletto angolo polveroso, perfino dei brutti gradini di cemento che portavano ai servizi. Uno dei suoi compiti era quello di riordinare la sala verde, e un pomeriggio,
nel cestino della carta straccia, trovò alcuni appunti d'esecuzione dell'Amadeus Quartet, redatti a matita e gettati via. La grafia, serpeggiante, leggera, a stento decifrabile, riguardava il movimento di apertura del Quartetto numero 15 di Schubert. La entusiasmò riuscire alla fine a individuare l'indicazione «Attacca subito! » Florence non poté fare a meno di trastullarsi con l'idea di aver ricevuto in dono un messaggio importante, un suggerimento vitale, e due settimane più tardi, poco dopo l'inizio dell'ultimo anno di corso, chiese a tre dei migliori studenti del conservatorio di formare con lei un quartetto d'archi. Solo il violoncellista era un maschio, ma Charles Rodway non rivestiva alcun interesse romantico ai suoi occhi. I ragazzi del conservatorio, innamorati della musica, ferocemente ambiziosi e ignoranti su qualunque argomento esulasse dal loro strumento e il repertorio ad esso relativo, non l'attirarono mai granché. Ogni volta che una ragazza del gruppo frequentava seriamente un altro studente, spariva dallo scenario sociale, esattamente come i compagni di calcio di Edward. Pareva che la ragazza fosse entrata in convento. Poiché non sembrava possibile uscire con un ragazzo e continuare a vedere gli amici, Florence preferiva restare con il gruppo dell'ostello. Le piaceva quell'atmosfera allegra, confidenziale, gentile, i festeggiamenti copiosi per il compleanno dell'una e dell'altra, le premure a base di bevande calde, coperte e frutta se a qualcuno capitava di beccarsi un malanno. Gli anni di conservatorio furono per lei sinonimo di libertà. Le mappe londinesi di Edward e Florence avevano poco in comune. Lei non conosceva i locali di Fitzrovia e Soho, e pur avendo ne da sempre l'intenzione, di fatto non entrò mai nella sala di lettura del British Museum. Lui ignorava del tutto la Wigmore Hall e le sale da tè del quartiere; non aveva mai fatto un picnic in Hyde Park né noleggiato una barca sulla Serpentina. Furono lieti di scoprire di essere stati entrambi in Trafalgar Square nel '59, insieme ad altre ventimila persone circa, tutte quante decise a fermare le bombe. Non si conobbero che alla fine dei loro percorsi londinesi, quando entrambi tornarono a casa dei genitori e alla bonaccia delle rispettive infanzie, per annoiarsi un paio di torride settimane in attesa dei risultati d'esame. In seguito fu proprio questo a dar da pensare: con quanta facilità !'incontro avrebbe potuto non verificarsi. Per Edward, quel giorno particolare sarebbe potuto trascorrere come quasi ogni altro: in isolamento, al fondo del giardino stretto, seduto su una panchina umida di muschio all'ombra di un olmo gigantesco, a leggere e tenersi alla larga da sua madre. A una cinquantina di metri di distanza, la faccia di lei, pallida e dai contorni incerti come nelle figure dei suoi
acquerelli, sarebbe rimasta alla finestra di cucina o del soggiorno per anche venti minuti di seguito, a guardarlo fisso. Lui cercava di non farci caso, ma quello sguardo era come un tocco della sua mano sulla schiena o su una spalla. Poi dal piano di sopra sarebbe venuto il suono del pianoforte: sua madre che si esercitava su uno dei brani del Quaderno di Anna Magdalena, l'unico pezzo di musica classica a lui noto, al tempo. Mezz'ora più tardi sarebbe magari tornata a contemplarlo dai vetri. Non usciva mai a parlargli se lo vedeva con un libro. Anni prima, quando Edward era ancora un semplice scolaro, il padre l'aveva con pazienza messa in guardia dall'interrompere gli studi di suo figlio. Quell'estate, dopo gli esami di laurea, l'attenzione di Edward era attratta dai culti medievali più estremisti e dai loro sfrenati ispiratori che immancabilmente si proclamavano il Messia. Per la seconda volta in un anno stava leggendo I fanatici dell'Apocalisse di Norman Cohn. Fomentate da ipotesi sull' Apocalisse tratte dal Libro delle Rivelazioni e da Daniele, convinte che il Papa fosse l'Anticristo, la fine del mondo imminente, e che soltanto i puri si sarebbero salvati, disordinate moltitudini si riversavano nelle campagne tedesche, andando di villaggio in villaggio a massacrare ebrei (ogni volta che ne incontravano), nonché sacerdoti e, qualche volta, anche ricchi signori. A quel punto le autorità reprimevano severamente l'iniziativa, e a pochi anni di distanza, sbocciava altrove un' altra setta. Dal tedio rassicurante della sua esistenza, Edward leggeva inorridito e insieme affascinato di quelle ricorrenti esplosioni di irragionevolezza, grato di vivere in tempi in cui il ruolo della religione era perlopiù sbiadito nell'irrilevanza. Stava decidendo se fare domanda di iscrizione a un dottorato, sempre che il suo punteggio di laurea fosse abbastanza alto. L'argomento della tesi poteva essere il fanatismo religioso medievale. Nel corso di lunghe passeggiate nei boschi di faggi, fantasticò di redigere una serie di brevi biografie di personaggi pressoché oscuri vissuti ai margini di grandi eventi storici. Il primo sarebbe stato Sir Robert Carey, colui che coprì a cavallo in settanta ore la distanza tra Londra e Edimburgo per riferire la notizia della morte di Elisabetta I al suo successore, Giacomo VI di Scozia. Carey era un uomo interessante e aveva provvidenzialmente lasciato un memoriale. Combatté contro l'Armada di Spagna, fu un pregevole spadaccino, e un patrocinatore della compagnia dei Lord Chamberlain's Men. La sfibrante cavalcata verso nord doveva in teoria guadagnargli grande favore presso il nuovo sovrano, mentre egli visse relativamente nell'ombra. Quando era di umore più pratico, Edward pensava che avrebbe fatto meglio a cercarsi un lavoro vero, tipo insegnare storia in un ginnasio, e tentare di evitarsi il servizio militare.
Se non leggeva, di solito prendeva per il vicolo e, lungo il viale di tigli, raggiungeva il paesino di Northend dove abitava Simon Carter, un amico di scuola. Quella mattina in particolare però, stanco di libri, cinguettii e pace campestre, Edward passò alla rimessa, inforcò la sgangherata bici di quand'era bambino, alzò la sella, gonfiò le gomme e parti senza una meta. In tasca aveva una sterlina e due mezze corone, e il proposito era solo quello di fare un po' di moto. Lanciato a una velocità incosciente, anche perché i freni funzionavano assai male, sfrecciò nella galleria di fronde, giù per la discesa ripida, oltre le cascine dei Balham e poi degli Stracey, fino alla tenuta Stonor, e ballonzolando lungo lo steccato del parco, prese la decisione di proseguire fino a Henley, ad altre quattro miglia di strada. Arrivato in paese, andò dritto alla stazione con il vago intento di recarsi a Londra da certi amici. Ma il treno fermo al binario era diretto a Oxford, dalla parte opposta. Un'ora e mezza più tardi vagava per le vie del centro nella canicola di mezzogiorno, ancora un po' annoiato e scontento di aver sprecato tempo e denaro. Quella era stata una volta la sua metropoli, fonte o promessa di quasi ogni spasso adolescenziale. Dopo Londra però sembrava una città giocattolo, soffocante, provinciale, piena di ridicole pretese. A un certo punto, il portiere di un college lo guardò torvo dall'ombra di un portone e Edward ebbe quasi voglia di girarsi a parlargli. Poi invece optò per il conforto di una birra. Percorrendo St Giles in direzione dell'Eagle and Child, vide un cartello scritto a mano che annunciava un raduno a colazione del Comitato per il disarmo nucleare, ed ebbe un attimo di incertezza. Non amava particolarmente quelle volenterose adunanze, né per la loro retorica enfatica né per la cupa rettitudine che vi aleggiava. Certo, la corsa al riarmo era abominevole e andava fermata, ma a quegli incontri Edward non aveva mai imparato nemmeno una cosa nuova. Comunque, era iscritto al comitato, non aveva nient'altro da fare e si sentiva anche un po' in obbligo. Era suo dovere dare una mano a salvare il mondo. Si infilò nel corridoio piastrellato e fece il proprio ingresso in una sala buia: soffitto basso a travi dipinte, forte odore di cera per legno e di polvere come in chiesa, e il brusio discordante di voci che si accavallano. Non appena ebbe abituato lo sguardo alla poca luce, la prima persona che vide fu Florence che, accanto a una porta, parlava con un tizio allampanato e di colorito giallognolo, con in mano una risma di opuscoli. Florence indossava un abito di cotone bianco, svasato come un vestito da festa, con un cinturino di pelle azzurra stretto in vita. Per un attimo Edward pensò che facesse l'infermiera: in linea con il luogo comune vigente, trovava le infermiere soggetti erotici, dal momento che, così gli piaceva pensare, sapevano già ogni cosa del corpo e dei suoi bisogni. A differenza di tutte le
ragazze che gli era capitato di ammirare per strada o nei negozi, Florence non abbassò gli occhi. Il suo sguardo era ironico e perplesso, forse annoiato e a caccia di distrazioni. Il viso insolito, senz'altro bello ma come scolpito e forte di ossa. Nella penombra della sala, la qualità particolare della luce che proveniva da una finestra in alto a destra conferiva al suo volto l'aspetto di una maschera intagliata, serena, meditabonda e piuttosto indecifrabile. Entrando nella stanza, Edward non si era fermato. Procedeva verso di lei senza avere la minima idea di che cosa le avrebbe detto. Quando si trattava di rompere il ghiaccio, la sua inettitudine era assoluta. Lei lo osservava arrivare e, quando fu abbastanza vicino, sfilò un opuscolo dalla pila dell'amico e disse: «Ne vuoi uno? Parla degli effetti di una bomba all'idrogeno qui a Oxford.» Mentre Edward riceveva l'opuscolo dalle sue mani, le dita di lei indugiarono, di certo non per caso, sul lato interno del polso. «Non riesco a immaginare niente che leggerei più volentieri,» commentò Edward. L'altro ragazzo intanto aveva un'aria velenosa e non vedeva l'ora che Edward si allontanasse, ma non ci fu verso. Anche lei stava malvolentieri in casa, una grossa villa vittoriana in stile gotico, leggermente arretrata rispetto a Banbury Road, un quarto d'ora a piedi da lì. Sua madre, Violet, correggeva prove d'esame nella calura per tutto il santo giorno, e tollerava a fatica la sequenza di esercizi quotidiani di Florence: scale su scale, arpeggi, doppie corde, prove di memoria. Il termine utilizzato da Violet era «stridere»; diceva: «Tesoro, oggi non ho ancora finito. Potresti aspettare a stridere dopo cena?» In teoria doveva trattarsi di una battuta affettuosa, ma Florence, insolitamente irascibile quella settimana, la prese come un'ulteriore conferma della disapprovazione di Violet e della sua ostilità nei riguardi della musica in generale, e perciò di lei stessa in particolare. Avrebbe dovuto compatirla, sua madre, lo sapeva. Era talmente negata per la musica che non avrebbe riconosciuto una melodia, foss'anche quella dell'inno nazionale, se non per confronto diretto con «Tanti auguri a te! » Era una di quelle persone che non sanno dire se una nota è più alta o più bassa di un'altra: un'invalidità non meno sciagurata di un piede storto, o di un labbro leporino, ma dopo le relative libertà godute a Kensington, Florence trovava la vita domestica opprimente in modo capillare e non riusciva a fare appello alla propria comprensione. Ad esempio, non le spiaceva doversi rifare il letto ogni mattina, ci era abituata, ma la irritava sentirselo ricordare ogni volta che scendeva a colazione. Come le accadeva spesso dopo essere stata via, suo padre suscitava in lei emozioni discordanti. C'erano volte in cui lo trovava fisicamente ripugnante e a stento riusciva a reggerne la vista, la pelata lucida, le manine bianche, i fervidi progetti per migliorare il giro d'affari e i relativi guadagni e quella
sua voce alta, tenorile, tra il supplichevole e il perentorio, con gli accenti calcati in modo eccentrico. Detestava ascoltare le sue cronache entusiastiche sulla barca, battezzata con quel nome ridicolo, Sugar Plum, e ormeggiata al porto di Poole. Le veniva l'orticaria a sentirlo blaterare di un nuovo tipo di vela, della radio di bordo, di un' ottima vernice navale. In passato la portava con sé ed era capitato spesso, quando Florence aveva dodici, tredici anni, che azzardasse una traversata fino a Carteret, vicino a Cherbourg. Non parlavano mai di quelle uscite. Lui aveva smesso di invitarla, e lei era contenta così. Qualche volta però, in un empito di affetto e di senso di colpa, gli arrivava alle spalle, se lo abbracciava stretto, gli baciava la zucca e gli si strofinava addosso, godendosi il suo odore di pulito. E dopo tutto ciò, si detestava per averlo fatto. Anche la sorella minore le dava sui nervi, per l'accento londinese recentemente acquisito e la deliberata inettitudine al pianoforte. Come avrebbero potuto accontentare il padre suonando marce di John Philip Sousa, quando Ruth fingeva di non riuscire a contare un tempo di quattro quarti? Come sempre, Florence tendeva a nascondere i sentimenti ai famigliari. Non le costava nulla, bastava uscire dalla stanza, non appena era possibile farlo senza dare nell'occhio; in seguito avrebbe ringraziato il cielo di non essersi lasciata scappare, con i genitori e la sorella, parole amare o velenose che l'avrebbero tenuta sveglia e angustiata per tutta la notte. Non faceva che ricordare a se stessa quanto amava la sua famiglia, intrappolandosi sempre più efficacemente nel silenzio. Sapeva benissimo che la gente litiga, anche in modo burrascoso magari, e poi si riconcilia. Ma non aveva idea di come iniziare: molto semplicemente non conosceva il trucco, il dissidio che rasserena, e non era mai riuscita a convincersi del tutto che le parole ostili potessero essere cancellate e dimenticate. Meglio mantenere le cose come stavano. Ecco perché non poteva che dare la colpa a se stessa quando le capitava di sentirsi come uno di quei personaggi da cartone animato che sbuffano vapore dalle orecchie. E poi aveva anche altri pensieri. Le conveniva accettare un impieguccio presso un'orchestra di provincia, si sarebbe considerata fortunatissima di riuscire a entrare nella Bournemouth Symphony Orchestra, oppure doveva cercare di dipendere ancora un anno dai suoi genitori, da suo padre per la precisione, e lavorare sodo con il quartetto d'archi nella speranza di un primo ingaggio? Quest'ultima ipotesi avrebbe significato vivere a Londra, e Florence non aveva voglia di chiedere altri soldi a Geoffrey. Charles Rodway, il violoncellista, le aveva offerto la stanza degli ospiti in casa dei suoi, ma era un tipo acuto e riflessivo che lanciava lunghe occhiate cariche di significato. Alloggiando da lui, si sarebbe ritrovata alla sua mercé. Sapeva della
disponibilità sicura di un lavoro a tempo pieno, con un trio stile Palm Court in uno squallido grand hotel a sud di Londra. Non si faceva scrupoli sul genere di musica da suonare, tanto non l'avrebbe ascoltata nessuno, ma una sorta di istinto, o forse di puro snobismo, la convinse che non poteva vivere a Croydon o nei dintorni. Decise in cuor suo che i risultati d'esame l'avrebbero aiutata a scegliere; perciò, come Edward a quindici miglia a est, fra i boschi delle colline, trascorreva le giornate in una specie di anticamera, in attesa spasmodica che la sua esistenza prendesse il via. Di ritorno dal conservatorio ormai tutt'altro che una scolaretta, anzi giovane donna ma in un senso che in casa nessuno poteva notare, Florence cominciava a rendersi conto che i suoi avevano opinioni politiche piuttosto discutibili e, almeno su quel punto, si concesse di dissentire esplicitamente anche a tavola, nel corso di diverbi che si trascinavano nelle lunghe sere d'estate. Erano in parte un sollievo, quelle conversazioni, ma esasperavano anche la sua limitata pazienza. Violet era autenticamente interessata all'impegno della figlia nel Comitato per il disarmo nucleare, anche se avere una filosofa per madre era un peso per Florence. Recepiva come una provocazione la seraficità di sua madre o, per meglio dire, la sua affettata mestizia quando ascoltava la figlia fino in fondo, e poi partiva a esprimere il proprio illuminato parere. Sosteneva che in Unione Sovietica vigeva una tirannia feroce, uno stato crudele e spietato, responsabile di genocidi su scala superiore a quelli della Germania nazista e di una sconfinata e pressoché ignota rete di campi di lavoro per prigionieri politici. Proseguiva poi denunciando processi burla, censura, assenza di legalità. L'Unione Sovietica aveva calpestato la dignità dell'uomo e i fondamentali diritti civili; era una potenza aggressiva, determinata a invadere le nazioni confinanti (Violet aveva amici cechi e ungheresi tra i colleghi dell'università); propugnava un ideale espansionistico. Era perciò necessario opporvisi non meno che al regime di Hitler. Se, in mancanza di uomini e mezzi per difendere la pianura tedesca settentrionale, resistere si dimostrava impossibile, bisognava almeno tentare. Un paio di mesi più tardi, Violet avrebbe visto nell'edificazione del muro di Berlino la piena conferma dei propri postulati: l'impero comunista era diventato una gigantesca prigione. Florence sapeva in cuor suo che l'Unione Sovietica, a dispetto di tutti gli errori commessi, per incapacità, inefficacia, e certo per diffidenza, più che per malafede, costituiva essenzialmente una forza benefica nel mondo. Come nazione, era sempre stata dalla parte degli oppressi e contro i fascismi e i saccheggi dei capitalismi più avidi. Il paragone con la Germania nazista la disgustava. Nelle opinioni di Violet riconosceva il modello tipico della propaganda filo-americana. Sua madre l'aveva delusa. E Florence lo disse a chiare lettere.
Quanto a suo padre, la pensava proprio come ci si aspetta da un uomo d'affari. Il suo frasario poteva farsi un po' più tagliente dopo una mezza bottiglia di vino: Harold Macmillan era un idiota a rinunciare all'Impero senza lottare, un vero coglione a non imporre ai sindacati un tetto salariale e un coglione patetico se pensava di potersi presentare agli altri stati europei con il cappelluccio in mano, supplicando di essere accolto nel loro macabro club. Florence faceva più fatica a contraddire Geoffrey. Non riusciva mai a scrollarsi di dosso il disagio di un obbligo di riconoscenza. Tra i privilegi della sua infanzia c'era l'intensa attenzione ricevuta, degna di un fratello, di un figlio maschio. L'estate precedente suo padre l'aveva portata fuori regolarmente a bordo della sua Humber, di modo che potesse esercitarsi per l'esame di guida e prendere la patente appena compiuti i ventun anni. Fu bocciata comunque. C'erano state le lezioni di violino dall'età di cinque anni, compresi i corsi estivi presso una scuola specializzata, lezioni di sci e di tennis, e perfino di volo, che lei aveva rifiutato altezzosamente. E poi i viaggi di loro due soli: escursioni sulle Alpi, in Sierra Nevada e sui Pirenei, e infine gli autentici vizi, come le puntate di una sola notte in grandi città europee, dove lei e Geoffrey scendevano sempre nei migliori alberghi. Quel giorno, uscendo di casa dopo le dodici in seguito a un muto diverbio con la madre riguardo a un dettaglio domestico insignificante, Violet non approvava fino in fondo il modo in cui la figlia faceva uso della lavatrice, Florence disse che andava a impostare una lettera e che non avrebbe pranzato. Prese Banbury Road in direzione sud e raggiunse il centro con il vago proposito di fare un giro al mercato coperto e magari incontrare una vecchia conoscenza dei tempi del liceo. Oppure di comprarsi un panino e mangiarselo seduta al Christ Church Meadow, all'ombra, sul lungofiume. Quando notò l'annuncio a St Giles, lo stesso che Edward avrebbe visto un quarto d'ora più tardi, cambiò distrattamente destinazione. Era ancora sua madre a occuparle i pensieri. Dopo tutto quel tempo trascorso in compagnia delle amiche affettuose dell'ostello, tornando a casa non aveva potuto non notare la lontananza fisica di sua madre. Mai una volta che l'avesse baciata e abbracciata, neanche da piccola. Si può dire che Violet non sfiorasse nemmeno la figlia. Può anche darsi che non fosse un male. Florence non smaniava di certo per le sue carezze, ossuta e magra com'era. E ormai comunque era troppo tardi per incominciare. Nel giro di pochi minuti, passata dall'esterno soleggiato all'interno semibuio, Florence capi di aver commesso un errore. Mentre abituava gli occhi alla poca luce, si guardò attorno con lo svogliato interesse che avrebbe potuto destinare alla collezione di argenti del museo Ashmolean. D'un tratto uno studente di North Oxford di cui aveva scordato il nome, un ventiduenne occhialuto, alto e affilato, usci dalle tenebre e la incastrò. Senza preamboli,
cominciò a tratteggiarle le eventuali conseguenze di una bomba all'idrogeno lanciata sulla città di Oxford. Quasi un decennio prima, quando avevano entrambi tredici anni, lui l'aveva invitata a casa sua a Park Town, a tre soli isolati da li, per farle ammirare la novità assoluta: un televisore, il primo che Florence avesse mai visto. Su un piccolo schermo grigio e nuvoloso, incorniciato da due ante istoriate di legno di mogano, un tale in giacca da sera sedeva a una scrivania avvolto in una specie di bufera di neve. Florence giudicò l'oggetto una stravaganza ridicola senza futuro, ma da quel momento in poi il ragazzo in questione, John? David? Michael?, sembrava convinto che Florence avesse contratto un debito di amicizia nei suoi confronti, ed eccolo li di nuovo, deciso a riscuotere il saldo. Il suo opuscolo, duecento copie del quale gli stavano sotto il braccio, descriveva la sorte di Oxford. Voleva che lo aiutasse a distribuirlo in città. Quando lui si chinò, Florence si senti avvolgere la faccia dall'odore di brillantina. La pelle sottile di lui aveva una lucentezza itterica in quella luce fioca, e spesse lenti da vista riducevano gli occhi a due fessure sottili. Incapace di una scortesia, Florence atteggiò il viso a un'espressione di premuroso ascolto. C'era qualcosa di affascinante negli uomini alti e sottili, nel modo in cui ossa e pomo d'Adamo sporgevano senza riparo da sotto la pelle, nei loro volti da uccello, nella postura ricurva, da predatore. Il cratere che andava descrivendo doveva misurare circa mezzo miglio di diametro, una trentina di metri di profondità. Il fenomeno della radioattività avrebbe reso Oxford inavvicinabile per diecimila anni. Cominciava a suonare come una promessa di liberazione. Ma di fatto, fuori da lì, la cittadina esplodeva in un trionfo di vegetazione d'inizio estate, il sole intiepidiva la bionda pietra calcarea dei Cotswolds, e il Christ Church Meadow era in pieno splendore. Qui nella sala, oltre la spalla spigolosa del giovanotto, Florence indovinava sagome mormoranti muoversi nella penombra, per sistemare le sedie, e, tra queste, a un certo punto, scorse Edward che le veniva incontro. Molte settimane dopo, in un' altra giornata caldissima, noleggiarono un barchino alla darsena Cherwell, lo diressero controcorrente al Vicky Arms e, più tardi, si lasciarono trascinare indietro verso la rimessa. Lungo il tragitto attraccarono sotto un cespuglio di biancospino e si sdraiarono a riva nell'ombra cupa: Edward supino con un filo d'erba tra i denti, e Florence con il capo appoggiato al braccio di lui. Durante una pausa della conversazione, ascoltarono le piccole onde sculacciare la barca e il tonfo attutito del legno contro il palo d'attracco. Di quando in quando, un refolo di brezza portava loro il leggero ronzio cullante del traffico su Banbury Road. Un tordo esegui un canto modulato, ripetendo con cura ciascuna frase, prima di cedere allo sfinimento del caldo. Edward aveva al tempo parecchi lavoretti part-time, soprattutto come addetto alla manutenzione di un campo da cricket. Lei
invece si dedicava a tempo pieno al quartetto. Le ore insieme non erano facili da concordare, il che le rendeva ancora più preziose. Quello ad esempio era un sabato pomeriggio rubato. Sapevano che si trattava di uno degli ultimi giorni di piena estate, era già inizio settembre, e foglie ed erba, benché tuttora indiscutibilmente verdi, avevano un'aria spossata. Il loro discorso tornava, come di consueto, a quei momenti, ormai arricchiti di una privata mitologia, in cui per la prima volta si erano notati. Rispondendo alla domanda che Edward le aveva rivolto svariati minuti prima, Florence infine disse: «Perché non avevi la giacca. E allora?» «Camicia bianca quasi fuori dai pantaloni, maniche arrotolate all'altezza del gomito ...» «Stupidaggini.» «... pantaloni di flanella grigia rammendati sul ginocchio, e scarpe di tela frusta, lise sulla punta dell'alluce. E capelli lunghi, fin quasi alle orecchie.» «E poi? C'è altro?» «Perché avevi un'aria un po' trasandata, come se avessi appena fatto a botte con qualcuno.» Ero in bici da tutta la mattina. Florence si rizzò su un gomito per vederlo meglio in faccia, e si guardarono negli occhi. Era un'esperienza ancora nuova e vertiginosa per entrambi, fissare per un minuto lo sguardo negli occhi di un altro adulto, senza pudori e imbarazzi. A giudizio di Edward, era la cosa che più si avvicinava al fare l'amore. Florence gli sfilò l'erba dalle labbra. «Sei proprio un citrullo, lo sai?» «Avanti. Continua.» «D'accordo. Perché ti sei fermato sulla porta e ti sei guardato intorno con l'aria da padrone assoluto del mondo. Fiero. Anzi, che dico, decisamente arrogante.» A quelle parole, lui rise. «Ma se ce l'avevo con me stesso.» «Poi mi hai vista,» prosegui Florence. «E hai deciso di squadrarmi dalla testa ai piedi.» «Bugiarda. Sei tu che hai guardato me e hai deciso che non valeva la pena di perdere tempo con il sottoscritto.» Lei lo baciò, non un bacio intenso, ma stuzzicante, o almeno così gli parve. In quei primi tempi, Edward nutriva ancora la fioca speranza che Florence appartenesse alla favoleggiata schiera di quelle ragazze di buona famiglia disposte ad andare fino in fondo, e in fretta. Di sicuro però non all'aperto, lungo quel trafficato tratto di fiume. La strinse a sé, tanto che i nasi si sfiorarono e le rispettive facce divennero sfocate. Disse: «E così hai pensato subito che fosse amore a prima vista?» Il tono era spensierato e ironico, ma Florence decise di prenderlo sul serio.
