Antonio Pennacchi
CANALE MUSSOLINI Romanzo Canale Mussolini
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Antonio Pennacchi
CANALE MUSSOLINI Romanzo Canale Mussolini
di Antonio Pennacchi Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-54675-7 © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione febbraio 2010
Canale Mussolini
A mio fratello Gianni, a tutti i nostri morti
Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo. Fin da bambino ho sempre saputo di dover fermare questa storia – le storie difatti non le inventano gli autori, ma girano nell’aria cercando chi le colga – e raccontarla prima che svanisse. Nient’altro. Solo questo libro. Ogni altra cosa che ho fatto – bella o brutta che sia – l’ho sempre sentita come preparazione e interludio a questa. Anche gli altri libri sono nati in funzione di questo e solo per lui mi sono messo a studiare le storie più strambe di questo mondo, dall’uomo di Neandertal all’architettura e bonifiche fasciste: solo per poter fare questo libro. Non sembrerà quindi strano se a un certo punto capiterà di imbattersi in brani o cose già lette negli altri. Non è lui che copia da loro. Sono loro che furono scritti per lui. Non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui siano capitate tutte le cose narrate qui. Sia la famiglia Peruzzi che la successione delle cose che le capitano – anche in riferimento ai personaggi storici realmente esistiti – non sono che frutto di invenzione: non è vero niente ed è tutta opera di fantasia. Non esiste però nessuna famiglia di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino – e anche questo è un fatto – a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano ai Peruzzi. In questo senso e solo in questo, tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi rigorosamente veri. a.p.
I Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare a venire fino qua? Ci hanno cacciato, ecco il perché. Con il manico della scopa. Il conte Zorzi Vila. Ci ha spogliato di tutto. Derubati. Le bestie nostre. I vitelli. Le mucche con delle poppe così. Non ha idea del latte che facevamo. Con uno schizzo solo riempivamo un secchio. Non facevamo nemmeno in tem po a sederci sullo sgabello e a massaggiare un po’ la tetta che via, come titillavi il primo capezzolo partiva un getto che lo riempiva. Dovevamo reggerlo forte tra le gambe perché non cadesse. Cosa fa, ride? non ci crede? Glielo avrei voluto far vedere. E i buoi? Avevamo certi buoi che tiravano gli aratri a due a due peggio di un caterpillar Che fa, ride di nuovo? Se li portavano in spalla gli aratri quei buoi, sulle corna Se li mangiavano coi denti. Lei non ha proprio idea, le giuro, noi le rivoltavamo un podere in un giorno, lassù, con una coppia delle bestie nostre. E dalla mattina alla sera il conte Zorzi Vila ce le ha rubate. Se le è fatte sue, le bestie nostre. Nudi come vermi ci ha lasciato. E fu quella volta – quando si portarono via le bestie dopo averci dato lo sfratto -che zio Adelchi corse su in casa e poi in solaio, a prendere sotto la capriata, dietro il mattone smosso, la pistola di zio Pericle. Poi scese come un matto giù nell’aia, strillando e sparando. E il fattore scappava. E tutti scappavano. Ma il fattore saltellando a zompi dietro agli altri, a cercare di nascondersi perché era proprio lui che voleva lo zio Adelchi.
«At cópo!» gridava al fattore: «Dove sì ch’at cópo?». E mia nonna – l’unica che non scappasse, oltre alle bestie naturalmente, le bestie che di colpo ferme in mezzo alla corte, già in fila per partire, non capivano più niente poveracce, e ruminavano – mia nonna sola andava incontro al figlio che sparava: «Delchi, tosato, Delchìn». E zio Adelchi finì i colpi e restò con la pistola in mano e la guardò, la pistola, chiedendole quasi perché. E poi s’abbracciò a sua madre a piangere come da bambino. E mia nonna faceva: «Delchìn, Delchìn», inginocchiati tutti e due in mezzo all’aia a lamentarsi, mentre gli altri gli si rifacevano attorno. E pure il fattore tornava, mentre il conte Zorzi Vila silenzioso gli faceva con la mano il cenno di stare lontano. Finché non sono arrivati i carabinieri. E così li hanno trovati i carabinieri, in mezzo all’aia inginocchiati e con mio zio piangente. Gli hanno messo le catene e hanno preso a tirarlo e nello stesso istante il conte Zorzi Vila ha ripreso ad urlare con la boria di sempre al suo fattore: «Avanti! Cosa stiamo aspettando?», e lui ha ripreso a tirare le catene delle bestie e sono ripartiti assieme, zio Adelchi coi carabinieri e le bestie nostre con la gente degli Zorzi Vila. Come dice? Che lei non ce lo vede proprio lo zio Adelchi in preda alla furia che spara come un matto e poi si mette a piangere tra le braccia di sua madre? che lei se lo ricorda alto ed impettito, riverito da tutti nella divisa dei vigili urbani? Ma questo è venuto dopo, molto dopo, e poi comunque la furia c’è sempre stata nella mia famiglia. Mica che uno va in giro tutto il santo giorno a dire alla gente: «Guardate che ho la furia appresso». Uno se la porta dentro, nascosta bene bene in una piega dell’anima e magari non esce mai fuori. Ma poi salta il giorno in cui meno te lo aspetti e ti pungono sul vivo, nel vivo di quella piega d’anima e la furia esce fuori e prende il sopravvento e tu dopo dici: «Ma che è successo? Io non lo volevo fare. Torniamo indietro di un minuto solo, vi
prego, torniamo a tutto com’era prima». E invece niente sarà più come prima e magari ci fosse, quel giorno, tua madre per piangerle addosso. Comunque zio Adelchi non era quel santo che ricorda lei, quello che, come dice lei, tutti lo andavano a cercare quando c’era una lite per fare da paciere. Altro che paciere, lui ha portato sempre la guerra, almeno in casa sua, che poi era anche la nostra. E fu più per lui che per le bestie, alla fin fine, che noi venimmo qui. Per le bestie non c’era niente da fare. Mio zio Pericle -prima che arrivasse il giorno del conte e del fattore – era già stato ad informarsi al fascio e ai sindacati, prima a Rovigo e poi a Ferrara, perché a Rovigo non contavano niente. Era Ferrara che comandava e se a Ferrara ti dicevano: «Guarda Peruzzi, non c’è niente da fare, la questione è così e così, è la quota 90, ci vorrebbe solo Rossoni», tu capivi che era persa, perché quelli erano di Balbo, dalla parte degli agrari e se ti dicevano «Vai da Rossoni» – che non si erano mai potuti vedere – era poi per dargli la colpa: «Visto? Non t’ha fatto niente». E poi Rossoni stava a Roma, chi lo trovava più? Mio zio Pericle si metteva ad andare fino a Roma? E invece quando ha visto il fratello più piccolo – zio Adelchi venticinque o ventisei anni mentre zio Pericle, che era del ‘99, ne aveva trentadue di anni e già qualche figlio a carico – quando oltre alle bestie ha visto il fratello trascinato via in catene dai carabinieri e mia nonna che si voltava verso di lui, Pericle, come se solo lui ci potesse mettere rimedio, ed urlava «Pericle, Pericle!», lui avrebbe anche voluto dire: «Eh, Pericle un casso», perché mai si sarebbe aspettato che l’Adelchi potesse dare di matto. Sì, lo aveva visto salire su in casa di corsa, ma non ci aveva fatto neanche caso, perché non lo teneva in gran conto quel fratello – sempre altrove, quando c’era davvero da menare le mani – e lo avrebbe riempito di botte ogni volta che strillava invece con quella voce aguzza addosso alle sorelle. Ma quando lo ha visto risbucare dalla scala, o
meglio, dalla porta che dava sulla scala e lasciare anche aperta la zanzariera e strillare e sparare, e un altro po’ inciampare nello scendere dalle scale esterne e sparare come un matto e il fattore che scappava e lui «At cópo, at cópo» a sparare ancora – be’, detta così sembra chissà quanto tempo, e invece è un attimo solo – in quell’attimo a zio Pericle, a vedere il fratello, gli è venuto da ridere: «Varda l’Adelchi». E all’improvviso gli ha voluto bene. E così quando sua mamma gli ha detto «Pericle, Pericle», lui avrebbe voluto rispondere «Pericle un casso», ma quella ha aggiunto subito: «Va’ fin Roma, Periclìn», che Pendino non lo aveva mai chiamato neanche da bambino. E allora ha detto: «Va bèn, domàn andémo a Roma», voltandosi come per un dato di fatto, una constatazione più che un ordine, a zio Temistocle, il fratello più grande, che lei però non può ricordarselo, non può averlo conosciuto perché i figli lo riportarono in Altitalia negli anni Sessanta, a Torino. Loro andavano in fabbrica, alla Fiat, e lui li aspettava a casa. Come dice? quanti eravamo? Una caterva. Diciassette figli aveva fatto mio nonno, otto femmine e nove maschi, e altri diciassette ne aveva fatti suo fratello, otto femmine e nove maschi anche lui. Tutti uniti come un solo braccio all’inizio, una famiglia sola, ma poi ci siamo divisi. Loro sono rimasti là, non sono venuti in Agro Pontino. Ma non ci siamo divi si per questo; non sono venuti perché ci eravamo già divisi e non ci siamo più uniti. È la politica che ci ha diviso. Co munque eravamo diciassette figli e allora funzionava così, non era come adesso che i figli sono una spesa. Prima coi figli prosperava una famiglia, perché erano braccia per lavorare la terra. Come dice? che bisognava anche dargli da mangiare? E certo che bisognava dargli da mangiare, però neanche tanto, quello che trovavi. E se il figlio era forte veniva su da solo. Non è che quando si ammalava andavi dal pediatra e compravi le medicine. Mia nonna accendeva una candela e si metteva a pregare. E quello guariva e si faceva grande, a lavorare. E se non guariva moriva. Tu piangevi, pregavi, lo sotterravi e ne facevi un altro. Tutti così del
resto, mica solo noi. Per lavorare la terra ci volevano le braccia, non è che ci fosse un’altra medicina. I trattori e tutte queste cose qua sono venute adesso, prima non c’erano, e se c’era pure lei, faceva lo stesso pure lei. Dai secoli dei secoli si faceva così, saeculorum amen. Mica c’era il benessere, c’era solo la fame. Come dice? che così era peggio, era solo gente in più a spartirsi la stessa fame? Per noi erano braccia, che le debbo dire; noi avevamo fame e ci servivano le braccia per produrre il cibo, la ricchezza. Ma anche adesso, non sono solo i ricchi a non fare più figli? Noi in Italia non ne facciamo più ma in Africa invece, che sono ancora poveri e s’affogano sulla via di Lampedusa per venire qui, continuano a farne come se niente fosse. Glielo vada a spiegare a loro che non li debbono fare. Secondo lei non lo sanno, quando mettono al mondo un figlio, che poi gli muore di fame o di Aids? È per questo che ne fanno tanti: «Prima o poi qualcuno mi camperà». Lei fa i figli perché le servono, e più è povero e più gliene servono; è quando è ricco che gliene bastano pochi. Voleva venire anche zio Iseo, comunque, il terzo dei maschi che si portava due anni soli di differenza con zio Pericle ed erano sempre insieme spalla a spalla, sia sui campi a zappare che all’osteria. Anche zio Pericle avrebbe preferito Iseo, perché non è che andavi a Roma e tornavi il giorno dopo. Mica c’era l’eurostar come adesso. Tornavi chissà quando e chissà pure se tornavi certe volte; magari non proprio quella volta lì che c’era già il fascismo e aveva portato un po’ di ordine, ma pochi anni prima, quando l’Italia era ancora divisa o si era appena unita e la gente – a parte il fatto che non gli veniva neanche in mente di andare fino a Roma – quella poca che ci andava per un pellegrinaggio o l’anno santo o l’accidente che li spaccava, prima di partire andava a fare testamento, perché non si sapeva mai quello che incontravi, dai briganti per le strade, in mezzo ai boschi e alle foreste, alle malattie, e il tempo che ci mettevi. Comunque era una cosa che era meglio farla insieme a
qualcuno che – se ci fosse stato da doversi giocare la pelle – tu eri sicuro che spalla a spalla quello avrebbe difeso la pelle tua come tu la sua. È vero che lo stesso si poteva dire di zio Temistocle, con cui zio Pericle andava anche d’accordo ed era legato. Zio Temistocle aveva fatto pure la guerra, gli scontri all’arma bianca, e lo sapeva bene cosa vuole dire tagliare la gola a un uomo per non fargli tagliare la tua. Mica gli era capitato una volta sola in guerra. Però con zio Iseo era più stretto. Tanto che più avanti -quando qua si sono messi per conto loro e le cose non sono andate più bene e prima gli si ruppe l’argine del Canale Mussolini e poi la grandine – allettati dalla paga s’arruolarono volontari tutti e due per la guerra mondiale, l’ultima, e li mandarono in Africa Orientale a difenderla contro gli inglesi che erano entrati dal Kenya e avevano le Land Rover, le autoblindo, quelle cose lì, e noi invece niente, solo moschetti e bombe a mano, le bombe a mano nostre, le Balilla SRCM di latta, che facevano solo scheggette di filo di ferro, non come le Ananas degli inglesi, bombe a mano vere col ferro vero. E quella volta i miei zii, mentre andavano all’assalto tra gli scoppi e i fumi, tra la gente che cadeva e che strillava e il capomanipolo che urlava «Avanti! Avanti!», a un certo punto zio Iseo s’era ritrovato in ginocchio e poi a terra, senza fiato. «E che è successo?» aveva pensato, e s’era messo una mano al fianco e quasi non lo trovava più, e poi ha ritratto la mano rossa, l’ha guardata e lo ha cercato ancora, ma ha sentito il dolore senza però quasi più ritrovarlo quel fianco, e allora ha strillato: «Pericle, Pericle, Periclìn». E zio Pericle s’è ritrovato pure lui giù per terra vicino al fratello: «Sta calmo, stà calmo». «I me gà ciapà, i me gà ciapà» faceva zio Iseo e poi: «Am mòro, am mòro, pènsaghe ti a mè fiòi». E zio Pericle lo ha trascinato al coperto, dietro una camionetta rovesciata, e gli ha messo un tampone sulla ferita mentre gli altri continuavano a andare e tutto intorno erano scoppi e fumi e urla, e zio Iseo insisteva: «Non star lasiàrme solo, resta qui».
Ma tutti gli altri continuavano a andare sparando, e zio Pericle lo ha lasciato al coperto: «Stà calmo, sta qui, vado all’assalto e torno, spèteme fradèo». E lui: «At spèto, at spèto; se non mòro at spèto», e poi sappiamo come è andata. Però quella volta di Roma toccava al più grande, non è che potessero andare tutti, e così è toccata a mio zio Temistocle. Le donne hanno messo l’acqua sul fuoco poi riempito la tinozza nell’aia, e zio Pericle e zio Temistocle si sono fatti il bagno, prima l’uno e poi l’altro nella stessa acqua, perché allora funzionava così, c’erano mica le docce ancora. Poi cenato e via in letto, dove ognuno avrà dato una botta alla moglie. E la mattina appresso sono partiti. Zio Pericle in realtà gliene deve avere date anche più d’una, perché era noto che fosse focoso e magari avrà voluto anche fare provviste, come si suole dire, per la prevedibile astinenza. E del resto era focosa anche lei. Dicevano i miei cugini – che sentivano ogni tanto di là dal muro della stanza mentre facevano – che lei digrignasse al marito: «Dai Pericle, dai, dai». E lui invece: «Non star grafiàrme», con rabbia. Comunque sono partiti la mattina presto in bicicletta, che ancora non faceva giorno, per andare a Roma. Come dice? perché non hanno preso il treno? Ma se avessimo avuto i soldi per pagare il treno, li avremmo avuti anche per pagare il padrone, era quota 90 le ho detto, e non c’era una lira in giro a pagarla oro. Avevamo i sacchi pieni di grano ma non avevamo una lira in tasca perché anche il grano non valeva più niente; con quota 90 se ne comprava quanto se ne voleva all’estero, oramai. Quella volta il Duce l’ha ammazzata l’agricoltura italiana. L’industria no, ma l’agricoltura l’ha ammazzata. Comunque sono partiti e una pedalata appresso all’altra sono arrivati a Roma. Ci hanno messo cinque o sei giorni, ma non ricordo bene. Avranno fatto un centinaio di chilometri al giorno, mica era come al Giro d’Italia adesso, che fanno duecentocinquanta e anche trecento chilometri al giorno, a sessanta all’ora di media con l’eritropoietina. Le biciclette erano pesanti, i
copertoni consumati. Ogni tanto bucavi e ti dovevi fermare a riparare col mastice la camera d’aria. Loro se ne erano portata pure qualcuna di scorta, ma già vecchia e riparata più volte anche quella. E poi un sacco di pane per il viaggio, e i vestiti. Le strade non erano poi tanto mal messe, perché il fascio aveva già costituito l’Anas e da Ferrara a Roma, prima per la via Emilia e poi per la Flaminia, era pure strada asfaltata. Dormivano dove capitava, nelle stalle e nei fienili di qualche povera gente e ogni tanto c’erano gli ostelli per i pellegrini, gli anni santi, questa roba qui. E su e giù per le montagne, a forza di garretti, sono arrivati a Roma. Sono andati a dormire alla Casa del viaggiatore vicino alla stazione e la mattina dopo si sono lavati, si sono messi la camicia nera e la divisa della milizia che si erano portati appresso arrotolate in un pacchetto legato dietro la sella, e che si erano fatti stirare la sera prima da una inserviente, e si sono presentati a palazzo Venezia: «Toc, tòc, noi vogliamo parlare con Rossoni».
«E che è, tuo fratello?» gli ha detto quello là: «E come ti permetti? L’Eccellenza Rossoni vorrai dire! E poi chi sei? Ma che uno si presenta qua, a palazzo Venezia, e dice voglio parlare con questo e con quest’altro? E perché non con il Duce? Ma voi siete dei sovversivi». Zio Pericle lì per lì non s’è offeso subito, anzi. Lui per la strada, mentre venivano giù a piedi da via Nazionale e il fratello gli diceva: «Ma tu che dici, sei sicuro che ci faranno entrare? Non è che ci cacciano via?», lui lo aveva rassicurato: «Ma scherzi? Ci cacciano via? E che l’abbiamo fatta a fare la rivoluzione, allora? Stai tranquillo». Però lui tanto tranquillo dentro di sé non ci stava. Per tutta la strada su e giù per l’Appennino – anche quando trovavano le peggio salite al Furio e per l’Umbria intera, che non riuscivano più nemmeno a spingere i pedali e gli toccava scendere e tirare le biciclette a piedi – lui non aveva avuto una sola esitazione: «Aspetta solo che arrivo a Roma, e in quattro e quattr’otto sistemo tutto». Ma appena dopo Terni, quando oramai era chiaro che erano arrivati e a sera sarebbero stati a Roma,
non faceva che dirsi: «Vuoi vedere che qui non sistemo niente, e chissà proprio se mi ci fanno arrivare al Rossoni?». Per questo motivo zio Pericle non s’è offeso subito. Se l’aspettava quasi, era rassegnato. Ma quando ha visto la faccia delusa del fratello, con l’espressione tipica che aveva zio Temistocle fino da bambino, che tu capivi subito: «È fatta, non c’è più niente da aspettarsi, un altro viaggio a vuoto, l’aghémo ciapà in quel posto anca stavolta», zio Pericle s’è offeso e gli è saltata la mosca al naso. Ha messo la mano al pugnale che portava al cinturone, l’ha tirato fuori e ha cominciato a urlare, e già stava con l’altra mano a fare perno sul piano del bancone per poterlo scavalcare e andare dall’altra parte, faccia a faccia con l’usciere. Ma intanto – appena messa la mano al pugnale – a tutti e due gli erano saltati addosso in quattro i poliziotti dell’Ovra o quello che so io, e li hanno ingabbiati come salami e zio Pericle ha avuto giusto il tempo di finire di urlare all’usciere «Digli Peruzzi di Codigoro al Rossoni! testa de casso», e li hanno sbattuti in gattabuia, che la camera di sicurezza stava proprio lì dietro a portata di mano. E mentre li portavano di peso in cella, li riempivano bene di cazzotti ai fianchi. Poi buttati al volo sopra al tavolaccio e richiusa la chiave, con zio Pericle che conti nuava a strillare «Peruzzi di Codigoro!», fino a che l’ultimo poliziotto gli ha detto: «Statte zitto mo’, che avemo capito» Il capoposto però – per sicurezza sua – prima di chiamare la questura centrale per farli portare via, ha mandato uno al piano di sopra: «Hai visto mai?». Quello lo ha det to all’usciere del piano, l’usciere a una segretaria, la segre taria al segretario e quest’ultimo, pigliandosi appresso un po’ di roba da firmare, ha bussato alla porta ed è entrato dentro: «Scusate Eccellenza, ci sono due matti di sotto che dicono di chiamarsi Peruzzi Di Codigoro mi pare. Per sicurezza li ho fatti mettere dentro» Be’, lei non ci crederà, ma Rossoni è saltato su dalla scrivania come una molla, è sceso lui per le scale e s’è fatto aprire la cella, e come s’è aperta gli ha aperto le braccia: «Peruzzi!».
I miei zii sono saltati dal tavolaccio dove s’erano seduti e – scattati sull’attenti – hanno fatto il saluto romano e detto reverenti: «Eccellenza!». «Ma quale ecelènsa, fiòi de can! Vegnì qua» e se li è abbracciati stretti uno a uno, e faceva al suo segretario: «Questo l’è il Pericle Peruzzi, stia attento sa, l’è un desgrassià, lo conosco da ragazzo» e se li è portati su, sottobraccio insieme a lui. «Testa de casso» ha ridetto però un’altra volta, ripassando vicino alla guardiola, zio Pericle all’usciere. Rossoni – come sta scritto pure sui libri di storia – era il numero due quella volta. Dopo il Duce veniva lui; prima di Balbo e di tutti gli altri che di nome erano ministri, ma chi minestrava era lui, perché era sottosegretario alla presidenza del consiglio, come il segretario di stato americano, faccia conto, con il presidente Usa. Era l’orecchio del Duce, quello che gli stava più vicino, e ogni carta passava da lui. Era il numero due, le ripeto. Certo non è sempre stato così per tutti i vent’anni. Col Duce c’era poco da stare tranquilli. Oggi ti portava in palmo di mano e domani mattina ti ritrovavi nella spazzatura. Guardi quello che fece a Balbo. E a Ciano? Ciano che era pure il genero – il marito della figlia – lo ha fatto fucilare. Si figuri gli altri. Pure a Rossoni quindi gli era toccato il tempo del bastone, subito dopo la Carta del lavoro, quando il Duce lo fece dimettere e mandare a casa dalla presidenza dei sindacati fascisti – s’era anche diffusa la voce che fosse scappato in Svizzera con tutta la cassa dei sindacati, il «tesoro» diceva la voce; ma lui ha sempre smentito, ha detto che non era vero, anche se quelli che arrivarono dopo non trovarono più una lira, solo debiti – ma questa volta però no, nel 1932 era di nuovo il tempo della carota e lui faceva davvero il bello ed il cattivo tempo. Certo il Duce gli stava sempre sopra il collo – a un ufficio di distanza – ma prima di entrare dal Duce dovevi entrare da lui. E appena ha visto zio Pericle gli è saltato al collo e se lo è portato sopra in spalla.