L'ansia apparteneva ancora a un futuro remoto, benché le capitasse di chiedersi verso che cosa potesse essersi incamminata. Un mese prima si erano detti «ti amo»; per lei era stato allo stesso tempo emozionante e motivo di una notte praticamente insonne, trascorsa nel vago terrore di essere stata troppo irruente, di essersi lasciata sfuggire qualcosa di fondamentale, di avere donato qualcosa che in realtà non le apparteneva. Però era tutto così interessante, così inedito e lusinghiero, così profondamente piacevole che non si poteva resistere, essere innamorata e dichiararlo era una vera liberazione e a lei non restava altro da fare che abbandonarsi sempre di più. Ora, sulla sponda del fiume, nel caldo soporifero di un giorno di tarda estate, Florence si concentrò sull'attimo in cui Edward si era fermato all'ingresso della sala riunioni, e su ciò che lei aveva visto e provato, alzando gli occhi in quella direzione. Per agevolare il ricordo, si tirò su e volse lo sguardo sull'acqua verde del lento fiume fangoso, che all'improvviso smise di essere tranquillo. Poco più su, e in fase di avvicinamento, si stava svolgendo una scena consueta: una battaglia all'ultimo sangue fra due barchini stracarichi, agganciatisi l'uno all'altro ad angolo retto nel tentativo di tagliare l'ansa del fiume: soliti strepiti, solite urla e spruzzate corsare. Studenti universitari di umore volutamente giocoso, un'ulteriore buona ragione per aver voglia di andarsene da quella città. Perfino ai tempi del liceo, lei e le amiche consideravano gli studenti una vergogna, invasori puerili di casa loro. Si sforzò di concentrarsi di più. Edward non era vestito come gli altri, ma a colpirla era stata soprattutto la sua faccia: ovale delicato dall'espressione pensosa, fronte alta, sopracciglia scure dall'arco ben disegnato, e fermezza nello sguardo che vagava intorno alla sala prima di soffermarsi su di lei, quasi che Edward non si trovasse, ma stesse solo immaginando quel luogo, lo stesse sognando. La memoria indebitamente inseriva nel ricordo qualcosa che ancora non poteva farne parte: il vago timbro provinciale della sua voce, vicino all'accento locale di Oxford, con un tocco di cadenza dell'Ovest. Tornò a voltarsi verso di lui. «Tu mi incuriosivi.» Ma si era trattato di una sensazione più ineffabile. Al tempo, non l'aveva neppure sfiorata il pensiero di soddisfare la sua curiosità. Non credeva che stessero per conoscersi, né di dover fare qualcosa per spingere in quella direzione. Era come se quell'interesse non la riguardasse, come se la vera assente dalla sala fosse proprio lei. Innamorandosi, scopriva un aspetto molto particolare di sé, il suo abituale, strenuo isolamento nei propri pensieri quotidiani. Ogni volta che Edward le chiedeva, Come stai?, oppure, A che cosa pensi?, la risposta di Florence usciva insicura. Possibile che le ci fosse voluto tanto tempo per rendersi conto di non possedere una facoltà mentale semplicissima, che tutti avevano, un meccanismo talmente comune da non essere mai nominato, un immediato rapporto sensuale verso uomini
e cose, nonché verso i propri bisogni e desideri? Per tutti quegli anni Florence curiosamente si era isolata in se tessa da se stessa, senza volere né osare guardarsi indietro. In quella sala dal soffitto basso e dall'echeggiante pavimento di pietra, i suoi problemi con Edward erano già presenti a partire dai primi secondi, dal primo scambio di sguardi. Edward era nato nel luglio del 1940, la settimana dell'inizio della Battaglia d'Inghilterra. Suo padre Lionel gli avrebbe in seguito raccontato che per due mesi quell'estate la storia era rimasta col fiato sospeso in attesa di decidere se il tedesco sarebbe stato o no la lingua ufficiale di Edward. Entro i dieci anni il ragazzo scopri che in effetti si trattava soltanto di un modo di dire: su tutto il territorio occupato della Francia, ad esempio, i bambini avevano continuato a parlare francese. Turville Heath non era nemmeno un borgo, giusto qualche casa isolata tra boschi e terreni demaniali sul vasto crinale che sovrastava il paese di Turville. Entro la fine degli anni Trenta, il versante nordorientale dei Chiltern, quello di Londra insomma, per una distanza di una trentina di miglia era stato invaso dalle propaggini della metropoli trasformandosi in un paradiso residenziale. Verso l'estremità sudoccidentale invece, quella a sud di Beacon Hill, dove un giorno il fiume ininterrotto di macchine e automezzi sarebbe andato scorrendo sull'autostrada ritagliata dentro il terreno gessoso, in direzione di Birmingham, il territorio si presentava pressoché invariato. Appena passata la casa dei Mayhew, lungo una pista ripida e sconnessa costeggiata da boschi di faggi, oltre la cascina Spinney, si stendeva la Wormsley Valley, meraviglia lagunare secondo la definizione di un poeta di passaggio, e da secoli terra di proprietà della sola famiglia Fane. Nel 1940, il cottage attingeva ancora l'acqua da un pozzo, grazie a un sistema di pompaggio che la trasferiva nelle mansarde e la raccoglieva in una cisterna. Rientrava nella leggenda famigliare il racconto di come da un lato il paese si preparasse ad affrontare l'invasione del Führer, e dall'altro la nascita di Edward fosse stata accolta dalle autorità locali come un'emergenza, un fattore di crisi sul piano igienico. Giunsero sul posto operai armati di picche e badili, tutta gente piuttosto avanti negli anni, e si procedette all'allacciamento della casa alle condutture idriche sul lato settentrionale proprio nel settembre di quell'anno, mentre aveva inizio il blitz su Londra. Lionel Mayhew era il direttore di una scuola elementare di Henley. La mattina presto percorreva in bicicletta le cinque miglia fino al posto di lavoro e, a fine giornata, trascinava a piedi la bici su per l'erta salita del borgo, con una pila di compiti e verifiche nel cestino di vimini montato davanti al manubrio. Nel 1945, anno in cui nacquero le gemelle, Lionel acquistò un'auto di seconda mano. La pagò undici sterline alla svendita
natalizia, comprandola alla vedova di un ufficiale di marina disperso nell'Atlantico. Se ne vedevano ancora ben poche su quelle stradine calcaree, di automobili che superavano carri e cavalli da traino. Capitava spesso del resto che il razionamento del carburante costringesse Lionel a ripiegare sulla bici. All'inizio degli anni Cinquanta, le sue abitudini domestiche dopo il lavoro non rispecchiavano molto quelle del tipico professionista. Depositava i compiti direttamente in un minuscolo vano adibito a ufficio accanto alla porta d'ingresso e li sistemava con cura. Era quello l'unico angolo ordinato della casa, e per Lionel era importante proteggere la propria vita professionale dall'ambiente famigliare. Dopodiché, controllava i figli, a tempo debito Edward, Anne e Harriet frequentarono la scuola del paese, a Northend, dalla quale poi rincasavano per conto proprio. Lionel trascorreva qualche minuto da solo con Marjorie, prima di entrare in cucina a preparare la cena e sparecchiare i piatti della colazione. Era l'unica ora quella, mentre la cena cuoceva, in cui si sbrigava qualche faccenda di casa. Appena i figli furono grandi abbastanza, cominciarono a dare una mano, ma con esiti piuttosto modesti. Si spazzavano solo le porzioni di pavimento non ingombre di ciarpame, e si riordinava esclusivamente ciò che sarebbe servito l'indomani, abiti e libri perlopiù. Nessuno rifaceva i letti, assai di rado si cambiavano le lenzuola, e il lavabo del bagno gelido e caotico non veniva lavato mai, tanto che si sarebbe potuto scrivere il proprio nome con l'unghia nel grigio alone di sozzura che ne ricopriva il bordo. Era già abbastanza impegnativo stare dietro ai bisogni primari: ricordarsi il carbone per la stufa in cucina, tenere acceso il fuoco in soggiorno d'inverno, rimediare vestiti decentemente puliti per i bambini che andavano a scuola. Al bucato si pensava la domenica pomeriggio, e l'operazione prevedeva il far bollire l'acqua nel mastello di rame. Se pioveva, i panni venivano stesi ad asciugare sui mobili in giro per tutta la casa. Stirare andava al di là delle competenze di Lionel: ci si limitava a lisciare ogni capo a mano e quindi a piegarlo. Per brevi periodi, qualche vicina si improvvisava aiuto domestico, ma nessuna resisteva a lungo. Un compito troppo gravoso per quelle signore, che avevano a loro volta una casa da mandare avanti. La famiglia Mayhew cenava a un tavolo pieghevole in legno di pino, assediato dal caos incombente della cucina. La rigovernatura dei piatti era immancabilmente rimandata a più tardi. Dopo che tutti l'avevano ringraziata del pasto, Marjorie tornava a dedicarsi a uno dei suoi progetti, mentre i ragazzi sparecchiavano e occupavano il tavolo con i compiti. Lionel si ritirava nello studiolo a correggere quaderni, redigere conti e ascoltare il giornale radio fumando la pipa. Grossomodo un' ora e mezza dopo si presentava a controllare quel che avevano fatto i figli e a metterli a letto.
Leggeva sempre loro qualcosa, storie diverse per Edward e per le bambine. Spesso si addormentavano sentendolo lavare i piatti al piano di sotto. Era un uomo mite, di corporatura massiccia, da bracciante agricolo, con occhi celesti, capelli biondo cenere e baffetti dall'aria marziale. Era troppo vecchio per essere richiamato: aveva già trentotto anni alla nascita di Edward. Lionel alzava di rado la voce e, a differenza di molti padri, non ricorreva a schiaffoni e cinghiate. Si aspettava ubbidienza e, forse sentendo il fardello delle sue responsabilità, i figli non lo deludevano. Pur frequentando le case dei loro amici, regni ferocemente ordinati, diretti da madri tutte sorrisi e grembiuli puliti, consideravano ovviamente normale la loro esistenza. Edward, Anne e Harriet non si ritenevano necessariamente meno fortunati dei loro amici. L'intero peso gravava sulle spalle di Lionel. Solo verso i quattordici anni, Edward comprese appieno che qualcosa non andava in sua madre, ma non ricordava quando con esattezza, intorno ai suoi cinque anni, fosse di colpo cambiata. Come le sue sorelle, crebbe immerso nell'ineluttabilità della sua alienazione. Era una figura spettrale, un fantasma smunto e gentile dalla zazzeretta castana, che si aggirava per casa e nell'universo della loro infanzia, talvolta ciarliera e perfino affettuosa, e talvolta distante, assorbita dalle sue attività e fissazioni. La si sentiva a ogni ora del giorno, per non dire nel cuore della notte, eseguire senza talento i medesimi, semplici brani al pianoforte, sbagliando sempre gli stessi passaggi. Spesso stava in giardino a lavoricchiare all'aiuola informe che aveva ricavato nel bel mezzo della striscia di prato. Contribuiva non poco al disordine generale la sua attività di pittura, acquerelli in particolare: paesaggi collinari sullo sfondo, il campanile di una chiesa, qualche albero in primo piano. Non lavava mai un pennello, non cambiava l'acqua verdastra degli ex barattoli di marmellata e non ritirava i vari lavori iniziati e mai portati a termine. Teneva addosso per giorni di seguito la tunica da pittore, anche quando ormai il furore creativo era passato da un pezzo. Altra sua occupazione, che forse le era stata inizialmente suggerita come pratica terapeutica, era quella di ritagliare figure dalle riviste e poi incollarle su un album. Le piaceva vagare per casa mentre lo faceva, perciò si camminava pestando ovunque ritagli appiccicati alla polvere del pavimento di legno nudo. Spazzolini da colla indurivano nei vasetti aperti, abbandonati su sedie e davanzali. Fra le altre passioni di Marjorie c'era anche il birdwatching praticato dalla finestra del soggiorno, e poi la maglia, il ricamo, e l'arte delle composizioni floreali, esercitate con la stessa intensità sognante e confusa. Perlopiù silenziosa, talvolta la sentivano mormorare fra sé nello svolgimento di un compito impegnativo: «Ecco ... ecco ... ecco ». A Edward non passò mai per la testa di chiedersi se fosse felice. Aveva
sicuramente momenti di angoscia, attacchi di panico durante i quali respirava a fatica, dimenava le braccia sottili per aria e concentrava d'improvviso tutta l'attenzione sui figli, su un'esigenza specifica che sapeva di dover soddisfare all'istante. Edward aveva le unghie troppo lunghe, c'era da cucire un vestito strappato, le gemelle avevano bisogno di un bagno. A quel punto calava in mezzo a loro, e agitandosi inconcludente li rimproverava, o se li abbracciava e baciava, o magari faceva tutte le cose insieme, nel tentativo di recuperare il tempo perduto. Sembrava quasi autentico amore materno, e i bambini vi si abbandonavano volentieri. Ma per esperienza sapevano che la realtà del mondo domestico era piena di ostacoli insormontabili: che non si sarebbero trovate le forbicine, né il filo adatto, che per l'acqua calda del bagno occorrevano ore. E che presto la mamma sarebbe riscivolata nella deriva, per fare ritorno al suo universo privato. E possibile che a scatenare quegli attacchi fosse un avanzo della se stessa di un tempo, decisa a recuperare il controllo, riconoscendo in parte la natura della condizione attuale, però custodendo il ricordo vago di una passata esistenza, per poi d'un colpo, e non senza terrore, cogliere l'entità della perdita subita. Ma perlopiù Marjorie si accontentava dell'idea, anzi della complessa favola di essere moglie e madre devota, di mandare avanti casa e famiglia con tanto lavoro e di meritare perciò qualche ora per sé, dopo aver assolto tutti i suoi doveri. E, allo scopo di ridurre al minimo i momenti difficili, e di non risvegliare in lei quel brandello di consapevolezza del prima, Lionel e i figli collaboravano alla finzione. Quando si mettevano a tavola, capitava che Marjorie alzasse gli occhi dal piatto e dagli esperimenti culinari del marito, per dire benevola, scostandosi una ciocca ribelle dal viso: «Spero proprio che vi piaccia. Ho voluto provare una ricetta nuova». Si trattava in realtà di pietanze arcinote, perché il repertorio di Lionel era limitato, ma nessuno la contraddiceva e, a fine pasto, padre e bambini la ringraziavano. Era una forma della menzogna che li consolava un po' tutti. Se Marjorie dichiarava di voler preparare la lista della spesa per il mercato di Watlington, o se si lamentava di avere una montagna di lenzuola da stirare, prendeva forma, a portata di mano, un mondo parallelo di luminosa normalità. La cui natura fantastica tuttavia poteva resistere soltanto a patto di non essere mai messa in discussione. Fu all'interno dei suoi confini che i ragazzi crebbero, abitandone in modo acritico le assurdità fintantoché nessuno si azzardava a definirle. In certa misura difendevano lei dagli amici che invitavano a casa, e viceversa. L'opinione diffusa in paese perlomeno quella che giunse alle loro orecchie, era che Mrs Mayhew fosse un' artista, una donna affascinante e bizzarra, forse perfino un genio. I figli non provavano alcun disagio,
sentendo la madre inventare cose che sapevano bene non essere vere. No, non c'era nessuna giornata faticosissima ad aspettarla, e nemmeno aveva trascorso il pomeriggio intero a fare la marmellata di more. Ma quelle non erano falsità, piuttosto espressioni dell'essenza autentica della loro madre, che bisognava proteggere, nel silenzio. Ecco perché, quando all'età di quattordici anni Edward si ritrovò con suo padre in giardino e per la prima volta senti definire la madre una cerebrolesa, quei pochi minuti divennero un' esperienza memorabile. Il termine utilizzato sapeva di insulto, di invito blasfemo alla slealtà. Cerebrolesa. C'era qualcosa che non funzionava nella sua testa. Se a dire una cosa simile di sua madre fosse stato chiunque altro, Edward si sarebbe sentito in dovere di sfidarlo e di rifilargli una buona dose di botte. Ma già mentre ascoltava quella calunnia in preda a un' ostilità muta, senti il sollievo di un peso che gli si levava dal cuore. Era vero, ovviamente, e contro la verità non c'è nulla da fare. Da quel preciso momento poté cominciare a convincersi di averlo sempre saputo. Era una giornata calda e umida di fine maggio; Edward e il padre stavano in piedi sotto l'olmo grande. Dopo giorni e giorni di pioggia, nell'aria pesava il rigoglio dell'estate imminente, il baccano di uccelli e insetti, il profumo dell'erba tagliata e disposta in file sul prato davanti a casa, il vigoroso intrico impaziente del giardino che quasi si confondeva con la fascia di bosco al di là della staccionata, il polline che offriva sia al padre che al figlio il primo assaggio stagionale di febbre da fieno e, nella brezza leggera, il tappeto d'erba chiazzato di piastrelle mobili d'ombra e di sole. In tale scenario, Edward ascoltò il padre, sforzandosi di evocare l'immagine di una brutta giornata d'inverno, nel dicembre del 1944; la pensilina della stazione di Wycombe piena di gente, e sua madre infagottata dentro il cappotto, con una sporta carica di miseri regali di Natale da tempo di guerra. Marjorie si stava muovendo in direzione del treno che, in arrivo dalla stazione di Marylebone, l'avrebbe portata a Princes Risborough e, da li, a Watlington, dove Lionel doveva venire a prenderla. Edward era rimasto a casa; si occupava di lui la figlia adolescente di una vicina. C'è al mondo un genere di viaggiatore sicuro di sé il quale non vede l'ora di aprire lo sportello della carrozza un attimo prima che il treno sia fermo, per poter balzare con agilità sulla pensilina. Chissà, forse abbandonando il mezzo prima che abbia completato la corsa, vuole ribadire la propria indipendenza, non è mica un carico inerte, lui. O magari intende corroborare un'impressione di giovinezza o, più semplicemente, va tanto di fretta che ogni secondo è prezioso. Il treno si fermò, un po' più di scatto del solito, forse, e lo sportello sfuggi alla presa del viaggiatore descritto. Il bordo di metallo massiccio colpì la fronte di Marjorie Mayhew, con sufficiente violenza da fratturarle il cranio e alterarle all'istante carattere, intelligenza e
memoria. Il coma durò poco meno di una settimana. Il viaggiatore, che testimoni oculari tratteggiarono come un distinto uomo d'affari sulla sessantina, con regolamentare bombetta, ombrello e giornale, si allontanò rapido dalla scena, giovane donna, gravidanza gemellare in corso, riversa a terra in mezzo a qualche giocattolo sparso, e scomparve per sempre nelle strade di Wycombe, senza la benché minima consapevolezza di colpa, o almeno così si sperava, disse Lionel. Quel momento particolare in giardino, autentica svolta nella vita di Edward, gli impresse nella mente un ricordo preciso del padre. Aveva in mano la pipa e non l'accese se non dopo aver finito il racconto. La teneva ben stretta, con l'indice intorno al fornello, e la cannuccia bloccata in aria a un paio di spanne dall'angolo della bocca. Essendo domenica, non si era fatto la barba: Lionel non aveva una fede religiosa, anche se a scuola fingeva. Gli piaceva riservarsi quella mattina per sé. E non radersi la domenica, gesto eccentrico per un uomo della sua posizione, significava evitarsi deliberatamente ogni impegno sociale. Addosso aveva una camicia bianca, senza collo, che non aveva visto un colpo di ferro e nemmeno una lisciatina a mano. I suoi modi apparivano attenti, un po' freddi: doveva essersi ripetuto più volte mentalmente quella conversazione. Parlando, lo sguardo gli andava ogni tanto dal viso del figlio alla casa, quasi volesse evocare meglio la condizione di Marjorie, o badare che non arrivassero le bambine. Per concludere, posando con gesto insolito una mano sulla spalla di Edward, lo portò proprio in fondo al giardino, dove la staccionata ormai traballante stava cedendo alla forza della vegetazione. Dall'altra parte si stendevano cinque acri di pascolo, senza una pecora, e colonizzati dai ranuncoli in ampie strisce divergenti, come due strade. Si fermarono lì, uno accanto all'altro, mentre Lionel si accendeva finalmente la pipa, e Edward, con la capacità di adattamento tipica dei suoi anni, procedeva nel quieto percorso mentale che dallo shock portava all'accettazione. Ma sì, l'aveva sempre saputo. Si era mantenuto in uno stato di innocenza solo perché non disponeva di un termine per definire quella condizione. Non aveva anzi mai neppure pensato alla madre come a una persona in condizioni particolari, ma al tempo stesso aveva accettato da sempre che fosse diversa. La contraddizione venne ora risolta grazie all'atto di nominare il fenomeno, grazie al potere che ha la parola di rendere l'inosservato visibile. Cerebrolesa. Il termine escludeva ogni intimità: imparziale, collocava Marjorie all'interno di una classifica comprensibile a tutti. All'improvviso si apriva un baratro, non solo fra Edward e la madre, ma anche fra lui e il mondo che lo circondava, e il ragazzo percepì il proprio essere, quell'intima sua natura alla quale non aveva mai badato prima, e che assumeva ora contorni netti e precisi, diventando un luminoso punto di riferimento di cui
nessun altro doveva sapere. Lei era cerebrolesa, lui no. Lui non era sua madre, e nemmeno la sua famiglia, e un giorno se ne sarebbe andato per tornare a casa soltanto in visita. Cercò di immaginarsi già ospite, venuto a tener compagnia al padre dopo una lunga assenza oltreoceano, li insieme, a fissare le ampie fasce di ranuncoli che si separavano poco prima del lieve pendio di terra in direzione dei boschi. Provò, in quel frangente, un'inedita malinconia, non scevra dal senso di colpa, ma anche esaltante per la sua audacia. Lionel parve capire il cambiamento verificato si dentro il silenzio del figlio. Disse che era sempre stato bravissimo con sua madre, sempre gentile e disposto ad aiutare, e che quella conversazione non doveva cambiare nulla. Significava semplicemente che ormai era abbastanza grande per conoscere i fatti. A quel punto, le gemelle arrivarono di corsa in giardino, in cerca del fratello, e Lionel ebbe appena il tempo di ripetere: «Quel che ti ho detto lascia tutto esattamente come prima». Le bambine intanto erano già li a trascinare Edward in casa per chiedergli un parere su qualcosa che avevano fatto. Ma molte altre cose cambiarono intorno a lui in quel periodo. Frequentava il ginnasio di Henley, e cominciava a sentire parecchi insegnanti definirlo «adatto agli studi universitari». Il suo amico Simon di Northend, e tutti gli altri ragazzi con cui scorrazzava in paese, erano iscritti all' avviamento al lavoro e di li a poco avrebbero interrotto gli studi per cercarsi un mestiere o lavorare la terra, in attesa della chiamata al servizio militare. Edward sperava per sé in un futuro diverso. Quando incontrava gli amici, si incominciava a sentire nell'aria una certa tensione, da entrambe le parti. I compiti a casa lievitavano, per quanto indulgente sul resto, Lionel diventava un tiranno in fatto di scuola, e Edward non si perdeva più nei boschi con gli altri, a costruire capanne o posare trappole, facendo infuriare i guardacaccia delle tenute di Wormsley e di Stonor. Un piccolo centro come Henley ha le proprie regole sociali, e Edward stava imparando a nascondere il fatto di conoscere il nome di uccelli, farfalle, e dei fiori di campo che crescevano sul territorio dei Fane, nella valletta sotto casa: campanelle, cicoria, scabiosa, le ben dieci specie di orchidee, l'elleboro, e il raro bucaneve estivo. A scuola tanta erudizione avrebbe potuto marchiarlo come bifolco. Scoprire come si erano svolti i fatti che riguardavano l'incidente di sua madre non aveva cambiato nulla esteriormente, ma ogni minimo spostamento esistenziale parve da allora cristallizzarsi intorno a quella nuova consapevolezza. Edward fu sempre premuroso e gentile, continuò a collaborare alla messinscena nella quale era lei a mandare avanti la casa, e a fingere di prendere sul serio ogni sua affermazione, ma ora non dimenticava mai che stava recitando una parte, e così facendo fortificava quel piccolo nocciolo duro di identità personale scoperto si di recente. Intorno ai sedici
anni si appassionò a lunghissime passeggiate solitarie. Stare fuori di casa lo aiutava a chiarirsi le idee. Spesso prendeva per Holland Lane, un vecchio sentiero gessoso ormai sprofondato tra sponde di rocce sgretolate e coperte di muschio, scendeva a Turville, e da li si incamminava lungo la valle di Hambleden verso il Tamigi, scollinando a Henley, nel Berkshire. La parola «teenager» era stata inventata da poco, e non gli passò mai per la testa che quella dolorosa, dolcissima sensazione di lontananza dal resto del mondo potesse provarla come lui anche qualcun altro. Senza chiedere e senza nemmeno dirlo a suo padre, un fine settimana parti in autostop per Londra, dove intendeva partecipare a una protesta in Trafalgar Square contro l'invasione del Canale di Suez. In quel frangente, forte dell'esaltazione momentanea, decise di non fare domanda per Oxford, come volevano Lionel e i suoi insegnanti. La città gli era troppo nota, non abbastanza diversa da Henley. Invece era li, a Londra, che voleva venire, dove gente più grande e più grossa sembrava parlare più forte ed essere più imprevedibile, dove le celebri strade del centro se ne infischiavano della loro stessa notorietà. Mantenne il progetto segreto: non voleva scatenare premature ostilità. Era anche deciso a evitarsi il servizio di leva, che secondo Lionel gli avrebbe fatto un gran bene. Quei propositi non condivisi perfezionarono in lui la sensazione di custodire un temperamento isolato, un robusto nodo di sensibilità, di ambizione e di acute speranze. A differenza di certi compagni di scuola, non detestava né casa né famiglia. Accettava come un dato di fatto lo squallore degli spazi domestici angusti, e continuò a non provare imbarazzo per via di sua madre. Si sentiva soltanto impaziente di cominciare a vivere la sua storia vera e, per ottenere lo scopo, sapeva di dover superare gli esami. Quindi sgobbò sui libri, e fece dei buoni scritti, specie di storia. Si mostrò sempre relativamente gentile con genitori e sorelle, e non smise mai di sognare il giorno in cui se ne sarebbe andato da Turville Heath. Anche se, in un certo senso, l'aveva già fatto.
Tre Raggiunta la camera da letto, Florence lasciò la mano di Edward e, appoggiandosi a una delle colonne che sostenevano il baldacchino, si piegò prima a destra e poi a sinistra, con un movimento grazioso della spalla a ogni flessione, e si sfilò le scarpe. Queste erano da viaggio; le aveva comprate da Debenhams, con sua madre, in un litigioso pomeriggio di pioggia: Violet metteva di rado piede dentro un negozio, perché trovava l'attività logorante. Realizzate in morbida pelle celeste, erano a tacco basso, con un fiocchetto sul davanti a sua volta in pelle ritorta, di un azzurro appena più carico. La sposa si muoveva senza la minima fretta: altra tattica di temporeggiamento per rinviare ulteriormente l'azione. Benché consapevole dello sguardo incantato del marito, non si sentiva ancora troppo nervosa, nell'attesa. Entrando nella stanza si era tuffata in una dimensione disagevole e surreale che la ingoffiva come un'antiquata muta da sub in acque profonde. Non si sentiva padrona dei propri pensieri; le pareva piuttosto di attingerli da una bombola: pensieri al posto di ossigeno. E in quello stato d'animo, dalle inafferrabili penombre della memoria sonora le era giunta alla mente una frase musicale semplice e solenne che, ripetendosi più volte, l'aveva seguita fino alletto, accompagnando il duplice gesto di sfilarsi le scarpe. La ben nota frase, qualcuno l'avrebbe definita perfino famosa, si componeva di quattro note ascendenti che sembravano formulare una specie di domanda incerta. Poiché lo strumento coinvolto era un violoncello, e non il suo amato violino, a porla non era lei, bensì un osservatore esterno, un tantino incredulo ma anche insistente, visto che dopo un breve silenzio e la risposta prolissa e poco convinta da parte degli altri strumenti, il violoncello tornava all'attacco con la domanda che modulava in termini diversi, su un' altra corda, e poi ancora, più e più volte, ottenendo invariabilmente risposte dubbiose. Non esisteva una sequenza verbale da far coincidere con quelle note; non era come se stesse dicendo qualcosa. Il quesito, privo di contenuto, aveva la purezza di un semplice punto interrogativo. Si trattava delle note d'apertura di un quintetto di Mozart, causa di un litigio tra Florence e i suoi amici, giacché eseguirlo avrebbe comportato l'inserimento di una seconda viola, mentre gli altri preferivano evitare complicazioni. Florence però aveva insistito; voleva a tutti i costi qualcuno per quel pezzo. così, quando invitò alle prove un'amica del suo piano per una lettura a prima vista, la vanità del violoncello naturalmente capitolò, trascinando in breve anche gli altri nell'incantesimo di quel brano. Come
resistere? Se la frase iniziale aveva scatenato complicati dubbi sulla coesione dell'Ennismore Quartet, così chiamato a causa dell'indirizzo dell'ostello delle ragazze, a spuntarla alla fine, nonostante l'opposizione che la vedeva una contro tre, fu la determinazione di Florence, e la sua caparbia fiducia nel proprio buongusto. Mentre attraversava la stanza, sempre dando le spalle a Edward, e prendeva tempo sistemando con cura le scarpe per terra accanto al guardaroba, le quattro note in questione richiamarono alla mente di Florence quell'altro aspetto del suo carattere. La Florence che dirigeva il quartetto imponendo senza batter ciglio la propria volontà non si sarebbe mai piegata docilmente ad aspettative convenzionali. Non era certo l'agnello disposto, senza un lamento, a farsi sgozzare. Né penetrare. Aveva l'obbligo di domandare a se stessa che cosa voleva esattamente dal suo matrimonio e di dirlo poi a chiare lettere a Edward, per negoziare con lui una sorta di compromesso. Era impensabile che i desideri dell'uno si realizzassero a spese dell'altro. Il punto era amarsi e mantenere la propria libertà. Ma sì, doveva parlare chiaro, come alle prove; e tanto valeva farlo subito. Aveva perfino pensato alle prime battute di un'eventuale proposta. Socchiuse le labbra e prese fiato. Ma lo scricchiolio di un' asse del pavimento la fece girare e, quando lo vide venire verso di lei, sorridente, con il bel viso un po' acceso, ecco che quell'idea liberatoria svani, come se non fosse mai stata sua. L'abito da viaggio era leggero, in cotone estivo color fiordaliso, perfettamente intonato alle scarpe e scovato solo dopo ore e ore di andirivieni tra Regent Street e Marble Arch, per fortuna non in compagnia di sua madre. Cingendo Florence in un abbraccio, Edward non intendeva baciarla, ma per prima cosa premere il proprio corpo contro il suo, e poi infilarle una mano dietro la nuca cercando la cerniera del vestito. L'altra mano, gliela teneva ben salda all'altezza delle reni, e intanto le bisbigliava qualcosa all'orecchio, ma così vicino e a un tale volume di voce che a Florence arrivò soltanto una zaffata rombante di aria calda e umida. Per aprire la cerniera, comunque, una mano non bastava, almeno non per i primi centimetri. Occorreva tenere dritto lo scollo dell'abito tirando giù, altrimenti la stoffa leggera si raggrinziva e rischiava di strapparsi. Florence sarebbe anche intervenuta per aiutarlo, ma aveva le braccia imprigionate, e poi non le sembrava giusto mostrargli come si faceva. Lungi da lei, soprattutto, l'intenzione di offenderlo. Con un brusco sospiro, Edward diede uno strattone più deciso cercando di forzare la cerniera, ma ormai quella si era bloccata in un punto dal quale non si muoveva più né in avanti né indietro. Per il momento, Florence era in trappola nel suo vestito. «Dio santo, Flo. Sta' ferma, per favore.» Lei si irrigidì ubbidiente, sconvolta dalla voce tesa di lui, della quale si
ritenne automaticamente responsabile. Del resto, suo era l'abito, e sua la cerniera, no? Poteva forse servire, pensò, liberarsi, voltargli la schiena e avvicinarsi alla finestra per avere più luce. Ma il gesto sarebbe parso poco affettuoso, e l'interruzione avrebbe confermato l'entità del problema. A casa, ricorreva all'aiuto di sua sorella che con le mani ci sapeva fare, pur essendo uno strazio al pianoforte. La madre non era fatta per le cose che richiedono pazienza. Povero Edward! Si sentiva sulle spalle il tremito dello sforzo che gli correva nei muscoli: ormai aveva impegnate entrambe le mani nel tentativo, e Florence immaginò le sue dita massicce trafficare fra le pieghe della stoffa pizzicata e il metallo testardo. Le dispiaceva per lui, ma ne aveva un po' paura. Avanzare anche un solo timido suggerimento poteva farlo infuriare di più. così restò calma in attesa, finché lui si staccò con un gemito, e fece un passo indietro. In realtà, era mortificato. «Scusami tanto. Che disastro. Sono proprio buono a niente.» «Figurati, amore. Capita spesso anche a me.» Sedettero insieme sul letto. Edward sorrise per farle capire che non le credeva, ma che apprezzava le sue parole. Li in camera, le finestre spalancate affacciavano sullo stesso panorama: il prato dell'albergo, il tratto di bosco e il mare. Un improvviso colpo di vento, o un moto della marea, o magari la scia di una nave di passaggio, portarono il fragore del frangersi di una serie di onde, schiaffi sonori sulla battigia. Poi, altrettanto di colpo, le onde tornarono come prima: uno sciabordio lieve che pettinava incessante la riva di ciottoli. Florence cinse col braccio una spalla di lui. «Vuoi sapere un segreto?» «Si.» Gli prese con dolcezza il lobo dell'orecchio tra le dita e, avvicinandosi la testa di lui, bisbigliò: «A essere sinceri, ho un po' di paura.» La dichiarazione non era accurata a rigar di termini, ma per quanto capace di analisi profonde, Florence non avrebbe mai saputo descrivere l'assortimento delle sue sensazioni: un progressivo forte inaridimento a livello fisico, una ripugnanza generica all'idea di quello che probabilmente Edward le avrebbe chiesto di fare, e vergogna al pensiero di procurargli una delusione e di dimostrarsi un inganno. Si detestava, e mentre gli sussurrava qualcosa all'orecchio, pensò che le parole le uscivano di bocca in un sibilo sinistro, da cattivo di uno spettacolo teatrale. Meglio comunque ammettere la paura che confessare il disgusto o la vergogna. Si vedeva costretta a fare del proprio meglio per ridimensionare le aspettative di Edward. Lui la fissava e niente nella sua espressione lasciava intendere che l'avesse sentita. Perfino in quel frangente spinoso, Florence ammirò la dolcezza dei suoi occhi castani. così pieni di intelligenza, di gentilezza, di disponibilità.
Forse bastava non abbassare lo sguardo, e concentrarsi su quelli, per riuscire a fare ciò che lui le chiedeva. Abbandonarsi completamente. Ma era fantasia bella e buona. Alla fine, Edward disse: «Anch'io, mi sa.» Parlando le appoggiò la mano poco sopra il ginocchio e la fece scivolare sotto l'orlo del vestito, per andare a fermarsi nell'interno coscia, con il pollice che le sfiorava le mutandine. Le gambe di Florence erano nude e lisce, abbronzate per il sole preso in giardino, le partite a tennis con ex compagne di scuola sui campi pubblici estivi, e due lunghe scampagnate con Edward sulle colline fiorite sopra lo splendido paesino di Ewelme, dove è sepolta la nipote di Chaucer. Continuarono a guardarsi negli occhi: in questo non li batteva nessuno. Ma la consapevolezza di quella mano collosa e tiepida addosso, appiccicata alla pelle, era talmente forte che Florence riusciva a immaginare, anzi proprio a vedere con esattezza il lungo pollice curvo di Edward perso nel buio azzurrino sotto il vestito, e li fermo, in paziente assedio, come una macchina da guerra alle mura di una cittadella, con l'unghia curata che le sfiorava non solo il raso color panna raccolto in festoni minuscoli lungo l'orlo del pizzo, ma anche, non si poteva sbagliare, lo sentiva benissimo, un unico pelo riccio pizzicato sotto l'elastico. Florence fece del proprio meglio per evitare che le si irrigidisse un muscolo della gamba, ma il fenomeno si stava verificando comunque, in modo del tutto autonomo, con l'inevitabile violenza di uno starnuto. Nessun dolore, per ora, solo il rattrappirsi in un crampo leggero, ma quel fascio di muscoli disertore la tradiva rivelando per primo la gravità del suo disagio. Di certo Edward percepì il microterremoto sotto le sue dita; gli occhi infatti gli si spalancarono, mentre la piega delle sopracciglia e il silenzioso socchiudersi delle labbra indicavano il suo grande stupore, quasi reverenziale, perché aveva scambiato lo scompiglio di Florence per desiderio. «Flo ... ?» Pronunciò il suo nome con prudenza, scendendo e poi salendo di tono, quasi volesse ridarle equilibrio, dissuaderla dal compiere gesti precipitosi. Ma nel frattempo gli toccava tenere a bada il suo piccolo uragano personale. Aveva il respiro corto e affannoso, e continuava a staccarsi la lingua dal palato producendo un lieve schiocco colloso. Certe volte è imbarazzante scoprire che il corpo non vuole, o non sa mentire a proposito delle emozioni. Chi è mai riuscito, per ragioni di decoro, a rallentare un cuore che batte forte, o a ricacciare indietro un rossore? Il muscolo ribelle di Florence fremeva scomposto: pareva una falena intrappolata sottopelle. Le capitava a volte la stessa cosa alla palpebra. Forse però il tumulto si stava placando: non era sicura. Ricapitolare la situazione in base alla logica l'aiutava, perciò procedette con sistematica ottusità: la mano di lui stava lì perché Edward era suo marito; e lei lo lasciava fare perché era sua moglie. Certe amiche, come Greta, Hermione e soprattutto
Lucy, sarebbero state nude tra le lenzuola da ore a quel punto, avrebbero anzi consumato quel matrimonio in chiassosa allegria ben prima delle nozze. Nella loro affettuosa magnanimità, avevano perfino l'impressione che anche per lei fosse andata proprio così. Pur non avendo mai mentito, Florence non aveva nemmeno specificato come stavano veramente le cose. Se pensava alle amiche, riconosceva nella propria esistenza un sapore unico e particolare: quello della solitudine. La mano di Edward non procedeva (non era escluso che la reazione prodotta l'avesse spiazzato); si limitava a trastullarsi sul posto, impastando piano la carne dell'interno coscia. Forse per quello il crampo stava sparendo, o comunque ora Florence non ci badava più. Il fenomeno doveva essere casuale, perché Edward non poteva di certo sapere che mentre con la mano le palpeggiava la gamba, la punta del pollice pizzicava il pelo arricciato sotto le mutandine e lo tirava avanti e indietro, disturbandone la radice, lungo la terminazione nervosa del follicolo: era appena l'ombra di una sensibilità, quasi un inizio astratto, un punto di infinita, geometrica piccolezza che andò assumendo pian piano le dimensioni di un minuscolo granello smussato e continuò a crescere. Florence lo accolse con diffidenza, lo negò addirittura, pur registrando il proprio sprofondare, il ripiegamento di sé in quella direzione. Come era possibile che la radice di un unico pelo si trascinasse appresso l'intero corpo? Al ritmo delle carezze metodiche di Edward, quel singolo punto sensibile si dilatava sulla superficie della sua pelle, invadeva la pancia e scendeva pulsando fino al perineo. La sensazione non era del tutto sconosciuta: stava a metà fra il dolore e il prurito, ma era più calda e omogenea e per certi versi più vuota, una piacevole sensazione di vuoto indolenzito che procedeva da quel follicolo ritmicamente sollecitato e si estendeva in onde concentriche su tutto il corpo, fino a spostarsi anche internamente. Per la prima volta, il suo amore per Edward era associato a una sensazione fisica definibile, inconfutabile come una vertigine. In passato, Florence aveva conosciuto soltanto il brodo rassicurante di emozioni tiepide, la calda trapunta invernale di cortesia e fiducia reciproca. E ora, finalmente, ecco l'inizio di un desiderio, inconfondibile e ignoto, ma senz'altro suo, e su tutto, come sospeso al di sopra e alle spalle di lei, appena invisibile, il sollievo di scoprirsi esattamente come tutti gli altri. Quando verso i quattordici anni il suo sviluppo tardava a manifestarsi, constatando disperata che tutte le amiche avevano il seno mentre lei sembrava ancora una bambina di nove anni cresciuta a dismisura, le era capitato un momento di analoga rivelazione di fronte allo specchio, la sera in cui per la prima volta aveva individuato e toccato un inedito gonfiore teso intorno ai capezzoli. Se al piano di sotto sua madre non fosse stata impegnata a preparare una lezione