Cosa fa, non ci crede? Lei dice che la storia è troppo romanzata, che non può essere che uno come il Rossoni si scapicolli per loro o che addirittura li abbiano fatti entrare dentro il portone di palazzo Venezia – sia pure a parlare con il portiere – senza che nessuno li fermasse, come fosse stato un qualunque condominio di una via Vincenzo Monti? Anzi, pure a un condominio di via Vincenzo Monti, due contadini non li fanno avvicinare così? E che ragionamenti sono, è chiaro che l’ho accorciata. Mica mi posso mettere a raccontare tutto quanto, particolare per particolare. È chiaro che nella prima tappa, quando sono partiti la mattina presto da Ca’ Bragadìn, sono andati prima a Ferrara. E mica erano cretini, si mettevano alla ventura così, senza neanche lo straccio di un pezzo di carta? Quelli poi erano tempi che uno mica si spostava come voleva: «Adesso mi sono stufato di stare qui e vado là»? Ti ci volevano i permessi. C’era il commissariato per le migrazioni interne. Quelli controllavano chi andava e chi veniva. Era proibito, per esempio, lasciare la campagna e andare a stare in città – «Poi cerco un lavoro» – non ti facevano iscrivere al collocamento, non ti davano la residenza, ti rispedivano via col foglio obbligatorio come i clandestini adesso. Va bene quindi che eravamo contadini e pure un po’ ignoranti, ma prima di partire per Roma i miei zii sono andati in federazione a Ferrara, al fascio provinciale, a farsi fare una lettera che dicesse: “I camerati Tizio e Caio vengono per questo e per quest’altro, dategli la massima collaborazione, saluti fascisti e grazie”. Vuole che il federale di Ferrara non
gliela facesse, quella carta, a mio zio Pericle? Ma lei ha capito di che stiamo parlando? E poi a Roma è logico, in piazza Venezia, ancora prima dell’imbocco, l’hanno fatta vedere subito a un vigile urbano quella carta, e poi mano mano a un paio di poliziotti in borghese, via l’uno via l’altro, fino in mezzo alla piazza e poi ancora oltre, fin che sono arrivati al portone centrale, dove c’era il piantone della milizia che stazionava di fianco al moschettiere del Duce impettito in garitta e questo – il piantone – li ha fatti entrare e accompagnati dall’usciere. È l’usciere che senza manco dare un’occhiata al
foglio che chissà quanti ne aveva già visti in vita sua, quel giorno s’era svegliato storto e quando ha visto questi due contadinotti pure mezzo arroganti – «Vogliamo vedere Rossoni!» – chissà che gli deve essere passato per la testa e ha detto: «Mo’ gli faccio vedere io a sti du’ burini come li metto sull’attenti, li debbo far strisciare». Poi va a sapere, lui, che noi abbiamo la furia come tara di famiglia. Noi due però – signore mio – non possiamo andare avanti così. Bisogna che ci mettiamo d’accordo. Io non ho capito bene che cosa le serve, ma se lei vuole sapere tutto quanto – particolare per particolare – io glielo posso pure dire perché non ho niente da nascondere a tanti anni di distanza, e tutto quello che le dico è l’esatta verità. Però di questo passo non finiamo più. Se lei vuole che le racconti la storia e che facciamo in tempo a finirla, i particolari che non contano bisogna saltarli. Se io le dico che hanno fatto una cosa, hanno fatto una cosa e basta, mi deve credere, se no è meglio che lasciamo stare. Io non mi invento niente. Al massimo posso ricordare male. Comunque, per sua norma e regola, mio nonno col Rossoni c’era stato in galera assieme quando erano ancora rossi e socialisti, a Copparo, nel 1904, l’anno che poi nacque zio Adelchi, l’unico che è nato che il padre non c’era. O meglio, il nonno non c’era mai stato neanche quando erano nati tutti gli altri. Lui, quando la mattina vedeva la nonna che alzandosi diceva «Oggi non vengo in campagna» e cominciava a mettere pentoloni d’acqua sul fuoco e a tirare fuori federe, lenzuoli e biancheria pulita, lui non aspettava nemmeno che la moglie spedisse via uno per uno tutti i figli più piccoli in braccio alle figlie più grandi, ma le chiedeva solo: «Che dici, vado a farmi una partitina alle carte?». Lei: «Va’, va’». E lui se ne andava all’osteria – seduto dentro, neanche fuori, dovesse non sia mai arrivare fino lì qualche rumore – a giocare a briscola e bere vino, finché nel primo pomeriggio, o verso sera, arrivava un figlio a dirgli: «L’è nato»
«Maschio o femmina?» chiedeva. Quello glielo diceva e allora lui s’alzava e andava a vederselo. Tutti di giorno li ha fatti mia nonna, neanche uno di notte, perché di notte l’osteria era chiusa. E tutti in casa senza mio nonno tra i piedi. Tutti eccetto zio Temistocle che era il più grande – il primo – e non era ancora pratica e non seppe quindi riconoscere i segnali e lo fece in campagna, mentre lavoravano a cavare le bietole. Le si ruppero le acque mentre col rampino stava facendo forza per cavarne una grossa, le si ruppero le acque con quella barbabietola da zucchero mezza dentro e mezza fuori proprio come il bambino e lei disse: «E che è?», e lasciò la barbabietola così, col rampino ancora attaccato. «Scusate un attimo» disse, e attraversando il campo andò verso la scolina, si sedette all’ombra d’una pianta e sfornò mio zio Temistocle. Alle altre donne – che appena capita la situazione si erano sparsa la voce e le si erano fatte tutte attorno – disse: «Ah, un’altra volta resto a casa», e subito alzatasi voleva ritornare in mezzo al campo a finire di cavare la sua bietola. Riuscirono a riportarla a casa solo con la scusa di dover lavare il bambino. Quella volta comunque stavamo a Codigoro. Non so da quanti anni ci stessimo, ma comunque non tanti. I miei giravano. Una volta di qua e un’altra di là, a seconda di come trovassimo i contratti di mezzadria. Di che parte precisa fosse il nonno non glielo so dire. Veniva comunque su dal Po pure lui, da ben prima che il Po si divida e cominci il delta. Forse, addirittura, la famiglia d’origine veniva dalle parti di Modena o di Reggio Emilia. Pare che avessero dei soldi all’inizio – così dicevano i vecchi – stessero bene, erano mugnai. Un nonno o un bisnonno – non so se per parte di padre o di madre – pare fosse stato in Russia con Napoleone e al ritorno si fosse fatto uno di quei mulini ad acqua, sa, quelli sui barconi galleggianti che stazionavano sul Po e l’acqua, da sotto, faceva girare le pale. La gente portava il grano e loro si tenevano la parte, e facevano i soldi. Poi si sono mangiati tutto. S’erano
comprati terre. E si sono man giati anche Quelle. Forse affari andati male, qualche figlio scapestrato, una piena del fiume, un’alluvione che s’è portata via tutto – mulini e fortuna – e a mio nonno e a suo fratello, ma già anche a suo padre e sua madre, erano rimaste solo le pezze al culo, senz’arte né parte. Vivevano dentro i casoni, capanne di frasche di legno e di rami, che si chiamavano casoni solo perché erano grosse. E s’erano messi a fare i carrettieri su e giù per le strade e i paesi. È così, facendo il carrettiere, che mio nonno aveva conosciuto mia nonna, facendo avanti e indietro per le strade della Grande bonifica ferrarese, che anche se si chiamava “ferrarese” pigliava però pure di là dal Po, lungo il delta, nel Polesine, che era provincia di Rovigo. Non l’ho mai capito bene questo fatto: forse erano ferraresi i soldi della bonifica, i capitali e le società, oppure quando era iniziata la bonifica era ancora provincia di Ferrara. Comunque mio nonno e suo fratello, dai e dai avanti e indietro, passando e ripassando dalle parti di Formignana, dove c’era una frazione che si chiamava Tresigallo – non era una città vera come adesso, ma tre case in tutto e una chiesetta – passando e ripassando davanti a un casolare vedevano sempre questa bella figliola. Non so se lei se la ricorda in fotografia – alta e grossa come un carabiniere anche da vecchia – e chissà che cosa deve essere stata da giovane, tutta mora com’era. Comunque passa e ripassa mio nonno le faceva i complimenti. E quella prima arrossiva ma poi rispondeva per le rime. Non le è mai mancata la risposta. Anche mio nonno però era un bel toso dall’alto di quel carretto; biondo, la fronte larga, i baffi folti, il sigaro sempre in bocca. I fratelli di mia nonna non volevano: «Senz’arte né parte» le dicevano. E poi: «Un carrettiere?», come per dire morto di fame. Loro erano contadini, lavoravano la terra. Avevano anche qualche campo in proprietà, e poi terra in affitto e a mezzadria, e anche bestie loro. Ma erano quei quattro metri di terra in proprietà a farli sentire dei signori tali e quali agli agrari. Nobili quasi, rispetto a mio nonno. E non ci si volevano sporcare.
Invece la sorella s’è andata a invaghire di quello – «Uno scansafatiche» dicevano – e non c’è stato niente da fare, se lo è preso come lo ha voluto e i fratelli allora hanno fatto buon viso e si sono messi sotto a farlo diventare contadino provetto anche lui. Gli hanno insegnato pure a leggere e scrivere. Lui non voleva, gli piaceva il carretto, i cavalli, andare in giro per le strade e fermarsi di tanto in tanto alle osterie. Però gli piaceva anche quella donna, pure se deve avere capito subito che a cassetta ci si sarebbe messa lei. Lo riveriva e lo adorava, santa donna, e ha continuato pure da vecchia ad arrossire e ridere ogni volta che lui la guardava negli occhi in un certo modo, ridendo sotto i baffi. Ma ogni volta che c’era da prendere una decisione non stava a sentire nessuno, solo i suoi fratelli – specie il più grande, quello che non ha mai preso moglie – e poi decideva tutto lei. Lui, il nonno, era buono, era un pezzo di pane e rideva sempre. I figli – e poi i nipoti e i figli dei nipoti – se li è sempre presi in braccio e ci rideva e scherzava anche se lei non voleva. Lei diceva: «Prendi la frusta», e invece eravamo noi bambini che un altro po’ frustavamo lui. Non lo abbiamo visto arrabbiato una volta, neanche un rimprovero; ti guardava e basta, e ti guardava pure dolce. Eseguiva felice e contento tutto quello che diceva lei e se qualcuno per caso, anche quando eravamo già in Agro Pontino, andava da lui a chiedere un parere su una qualunque questione, lui buttava le mani avanti: «Ah, sentite lei». Lei invece decideva tutto senza neanche consultarlo, gliele diceva dopo le cose, e se qualcuno dei figli provava ad avanzare il dubbio – «Ma il papà? Siete sicura che il papà non dirà niente?» – «Ah» faceva lei, «al cognosso mì.» Io non vorrei però che lei avesse capito male, forse non mi sono spiegato bene: mica che mio nonno fosse uno zerbinotto o una pezza da piedi. È che loro due erano contenti così. Si figuri che alla fine poi – nel 1952 – una
mattina mia nonna s’è alzata come al solito e ha visto però che lui non lo faceva, restava nel letto a impigrirsi. Allora lo ha guardato accigliata come a dire: «Che aspetti?». Lui ha fatto: «Al son drìo non sentirme tanto bèn. Al resto in leto inquò». E non s’è più alzato, e venti giorni dopo, una sera, lei gli si è seduta a fianco e lui le ha detto, con voce fioca: «Come te sì bèa». Lei ha risposto: «No, caro: te sì ti che te sì bèo», e lui poco dopo è morto. Lei era andata avanti e indietro su e giù per le scale per tutti i venti giorni ad accudirlo come un bambino e dopo morto se lo è voluto lavare e vestire lei e il giorno dopo, al funerale, è rimasta impettita per tutta la cerimonia – fino al camposanto – impettita e senza una lagrima. La sera però, tornati a casa, s’è messa in letto e non si è alzata più, e venti giorni dopo è morta pure lei. Fatto sta che dopo sposato, mio nonno s’è messo a fare il contadino. Avrà avuto ventidue anni. Prima è stato lì con loro – coi fratelli della moglie – anche per impratichirsi diciamo così, pure se impratichirsi da contadino non è così facile come a dirlo, ci devi nascere sulla terra e se non ci sei nato resti sempre poco pratico, non saprai mai qual è il momento giusto di piantare o raccogliere le cose, devi guardare gli altri, e anche nei movimenti resti sempre un po’ impacciato; e forse è per questo che lui si è sempre affidato a lei. Dopo due o tre anni hanno deciso di andare via e mettersi da soli. Lei stava sempre a sentire i fratelli, però a stare voleva stare da sola, per conto suo, con la sua famiglia. A farla breve, hanno preso dei campi in affitto a Codigoro e avevano qualche vacchetta datagli dai fratelli e andavano anche a giornata fuori, come braccianti, e ogni tanto, quando capitava, mio nonno si faceva pure un viaggio col carretto, tanto in campagna governava mia nonna. Poi, un anno appresso all’altro, i figli arrivavano e crescevano, e già diventavano anche loro forza lavoro e si prendeva in affitto altra terra. Comunque quella volta – nel 1904 – mio nonno si trovava a passare per caso per Copparo durante uno di questi viaggetti. Stava sul carretto e trasportava
una partita di vino con tutte le botticelle legate l’una sopra l’altra. A un certo punto ha visto confusione. C’era una manifestazione di operai: operai a giornata delle bonifiche ferraresi, terrazzieri, braccianti, scarriolanti. E lui ha visto su un palchetto l’Edmondo Rossoni che strillava gesticolando. «Fammi stare a sentire il Rossoni» s’è detto mio nonno, perché lui lo conosceva quel ragazzotto alto e segaligno, un pennellone che sulla piazza di Copparo adesso pareva un matto. Era uno di Formignana, anzi proprio di Tresigallo, quella piccola frazione tre case e una chiesetta dove stavano anche i cognati di mio nonno. Il padre faceva lo spondino – quei terrazzieri che scavavano i canali a mano – tirava su le sponde. La madre era di Comacchio e andava a giornata fuori, bracciante, a mondare il riso e a zappare l’erba via dal grano. Mio nonno lo aveva visto ragazzino, essendoci un otto o nove anni di differenza. Il Rossoni adesso ne aveva una ventina e mio nonno quasi trenta, perché era del ‘75 – 1875 – e a trent’anni aveva già una barca di figli: Temistocle appunto, nato subito nel ‘97, poi una femmina nel ‘98, ‘99 zio Pericle, 100 l’hanno saltato, ‘1 zio Iseo, ‘2 una femmina, ‘3 un’altra femmina e ‘4, come detto, zio Adelchi. Comunque il nonno ha visto il Rossoni con la giacchetta, la camicia e il fiocchetto da studente e s’è messo ad ascoltarlo dietro a tutti gli operai. Pare che qualche giorno prima – in un posto chiamato Buggerru, in Sardegna – i soldati avessero sparato sui minatori in sciopero e ne avessero ammazzati tre. O almeno così diceva il Rossoni. Ma come non bastasse, qualche giorno dopo i carabinieri a Castelluzzo in Sicilia avevano sparato su una lega di contadini ammazzandone due e ferendone dieci. «Eh no» conveniva mio nonno, «queste cose non si fanno. E che, non ho neanche il diritto di protestare?» No, non ce lo avevi. Ora sia chiaro che non è che mio nonno cadesse dal pero. Lui pure sapeva com’è che va il mondo. Faceva il carrettiere e non è che avesse un’idea politica vera e propria, lui sapeva che esistono e sono sempre esistiti i ricchi e i poveri e non c’è niente da fare, è
inutile che ti fai venire idee strane, è meglio che ti rassegni e basta. Ma quando però uno si trova con l’acqua alla gola e non ce la fa a tirare avanti la famiglia e ti chiede a te che stai pieno di roba di farlo lavorare o di pagarlo una lira in più, tu non gli puoi far sparare addosso dai carabinieri o dai soldati: «E che madonna» diceva fra di sé mio nonno. Ma proprio in quel momento sono arrivati i soldati. A Copparo. In piazza. Con le guardie regie e il commissario di pubblica sicurezza. Mentre parlava il Rossoni. E lo volevano far tacere: «Questa è una manifestazione non autorizzata, lei è in arresto, scioglietevi». Allora sono cominciate le botte e i parapiglia. Mio nonno è rimasto di fianco ai portici – imbambolato – a guardare da sopra il carretto. Dietro agli operai. Una confusione che non le dico. Il polverone – mica c’era l’asfalto – urla, strida, e poi colpi di moschetto e la gente che scappava di qua e di là e proprio mentre mio nonno oramai stava alzando il frustino per dire in fretta al cavallo «Vai, vai, squagliamocela anche noi», gli è piombato sul carretto, sbucando come Mosè da una nuvola di polvere ma con un nugolo di guardie che gli correvano scalmanando appresso, gli è sbucato e piombato, «Tònf», sopra il carro il Rossoni, anche lui strillando: «Scàmpame Peruzzi, scàmpame». Che poteva fare mio nonno? Il Rossoni lo conosceva da quand’era ragazzino. Lo lasciava lì? Non s’è manco posto il pensiero mio nonno, è stato un riflesso automatico. Ha alzato il frustino e «Vai!» ha urlato al cavallo. Ma non ha fatto in tempo a dirgli «Vai» che le guardie gli sono state addosso. Chi tentava di fermare il cavallo prendendolo per il morso e chi menava di piatto con gli sciaboloni addosso al carro, al cavallo e al Rossoni. Io adesso non lo so se sono state più le botte al Rossoni o quelle al cavallo. Ma fatto sta che a mio nonno gli è saltata la mosca al naso e ha cominciato a tirare frustate con la frusta lunga a destra e a manca: guardie, borghesi,
passanti, tutto quello a cui arrivava. «Fiòi de can strillava» «Fiòi de can!», fuori di sé Il cavallo non lo aveva mai visto così – glielo ho detto che era un uomo tranquillo, un pezzo di pane, dove lo mettevi stava per tutta la vita; ma chissà cosa dev’essergli preso quel giorno, la furia, forse, che da qualche parte a noi deve pure arrivare, in fin dei conti – e comunque il cavallo non lo aveva mai visto così e ha preso paura. Mica per le guardie e le bastonate sul groppone, quello s’è preso paura per il padrone e s’è imbizzarrito, ha cominciato a sgroppare come un puledro, saltava come ai rodei, s’incurvava, e il carretto saltava appresso a lui, con mio nonno e il Rossoni che si reggevano alle sponde e con mio nonno che strillava ancora «Fiòi de can» e le funi che si rompevano e tutte le botticelle che cadevano per la strada e si sfasciavano, e il vino che andava perso, e mio nonno che pensava: «Che casso ghe dìgo inquò?» alla moglie, per tutti i danni del vino e delle botti che ci sarebbero stati da pagare. Per farla breve sono caduti per terra e s’è rotto anche il carretto, e poi il cavallo s’è fermato e le guardie li hanno presi e sbattuti in prigione, dopo avergli però dato un sacco di botte, soprattutto a mio nonno più che al Rossoni. Sia perché mio nonno era contadino vestito da contadino e quell’altro invece – per quanto sovversivo e rivoluzionario – era sempre vestito da persona per bene, col fiocchetto pure. Sia però per via delle frustate, perché diciamo la verità, il Rossoni le aveva solo prese ma mio nonno le aveva anche date. Poi gliele hanno restituite tutte – e un po’ anche al Rossoni – e li hanno messi in prigione. Processo e un mese di carcere. Adesso non so se il mese lo hanno scontato a Copparo o li hanno portati alle carceri di Ferrara, però so che stavano in cella assieme, una cella grande, un camerone, e per un mese hanno diviso sia il rancio schifoso che il bugliolo. Non sa cos’è il bugliolo? Era un vaso di coccio messo in un angolo, in cui ognuno andava a fare i propri bisogni. Spartivano il pane e i bisogni in
pratica, e mio nonno, che non aveva mai avuto un’idea politica in vita sua – sì, i preti non gli piacevano, ma la politica era roba da signori per lui -mio nonno in quel mese, a stare a sentire il Rossoni dalla mattina alla sera, era diventato una specie di Carlo Marx pure lui, anche se ogni tanto, specie poco prima di dormire, quando ognuno stava rannicchiato nel suo cantuccio per tentare di acchiappare al volo il sonno, ogni tanto mio nonno diceva forte, da sotto la sua coperta: «Scàmpame, Peruzzi, scàmpame!» e tutta la camerata si metteva a ridere, Rossoni compreso. Poi, dopo che s’era placata l’ultima risata dal fondo della cella, mio nonno aggiungeva disperato: «Còssa ghe dìgo mo’ a mè mojère?». Gli altri ridevano ancora, ma quello era il pensiero suo fisso, e man mano che passavano i giorni e finiva la pena da scontare e arrivava il momento di uscire, a mio nonno aumentava la pena di uscire: «Trenta giorni? Trent’anni dovevano darmi» Liberi comunque, rilasciati. E salutato il Rossoni al bivio di Tresigallo, mio nonno s’è avviato verso casa a Codigoro – una quindicina di chilometri a piedi – sempre con la voglia di rallentare o addirittura voltare e tornare indietro. Ma buono pure come il pane, non era però un uomo da sot trarsi al suo destino; quel che è fatto è fatto e così, lasciata la strada grande, ha preso la poderale verso casa. Lei l’ha visto da lontano – era pomeriggio inoltrato – che appariva e spariva tra l’ombra scura dei fogliami e gli sprazzi luminosi del sole che, oramai, si faceva strada a fasi alterne tra gli olmi del filare. E gli è andata incontro. Lui l’ha indovinata – percepiva solo la figura, col sole alle sue spalle; senza i lineamenti – e ha aumentato il passo: «Sia quel che sia». Ma quando a venti metri l’ha vista in viso che non era arrabbiata, che non ci sarebbe stata guerra per le botti il vino ed il carretto, che lei era solo felice di vederlo – felice e basta, e le ridevano gli occhi oltre che le labbra – allora mio nonno è corso per abbracciarla. Però appena l’ha toccata – solo le mani tese in avanti, prima ancora di abbracciarla – mio nonno s’è messo a piangere, che lei non lo
aveva mai visto e neanche lui, a ricordarselo, s’era mai messo a piangere prima in vita sua. E mia nonna gli diceva: «Pagarém Peruzzi, pagarém» per consolarlo, perché pensava che lui piangesse per il dispiacere, per i pensieri, i debiti, il danno. E invece lui piangeva di contentezza: «Come te sì bèa» le diceva, «come te sì bèa». Mio nonno piangeva perché la moglie era bella. Tutto qua. Sì, certo, s’era pure sentito sollevato, placato oramai d’ogni ansia e disavventura; ma lui piangeva perché quella era bella, e non solo era bella, gli voleva anche bene. Lei non piange per queste cose qui? È stato solo dopo – a sera, a letto, dopo essersi placati d’amore e d’astinenza – che a lei è venuta voglia di qualche spiegazione in più. Prima aveva messo a letto i figli nell’altra stanza e s’era tenuta solo l’ultimo nato, l’Adelchi, nella culla a fianco al letto loro. S’era lavata col sapone profumato che teneva da una parte nel cassetto del comò, aveva dato la poppa all’Adelchi, ingozzandolo quasi, «Mangia fiòlo, mangia», che oramai gli usciva a rivoli il latte dalla bocca, finché non s’è addormentato come un sasso, sulla tetta. «Ora dorme fino a domani» aveva detto allora mia nonna e l’aveva messo nella culla, e subito alle tette ci si era messo il nonno, fino a stancarsi tutti e due dopo tutta quell’assenza, e solo dopo la nonna gli ha finalmente chiesto, ridendo quasi sotto i baffi, a canzonarlo: «Ma cos’è che t’ha preso Peruzzi, còssa te gà tòlto?». E rideva di gusto, tanto che s’è dovuta voltare pei sussulti del riso, perché erano coricati di fianco, uno dietro l’altra, e s’è voltata verso di lui, poggiata col gomito sul cuscino a chiedergli: «Ma còssa te gà tòlto? Spiégheme, Peruzzi» e rideva, perché non ci aveva voluto credere quando la gente era venuta a dirle di lui che strillava sopra al carro «Fiòi de can» e menava frustate alle guardie. E adesso stava lì a ridere, appoggiata al cuscino a immaginarsi la scena: «Còssa te gà tòlto?», con lui invece che guardava in alto al lume di candela verso una macchia del soffitto – una macchia d’umidità – con le mani giunte sotto la testa e i gomiti larghi; assorto, serio, a chiedersi anche lui cosa gli fosse preso quel giorno.
«Non lo so neanch’io» le ha detto prima. Ma dopo un po’ ci ha ripensato – mentre lei ancora rideva e già ricominciava fintaindifferente a stuzzicargli con l’altra mano il cagnolino addormentato – e le ha detto voltandosi anche lui, e ricominciando a baciarla: «El cavàl, fémena, el cavàl no ghéa da tocármelo!». E la nonna gli ha sentito nella voce un suono duro e sordo – la minaccia – che unito ai baci le rabbrividì la schiena. Poi il Rossoni è sparito, non s’è visto più. Prima andò a Piacenza alla camera del lavoro e poi a Milano, o viceversa, fin che oramai era conosciuto in tutta l’Altitalia, scriveva articoli, e spesso sull“‘Avanti!” leggevamo: “Il compagno Rossoni ha parlato di qua e di là, la folla lo ha osannato, la polizia lo ha denunciato”.
Quello era capace – quando era giovane – di farsi anche tre comizi in un giorno in tre paesi diversi, e allora mica era come adesso. A parte che adesso non ci vanno neanche più a fare i comizi in mezzo alla gente. Nelle piazze ti interrompevano, ti interrogavano, ti contrastavano. E tu dovevi sapergli rispondere e insultarli per bene lì sul posto, sopra il muso. Adesso vanno in televisione, con quella che ti mette la cipria e fa le domandine preparate. E poi non c’erano le macchine, i treni. O meglio, qualche macchina c’era, però non c’erano le strade. La strada diretta da Codigoro a Ferrara l’hanno fatta solo nel 1927 e la fece fare proprio il Rossoni. Prima ci volevano quattro ore di diligenza da Codigoro a Ferrara, su e giù per l’argine del Po di Volano. E quello, il Rossoni, era capace di farsi tre comizi in un giorno e mettersi a litigare nelle piazze di tre paesi diversi tre volte al giorno, a imprecare contro i ricchi, contro i padroni e soprattutto contro i preti, che lui ci aveva studiato dai preti, ave va fatto tutto il ginnasio in collegio dai salesiani; il padre ce lo aveva messo a forza in seminario, a Torino, con la scusa di farlo fare prete, ma poi lo hanno cacciato. E ogni volta – dopo essersi sgolato – rimontava sul calesse e faceva di corsa altre decine di chilometri di strade polve rose, per andarsi a risgolare un’altra volta. Ci vuole della costanza. Chissà che gli debbono avere fatto, a lui, i salesiani a Torino in quel collegio.