su Spinoza, Florence avrebbe urlato di gioia. Era innegabile: dunque non apparteneva a una sottospecie diversa della razza umana. Trionfante, si era riconosciuta parte del resto del mondo. Né lei né Edward avevano ancora abbassato lo sguardo. Parlare era assolutamente fuori questione. Florence faceva un po' come se niente fosse, come se la mano di lui non si trovasse sotto il suo vestito, come se il pollice non continuasse a spostare avanti e indietro quel pelo del pube e non le stesse rivelando una novità sensoriale di capitale importanza. Dietro la testa di Edward si dispiegava lo scorcio di un loro passato ormai remoto: la porta aperta e il tavolo accanto alla finestra tutto ingombro dei resti di quella cena non consumata; ma Florence non permise allo sguardo di trascinarla altrove. A dispetto della sensazione di piacere e del suo sollievo, restava anche apprensione: un muro altissimo, e molto difficile da demolire. Ammesso di volerlo abbattere, e nel suo caso non era così. La novità innegabile non significava per lei abbandono sfrenato, e tantomeno la volontà di raggiungerlo. Florence desiderava indugiare nella vastità del momento, con loro due ancora completamente vestiti, gli occhi castani di lui amorevolmente fissi nei suoi, le sue carezze tenere, il fremito di piacere in progressiva espansione. Ma sapeva che sarebbe stato impossibile, che, come si dice, da una cosa si sarebbe ineluttabilmente passati all'altra. Il viso di Edward era ancora molto arrossato, le pupille dilatate, le labbra socchiuse, il respiro breve, irregolare, accelerato. Quella settimana di assurda astinenza in preparazione alle nozze giocava pesante sull'alchimia del suo giovane corpo. Florence gli stava dinanzi talmente viva e preziosa, e lui non sapeva bene che fare. Nella luce morente, l'azzurro dell'abito che non era riuscito a toglierle di dosso staccava come una chiazza scura sullo sfondo bianco della sopraccoperta tesa. Toccando la coscia di Florence si era in un primo tempo sorpreso di sentire la pelle fresca, e per qualche ragione la cosa l'aveva eccitato parecchio. Mentre la guardava negli occhi, ebbe l'impressione di sbilanciarsi verso di lei, come in preda a una continua vertigine. Si senti intrappolato fra la spinta prodotta dall'eccitazione e il peso della sua incompetenza. A parte qualche film, le barzellette sconce e gli aneddoti volgari, quello che sapeva delle donne gli derivava in larga misura dalla stessa Florence. Lo scompiglio verificatosi sotto la sua mano poteva essere senz'altro un segno rivelatore al quale chiunque avrebbe saputo dirgli come reagire, una specie di preludio all'orgasmo femminile, magari. Come poteva essere solo questione di nervi. Impossibile stabilirlo, quindi fu lieto quando cominciò a
placarsi. Gli tornò in mente quella volta a Ewelme, in un immenso campo di grano: si era seduto ai comandi di una mietitrebbia, dopo essersi vantato con il contadino dicendo che sapeva azionarla, per poi ritrovarsi atterrito all'idea di manovrare anche una sola leva. Molto semplicemente, non era all'altezza. Da una parte, era stata lei a portarlo in camera, a togliersi le scarpe con gran disinvoltura e lasciare che la sua mano si avvicinasse tanto. Dall'altra la lunga esperienza gli aveva insegnato come una mossa sbagliata potesse rovinare tutto. Eppure, finché la sua mano era rimasta li, a palpeggiarle la coscia, lei continuò a fissarla con uno sguardo talmente invitante, i tratti del viso addolciti, gli occhi lunghi e poi spalancati a cercare i suoi, il capo che si piegava un po' all'indietro, che le sue cautele gli erano sembrate del tutto assurde. Esitare era una vera e propria follia. In fondo erano sposati, benedetto Iddio, e lei lo incoraggiava, lo sollecitava, non gli chiedeva altro che di prendere in mano la situazione. Ciononostante, Edward non riusciva a levarsi di mente il ricordo delle volte in cui aveva interpretato male i segnali, soprattutto in quell'occasione al cinema, durante la proiezione di Sapore di miele, quando Florence si era alzata di scatto dalla sedia precipitandosi fuori come una gazzella impaurita. Ci vollero settimane per riparare quel singolo errore, un disastro che non si azzardava a ripetere, e adesso dubitava che una cerimonia di nozze della durata di quaranta minuti in tutto potesse aver prodotto una differenza tanto significativa. L'aria nella stanza pareva leggerissima, rarefatta, tanto da richiedere uno sforzo consapevole a ogni respiro. Edward fu assalito da un attacco di sbadigli nervosi, che mascherò aggrottando la fronte e dilatando le narici: ci mancava solo il pensiero che lui si annoiasse. Lo addolorava immensamente che la loro prima notte di nozze non scorresse liscia quando l'amore reciproco era tanto ovvio. Edward riteneva pericoloso quello stato di eccitazione mista a incompetenza e incertezza, perché non poteva fidarsi di se stesso. Era più che capace di comportarsi in modo sconsiderato, per non dire deleterio. Tra i compagni di corso all'università, passava per uno di quei tipi tranquilli inclini a dare di quando in quando in escandescenze. Secondo suo padre, anche la sua primissima infanzia era stata scandita da episodi di capricci spettacolari. Di quando in quando nel corso del liceo e per tutti gli anni del college si era lasciato trascinare dalla sfrenata libertà di una rissa. Dalla lite in cortile con tanto di piccoli selvaggi urlanti in cerchio grida di incitamento, a convegni solenni nella radura di un piccolo bosco in fondo al paese, a spudorate zuffe fuori dai pub del centro di Londra, Edward trovava nella scazzottatura una imprevedibilità esaltante che gli permetteva di entrare in contatto con una parte di sé spontanea e determinata che di solito si perdeva nel resto della sua esistenza tranquilla. Non cercava mai di proposito quelle situazioni, ma quando si presentavano, ne trovava irresistibili alcuni aspetti: gli insulti, gli amici che ti trattengono, il
regolamento di conti, l'indignazione assoluta dell'avversario. Calava su di lui, in simili circostanze, una specie di sordità temporanea unita a una sorta di restringimento a tunnel del campo visivo, e all'improvviso ci si ritrovava dentro, varcava la soglia di un piacere dimenticato, quasi affiorando alla superficie di un sogno ricorrente. Il dolore fisico arrivava dopo, come succede con le sbronze tra studenti. Non era un gran pugile, ma aveva dalla sua l'impagabile dono della temerarietà fisica, grazie alla quale la gente era invogliata a puntare su di lui. In più era robusto. Florence non aveva mai constatato di persona quella sua follia, né Edward intendeva parlargliene. Ormai non faceva a botte da un anno e mezzo, dal gennaio del 1961, secondo semestre dell'ultimo anno di corso. Un incontro a senso unico, e piuttosto anomalo anche, nel senso che per una volta Edward poteva vantare una giusta causa, un certo livello di nobiltà. Percorreva a piedi Old Compton Street verso il French Pub di Dean Street, in compagnia di un altro studente di storia al terzo anno di corso, Harold Mather. Erano le prime ore della sera e i due arrivavano diritti dalla biblioteca in Malet Street per un appuntamento con certi amici. Al ginnasio di Edward, Mather sarebbe stato la vittima perfetta: era basso, poco sopra il metro e cinquanta, portava occhiali spessi su lineamenti schiacciati e si dimostrava padrone della lingua e dotato di un'intelligenza feroce. All'università, in compenso, si rifece, diventando un personaggio di spicco. Possedeva una ragguardevole collezione di dischi jazz, collaborava alla redazione di una rivista letteraria, l'«Encounter Magazine» gli aveva accettato un racconto, anche se per il momento restava inedito, ed era spassoso durante i contraddittori ufficiali del Circolo universitario e imbattibile come imitatore: in repertorio aveva Macmillan, Gaitskell, Kennedy, Chruscev (di cui improvvisava anche la lingua), insieme a vari capi di governo africani, e attori comici, tipo Al Read e Tony Hancock. Era in grado di riprodurre tutte le voci e gli sketch del programma televisivo Beyond the Fringe, ed era ritenuto di gran lunga il miglior studente del corso di laurea in storia. Edward interpretava l'orgoglio per quell'amicizia con una persona che in passato si sarebbe sforzato di evitare come uno sviluppo positivo della sua vita, la prova di una maturità finalmente raggiunta. Al tempo, la sera di un giorno feriale e d'inverno, Soho cominciava appena ad animarsi. I pub erano affollati, ma i club non avevano ancora aperto, e i marciapiedi restavano sgombri. Non fu difficile notare la coppia che veniva loro incontro su Old Compton Street. Erano due rocker: un ragazzone sui venticinque anni, basette lunghe, giubbotto di pelle borchiato, jeans attillati e stivali, con pingue compagna appesa al braccio, vestita allo stesso identico modo.
Mentre passavano, senza nemmeno rallentare, lui allungò un braccio per assestare una possente manata sulla nuca di Mather, facendolo barcollare e spedendogli in mezzo alla strada gli occhiali alla Buddy Holly. Si trattava di un gesto di superficiale disprezzo per la scarsa statura di Mather e la sua aria studiosa, o forse dettato dal fatto che aveva l'aspetto da ebreo, e in effetti lo era. Può darsi che l'intenzione fosse quella di fare colpo sulla ragazza. Edward comunque non perse tempo a riflettere. Mentre si avventava dietro la coppia, udì Harold urlargli dietro qualcosa come un «No! » o un «Lascia perdere!», ma quello era proprio il genere di istanza alla quale al momento era sordo. Era stato ricatapultato nel sogno. Avrebbe fatto fatica a descrivere il suo stato d'animo: la rabbia si era dissolta ascendendo in spirali di estasi. Con la destra afferrò per le spalle il tizio e lo fece girare, mentre con l'altra mano gli agguantava la gola e lo metteva con la schiena al muro. Con un bel tonfo sordo, la testa sbatté contro una grondaia in ferro battuto. Senza mollare la presa, Edward lo colpi in faccia, una volta sola, ma con tutta la forza, a pugno chiuso. Poi tornò indietro a cercare con Mather gli occhiali, che ritrovarono con una lente rotta. E proseguirono, lasciando l'avversario seduto sul marciapiede, con le mani sulla faccia e la ragazza che gli si agitava intorno. Fu solo a sera inoltrata che si accorse dell' assenza di gratitudine da parte di Harold Mather, e del suo silenzio, perlomeno nei suoi confronti. E perfino di più gli ci volle, addirittura un paio di giorni, per rendersi conto non solo che il suo amico disapprovava, ma che, peggio ancora, quel gesto l'aveva messo in imbarazzo. Arrivati al pub nessuno dei due raccontò la vicenda agli amici, e in seguito Mather non ricordò mai a Edward l'episodio. Qualunque rimprovero sarebbe stato un sollievo. Senza darlo troppo a vedere, Mather cominciò a prendere le distanze. Benché continuassero a incontrarsi in pubblico, e sebbene Mather non si mostrasse mai esplicitamente freddo con Edward, la loro amicizia non fu più quella di prima. Edward stava malissimo al pensiero che l'amico potesse trovare odioso il suo modo di agire, ma non trovava il coraggio di affrontare l'argomento. Senza contare che adesso Mather badava di non ritrovarsi mai solo in sua compagnia. In un primo tempo Edward pensò che l'errore consistesse nell'aver ferito l'orgoglio di Mather assistendo alla sua umiliazione, per addirittura aggravarla prendendo le sue difese e dimostrando così che lui era un duro, mentre Mather era un poveretto gracile e inerme. Quando col tempo Edward capi che quello che aveva fatto molto semplicemente non era bello, la sua vergogna fu ancora più grande. Azzuffarsi per strada non c'entrava niente con la poesia e l'umorismo, con il bebop e la storia. La sua colpa consisteva in una caduta di stile. Non era la persona che aveva creduto di essere. Ciò che aveva scambiato per una sua
stravaganza apprezzabile, per una rude virtù, si rivelò per quello che era, e cioè volgarità. Era un bifolco, un provinciale idiota convinto che un bel cazzotto a mani nude potesse far colpo sull'amico. Fu una rivelazione di sé umiliante. Una di quelle scoperte tipiche della prima età adulta: l'acquisizione di nuovi principi in base ai quali si preferisce essere giudicati. Da quel momento, Edward si era tenuto alla larga dalle risse. Ora però, la sua prima notte di nozze, non era certo di potersi fidare di sé. Come non dubitare che quella sordità selettiva e la visione a tunnel non sarebbero tornate a conquistarlo, avvolgendolo come fa la bruma invernale sulla brughiera di Turville, e annientando il suo io più recente e sofisticato? Sedeva li accanto a Florence con una mano sotto il vestito di lei, a carezzarle la coscia, da più di un minuto e mezzo. La sua voglia straziante cresceva ai limiti del tollerabile, e Edward era spaventato dalla propria furia impaziente e dalle parole o azioni rabbiose che avrebbe potuto produrre, mettendo fine all'intera serata. L'amava, certo, ma avrebbe voluto scuoterla forte, svegliarla a schiaffi e stanarla da quella rigida compostezza da musicista, dalle sue buone maniere da brava ragazza di North Oxford, e mostrarle l'assoluta semplicità della cosa: che avevano a disposizione sconfinati orizzonti di libertà sessuale; e bastava saperla cogliere, perfino con la benedizione della Chiesa. Con il mio corpo ti onoro. Una libertà oscena, gioiosa, nuda, che nella sua fantasia si ergeva come un'immensa cattedrale spaziosa, magari in rovina, magari scoperchiata, spalancata verso la volta del cielo, nella quale lui e lei sarebbero ascesi in assenza di peso verso un poderoso abbraccio per perdersi, per annegare in ondate di purissima estasi dimentiche di tutto. Era talmente semplice! Come mai non vi si trovavano già, e invece stavano ancora seduti li, intrappolati da tutte le cose che non sapevano dire, o che non osavano fare? E in che consisteva l'ostacolo? Nelle rispettive personalità unite al passato, a ignoranza e paura, timidezza, pruderie, mancanza di fiducia in se stessi, esperienza e disinvoltura, più qualche strascico di divieto religioso, l'educazione britannica e l'appartenenza di classe, la Storia insomma. Cosette di poco conto. Edward ritrasse la mano e strinse Florence a sé per baciarla sulla bocca, sforzandosi di contenersi al massimo, di tenere ferma la lingua. La distese indietro sul letto sorreggendole la testa con un braccio. Si coricò su un fianco, ritto sul gomito, per contemplarla dall'alto. Il letto cigolava lugubremente a ogni mossa, quasi in ricordo di altre coppie passate di li per il viaggio di nozze, tutte certamente più all'altezza di loro. E Edward trattenne l'impulso improvviso di ridere all'idea di quelle persone, una fila solenne che si allungava nel corridoio, fin giù alla reception, a ritroso nel tempo. Era fondamentale non pensarci: il comico è veleno puro per l'erotico. Inoltre doveva tenere a bada il pensiero che Florence potesse aver paura di
lui. Credere una cosa del genere, l'avrebbe paralizzato del tutto. Florence gli si abbandonò tra le braccia, lo sguardo tuttora fisso nel suo, il volto rilassato e impenetrabile. Il respiro irregolare e profondo, come se dormisse. Sussurrò il suo nome e le ripeté che l'amava, e lei serrò gli occhi un istante e socchiuse le labbra, forse in segno di assenso, o forse a indicare che ricambiava. Con la mano libera cominciò a toglierle le mutandine. Florence si irrigidì ma non oppose resistenza, anzi sollevò, almeno un poco, le natiche. Ecco ancora il rumore squallido delle molle del materasso, o forse dell'intelaiatura del letto, tipo belato di agnello pasquale. Anche allungando al massimo il braccio libero, non c'era verso di continuare a sostenere la testa mentre agganciava le mutandine e le faceva passare oltre ginocchia e caviglie. Lei lo aiutò piegando le gambe. Buon segno. Non avrebbe arrischiato un secondo tentativo con la cerniera dell'abito, perciò anche il reggiseno (di seta celeste pallido, l'aveva intravisto di sfuggita, con un bordino di pizzo) sarebbe rimasto dov'era. E tanti saluti al poderoso abbraccio di corpi nudi in assenza di peso. Lei comunque era bella anche così, appoggiata al suo braccio, con il vestito raccolto intorno alle cosce e ciocche ingarbugliate di capelli distese sulla sopraccoperta. Una regina radiosa. Si baciarono di nuovo. Edward aveva la nausea dal desiderio, misto a indecisione. Per spogliarsi sarebbe stato costretto a turbare quella disposizione promettente di corpi, rischiando di rompere l'incantesimo. Bastava un leggero cambiamento, la combinazione di fattori minimi, refoli appena di dubbi, e Florence poteva cambiare idea. D'altra parte Oltretutto per la prima volta, Edward era convinto che fare l'amore sbottonando semplicemente la patta dei calzoni sarebbe stato freddo e sguaiato. Oltre che irrispettoso. Dopo alcuni minuti, si allontanò dal suo fianco per andarsi a spogliare in fretta e furia accanto alla finestra, lasciando così intorno alletto una zona protetta dalla banalità di quei gesti. Si sfilò le scarpe facendo leva con l'altro piede, e le calze con un gesto fulmineo del pollice. Notò che lei non lo stava guardando, e puntava invece gli occhi in alto, verso il baldacchino floscio che aveva sopra la testa. Nel giro di pochi secondi, Edward fu nudo, a parte cravatta, camicia e orologio. In un certo senso la camicia che nascondeva e al tempo stesso sottolineava la sua erezione, come un drappo su un monumento, rispettava educatamente l'etichetta stabilita dal vestito di lei. La cravatta, al contrario, era davvero assurda, e mentre tornava da Florence, Edward se l'allentò con una mano, mentre con l'altra si sbottonava il colletto. Il gesto aveva un che di spavaldo e sicuro e, per un attimo, gli tornò in mente l'idea che un tempo aveva di sé: quella di uno magari un po' rozzo, ma piuttosto in gamba. Subito dopo l'idea svanì Lo spettro di Harold Mather continuava a tormentarlo.
Florence decise di non sedersi e di non cambiare nemmeno posizione; sdraiata supina, tenne lo sguardo fisso al panno color biscotto drappeggiato sopra le quattro colonne che, nelle intenzioni d'arredo, dovevano probabilmente evocare un' atmosfera da vecchia Inghilterra fatta di gelidi castelli in pietra e amori cortesi. Si concentrò sulla trama irregolare del tessuto, su una chiazza verde del diametro di una moneta, chissà poi come diavolo ci era finita lassù, e su un filo pendulo agitato dalla corrente. Si sforzava di non pensare al futuro prossimo e nemmeno al passato, e immaginava di aggrapparsi a quell'attimo, all'inestimabile tempo presente, come un alpinista in arrampicata libera che prema forte la faccia contro la parete di roccia, paralizzato dalla paura. L'aria fresca le accarezzava le gambe nude. Lei intanto ascoltava le onde lontane, il grido dei gabbiani reali, e il fruscio di Edward che si spogliava. Il passato la travolse comunque, un passato confuso. A evocarlo era stato l'odore del mare. Florence aveva dodici anni e stava sdraiata immobile come adesso, in attesa, rabbrividendo nella cuccetta dalle sponde in mogano lustro. Aveva la testa vuota, si sentiva umiliata. Dopo due giorni di traversata, erano di ritorno nella calma del porto di Carteret, a sud di Cherbourg. Era tarda sera, e suo padre si stava spogliando, esattamente come Edward, nella cabina angusta e male illuminata. Florence ricordava il rumore degli abiti, il tintinnio di una fibbia slacciata o forse di un mazzo di chiavi, o di qualche spicciolo in tasca. Il suo unico impegno era quello di tenere gli occhi chiusi e di pensare a una musica amata. A una qualsiasi, anzi. Ricordò l'aroma dolciastro, quasi da cibo guasto, che ristagna in barca dopo un viaggio difficile. Poiché di solito stava male più volte nel corso di una traversata, come mozzo di bordo non valeva niente ed era di certo quella, la causa della sua vergogna. Ma non poté nemmeno evitare il pensiero dell'immediato futuro. La sua speranza era di riuscire, qualunque cosa l'aspettasse, a recuperare una sensazione analoga al diffuso piacere di prima che, crescendo, potesse sopraffarla e funzionare da anestetico della paura, e da salvezza della vergogna. Ma pareva improbabile. Il ricordo preciso di quella percezione, l'esserne risucchiata e il sapere esattamente in che cosa consistesse, era già andato assumendo i chiari contorni di un piccolo evento storico. Era accaduto una volta, in passato, come la battaglia di Hastings. E d'altra parte, era stato unico nella sua esperienza, e pertanto prezioso, come un oggetto di cristallo antico, fragilissimo: altra buona ragione per restarsene immobili. Sentì il letto scuotersi e sprofondare all'arrivo di Edward, e la faccia di lui prese il posto del baldacchino, invadendo il suo campo visivo. Sollevò dolcemente la testa per permettergli di infilare di nuovo il braccio sotto la sua nuca. E Edward se la tirò addosso premendola contro il suo corpo.
Florence si trovò a guardare dentro il buio cavernoso delle narici di lui, in una delle quali, la sinistra, scorse un pelo ritto come un uomo in preghiera davanti a una grotta, e vibrante a ogni respiro. Le piacquero le linee circonflesse del labbro superiore. Alla destra del filtro, notò una macchiolina rosa come una capocchia di spillo, la promessa o l'avanzo di un brufolo. Contro il fianco sentiva la sua erezione, dura come un manico di scopa e pulsante, e con sua grande sorpresa, scopri che non la disturbava poi tanto. Quello che per il momento preferiva proprio evitare, era di vederla. A sigillo del rinnovato incontro, Edward abbassò il capo e la baciò, sfiorando appena con la lingua la punta di quella di lei, altra premura di cui Florence gli fu grata. Consapevoli del silenzio calato al bar del piano di sotto niente più radio, nessuna conversazione in corso, si mormorarono i loro «ti amo». Pronunciare, anche se sottovoce, l'eterna formula che li univa garantendo la corrispondenza del loro interesse, le era di conforto. Florence si chiese se non avrebbe perfino potuto farcela, a dimostrarsi abbastanza forte da fingere in modo convincente e riuscire in futuro a sgretolare le proprie ansie, facendo ricorso a una maggiore intimità, fino a raggiungere il vero traguardo di saper dare e ricevere onestamente piacere. Non occorreva che Edward ne fosse al corrente, almeno fino a quando lei stessa non avesse deciso di dirglielo, forte a quel punto di una sicurezza nuova, adottando i toni leggeri del racconto divertente; su quando era ancora una ragazzina alle prime armi, in balia delle sue sciocche paure. Già ora non le dava più fastidio che lui le toccasse il seno, mentre un tempo l'avrebbe fatta inorridire. C'era speranza anche per lei, e a quel pensiero, Florence si fece più vicina al petto di Edward. Si era tenuto, pensò, la camicia addosso, perché aveva i preservativi dentro il taschino, a portata di mano. L'accarezzò dappertutto, tirandole su l'orlo della gonna fino al girovita. Benché Edward si fosse sempre mostrato reticente riguardo alle ragazze con cui aveva fatto l'amore, Florence gli attribuiva senz'altro esperienze notevoli. Senti l'aria estiva entrare dalla finestra e solleticarle i peli del pube. Ormai si era spinta parecchio avanti sul territorio inesplorato, troppo per pensare di poter fare marcia indietro. Non aveva mai immaginato che i preliminari d'amore potessero aver luogo in una scena muta, circondati da un silenzio così intenso. Del resto, a parte le solite due parole, che cosa poteva mai dire che non suonasse forzato o stupido? E dal momento che lui taceva, Florence pensò che si dovesse fare così. Certo, avrebbe preferito che si mormorassero le sciocche parole dolci di quando stavano insieme nella sua stanza a North Oxford, completamente vestiti, per interi pomeriggi. Florence aveva bisogno di sentirlo vicino per tenere a bada il demone del panico che sapeva sempre in agguato. Doveva sentire che Edward era con lei, al suo fianco, e che non l'avrebbe mai trattata male, perché era un amico e un uomo gentile e tenero . Altrimenti
ogni cosa avrebbe potuto prendere il verso sbagliato, e rivelarsi assai triste. Quella rassicurazione che andava al di là dell'amore, Florence poteva averla soltanto da lui, e a un certo punto, non riuscendo più a trattenersi, gli rivolse una richiesta insensata: «Dimmi qualcosa.» L'unico effetto positivo immediato fu che la mano di Edward si fermò di colpo, non lontano da dove stava prima, pochi centimetri sotto l'ombelico. Edward la guardò con le labbra appena tremanti: uno spasmo nervoso forse, o l'inizio di un sorriso, o magari un'idea che si stava per articolare in parole. Con sollievo di Florence, intuì il suggerimento, attinse alla fonte delle loro consuete stupidaggini e disse in tono solenne: «Sei perfetta: viso incantevole, carattere d'oro, gomiti e caviglie sensuali, e che dire poi di clavicola e putamen e vibrato? Farebbero impazzire qualunque uomo, ma tu sei solo mia e io ne sono felice e orgoglioso.» E lei: «Molto bene. Hai il permesso di baciarmi il vibrato.» Edward le prese la mano sinistra e si mise a succhiarle una alla volta le punte delle dita, passando la lingua sui calli del violinista. Si baciarono, e fu in quel momento di relativo ottimismo che Florence senti le braccia di lui irrigidirsi, e all'improvviso, con un'unica rapida mossa d'atleta, se lo ritrovò addosso, e sebbene il peso del corpo fosse sorretto in larga misura da gomiti e avambracci puntati lungo i fianchi di lei, Florence si sentì come immobilizzata e a corto d'aria, sotto quella massa. Fu delusa che non avesse preso tempo per accarezzarle di nuovo il pube, producendo in lei quel brivido strano e crescente. Ma la sua ansia attuale (un relativo miglioramento, rispetto a repulsione e paura, no?) era quella di mantenere le apparenze, di non tradire le aspettative di lui e di non mortificare se stessa, oltre che di non rivelarsi una scelta penosa fra tutte le donne che Edward aveva conosciuto in passato. Doveva farcela. Non gli avrebbe mai lasciato intendere il peso della sua lotta, il prezzo di quella calma apparente. Non desiderava altro che compiacerlo e fare di quella notte un ricordo felice, e non sentiva altro che una specie di consapevolezza fisica: la punta del pene di Edward, stranamente fresca, che le batteva con insistenza dentro e intorno all'uretra. Panico e schifo, pensò, erano sotto controllo; a Edward voleva bene e intendeva solo aiutarlo a ottenere ciò che desiderava tanto, facendosi amare anche di più. Fu in questo spirito che Florence infilò la mano destra fra il suo inguine e quello di lui. Edward si sollevò un poco per lasciarla passare. E lei fu fiera di sé, ricordando il manuale rosso secondo il quale era assolutamente accettabile che la sposa «aiutasse lo sposo a entrare». Trovò per primi i testicoli, e senza alcuna paura prese con delicatezza fra le dita quel bizzarro accessorio peloso che già conosceva, in forme diverse, su cani e cavalli, ma che non aveva mai creduto potesse adattarsi anche al
maschio adulto dell'uomo. Passandogli le dita sotto, giunse alla base del pene, lo strinse con delicatezza estrema, non avendo idea di quanto potesse essere resistente e sensibile, lo accarezzò tutto fino in fondo, notandone con interesse la levigatezza di seta, e arrivò alla punta, che sfiorò appena. Poi, sorpresa dalla propria audacia, tornò un po' indietro, circondò con le dita più o meno la metà del pene e lo spinse un poco più giù, finché lo senti toccare le grandi labbra. Come poteva immaginare di aver commesso un errore terribile? Che avesse fatto un movimento sbagliato? O stretto troppo forte, magari? Edward diede in un gemito, una complicata sequenza di vocalizzi acuti e dolenti, il genere di verso che le era capitato di udire una volta al cinema, nella scena comica in cui un cameriere, vacillando di qua e di là, sembrava sul punto di rovesciare per terra una pila di piatti. Florence mollò sgomenta la presa, mentre lui, sollevandosi con un' espressione sbalordita e inarcando la schiena in una serie di spasmi, le schizzò addosso in fiotti violenti sempre meno copiosi, che le inondarono l'ombelico, la pancia, le cosce e perfino il mento e una rotula di un liquido vischioso. Fu una catastrofe, e lei seppe subito che era tutta colpa sua, che era semplicemente un'inetta, un'ignorante, una stupida. Non avrebbe mai dovuto interferire, mai dare retta a un manuale. L'effetto non sarebbe stato peggiore se gli fosse scoppiata la giugulare. Davvero tipico di lei, immischiarsi presuntuosamente in faccende di una tremenda complessità; come non rendersi conto che, in circostanze simili, l'approccio che adottava alle prove del suo quartetto d'archi non poteva funzionare? E poi c'era un ulteriore elemento, a modo suo ben più atroce e del tutto incontrollabile, in grado di evocarle ricordi che da tempo aveva deciso non essere suoi. Solo un attimo prima era andata fiera di come fosse riuscita a dominare i propri sentimenti e apparire tranquilla. Ora invece non era più in grado di reprimere il suo disgusto iniziale, l'orrore fisico procurato da quell'inondazione di fluido, di viscidume proveniente dal corpo di un altro. Nel giro di pochi secondi, il liquido si raffreddò sulla sua pelle esposta alla brezza marina eppure, proprio come aveva previsto, pareva la stesse ustionando. Nessuna forza di volontà sarebbe riuscita a trattenere il suo grido istantaneo carico di repulsione. Sentirselo colare addosso in rivoletti collosi, quella sconosciuta lattiginosità, quell'odore intimo, glutinoso che si portava appresso il lezzo di un vergognoso segreto confinato in un nascondiglio senz'aria: Florence non poté vincersi, e dovette sbarazzarsene. Mentre Edward si ritraeva, lei si voltò di scatto e si mise in ginocchio, sollevò la sopraccoperta, agguantò un cuscino e prese ad asciugarsi freneticamente. Già mentre lo faceva si rese conto di quanto il suo comportamento dovesse apparire odioso, maleducato,
di quanto dovesse ferire Edward vederla tanto smaniosa di ripulirsi da quella sostanza prodotta da lui. Perdipiú, riuscirci non era banale. più se la spalmava addosso e più s'incollava, e in certe zone era ormai quasi asciutta, trasformata in una screpolata pellicola vetrosa. Florence era divisa in due: quella che gettava a terra il cuscino in preda all'esasperazione, e quella che osservava la scena e si detestava. Era insopportabile pensare che Edward stesse guardando la donna violenta e isterica che stupidamente aveva sposato. Avrebbe potuto odiarlo in quanto testimone di una scena che non avrebbe mai dimenticato. Doveva andarsene via. In un parossismo di rabbia e vergogna, saltò giù dal letto. Intanto, l'altra metà di lei, quella dell'osservatrice, sembrava dirle pacata, senza ricorrere alle parole, Ecco, questo è esattamente ciò che si prova a diventare pazzi. Florence non riusciva a guardarlo. Restare in una stanza con una persona che la conosceva in questa veste, era una tortura. Raccolse le scarpe da terra, attraversò di corsa il soggiorno, oltre le rovine della loro cena, si precipitò in corridoio, e giù per le scale; poi usci, svoltò l'angolo dell'albergo e percorse il prato verdissimo. Non smise di correre neppure quando finalmente raggiunse la spiaggia.
Quattro Nel breve anno fra il primo incontro con Florence a St Giles e il loro matrimonio in St Mary, a meno di mezzo miglio di distanza da lì, Edward fu spesso ospite nella grande villa vittoriana su Banbury Road. Violet Ponting gli riservava quella che in famiglia veniva chiamata la «cameretta», all'ultimo piano, castamente lontana dalla stanza di Florence, e con vista su cento iarde di giardino e, al di là del muro di cinta, sul terreno di un collegio o di un ricovero per anziani, Edward non si era mai dato la pena di scoprire quale dei due. La presunta «cameretta» era in realtà più spaziosa di qualunque stanza del cottage di Turville Heath, forse perfino del soggiorno. Una parete era completamente occupata da semplici scaffalature dipinte di bianco che ospitavano edizioni Loeb di classici greci e latini. Edward gradiva pensarsi accomunato a tanta austera erudizione, ma sapeva che non ingannava nessuno lasciando sul comodino testi di Epitteto o di Strabone. Come tutto il resto della casa, le pareti della sua stanza erano esoticamente dipinte di bianco, nemmeno l'ombra di una tappezzeria, ne a righe ne a fiori, nel regno dei Ponting, e il pavimento in legno non trattato. Edward aveva il piano alto della casa tutto per se, e, al mezzanino, una vasta sala da bagno con finestre vittoriane dai vetri a cattedrale, e rivestimenti in sughero impregnato, altra novità per lui. Il letto era ampio e insolitamente duro. In un angolo, sotto lo spiovente del tetto, c'era un piccolo tavolo in legno di pino chiaro con lampada a braccio estensibile e sedia da cucina dipinta di azzurro. Niente quadri alle pareti, soprammobili, o tappeti, niente vecchie riviste tagliuzzate o qualsiasi altra testimonianza di passatempi e distrazioni. Per la prima volta in vita sua, Edward si sforzò almeno in parte di essere ordinato, perché quella stanza era diversa da tutte quelle che aveva conosciuto: un posto nel quale diventava possibile formulare pensieri pacati, sistematici. Fu lì che, in una tersa notte di novembre, Edward scrisse a Violet e Geoffrey Ponting una rispettosa lettera in cui dichiarava il proprio desiderio di sposare la loro figliola, e lo faceva non tanto per domandare un consenso, quanto aspettando fiducioso un' approvazione. Non si sbagliava. Sembrarono felicissimi, e ufficializzarono il fidanzamento con un pranzo domenicale di famiglia al Randolph Hotel. Edward era troppo inesperto del mondo per sorprendersi di una simile accoglienza in casa Ponting. Accolse educatamente come atto dovuto il fatto che, come ragazzo fisso e poi fidanzato di Florence, quando da Henley veniva a Oxford in autostop o in treno, trovasse sempre la stanza pronta per lui, che a tavola le sue opinioni sul governo in carica o sulle condizioni mondiali venissero
sollecitate, e che gli fosse dato libero accesso alla biblioteca e al parco, campi da croquet e da badminton compresi. Era riconoscente, ma non stupito di veder sparire il proprio bucato insieme a quello della famiglia e di ritrovarselo poi piegato e stirato al fondo del letto, per gentile concessione della domestica, presente in villa ogni giorno feriale della settimana. Gli parve anche del tutto normale che Geoffrey Ponting volesse giocare con lui a tennis sui campi d'erba del quartiere Summertown. Edward era un tennista mediocre: la statura notevole gli garantiva il vantaggio di un discreto servizio e, di quando in quando, sparava qualche palla tesa da fondo-campo. Sotto-rete in compenso era goffo e impacciato, e non potendo fidarsi di un rovescio che spesso lo tradiva, preferiva ricorrere a colpi alzati con la sinistra. Il padre della sua ragazza lo spaventava un po'; temeva che Geoffrey Ponting lo giudicasse un intruso, un impostore, un ladro deciso a dare l'assalto alla verginità della figlia per poi eclissarsi, mentre soltanto uno dei due sospetti era fondato. Durante il tragitto in auto verso il campo, Edward era anche in ansia per la partita: vincere sarebbe stato scortese, ma non rivelarsi un avversario almeno decoroso avrebbe convinto il suo ospite di aver sprecato completamente il proprio tempo. In realtà, poteva stare sereno su entrambi i fronti. Ponting era di un altro livello: un giocatore dai colpi veloci e piazzati, dotato di scatto ed energie sorprendenti per un cinquantenne. Si accaparrò il primo set sei a uno, il secondo sei a zero, il terzo di nuovo sei a uno, ma la cosa più interessante fu la furia con cui accolse ogni misero punto segnato da Edward. Tornando a prendere posizione, il giocatore più anziano brontolava tra sé e sé invettive con le quali, per quanto Edward riusciva a distinguere da fondo-campo, si minacciava di chissà quali violenze. E in effetti, ogni tanto, Edward lo vide picchiarsi con forza la natica destra con la racchetta. Non gli bastava vincere, o vincere senza fatica; voleva portarsi a casa ogni singolo punto. I due game persi al primo e al terzo set, insieme ai suoi pochi personali errori, gli strapparono quasi l'urlo: Allora, Dio santo, ci sei ? Vogliamo giocare, o no? Durante il tragitto di ritorno, si mostrò laconico, e Edward poté finalmente capire come la dozzina scarsa di punti strappati in tre set rappresentasse nel caso specifico un vero successo. Se mai avesse vinto, avrebbe rischiato di non poter rivedere Florence mai più. Di solito invece Geoffrey Ponting, magari in un suo modo nervoso ed energico, lo trattava con cordialità. Se, quando rientrava dal lavoro intorno alle sette, trovava Edward in casa, si prestava a preparare personalmente l'aperitivo: quantità identiche di gin e acqua tonica, su molti cubetti di ghiaccio. Per Edward, anche quella delle bevande ghiacciate era una novità. Si accomodavano in giardino e discutevano di politica, perlopiù Edward si limitava ad ascoltare il punto di vista del futuro suocero riguardo al declino
dell'economia britannica, ai conflitti di competenze all'interno dei sindacati, e alla follia di concedere l'indipendenza a varie ex colonie africane. Ponting non si rilassava neanche da seduto: in equilibrio sul bordo della sedia, sembrava pronto allo scatto, agitava il ginocchio su e giù parlando, oppure si sgranchiva le dita dei piedi nei sandali al tempo di un ritmo che aveva lui nella testa. Era un bel po' più basso di Edward, ma di corporatura massiccia, braccia muscolose coperte di peli biondi che amava esibire, indossando camicie a manica corta, anche al lavoro. Perfino la calvizie sembrava più una manifestazione di virilità che un segno degli anni: la pelle abbronzata appariva liscia sul cranio spazioso, come una vela tesa dal vento. Anche il viso era largo, con piccole labbra carnose atteggiate a un broncio volitivo in posizione di riposo, un nasetto corto, occhi molto distanti che, in particolari condizioni di luce, gli davano un'aria da feto gigantesco. Florence non pareva avere alcun desiderio di unirsi alle loro conversazioni in giardino, e forse nemmeno Ponting avrebbe gradito la sua presenza. Edward si era fatto l'idea che padre e figlia si parlassero poco se non in compagnia d'altri, e comunque su temi di scarso rilievo. In compenso, riteneva che fossero intensamente consapevoli della presenza l'uno dell'altra, e aveva l'impressione che si scambiassero occhiate d'intesa quando qualcuno prendeva la parola, come se condividessero in segreto un giudizio critico sul conto dell'interlocutore. Ponting, sempre disposto a mostrarsi fisicamente affettuoso con Ruth, al contrario non abbracciava mai la figlia maggiore, almeno non sotto gli occhi di Edward. In ogni caso, nei suoi discorsi erano frequenti i richiami lusinghieri a «voi due, tu e Florence», altrimenti detti «voi ragazzi». Fu proprio lui, più ancora di Violet, a entusiasmarsi per la notizia del fidanzamento, a organizzare il pranzo al Randolph e a proporre, in quella occasione, chissà quanti brindisi. Per un attimo Edward pensò addirittura, non seriamente s'intende, che Ponting apparisse un po' troppo contento di sistemare la figlia. All'incirca in quel periodo, Florence suggeri al padre l'idea che Edward potesse rivelarsi un buon acquisto anche per l'azienda. Un sabato mattina Ponting prese la Humber e portò Edward con sé alla periferia di Witney, nello stabilimento dove si progettavano e assemblavano strumenti scientifici a transistor. Non parve affatto deluso quando, procedendo nel labirinto dei vari reparti, avvolti nel mesto odore di lega per saldature, Edward, prevedibilmente sbalordito da tanta scienza e tecnologia, non riuscì a inventarsi una sola domanda interessante da fare. Si riprese un minimo solo quando conobbe, in uno stanzino cieco relegato sul retro, il calvo direttore di vendite ventinovenne il quale, dopo essersi laureato in storia alla Durham University, aveva scritto una tesi di dottorato sulle istituzioni monastiche medievali nella regione nordorientale dell'Inghilterra.