Comunque mio nonno – quando gli capitava ogni tanto di dare un’occhiata all’“Avanti!” all’osteria – diceva a tutti quanti: «Va’ il Rossoni che carriera va facendo», lasciando sottintendere che fosse tutto merito suo, «Lo gò tirà su mì». Ora non è che mio nonno di politica capisse molto più di prima. S’era iscritto alla lega, naturalmente, e andava alla camera del lavoro. Ma niente di più. Dai preti, come detto, è sempre rimasto alla larga, ma senza neanche stare a parlarne troppo male – «Voi di qua e io di là», punto e basta -non come il Rossoni che era proprio anticlericale: «Sono loro il demonio, perché servono solo a tenere i poveri nell’ignoranza e nella paura dell’inferno, così non si ribellano ai ricchi e ai signori». Mio nonno no, non li calcolava e basta i preti, anche perché mia nonna invece un pochino di rispetto glielo manteneva. Non che lei fosse una beghina; andava a messa alle feste grandi – Natale, Pasqua e Pentecoste -dava la sua decima di grano alla parrocchia quando il prete ogni anno passava dopo il raccolto, e pregava regolarmente ogni volta che un figlio si ammalava. Però oramai per tutti mio nonno era un socialista, un sovversivo, ed era stato in carcere per l’Idea con Rossoni. Poteva non essere socialista dopo quello che aveva passato? Lo era e voleva la rivoluzione; ma da dentro l’osteria, mentre giocava a briscola coi compagni. Il Rossoni s’è rivisto quattro anni dopo, nel 1908, ai primi di giugno. Era di passaggio, era venuto a fare una riunione alla lega e s’è fermato a casa, la sera, a cena. Era insieme a un altro – un piccoletto rispetto a lui – che ci aveva portato a far conoscere, un maestro elementare delle parti di Forlì: «Suo padre fa il fabbro» aveva detto il Rossoni a mio nonno. E mia nonna subito: «Ah! Allora ditegli se mi può aggiustare l’erpice, intanto che io faccio da mangiare». Il piccolotto ha sentito e s’è messo a ridere. Poi per farle vedere che lo sapeva fare s’è tolto la giacca, slacciato il fiocchetto e rimboccate le maniche. Visto che lei non diceva niente – anzi, continuava a guardarlo col sorrisino di
sfida e le mani puntate ai fianchi – ha preso il martello, acceso le bronze, dato aria alla forgia e le ha aggiustato l’er pice, raddrizzando pure tutte quante le punte, «Dèn, dèn, dèn». E martellate di qua e martellate di là, mentre lei oramai metteva in tavola – su quella tavola lunga dove stavano già sei o sette ragazzini – la pasta e fagioli con la pasta fatta in casa e il contorno di polenta. Questo qua – che si chiamava Mussolini – si vedeva che aveva testa oltre che fascino. Aveva un anno solo in più del Rossoni, essendo lui dell“83 e il Rossoni dell”84, ma il Rossoni lo trattava con grande considerazione: «Benito guarda qua, Benito guarda là» e tutti e due che guardavano zio Pericle, che era già svelto come una lepre. Zio Temistocle, il più grande, era un po’ scontroso, riservato; per fargli aprire bocca e levargli una parola gli dovevi fare prima una domanda diretta. Zio Pericle invece non stava mai zitto. Parlava di tutto: «Aghémo da far la rivolussiòn», per farsi sentire da quei due, «debbono darci le terre, dobbiamo accopparli», e Rossoni e l’amico suo ridevano, ma intanto guardavano come si muoveva, la sveltezza con cui finiva i lavori in stalla, la mano sicura, la voce ferma che aveva con le bestie. Era di nove anni soli, ma le mani erano piene di calli e sapeva leggere e scrivere, fare di conto e tutti i lavori agricoli: guidare i buoi, prendere a calci i tori. Mussolini continuava a guardarselo di scarto ogni tanto, anche mentre parlava col nonno e col Rossoni. Certo, ripeto, era pieno di fascino il Mussolini e mio nonno se lo stava a sentire estasiato, perché parlava addirittura meglio del Rossoni: frasi secche e incisive che tu capivi subito. Con lui pareva tutto semplice, non i ragionamenti complicati che ci vuole l’avvocato per capirli. AI nonno piaceva quindi, ma solo sul piano della politica. Non gli piaceva il modo in cui gli guardava la moglie: «Eh, casso» diceva fra sé, continuando a fare finta di sorridere ed annuire quando questi altri due parlavano tra loro. La nonna peraltro era una cordiale, allegra; aveva la battuta sempre pronta pure lei e una volta che il marito le aveva portato gente a casa, quella era
gentile e sorrideva con tutti, non è che si mettesse a fare la musona. Però al Mussolini lo guardava e sorrideva un tantinello in più del normale. Poi, quando se ne sono andati – «Arrivederci e grazie, siete stati gentilissimi», «Tornate quando volete», e se ne sono andati di notte, col biroccio e il lume a petrolio, per i quindici chilometri fino a Tresigallo dove li aspettavano a dormire a casa del Rossoni – messi i ragazzini a letto e messisi in letto pure loro, subito dopo che la nonna aveva finito di dare la poppa all’ultima femmina mentre mio nonno riguardava al lume di petrolio quella famosa macchia sul soffitto, quando alla fine lei si è piegata su di lui per spegnere il lume, lui le ha sibilato: «Bruta troia». «Còssa dìsito?» s’è messa a ridere lei: «Sìto mato Peruzzi? Era solo un ospite». «Bruta troia» le ha ridetto lui, e poi l’ha rovesciata e presa nel mentre che lei rideva ancora. Rossoni però a cena, mangiando e chiacchierando, aveva detto che sarebbe tornato presto, era stanco, aveva bisogno di un po’ di riposo: «Debbo andare dopodomani a Piacenza per un processo, ma dopo torno e ci rivediamo, perché mi voglio fermare da mia mamma per un bel pezzo». Il Mussolini invece doveva andare a Meldola, dalle parti sue, Forlì-Predappio, per un comizio: «Così mi fermo anch’io da mio papà». Invece al Mussolini a Meldola – subito dopo il comizio -lo hanno arrestato e sbattuto dentro mentre al Rossoni, al processo di Piacenza, gli hanno dato quattro anni più due di vigilanza speciale. Ma il giudice non aveva finito di leggere la sentenza che lui – che s’era messo per sicurezza in mezzo al pubblico, essendo ancora a piede libero – già era fuori dal tribunale di corsa a gambe levate e la sera stava a Lugano in Svizzera e noi non lo abbiamo più visto per almeno dieci anni. Dalla Svizzera passò in Francia con Corridoni, a Nizza, e anche là ebbe problemi con la polizia e riuscì a imbarcarsi pelo pelo
su una nave per il Brasile: «Ah, di prigione m’è bastata quella di Copparo. Ciapème, si sìo bòn». Era oramai pieno di condanne fino al collo. Gli piovevano da tutte le parti. Però non riuscivano mai ad acchiapparlo, al momento giusto gli sgusciava sempre via come un’anguilla di Comacchio, e alla fine di tutta la storia l’unico periodo che s’è fatto dentro è stato proprio quel mese con mio nonno per i fatti del cavallo e di Copparo. In Brasile, a San Paolo, lo aspettava Alceste De Ambris, un omone matto come lui. Il De Ambris però era più grande, aveva una decina d’anni in più e loro lo riverivano come un maestro. Veniva da famiglia agiata, era ricco, ma aveva abbandonato tutto per seguire i poveri, e pure all’osteria era il meglio di tutti. È lui che s’è inventato il sindacalismo in Italia, e pure lui ne aveva fatte d’ogni colore, difatti era dovuto scappare. Loro erano tutti di questo gruppo qua – i sindacalisti rivoluzionari – e il De Ambris e il Corridoni erano i capi, e poi subito dopo il Rossoni e il Mussolini. E mio nonno giustamente stava con loro, essendo stato in galera col Rossoni. Come dice, scusi? cosa volevano i sindacalisti rivoluzionari? E volevano la rivoluzione. Adesso a lei magari sembra un’enormità – «E che sono, le Brigate rosse?» – ma mica erano i tempi di adesso. Lei ci doveva stare allora e ci doveva stare nella parte dei poveri però, mica in quella dei ricchi. Lei se era povero non aveva nessun diritto. Solo lavorare e ringraziare Dio, se glielo davano da lavorare; perché era difficile pure quello. Erano piene fino all’orlo le navi che da Napoli o da Genova partivano tutti i giorni per le Americhe. E tante erano carrette. Lei non ha idea di quante ne sono affondate, di quanta gente non s’è saputo più niente e di quanti – convinti di andare in Canadà – si sono ritrovati in Argentina o addirittura in Sicilia. Tornati a casa. E le terze classi lei nemmeno se le sogna. Cameroni unici e promiscui per maschi e femmine, i bisogni dentro un vaso come il bugliolo in galera, e ogni mattina in
giro a raccogliere i morti di stenti e a buttarli a mare e poi, una volta che eri pure riuscito ad arrivare vivo là – in Nordamerica -trattato a calci nei fianchi. Lavoro nero e fuorilegge. Chiedevi un aumento? Ti ammazzavano di botte. E se per caso invece cadevi da un’impalcatura sui cantieri e morivi – ma anche se non morivi subito, e magari con qualche cura ti potevi salvare – ti mettevano su un furgoncino e ti andavano a buttare in campagna dentro un fosso: «Chi s’è visto s’è visto». Mica potevano correre il rischio che l’ispettorato gli facesse la multa. Come dice, scusi? che lo hanno fatto l’altro giorno anche qua da noi? E che le sto dicendo, io? I padroni nostri qua in Italia non è che ci trattassero meglio dell’America, perché se no restavamo qua. Lavoravi dodici ore al giorno, pure i ragazzini, e non solo in campagna ma nelle fabbriche, con le mani nelle cinghie di trasmissione dei telai. Gli infortuni non ha idea. E paghe da fame. E se ti facevi male nessuno ti pagava, ti licenziavano e via. Non avevi nessun diritto, contavi meno d’una bestia. La legge, dice lei? La politica, i diritti civili, il parlamento, lo Statuto albertino? Quella era roba per signori, solo loro votavano, tu non ne avevi diritto. Lei dice che la libertà in Italia l’avrebbe levata il fascismo? Ma in Italia non c’è mai stata la libertà, che t’ha potuto levare il fascismo? Ai signori magari gliel’avrà levata, ma i poveracci non ce l’avevano mai avuta. Le donne hanno votato per la prima volta nel 1946, ma pure i maschi, prima del fascismo votavano in pochi; solo i signori appunto, e noi poveri, il proletariato, contavamo meno di niente, meno delle zappe che adoperavamo e se ci riunivamo per protestare o scioperare, ci mandavano i soldati a spararci addosso. Poi dice che uno non s’arrabbia. S’era arrabbiato mio nonno -che era uomo da non far male a una mosca – non si arrabbiavano i sindacalisti rivoluzionari? E che se l’erano scelti a fare allora, quel mestiere? Loro volevano la rivoluzione e basta: tutti uguali, niente più signori, eserciti e preti; niente più proprietà privata; la terra divisa tra tutti i contadini e le fabbriche in mano agli operai.
II guaio però è che non eravamo tutti uguali nemmeno noi che lottavamo per il mondo degli eguali. Era un casino C’erano i sindacalisti rivoluzionari e i sindacalisti norma li delle camere del lavoro, e c’era una gran bella differenza tra Cgil, leghe, socialisti, repubblicani, anarchici, riformisti, minimalisti e massimalisti; sto bene io a spiegarle tutte le differenze, non le so neanche io, però ce n’erano un sacco, pressappoco come nella sinistra di oggi. A lei le pare che sono tutti uguali oggi? Li ha visti mai d’accordo? Be’, allora era anche peggio perché c’era ancora chi voleva la rivoluzione mentre oggi – se ci fa caso – pure i comunisti non è che siano tanto distanti dai liberali, si sta divisi perché conviene, se no la gente dice: «E che ti voto a fare?». Comunque allora era pieno di riformisti, di gente che diceva: «Un passino alla volta; oggi pigliamo un mezzo diritto in più, domani un altro mezzo e poi chissà, un giorno vedremo» e intanto il cavallo, come si diceva, aspettando aspettando moriva sperando. O almeno così dicevano i miei. E Rossoni e Mussolini, quella sera da mio nonno, se l’erano presa proprio coi riformisti: con Treves, Turati, Modigliani, Bissolati – il Leonida Bissolati – e non li potevano vedere perché non facevano che dire di stare calmi, che in parlamento prima o poi qualche cosa si sarebbe fatta e che ci voleva un sindacalismo moderato, riformista pure lui. I nostri invece volevano farla finita una volta e per sempre con uno sciopero generale fatto bene. Ma non gli scioperi cosiddetti generali che fanno adesso, scioperetti di quattro ore e poi tutti a lavorare, per recuperare il più in fretta possibile quelle quattro ore. Loro volevano uno sciopero davvero generale, con la gente che tutta insieme smette da un momento all’altro di lavorare, qualunque mestiere faccia – cameriere, camerlengo, vaccaro, operaio, stradino, ferroviere, becchino – e poi vediamo come si mettono. E non per due o tre giorni, ma che cominci adesso e non finisca più, fin che i padroni non hanno più un chilo di pane dentro casa né chi gli pulisca il culo e fa andare avanti le fabbriche, le terre e le vacche loro.
Io naturalmente adesso non è che le stia a dire che avessero ragione loro o avessero ragione gli altri. Io le sto a dire solo come sono andati i fatti e come – volta per volta – l’ha pensata la mia famiglia. Poi chi avesse ragione non lo so, si faccia lei il giudizio suo sul torto o la ragione. A mio nonno però questo discorso dello sciopero generale – «Basta mettersi da parte un po’ di roba» pensava lui, «un po’ di provviste tutti quanti, fissi il giorno segreto senza dire niente ai signori e così tu sei preparato e loro no» - gli stava più che bene. Era un sindacalista rivoluzionario convinto oramai, ma che i riformisti fossero – diciamo così – quasi dalla parte del nemico, questo il Rossoni non glielo aveva spiegato tanto bene. Lui credeva che – differenza più, differenza meno – lottassimo tutti per la stessa idea e quindi i nomi che leggeva più spesso sull’“Avanti!” e che stavano in parlamento a litigare con Giolitti e con il re per i nostri interessi di popolo lavoratore, per lui erano i migliori tra di noi. E così dal 1904 al 1908 – che mio nonno aveva messo al mondo altri quattro figli – ritenendo di fare cosa giusta, a uno aveva messo nome Treves, all’altro Turati e le due femmine, le gemelline piccoline che adesso dormivano già un po’ strette, una da capo e una da piedi nella culla, le aveva chiamate una Modigliana mentre l’altra, per non fare torto a nessuno, Bissolata. Tanto che quella sera a cena – va bene che erano tutti piccoli e ancora non capivano – ogni volta che, parlando, il Mussolini si infervorava e anche se tutto infervorato cercava però ogni tanto con lo sguardo d’incrociare l’eventuale sguardo di mia nonna, ogni volta che tutto infervorato il Mussolini se ne usciva con: «Quel can del Turati, quel boia del Turati», mio nonno lo tirava per il braccio. Certo, lo tirava anche per via degli sguardi – per levargli quegli sguardi da mia nonna – ma lo tirava per il braccio e gli faceva segno con il muso in direzione del bambino: «E che casso, oramai lo gò ciamà acsì». E difatti poi – per tutti gli anni che sono venuti appresso
- a quel mio zio, tutte le volte che faceva i capricci o litigava con qualcuno, i fratelli e le sorelle gli rifacevano la canzoncina: «Quel can del Turati/Quel boia del Turati». E lui diventava una bestia e cominciava a tirare sassi a tutti. Il peggio però, bisogna pure dire, non fu per lui, per il Turati, che passata la buriana e fattosi grande nessuno lo ha canzonato più, e poi comunque ci fu anche un Turati dopo, l’Augusto Turati che diventò segretario del partito nazionale fascista, il Pnf, e quindi non c’era proprio più niente da prendere in giro, anzi, c’era pure da stare attenti. Il peggio fu per la gemellina, zia Bissolata, che davvero non s’era mai sentito e che già subito, appena il nonno era tornato dall’averle registrate, mia nonna andò su tutte le furie: «Bissolata? Ma che t’ha detto quella testa? Chi se la prende da sposare? Non lo capisci che tutti la chiameranno Bìssola tua figlia?». E difatti così è stato, e tutti l’hanno sempre chiamata “Bìssola” – che nel dialetto nostro vuole dire una piccola biscia, un serpentello – e anche proprio “zia Bissa” la chiamavamo di nascosto noi, perché era davvero una biscia, una serpe velenosa. Zia Modigliana no, zia Modigliana era un angelo. Comunque il Rossoni quella volta da Nizza andò in Brasile, a San Paolo, dove lo aspettava l’Alceste De Ambris, ma dopo pochi mesi l’hanno cacciato anche da lì, espulso per direttissima dopo avere proclamato il primo sciopero in assoluto di una grande vetreria di Agua Branca. Gli operai erano tutti contenti dello sciopero, però la vetreria era di proprietà del prefetto di San Paolo e veda lei se se lo potevano tenere ancora il Rossoni a San Paolo. Lo hanno imbarcato sul primo piroscafo per l’Europa. Arrivato in Francia, scioperi e casini anche lì – denunce, processi e condanne – ma prima dell’arresto, fuga di nuovo in Nordamerica, New York. Qui s’è fatto subito padrone del sindacato e del giornale “Il proletario”. Comandava lui e fece fare il primo sciopero dei tessili di New York. Ma fatto lo sciopero, quando i riformisti andarono a firmare l’accordo coi padroni per l’aumento salariale, lui manco firmò dicendo che s’erano venduti: «Si doveva ottenere di più, v’hanno
dato la strozza», la mancia sottobanco. È così che è diventato pure lui l’Eroe dei Due Mondi. Litigava con tutti. E tutti gli emigranti oramai – sia in America del Nord che del Sud – portavano la fotografia sua dentro il portafoglio. Andò pure in Canada, si spostava a seconda dei mandati di cattura, e noi non lo abbiamo più visto per parecchi anni. Ogni tanto però ci mandava dei giornali, che riuscivano sì e no a raggiungerci nei nostri spostamenti, perché anche noi oramai cambiavamo sempre posto, a seconda di come mia nonna, attraverso i suoi fratelli, riuscisse a trovare mi gliori condizioni di affittanza o mezzadria. “Facevamo San Martino“ come si suole dire, e un anno eravamo a Mesola, un altro ad Argenta, a Taglio di Po, Ariano Polesine, Papozze, Polesella. E su uno di questi giornali – mi pare nel 1911 – leggemmo che in una manifestazione a New York in onore di un qualche nipote di Garibaldi, alla fine del comizio, sopra il palco, Rossoni aveva sputato sul tricolore ”tra un delirio di folla“. Sì, è stato nell”11, quando l’Italia dichiarò guerra alla Turchia per prenderle la Libia. Io però non le posso stare a fare tutta la cronistoria del Rossoni. Che ce ne frega a noi? A lei interessa la storia della mia famiglia se ho capito bene, e il Rossoni ne costituisce solo un accidente, la causa fortuita per cui ci sono capitate certe cose che alla fine ci hanno portato in Agro Pontino, stop. E quindi le ripeto che non lo abbiamo più visto per un sacco di anni ma – se fosse finita qui – ai miei zii non gli sarebbe nemmeno passato per la testa di potersene partire in bicicletta per arrivare fino a Roma e andarlo a cercare a palazzo Venezia. E mica eravamo cretini. Eravamo nel 1932 oramai, e i fatti di Copparo risalivano al ‘4; mica ti puoi presentare da uno, solo perché lo hai conosciuto trent’anni prima. E poi uno di quelli, con la strada che ha fatto e la carriera, si rimette a incontrare te, solo perché era montato sul cavallo di tuo padre a Copparo? Se era per questo potevi restare pure a casa. Quello fu l’inizio in realtà, ma poi venne il resto.
Noi comunque stavamo qui e lui invece stava là. Arrivavano questi giornali quando ci trovavano, e noi li leggevamo. Per il resto continuavamo a lavorare e a progredire. Già a Codigoro s’era aggiunto a noi anche il fratello di mio nonno, pure lui con tutti i figli che di pari passo a mio nonno an dava facendo insieme alla moglie, che era guarda caso una cugina di mia nonna. Tutta una famiglia quindi. I figli crescevano e un altro po’ eravamo in grado di lavorare da soli l’intera Valpadana. Ogni tanto – come detto – cambiavamo posto a seconda di come cambiavano le condizioni; sempre in meglio, sempre un ettaro in più. Terra sempre non nostra, sia chiaro: mezzadria, affittanza, sempre sotto padrone; ma i padroni adesso ce li sceglievamo. A volte tornavamo dagli stessi, ma a condizioni migliorate. Partivamo alla fine della stagione con tutta la roba nostra – masserizie, mobilia e attrezzature caricate sopra i carri – perché oramai ce ne eravamo fatta di roba, tutta col sudore della fronte che già i bambini di sette anni avevano le mani piene di calli. Sempre lì intorno ci muovevamo, si capisce – di qua e di là del Po – e tutti ci conoscevano, perché anche gli altri facevano la stessa vita nostra. Un anno di qua e un anno di là, sempre in cerca di maggiore fortuna – fortuna per modo di dire, un quintale di frumento in più – e magari per qualche anno ognuno la trovava e poi, all’improvviso, l’anno dopo la perdeva e ritornava indietro con qualche carro in meno e qualche debito in più. Si tirava avanti quindi, e per noi tirava bene, con tutti quei figli e la salute che ci assisteva. E in ogni nuovo posto dove arrivavamo, mio nonno – dopo essere entrato nella casa e avere fatto dietro alla nonna il giro di stanze fienili e stalle – mentre già lei impartiva gli ordini dello scarico dei carri, subito le chiedeva: «Che dici, vado?». «Vai, vai», e lui andava all’osteria a ispezionare pure quella, a vedere come si mettessero – qui – le cose per la briscola e la lega. Così s’è fatto il 1911, e quando siamo stati a settembre l’Italia ha dichiarato guerra alla Turchia per andarsi a prendere la Libia.
Cinquant’anni prima eravamo ancora tutti divisi – cento staterelli in cui dall’uno all’altro ci voleva il passaporto – e tutti gli stranieri che venivano in Italia la facevano da padroni. Lo zimbello d’Europa eravamo. E neanche cinquant’anni dopo diventavamo una potenza che andava a sfidare la Turchia e a colonizzare l’Africa: «La Libia!». Lasci stare che quindici anni prima – quando avevamo provato a prenderci l’Etiopia la prima volta – gli abissini ci avevano fatto scappare. Ad Adua nel 1896 – loro con le frecce e le lance, noi con i fucili e le mitragliatrici – ci hanno sterminato. Seimila morti. E adesso ci andavamo a rifare in Libia. È chiaro che i socialisti non potevano condividere questa politica di aggressione coloniale e imperialista: «Ma come» dicevano, «proprio tu che sei stato fino a ieri soggetto, calpestato e deriso dallo straniero, adesso vai a deridere, calpestare e assoggettare gli altri?». E il più arrabbiato di tutti era proprio il Mussolini, che era diventato una specie di numero uno dei sindacalisti rivoluzionari in Italia ed era pure un pezzo grosso del partito socialista. «L’ho sempre detto io» diceva adesso mio nonno all’osteria ogni volta che lo vedeva scritto sull“‘Avanti!” «che come questo ce n’è pochi, questo è un uomo speciale, se si mette in testa una cosa la fa, non lo ferma nessuno» e difatti nel giro di pochi anni se ne erano resi conto tutti, mica solo mio nonno – e soprattutto mia nonna – pure il Treves e il Turati, che cercavano di tenerlo buono. Be’, lui per la Libia ha fatto un casino. Prima è riuscito a convincere tutti gli altri socialisti – e quelli che non è riuscito a convincere, come il Bonomi e il Bissolati, li ha fatti espellere dal partito perché «troppo morbidi e collusi con la corona» – e poi ha guidato lo sciopero generale contro la guerra in Africa con azioni rivoluzionarie di vero e proprio sabotaggio. C’era la gente che faceva saltare i ponti e levava le traversine dai binari perché non passassero i treni dei soldati, e lui l’anno dopo lo hanno condannato e messo dentro. Diceva che i generali italiani erano sanguinari e
guerrafondai, e così pure Giolitti, il capo del governo che in Libia ce li aveva mandati. Queste cose – nel 1911 – venne a dirle pure dalle nostre parti. Oramai stava fisso a Milano, perché quello era il centro delle fabbriche, dei danari e di tutti i casini. Ma per lo sciopero contro la guerra di Libia fece qualche giro e passò anche dove stavamo noi, e così mio nonno andò alla mani festazione in piazza insieme ai figli più grandi. Certo, prima d’andare, noi abbiamo munto le vacche nostre e sistemata la stalla, perché stavamo in sciopero anche noi ed è chiaro che a lavorare in campagna per il padrone – col rischio che qualcuno magari ci vedesse – non c’era passato nemmeno per la testa. Anzi, mio nonno era stato il primo all’osteria a dire: «Sciopero, sciopero!». Ma le bestie nostre no. E che, le facevamo morire di fame? Lasciavamo scoppiar loro le tette? Noi le abbiamo munte se no gli veniva la mastite. Ma munte le bestie e sistemata la stalla, siamo andati in piazza. È che, rimanevamo a casa? Mussolini è stato grande, ha conquistato tutti. Il capolega non aveva fatto in tempo a dire: «Vi presento il compagno Mussolini», che lui un altro po’ si era mangiato i vetri di tutte le finestre sulla piazza. Non si è messo a sputare sul tricolore come il Rossoni in America, ma poco c’è mancato, creda a me. Lei non ha idea di quello che è stato capace di dire a quei quattro mascalzoni, specie al Giolitti «piemontese falso e cortese», il peggio di tutti secondo lui: «Con tutta la fame che abbiamo qua, e con tutti i poveracci che vengono ogni giorno sfruttati e cavati il sangue dai preti e dai signori, andiamo ad aggredire quei poveri baluba per fare schiavi pure loro? Vergognève!» disse il Mussolini, «Specie il Giolitti e il Bissolati». Come diceva mio nonno, quello era uno che quando doveva dire una cosa la diceva papale papale, non ci stava mica a pensare sopra, non aveva peli sulla lingua. Una volta – mi pare a Losanna, in Svizzera, quando era scappato anche lui per una condanna – a un prete che sparlava in giro lo fece una pezza da
piedi davanti a tutti. Poi da sopra il palco – levatosi l’orologio dal taschino e messolo bene in evidenza sulla balaustra del palchetto – disse proprio: «Ma adesso è ora di farla finita anche con il suo principale, Dio non esiste e ve ne do una prova. Lo sfido. Se esiste, gli do tre minuti di tempo per fulminarmi stecchito su questa pubblica piazza. Se invece non succede niente, vuol dire che non esiste. Tre minuti ho detto, punto e basta», restando in silenzio con l’orologio tirato su per aria, per tre lunghissimi minuti. Ora come lei sa tre minuti, a dirli così, sembrano una cosa da niente; ma si metta in silenzio ad aspettare e veda come sono lunghi. E anche a dire «Io sono ateo; Dio non esiste» non ci vuole niente. Ma lei mi deve credere: quella volta sopra al palco a Losanna era tutto pieno di socialisti atei e mangiapreti, ma appena il Mussolini ha detto «Gli do tre minuti di tempo», la gente piano piano s’è stretta e allontanata; attorno a lui s’è fatto il vuoto. E lui imperterrito ad aspettare i tre minuti e appena sono passati s’è rimesso l’orologio piano piano nel panciotto riavvolgendo la catenella e ha detto soddisfatto: «Che v’avevo detto io? Sono sano e salvo: Dio non esiste». È scoppiato un applauso che lei non ha idea. Ma anche un sospirone generale di sollievo: «Aaaah». Comunque finito il comizio – quello nostro del 1911 e della Libia – sceso dal palco, la gente gli si è fatta intorno a salutarlo e coi più stretti sono andati a bere un bicchiere come si fa di solito. Pure mio nonno ha fatto il gesto di avvicinarsi per salutarlo, anche se era un po’ intimidito perché pensava che non si ricordasse. Invece come lo ha visto, il Mussolini ha strillato: «Peruzzi! Am dispiase propi ma stavolta n’an pòi vegnèr a manzàr da valtri, ch’ago d’andar via. Ma nol mancarà ocasiòn, t’al sicuro». E perché ride adesso? Cosa dice? Lei dice che non può essere che Mussolini parlasse così, perché lui era romagnolo di Predappio, tutto un altro dialetto, un’altra inflessione?