Quella sera, sorseggiando il consueto gin tonic, Ponting offri a Edward un lavoro: si trattava di viaggiare a nome dell'azienda per incrementare la clientela. Sarebbe bastato informarsi un po' sui prodotti e acquisire le basi dell'elettronica e i rudimenti della normativa contrattuale. In mancanza di altri progetti professionali, Edward non faticava a immaginare di poter scrivere libri di storia in treno o in camere d'albergo fra un incontro di lavoro e l'altro; perciò accettò la proposta, più per educazione che per autentico interesse. I vari lavoretti domestici che si offri di sbrigare lo legarono ancor di più a casa Ponting. Nel corso di quell'estate del 1961, rasò più volte i numerosi prati della villa (il giardiniere si era ammalato), spaccò tre cataste di legna per la provvista invernale, e fece la spola a bordo della Austin 35, l'auto di servizio, alla discarica, per sgomberare l'autorimessa inutilizzata che Violet voleva adibire a seconda biblioteca. Con la stessa auto, non avendo accesso all'ammiraglia, accompagnava Ruth, la sorella di Florence, da vari amici e cugini a Thame, Banbury e Stratford, dove poi andava a riprenderla. O si improvvisava chauffeur per Violet: una volta la portò a Winchester a un convegno su Schopenhauer, e lungo il tragitto lei lo torchiò con infiniti interrogativi riguardo al suo interesse verso i culti millenaristici. Quanto influivano carestie e mutamenti sociali sul numero dei seguaci? E, tenendo presente il loro antisemitismo, gli attacchi alla Chiesa ufficiale e alla nascente borghesia, non era forse possibile vedere in quei movimenti gli antesignani di un socialismo di stampo sovietico? E infine, a livello di provocazione, la guerra nucleare non era forse l'equivalente moderno dell'Apocalisse descritta nel Libro delle Rivelazioni; e l'uomo non era in fondo costretto dalla storia della sua stessa natura di peccatore a fantasticare il proprio annientamento? Edward forni risposte nervose, sapendo che si stava mettendo alla prova la sua stoffa di intellettuale. Parlando, erano giunti alla periferia di Winchester. Con la coda dell'occhio, Edward vide Violet estrarre l'astuccio e incipriarsi il viso sciupato e pallido. Di lei lo affascinavano le braccia bianche, secche come bastoni, dai gomiti aguzzi, e ancora una volta si ritrovò a domandarsi se quella potesse davvero essere la madre di Florence. Ora tuttavia gli toccava concentrarsi sulla guida. Si dichiarò convinto che la differenza tra i tempi antichi e il presente fosse più rilevante delle analogie. Da un lato, c'era la fantasia assurda e sinistra prodotta dalla mistica post-Età del Ferro, in seguito rivisitata e corretta dai suoi equivalenti medievali, e dall'altro, il terrore razionale di un possibile evento catastrofico che era in potere dell'uomo impedire. Assumendo un tono di brusco rimbrotto che pose fine con efficacia al dibattito, Violet gli fece notare che non aveva afferrato il punto. Il punto non era se i mistici medievali si sbagliassero o meno riguardo al Libro delle
Rivelazioni e alla fine del mondo. Era ovvio che si sbagliavano; stava di fatto però che erano sinceramente persuasi di avere ragione, e che agivano in base ai loro convincimenti. Allo stesso modo lui, pure in buonafede, credeva che le armi nucleari avrebbero distrutto il mondo, e si comportava di conseguenza. Che importanza aveva che in realtà si sbagliasse, visto che erano proprio quelle armi a salvare il mondo dal rischio di un conflitto? Non era quello, dopotutto, l'obiettivo del deterrente nucleare? Come storico, non poteva non sapere che nel corso dei secoli le suggestioni di massa si erano sviluppate intorno a tematiche comuni. Quando Edward capi che Violet stava assimilando il suo sostegno alla campagna contro gli armamenti nucleari con l'appartenenza a una setta millenaristica, lasciò garbatamente cadere il discorso, e percorsero l'ultimo mezzo miglio di strada in silenzio. In un' altra occasione l'accompagnò a Cheltenham, dove Violet avrebbe tenuto una conferenza alle allieve dell'ultimo anno del liceo femminile sui benefici di un'istruzione universitaria. Quella di Edward, frattanto, procedeva inarrestabile. Quell'estate assaggiò per la prima volta l'insalata condita con olio e limone e, una mattina, lo yogurt (alimento fiabesco a lui noto soltanto dalla lettura di un romanzo di James Bond). La modesta cucina del padre e il regime a base di pasticcio di carne e patate dei suoi anni studenteschi non l'avevano di certo preparato per le stravaganti verdure, melanzane, peperoni sia verdi sia rossi, zucchine e taccole, che gli venivano regolarmente proposte. Fu stupito, per non dire un tantino spiazzato, allorché alla sua prima visita Violet servi come primo piatto una terrina di piselli appena scottati. Dovette superare la propria avversione nemmeno tanto per il sapore, quanto per l'esagerata reputazione dell'aglio. Ruth rise alle lacrime per minuti di seguito, fino a vedersi costretta a lasciare la stanza, sentendolo scambiare per croissant una baguette. Nei primi tempi, Edward lasciò di stucco i Ponting dichiarando di non essere mai stato all'estero, fatta eccezione per un viaggio in Scozia, dove aveva affrontato tre delle cime Munro, sulla penisola di Knoydart. Ebbe il suo battesimo in fatto di müsli, olive, pepe nero fresco, pane non imburrato, acciughe, agnello al sangue, un formaggio diverso dal cheddar, ratatouille, saucisson, bouillabaisse, un pranzo completo senza patate e, sfida tra le sfide, un composto dal sapore di pesce color rosa carico, chiamato taramosalata. Molti di quegli articoli avevano un sapore vagamente ripugnante, e risultavano simili tra loro in modo indefinibile, ma Edward era deciso a non apparire uno sprovveduto. Certe volte, mangiava talmente in fretta da rischiare di strozzarsi. A certe novità prese l'abitudine in fretta: al caffè macinato e filtrato, al succo d'arancia per colazione, al confit de canard, ai fichi freschi. Non
poteva sapere quanto fosse anomala la situazione dei Ponting: una docente universitaria sposata con un valente uomo d'affari, una come Violet che, oltre a essere amica nientemeno che di Elizabeth David, riusciva a gestire una casa durante quella autentica rivoluzione gastronomica, senza frattanto smettere di illuminare studenti su monadi e imperativi categorici. Edward assorbi l'atmosfera di casa senza riconoscerne la straordinaria opulenza. Si fece l'idea che i professori di Oxford vivessero tutti così, ed era molto deciso a non farsi sorprendere meravigliato. In realtà, trovava ogni cosa incantevole, e viveva come in un sogno. Nel corso di quella bella estate, il suo desiderio per Florence fu inseparabile dallo scenario in cui si manifestava: le immense stanze bianche e i lustri pavimenti di legno scaldato dal sole, la fresca aria verde del parco ombroso che entrava come un respiro dalle finestre aperte della villa, la fioritura profumata di North Oxford, le pile di novità editoriali rilegate sui tavoli della biblioteca (l'ultimo di Iris Murdoch, anche lei amica di Violet, l'ultimo di Nabokov, l'ultimo di Angus Wilson) e il suo primo incontro con un giradischi stereofonico. Una mattina Florence gli mostrò le valvole arancioni dell'amplificatore luccicare sull'elegante apparecchio grigio, e le casse acustiche alte come un mobile; poi gli mise su, a un volume sconsiderato, la Sinfonia Haffner di Mozart. Il salto d'ottava iniziale lo sopraffece con una chiarezza di suono incredibile, un'intera orchestra sembrò materializzarsi davanti a lui all'improvviso, e Edward levò un pugno in alto e, incurante di eventuali uditori, le gridò dal fondo della stanza che l'amava. Non l'aveva mai detto, né a lei, né a nessun' altra. Florence ricambiò pronunciando a fior di labbra le stesse parole, e rise di cuore constatando che finalmente un brano di musica classica era riuscito a commuoverlo. Edward attraversò la stanza e provò a farla ballare, ma la musica si fece precipitosa, e loro due si bloccarono con un movimento sgraziato, e si abbracciarono stretti lasciando danzare le note. Come poteva fingere con se stesso che quelle non fossero esperienze straordinarie, all'interno di un'esistenza modesta come la sua? Al più riusciva a non pensarci. Per carattere non era un tipo riflessivo e poi, muoversi in casa di lei in uno stato di pressoché costante erezione, gli limitava e ottundeva parecchio le capacità introspettive. In base alle regole mute del codice di casa Ponting, gli era permesso ciondolare durante il giorno sul letto di Florence, mentre lei si esercitava, a patto che la porta della stanza rimanesse aperta. In teoria, lui avrebbe dovuto leggere, ma in pratica non poteva far altro che contemplarla e amare le sue braccia nude, la sua fascetta per i capelli, la schiena diritta, l'inclinazione dolcissima del mento quando vi sistemava sotto il violino, la curva del seno disegnata sullo sfondo della finestra, il modo in cui l'orlo della gonna di cotone le batteva sui polpacci abbronzati a
ogni movimento dell'archetto, e le piccole tensioni muscolari che si verificavano sotto la pelle di quei polpacci, a seconda di come lei si spostava e oscillava. Di quando in quando, le scappava un sospiro per chissà quale imperfezione nel tono, o nel fraseggio, e allora Florence tornava a ripetere lo stesso passaggio più e più volte. Un altro indizio del suo umore era il modo in cui girava le pagine dello spartito, procedendo sul brano con uno scatto brusco del polso, o al contrario, indugiando, come finalmente appagata del risultato ottenuto, o anticipando nuovi piaceri. Edward era turbato, quasi confuso, dall'indifferenza che Florence gli riservava: aveva il dono della concentrazione assoluta, mentre lui poteva trascorrere giornate intere in una terra di nessuno al confine tra noia ed eccitazione. Passava magari un'ora prima che Florence apparentemente si ricordasse della presenza di lui, e sebbene a quel punto gli si rivolgesse con un sorriso, non capitava mai che lo raggiungesse sul letto: una violenta ambizione professionale, o chissà quale protocollo domestico, dovevano tenerla inchiodata al leggio. Facevano passeggiate a Port Meadow, risalendo il lungo Tamigi, fino al Perch o al Trout, dove sostavano per una pinta di birra. Quando non parlavano d'amore, Edward incominciava a trovare quelle conversazioni un po' faticose, ripiegavano sul tema progetti futuri. Lui si dilungava sulla collana storico-biografica dedicata a personaggi semi-dimenticati, vissuti per qualche tempo accanto a un grande, o che avevano goduto di un loro breve momento di gloria personale. Le raccontò della folle galoppata verso la Scozia di Sir Robert Carey, di come fosse giunto alla corte di Giacomo con il volto coperto di sangue a causa di una caduta da cavallo, e di come tutti i suoi sforzi non gli fossero valsi a nulla. In seguito alla chiacchierata in auto con Violet, Edward aveva deciso di aggiungere all'elenco uno dei tanti messia medievali citati da Norman Cohn, un flagellante attivo intorno al 1360, la cui venuta, a detta sua e dei seguaci, era annunciata dal profeta Isaia. Cristo stesso non era stato che il suo precursore, perché a lui spettava il ruolo di Imperatore del Giorno del Giudizio e quello di Dio in persona. I suoi adepti gli ubbidivano ciecamente e gli rivolgevano preghiere. Faceva Konrad Schmid di nome, e con ogni probabilità fini bruciato sul rogo dall'Inquisizione nel 1368, perché dopo quella data tutto il suo immenso seguito si dileguò come nebbia al sole. Nelle intenzioni di Edward ogni volume non doveva superare le duecento pagine e sarebbe uscito, corredato di illustrazioni, per i tipi della Penguin Books, con eventuale edizione speciale in cofanetto, a collana ultimata. Naturalmente, Florence parlava invece dei suoi progetti per l'Ennismore Quartet. La settimana prima erano stati invitati alloro ex conservatorio dove avevano eseguito l'intero Quartetto Razumovsky di Beethoven davanti al suo relatore di tesi, il quale ne era stato molto colpito. Aveva immediatamente dichiarato che i membri del gruppo avevano un futuro, e dovevano a tutti i
costi restare uniti e darci dentro a lavorare. Consigliò loro di curare moltissimo la scelta dei brani in repertorio, e di concentrarsi su Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, accantonando per il momento Schumann, Brahms e i compositori del ventesimo secolo. Florence confidò a Edward di non desiderare nessun altro tipo di vita, di non tollerare l'idea di sprecare anni nelle ultime file di un'orchestra, ammesso e non concesso di trovare uno straccio d'ingaggio. Il lavoro con il quartetto era così intenso, talmente enorme la concentrazione necessaria per amalgamare in pratica quattro solisti, e talmente ricchi e straordinari i brani scelti che, arrivati in fondo, si scopriva ogni volta qualcosa di nuovo. Diceva tutto questo ben sapendo che la musica classica per lui non significava nulla. Secondo Edward, il modo migliore per ascoltarla era tenerla in sottofondo, a basso volume, come un flusso continuo e indifferenziato di miagolii, stridori e strombettii, in grado di indicare maturità e rispetto per il passato, ma totalmente privi di interesse e capacità di coinvolgimento. Florence si era tuttavia convinta che il suo grido trionfale all'apertura della Sinfonia Haffner potesse rappresentare un momento di passaggio, perciò lo invitò a Londra per assistere a una sessione di prove. Edward accettò volentieri: naturalmente voleva vederla al lavoro, ma soprattutto era curioso di scoprire se questo Charles, il violoncellista da lei nominato un po' troppo spesso, poteva o no rivelarsi un rivale. In caso affermativo, Edward riteneva importante manifestare la propria presenza. Grazie al periodo di calma estiva nelle prenotazioni, la sala prove accanto alla Wigmore Hall affittava i locali al quartetto a prezzi simbolici. Florence e Edward arrivarono ben prima degli altri, il che le permise di offrirgli una visita guidata del teatro. La sala verde, il minuscolo spogliatoio, ma perfino l'auditorium e la cupola non giustificavano, a parere di Edward, l'amore reverenziale che Florence manifestava per quella istituzione. Andava talmente fiera della Wigmore Hall che pareva l'avesse progettata personalmente. Lo condusse sul palcoscenico e gli disse di immaginarsi il brivido di emozione e terrore che si doveva provare suonando su quel palco dinanzi a un pubblico di appassionati. Edward non ci riuscì, ma non glielo disse. Florence aggiunse che un giorno sarebbe successo, l'aveva deciso in cuor suo: l'Ennismore Quartet si sarebbe esibito li, avrebbe suonato splendidamente, sarebbe stato un trionfo. Lui amò la solennità di quella promessa. La baciò e, con un balzo, scese in platea, raggiunse la terza fila centrale, e giurò che quel giorno, a qualunque costo, lui ci sarebbe stato, seduto esattamente su quella poltrona, la 9C, a guidare l'applauso e il coro di esclamazioni entusiastiche a fine concerto. Quando ebbero inizio le prove, Edward sedette in silenzio in un angolo della sala spoglia, in uno stato di profonda felicità. Scopriva che essere innamorati
non è una condizione stabile, ma un susseguirsi di impeti e ondate sempre nuove, proprio come quella che sentiva dentro adesso. Il violoncellista, evidentemente spiazzato dal nuovo amico di Florence, si rivelò un poveretto con un problema di balbuzie e una pelle da far paura, tanto che Edward riuscì a impietosirsi e a perdonargli magnanimo l'ossessione servile manifestata nei riguardi della sua ragazza; del resto era lui il primo a non riuscire a staccarle gli occhi di dosso. Mentre si preparava a suonare con i suoi amici, Florence sembrava rapita in una sorta di estasi. Si infilò la fascetta per i capelli e, in attesa che avessero inizio le prove, Edward si perse in una fantasticheria non solo a base di sesso con Florence, ma di matrimonio, famiglia, e della bambina che avrebbero potuto avere. Che segno di maturità, contemplare progetti simili! E se invece si fosse trattato soltanto di una versione rispettabile del vecchio sogno maschile di essere amato da pili di una donna allo stesso tempo? Quella figlia avrebbe avuto la grazia e la serietà di sua madre, una bella schiena diritta, e avrebbe senz'altro suonato uno strumento, probabilmente il violino, anche se Edward non escludeva a priori l'ipotesi della chitarra elettrica. Quel pomeriggio in particolare arrivò anche Sonia, la violista vicina di camera di Florence, per esercitarsi con gli altri al quintetto di Mozart. Finalmente furono pronti a incominciare. Ci fu un silenzio brevissimo, che sembrava previsto in spartito dallo stesso Mozart. Appena attaccarono, Edward fu sorpreso dalla potenza del volume, dal vigore del suono e dal vellutato amalgamarsi degli strumenti, e per alcuni minuti di seguito si godette davvero la musica, prima di perdere il filo e di iniziare come di consueto ad annoiarsi di quella che a lui pareva l'affettata concitazione e la monotematicità di quel tipo di brano. Poi Florence interruppe l'esecuzione e pacatamente espose le sue osservazioni; segui una discussione e infine si riprese a suonare. Lo stesso accadde pili e pili volte, finché la ripetizione cominciò a rivelare a Edward la dolcezza di una melodia riconoscibile, nonché il succedersi di vari agganci fra uno strumento e l'altro, e una serie di salti e sprofondamenti che gli venne spontaneo cercare nell'ascolto dell'esecuzione successiva. Più tardi, sul treno che li riportava a casa, fu in grado di dirle con assoluta franchezza che la musica l'aveva commosso, e perfino di canticchiarle qualche passaggio a labbra chiuse. Florence si emozionò tanto che volle fare una seconda promessa: ed eccola di nuovo investita di quella elettrizzante solennità che sembrava raddoppiarle la dimensione degli occhi. Quando per l'Ennismore fosse arrivato il gran giorno del debutto alla Wigmore Hall, avrebbero suonato il quintetto dedicandolo espressamente a lui. In cambio, Edward le portò da Oxford dei dischi che voleva insegnarle ad amare. Florence sedette immobile e ascoltò paziente Chuck Berry, a occhi chiusi, con eccessiva concentrazione. Lui temette potesse disapprovare Roll
Over Beethoven, che Florence invece trovò spassoso. Si sforzò di esprimere un commento positivo su ogni pezzo, ma dovette ricorrere ad aggettivi quali «vivace», «allegro» o «sincero», e Edward seppe per certo che voleva soltanto mostrarsi gentile. Quando osò dirle che forse non riusciva a «cogliere» il punto del rock'n'roll e quindi non si vedeva perché insistere, Florence dovette ammettere di non capire la necessità delle percussioni. Con brani così elementari, in larga misura semplici quattro tempi, che bisogno c'era di tutto quel battere e martellare? A che scopo, quando già c'era la chitarra ritmica, e spesso anche il pianoforte? Se ai musicisti serviva sentire il tempo, non potevano procurarsi un metronomo ? A quel punto perché non inserire un batterista anche nell'Ennismore Quartet? Edward la baciò e le disse che era la persona più fuori-moda di tutto l'Occidente. «Eppure mi ami,» fece lei. «No, perciò ti amo.» All'inizio di agosto, un vicino di Turville Heath si ammalò e la squadra di cricket locale offri a Edward il suo impiego a tempo determinato, part-time, come inserviente di campo. Doveva accumulare una dozzina di ore alla settimana, da distribuire come preferiva. A lui piaceva uscire di casa la mattina presto, addirittura prima che si svegliasse suo padre, e incamminarsi senza fretta sul viale di tigli, nel chiasso degli uccelli, e raggiungere il campo, come se fosse lui il padrone. La prima settimana lo preparò per il derby locale, l'attesa partita contro gli Stonor. Tagliò l'erba, passò il rullo e diede una mano al falegname di Hambleden a realizzare e dipingere un nuovo schermo. Quando non lavorava o non doveva aiutare in casa, si precipitava a Oxford, non solo per il desiderio di vedere Florence, ma anche per procrastinare l'inevitabile incontro di lei con i suoi genitori. Non aveva idea di che cosa avrebbero pensato l'una dell'altra lei e sua madre, né di come Florence avrebbe reagito alla sporcizia e al caos di casa. Pensava di aver bisogno di tempo per preparare tutto e invece, alla resa dei conti, non fu così; un torrido venerdì pomeriggio, attraversando il campo da cricket, si trovò Florence ad aspettarlo all'ombra delle tribune coperte. Conoscendo i suoi orari, aveva preso un treno prestissimo e se l'era poi fatta a piedi da Henley verso la Stonor Valley, armata di carta in scala 1:50000 della zona, e di un paio di arance nella sacca di tela. Da circa mezz'ora lo guardava ridisegnare le linee esterne. Lo amava da lontano insomma, come gli disse quando si baciarono. Quello fu uno dei momenti più alti del loro amore appena nato, quel percorrere piano, sottobraccio, il bel viale, camminando al centro della carreggiata come fossero padroni della strada. Ora che non c'era più nulla da fare, la prospettiva di far conoscere a Florence sua madre e il cottage non gli sembrava più così rilevante. L'ombra dei tigli era talmente fitta da farne apparire le fronde di un nero blu astro
nella luce violenta, mentre la campagna era un trionfo di erba alta e fiori di campo. Edward ostentò la propria competenza botanica e fu così fortunato da trovare perfino un ciuffo di genzianella germanica sul ciglio della strada. Ne raccolsero una soltanto. Avvistarono uno zigolo, un verdone e, verso la fine del tragitto, uno sparviero sforbiciò in aria ad angolo retto e spari dietro un pruno. Florence non conosceva nemmeno il nome di uccelli comuni come quelli, ma si dichiarò intenzionata a rimediare. Era incantata dalla bellezza del posto e fiera del percorso scelto, quando aveva deciso di abbandonare la Stonor Valley per seguire il sentiero stretto che portava alla desolata località di Bix Bottom, oltre la chiesa di St James, diroccata e coperta di edera e poi, su per la salita del bosco, fino all'immensa distesa di fiori di campo di Maidensgrove, e alla faggeta di Pishill Bank, con la chiesetta in mattoni e silice e il cimitero, arroccati in uno scorcio magnifico, sulle pendici del colle. Mentre descriveva ogni tappa, Edward, conoscendo benissimo la zona, la immaginava lì, sola, a camminare per ore, fermandosi soltanto per consultare la carta. E tutto questo, per lui! Che regalo! Perdipiù, non l'aveva mai vista così felice, né così bella. Si era legata i capelli con un nastrino di velluto nero, e indossava jeans scuri, scarpe di tela, e una camicia bianca con un fiore di tarassaco infilato nell'asola di un bottone. Mentre procedevano verso casa, lei continuava a tirargli il braccio macchiato d'erba, per chiedergli baci, sebbene castissimi, e per una volta anche lui accettava sereno, se non proprio soddisfatto, di non andare oltre. Dopo che Florence ebbe sbucciato l'arancia rimasta per mangiarla insieme lungo il tragitto, Edward senti la mano di lei appiccicosa nella sua. Erano entrambi felici come bambini per quella bella sorpresa, e convinti di avere davanti a sé, oltre all'intero fine settimana, la promessa di un' esistenza libera e desiderabile. Il ricordo di quella passeggiata dal campo da cricket a casa giungeva come una provocazione per Edward, a un anno di distanza, nella sua prima notte di nozze, mentre si alzava dal letto nella semioscurità. Dibattuto fra emozioni contrastanti, voleva a ogni costo aggrapparsi alle migliori, all'idea più generosa che aveva di lei, per non crollare, non darsi per vinto una volta per tutte. Attraversando la stanza, senti le gambe pesanti, come cariche d'acqua, mentre andava a riprendersi le mutande abbandonate per terra. Se le infilò, raccolse i calzoni e rimase un bel pezzo così, con i pantaloni in mano, a fissare fuori dalla finestra gli alberi battuti dal vento, che avevano assunto i contorni di un'unica massa cupa color grigio-verde. Alta nel cielo, una mezzaluna incapace di fare luce. Il rumore delle onde battenti sulla riva a intervalli regolari si insinuò dentro i suoi pensieri, come acceso di colpo da un interruttore, e lo riempi di stanchezza; le leggi e i processi inesorabili del
mondo fisico, di luna e maree, ai quali di solito prestava scarso interesse, non apparivano minimamente alterati dalla sua condizione. Questa verità, anche troppo ovvia, gli risultava crudele. Come avrebbe potuto farcela, così solo e senza un sostegno? E come scendere adesso per andare ad affrontare Florence, raggiungendola sulla spiaggia, dove immaginava dovesse trovarsi? I pantaloni gli sembravano all'improvviso pesanti e ridicoli: due tubi paralleli di stoffa cuciti a un'estremità, la moda arbitraria degli ultimi secoli. Rimettendoseli, gli pareva che avrebbe fatto ritorno alla vita sociale, ai suoi obblighi e alle proporzioni reali della sua vergogna. Una volta vestito, sarebbe dovuto andare a cercarla. Perciò procrastinava. Come succede con tanti ricordi precisi, anche quello della passeggiata con Florence verso Turville Heath creava intorno a sé una zona caliginosa di oblio. Dovevano essere arrivati a casa e aver trovato sua madre da sola, Lionel e le ragazze a quell'ora erano ancora a scuola. Di solito Marjorie Mayhew si faceva prendere dall'agitazione vedendo una faccia nuova, ma Edward non conservava il minimo ricordo di averle presentato Florence, né di come quest'ultima avesse reagito alla squallida angustia delle stanze e al fetore di scarico proveniente dalla cucina, sempre al suo peggio in estate. Gli restavano solo brandelli di scene del pomeriggio, come foto istantanee, o insolite cartoline. Una, filtrata dal vetro opaco e macchiato della finestra in soggiorno, inquadrava Florence e sua madre sedute su una panchina, ciascuna con in mano un paio di forbici e una copia di «Life», intente a chiacchierare e a ritagliare figure. Tornate da scuola, le gemelle dovevano aver portato Florence a vedere l' asinello appena nato della vicina, perché un' altra immagine mostrava loro tre sottobraccio che attraversavano il prato, rientrando. Una terza era di Florence con in mano un vassoio di tè da portare in giardino a suo padre. Ma si, come aveva fatto a dubitarne, Florence era una brava persona, la migliore del mondo, e quell'estate l'intera famiglia Mayhew se ne innamorò. Le ragazze venivano a Oxford a trovarlo e trascorrevano la giornata sul fiume con Florence e sua sorella. Marjorie non faceva che chiedere di lei, pur non ricordandosene mai il nome, e Lionel Mayhew, con tutto il suo senso pratico, suggeri al figlio di «sposarsi quella ragazza» prima che gli scappasse. Edward rievocò i ricordi dell'anno passato, le immagini-cartolina di casa, la passeggiata nel viale di tigli e l'estate a Oxford, non per il desiderio sentimentale di aggravare la propria pena né di crogiolarvisi, ma al contrario per dissiparla e tornare a sentirsi innamorato, e per arrestare l'avanzata di qualcosa che in un primo momento non ebbe voglia di ammettere, l'inizio di un annuvolamento del cuore, di una cupa resa dei conti, di una traccia di veleno che già gli stava inondando le vene. Rabbia. Il demone tenuto a freno poc'anzi, quando pensava di aver raggiunto il limite della pazienza. Che
tentazione, arrendervisi adesso, rimasto ormai solo e libero di lasciarla infuriare. Dopo una simile umiliazione, era il rispetto di sé a esigerlo. E che male poteva esserci in fondo a concedersi quel pensiero? Tanto valeva levarselo di torno subito, li, mezzo nudo, tra le macerie della loro luna di miele. A invogliarlo ulteriormente a cedervi fu la chiarezza prodotta dall'improvvisa assenza di desiderio. Ora che i suoi pensieri non erano più addolciti e neppure annebbiati dalla smania, era in grado di registrare l'oltraggio come un dato di fatto oggettivo. E che oltraggio, oltretutto, quanto disprezzo mostrato in quel grido di repulsione, e nella frenesia del cuscino, quanta crudeltà nella fuga precipitosa dalla stanza senza una parola, lasciando lui in balia della propria orrenda vergogna, schiacciato dal peso del fallimento. Florence aveva fatto di tutto per peggiorare la situazione e renderla insanabile. Lo reputava un essere spregevole e lo voleva punire, abbandonarlo da solo a contemplare la propria inadeguatezza, senza nemmeno considerare l'ipotesi di essere a sua volta parte in causa. Era stato di sicuro il movimento della mano di lei, delle dita, a rovinarlo. Al ricordo di quella sensazione dolcissima, una nuova ondata di eccitazione acuta cominciò a distrarlo, allontanandolo da pensieri tanto severi per ricondurlo verso la possibilità di un futuro perdono. Ma Edward resistette. Aveva trovato la via giusta, e intendeva seguirla. Sentiva che stava per incappare in una questione di rilevanza maggiore e infatti eccola, l'aveva scovata, come un minatore che si scavi una breccia nelle pareti di una galleria ampia, un cunicolo buio ma largo abbastanza per incanalarvi dentro la collera. Ce l'aveva chiaro davanti agli occhi, ed era stato un idiota a non vederlo. Per un anno intero aveva sofferto in silenzio un supplizio, aspettando i tempi di Florence fino a star male fisicamente, e chiedendo solo piccole cose, minuzie patetiche come un bacio vero, o la possibilità di sfiorarla e di farsi sfiorare da lei. La promessa del matrimonio era stato il suo unico conforto. E poi quanto piacere aveva rubato a tutti e due, Florence! Anche se non potevano fare l'amore fin dopo le nozze, che bisogno c'era di tutti quei contorcimenti, tutte quelle assurde limitazioni? Con lui, sempre paziente, remissivo: un cretino educato. Altri uomini avrebbero chiesto di più, o se ne sarebbero andati. E se, alla fine di un intero anno di sforzi per contenersi, non ce l'aveva più fatta e aveva fallito, beh, si rifiutava di assumersene anche la responsabilità. Punto e basta. Edward respingeva quell'umiliazione, non intendeva riconoscerla. Come si permetteva Florence di urlare delusa, e scappare dalla stanza quando la colpa era sua? Meglio prendere atto della verità: lei non voleva baciarlo né toccarlo, non le piaceva la vicinanza fisica dei loro corpi e non nutriva interesse verso di lui. Non era una donna sensuale, non sapeva che cosa fosse il desiderio. Non avrebbe mai provato
quel che provava lui. Edward giunse alle conclusioni successive in base a una logica che non lasciava scampo; Florence l'aveva sempre saputo, era chiaro, e quindi l'aveva ingannato. Voleva un marito per ragioni di rispettabilità, o per compiacere i suoi genitori, o perché prima o poi tutti si sposano. Magari le era sembrato un gioco meraviglioso. Non lo amava, non era in grado di amare come gli altri, lo sapeva, e gliel'aveva nascosto. Era una persona disonesta. Non facile, addentrarsi nei meandri di verità tanto amare in mutande e a piedi nudi. Edward si infilò i pantaloni e si mise in cerca di calze e scarpe, poi ripensò tutto quanto daccapo, smussando gli spigoli troppo acuti, evitando i percorsi più accidentati, per dedicarsi a quei passaggi che, liberandolo da ogni incertezza, perfezionavano il ragionamento e permettevano alla sua rabbia di montargli dentro di nuovo. Stava comunque esplodendo, e lasciarla inespressa l'avrebbe resa inutile. Andava chiarita ogni cosa. Florence doveva sapere che cosa pensava e provava lui: doveva dirglielo e dimostrarglielo. Afferrò la giacca dallo schienale di una sedia e usci dalla stanza correndo.