Lei la deve smettere con queste fesserie, io mica sto qui a raccontare barzellette. Cosa vuole che ne sappia io di quale dialetto e con quale inflessione parlasse Mussolini? Quelle sono però le cose che ha detto – la sostanza – e io gliele ridico parola per parola esattamente nello stesso dialetto in cui le hanno dette a me. Io non cambio niente. Pure lei però, quando va in giro a dire che Francesco Ferrucci, ferito a morte sul campo di battaglia, vede avvicinarsi Maramaldo col pugnale in mano, pure lei dice che lui gli ha detto: «Vile, tu uccidi un uomo morto». E mo’ – secondo lei – quello in punta di morire si mette a parlare forbito in italiano perfetto? Ma quello gli avrà detto nel dialetto suo chissà quale parolaccia. Ciò che conta è la tradizione, la lingua che parla colui che racconta, e a me me l’hanno raccontata così e io così la riracconto a lei. Comunque mio nonno – quando ha sentito che stavolta non veniva a pranzo – ha tirato un sospiro di sollievo quasi come quelli di Losanna che non erano stati fulminati da Dio, e tornando a casa sul carretto s’è voltato verso zio Pericle che gli stava a fianco e gli ha detto ridendo e scherzando, ma neanche troppo scherzando: «Ma chi lo gà invità quel là?». Il figlio però, che era tutto raggiante perché quello s’era ricordato anche di lui – «Ah, tu sei il Pericle, salutami tua mamma e dille che la prossima volta mi rifaccia ancora i fagioli» – c’è rimasto male e lo ha guardato di sotto in su: «Ma cosa dite papà? Sarebbe stato un onore». «Sarebbe stato un onore? E che è, casa sua che fa tutto da solo? Non posso venire stavolta! Ma chi ghe gà disésto gnìnte, bruto screansà?» e per non darla al figlio, che non li ha mai toccati in vita sua, ha dato al cavallo una frustata che ancora se la ricorda. Comunque gira che ti rigira sono passati altri tre anni, 1914, e noi eravamo a Cavarzere, vicino proprio allo zuccherificio. Zio Pericle aveva quindici anni oramai, aveva qualche pelo sotto il naso ma aveva sviluppato tardi e a quei tempi era poco più di un ragazzino appena alto. E in quel 1914 c’è stata la
settimana rossa. La chiamavano proprio così i nostri vecchi, “la settimana rossa”, ossia un casino che è durato sette giorni, dal 7 al 14 di giugno e i vecchi si ricordavano i giorni precisi perché la settimana dopo è scoppiata la Prima guerra mondiale. Al governo in Italia adesso c’era Salandra, ma a comandare comandava sempre Giolitti, un filibustiere figlio di buona donna che ti rigirava come voleva. È stato al governo tra alti e bassi – «Oggi sto al governo io e domani ci stai tu, però solo di nome perché sempre io comando» – una ventina d’anni. All’inizio, nel 1892, quando il partito socialista ancora non c’era perché è stato fondato solo due anni dopo, be’ quell’anno – dopo lo scandalo della Banca Romana in cui pare che anche lui si fosse fregato i soldi – per non andare in galera dovette scappare in Svizzera come gli anarchici e i sovversivi. Ma dopo neanche qualche anno è ritornato tutto pimpante a rifare il ministro al governo come prima. Lei pensi in che mani stiamo noi povera gente, perché anche adesso non creda che sia noi tanto diverso, «chi amministra amminestra» diceva la mia novera nonna. Comunque questo gran filibustiere di Giolitti era pure uno che capiva le cose, e capiva anche che le cose dovevano cambiare. Pare che il Paese abbia avuto un grande sviluppo economico sotto di lui, soprattutto le banche e le industrie. Capiva pure un po’ le ragioni dei noveri, è lui che fece la prima legge contro gli infortuni e contro il lavoro dei minori. Insomma, a un certo punto pare che sia andato dal re, a dirgli: «Caro Re, così non possiamo andare avanti. Questi, i poveri e gli operai, se non ci diamo una mossa e continuiamo a tartassarli troppo, prima o poi si stufano e ci buttano a gambe all’aria tutti quanti siamo». «Va bene Giolitti, m’hai convinto. Tu che dici di fare?» «Bisogna dargli qualche contentino», e fece appunto queste leggi che ho detto prima ed estese il diritto di voto a tutti gli uomini maschi, non solo ai signori. «Però mi sa che non basta, Re.» «Va bene come dici tu. Che altro bisogna fare secondo te?»
«Bisogna proprio portare al governo i socialisti» che adesso, primi del ‘900, erano cresciuti peggio di uno tsunami. «I socialisti?» gli ha detto il re: «Ma tu sei matto, quelli vogliono la repubblica, mi vogliono cacciare a me. E io li chiamo al governo?». «Re, lascia stare le chiacchiere, fai fare a me, a ognuno il suo mestiere, tu fai il Re che la politica la faccio io; me li sistemo bene bene, li faccio entrare, gli do una riforma alla volta e col tempo e con la paglia si maturano le nespole e pure quelli, se li fai campare, diventano cristiani come gli altri» che poi – e lei che ha studiato la storia ne converrà -è esattamente quello che volevano i riformisti. Il re gli ha detto: «Va bene Giolitti, fai come dici tu, sto nelle tue mani». E lui ha preso, è partito, è andato dai socialisti riformisti – dai più importanti: da Bonomi, da Treves, Turati, Modigliani – e gli ha detto: «Venite al governo?». «No, grazie; manco se ci paghi» gli hanno risposto quelli. «Ma siete matti?» gli ha ridetto Giolitti: «Ma allora che state a fare? Ma uno può stare in parlamento, partecipare alle elezioni e poi quando ti dicono vieni al governo, dice no, non ci vengo?». «A Gioli’, non ci possiamo venire, è inutile che insisti.» «Ma che discorsi sono, chi ve lo ha vietato, il dottore?» «No, ma se noi veniamo al governo chi li sente i sindacalisti rivoluzionari? Quelli ci fanno neri.» «Ho capito, ma quelli sono matti per davvero, non ci si può ragionare, vogliono la rivoluzione. Ma che per caso mo’ volete pure voi la rivoluzione?» «Ma manco ai cani, non lo dire nemmeno per scherzo» gli hanno ridetto Treves, Turati e compagnia: «Noi siamo riformisti, mica vogliamo la rivoluzione tutta e subito, noi vogliamo una riforma alla volta, passin passino». «Embe’?» gli ha ridetto Giolitti: «E io che v’ho detto? Venite al governo e facciamo una riforma alla volta, passin passino».
«Gioli’ non insistere! Non possiamo proprio venire. No. Le riforme nostre, se vuoi, fattele tu da solo.» Giolitti da allora in poi non li ha voluti più vedere. Lui era uno così – oggi con te e domani con quell’altro – e non stava a guardare tanto per il sottile amici o nemici. Quando gli serviva un voto in parlamento, se lo pigliava comprandolo dal primo che passava; tale e quale a adesso in fin dei conti, tanto che tutti dicono che è stato lui a inventare il trasformismo. Lei pensi che è stato pure lui a inventarsi il pentitismo e batté la camorra arruolando i camorristi, ha inventato tutto lui e fosse stato per lui, avrebbe inventato anche il centrosinistra. Più di cent’anni fa. Sono stati i riformisti che non hanno voluto e così lui si è inventato la Democrazia cristiana. Cosa fa, ride, non ci crede? Si vada ad informare. Fino a pochi anni prima i cattolici nemmeno votavano, restavano proprio fuori dalla vita politica – non si impicciavano -perché il Papa glielo aveva tassativamente proibito, subito dopo che i bersaglieri erano entrati a cannonate a Porta Pia nel 1870 e Roma era diventata capitale d’Italia. Al Papa la breccia non gli era andata giù: «E come vi siete permessi? Roma è mia, o meglio è di san Pietro, e voi avete fatto peccato mortale a entrarci per levarmela, e quindi scomunico i Savoia e tutto lo Stato italiano; i cristiani di buoni sentimenti non ci debbono avere niente a che spartire. Non possumus, non expedit». Mica era gente che scherzava quella volta. Nel 1905, comunque, il Papa ha cominciato a chiudere un occhio – «Vabbe’ va’, non è più un peccato proprio mortale» – solo perché oramai era pieno dappertutto di socialisti che predicavano il sole dell’avvenire. E allora lui ha detto: «Ahò, fammi dare una mossa pure a me, prima che si faccia troppo tardi». E fu lì difatti, dopo quell’attenuazione di Pio X e dopo il rifiuto dei socialisti a entrare nel governo, che Giolitti si mise a brigare coi cattolici e li convinse a fare un cartello elettorale in cui loro – nei collegi dove non erano sicuri di eleggere un candidato – dicevano alla gente di votare per il candidato
suo. È lì che è nata la Democrazia cristiana e se l’è inventata pure lei il Giolitti. Ma la colpa di tutto era del Turati, dicevano i miei vecchi. Io non le so dire se avessero ragione loro. Certo anche il Turati avrà avuto le ragioni sue, e a vederla dopo tanti anni – e a vedere come è andata a finire la rivoluzione in Urss, con i gulag e tutta quella roba che alla fine sono stati proprio loro a dire «Basta, torniamo indietro, torniamo al capitalismo che si sta meglio; non ci saranno giustizia e uguaglianza, però ci stanno libertà, lavastoviglie e tv-color» – lei dice giustamente: «Vabbe’, aveva ragione il Turati». Però lo dice adesso, bisogna vedere allora. Forse allora – se non ci fossero stati quelli che la rivoluzione l’hanno fatta per davvero come in Russia – i capitalisti non si sarebbero messi paura fino al punto di dire: «Vabbe’, prima che fanno la rivoluzione anche da noi, diamogli qualche riforma». Che ne sappiamo di come andava? Io poi non è che voglia parlare male a tutti i costi del Tu rati. Quelli erano solo i miei vecchi. Per me era una gran brava persona, perché la bonifica stessa delle Paludi Pontine non è del tutto vero che sia solo merito del fascismo: ci aveva già pensato il Filippo Turati insieme a Nitti, nel 1919, dopo la Grande Guerra. C’era un amico suo ingegnere, Omodeo, che voleva costruire laghi artificiali dappertutto per poterci fare le centrali elettriche e un altro – il Serpieri, esperto di bonifiche e agricoltura – che erano legati alla Banca Commerciale. Questi avevano trovato un certo Clerici che voleva fare la bonifica delle Paludi Pontine e s’era già messo d’accordo coi principi Caetani che ne erano i padroni. Turati li appoggiò per fargli ottenere i finanziamenti dallo Stato. Come dice? che sembra quasi che non mi piaccia perché se la faceva con la Banca Commerciale, col Clerici e col principe Caetani? No, io non do giudizi, io racconto solo le storie che mi hanno raccontato e lo so pure io che qualche compromesso con le controparti bisogna pure farlo. Non lo diceva anche Agnelli, di Moggi, che il capo delle scuderie del re deve conoscere tutti i ladri
di cavalli? E se no come fa? Appena volta la testa glieli fregano tutti. Si figuri quindi se mi scandalizzo se quello andava a mangiare a Villa Fogliano insieme al principe Caetani. Che me ne frega a me? A me interessa che voleva far bonificare le paludi. Poi però andò tutto a gambe all’aria, fu “lo scandalo delle Pontine”, come scrissero i giornali. Quelli volevano fare la bonifica coi soldi dello Stato e poi vendersi lotto per lotto al miglior offerente i terreni bonificati. Anzi, già s’erano messi a venderli ancora prima di bonificarli e coi soldi ci si erano comprati i palazzi a Roma. E mazzette a tutti, compresi i giornalisti. Certo non fu colpa del Turati. Fu quel Clerici. Ma anche i principi Caetani ci avrebbero trovato il tornaconto, e l’Omodeo – lo specialista in laghi amico di Turati, che poi andò a farne pure di giganteschi in Unione Sovietica – qui il lago lo voleva fare tra Doganella e Cisterna, a nemmeno cento metri sul livello del mare. Che elettricità ti poteva dare? Dov’era il salto? Anzi, messo lì a sbarrare il Teppia – tutta acqua torbida dei Colli Albani – quanto tempo ci metteva a riempirsi dei detriti vulcanici e poi interrarsi? Un progetto fatto quanto meno male, questo tentativo di bonifica. Piglia i soldi e scappa, come si dice adesso. Comunque nel 1914, ai primi di giugno, c’è stata la settimana rossa. Giolitti non era più presidente del consiglio – lo era Salandra, sempre roba sua però – e mio zio Pericle ha avuto la prima questione con il prete. Noi stavamo a Cavarzere questa volta, e in paese c’era un prete nuovo, giovane, con nuove idee, che voleva quasi mettere in piedi un oratorio e intanto faceva giocare i ragazzi a pallone. Si giocava scalzi a quell’epoca, le scarpe te le mettevi solo a militare o alla prima comunione, e con un paio di scarpe faceva la prima comunione tutta la famiglia. In campagna e per le strade si andava sempre scalzi e quindi scalzi anche a pallone, che era uno di quei palloni di cuoio di una volta, pesantissimi. Se lo pigliavi per bene di dritto con il ditone, poi ti faceva male per una settimana. E questo prete dal pulpito non predicava più – come avevano invece sempre fatto prima gli altri
preti – che ci vuole l’obbedienza, la rassegnazione, e non starsi a ribellare, perché se uno è povero vuol dire che questa è la volontà di Dio; anzi è meglio, perché non conta la vita che si fa quaggiù, che più è grama, dolori e sacrifici, e più il Signore ce ne renderà merito nel regno dei cieli. Quasi quasi è un colpo di fortuna essere poveri. Be’, nonostante non predicasse più così, il prete di Cavarzere non è però che potesse vedere tanto bene la lega rossa e contadina. Il rosso non gli piaceva e stava già brigando per organizzare una lega bianca sua di mutuo soccorso, una lega cattolica di braccianti e contadini che ne rappresentasse gli interessi anche coi padroni. Tale e quale alla nostra quindi, a quella socialista, senza però tutte le violenze e bestemmie contro Dio e la chiesa: «Che bisogno c’è della rivoluzione? C’è la chiesa che vi protegge» ha detto un pomeriggio – proprio durante la settimana rossa – deprecando gli eccessi e le occupazioni di fabbrica, gli scioperi duri contadini e gli assalti a bastonate ai crumiri che volevano andare a mungere le bestie dei padroni. Tenga presente che s’era a giugno e che di lì a poco sarebbe stato pronto il grano, che se non lo mieti quando è l’ora non è che puoi tornarci il mese dopo o ripiantarlo un’altra volta. Il grano si fa una volta l’anno e se perdi il raccolto lo perdi per tutto l’anno. Senza pane rimani. Tutta la nazione. Mio zio Pericle aveva quindici anni allora, non era tanto sviluppato ed era ancora un po’ bassino – un metro e sessanta scarso, va’ – e con i preti non aveva mai bazzicato. Tutta la famiglia, del resto, con i preti era sempre stata solo: «Buongiorno e buonasera». Però con questo fatto del pallone, zio Pericle era già un po’ di tempo che il pomeriggio andava con zio Iseo a tirare quattro calci anche lui di fianco alla chiesa. Fatto sta che erano lì a giocare quando c’è stata questa discussione, e il prete faceva politica e la faceva contro i rossi che volevano la distruzione di tutto secondo lui, erano “nichilisti”. Allora mio zio gli ha detto: «Ma scherzate? Noi facciamo la fame. Non vedete in che condizioni ci tengono i signori?».
E il prete: «Sì, quello che è giusto è giusto, anche la chiesa sta dalla parte dei poveri; però senza le violenze che offendono Dio e non portano a nulla. Noi sì che vogliamo la vera giustizia libertà e progresso, perché Cristo era un lavoratore, non era un ricco, ed è stato proprio lui a dire che è più facile che un cammello attraversi la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». «Ah, ve lo siete ricordato presto però» ha detto mio zio Pericle. Ma quello manco ha sentito, ha continuato con la tiritera sua: «Il pensiero sociale della chiesa! Noi abbiamo fatto appositamente le leghe e le cooperative bianche per combattere le ingiustizie dei ricchi, ma anche la violenza e la sopraffazione dei rossi». «Siòr prevosto» gli ha chiesto allora mio zio, «ma com’è che questo pensiero sociale v’è venuto in mente solo adesso, dopo duemila anni? Se non spuntava il sol dell’avvenire non vi veniva in mente neanche questa volta? Ve lo tenevate nascosto per altri duemila anni? Andè in malora siòr prevosto, a vàltri v’interèsa i schèi, sìo solo corvassi ch’i vola intorno a ‘e carcasse del proletariato.» Parlava come 1’“Avanti!”, certe volte mio zio Pericle. Ma il prete non ha gradito. Anzi, gli ha mollato uno schiaffo. Quello era un adulto e mio zio sembrava ancora un ragazzino. Ma lo schiaffo – che non era forte sia chiaro, ma era sempre uno schiaffo in faccia davanti a tutti – gli ha fatto andare il sangue alla testa. E quello non aveva finito di mollarlo, lo schiaffo, che mio zio aveva tirato fuori già aperto il coltello, era saltato addosso al prete sbattendolo sbalordito con le spalle al muro e adesso gli brandiva da sotto – da sotto e con la mano alzata e tesa, perché era ancora Piccolino – premendogliela minacciosa al collo, la punta del coltello: «Non stì a farlo un’altra volta». S’è fatto il gelo là in mezzo. Nessuno diceva una parola, neanche il prete, neanche mio zio. Non so quanto tempo è durato, forse secondi, forse di più.
Poi mio zio ha staccato il coltello, lo ha ripiegato, rimesso in tasca e s’è voltato per andarsene. Non stia a fare quella faccia lei, adesso, mio zio non era un delinquente. Il coltello, lei dice? Perché portava il coltello? Ma che ragionamenti sono, non erano mica i tempi di oggi. Allora il coltello lo portavano tutti perché era uno strumento della vita quotidiana, come l’orologio o il telefonino adesso. Lei allora non vedeva nessuno con l’orologio, solo i signori. I poveracci che ci dovevano fare? Mica avevano gli appuntamenti. Il coltello invece sì. Serviva per campare, per ritagliarsi un pezzo di pane in campagna, un pezzetto di formaggio, una mela, intagliare una canna, farsi un bastoncino, uno zufolo, una serpe che trovavi da ammazzare, un rovo, un legaccio. Lì stavi sempre in mezzo alla natura, mica stavi in città sulla metropolitana, e il coltello ti poteva servire in ogni momento, lo tenevano tutti, non solo mio zio. Io però non le voglio dare l’impressione di voler difendere ad ogni costo mio zio. Lì probabilmente ci fu un equivoco. Qualcuno diceva – tanti anni dopo – che il prete non glielo avesse dato con cattiveria quello schiaffo, che era un modo suo abituale con i ragazzi di questa specie di oratorio; ogni tanto gli dava dei ceffoni per scherzare, e comunque allora menavano anche le maestre a scuola, certe botte sulle mani con le bacchette che lei manco se le immagina, e quindi può anche essere che non volesse offendere, è stato mio zio che ha capito male. Ma quello aveva quindici anni, lavorava come un grande, era piccolino ma si sentiva un adulto e la discussione che stava facendo era da adulto e quello schiaffo in faccia – sia che fosse serio, sia che stesse scherzando – non se lo è voluto far dare, che ci possiamo fare? È andata così. E io capisco pure che anche lui – il prete – quando s’è visto sbattere addosso al muro da un ragazzino e piantare il coltello sotto la gola, abbia perso il controllo. Non si sa mai come la va a finire in queste cose, quello magari ti dà davvero una coltellata e ti manda al creatore, e con tutto che tu sei il ministro
di quel creatore e non dovresti quindi avere paura – anzi, vai in paradiso a stare pure meglio – però tutti quanti siamo uomini e un coltello sotto la gola è anche comprensibile che ti metta paura, e oltre alla paura mettici pure la vergogna di averla avuta davanti a tutti. Capisco quindi la reazione, che ci può anche stare e non voglio condannare nessuno, perché così va la vita, lo so anch’io che tu cominci una cosa ma non sai come va a finire, è una reazione a catena, la dialettica degli eventi. Però quando oramai era successo e mio zio s’era già voltato dopo d’avere ripiegato e riposto in tasca il coltello e già aveva fatto un paio di passi per tornarsene a casa sua – «Va in malora ti e il balòn» – non c’era nessun bisogno di gridargli dietro: «Delinquente!». Mio zio s’è rivoltato e con un balzo solo ha rifatto i tre passi e gli è ristato di nuovo addosso, di nuovo a sbatterlo con le spalle al muro della canonica e di nuovo il coltello già fuori di tasca e riaperto sotto la gola. E gli ha intimato: «Tasì! Tacete». E quello ha taciuto e s’è fatto bianco. Zio Pericle s’è rigirato ed è venuto via. Non c’è più andato a giocare a pallone vicino alla chiesa, anzi, non è proprio più andato in chiesa, anche se c’era sempre andato pochino. E una volta che passava di là con un carico di fieno e stava a cassetta con il coltello in mano a intagliare un bastoncino per farne un pupazzetto da regalare a una sorellina e quelli – con cui oramai lui neanche più si salutava -quelli stavano giocando ed evidentemente hanno calciato male e il pallone gli è finito sopra il carro, lui ha pensato che glielo avessero tirato apposta, per sfregio. Il coltello ce lo aveva già in mano – per il pupazzetto della sorellina – e così ha preso il pallone al volo e gli ha dato una spuncicata. Lo ha tagliato. E poi glielo ha ributtato floscio in mezzo al campo: «Zoghè! Giocate». È inutile che insiste però, lo so pure io che il torto è tutto di mio zio e anche sua madre – mia nonna – non ha fatto che ripeterlo tutti i santi giorni per una settimana, dopo che qualcuno era andato a raccontarglielo. Il mondo è pieno
di gente che non si fa i fatti suoi. Tutti stanno lì pronti – appena succede qualcosa di spiacevole – ad andarlo a raccontare ai familiari, per farli stare male pure a loro e mi pare, ma non vorrei giurarci, che sia stato proprio suo fratello. Sì, il fratello più grande di mia nonna, quello che è rimasto da sposare; tale e quale a zio Adelchi, che anche zio Adelchi -quello che lei dice che era una brava persona, il vigile che metteva pace fra tutti – faceva così. Appena succedeva una cosa a un nipote correva di corsa a casa della sorella a raccontarle tutto per filo e per segno. Faceva la spia. E comunque mia nonna – una volta saputo – voleva che zio Pericle andasse a chiedere scusa al prete perché queste cose non si fanno, diceva. Innanzitutto perché era più vecchio e i ragazzi debbono portare rispetto a chi è più vecchio, ma soprattutto perché era un prete: «Un uomo del Signore» diceva, e lei può credere o non credere che ci sia un Signore, ma questi sono uomini dedicati al bene e quindi non si sa mai, diceva mia nonna. Mancargli di rispetto porta male. Prima o poi si paga: «I conti con Dio gà da èser sempre almeno pari». Mio nonno invece non diceva niente. Capirai, se la moglie era arrabbiata col figlio e decideva di starlo a rimproverare tutto il santo giorno, lui che faceva, si metteva in mezzo? A dire cosa? A difenderlo? A parte che stavolta il figlio aveva torto marcio, perché è vero che bisogna avere rispetto di sé e non lasciarsi insultare dal primo che passa, anche se è un signore o come diceva mia nonna “un uomo del Signore”, ma un signore è sempre un signore e anche nel farsi rispettare è bene non scordarselo mai e comunque – prima di tirare fuori un coltello – uno ci deve pensare due volte, no che lo tiri fuori due volte senza averci pensato nemmeno una. Ma a parte il fatto che stavolta il figlio aveva torto, ci doveva solo provare a prenderne le difese. Quella era capace di pigliarsela con lui e sarebbe stata tutta sua la colpa, alla fine: «Te sì tì, te sì tì che stravi i fiòi». Meglio restare zitti. Come dice? che poteva intervenire anche lui a rimproverare il figlio? Sì, peggio ancora. Ma allora non ha capito com’era fatta quella. «Di che ti impicci
tu?» avrebbe detto. E pur di contrariarlo avrebbe cambiato idea lei, e si sarebbe messa a dare ragione al figlio e torto a lui. Meglio farsi i fatti propri quando quella partiva, e mettersi ad aspettare che le passasse. Solo «Monti e Tognetti!» sussurrava ogni tanto sottovoce mio nonno – mentre in stalla col forcone mano mano raccoglieva le merde di vacca dalle lettiere – ogni volta che da dentro, da casa, si sentivano le urla di mia nonna. «Monti e Tognetti!» ripeteva impilando una a una le merde sopra la carriola per portarle in letamaia: «Monti e Tognetti!» ossia i due patrioti fatti giustiziare dal Papa nel 1867 dopo un attentato, mentre Garibaldi e i fratelli Cairoli stavano convergendo su Roma per unirla all’Italia. E se pure è vero che Cristo ha detto porgi l’altra guancia, il Papa Pio IX, invece, a Monti e Tognetti gli fece staccare le teste. Coram populo. Sulla pubblica piazza. Con la ghigliottina. E poi prima di buttarle nella cesta, le ha fatte mostrare con il braccio in alto agli Zuavi schierati, i soldati suoi francesi che teneva lì apposta per sparare agli italiani: «Io so’ re qua a Roma» diceva il Papa, «e guai a chi entra o chi fiata». Pio IX. Non erano passati che poco più di quarant’anni in fin dei conti, il ricordo era ancora vivo, e ogni volta che all’osteria o in qualche discussione usciva una storia di preti, subito mio nonno diceva: «Monti e Tognetti! E mì agò dìto tuto». Comunque la settimana dopo della settimana rossa è scoppiata la Prima guerra mondiale. Noi naturalmente allora non lo sapevamo, non è che dicessimo: «Ahò, è scoppiata la Prima guerra mondiale», questo lo abbiamo saputo dopo. Noi credevamo che fosse una cosa così – «Poi passa» – perché stavamo ancora a pensare alla settimana rossa. Era quella, secondo noi, la cosa importante successa. Era stata una lotta grossa ed entusiasmante, ma a risultati zero: niente rivoluzione e niente riforme o riformismo; sempre bloccati tra il dire e il fare. E così non se n’è parlato più e s’è parlato solo di questa cosa qua più nuova e più importante – la guerra – però non subito. Per un bel po’ di tempo abbiamo continuato a vivere,
lavorare e bestemmiare come se niente fosse, pensando solo ai fatti nostri di qua: i signori, i fittavoli, il terreno, il contratto, la mezzadria, le bestie, il carro, i figli che crescevano, le figlie nuove che arrivavano. E invece è arrivata questa guerra mondiale. Noi però non ci siamo entrati in guerra, siamo rimasti neutrali, e mentre quelli già si scannavano da mesi, in Italia c’era tutto un casino tra chi voleva entrare e chi no (un casino per modo di dire naturalmente, ossia una cosa solo tra quei quattro signori e intellettuali che leggevano i giornali e si occupavano di politica, mentre la maggioranza del popolo faceva la fame e basta). Com’è come non è, mentre i socialisti e le sinistre contestavano la guerra e volevano la pace, i sindacalisti rivoluzionari più arrabbiati – il Rossoni dall’America, il De Ambris, il Corridoni e il Mussolini che era diventato direttore dell’“Avanti!” – sono saltati fuori all’improvviso a dire che bisognava intervenire ed entrare in guerra pure noi; però dalla parte della triplice Intesa, Francia-Russia-Inghilterra, contro Austria e Germania che erano invece gli alleati nostri con cui avevamo tanto di trattati. Ma che cosa vuole che sia la parola alleato o trattato in Italia? E allora hanno ricominciato a prendersi per i capelli con i riformisti che invece non volevano: «Il socialismo è pace, noi aborriamo la guerra». «Ah sì?» gli rifacevano loro: «E perché allora i socialisti tedeschi sono scesi in guerra a fianco al Kaiser per difendersi il welfare loro, sulle spalle di quelli che si apprestano a scannare?». Insomma, un casino peggio di prima. Mio nonno all’inizio non era tanto convinto di questa scelta interventista dei suoi amici: «In guerra si può anche morire» diceva a mia nonna. Ma il Mussolini oramai era partito, s’era dovuto dimettere dall’“Avanti!” perché aveva tutta la direzione del partito contro e s’era fondato un giornale suo, “Il Popolo d’Italia”, che portava però scritto sotto: “Quotidiano socialista”. Non è quindi che fossero diventati un’altra cosa, erano sempre socialisti ma interventisti, e le ragioni le spiegavano sul giornale. Anzi, andavano proprio a
spiegarle in giro e lui, il Mussolini, è venuto pure da noi; o meglio, è venuto ad Adria che stava a otto chilometri e mio nonno da Cavarzere è partito apposta con i figli grandi che erano stati loro a insistere: «‘Ndémo papà?». E lui: «Che casso gò fato a dìrghelo», perché di ritorno dall’osteria – dove insieme all’“Avanti!” oramai si leggeva anche “Il Popolo d’Italia” – gli era scappato: «Ah, viene ad Adria». E loro: «‘Ndémo, ‘ndémo». La questione era semplice: i sindacalisti rivoluzionari dicevano che la settimana rossa era andata male, una settimana di sciopero generale senza nessun risultato. Chi aveva occupato le fabbriche era poi ritornato a lavorarci alle stesse condizioni di prima, nulla di fatto; i riformisti l’avevano chiusa così come era cominciata e la rivoluzione, se non succedeva qualche cos’altro, non si sarebbe più fatta, perché per farla era chiaro che ci voleva la violenza – se no i signori non avrebbero mai mollato – mentre invece i riformisti e tutto il proletariato che andava appresso a loro, la violenza non la volevano, non ne erano capaci, preferivano subire. Questa guerra quindi era proprio quello che ci voleva, una mano santa che avrebbe scatenato tante di quelle tensioni – diceva il compagno Mussolini – che niente sarebbe stato più come prima. Una volta che il proletariato si fosse ritrovato tutto coinvolto sotto le armi, la guerra da mondiale non avrebbe potuto diventare che sociale. In fin dei conti era deflagrata come scontro di interessi – «I schèi» -tra le borghesie capitalistiche dei singoli Paesi europei. Ma poi sul campo non poteva non sfociare in una guerra generale di classe, con il proletariato europeo contro i padroni di tutti i Paesi. Ora non so se è chiara, comunque lui la spiegava così e, le ripeto, non era tanto chiara neanche a mio nonno che poi quel giorno a tavola – s’era invitato Mussolini, aveva fatto tutto da solo «sto screansà», appena li aveva visti aveva detto da lontano: «Ah, Peruzzi! Stavolta vengo» e sembrava fosse lui a farci il piacere – quel giorno a cena mio nonno gli disse: «Ma io non ho capito
perché, tre anni fa, per la guerra di Libia abbiamo fatto un casino che non volevamo farla e tu ci sei andato anche in galera, e adesso invece, per questa qua, se gà da farla. Ma còssa xè sussèsso in questi trì ani, dove xèa ‘a diferensa?». Mussolini stava per rispondere, ma zio Pericle se ne è uscito lui: «Potrei parlare anca mì?». Mio nonno lo ha guardato storto, perché a quei tempi non era come adesso che parlano tutti a tavola e non c’è nessuna differenza tra padre e figlio. Una volta i figli davano del voi ai genitori e nessuno si sarebbe mai sognato non dico di contrariarli, ma neanche di dargli ragione senza il loro permesso; quando all’improvviso ti saltava in testa di parlare a tavola e di interrompere senza autorizzazione, be’, quello era il giorno che t’era venuto anche in testa di alzarti da tavola e andartela a fare da solo una casa per conto tuo. E quindi mio nonno ha stralunato: «Ma che è tutta questa democrazia? E dove andremo a finire?». Ma ancora non aveva fatto in tempo a finire lui, che mia nonna ci aveva messo la sua: «Ma lascialo parlare, il toso». Pure Mussolini intanto – guardando e riguardando mia nonna – faceva segno anche lui di sì: «Sentémo i zòveni». «Sentémo» ha fatto mio nonno, ma non era poi tanto convinto: «Ma tu guarda questo che si impiccia anche sui figli» pensava. «Guardate, papà» ha finalmente potuto dire lo zio Pericle: «Guardate che non è la stessa cosa. Quella là, la Libia, era una guerra d’aggressione ed eravamo noialtri ricchi…». «Noialtri ricchi? E quando mai siamo stati ricchi?» ha fatto mio nonno. «… noialtri ricchi rispetto a loro» ha continuato zio Pericle, «che andavamo addosso ai più poveri di noi. Adesso invece siamo noi poveri che andiamo addosso ai ricchi.»
«El gà capìo tuto» faceva Mussolini rimirandosi lo zio Pericle manco fosse stato Pico della Mirandola. E faceva segno a mio nonno con il muso – e soprattutto a mia nonna con lo sguardo – come a dire: «Mariavèrzine che inteligensa sto fiòlo, complimenti» e mia nonna era tutta contenta. Mio nonno un po’ meno, soprattutto per gli sguardi. La sera poi, quando sono rimasti da soli in camera da letto prima di spegnere il lume e avvicinarsi al marito – quelli facevano tutti i giorni, almeno fin che non sono venuti qua, secondo i miei zii che sentivano la rete cigolare – mia nonna ha detto: «Però, quel Mussolini». «Uhmm» ha digrignato lui: «Non starmene più a parlare te gò dìto, bruta troia». Comunque siamo entrati in guerra. Per noi doveva essere una guerra sociale, ma per convincere la gente ad andarci hanno cominciato a suonare i tamburi e le grancasse della Patria, di Trento e di Trieste. Ora si sa che a furia di parlare la gente si convince, e alla fine ci siamo convinti anche noi di questa patria, anzi, prima non sapevamo neanche cosa fosse – mai sentita nominare – adesso ci sembrava d’averla sempre conosciuta. Tanta altra gente però non ci voleva andare in guerra, non gli fregava niente né della patria e né delle fanfare: «Trento e Trieste? E chi li conosce?» e ci sono stati un sacco di disertori, che poi però quando li pigliavano li mettevano al muro. Anche il fratello di mio nonno e i figli suoi – che stavamo ancora tutti insieme nello stesso casolare ma la roba avevamo cominciato a dividerla, anche se continuavamo a darci una mano e lavoravamo assieme – pure loro erano rimasti coi socialisti riformisti, i pacifisti, e non volevano la guerra. Noi invece stavamo con gli interventisti, con Mussolini, Rossoni e “Il Popolo d’Italia”. Eravamo entrati in rotta di collisione con il partito che era tutto in mano – almeno la dirigenza – ai riformisti. Mussolini lo avevano quasi scacciato e i toni erano oramai agli stracci; già nella direzione nazionale che lo aveva estromesso dall’“Avanti!” gliene avevano dette di tutti colori. Pure
«Venduto». Pure quelli che gli erano sempre stati più vicini, pure la Balabanoff che era stata sua amante e compagna e gli aveva insegnato l’abc del socialismo, ma anche la letteratura e come si sta a tavola secondo galateo. E fu lì che lui – andandosene – vedendo che erano proprio inferociti, gli disse a tutti quanti: «Voi mi odiate perché mi amate ancora». Mio nonno invece diceva a mia nonna: «Non starti a preoccupare per i figli, che i nostri sono giovani, non sono di leva. Cosa vuoi che duri questa guerra?». E invece è durata un sacco, non è finita più, è andata avanti gli anni, coi morti a centinaia di migliaia. Milioni. E milioni di feriti. E gente che andava e che veniva. E alla fine hanno chiamato zio Temistocle. È arrivata la cartolina e lui è partito. E lei non ha fatto un pianto quando è partito, ma si sentiva piangere dentro. Anche mio nonno. Pure lui però, pure zio Temistocle, era un po’ preoccupato – zio Pericle invece era quasi invidioso – e quando finalmente è partito, il nonno gli ha detto sulla strada: «Varda ad tornar sano». «Varda ad tornar» gli ha detto invece mia nonna: «Sano o non sano, varda ad tornar» e quella sera, a letto, ognuno s’è voltato dalla parte sua – «Buonanotte» e basta – a pensare da solo al figlio che andava in guerra. E mia nonna si è fatta il segno della croce e si è messa a pregare come quando da piccolo cadeva ammalato. Poi c’è stata Caporetto come lei saprà, coi tedeschi che hanno rotto il fronte e tutti noi a scappare davanti a loro che avanzavano: chi buttava i fucili, chi abbandonava i cannoni e chi sparava addosso ai propri ufficiali che cercavano di trattenerli. Solo alcuni però degli ufficiali. Alcuni altri si suicidarono, per il disonore. Ma la maggior parte sono scappati per primi, gli alti gradi degli stati maggiori e gli ufficiali di truppa; poi alla fine – quando è stata la fine – la colpa era solo dei soldati, e gli ufficiali si sono salvati tutti, più belli e più tronfi di prima e hanno fatto pure carriera come Badoglio, che fu tra i primi responsabili di Caporetto. I soldati che erano scappati, invece, li hanno
ripresi e fucilati tutti. O meglio, tutti no. I reparti che interi s’erano dati alla fuga – i plotoni, le compagnie, i battaglioni – i carabinieri li mettevano in fila e poi contavano «Uno, due, tre, quattro, cinque: tocca a te», e quello era fatto: «Al muro!». Agli altri gli era andata bene. Decimazione si chiamava. Pure a zio Temistocle a un certo punto era preso il panico a Caporetto, perché la paura è contagiosa. Più vedi gente intorno a te che ha paura, e più ne viene pure a te, è un fatto di rassicurazione, di determinazione nel convincimento. Prima magari pensavi dubbioso: «Chissà se è il caso di avere qualche preoccupazione». Però non lo dicevi – lo tenevi per te – anche per non fare con gli altri la figura di quello che non ha coraggio. Ma appena vedi che hanno paura gli altri, allora subito ti dici: «Ah, ma qui c’è davvero da avere paura» e ti metti le gambe in spalla e via. Tu appresso agli altri e gli altri appresso a te. E così pure zio Temistocle – a vedere i tedeschi che venivano avanti come demoni, e i nostri invece indietreggiare come lepri e buttare i fucili per poter correre più forte – pure lui a un certo punto ha voltato le spalle ed è scappato. Lui però non ha buttato il fucile, non se l’è sentita. «Non si sa mai» ha pensato. E difatti gli è venuto buono dopo, quando ha trovato un gruppetto che diceva: «Dove andate, vigliacchi» e a quelli senza fucile li fucilavano lì sul posto. Ma a lui il “vigliacco” lo aveva smosso nell’orgoglio, e s’è fermato pure lui a opporre resistenza al nemico «Male che va, i me cópa» – e hanno messo in piedi un tentativo di ripiegamento ordinato. È lì che gli hanno poi dato la medaglia di bronzo, anche se lui diceva che gliel’avevano data giusto per far vedere, perché lui non è che abbia fatto atti di particolare eroismo quella volta. Lui lì s’era fermato e basta. Ce ne voleva molto di più a scattare – come aveva fatto tante volte prima, e pure dopo – dalle trincee all’arma bianca, all’assalto, a scannare tedeschi col pugnale. Lì invece – a Caporetto – fu più la gente nostra che scannò, italiani, disertori, e anche a lui toccò stare nei
plotoni d’esecuzione, e ogni volta pensava che era solo per un pelo che non c’era lui, al muro, al posto di quello. Dopo tre anni che si stava in guerra, l’Italia era ridotta allo stremo. E non solo per la fame, i viveri e tutto quanto. Oramai non c’era quasi più gente da mandare in battaglia. E allora, per tirarsi su da Caporetto, hanno dovuto chiamare alle armi anche i ragazzini, le ultime classi, il 1899, la classe di mio zio Pericle, diciotto anni: «Un putìno» diceva mia nonna, «un tosatèo». Era un po’ cresciuto rispetto a prima, ma ancora mica tanto. Mingherlino, magrolino, biondino, aveva solo questi occhi che sembravano elettrici, occhi azzurri che non stavano mai fermi; ti guardava di qua e di là, era tutto scatti e nervoso come un’anguilla. Gli è toccato partire anche lui. E a mio nonno gli si è stretto il cuore: «Va’ in malora alla guerra e a mì che l’ho voluta». Lui invece – zio Pericle – era tutto contento perché chissà quante volte, mentre guidava i buoi in campagna, s’era sognato a occhi aperti le scene di guerra e lui che saltava a sbaragliare il nemico. Dentro di sé, sicuramente, un po’ di paura ce l’aveva, però non la lasciava vedere, faceva il gradasso. È partito contento, allegro – o almeno pareva -coi fratelli e le sorelle ad accompagnarlo fino in fondo allo stradone, fino alla strada grande. Sono andati tutti eccetto zio Adelchi che è rimasto a casa – «Ghe xè da lavorar, qua» – sia i più grandi che i più piccoli, coi più piccoli che strillavano per farsi prendere in braccio o a cavalluccio, sulle spalle, per l’ultima volta. E quando alla fine sulla strada grande è passato uno dei carri che ogni giorno andavano verso Adria e poi a Rovigo, avanti e indietro coi bidoni del latte, zio Pericle ha fatto un segno con la mano e il conducente ha detto: «Salta su». Allora ha dato un bacio uno per uno a fratelli e sorelle, dal più piccolo al più grande, e poi ha abbracciato la madre, mia nonna, e lei ha detto: «Torna a casa figlio, torna sano e salvo» e glielo ha detto con la voce incrinata, non piangeva, però la voce era incrinata, ne aveva due alla guerra adesso e non sapeva più se le preghiere potessero bastare, e sempre con quel pensiero
fisso del prete, che non bisogna mancar loro di rispetto e che prima o poi si paga, certe cose non possono non portare male – «Sto bene io a pregare» – neanche un presentimento ma una certezza, quasi, di sciagure. Lui invece rideva, la abbracciava e rideva: «Non state a preoccuparvi mamma, vado là, vinco la guerra e torno». Ma forse faceva solo finta di ridere. Poi ha abbracciato il nonno per ultimo, mentre il carrettiere insisteva: «Salta su, che il cavallo mi perde il passo», e non si sono detti una parola padre e figlio, solo stretti forte, evitando anche di guardarsi negli occhi, tutti e due sapendo già cosa ci fosse scritto. E poi, con un balzo, a eassetta e il carro è partito e lui ha ristrillato alla madre: «Non stì a preocuparve mama, l’erba cativa n’al more mai. Mì al torno vinsitor». E infatti è tornato vincitore. Sono andati lui e quelli come lui – i ragazzi del ‘99 – e hanno vinto la guerra. Sì lo so che non l’hanno vinta solo loro, c’erano anche gli altri, ma allora si diceva così: «L’hanno vinta i ragazzi del ‘99». Ragazzini di diciotto anni schierati sul Piave e poi all’assalto, sotto le bombe, gli shrapnel, i gas. E si sono fatti grandi così. Quando è tornato in licenza, a Pasqua del ‘18, non eravamo più a Cavarzere, perché col fatto che c’era stata Caporetto e il fronte s’era abbassato fino ad arrivare al Piave, mia nonna aveva voluto che riscendessimo un po’, non sia mai si spaccasse anche sul Piave e il nemico arrivasse all’Adige e noi perdessimo tutto, i raccolti, le bestie va bene i figli in guerra, ma i raccolti e le bestie no. E allora siamo tornati a Codigoro – e certo non era il momento migliore per trattare un contratto, con gente che andava e veniva e masse di sfollati che scendevano giù – e quindi i fratelli di mia nonna hanno preso quello che hanno trovato, una stessa mezzadria dove eravamo già stati, ma a condizioni inferiori però, questa volta: «Tanto oramai a Cavarzere c’eravamo stati anche troppo per i miei gusti» le diceva mio nonno per consolarla. Quando è tornato in licenza a Pasqua che già stavamo di nuovo a Codigoro, zio Pericle aveva sviluppato e all’improvviso era più alto del nonno. Alto e
biondo e le spalle larghe e la muscolatura dura e longilinea – una roccia – con tutte le vene e i nervi che pulsavano in rilievo come di bronzo. Alla fine questa guerra l’abbiamo vinta e finita al 4 di novembre del 1918. A giugno però era nata un’altra femmina e mio nonno non ne poteva più della guerra e di tutti gli stenti, perché anche i viveri erano razionati. Zio Pericle diceva che finalmente era riuscito a sviluppare perché sotto le armi gli davano da mangiare regolare almeno due volte al giorno – che tutti si lamentavano perché era rancio di guerra e a volte arrivava freddo dopo ore di stazionamento in groppa ai muli dentro le marmitte, riparati in un anfratto aspettando che cessasse il fuoco; e quando poi arrivava era tutta colla – però era garantito almeno due o tre volte al giorno e mio zio Pericle non aveva fatto storie: «Quel che non strozza ingrassa», e ci si era oliato i muscoli e ingrossato il petto con il rancio. Ma mio nonno non ne poteva più di tutti gli stenti e di stare a pensare ai figli: «Chissà se tornano». E allora la femmina di giugno l’aveva chiamata Santapace come uno scongiuro – un voto fatto agli dei -e anche il fratello, la femmina che gli era nata il mese dopo anche a lui l’aveva chiamata Santapace Seconda per ribadire il voto, e diceva a mio nonno suo fratello: «Ah, non sei più interventista, eh?». E comunque la guerra è finita e tutto è bene quel che finisce bene. I nostri sono tornati a casa sani e salvi, pure i figli del fratello di mio nonno, e a nessuna famiglia è andata bene come a noi. Tutti hanno avuto qualche lutto. Noi no Prorio fortunati. Noi in quella guerra abbiamo solo ucciso: «Meglio a lori che a nantri» dicevano i miei zii. Però lo dicevano e basta – un modo di dire, uno scongiuro anche questo – e quando in giro per il paese o all’osteria si veniva a sapere di qualcuno che gli era morto il figlio o che gli tornava senza gambe, a reggersi con le stampelle, o senza un occhio, un braccio, ragazzi di vent’anni rovinati per sempre, a mio nonno gli pigliava la pena e non ha più parlato di politica. Dopo di allora non ne ha più parlato e neanche ha più riso come prima. O almeno così diceva mia nonna.
Zio Temistocle è tornato subito, i primi del 1919. Zio Pericle invece se lo sono tenuto un altro anno, lo hanno smobilitato solo nel ‘20. Non è difatti che finita una guerra -pure se l’hai vinta – tu sciogli l’esercito e mandi tutti a casa, se no rimani senza e chi arriva ti si mangia. Tu l’esercito bisogna che te lo tieni in efficienza per ogni e possibile bisogna, e quindi smobiliti mano mano, via via che ti organizzi i rincalzi pure per la pace. Zio Pericle è rimasto quindi militare. Fino a metà del ‘19 è stato acquartierato a Milano. Faceva le manovre, gli addestramenti, gli esercizi di caserma; e poi andava in libera uscita al varietà, al cinema, a spasso, ai bordelli: «Questa sì che è vita» faceva lui, che aveva visto solo, si può dire, Cavarzere e Codigoro fino allora, e campi di battaglia. E gira che ti rigira, in giro per Milano ha incontrato il Rossoni. Lo aveva già visto un’altra volta a dire il vero, durante la guerra, nelle retrovie, poco prima dell’avanzata finale dalle parti di Arcade. Aveva visto questo ufficiale con un quadernetto e una matita in mano che prendeva appunti in mezzo a certe ambulanze – era addetto agli organi di propaganda, servizi di informazione e stampa – e aveva detto agli amici «Ma io quello lo conosco» e poi subito urlato: «Rossoni!». Questo s’è voltato, piccato che un soldatino qualunque lo chiamasse “Rossoni” senza grado, come fosse suo fratello. Va bene che era socialista e sindacalista rivoluzionario, ma il grado è grado e oramai era cambiato tutto, eravamo in guerra, la patria è patria e un ufficiale è un ufficiale. E quindi lo ha guardato storto come a dire: «E come ti permetti? Chi ti conosce?» anche perché – diciamo la verità -lui zio Pericle lo aveva visto ragazzino nel 1908 che aveva solo nove anni, come faceva a ricordarselo? Zio Pericle invece era proprio da quando aveva nove anni – ma anche prima, da quando ne aveva sei che il padre c’era stato in galera assieme – che teneva sempre fisso questo Rossoni in mente come fosse stato Nostrosignore Gesucristo. A lui chissà che gli pareva. E per questo ha strillato «Rossoni» come a dire:
«Guarda qua! Sono soldato anch’io e sono soldato per te». E quando quello invece non lo ha riconosciuto – anzi, s’è pure un po’ incazzato – mio zio s’è perso d’animo e c’è rimasto male. Però oramai ci stava e quindi ha continuato, tentando di salvare capra e cavoli: «Scusate, signor capitano» e s’è messo sull’attenti, «ma io sarei il Pericle, il figlio del Peruzzi, non so se vi ricordate». «Ah!» ha fatto allora il Rossoni e lo ha abbracciato: «E come non mi ricordo? Sono stato in galera con tuo padre» e hanno parlato un po’. Ma poi si sono dovuti lasciare perché il reparto di mio zio aveva ricominciato a muoversi e lui, il Rossoni, gli ha dato un pacchetto di sigarette e anche dei soldi – «Pagaci una bevuta ai tuoi compagni» – perché zio Pericle a tutti andava ripetendo: «Questo è il Rossoni, un grand’uomo, mio padre c’è stato in galera assieme». Nel 1919 a guerra finita lo ha rincontrato in giro per Milano e questa volta è stato il Rossoni a vedere lui: «Peruzzi!». Mio zio stava con gli amici suoi appena usciti dal casino e se la ridevano tra loro sul marciapiede in una di quelle viuzze intorno a piazza Duomo, raccontandosi smargiassate sull’avvenuta consumazione. Il Rossoni stava dall’altra parte della strada, in borghese, oramai già smobilitato e rientrato a tempo pieno nella politica. Lo zio Pericle aveva scritto pure a casa, quella volta della guerra: “Ho visto il Rossoni che vi saluta caramente a tutti quanti”, ma noi erano tanti anni che non lo
vedevamo, dal 1908 appunto, più di dieci. Lui era stato in giro per il mondo inseguito sempre da mandati di cattura. Poi però, appena l’Italia è entrata in guerra e soprattutto appena gli hanno tolto le condanne penali, è tornato indietro e s’è arruolato volontario come tutti gli altri sindacalisti rivoluzionari, dal Mussolini al Corridoni, che poi morì in battaglia e non è più tornato. Al Rossoni è andata meglio e adesso era borghese congedato in giro per Milano, a organizzare nuovi casini e nuovi confabulamenti.