Cinque Lo guardò arrivare sulla spiaggia: la sagoma, in principio soltanto una chiazza blu violetta contro il buio crescente dei ciottoli, appariva ora immobile, i contorni sfocati e vibranti, ora improvvisamente più vicina, quasi si fosse spostata verso di lei di qualche casella, come un pezzo degli scacchi. L'ultimo barbaglio di luce bagnava la riva e, alle spalle di Florence, si scorgevano i punti luminosi sull'isola di Portland a oriente, mentre il soffitto basso di nubi rifletteva il bagliore smorto dei lampioni di un lontano centro abitato. Lo guardò augurandosi che rallentasse, perché, alla paura colpevole che provava nei suoi riguardi, si aggiungeva un disperato bisogno di più tempo per sé. Qualunque conversazione dovesse aver luogo tra di loro, la terrorizzava. A suo avviso non c'erano parole per dire quanto era accaduto: non esisteva una lingua comune nella quale due adulti sani di mente avrebbero potuto parlarsi di avvenimenti simili. Discuterne poi, andava decisamente al di là della sua immaginazione. Che genere di dialogo sarebbe mai stato possibile? Florence non ci voleva nemmeno pensare, e sperava che fosse lo stesso anche per lui. Di che altro parlare, del resto? Che altro li aveva portati lì? La questione ingombrava lo spazio fra loro, reale come un elemento geografico, come una montagna, un capo. lnnominabile, inevitabile. E poi, c'era la vergogna. I postumi del suo comportamento le risuonavano dentro, come una specie di fischio alle orecchie. Ecco perché si era precipitata tanto lontano, correndo a fatica sui ciottoli con le scarpe da viaggio: per fuggire da quella stanza, da tutto ciò che vi era successo, e da se stessa. Aveva avuto una reazione abominevole. Abominevole. Lasciò che quel parolone vuoto si ripetesse più volte nei suoi pensieri. Fino ad assumere un' accezione benevola: lei giocava a tennis in modo abominevole, e in modo abominevole sua sorella suonava il piano. Florence si rendeva conto insomma che quell'aggettivo tendeva più a mascherare che a descrivere il suo atteggiamento. Ma allo stesso tempo, non le sfuggiva la mortificazione di lui: le si era buttato addosso con quell'espressione sconcertata, contratta, e quello spasmo da rettile lungo la spina dorsale. Ora però Florence si stava sforzando di non pensarci. Ci voleva coraggio per ammettere di provare una punta di sollievo all'idea di non essere la sola dei due ad avere un problema. Terribile, SI, ma molto consolante sarebbe stato scoprire che Edward soffriva di un male congenito, una tara di famiglia, il genere di malattia da vivere nel silenzio di un assoluto riserbo, come avviene per l'enuresi. O il cancro, parola che, per ragioni di superstizione, Florence non pronunciava mai ad
alta voce, quasi potesse infettarle la bocca: un' autentica stupidaggine, senz'altro inconfessabile. A quel punto avrebbero potuto compatirsi a vicenda, rinsaldare il loro legame d'amore nelle rispettive disgrazie. E già in effetti provava pena per lui, ma si sentiva anche un po' ingannata. Se sapeva di non essere del tutto normale, perché non dirglielo, in confidenza? In realtà lo capiva benissimo, il perché. Lei forse aveva parlato? Come affrontare l'argomento di quella sua speciale malformazione, quali parole avrebbero saputo dare avvio al discorso? Nessuna. Quella lingua non era stata ancora inventata. Ma già mentre così elucubrava tra sé, Florence sapeva benissimo che in Edward non c'era nulla che non andasse. Assolutamente nulla. Il problema era suo, soltanto suo. Appoggiava la schiena contro un grosso albero caduto, probabilmente spiaggiato da un fortunale, la cui corteccia era stata strappata dalla furia delle onde, e il legno, indurito e levigato dall'acqua salmastra. Sistemata nell'angolo comodo formato da un ramo, il poderoso abbraccio del tronco trasmetteva alle reni di Florence il calore residuo del giorno. Così si deve sentire un bambino, nel nido accogliente delle braccia materne, anche se Florence non credeva di essersi mai potuta rannicchiare sul corpo di Violet, tra quelle sue braccia secche e nervose a furia di scrivere e di pensare. C'era stata, intorno ai suoi cinque anni, una tata nordica, piuttosto pingue e materna: aveva la parlata musicale degli scozzesi e grandi mani dalle nocche rosse, ma se n'era andata in seguito a un oscuro scandalo che la riguardava. Florence continuava a non perdere d'occhio Edward, sicura che lui non riuscisse ancora a vederla. Avrebbe potuto calarsi giù per la sponda ripida e tornare sui propri passi seguendo la Fleet, ma nonostante la paura, scappare le sembrava troppo crudele. Per un istante, vide il contorno delle spalle di Edward disegnarsi sullo sfondo di un nastro d'acqua d'argento, l'effetto di una corrente che sfumava allargo, dietro di lui. Adesso udiva il rumore dei passi sui ciottoli, quindi anche Edward avrebbe udito i suoi. Che quella fosse la direzione giusta, doveva averlo saputo dal principio, perché faceva parte dei loro piani, una passeggiata dopo cena sulla striscia di ciottoli, con una bottiglia di vino. Volevano raccogliere sassi lungo il tragitto e confrontarne le dimensioni per vedere se davvero le tempeste avevano fatto ordine sulla spiaggia. Il ricordo di quel piacere perduto non le procurò più troppa pena, in quanto fu immediatamente scacciato da un'idea, un pensiero abortito qualche ora prima. Amarsi, e lasciare libero l'altro. Ecco l'argomento da sostenere: una proposta coraggiosa, secondo lei, non fosse che a chiunque altro, Edward compreso, poteva sembrare ridicola, idiota, per non dire offensiva. Florence pensava di non avere mai afferrato fino in fondo le proporzioni della propria incompetenza, perché su certi temi si sentiva invece abbastanza matura. Le
occorreva del tempo. Ma in capo a pochi secondi lui sarebbe arrivato e si sarebbe dovuto affrontare il terribile discorso. Il fatto di non avere la minima idea dell' atteggiamento da assumere le pareva il segnale di un ulteriore fallimento da parte sua, eppure in lei c'era soltanto il terrore al pensiero di quello che Edward avrebbe potuto dire, e della risposta che si sarebbe aspettato da lei. Non sapeva nemmeno se doveva chiedere perdono, o esigere delle scuse. Non c'era amore né assenza di amore in lei: non provava più niente. Aveva solo voglia di starsene li da sola, nel buio, appoggiata al suo albero gigantesco. Sembrava che Edward avesse in mano una specie di pacco. Si fermò a parecchi metri, come dal fondo di una stanza, il che le sembrò già poco cordiale, e scatenò in lei un senso di ostilità. Doveva proprio correrle subito appresso? Di sicuro, nel tono di Edward risuonò l'esasperazione. «Ah, ecco dov'eri.» Florence non trovò parole per rispondere a un commento tanto insulso. «C'era proprio bisogno di fare tanta strada?» «Si.» «Saranno almeno due miglia dall'albergo.» Florence fu sorpresa dalla durezza della propria voce. «E allora? Avevo bisogno di andarmene.» Edward non volle ribattere. Sotto i suoi piedi, l'acciottolio continuo dei sassi. Finalmente Florence capi che era la giacca, quella che aveva in mano. Faceva un gran caldo umido sulla spiaggia, perfino di più che durante il giorno. Le diede fastidio pensare che Edward avesse ritenuto indispensabile portarsi dietro la giacca. E meno male che non si era rimesso anche la cravatta! Dio, che nervi, all'improvviso, quando solo pochi minuti prima si era vergognata come una ladra. Di solito ci teneva tantissimo a fare buona impressione con lui, e ora invece non le importava più niente. Edward si preparava a dirle quel che era venuto fin li a chiarire, perciò fece un passo avanti. «Senti, è assurdo. Che cosa ti salta in mente di scappare in quel modo? Non è giusto.» «Tu dici?» «lo dico. Hai fatto malissimo.» «Ah si? Ma pensa. Anche tu hai fatto malissimo a fare quello che hai fatto.» «E cioè?» Florence tenne gli occhi chiusi mentre rispondeva. «Sai perfettamente a cosa mi riferisco.» In futuro si sarebbe odiata per come aveva gestito quella conversazione, ma nel frangente aggiunse: «E' stato disgustoso.» Le parve di sentirlo gemere, come se ricevesse un pugno allo stomaco. Se
soltanto il silenzio successivo fosse durato qualche secondo di più, forse il senso di colpa le sarebbe venuto in soccorso facendole dire qualcosa di meno villano. Ma Edward era partito all'attacco. «Tu non hai la minima idea di come si sta con un uomo, vero? Perché se tu ce l'avessi, tutto questo non sarebbe capitato. Non ti si può neanche avvicinare. Non sai niente di niente, tu, dico bene? Per te è come se fosse il milleottocentosessantadue. Non sai nemmeno baciare!» Florence udi la propria voce rispondere: «Sarà, ma riconosco un fallimento quando lo vedo.» Non era quello che voleva dire, non ritrovava se stessa in tanta perfidia. Era semplicemente un secondo violino che risponde al primo, una battuta retorica provocata dalla brutalità di un attacco diretto, improvviso, dal sarcasmo che aveva percepito nell'incalzare di tutti quei «tu». Quante accuse doveva sopportare in casi poche parole? Se lo aveva ferito, Edward non tradì la propria emozione, anche se, a dire il vero, non era facile vederlo in faccia. Forse era stato il buio a renderla tanto esplicita. Quando riprese a parlare comunque, non senti neppure il bisogno di alzare la voce. «Non ho nessuna intenzione di farmi umiliare da te.» «Nemmeno io di farmi prevaricare.» «Nessuno ti vuole prevaricare.» «E invece si. Continuamente.» «È ridicolo. Mi dici di cosa stai parlando?» Florence non lo sapeva con certezza, ma ormai aveva imboccato quella strada. «Sei sempre li a tormentarmi, vuoi sempre qualcosa da me. Non si può mai stare un po' tranquilli. Esser contenti di quel che si ha. No, sempre questa pressione continua. Non ti basta mai. Che insistenza, quante moine ... ma cosa speri di ottenere?» «Moine? Non ti capisco. Spero solo che tu non ti riferisca ai soldi.» Assolutamente no. Lungi da lei il pensiero. Che assurdità, tirare fuori l'argomento soldi ora. Ma come osava? Perciò Florence disse: «Beh, visto che sei tu a nominarli, è chiaro che ci hai pensato.» Era stato il tono sprezzante di lui a provocarla. O forse la disinvoltura. Ciò che aveva in mente Florence, era ben più essenziale del denaro; peccato che non sapesse come dirlo. Era quella lingua che cercava di entrarle in bocca, quella mano che le saliva sotto la gonna o le si insinuava nella camicetta, o che le tirava la sua verso la patta dei calzoni, era quel certo modo che aveva Edward di distogliere lo sguardo e di ammutolire. Era l'immancabile smania che lei si concedesse di più e, se rifiutava, l'accusa tacita di averlo deluso, rallentando l'intero processo. Ogni volta che Florence varcava un confine, ne
trovava un altro ad aspettarla. Ogni concessione da parte sua accresceva la richiesta, e il successivo disincanto. Perfino nei momenti più felici, aleggiava su di loro l'ombra di quel biasimo, il malcelato livore dell'insoddisfazione, incombente come un picco di montagna, la sagoma di una pena perpetua di cui entrambi ritenevano lei sola responsabile. Florence desiderava amare e rimanere se stessa. Ma per farlo, era costretta a negar si in continuazione. E a quel punto, smetteva di essere se stessa. Si era fatta relegare nel ruolo della donna delicata, nemica di una vita sana e normale. La irritava il modo in cui Edward le si era subito messo alle calcagna sulla spiaggia, anziché lasciarle un po' di tempo per restare sola. Senza contare che quell'episodio, sulla costa della Manica, non era altro che l'assaggio di un problema ben più vasto. Florence già immaginava le mosse successive. Ci sarebbe stata la lite, poi la rappacificazione, magari solo parziale, lui l'avrebbe blandita e persuasa a ritornare in camera, e le avrebbe ributtato addosso le stesse aspettative. E lei l'avrebbe deluso un' altra volta. Le mancava l'aria. Era sposata solo da otto ore e sentiva su di sé il peso di ogni minuto, aggravato dalla sua incapacità di dar voce ai propri pensieri. Perciò si vedeva costretta a ripiegare sull'argomento denaro, che in realtà funzionava molto bene, perché a quel punto Edward era furibondo. Disse: «Non me n'è mai importato niente dei soldi. Tuoi o di chiunque altro.» Florence sapeva che era vero, ma non replicò. Edward si era spostato, perciò ora il suo contorno si stagliava netto contro la luce morente sull'acqua alle sue spalle. «Quindi, tieniti pure i tuoi soldi, quelli di tuo padre, intendo, e spenditeli tutti. Comprati un violino nuovo. Evita di sprecarli in cose che potrei usare anch'io.» La sua voce era tesa. L'aveva offeso profondamente, perfino oltre le intenzioni, ma per il momento non le importava e, per fortuna, non riusciva a vederlo in faccia. Era la prima volta che parlavano di denaro. Come dono di nozze, il padre aveva regalato loro duemila sterline. Florence e Edward avevano accennato all'ipotesi di comprarcisi una casa, un giorno. Edward riprese: «Secondo te, io ti avrei usata per farmi dare quel lavoro? Ti ricordo che l'idea è stata tua. E comunque, manco lo voglio. Hai capito? Non ho nessuna voglia di lavorare con tuo padre. Puoi dirglielo, che ho cambiato idea.» «Diglielo tu. Sarà proprio contento. Con tutte le grane che ha avuto per trovartelo.» «Benissimo. Glielo dico io, allora.» Edward si voltò allontanandosi da lei in direzione della battigia, ma fatti pochi passi, tornò indietro; menava calci ai ciottoli con spudorata violenza, e
alcuni schizzarono in aria per poi atterrare accanto ai piedi di Florence. La collera di lui sdoganò la sua e all'improvviso Florence credette di aver capito la natura del loro problema: erano troppo educati, repressi, timorosi, si affrontavano sempre in punta di piedi, sottovoce, rimandando, assentendo. Si conoscevano pochissimo, e non avrebbero fatto grandi progressi in tal senso data l'imbottitura di premuroso silenzio con cui smussavano le rispettive identità, bendandosi gli occhi e impantanandosi sempre di più. Avevano avuto il terrore di contraddirsi e adesso la rabbia di Edward la faceva sentire libera. Voleva ferirlo, infligger gli un castigo al solo scopo di manifestare la propria differenza. Quell'impulso, quasi un fremito devastatore, le era talmente sconosciuto da coglierla del tutto priva di difese. Con il cuore che le batteva forte, aveva voglia di dirgli che lo odiava, e stava proprio per pronunciare quelle parole dure e formidabili mai uscite dalla sua bocca, quando Edward l'anticipò. Era tornato al punto di partenza, facendo appello a tutta la sua dignità per accusarla. «Perché sei corsa via? Hai fatto male, mi hai fatto male.» Hai fatto male. Mi hai fatto male. Patetico. Florence rispose: «Te l'ho già detto. Dovevo andarmene. Non ci resistevo là dentro con te.» «Avevi deciso di umiliarmi.» «E va bene, allora. Se proprio ci tieni. Avevo deciso di umiliarti. Te l'eri voluto, comunque. Non sai nemmeno controllarti.» «Sei una puttana, se parli così.» Quella parola fu un' esplosione stellare nel cielo della sera. Ora si che poteva dire qualunque cosa. «Se è così che la pensi, vattene. Sparisci, chiaro? Edward, per favore, va' via. Come te lo devo dire? Sono venuta qui perché volevo stare da sola.» Edward doveva sapere di essersi spinto troppo in là con quella parola, mettendosi in trappola con le proprie mani. Mentre gli voltava le spalle, era consapevole di recitare una parte, di mettere in atto strategie che un tempo aveva disprezzato nel comportamento dimostrativo di certe sue amiche. La conversazione incominciava a stancarla. Anche nella migliore delle ipotesi, si sarebbe ritrovata in balia di ulteriori manovre silenziose. Spesso, quando era triste, si era domandata che cosa desiderasse di più al mondo in quel momento. Nel caso specifico, non aveva il minimo dubbio. Si vide alla stazione di Oxford, al binario del treno per Londra: le nove del mattino, custodia del violino in mano, un fascio di spartiti e qualche matita ben temperata nella sacca di tela sulle spalle, diretta alle prove del quartetto, a un incontro con la bellezza e la difficoltà, con problemi che era possibile risolvere lavorando insieme a un gruppo di amici. Mentre qui, con Edward, non riusciva a immaginare nessuna soluzione, a meno di formulare a voce
alta la sua proposta, ma ormai dubitava che ne avrebbe avuto il coraggio. Quanto poco libera era, incatenata per la vita a quello sconosciuto di un paesino di campagna che sapeva a memoria i nomi di tutti i fiori e le piante e di tutti i papi e i re del Medioevo. Dio, quanto le pareva assurdo essersi scelta personalmente quella situazione, quella catena. Gli dava ancora le spalle. Lo sentiva più vicino però, e lo immaginò dietro di sé, con le mani abbandonate lungo i fianchi, nell'atto di aprire e chiudere senza forza il pugno cercando di decidere se toccarla o meno. Dall'oscurità compatta dei colli, l'aria sulla Fleet fu attraversata dal canto di un uccello, una spirale di suoni flautati. Considerando la bellezza della melodia e l'ora del giorno, Florence l'avrebbe detto un usignolo. Ma ci sono gli usignoli in riva al mare? E cantano in luglio? Di sicuro Edward lo sapeva, ma non aveva voglia di chiederglielo. Lui le disse, in tono disincantato: «Io ero innamorato di te, ma tu rendi tutto così difficile.» Tacquero in attesa che le conseguenze di quel tempo verbale si depositassero nello spazio intorno a loro. Alla fine Florence chiese sbalordita: «Eri innamorato?» Edward non si corresse. Forse nemmeno lui disdegnava del tutto il ricorso a certe strategie. Si limitò ad aggiungere: «Potevamo goderci la nostra libertà, sarebbe stato un paradiso. E invece, ci ritroviamo in questo pasticcio.» La banale verità dell'affermazione la disarmò, come pure il ritorno a un tempo verbale più carico di speranza. Ma il termine «pasticcio» le riportò alla mente la scena turpe in camera da letto, il tepore di quella sostanza che le si era seccata addosso formando una pellicola vetrosa. Ne era certa: non avrebbe mai più permesso che le accadesse nulla di simile. Rispose con voce spenta: «Infatti.» «Che significa esattamente?» «Infatti, è un pasticcio.» Ci fu un silenzio, una sorta di stallo di lunghezza indefinibile, nel corso del quale ascoltarono il rumore delle onde e, a tratti, il richiamo dell'uccello ancora più puro di prima, pur provenendo da più lontano. Alla fine, come previsto, Edward le appoggiò una mano sulla spalla. Il tocco, gentile, le diffuse un calore lungo la schiena, fino alle reni. Florence non sapeva più che cosa pensare. Non si piaceva nei panni della stratega che calcola il momento opportuno per girarsi, e si vide con gli occhi di lui, una donna impacciata e nervosa come sua madre, incomprensibile, che creava un mucchio di difficoltà quando avrebbe potuto godersi il paradiso. Quindi toccava a lei semplificare le cose. Era suo preciso dovere coniugale. Voltandosi, si sottrasse alla mano di lui, perché non voleva essere baciata, non subito almeno. Le occorreva la mente sgombra per comunicargli il suo
piano. Erano comunque abbastanza vicini da permetterle di distinguere i suoi lineamenti nella poca luce. Forse in quel momento la luna alle sue spalle era in parte scoperta. Florence ebbe l'impressione che Edward la guardasse come faceva spesso, con quella meraviglia negli occhi con cui le diceva che era bellissima. Lei non gli credeva mai fino in fondo, e certe volte si spaventava: temeva potesse poi chiederle qualcosa che come al solito lei non avrebbe saputo dargli. Distratta da quel pensiero, non riuscì a concentrarsi sul punto. E si ritrovò a chiedere: «Cos'è? Un usignolo?» «E' un merlo.» «Come, di sera?» Non riuscì a mascherare la delusione. «A quanto pare è un posto molto ambito. Il poveretto deve darsi un gran daffare per guadagnarselo.» Poi aggiunse: «Come lo capisco!» Florence scoppiò a ridere. Era come se si fosse in parte dimenticata di chi era lui, la sua vera natura, e ora le stesse di nuovo davanti Edward, l'uomo che amava, l'amico capace di battute tenere e imprevedibili. Ma si trattava di una risata imbarazzante, perché Florence si sentiva un po' folle. Non aveva mai saputo di poter cambiare umore e stato d'animo così intensamente e così all'improvviso. E adesso stava per formulare quella proposta che, se da un certo punto di vista sembrava perfettamente sensata, dall'altro, con ogni probabilità (o forse no), sarebbe suonata addirittura indecente. Si sentiva come uno che voglia provare a inventarsi la vita daccapo. Come non sbagliare? Incoraggiato dalla risata di lei, Edward le si avvicinò e cercò di prenderle la mano, ma Florence si ritrasse ancora. Era fondamentale conservarsi la mente libera. Diede avvio al suo discorso come se l'era ripetuto, a partire dall'irrinunciabile premessa. «Lo sai che ti amo. Tanto, tantissimo. E io so che tu mi ami. Non ne ho mai dubitato. Mi piace stare con te, e voglio passare il resto della vita al tuo fianco, e tu dici sempre che per te è lo stesso. Dovrebbe essere così facile! E invece non lo è affatto: siamo in un pasticcio, come hai detto tu. Nonostante il nostro amore. So anche che è tutta colpa mia, ed entrambi sappiamo a cosa mi riferisco. A questo punto devi aver capito che ...» Ebbe un' esitazione; lui fece per parlare, ma Florence lo fermò alzando una mano. «... che sono un disastro, un disastro assoluto in fatto di sesso. Non mi manca solo l'esperienza, è proprio che a quanto pare non ne sento il bisogno, come tutti gli altri, te compreso. Semplicemente non fa per me. Non mi piace, detesto il pensiero. Non me lo so spiegare, ma non credo che le cose cambieranno. Non subito. O perlomeno non riesco a immaginare che possano diventare diverse. E se non parlo chiaro adesso, continueremo a