Rossoni – sempre attento ovunque si trovasse a guardarsi attorno come un braccato – a un certo punto aveva visto dall’altra parte della strada quel gruppo di soldati schiamazzanti e in mezzo a loro mio zio Pericle. «Va’ il Peruzzi», e lo aveva chiamato. Mio zio non lo aveva visto questa volta, non lo aveva notato. Loro a dire il vero era già un po’ che in giro per Milano – in libera uscita – non si curavano dei borghesi, anzi, li evitavano quasi e cercavano di stare solo fra di loro: «Meglio non averci a che fare». Non è difatti che la gente fosse tutta contenta e li portasse in trionfo. Anzi, gli sputavano dietro. Innanzitutto perché era ancora pieno – in giro – di gente pacifista che in guerra non ci sarebbe proprio voluta entrare e che adesso si ritrovava pure coi figli e parenti morti, senza parlare di quelli invalidi o mutilati. Il fatto vero però è che dopo la guerra la gente non è stata per niente meglio di prima, di quando cioè la guerra ancora divampava. Non è che ci fosse più lavoro, più gioia, più prosperità. Anzi, prima le fabbriche giravano a pieno regime per produrre armamenti, ma adesso con la pace c’era la recessione, le fabbriche chiudevano e invece di stare meglio stavi peggio. E poi era cambiato tutto. Chi prima della guerra aveva avuto un suo traffichetto, adesso gli era andato a gambe all’aria e magari vedeva che il vicino di casa che non aveva mai lavorato prima ed era sempre campato di imbrogli, con i traffici della guerra si era arricchito; i “pescecani” li chiamavano. E poi tutto un giro di storpi e di sciancati, di gente da dovergli dare per sempre da mangiare. «E per che cosa?» si chiedevano tutti: «Per Trento e per Trieste?». E la colpa la davano ai soldati. Non se la pigliavano col re o coi politici, se la pigliavano proprio coi soldati. Forse è la divisa. Forse ne avevano viste tante di divise in giro, fino allora, che oramai s’erano stufati e appena ne vedevano una cominciavano a insultare – pure ad aggredire – specie se eri solo o isolato. I ragazzini ti tiravano i sassi appresso: era colpa dei militari se c’era stata la guerra ed
erano colpa dei militari tutti i guai e la fame che stavi passando. Anche perché, lei lo saprà, non è che finita la guerra noi siamo stati tanto contenti. Tutti subito a strillare: «La vittoria tradita!» perché ci hanno dato solo Trento, Trieste e l’Istria. Chissà che ci aspettavamo. Tanto che poi D’Annunzio è partito da solo – o meglio, coi suoi legionari – per andarsi a prendere Fiume contro il trattato di pace. Il suo ideologo a Fiume fu proprio l’Alceste De Ambris, che fece la Carta del Carnaro, i consigli di fabbrica, i soviet, i comitati di gestione e il corporativismo. Fiume sembrava quasi la Russia leninista e quella roba lì – il corporativismo eccetera – passò tutta intera poi nel fascismo. Anzi, per il fascismo Fiume fu una specie di prova generale, anche se poi lui invece – l’Alceste De Ambris che era stato il padre spirituale di tutti loro, dal Rossoni al Mussolini – quando si fu alle strette se ne andò dall’altra parte e nel 1927 si mise a capo della Concentrazione antifascista. «Chissà come è andata davvero quella volta» diceva mio nonno: «Quelli magari non si sono messi d’accordo solo su chi doveva comandare». Comunque la gente era incazzata: «Tutti quei morti sprecati e la vittoria pure tradita», perché pareva oltre tutto che l’avessimo vinta solo noi quella guerra. Sa, a chiacchierare la gente in Italia ha sempre fatto presto: avevamo fatto tutto noi – Inghilterra e Francia niente – e poi s’erano presi tutto loro. E la colpa era dei soldati. Soldati che naturalmente erano incazzati da matti pure loro, perché erano stati fino a ieri sui campi di battaglia a giocarsi la pelle e a vedere i meglio amici morire, pensando solo: «Va be’, ma poi quando è finita ci ricompenseranno». Infatti in tutti quegli anni la gente dentro le trincee – in mezzo ai morti e le membra dei feriti – non ce l’hai tenuta solo con le chiacchiere sui sacri destini della patria. A un certo punto – per tenerli ancora lì, col fucile in mano – a tutti questi poveracci avevi promesso che finita la guerra e battuto il nemico, gli davi le terre: «La terra ai contadini». È solo per questo che sono rimasti lì a morire per te. Per la promessa. E invece una
volta finita non solo non gli hai dato la terra – «Ma quando mai te l’ho promessa?» – ma gli hai detto pure che era colpa loro: «Maladéti soldà». Per cui veda un po’ lei se mio zio Pericle – in giro coi suoi amici per Milano durante la libera uscita subito dopo essersi sfogati per bene al casino – si metteva a guardare i civili che passavano. Ma appena s’è sentito chiamare forte – «Peruzzi!» – s’è voltato e contento lo ha riconosciuto: «Siòr capitano!». «Ma quale capitano, vieni qua, sono il Rossoni.» «Ah» ha fatto mio zio come per dire «Deciditi», e gli è andato incontro e si sono abbracciati. «Come sta tuo padre?» e tutta questa roba qua e poi – salutandosi prima di andare via ognun per la sua strada – il Rossoni ha detto: «Domani ti aspetto a piazza San Sepolcro. Anzi» e s’è rivolto agli amici di mio zio, «venite anche voialtri». E il giorno dopo mio zio Pericle è andato a piazza San Sepolcro a Milano ed era il 23 marzo 1919 e c’era pure il Mussolini e un altro po’ di bella gente, e tutti insieme hanno fondato il fascio. E c’era pure mio zio Pericle, e a lui il programma che aveva illustrato il Mussolini piaceva proprio perché difendeva l’onore dei soldati, e la patria era ora che cominciasse ad essere riconoscente e soprattutto a dare la terra ai contadini, perché erano i contadini che la lavoravano e che avevano vinto la guerra. «Visto?» gli aveva detto il Rossoni alla fine della riunione mentre venivano via da piazza San Sepolcro: «Noi siamo sempre quelli di una volta». Il Mussolini però lo ha visto da lontano, o meglio, anche da vicino ma era troppo attorniato da gente concitata, tutti con le insegne e decorazioni, anche sui paltò civili, e pure lui oramai – il Mussolini – si muoveva come uno che ha da fare, uno che la sa lunga e che smuove fili grossi. A mio zio è mancato il coraggio di dirgli sono il Peruzzi. «Che vuoi che gliene freghi oramai dei Peruzzi?» ha pensato: «L’importante è che faccia gli interessi nostri» e così è diventato fascista. Anzi, lo ha fatto lui il fascismo. O meglio, c’era pure lui quando lo hanno fatto.
Lui però faceva il militare a Milano, non è che stesse a casa sua e potesse andare e venire come voleva. Stava agli ordini, usciva quando lo lasciavano uscire e quindi non è che abbia fatto chissacché per il fascismo in quel periodo; andava quando poteva e ascoltava un po’ di chiacchiere, punto e basta. Una volta sola partecipò a una cosa per difendersi da una colonna di rossi. Con i socialisti difatti non avevano più niente da spartire. Nemici oramai – noi di qua e loro di là – perché loro erano stati contro la guerra e adesso erano contro i soldati e continuavano a fare quello che avevano sempre fatto: chiacchiere cioè, e pochi fatti, o almeno così dicevano i miei. E se loro erano rossi, noi per contrasto dovevamo essere neri, anche se non è che stessimo con la borghesia capitalista e loro invece con il proletariato. Mica stavamo con classi diverse, almeno all’inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo semplicemente concorrenti nella stessa classe di popolo lavoratore e si trattava solo di vedere chi è che comandava. È per questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si sono divisi. La gente non si odia mai con un nemico storico come si odia poi con i fratelli. Romolo e Remo. Caino e Abele. E comunque quella volta alla metà d’aprile un corteo di rossi si stava avvicinando a via Paolo da Cannobio, dove c’era la sede del “Popolo d’Italia”. Questa sede la chiamavano “il covo” e c’era oramai pericolo che la assalissero. Mio zio era passato di lì per caso con gli amici, prima di andare al casino; ma visto questo qua -di casino – sono usciti fuori insieme agli altri e hanno fatto a botte con i rossi. Coi bastoni, i manganelli. Ma c’era anche gente che sparava – rivoltellate da una parte e dall’altra – e dopo che quelli se ne sono andati, i nostri sono andati loro alla sede dell’“Avanti!” e l’hanno devastata. Mio zio e gli amici suoi sono rientrati in caserma con le divise in disordine e quelli hanno capito, perché intanto s’era saputo per tutta Milano e tutti dicevano che nell’assalto all’“Avanti!” ci fossero anche dei soldati. Ma i comandi hanno fatto finta di niente. Il tenente ha detto solo: «Stì in campana,
nol fasì più», ma in pratica erano contenti, perché i fascisti stavano dalla parte dei soldati che avevano combattuto, ed erano essi stessi ex combattenti mentre quegli altri, i rossi, erano contro. E così hanno chiuso un occhio e però hanno detto «Basta» e mio zio Pericle lo hanno trasferito. Lo hanno aggregato a un reparto del genio a Roma, che provvedeva all’acquisto dei cavalli per l’esercito. L’esercito si muoveva ancora quasi tutto sui muli e sui cavalli, anche l’artiglieria e tutte le altre armi, pure le ambulanze della sanità. A lui toccava venire avanti e indietro a Cisterna di Roma a prendere i cavalli. Li caricavano a spinta sui vagoni dei treni, e lui ci sapeva fare, essendo figlio di carrettiere. Li spedivano in giro per tutta Italia, dove servivano ai vari reparti, e certe volte li accompagnavano pure, a turno, dormendo con loro dentro i vagoni, sdraiati sul fieno e sulla paglia, e gli davano da mangiare quando serviva e ogni tanto, alle stazioni di passaggio, gli davano da bere riempiendogli d’acqua gli abbeveratoi, e li calmavano pure quando – per le scosse del treno o pei passaggi sugli scambi – qualche cavallo prendeva paura e s’imbizzarriva, cominciando a scalciare. «Stà bòn, caro, stà bòn» li rassicuravano, tenen doli per il morso. Ma certe volte gli davano anche sul muso con i pugni o bastonate ai fianchi, perché quando ci vuole ci vuole e se non bastano le buone, certe volte occorrono le cattive, come diceva sempre anche mia nonna. E così fino a metà del 1920, primavera inoltrata, quando lo hanno congedato e zio Pericle è tornato a casa: «È finita la bella vita» pensava mezzo triste lui, «però pure la buriana; adesso si torna a casa e si ricomincia in campagna uguale a prima». Lui in fin dei conti col fascio aveva avuto a che fare solo per via del Rossoni. Sì, era andato qualche volta al “covo” di via Paolo da Cannobio ed era andato pure ad assalire l’“Avanti!”, ma solo perché erano venuti prima loro al “Popolo d’Italia” e per fare un piacere al Rossoni – che era amico di famiglia – e soprattutto perché non aveva nient’altro da fare, povero soldatino in giro per Milano. Dov’è che andavi? Non è che potevi parlare con qualcuno o attaccare
briga con una servetta. Nessuno ti stava a sentire. Sempre tra loro – tra soldati – dovevano restare. E una volta andati al cinema, un’altra a puttane anche se con la tariffa ridotta per i militari, i soldi della decade finivano subito e poi davvero non sapevi più dove andare. Così andavano al fascio. Era un diversivo. Passavano il tempo. E quando poi lo hanno mandato a Cisterna è stato pure più contento. Aveva a che fare coi cavalli, stava all’aria aperta e il tempo passava in fretta. Le poche volte che rientravano a Roma, i soldi delle decadi accumulate gli bastavano per stare sempre dentro al casino. Così a Roma, in cerca del fascio, non c’era mai andato. Solo a puttane. Del resto il fascio non è che sembrasse avere preso piede. Lì per lì sì – in giro per Milano – con tutti i signori e i bottegai che dicevano: «Ah, finalmente c’è questo fascio che mette un po’ di ordine, non se ne può più dell’anarchia dei rossi; sempre scioperi, sempre confusione». Però anche a Roma e a Cisterna s’era venuto a sapere subito del fallimento del 16 di novembre 1919, quando il fascio s’era presentato alle elezioni a Milano, e s’era presentato solo a Milano per fare proprio bella figura. Tutti avevano insistito, anche il Rossoni: «Ma perché solo a Milano? Presentiamoci dappertutto». Ma il Mussolini no: «Dalle altre parti non siamo forti, non siamo neanche conosciuti e se prendiamo pochi voti, poi la gente dice e che è, il partito dei pensionati? e quando mi ci mischio? E così li perdiamo per sempre. È meglio che ci presentiamo qui a Milano e basta che seìmo forti e fémo un bòn risultà, una sporta di deputati e dalle altre parti, dove ancora non ci conoscono, la gente dopo dice pure lì: Guarda questi, ma alora i xè forti; nantra volta i voto anca mì». Solo che – come lei sa – anche a Milano quel 16 di novembre del 1919 non presero lo straccio di un voto. Una figura barbina. Tutti quei signori e bottegai che avevano detto «Ah, io vi voto», non li ha più votati nessuno. Hanno votato per i liberali di Giolitti, per i popolar-democristiani e naturalmente per i socialisti. Per i fascisti nessuno. Neanche un eletto. E i socialisti andavano in
giro per Milano con una cassa da morto in spalla dicendo che era Benito Mussolini. Anzi, fecero pure un manifesto e scrissero sull“‘Avanti!” che era stato ritrovato il cadavere di uno che si era andato ad affogare in Naviglio e che risultava essere proprio il compianto Benito Mussolini. Sembrava andata quindi, finita: «Se non hanno sfondato a Milano che erano forti» diceva la gente, «quando vuoi che risfondano più? È stato un fuoco di paglia». Anche mio zio quindi, mentre portava cavalli su e giù da Cisterna, non ci pensava più al fascio e ci aveva messo una pietra sopra: «Mi dispiace per loro, poveretti, ma a questo punto alla politica ci penserà il Giolitti e io penso alle puttane». In fin dei conti aveva vent’anni, che gliene doveva giustamente fregare a lui? Le puttane sì che erano un bel gioco, ed erano un gioco che aveva scoperto da poco, non come la politica che l’aveva masticata da bambino e senza tanto costrutto oltretutto, sia lui che la sua famiglia, sempre dalla parte di quelli che perdevano. Così zio Pericle è tornato a casa felice e contento, e non gli pareva vero di poter riprendere tranquillo la sua vita in mezzo ai campi e alle sue bestie: «Qualche puttana si troverà anche dalle parti nostre». E invece a casa s’è dovuto rimettere pure lui per forza in mezzo alla politica. Lì difatti, a Codigoro, non è che le cose andassero meglio che nel resto del Paese, s’era incasinato tutto pure là. Mio nonno, come le ho detto, di politica aveva sempre parlato. Uno che una volta – da giovane – è stato in galera per la politica e non per avere rubato, poi non ne sta a parlare per tutta la vita dentro la sua osteria? E che c’è stato a fare allora in galera? Poi è chiaro che a sentirne parlare il padre, ne parlano pure i figli. Anzi, a questi fin da ragazzini non gli pare vero che arrivi l’ora di andare in galera anche loro. Prima, però, mio nonno e i figli suoi parlavano di politica all’osteria insieme a tutti gli amici e compagni loro, perché era tutto il paese che la pensava così, contro i ricchi e contro i signori. Il nemico non c’era – per così dire – quando
ne parlavano male, perché tutti lì erano amici e compagni loro. Tutti rossi, socialisti, poveri e morti di fame. Adesso invece le cose erano cambiate. Erano sempre tutti poveri e morti di fame, ma per il resto addio. C’era qualcuno con cui non ci si parlava più già dai tempi dell’interventismo. E tanta altra gente ti guardava un po’ storto, specie quelli a cui i figli erano morti in battaglia. Anche se mio nonno oramai – dopo la guerra – ogni volta che entrava all’osteria diceva subito «Parliamo solo di briscola» e di politica non ha più parlato, questi però pensavano che ne avesse già parlato abbastanza in precedenza, e ogni volta che poi usciva dall’osteria gli dicevano dietro: «Lù ‘l gà volesto la guera e i sò fiòi xè tornà. Mì che n’al vuléa, il mio xè morto», come se fosse stata colpa sua. Anzi, era colpa sua, dovevano morire i suoi di figli, perché quando a uno muore un figlio, poi non sa più cosa dice, gli esce di tutto dalla bocca. Ha voglia lui a dire: «Ma io volevo la guerra per la giustizia sociale, per la rivoluzione, per stare tutti meglio». «A me m’è morto un figlio» dicevano quegli altri. Vagli a rispondere. Adesso poi, nel dopoguerra, le cose erano anche peggiorate. La politica era entrata nei fatti. Il nemico stava all’osteria. I rossi e i socialisti da una parte e i fascisti da quell’altra. Chi ci riuniva più? Noi andavamo a stento d’accordo col fratello di mio nonno e coi figli suoi, che abitavano lì con noi nello stesso cascinale nostro. I campi, le terre, le bestie, gli attrezzi e le scorte erano tutte divise: a te il tuo a me il mio. Ci aiutavamo come prima e se serviva un carro non ci si faceva caso, ognuno prendeva come fosse il suo. Però si sapeva bene d’ogni cosa quale fosse la tua e quale la mia, anche se in stalla, la sera, si stava ancora tutti assieme a raccontare le storie, le favole, e a parlare del più e del meno prima di andare in letto. Ma basta politica. Di politica – per tacito accordo – abbiamo smesso di parlare coi nostri parenti. Loro rossi e noi neri, meglio non parlarne più. Solo, non è che bastasse non parlarne, la politica era nei fatti, e anche se mio zio Pericle avrebbe voluto andare a
puttane e basta quando è tornato, s’è dovuto rimettere subito – come un musso – alla stanga. È tornato che già ci avevano bruciato il pagliaio. Ce ne hanno bruciati due. E una volta il fienile. Però il fienile siamo riusciti a salvarlo. Se ne accorse zia Bìssola – la gemellina -quella che di nome vero faceva Bissolata. Lei era tutta diversa dagli altri. Lei, la notte, se si svegliava che doveva fare pipì, non si ribassava a farla dentro il vaso come tutti i cristiani. I gabinetti in campagna non c’erano mica allora, stavano fuori, vicino alla concimaia. Per la notte c’erano i vasi sotto i letti, vasi di coccio ma più ancora di ferro, bianchi smaltati, magari decorati coi fiori ma tutti un po’ sbrecciati. Mia zia Bìssola no. Lei si schifava fino da piccola a poggiare il culetto dove lo avevano poggiato gli altri – «La prinsipesa del bisèo» diceva zio Adelchi, che non si sono mai potuti prendere – e allora chiamava la sorella: «Modiliana!». La svegliava di notte: «Compàgname fora che gò da pissàr». «Ma pìssa ‘ntel vaso, ch’at vègna un càncher.» «Accompagnami che ho paura» e allora quella che era un angelo s’alzava e la accompagnava anche nelle notti d’inverno, quando fuori c’era il ghiaccio o la neve. Ed è stato così – andando a pisciare di notte fuori per non pisciare nel vaso – che zia Bìssola ha visto la fiamma, il principio di fiamma, di fianco al fienile. Ha strillato ed è corsa subito, ha sentito i passi che scappavano e poi i fratelli che arrivavano, e chi proprio saltava dalle finestre e chi già coi secchi, chi con le coperte e gli scopettoni. E il fienile era salvo. Ma il pagliaio no. Il pagliaio – quando è tornato mio zio Pericle – ce lo avevano già bruciato la prima volta. Deve essere stato un attimo anche lì: dai fuoco e scappi, e mentre tu stai scappando il pagliaio è già di fuoco fino in cima, non ti ci puoi avvicinare, le vampe ti bruciano il viso a cinquanta metri di distanza. Come dice? che può essere stata autocombustione? che può essere che la bambina se li sia immaginati i passi? Ma mi faccia il piacere, quella bambina
aveva dodici anni. Sapeva governare una casa, sapeva fare di taglio e di cucito e le bestie in stalla si mettevano paura appena la sentivano, una biscia le ripeto, una serpe velenosa. E quella si sbagliava? E poi s’è mai vista un’autocombustione di notte? Ce lo hanno bruciato e basta, proprio per fare un dispetto. Come dice ancora? Cosa vuole che sia un pagliaio? non è la fine del mondo? Ma noi eravamo contadini, mica fabbriferrai. A noi la paglia serviva come il pane, era una ricchezza, non è che fosse un prodotto di scarto del frumento e basta. Ci serviva per fare le lettiere delle bestie, ma non per farle stare solo comode e non fargli venire i reumatismi, bensì per lo stabbio, il letame. Quelle facevano i loro bisogni lì sulla paglia, che mischiata alla merda, in concimaia diventava letame, oro per la terra, a cui noi ridavamo nuovo succo – nuova potenza – perché anche lei, col tempo, se no diviene sterile. La paglia è vita per un contadino, e a noi ci avevano già bruciato un pagliaio e tentato di bruciarci un fienile. E menomale che mia nonna lo sapeva che i pagliai sono pericolosi. Lo aveva imparato dai fratelli e lo aveva detto subito a mio nonno carrettiere quando s’erano sposati. E a tutti i figli man mano che nascevano lo ridiceva ogni anno alla trebbiatura, quand’era l’ora di impostare il pagliaio: «Prima si pianta un palo in mezzo, dritto, alto, e poi tutto attorno si fa un cerchio a strati, di paglia, e man mano si sale». Ma il primo cerchio doveva essere fatto bene, con lo strato sempre in piano. Non è che si arriva lì e si butta la paglia col forcone a come viene viene, perché se no il pagliaio viene male e si storce e poi cade; il palo non ce la fa più a reggerlo e prima si piega da una parte e poi viene tutto quanto giù. È per questo che bisogna stenderla bene la paglia col forcone; non buttandocela sopra, ma posandola sempre con strati dello stesso spessore, così il pagliaio cresce pari pari, fino ad arrivare in alto, e gli uomini, da sotto, fanno il passamano usando i carri come piattaforma: una forconata da terra al carro e poi un’altra dal carro alla cima del pagliaio, col forcone ritto e il braccio teso. Il pagliaio arriva in cima –
alto alto – e nei giorni appresso s’abbassa, man mano che col peso si assesta ed espelle l’aria. Se lei lo ha fatto male si assesta storto, e le cade nei giorni seguenti. Ma se lo ha fatto bene le resta ritto in piedi saldo per tutto l’anno, calando poi man mano che lei va a prendere la paglia da portare in stalla fino a metà giugno, quando finendo la paglia finisce il pagliaio e lei non ha più uno stelo da portare alle bestie. Ma ecco che all’improvviso si miete il grano nuovo e poi si trebbia, e sorge un pagliaio nuovo – risorge – per l’anno nuovo che arriva. Be’, ogni anno che alla trebbiatura i miei zii piantavano il palo per impostare il pagliaio, mia nonna strillava sempre: «Più in là, più in là, fatelo più in là», perché lei sapeva e tutti sapevamo che il pagliaio è pericoloso. Può prendere fuoco con un niente – è paglia appunto, peggio della benzina – e in un attimo solo il fuoco lo avvolge per intero. È una vampa sola, altissima, potente. E con un niente s’allarga a tutto quello che c’è intorno. Lei non ha idea di quanta gente che avendogli preso fuoco il pagliaio, gli ha preso fuoco per qualche tizzone anche la casa e la stalla. Tutto in rovina, le bestie e anche i figli, morti dentro le culle bruciati, intrappolati nella casa sotto il tetto. Veda un po’ come dev’essersi sentito zio Pericle quando – tornato a casa – gli hanno detto cos’era successo. «Ma chi xè stà?» ha chiesto solo. «E chi lo sa» gli hanno risposto. Erano venuti quelli della lega contadina – i rossi, i socialisti della camera del lavoro -a dire che ogni mezzadro doveva prendersi la sua quota di braccianti, “imponibile di mano d’opera” lo chiamavano. C’era tanta disoccupazione, tanta fame, e allora quelli avevano detto: «Ogni tot di ettari di terra, ci deve stare un tot di operai a giornata e tutti i mezzadri li debbono assumere». Ora io capisco che detta così può sembrare anche giusta, perché anch’io sono d’accordo con lei che il lavoro – come la ricchezza – andrebbe diviso tra tutti quanti. Ma noi sulla terra nostra non avevamo bisogno di tutti questi operai. Chi li pagava? Va bene che eravamo a mezzadria: il padrone metteva
la terra, noi il lavoro e si divideva il raccolto. Ma anche le spese andavano divise in due: le sementi, le scorte e gli eventuali operai esterni, i braccianti. Anche per questi andavano divise le spese. E chi ce li dava a noi questi soldi? Certo, quando proprio servivano un po’ di braccianti perché il lavoro era troppo o c’era fretta, pure noi li avevamo sempre presi, mica eravamo scemi. Se devi fare un raccolto e il tempo è stretto, mica ci stai a pensare sopra, chiami la gente di fuori e via. Ma un conto è che lo decido io – ovvero mia nonna – quand’è che serve davvero, un altro conto è che arrivi tu e dici: «Da oggi in poi devi mettere a lavorare in campagna Tizio e Caio». E se a me non serve? Ti chiamo a lavorare a te – e ti debbo dare pure i soldi, perché lo dice la lega – e intanto i figli miei li tengo a casa a non fare niente? E che me li sono fatti a fare allora tutti questi figli? Dov’è che li mando a lavorare? Che gli do da mangiare a loro, se lo do a te? Ho capito che bisogna dividere, ma bisogna dividere quello che si ha, non quello che non si ha. «Noi ne abbiamo a sufficienza solo per noi» aveva detto mio zio Temistocle a quelli della lega, dopo essersi consultato al volo – con lo sguardo – con la madre e i fratelli. Zio Temistocle quella volta aveva già due figli per conto suo, anche se stavamo tutti insieme e lui non aveva che ventidue o ventitré anni. La prima volta che era tornato in licenza dalla guerra – nel 1917, che aveva vent’anni – aveva visto per casa questa lavorante che dava una mano a mia nonna. Non che noi fossimo così ricchi da tenere la serva. Certo non stavamo male, lavoro ce n’era tanto, la salute pure, da mangiare tutti i giorni, ma eravamo sempre mezzadri che lavoravano con le braccia loro sulla roba d’altri. Però è vero che c’era tanta gente che stava peggio di noi. Lei non ha idea della miseria che c’era. Gente che non aveva neanche una casa dove andare a dormire, e non in proprietà, ma neanche in affitto, perché non avevano una lira. Facevano una giornata di lavoro quando capitava e poi niente, solo a pescare anguille di frodo dentro i canali e guai se ti pigliavano le guardie campestri perché anche i canali, lì, erano dei signori. Non c’era niente che
non avesse un padrone e a quel padrone gli dava fastidio se andavi a pescare un’anguilla. Pagavano apposta delle guardie per girare tutto il santo giorno su e giù per la roba loro – i campi, i canali, le risaie – con lo schiopppo a tracolla, il berretto e la divisa con lo stemma del padrone e gli stivali alti coi pantaloni alla cavallerizza. E ti sparavano addosso. Mica ti denunciavano e basta. E questa gente che rubava l’anguilla non aveva una casa dove andare. Era pieno di gente così e non solo per la Bassa Padana ma per tutto il Veneto, mi creda. Abitavano tutti insieme – famiglie su famiglie – in certe capanne grosse fatte solo di sterpi e di canne che chiamavano “casoni”, un capannone grosso senza pareti divisorie, con un focolare al centro, e ci stavano maschi e femmine tutti mischiati e gli animali insieme a loro, cani, gatti, maiali, galline. E certi erano anche più poveri e non trovavano posto nemmeno nei casoni, e allora notte per notte, con tutta la famiglia, andavano a dormire nelle stalle di qualcuno che li ospitava, dentro le greppie dove mangiano le bestie. Tutta questa gente è chiaro che stava peggio di noi e allora quando qualcuno ogni tanto diceva a mia nonna: «Tolève sta fiòla, prendetevi questa figlia», mia nonna se la pigliava. Le dava da mangiare, la accudiva, la vestiva e quella – è naturale – lavorava come tutti gli altri, senza paga. E quando poi cresceva e trovava qualcuno che se la prendeva in moglie – qualcun altro disgraziato come lei – quella se ne andava e mia nonna un’altra volta, quando le ridicevano: «Tolève sta fiòla», se ne pigliava una nuova. Poi col tempo – quando s’erano sposate e avevano avuto dei figli – ogni tanto venivano a trovarla, a farle vedere i ragazzini, ed erano già sfatte e sfigurate dalla fame e dalle sofferenze, perché anche i mariti, come i padri loro, non è che gli fosse andata tanto meglio. E così quando ricapitavano da mia nonna dicevano sempre: «Ah, come sono stata bene qui da voialtri! Non fossi mai andata via». E mia nonna, quando poi si salutavano, dava loro sempre un po’ di uova e una gallina.
Insomma zio Temistocle – quando è tornato in licenza dalla guerra – ha trovato questa ragazzona che girava per casa. E come l’ha vista gli è piaciuta. Zio Temistocle, vede, era solo un ragazzo. Alto, robusto pure lui, moro moro come la madre, non biondo come il padre. La fronte altissima, spaziosa, e gli occhi grandi, neri. Era un tipo tranquillo, riservato, non era uomo di grandi chiacchiere, stava a sentire; non aveva bisogno di dire la sua e quando proprio la doveva dire, la diceva con poche parole, preciso, asciutto, ma senza mai un ripensamento. A chi non lo conosceva bene poteva sembrare scontroso, ma non era così, era riservato e basta, non aveva niente da dimostrare, non è che andasse in cerca di far vedere chissà cosa, lui lo sapeva quanto valeva e gli bastava di saperlo lui. Vede, lui era il primo figlio e i primi figli lo sanno che la madre li ama, proprio perché sono stati i primi. Ogni cosa – un vagito, una pipì, la prima parola – per lei è la prima volta, e ogni volta è un’emozione nuova e il bambino lo capisce, lo vede. È al secondo invece che lei non fa quasi una piega, perché già lo ha visto fare – è imparata – anzi, a buon bisogno ha pure le faccende da sbrigare, non è che può stare a perdere tempo appresso a lui per ogni fesseria che fa. E allora tu hai voglia a fare fesserie; ne fai sempre di più, t’arrampichi sopra agli specchi per farti vedere da lei, perché ti faccia finalmente un sorriso, s’accorga di te e alla fin fine ti voglia un po’ bene pure a te. È così, è la vita: «C’è chi ce l’ha d’oro» diceva una puttana a mio zio Pericle a Roma. Non era tanto bella – o almeno non era appariscente – non era tanto richiesta, anche se poi a lavorare era meglio delle altre e per questo mio zio Pericle era cliente affezionato. Ce ne era invece un’altra un po’ più bella ma sciantosa, si dava le arie, faceva le smorfie e la padrona la riveriva e a ogni capriccio si inchinava; più le rispondeva male e più lei le sorrideva, mentre a quest’altra invece – la puttana di mio zio Pericle che non era così bella però lavorava bene, resuscitava i morti diceva lui – più si dava da fare e le rassettava anche le camere come una serva, e più quella la maltrattava e
comandava: «Vai a vedere se Mimì ha bisogno di qualche cosa». E così a questa sconsolata non restava che consolarsi con mio zio Pericle: «C’è chi ce l’ha d’oro e chi ce l’ha di latta a questo mondo». «Eh sì, non c’è niente da fare» assentiva lui, e si rimetteva a cavallo un’altra volta. Ma il bello è che i primi figli neanche se ne accorgono. Sono loro a essere gelosi dei secondi, sono loro a dire alla madre: «Tu fai le differenze, a lui gli dai di più», a quel povero disgraziato che già si arrampica sui vetri. Aveva ragione quella puttana di mio zio Pericle perché anche loro – i primi figli – non è che lo facciano apposta, sono proprio convinti. Loro – poveracci – quando sono venuti al mondo la madre era tutta per loro. Poi è arrivato questo qua – il secondo – e la madre s’è dovuta distrarre, distogliere da loro anche per poco, per poter dare un tantinello pure a lui; una briciola rispetto a ciò che ha dato al primo. Ma quello – il primo – anche la briciola che danno al secondo l’hanno tolta a lui: «Tu fai le differenze». Comunque non era questo il caso di mio zio Temistocle, che è sempre andato d’accordo con tutti i fratelli; poche chiacchiere ma d’accordo, anche se non è mai stato lì a far giocare i più piccoli o a farli saltare sulle ginocchia. Ma neanche i figli suoi del resto. Aveva da lavorare e i figli li guardava e basta, con quel suo sguardo che tu non capivi mai se fosse allegro o arrabbiato. Era riservato mio zio Temistocle e anche al casino con le puttane – da militare sotto la guerra – lui non c’era mai andato. Gli altri partendo dicevano anche a lui: «Vieni?». Ma lui: «No». «Ma domani possiamo morire.» «E moriremo» diceva zio Temistocle. E quando però è tornato a casa in licenza e ha visto questa bella tosa che gli ha fatto un sorriso, lui glielo ha rifatto e sono andati avanti così – per tutta la licenza – senza neanche dirsi una parola o quasi. Solo l’ultima sera – che lui poi l’indomani doveva ripartire e chissà se ritornava – mentre lei portava in tavola il mangiare non faceva
che guardarla. Lei girava e rigirava con gli occhi sempre bassi per tutta la cucina e intorno al tavolo, poiché le donne – anche quelle di famiglia – mangiavano dopo o in piedi come mia nonna. A tavola stavano soltanto i maschi e a capotavola c’era sempre mio nonno. A lui mia nonna porgeva il primo piatto e suo era il primo boccone. Nessuno cominciava prima che lo avesse fatto lui. E subito a ruota sua i fratelli più grandi, da zio Temistocle che gli sedeva a destra a zio Pericle a sinistra, e poi via di seguito gli altri, Iseo, Adelchi e tutti quanti e in fondo i piccoli – mischiati maschi e femmine – e i lattanti per terra ginocchioni, a rincorrersi sotto i tavoli e contendere i bocconi al cane e ai gatti. Solo alla fine si sedevano le femmine, quando avevano finito i maschi e mio nonno s’era già acceso il sigaro e i fratelli, da zio Temistocle a Pericle, avevano cominciato ad arrotolare le cartine col trinciato. E mia nonna appoggiata alla madia o al lavello, a mangiare in piedi sovrintendendo ai traffici con tutti i movimenti sotto gli occhi. Quella comunque – che sarebbe poi diventata mia zia Clelia – mentre portava in tavola il mangiare continuava a tenere gli occhi bassi. Solo per un attimo a un certo punto li ha alzati, e zio Temistocle le ha fatto un segno – solo con gli occhi, tale e quale alla madre – e con gli occhi ha guardato oltre la parete, verso il fienile, e lei è arrossita e ha riabbassato il suo sguardo. Ma ha fatto segno di capire e di obbedire, e quando tutti sono andati a letto e spenti i lumi, loro sono sgattaiolati fuori e corsi nel fienile senza dirsi neanche una parola, solamente: «Non starebbe bene però» mormorato da lei, «prima che mi sposo». «Ma io chissà se muoio» ha detto lui, e poi più niente per tutta la notte. E quando la notte stava oramai per finire e già si vedeva qualche chiarore venire su dalle parti del mare, lui è andato in camera della madre e l’ha svegliata: «Ho preso una decisione mamma, ho preso moglie».
Mia nonna si è messa a strillare. Non voleva: «Sìto mato?», perché era peggio di noi. «Viene dai casoni» diceva mia nonna: «Non si sa neanche chi sia suo padre. Non sa nemmeno leggere e scrivere». «Ma perché mamma, mio padre da dov’è che viene?» e intanto s’era svegliato anche lui, mio nonno. E quando il figlio ha ricordato da dov’è che venisse, allora mio nonno ha fatto una faccia come per dire: «Eh! Da dove xè che vègno anca mì?», ma senza dire niente, solo la faccia, perché se no quella diventava una bestia. E comunque è diventata una bestia già solo a immaginare la faccia dietro le sue spalle, mentre lei fronteggiava il figlio, e allora ha detto: «Ma io la caccio, la caccio subito domani. In mezzo alla strada la butto. Non tèa fasso più trovar». «E mì av cópo» le ha sibilato zio Temistocle a voce bassa, e hanno sentito sì e no loro due. Neanche mio nonno ha sentito niente. Ha visto solo gli occhi cattivi del figlio e indovinato che avesse detto qualcosa di brutto. Ma non ha capito. Non ha inteso le parole. «Ma cos’è che ha detto?» ha chiesto. «Niente, niente» ha fatto mia nonna, e se l’è tenuta. E lui il giorno dopo è ripartito, è ritornato in guerra a scannare todeschi all’arma bianca, di notte, col coltello quand’era in pattuglia, perché era negli arditi. È tornato a scannare per non farsi scannare – mors tua eccetera – e la prima licenza gliel’hanno data dopo nove mesi precisi, che il bambino era appena nato e gli hanno messo nome Paride, sa, quello dell’antica Grecia che era il più bello degli uomini e le dee dell’Olimpo erano tutte innamorate e per colpa sua scoppiò la guerra di Troia con tutto il casino che ne conseguì. Eppure in Altitalia – dalle parti nostre – la gente metteva nome ai figli “Paride” convinta che portasse fortuna. Anche i miei zii. E fin da piccolo è sempre stato bello, forte, buono, giusto, generoso e audace. Ma poi s’è vista la fortuna che ci ha portato. Tale e quale a Troia.
Però questo non si sapeva ancora, quando mio zio Temistocle è tornato in licenza la seconda volta a primavera del 1918 e s’è ritrovato il figlioletto. Era tutto contento e sono andati a sposarsi, lui e la sposa radiosa. Radiosa perché s’era sistemata diceva mia nonna, non le poteva parere vero da serva d’essere diventata padrona, quando se lo sarebbe mai aspettato che dai casoni e dalle stalle si sarebbe ritrovata mezzadra? Sposa d’amore radiosa, pensava invece mio zio Temistocle, ma anche tutti gli altri al vederla davanti al prete col suo sposo e il bambino in braccio. Battesimo e sposalizio in una volta sola. E mio nonno voleva tenerlo solo lui quel ragazzino in braccio e c’erano tutti i fratelli e le sorelle, grandi e piccoli. Solo zio Pericle mancava perché alla guerra. Ma anche mia nonna però. Lei non era potuta venire in chiesa perché stava male, diceva. Le dava fastidio la gravidanza nuova, le pesava il pancione. «Delle fitte!» diceva: «Agò ‘e fìte» che lei le fitte non le ha mai avute di nessuna gravidanza. Solo quella le ha dato fastidio, e dopo un paio di mesi è nata la zia Santapace, quella che mio nonno si era stancato della guerra ed era più grande d’età il nipote della zia, anche se di due mesi soli, e hanno giocato e sono cresciuti insieme come gemelli pure loro, tali e quali a Modigliana e Bissolata. Uniti per la pelle per tutta la vita. Comunque quelli della lega hanno detto a mio zio Temistocle che dovevamo prendere per forza pure noi un certo numero di braccianti perché eravamo mezzadri – mezzadri ricchi e fascisti – e mio zio gli ha detto: «Ma quala mesadri e còssa conta fasisti, noi siamo povera gente e se prendo i vostri dov’è che andiamo dopo a lavorare noi, nell’imponibile di sant’Antonio? Andè in malora». Quelli se ne sono andati e qualche sera dopo ha preso fuoco il pagliaio e se non era per zia Bìssola prendeva fuoco anche il fienile. Per tirare avanti – per arrivare a luglio, a trebbiatura e paglia nuova – c’è toccato andarla a comprare e pagarla a debito, perché un po’ di paglia serviva per forza da mettere sotto alle bestie.
Ecco, questa era la situazione che s’era ritrovato mio zio Pericle al suo ritorno da soldato. Lui s’era guardato intorno, s’era fatto raccontare e poi aveva solamente chiesto a zio Temistocle: «Chi xè stà?». «E chi lo sa…» aveva risposto il fratello. «Tu non lo vuoi sapere!» aveva insistito lui. «E se anche fosse? Certe volte è meglio non sapere» e zio Pericle s’è stato zitto. Quello era il fratello più grande e a pensarci bene aveva pure ragione. Cosa ti mettevi a fare, a scatenare guerre? «Speriamo solo che sia finita qua, piuttosto» ha detto dolce mio zio Temistocle. Ora io che le debbo dire, non è che voglia prendere per forza le parti dei miei zii. Anzi, io capisco che quelli della lega avessero le loro ragioni. Erano disoccupati, tanta fame, tanta miseria, stavano dentro i casoni, mischiati come le bestie. È chiaro che volevano il lavoro e lo andavano a chiedere ai miei zii perché stavano dentro una casa con le stanze con i letti e avevano bestie, mangiare e lavorare. Per loro erano ricchi. I miei zii invece si sentivano poveri e dovevano lavorare. E lavoravano duro. Non è che qualcuno gli regalasse qualcosa. E quando quelli dicevano «Ma mì no gò gnìnte», i miei zii rispondevano: «E perché non vai dal padrone che ha la terra? Va’ dal conte se hai il coraggio. Perché vieni da me che ho una stianta sola più di te?». Ma quelli il conte dov’è che lo andavano a prendere? Mica lo avevano lì, a portata di mano. A portata di mano avevano te che mangiavi più di loro, e a te venivano a cercare di toglierlo. Che altro dovevano fare? Venivano da te, tale e quale agli immigrati nostri che vengono da noi. Ma che non lo sanno pure loro che nove volte su dieci gli si ribalta il barcone e muoiono affogati? Lei sta bene a dirgli: «Guarda che nove volte su dieci muori». Quello ti risponde: «Lo so, ma dieci su dieci muoio se resto a casa mia». Questa è la vita, ognuno s’arrampica sugli specchi per cercare di tirare avanti e di migliorare. S’arrampica sugli altri, su chi si deve arrampicare se no? Gli africani
guardano alla fame che hanno e debbono venire per forza qua da noi, dove vuole se no che vadano? E noi per non farci invadere gli dobbiamo affondare le carrette. Cosa vuole che facciamo? Per la fame loro, rinunciamo al benessere nostro? Ma non saremo mica scemi. Ognuno guarda al suo interesse, non è colpa di nessuno. In ogni caso ai parenti nostri che abitavano nello stesso casolare nostro – il fratello di mio nonno e i figli suoi, Peruzzi come noi che ancora stanno su in Altitalia – e che avevano anche loro i fienili e il pagliaio ben discosti dai nostri dall’altra parte della casa, non è mai successo niente. Loro erano rimasti socialisti e continuavano a partecipare alle riunioni della lega, e quelli erano andati anche da loro, ma erano amici, erano compagni e ognuno dei due voleva venirsi incontro; quelli avevano chiesto dieci e alla fine s’erano accordati a due, contento tu e contento io. Quando è stato a luglio che era oramai l’ora di miete re il grano, quelli della lega si sono ripresentati da noi a brutto muso a dire che dovevamo assumere della gente: «È l’imponibile». «Via di qua!» gli ha detto zio Pericle, perché c’era lui questa volta in mezzo all’aia con la forca in mano: «Fora! Non state a entrare in casa mia» gli ha detto, puntandogli contro il forcone. Quelli se ne sono andati come se non fossero venuti, senza alcuna sorpresa, senza dispiacere. Se lo aspettavano. Debbono essere venuti proprio per poter dire eventualmente agli altri: «Guardate che noi ci siamo andati». E fatti già ridendo e scherzando i primi passi lungo lo stradone, solo il Pellegrini – uno che si conoscevano fin da piccoli e fin da piccoli non si erano mai presi e già questo basterebbe a dire che era una finta, perché se non era una finta e tu volevi davvero trovare un accordo con me, tu non mi dovevi mandare il Pellegrini – solo lui s’è voltato a dire a mio zio Pericle: «Abbassa quelle penne Peruzzi, prima che te le facciamo abbassare noi».
«Vieni tu ad abbassarmele allora, se hai il coraggio» e già stava per andargli dietro. Ma quelli hanno proseguito avanti e anche lui – «Ridè, ridè, ridete pure» – è tornato in aia. Poi mio nonno e mio zio Temistocle, all’osteria, hanno provato a parlare con qualcuno della lega ancora amico loro, a vedere se c’era una via di mezzo: «Veniteci incontro, fème uno sconto, ne pigliamo due e siamo a posto». Niente da fare. «O tutti o nessuno» gli hanno risposto: «Siete fascisti e volete gli sconti?». Eravamo gli unici mezzadri in zona a non accettare l’imponibile. O meglio, mio nonno e i miei zii alla fine lo avrebbero pure accettato, ma con lo sconto. E alla fine non ne abbiamo preso nessuno. Ci siamo rifatti la mietitura con le sole forze nostre – come avevamo sempre fatto d’altronde – e abbiamo pure aiutato i nostri parenti, e loro noi. Anche la trebbiatura s’è fatta assieme, il mucchio dei covoni nostri a fianco al loro e la trebbia in mezzo. Era ancora una di quelle trebbie a vapore con la ciminiera alta, arrivata lì a traino dei buoi insieme al carretto del carbone. Allora dovevi prima mietere il grano a mano col falcetto – tutti in fila -e ognuno, fatto un mazzo di spighe, lo legava in un fascio e lo metteva sul covone. Poi si passava con il carro grosso dei buoi, si caricavano i covoni e si portavano sull’aia. Un mucchio enorme, più grosso del pagliaio. Finalmente arrivava la trebbia e davanti, per azionarla, c’era la macchina a vapore con le cinghie e le pulegge che trasmettevano, dalla caldaia, il moto alla trebbia e ai suoi setacci. E guai se ti avvicinavi alle cinghie. Se ti prendevano eri fatto. Certe volte si rompevano e scattavano sgusciando come bisce gigantesche, frustando l’aria per più di venti metri, e tanta gente s’è fatta male, pure morti. E ci volevano un sacco di persone per la trebbiatura. Era il culmine dell’annata agraria, era tutto l’anno che lavoravi per quel giorno. C’era chi governava la macchina e chi dal mucchio dei covoni, con le forche, li passava alla trebbia, a quelli che stavano sopra e li imboccavano. Sotto, c’era chi reggeva il sacco che man mano s’empiva di
grano, e chi portava i sacchi nel granaio, sacchi da un quintale. E chi li numerava e li contava – col fattore lì, perché non lo fregassimo – e chi prendeva la paglia da sotto la trebbia col forcone e la portava al pagliaio. Intanto sui campi s’aggiravano ancora le spigolatrici -le donne dei casoni, i poveri coi ragazzini che gli toccava per diritto riconosciuto non dalle leggi ma dalla gente, di passare dopo la mietitura campo per campo, solco per solco a raccogliere le spighe che nei vari trasbordi, per caso, si fossero disperse e fossero rimaste a terra e insomma ci si facevano qualche cosa pure loro – ma da noi facevano poco, perché mia nonna era come un generale, con i figli piccoli tutti a spigolare finché c’era un filo di luce: «Guardate bene, non state a lasciare neanche una spiga perché è pane». E se solo vedeva poi riandare via le donne dei casoni soddisfatte per una raccolta sostanziosa e inaspettata, «Ciaf, ciaf», erano schiaffi in testa per tutti i ragazzini nostri: «Guardate che avete fatto!». Abbiamo trebbiato anche quell’anno coi nostri parenti, prima il frumento nostro e dopo il loro. E insieme abbiamo fatto i pagliai e mangiato e bevuto sull’aia con gli operai della trebbia fino a notte, e ballato e suonato al suono della fisarmonica. Poi i miei zii hanno dormito per un mese sotto il pagliaio, a turno, perché non si sa mai. E sono andati avanti così, a darsi il cambio, per tutto agosto e fino ai primi di settembre, che già a dormire fuori faceva fresco, anche se stavi dentro la paglia. In paese intanto sembrava che tutto andasse bene. I miei zii avevano pure ricominciato a salutarsi con quelli della lega. Non tutti naturalmente – mio zio Pericle no – ma zio Temistocle sì, anche con quel Pellegrini, quella specie di nemico d’infanzia di zio Pericle. Anche zio Iseo. Figurarsi zio Adelchi all’osteria col nonno: «Mettiamoci una pietra sopra, è andata come è andata, siamo tutti fratelli» davanti al vino. Finché non ha cominciato a fare davvero fresco e una sera che toccava a zio Adelchi, zio Adelchi ha detto: «Io non vado, non saranno mica così disgraziati»
I fratelli hanno detto sì: «Non stèmo più andare». Solo zio Pericle s’è impuntato: «Ci vado io», e c’è andato sempre e solo lui per una settimana, e gli altri a prenderlo in giro fin che non s’è stufato pure lui. «Ma sì, non vengono» ed è rimasto a dormire in casa. E quella sera stessa a mezzanotte, al tocco del campanile di Codigoro, mentre tutti dormivano e non c’era rumore di bestia in giro – né cricri di grilli, né un càiii di cane e neanche un somaro a fare io – mia zia Bissa s’è svegliata per il rumore. È il crepitio che l’ha svegliata – era come una biscia, sentiva l’erba crescere – s’è svegliata per questo crepitio che poi non era ancora crepitio vero, era solo l’inizio, perché quando prende davvero fa una vampata e via: «Vuùmm». Lei ha sentito l’idea del crepitio e manco ha aperto gli occhi e già aveva gridato in sonno: «El fógo, el fógo!». E tutti allora hanno aperto gli occhi all’istante e hanno visto da dentro i letti stamparsi sopra le pareti i bagliori che rischiaravano a giorno le stanze, da dietro le finestre. E tutti sono saltati e adesso sì che abbaiavano tutti i cani – «Càiii» fino a Codigoro. Abbaiavano pure i gatti adesso e le bestie in stalla che
strillavano dalla paura: «Muuu, muuu», e i vitellini e gli asini, i muli, i cavalli, le oche, le galline, i tacchini. Pure i conigli strillavano. E i miei zii erano già fuori dalle finestre – grandi e piccoli – e i nostri parenti anche loro a darci una mano. Non una mano a spegnere, perché a spegnere non c’era più tempo. Il pagliaio era andato. Il fuoco già alto se lo era preso tutto. Bisognava solo salvare il resto. E allora chi correva in stalla a liberare le bestie e portarle via, nella mandria all’aperto – lontano – tante volte il fuoco avesse preso la stalla. E chi era già sopra i tetti – le femmine soprattutto, a spegnere con le vestaglie i tizzoni che arrivavano – e chi a bagnare coi secchi tutto intorno al fienile, per evitare che il fuoco s’allargasse da sotto. E mentre tutti correvano, mentre ognuno era già al suo posto e mia nonna al centro dell’aia a dirigere le operazioni – e non era passato neanche un minuto da quando zia Bìssola aveva detto «Fógo» e zio Pericle s’era reso conto che il
pagliaio era andato ma che il resto era salvo – subito a zio Pericle lo aveva già avvolto la furia. E quando ha visto l’Anteo in mezzo a tutti i parenti -il suo cugino “compagno” come diciamo noi, quello cioè della classe sua, l’omologo nella famiglia del fratello di suo padre, il secondo maschio pure lui, “compagno” appunto, che vuol dire “uguale”, stessa età, che aveva fatto la guerra assieme a lui e che erano stretti stretti, si sentivano gemelli pure loro quasi, giocato sempre assieme e da piccoli andati assieme a ranocchie e che stava pure lui a Cavarzere quella volta del prete e del coltello – mio zio gli è andato di petto prendendolo per la maglia: «Chi è stato? Tu lo sai chi è stato!» e le vampe del pagliaio ne illuminavano la faccia urlante come un demonio. «Io non so niente» ha detto Anteo dolce. «Chi è stato? Devi dirmi chi è stato» ha insistito imperioso zio Pericle, serrando la stretta coi pugni sulla maglia e spingendoglieli al petto. «Io non so niente!» ha detto incazzato quell’altro, ades so, e respingendo col petto la spinta del cugino: «E metti giù le mani Pericle, prima che sia tardi». «È già troppo tardi» e lo ha spinto con tutta la sua forza come un toro – come con il prete – mentre quello indietreggiava e lui spingeva ancora. E allora mia nonna ha smesso di comandare agli altri e s’è voltata a implorare lui: «Pericle, Pericle», piagnucolava quasi. Ma lui niente, ha continuato a spingere e a digrignare i denti e già aveva ritirato una mano ormai dalla maglia, e ristretto il pugno misurava il tiro. È stato un attimo: «Pericle!» ha ordinato mio nonno. E mio zio si è fermato, ha riabbassato il pugno e lasciato libero il cugino. Lo ha guardato ancora un attimo però, a muso duro, avvertendo: «Tra me e voi…» ma senza finire la frase, facendo solo un gesto con le mani – secco – ad allargarle all’altezza dei fianchi. Un gesto come un taglio di falce a significare: «Basta, con voi mai più niente a spartire» e s’è voltato. «At compatìsso» gli ha detto allora l’Anteo.