farci la guerra su questo fronte, e tu ne soffrirai moltissimo, e anch'io.» Alla pausa successiva, Edward non provò a intromettersi. Era a meno di due metri di distanza, soltanto una silhouette stilizzata e immobile. Florence ebbe paura e si costrinse a proseguire. «Magari dovrei farmi psicanalizzare. Forse per stare bene dovrei far fuori mia madre e sposarmi mio padre.» La battuta impudente studiata a tavolino per alleggerire il messaggio e darsi un' aria meno sprovveduta, non suscitò la minima reazione da parte di Edward. Restò imperscrutabile, una sagoma bidimensionale paralizzata sullo sfondo del mare. Con un gesto incerto e nervoso, Florence si portò una mano alla fronte per scostare un capello immaginario. Presa dall'agitazione, si mise a parlare più in fretta, pur scandendo bene le sillabe. Come un pattinatore su uno strato di ghiaccio sottile, accelerava il passo per non annegare. Procedeva nelle frasi a rotta di collo, come se soltanto la velocità potesse garantirle una logica, come se così facendo sperasse di condurre anche Edward al di là dei controsensi, trascinarlo con tanta furia nella gimcana dei suoi propositi da non lasciargli appiglio per eventuali obiezioni. Perché in effetti non biascicava affatto le parole; al contrario, le pronunciava purtroppo con brusca chiarezza, pur essendo a un passo dalla disperazione. «Ho pensato tanto a quello che sto per dirti, e non è stupido come sembra. A sentirlo per la prima volta, intendo. Noi due ci amiamo, questo è il dato di fatto. Nessuno ne dubita. Sappiamo di essere in grado di renderci felici. Ora siamo liberi di scegliere quello che ci sta bene, per la nostra vita. Dico davvero: nessuno ha il diritto di dirci come vivere. Siamo liberi, no? E ormai la gente vive in tanti modi diversi, dandosi principi e regole senza dover chiedere il permesso a nessuno. Mamma conosce una coppia di omosessuali: dividono un appartamento, come marito e moglie. Due uomini. A Oxford, in Beaumont Street. Persone molto riservate. Insegnano tutti e due a Christ Church. Vivono indisturbati. Anche noi possiamo inventarci le nostre regole, no? Mi sento di parlare così, perché sono certa che tu mi ami. Insomma, ecco, Edward, io ti amo, e non trovo che dobbiamo essere per forza come gli altri ... e poi, chi, chi mai ... chi mai verrebbe a sapere che cosa facciamo o non facciamo? Potremmo stare insieme, vivere insieme, e se tu proprio volessi, si, se dovesse capitare, quando capiterà, perché è naturale che succeda, beh, io capirei, anzi, sarei d'accordo, perché desidero solo che tu sia felice e libero. Non sarei mai gelosa, sapendo che mi ami. E continuerei ad amarti e a suonare la mia musica: è tutto quello che chiedo alla vita. Dico sul serio. A me basta stare con te, occuparmi di te, essere felici insieme, e lavorare con il quartetto, e un giorno o l'altro suonarti qualcosa di stupendo, come quel Mozart, alla Wigmore Hall.» Si interruppe di colpo. Non avrebbe dovuto mettere di mezzo le sue
ambizioni artistiche, era convinta che fosse un errore. Edward emise un suono tra i denti, più un sibilo che un sospiro, e le parole gli uscirono come un guaito. L'indignazione era in lui tanto forte da assumere i toni del tripudio. «Dio, Florence! Dimmi che non ho, capito. Stai dicendo che vuoi che vada con altre donne? E questo che dici ?» Lei ribatté pacata: «Se non vuoi, no.» «Mi stai dicendo che posso farlo con chiunque ma non con te.» Lei non rispose. «Forse ti sei scordata che oggi ci siamo sposati. Noi non siamo due vecchi invertiti che si nascondono in Beaumont Street. Noi due siamo marito e moglie!» Le nuvole basse si aprirono di nuovo e, pur non scoprendo la luna, un chiarore diffuso dal velo di nubi più in alto si di spiegò sulla spiaggia illuminando anche la coppia in piedi accanto al grande albero caduto. In preda al furore, Edward si chinò a raccogliere un grosso ciottolo liscio che si passò con violenza da una mano all'altra. Aveva alzato parecchio la voce, adesso. «Con il mio corpo ti onoro! Questo hai promesso oggi! Davanti a tutti. Ma ti rendi conto che questa idea è ripugnante, oltre che ridicola? E offensiva perdipiù. Offensiva per me! Cioè, cioè ...» gli mancavano le parole «... ma come ti permetti ?» Fece un passo avanti, brandendo il ciottolo nella mano alzata, poi si girò di scatto e lo scagliò disperato in direzione del mare. Senza aspettare che toccasse terra, a pochi centimetri dalla riva, si volse di nuovo verso di lei. «Tu mi hai ingannato. A ben guardare, sei una bugiarda. E sei anche qualcos'altro, se proprio lo vuoi sapere. Sai cosa sei? Frigida, ecco cosa sei. Irrimediabilmente frigida. Però hai creduto che ti servisse un marito, e io sono il primo coglione che ti è capitato.» Florence sapeva di non averlo mai voluto ingannare, ma tutto il resto, non appena Edward l'ebbe enunciato, le sembrò verissimo. Frigida, che parola terribile: ora capiva in che senso la riguardasse. Lei era esattamente l'incarnazione di quella parola. La sua proposta era ripugnante: come aveva fatto a non accorgersene? E offensiva, chiaro. Ma soprattutto, lei aveva tradito la promessa pronunciata in pubblico, in una chiesa. Era bastato che lui lo dicesse per far coincidere ogni cosa alla perfezione. Anche ai propri occhi ora Florence non valeva niente, come a quelli di lui. Non le restava altro da aggiungere, e si allontanò dall'abbraccio dell'albero nudo. Per incamminarsi verso l'albergo doveva passargli accanto e, quando gli fu di fronte, si fermò per dirgli in poco più di un sussurro: «Mi dispiace, Edward. Mi dispiace che più non è possibile.» Aspettò un momento, in caso dovesse esserci risposta, poi prosegui per la
sua strada. Le parole di lei, la particolare veste arcaica in cui erano state formulate, lo ossessionarono a lungo. Gli capitava di svegliarsi nel cuore della notte e di risentirle intatte, o come in un'eco, dal tono intenso, dolente. Edward allora gemeva al ricordo di quella situazione, del proprio silenzio e della furia con la quale le aveva voltato le spalle, di come poi era rimasto sulla spiaggia almeno un'ora ad assaporare fino all'ultima goccia lo strazio del torto subito e dell'offesa che Florence gli aveva inflitto, ingigantita dalla sensazione sdolcinata di essere lui solo, drammaticamente, dalla parte della ragione. Avanti e indietro su quei ciottoli impervi, a bombardare di sassi il mare e gridare oscenità. Poi, si era accasciato contro il tronco dell'albero e si era perso in una specie di fantasticheria vittimistica che aveva riacceso la miccia della sua collera. Immobile sulla battigia, il pensiero di lei l'aveva distratto al punto da non fargli notare le onde che gli bagnavano le scarpe. Alla fine, se n'era tornato a passi lenti, fermandosi più volte per rivolgersi a un immaginario e severo giudice imparziale che comprendeva perfettamente il suo caso. Si sentiva quasi nobilitato, da tanta sventura. Quando giunse in albergo, Florence aveva già fatto i bagagli e se n'era andata. Nella stanza, nessun biglietto. Giù alla reception, Edward parlò con i due ragazzi che avevano servito loro la cena in camera. Anche se non lo dissero, erano comprensibilmente sorpresi di scoprire che Edward non era al corrente dei problemi di salute di un famigliare della moglie, richiamata a casa con urgenza. Il vicedirettore dell'hotel l'aveva cortesemente accompagnata in auto fino a Dorchester, dove sperava di riuscire a prendere l'ultimo treno con coincidenza per Oxford. Voltandosi per salire alla suite nuziale, Edward non vide coi propri occhi i due giovani scambiarsi uno sguardo significativo, ma poté benissimo immaginarlo. Rimase sveglio per il resto della notte, sdraiato sul letto a baldacchino, completamente vestito e tuttora furibondo. Gli stessi pensieri gli si presentavano di continuo in testa, in una specie di carosello delirante. Sposarlo, rifiutarlo, che mostruosità, voleva che andasse a letto con altre donne, e magari anche stare a guardare, che umiliazione, da non credere, non ci avrebbe creduto nessuno, e diceva di amarlo, era tanto se era riuscito a vederle le tette, l'aveva preso in trappola, si era fatta sposare, manco sapeva cosa fosse un bacio, l'aveva preso in giro, imbrogliato, non doveva saperlo nessuno, doveva restare il suo vergognoso segreto, che lei lo avesse sposato per poi rifiutarlo, che mostruosità ... Poco prima dell'alba si alzò e raggiunse il soggiorno dove, restando in piedi dietro la sua sedia, raschiò il sugo rappreso dall'avanzo di carne e patate e mangiò tutto quanto. Finito il suo, passò al piatto di lei, senza badare. Poi
fece fuori i cioccolatini alla menta, e infine il formaggio. Lasciò l'albergo alle prime luci del giorno e guidò l'auto di Violet Ponting per miglia e miglia di stradelle infossate tra siepi altissime, con l'odore di letame fresco e di fieno che entrava a folate dal finestrino, finché raggiunse la grande statale deserta in direzione di Oxford. Lasciò la macchina all'ingresso di casa Ponting, con le chiavi nel motorino d'avviamento. Senza nemmeno un'occhiata alla finestra di Florence, si precipitò nelle vie del centro con la valigia in mano, per prendere il primo treno. Istupidito dalla stanchezza, percorse il lungo tratto a piedi da Henley a Turville Heath, avendo cura di evitare il tragitto scelto da Florence un anno prima. Perché ripercorrere le sue orme? Arrivato a casa, si rifiutò di dare spiegazioni al padre. Marjorie si era già scordata del matrimonio del figlio. Le gemelle non facevano che tormentarlo con domande e ipotesi acute. Edward le portò in fondo al giardino e fece giurare solennemente a entrambe, prima Harriet poi Anne, mano sul cuore, che non avrebbero mai più pronunciato il nome di Florence. La settimana successiva seppe dal padre che Mrs Ponting aveva provveduto a restituire con zelo i regali di nozze. Senza clamore, Lionel e Violet misero in moto la macchina di un divorzio sulla base di un matrimonio non consumato. Su suggerimento del padre, Edward scrisse una lettera a Geoffrey Ponting, presidente della Ponting Electronics, dichiarandosi spiacente per avere «cambiato idea» e offrendo, senza mai nominare Florence, le proprie scuse, le dimissioni dall'impiego in ditta e un breve cordiale saluto. A un anno di distanza, pur essendosi stemperata la rabbia, l'orgoglio ancora gli impediva di rivederla o di scriverle. Tremava al pensiero che Florence potesse stare con un altro e, non avendo più avuto notizie, si convinse che fosse così. Verso la fine di quel celebrato decennio, mentre la sua vita procedeva incalzata da mille rinnovamenti, libertà e mode, come pure dal caos di innumerevoli storie d'amore, che gli guadagnarono alla fine una discreta reale competenza in materia, Edward ripensò spesso a quella strana proposta, che non gli pareva più tanto ridicola, e di certo non ripugnante e nemmeno offensiva. In base al nuovo stato di cose del mondo, risultava anzi emancipata, in forte anticipo sui tempi, di una generosa innocenza, un gesto di personale rinuncia che lui non era riuscito a capire. Però, che offerta!, avrebbero commentato gli amici, anche se di quella notte non parlò mai con nessuno. A quel punto, alla fine degli anni Sessanta, Edward abitava a Londra. Chi avrebbe mai saputo prevedere trasformazioni di quella portata:
l'improvvisa assoluzione del piacere, la serena disponibilità sessuale di tante donne affascinanti? Edward attraversò quei brevi anni come un bambino confuso e felice al quale sia stato sospeso un lungo castigo: in una sorta di incredulità di fronte a tanta fortuna. Si era lasciato alle spalle la collana di volumetti stoici e ogni progetto di seria carriera accademica, sebbene in nessun momento preciso avesse preso una ferma decisione riguardo al proprio futuro. Come il povero Sir Robert Carey, era uscito semplicemente dalle pagine dei libri di storia per godersi a suo agio il presente. Cominciò a collaborare all'organizzazione di svariati festival di musica rock, diede una mano nell'apertura di una mensa biologica a Hampstead, trovò lavoro presso un negozio di dischi non lontano dal canale a Camden Town, scrisse recensioni di eventi rock per qualche rivista minore, si barcamenò in un disordinato succedersi e accavallarsi di amori, girò per la Francia in compagnia di una donna che per tre anni e mezzo fu sua moglie e visse con lei a Parigi. Alla fine diventò coproprietario di un negozio di musica. La sua vita era troppo frenetica per dargli il tempo di leggere i giornali, senza contare che, per un certo periodo, Edward si mise in testa che nessuno potesse in buonafede dar credito alla stampa ufficiale: lo sapevano tutti che a controllarla erano interessi statali, militari o economici, opinione che in seguito Edward abbandonò. E se anche ai tempi avesse letto i giornali, difficilmente sarebbe arrivato a sfogliarli fino alle pagine culturali, alle verbose recensioni dei concerti. Il suo interesse precario verso la musica classica si era spento del tutto per cedere il posto al rock'n'roll. Perciò, nel luglio del 1968, Edward non seppe del trionfale debutto dell'Ennismore Quartet alla Wigmore Hall. Il critico del «Times» salutò con entusiasmo l'arrivo di «nuova linfa vitale, impeto giovanile sulla scena contemporanea». Ebbe a lodare «l'estro, l'intensità assorta, l'efficacia dell'esecuzione», che suggerivano una «strepitosa maturità artistica in musicisti non ancora trentenni. Con magistrale disinvoltura, i giovani esecutori hanno dimostrato di reggere la sfida con l'intera panoplia di effetti dinamici e armonici, nonché con la ricca scrittura contrappuntistica che caratterizza l'ultimo Mozart. Il suo Quintetto in re maggiore (K 593) non era mai stato reso con altrettanta sensibilità». Le ultime righe della recensione erano dedicate alla leader del gruppo, il primo violino. «Infine, un Adagio di bruciante espressività, di consumata bellezza e forza spirituale. Soave nei toni e limpida nella delicatezza del fraseggio, Miss Ponting ha suonato, se mi è concesso, come una donna innamorata non soltanto di Mozart e della musica, ma della vita stessa». E se anche Edward avesse letto l'articolo, non avrebbe comunque saputo, era il segreto di Florence, che quando in sala si riaccesero le luci, e i giovani
musicisti si alzarono frastornati ad accogliere l'applauso entusiasta del pubblico, il primo violino non poté fare a meno di cercare con lo sguardo la terza fila centrale, poltrona 9C. Negli anni successivi, ogni volta che Edward pensava a lei e le si rivolgeva nella mente, o immaginava di scriverle, o di incontrarla per strada, gli sembrava che per riassumere la sua intera esistenza sarebbe bastato meno di un minuto, meno di mezza pagina. Che aveva fatto di sé? Si era lasciato trasportare, fra il sonno e la veglia, distratto, senza ambizioni, senza un progetto serio, senza figli, compiaciuto. I suoi modesti successi si misuravano perlopiù in benessere economico. Era proprietario di un piccolo appartamento a Camden Town, coproprietario di una villetta a due stanze in Alvernia, e di due negozi di musica, specializzati in jazz e rock'n'roll, imprese vacillanti, minacciate dall'inesorabile avanzata delle vendite in rete. Pensava che gli amici lo giudicassero un amico discretamente leale, e aveva una piccola riserva di bei ricordi, qualche follia, specie nei primi anni. Aveva tenuto a battesimo ben cinque figliocci, anche se aveva cominciato a contare qualcosa nelle loro vite solo con l'adolescenza o la prima giovinezza. Nel 1976 era morta sua madre, e quattro anni più tardi Edward era tornato a casa a occuparsi del padre, in rapido declino per effetto del Parkinson. Harriet e Anne erano sposate, con figli, e vivevano entrambe all'estero. A quel punto quarantenne, Edward aveva alle spalle un matrimonio fallito. Si recava a Londra tre volte alla settimana per badare ai negozi. Lionel mori in casa nel 1983 e fu sepolto nel cimitero di Pishill, accanto alla moglie. Edward rimase a vivere li come inquilino, dal momento che il cottage era passato di proprietà alle sorelle. In un primo tempo utilizzò il posto come via di fuga da Camden Town, ma all'inizio degli anni Novanta ci si trasferì da solo in pianta stabile. All'apparenza, Turville Heath, o almeno il posticino che vi occupava, non era poi tanto diverso dal luogo in cui era cresciuto. Anziché agricoltori e artigiani, i suoi vicini adesso erano pendolari o proprietari di seconde case, tutta gente piuttosto cordiale. E Edward non si sarebbe mai definito infelice, tra gli amici londinesi c'era una donna che gli piaceva; a cinquant'anni suonati continuava a giocare a cricket per la squadra di Turville Park, era socio di un circolo storico di Henley, e contribuì al recupero delle colture di crescione d'acqua a Ewelme. Due giorni al mese lavorava per una fondazione con sede a High Wycombe per il sostegno di bambini cerebrolesi. Anche oltre i sessanta, grande e grosso, bianco di capelli, stempiato, di colorito roseo e sano, continuava a fare lunghe passeggiate. Quella quotidiana passava dal solito viale di tigli ma, nelle belle giornate, si concedeva il giro completo per andare a vedere i fiori di campo a Maidensgrove o le farfalle nella riserva naturale di Bix Bottom, tornando poi
dalla faggeta fino alla chiesa di Pishill, dove immaginava che un giorno avrebbero sepolto anche lui. Di quando in quando, si trovava a una biforcazione nel fitto del bosco e gli capitava di pensare che in quel punto Florence doveva essersi fermata a consultare la carta quella mattina di agosto: riusciva a vederla perfettamente, appena a pochi passi e una quarantina d'anni di distanza, risoluta ad andarlo a trovare. O magari si fermava a guardare il panorama della Stonor Valley e si chiedeva se era li che Florence si era mangiata l'arancia. Finalmente poteva ammettere con se stesso di non avere mai amato nessuna così, e di non avere mai incontrato nessuno, uomo o donna che fosse, che la uguagliasse in serietà. Forse, se fosse rimasto con lei, sarebbe riuscito a concentrarsi di più sulle sue ambizioni, forse avrebbe anche scritto quei libri di storia. Pur non essendo affatto il suo genere, Edward sapeva che l'Ennismore Quartet era famoso, tuttora un punto di riferimento nel mondo della musica classica. A concerto non andava mai; non comprava, e nemmeno curiosava tra le raccolte di brani di Beethoven e di Schubert. Non aveva voglia di riconoscerla in una fotografia, e di constatare gli effetti del tempo, o di scoprire dettagli sulla sua vita privata. Preferiva custodirla com'era nei suoi ricordi, con il fiore di tarassaco nell'asola della camicetta e il nastro di velluto nei capelli, la sacca di tela sulle spalle, e quella sua faccia dalle ossa grandi e il bel sorriso sincero. Se pensava a lei, si stupiva un po' di aver lasciato andare via quella ragazza con il violino. Ormai ovviamente sapeva che la sua proposta di tenersi in disparte era piuttosto pretestuosa. Le occorreva soltanto essere certa che lui l'amasse, sentirsi rassicurare sul fatto che non esisteva nessuna fretta, avendo un'intera vita davanti. Amore e pazienza, ah, se solo non se li fosse scoperti in tempi diversi, li avrebbero di certo aiutati a superare ogni cosa. E allora chissà quali figli mai nati avrebbero avuto la loro occasione, quale meraviglia di bambina con la fascetta nei capelli sarebbe diventata il suo tesoro di casa. Ecco come il corso di tutta una vita può dipendere ... dal non fare qualcosa. A Chesil Beach, Edward avrebbe potuto richiamare Florence, o seguirla. Non sapeva, e nemmeno avrebbe voluto scoprirlo, che correndo lontano, sicura, nella sua disperazione, di essere sul punto di perderlo, Florence non si era mai sentita tanto innamorata e sgomenta, e che il suono della sua voce l'avrebbe raggiunta come una salvezza, che si sarebbe senz'altro voltata. Edward invece era rimasto impassibile nel suo silenzio virtuoso, in quel crepuscolo estivo, a guardarla correre via sulla spiaggia, mentre lo sciabordio delle piccole onde copriva il rumore dei suoi passi faticosi e
Florence si riduceva a un punto sfocato in fuga sull'interminabile rettilineo di ciottoli sfavillanti nella luce fioca.
Fine
Nota I personaggi di questo romanzo sono frutto di invenzione e non corrispondono pertanto a persone reali né vive né morte. L'albergo di Edward e Florence, situato a poco più di un miglio a sud di Abbotsbury, nel Dorset, su un'altura erbosa, alle spalle del parcheggio della spiaggia, non esiste. Ian McEwan