«Compatiscimi, ma stammi alla larga.» E zio Pericle s’è messo pure lui a fare le cose che andavano fatte. Ma appena s’è reso conto che il salvabile era salvo e che si trattava solo di ordinaria amministrazione e nel pagliaio – oramai – chi bruciava erano solo i tizzoni del palo a terra e di paglia non ce n’era più, né sana né bruciata, s’è girato verso un fratello più piccolo: «Can del Turati, tàca ‘l biròsso, attacca il biroccio» e quello di corsa – che aveva oramai quattordici anni – è andato a prendere il cavallo e ad attaccarlo al carretto. «Stì a casa, fiòi» ha provato a dire la nonna. «E che aspettiamo, il terzo?» le ha fatto zio Pericle e i miei zii sono andati in casa a mettersi le braghe e a prendere gli schioppi. Ne avevamo due soli in verità di schioppi, due fucili da caccia a canna doppia, che a caccia ci andavano tutti insieme a sparare uno alla volta – «Sparo io», «No, sparo io», «Adesso tocca a me» – ma avevano una provvista di cartucce i miei zii che lei non ha idea, perché erano patiti della caccia e passavano tutte le sere d’inverno in cucina dopo cena, al lume a petrolio sul tavolone grosso, a prepararle coi pallini di piombo e la polvere da sparo. Del resto la cacciagione era anche l’unica carne, si può dire, che mangiassimo in casa, eccetto quel po’ di porco a novembre e un tacchino a Pasqua e a Natale, perché anche tutto il pollame mia nonna lo vendeva. Mica era come adesso, che si mangia carne tutti i giorni. E così i miei zii – i più grandi naturalmente – sono partiti sul carretto, eccetto zio Adelchi che non è venuto perché «qualcuno deve pure restare», come aveva detto tutto serio, con la faccia quasi dispiaciuta. «At mori dalla voglia de vegnèr anca tì, eh?» gli ha detto il Can del Turati. Erano in cinque quindi: zio Pericle, zio Temistocle, zio Iseo, Treves e Turati. Cinque. «Bastanti» ha detto zio Pericle, e i più piccoli non li ha voluti. Pure zio Turati non era tanto grande – aveva solo quattordici anni, le ho detto – e la nonna
ha provato a strillare: «Lasciatemi a casa almeno il Turati», e zio Temistocle si stava pure convincendo. Ma lui – il Turati – chi lo convinceva? «Anca mì, anca mì. Non starmi a lasciare a casa Pericle, ch’at vègna un càncher», e gli è saltato a fianco a cassetta. Zio Pericle s’è messo a ridere e gli ha fatto posto. Zia Bìssola pure strillava: «Portatemi anche a me, portatemi anche a me, desgrassià». «Ma tasi insulsa, dove vuoi andare? Ma ti sembrano lavori da femmina?» cercava di farla ragionare zia Modigliana, la gemellina sua. «Ma perché? Cosa mi manca a me?» «Il cervello» e giù botte, «il cervello ti manca a te» la menava a tutta possa mia nonna. Certi schiaffi dietro la testa. E adesso «Ah!» faceva già mio zio al cavallo, e via col vento, mentre gli dava pure di frusta per farlo andare più forte. Zio Treves di dietro si reggeva alla fiancata, perché il biroccio ogni tanto saltava sulle buche e sopra i sassi: «Ma che ci facciamo con due fucili soli?». «Due?» ha detto zio Temistocle e ha tirato fuori il terzo da dentro un sacco, che era andato a farselo dare dal suo, di cugino compagno. Gli aveva detto solo: «‘L fusìl». «Ma Temistocle» aveva risposto quello, che era di poche parole anche lui, cugino gemello appunto. «Il fucile» ha ripetuto, senza aggiungere una sola altra parola. E quello glielo aveva dato. Si metteva a fare storie? «Basta che vadano lontani da qua, a far malanni.» E così i fucili sono diventati tre, più una pistola che all’improvviso ha tirato fuori come un mago mio zio Pericle. Una pistola che nessuno sapeva che esistesse e che se la doveva essere portata di nascosto da soldato evidentemente – forse dalla guerra, perché era una pistola austriaca – e non l’aveva mai fatta vedere a nessuno, giusto a mio zio Iseo forse. Comunque
tre fucili e una pistola e i miei zii sono entrati a Codigoro, all’una di notte, sparando all’impazzata per tutto il paese. Prima anzi a casa del maestro, che rimaneva qualche centinaio di metri fuori dell’abitato, proprio venendo dalla strada nostra. Era il maestro elementare ma era anche il capo della sezione socialista e della lega contadina. Era uno che girava ancora, sotto la giacchetta, col fiocco rosso al collo tale e quale il Rossoni nel ‘4 a Copparo. E i miei zii sono arrivati lì col carretto e mio zio Pericle ha fatto «Ìììh» al cavallo e poi: «Maestro!» ha strillato «Siòr maestro!». Però quello non veniva. Allora è sceso il Can del Turati dal carretto ed è andato a bussare alla porta, «Bòm bòm», cazzottoni sulla porta con zio Pericle che dal carro rifaceva:
«Maestro!». Alla fine s’è sentito un rumore di finestra che si apriva al primo piano e si è affacciato il maestro: «Chi xè?» ha fatto. «Peruzzi! Pam» e gli è arrivata una fucilata. «Mariavèrzine!» s’è sentita la voce della moglie, dentro casa. E lui: «I me gà copà, i me gà copà». «Mariavèrzine, Mariavèrzine» rifaceva lei. E i miei zii rifacevano «Pàm pam» con gli schioppi, mentre zio Turati ritornava ridendo sopra il carro. «Pam pam» continuavano a fare i miei zii, fino a che zio Pericle ha detto: «Non
state a sprecare cartucce, che ne abbiamo ancora tanti nella lista. Ah!» e ha ridato la briglia al cavallo, e poi «Ciàf», uno schiaffo in testa a zio Turati che rideva: «Ma che ti ridi insulso, che ci hanno appena bruciato il pagliaio» e «Ciaf» un altro schiaffo.
«Va’ in mona», si riparava col braccio il Turati. E poi via verso il paese, con quella che faceva ancora dietro «Mariavèrzine, Mariavèrzine». E lui, il maestro: «I me gà copà, i me gà copà».
E i miei zii che ridevano, perché era evidente che non potevano di certo averlo ucciso, e non solo perché strillava ancora, ma anche e soprattutto perché erano fucili da caccia, e dal carro alla finestra saranno stati una trentina di metri e la rosa non poteva non essersi allargata. Quanti pallini vuole che lo abbiano preso? Sì, sarà stato una maschera di sangue in faccia, ma l’ordine a quelli glielo aveva dato lui. Era lui il capintesta della camera del lavoro e del partito socialista – con quel fiocchetto rosso e le braghe bianche, coi modi che quando parlava sapeva tutto lui ancora più del prete, e poi a scuola menava pure lui i ragazzini con la bacchetta, certe bacchettate – e lui che deve avere detto: «Dèghe fógo al pagliaro». Ora i miei zii non è che fossero proprio sicuri di sapere chi era l’incendiario. Lo avessero saputo, sarebbero andati da lui direttamente. Invece avevano solo un’idea, un’idea un po’ vaga di chi pressappoco potesse essere stato – un gruppetto di sospettati, diciamo – e per non fare torto a nessuno sono andati da tutti. Prima in piazza – dove c’era la camera del lavoro – e mentre passavano per la strada principale con il carretto a tutta gallara che faceva «Dedòn dedòn» tale e quale a un treno sopra il lastricato, la gente già svegliata
dagli spari s’affacciava alle finestre: «Còssa ghe xè?» facevano. E allora pure zio Treves: «Pàm pàm», un paio di schioppettate lungo il corso alle finestre – con la gente che richiudeva di corsa le persiane «Sblàm» – e sono arrivati in piazza. «Ìììh» ha ritirato le redini zio Pericle, e il cavallo ancora non s’era fermato che già erano scesi tutti giù dal carro con un salto, come gli assaltatori di fanteria adesso dal retro dei mezzi corazzati. La camera del lavoro era in piazza – a un piano terra -con i portoni vetrati che davano sulla strada. Èra un camerone grosso e dentro c’erano pure la sezione socialista e la lega contadina. Era raggruppato tutto là. La chiamavano mi pare già “casa del popolo” e a quell’ora, naturalmente, era tutto chiuso e luci spente. Al piano di sopra però abitavano delle famiglie. E
allora i miei zii – appena scesi – hanno cominciato a strillare: «Venite fuori», a quelli di sopra. Loro ci hanno messo un po’: «Apro, non apro?» si consultavano con le mogli, perché le schioppettate non potevano non essersi sentite anche lì. «Non stare ad aprire, caro di Dio.» Però i miei zii da sotto hanno rifatto: «Venite fuori!», e quelli si sono affacciati. E come si sono affacciati, i miei zii gli hanno ridetto: «Fuori tutti! Contiamo fino a tre e poi diamo fuoco… Une, due, tre: fuoco!» e hanno spallato le porte, rovesciato due o tre lumi per terra e appiccato fuoco alla camera del lavoro, mentre ancora quelli si stavano rovesciando giù dalle scale per venire via coi bambini in braccio. Ora va bene che la camera del lavoro non era il pagliaio nostro e quindi non ha preso fuoco tutto quanto subito in un rogo solo; anche a dare gli incendi ci vuole il mestiere suo, non è che uno va là, mette il fuoco, se ne rivà e poi il fuoco fa tutto da solo. Mica è tutto un pagliaio appunto, c’è incendio e incendio. E a quello è toccato starci appresso perché non voleva neanche prendere bene. E sopra ai lumi col petrolio è toccato buttarci pure un po’ di giornali e manifesti, spaccare qualche tavolo e qualche sedia e con tutto questo, quelli manco avevano finito di scendere. C’era una donna, su, che strillava: «I miei fratelli, i miei fratelli!». «Manda» le ha detto zio Pericle da sotto alla finestra. E quella a uno a uno gli ha lanciato i più piccoli e lui li pigliava e li posava in mezzo alla piazza, mentre i suoi di fratelli -quelli di zio Pericle – continuavano ad alimentare il fuoco. E poi ha detto anche a lei, allargando le braccia: «Vièn zó anca tì» che era proprio una bella bionda. «Va’ in mona, assassino» ha risposto quella, e s’è messa a scavalcare il davanzale per potersi calare da sola giù dalla finestra – avrà avuto un quindici
o sedici anni – mentre la madre e il padre, da sotto, le strillavano: «Ma passa per la scala». E invece quella era già giù dalla finestra, però non si è lanciata, prima s’è sporta sul davanzale e poi s’è tirata giù reggendocisi per le mani. E scalciava con i piedi per trovare un punto d’appoggio su qualche cornicione o marcapiano, mentre il vento e il bagliore delle fiamme le sollevavano la camicia da notte e le si vedevano i polpacci. Bei polpacci biondi e un po’ di gambe. E mio zio Pericle ha ristrillato: «Can del Turati!». E quello di corsa stava già sotto la finestra col carretto e mio zio Pericle c’è saltato sopra con le mani alte, a cercare di prendere questo demonio biondo ma quella, come sentiva le mani sfiorarle i piedi, mollava calci come una mula: «Non stare a tocarmi, asasìn», scalciava reggendosi al davanzale. Poi a un certo punto s’è mollata e zio Pericle l’ha presa al volo ai fianchi, l’ha sorretta e poggiata sul carro sfiorandole coi pugni i seni. Ma quella – appena s’è sentita sotto i piedi il pianale del carro – invece di voltarsi a ringraziare s’è voltata e gli ha mollato uno schiaffone, «Ciàf», a cinque dita sulla guancia: «Via ste màn!». Intanto però – sullo sfondo del corso principale – s’era profilato in lontananza un gruppetto di due o tre persone che si davano la voce e il coraggio l’un altro e sembravano voler venire avanti. Zio Iseo e zio Temistocle non sono stati tanto a pensarci sopra: «Pàm pàm» a fucilate, e quelli ci hanno ripensato loro e si sono voltati indietro. Via. Allora anche zio Pericle – ma giusto per darsi un contegno dopo lo schiaffo – è sceso anche lui dal carro con la pistola in mano e s’è messo a sparare pure lui in aria: «Pàm pàm». Però intanto guardava lei. «Ma a chi credi di fare paura?» faceva invece lei andan dogli sotto il muso con le mani, mentre lui la guardava fermo e la madre se la andava a riparare – a proteggere -e lei scalciava pure la madre: «Ci sarei voluta io, al posto di
questi uomini qua» e indicava il padre e i vicini di casa. «Eri buono tu, a fare quello che hai fatto» strillava con aria di sfida a mio zio. Mio zio ha risparato per aria. Non sapeva che dire. Allora ha detto ai fratelli: «Andiamo via», perché lì il lavoro era fatto, la lega bruciata e adesso gli inquilini se la spegnessero pure e salvassero le case loro, insieme a quella strega. Anche perché oramai – pure se buoni ultimi – si stavano accorgendo di qualche cosa pure i carabinieri e già si vedeva aprire qualche persianina pure dalla caserma loro: «Mi pare di avere sentito qualche rumore strano» diceva il maresciallo alla marescialla. E allora sono ripartiti e hanno fatto il giro del paese. Sotto tutte le case dei sospettati. Cinque o sei. Arrivavano col carretto, fermavano il cavallo, «Ihììì», qualcuno scendeva, qualcun altro restava sul carro e via fucilate alle finestre: «Pam pam».
«Chì xè?» gridava ogni tanto qualcuno. E loro: «Peruzzi! Pàm pàm!». Il giro del paese. Vede, i miei zii non è che si potessero rifare dando fuoco pure loro ai pagliai. Quelli che avevano dato fuoco a noi, pagliai non ne avevano perché erano povera gente – braccianti, disgraziati dei casoni – oppure erano maestri, barbieri, fabbriferrai. Che pagliaio potevano avere? Erano tutti senza terra peggio di noi e abitavano in paese. Che potevamo fare, davamo fuoco al paese? Siamo andati a cercarli casa per casa, a sparargli alle finestre, a fargli capire che la dovevano finire. In fin dei conti non abbiamo ammazzato nessuno, giusto qualche ferito. E anche la camera del lavoro s è bruciata solo lei, non è che si siano bruciate le case sopra. E anche lei non è che si sia bruciata chissà quanto, giusto anneriti i muri, bruciata la mobilia e le finestre che già il giorno dopo non fumava più niente e – volendo – si sarebbe anche potuto ripulire e rimettere a posto. Anzi, loro ci hanno pure provato, siamo stati noi – «Pàm pàm» altre due fucilate – a fargli cambiare idea ed è rimasta
così, con le porte vuote e i muri anneriti per più di qualche mese; finché nell’affitto non siamo subentrati noi e ci abbiamo fatto la casa del fascio. Comunque quella sera, a un certo punto, a zio Temistocle sopra il carro non gli è più tornato il conto – al buio – però gli pareva di stare più stretto e s’è messo a ricontare i fratelli: «Uno… due… tre… quattro… Cinque?» e glien’è venuto uno in più. Lo ha preso per la testa, ha tirato e gli è uscita fuori la zia Bìssola: «Còssa ti fè tì?». Gli era venuta dietro a piedi di corsa – nascosta – e gli era montata sul carro solo in piazza, poco prima di ripartire. «Torniamo a casa» ha fatto allora zio Temistocle. «E il Pellegrini?» ha detto zio Pericle. «Il Pellegrini!» ha assentito zio Temistocle. E per tornare a casa hanno fatto il giro lungo, sono passati pei casoni, perché è là che stava. Il Pellegrini però li aspettava davanti al casone, sulla strada, e come ha sentito il carretto ha sparato lui per primo: «Pàm». Ma era lontano. La rosa troppo larga. S’è sentito qualche pallino – «Fìscc» – passare rasente al cavallo. I miei zii sono saltati giù dal carro allargandosi a ventaglio e hanno fatto fuoco a volontà, mentre chi in mezzo al campo e chi dentro i fossi s’avvicinavano al casone. Il Pellegrini intanto finiva evidentemente i colpi e non si sentiva più sparare dalla parte sua. Sparavamo solo noi, mentre zia Bìssola chinata correva dentro il fosso attaccata come una sanguisuga a un braccio di zio Pericle e lo strattonava pure: «Datemi un fucile pure a me». «Sta in là, maiala» le digrignava il Turati mollandole pedate. Così siamo arrivati al casone e non c’era nessuno fuori e nemmeno dentro – tutti sparsi nei campi oramai – e neanche un lume acceso. Mio zio ha avvicinato l’acciarino alle frasche che coprivano il tetto e ha dato fuoco. È bruciato tutto e subito con una vampa sola, come il pagliaio nostro.
«Nooo!» si sentiva strillare dalla campagna tutto intorno al falò da voci straziate di donne: «Assassini!» strillavano ai miei zii. «Chi smuove il fuoco prende il fuoco» ha risposto mio zio Pericle: «Pigliatevela col Pellegrini, che ha dato fuoco da noi» e poi via verso casa. A casa però c’era la nonna che aspettava e s’era accorta che mancava la Bissolata. S’è lanciata verso il carro prima ancora che si fermasse sull’aia e con una mano la teneva e con l’altra schiaffi in testa. Ma schiaffi forte dietro il cervelletto, sulla nuca: «Ti avevo detto di non andare!». E quella manco una piega – mica strillava o piangeva -stava solo nella placida attesa che la furia passasse. E più quella non strillava e non piangeva, e più mia nonna si infuriava: «Impunita, screanzà, mica la pianze. Am manca anca de rispèto» e giù botte come una furia. Finché zio Pericle le ha detto: «Ma mama, còssa xéa tuta sta violensa?». E quella l’ha mollata – «Varda ch’at dàgo anca a tì» ha detto a Pericle – e subito zia Bìssola è corsa in camera massaggiandosi la testa e la zia Modigliana le faceva: «Racconta, racconta». E lei tutta la notte a rifare i versi: «Mariavèrzine, Mariavèrzine. I me gà copà, i me gà copà», e ridere e parlottare – con
le altre sorelle pure – intorno al letto. Del pagliaio nostro sembrava oramai non importare più niente a nessuno, bastandoci quasi questa soddisfazione. «Pagarém» faceva il nonno: «La prenderemo a debito la paglia, e pagarém». E comunque da quella volta non ce ne hanno bruciati più di pagliai. Anzi, siamo noi che abbiamo cominciato a bruciare camere del lavoro dappertutto. Oramai avevamo imparato il mestiere. Il giorno dopo i miei zii si sono fatti tutti una camicia nera. Hanno mandato le donne a comprarne una pezza intera al mercato, e il commerciante ha detto a mia nonna: «Condoglianze. Ma la mi scusi una domanda, signora: quanta gente vi è morta?» perché allora il nero si portava solo per il lutto e tanta
stoffa così, tutta in un tocco, non l’aveva mai venduta. Poi le sorelle gliele avevano cucite e quando se le sono provate tutti assieme, zia Bìssola ha detto: «Parete una squadra di becchini». Invece erano oramai una squadra d’azione – squadristi – e andavano su e giù per tutti i paesi insieme agli altri squadristi amici loro. Per casa non giravano più solo quei due fucili da caccia, ma moschetti da guerra, pistole, mitragliatrici, bombe a mano. Pure i ragazzini piccoli a casa nostra – pure quelli che camminavano ancora a quattro zampe: il Paride di zio Temistocle e la zia Santapace nostra – pure quelli giravano anche loro sotto i tavoli con il pugnale tra i denti. I miei zii oramai erano in contatto col fascio di Ferrara e quello era un periodo caldo. Alla fine di agosto – il 30 di agosto del 1920 per la precisione, anche se i miei zii non lo sapevano ancora, in quel momento, che la cosa li avrebbe potuti in qualche modo interessare – erano cominciate le occupazioni di fabbrica da parte degli operai di Torino, e poi s’erano estese a Milano. Era la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che aveva messo su dei Consigli di fabbrica tali e quali ai soviet. C’era appena stata la rivoluzione in Russia e loro la volevano fare anche qui. Intanto avevano cominciato con queste occupazioni per prendersi le fabbriche e diventare loro padroni – il proletariato – e mandare i padroni a lavorare. Era pressappoco quello che volevamo anche noi sindacalisti rivoluzionari nella settimana rossa del ‘14 e loro quella volta avevano detto: «Non è possibile. Bisogna fermarsi qua» e così perdemmo. Adesso invece erano loro a dire: «Facciamo la rivoluzione, occupiamo le fabbriche» e tutto questo periodo – i due anni che vanno dal 1919 fino agli inizi del ‘21 – lei sui libri di storia lo trova proprio scritto “biennio rosso”. Scioperi, occupazioni di fabbrica, manifestazioni e violenze ogni giorno. Non s’era mai vista una cosa del genere in Italia e lo stesso senatore Agnelli – dopo che gli avevano occupato la Fiat ma anche l’Ansaldo, la Pirelli, e tutto il
fior fiore dell’industria e del capitalismo italiano – s’era oramai rassegnato anche lui e aveva deciso, d’accordo coi più stretti collaboratori: «Va bene va’, non c’è più niente da fare, siamo con l’acqua alla gola. Chiamateli e mettiamoci d’accordo: io gli do la fabbrica in proprietà comune, mia e loro, e da adesso in poi la portiamo avanti insieme, io e loro». Sono stati i collaboratori a dirgli: «Senato’, la scongiuriamo, aspetti ancora qualche giorno». «Va bene, aspettiamo ancora qualche giorno» perché ogni tanto i collaboratori bisogna pure farli contenti, anche se lui – dopo un mese d’occupazione – s’era messo l’anima in pace ed era oramai pronto a trattare: «Almeno finisce questa storia e ripigliamo a lavorare, meglio che gliela dia io in fin dei conti, prima che me la prendano loro con un calcio nel sedere; un direttore gli servirà sempre». Ma anche questa volta – tale e quale alla settimana rossa del ‘14 -chiacchiere e basta, altro che rivoluzione. Tanto è vero che neanche dopo un mese – alla fine di settembre – in cima alle fabbriche di Milano e di Torino hanno tolto le bandiere rosse con la falce e martello dei Consigli di fabbrica, i nuovi soviet, e hanno fatto tornare buoni buoni gli operai a lavorare sotto gli stessi padroni, agli ordini degli stessi identici capi. E non solo senza avere fatto la rivoluzione o preso il potere, ma alle stesse identiche condizioni di prima. Anzi, i capi erano pure più boriosi e i collaboratori più stretti del senatore Agnelli sono andati poi avanti anni a rinfacciargli: «Ah, se non c’eravamo noi quella volta! Se era per lei avevamo perso tutto». Tanto che alla fine gli ha dovuto dire: «E mo’ basta! Il prossimo che lo dice un’altra volta lo caccio sui due piedi». Ora però anche un bambino sa che se chiami in continuazione la gente alla lotta senza fargli mai ottenere risultati tangibili, quelli alla lunga ti mollano e non ti ascoltano più: «Al lupo, al lupo». Anzi, più li hai fatti lottare senza un costrutto, e più a quelli gli passa la voglia di rilottare un’altra volta: «Ma che sono scemo? Vado a ripigliare le bastonate gratis?».
E comunque quel biennio rosso è andato avanti tutto il 1920 – dal 1919 che era iniziato – fino al 1921, che è stato pure peggio perché è arrivato il “riflusso” delle lotte, come lo chiamava Lenin (lei non so se lo sa che il Lenin e Mussolini s’erano conosciuti in Svizzera prima della guerra -esuli squattrinati tutti e due – nel 1903 o ‘4. Si incontravano in giro per Losanna, che era piena di rivoluzionari che ogni volta per la strada si chiedevano l’un l’altro: «Ghètu un franco da prestarne?». Adesso non so se ci fosse anche il Lenin quando Mussolini sfidò Dio – «Vieni qua e fulminami» – con l’orologio in mano. Comunque nel 1917 quello fece la rivoluzione in Russia e prese il potere, e Mussolini leggendolo sul giornale disse: «Va’ il Lenin va’, son contento par lù». Quando invece nel 1922 ha fatto la marcia su Roma ed è andato su lui, il Lenin disse proprio a Stalin: «Va’ il Mussolini, va’! L’avevo sempre detto io, che l’unico rivoluzionario in Italia era lui». Ed era tutto incazzato con la sinistra nostra italiana che se lo era fatto scappare). Ma oltre al riflusso loro c’è stata la reazione nostra, e oramai era lotta a coltello, con sparatorie, incendi, morti e feriti. Rossi di qua e neri di là. E noi stavamo con i neri – anzi, eravamo i neri – e una volta anche i miei zii sono tornati con zio Pericle, steso sul pianale del carro. Guidava il Can del Turati e come mia nonna ha visto da lontano che a cassetta c’era lui e non zio Pericle, subito s’è messa le mani tra i capelli – ma senza dire una parola, senza un fiato; solo ad aspettare con le mani tra i capelli che il carro si fermasse -e già il Can del Turati aveva preso a strillarle da lontano: «State tranquilla mamma, non è niente». «Sto bene, sto bene» faceva con un lamento da oltretomba lo zio Pericle da dentro il carro, mentre «Non star moverte!» gli intimava tenendolo fermo zio Temistocle. Comunque quella volta lo hanno preso a un fianco, una palla in un fianco. È entrata e uscita, non s’è fermata dentro, gli ha fatto un buco da parte a parte
e il dottore – quando la sera è venuto – ha detto: «C’è solo da sperare che si chiuda da sola». Lo ha medicato all’esterno e via. Mio zio è rimasto sul letto una mesata a brodo di pollo, ma si sentiva via via più stanco; tanto che tutti pensavano che non ci fosse più niente da fare e mia nonna diceva: «L’è stà il prete, l’è stà il prete. Lo dicevo io che non poteva portare bene, mancare di rispetto a uno di quelli», finché una sera ha acceso una candela e si è messa a pregare. Lui la notte dopo si è alzato, è arrivato a tastoni in cucina reggendosi ai muri, ha acceso il lume a petrolio, ha visto in fianco al focolare la pentola avanzata coi fagioli e sulla credenza il piatto con le fette di polenta ricoperte per bene da uno straccio umido, e ha mangiato polenta e fagioli. E la mattina dopo ha detto: «Sono guarito», ed è andato in stalla a mungere. Fatto sta che nel 1920 i miei zii si erano messi col fascio di Ferrara e andavano tutti i giorni in giro per i paesi della Bonifica Ferrarese con i camion, i 18BL avanzati dalla guerra. Tra novembre e dicembre li hanno messi a ferro e fuoco tutti. Bruciate le camere del lavoro, sezioni socialiste e leghe. Quegli altri però – i rossi – non è che stessero a guardare. Sparavano. Reagivano. Si difendevano. Ma ogni giorno sempre di meno. Lo scontro era militare oramai – guerra civile – tu di qua e io di là. Con il fratello di mio nonno e i figli suoi andava tutto bene ancora, tutto d’accordo. Non c’era nessuna discussione, nessun conflitto. Solo zio Pericle non parlava con nessuno di loro. Neanche salutava più. Come non esistessero. Salutava solo lo zio per rispetto del padre: «Buongiorno, zio, e buonasera». Punto e basta. Certo non ci si aiutava più come prima e già alla semina – ai primi di novembre – ognuno s’era seminato i campi suoi e ognuno oramai, quando serviva una mussa o un cavallo, pigliava i suoi, non pigliava più quelli dell’altro, ognun per sé, ma senza fare una parola; continuandosi a parlare uguale a prima, come se tutto il casino che c’era in giro, in casa nostra non entrasse. Quando poi ci
si incontrava in paese o nelle fiere, si faceva però finta di non vedersi, non conoscersi. Fuori intanto era guerra civile le ripeto, tu di qua e io di là, e quando è guerra è guerra e ognuno mena con quello che ha – con le unghie e con i denti – ma a me i miei zii hanno raccontato che quella lite, la guerra civile, non l’avevano cominciata loro, ma gli altri. E non solo con l’insultare i soldati che tornavano dalla guerra come fossero loro i traditori della patria e del proletariato, ma proprio con le botte, gli spari, le violenze: «Sei tu» dicevano i miei zii, «che hai bruciato i pagliai e occupato le fabbriche, ed è lì che sono volati i colpi di moschetto, i morti, i feriti». È così che lo scontro è diventato militare – è diventato di forza – e le liti non è che si facciano a patti a questo mondo. Uno quando comincia una lite, poi se vuole vincerla deve giocare il tutto per tutto, non è che possa dire: «No, facciamo solo a pugni, oppure niente colpi bassi». Eh no, se tu la cominci, io dopo rimeno come posso: pugni, calci, piedi, morsichi, ciàpo el bastòn, me la gioco tutta per tutta, con la vita sul palmo della mano. Solo così posso sperare di vincerla. Quelli, invece, prima occuparono le fabbriche e bruciarono i pagliai, poi ci ripensarono: «Squadristi!» dicevano adesso ai miei zii. E più noi sparavamo e più loro ci ripensavano, perché loro – gliel’ho detto – erano divisi, non è che avessero un solo capo ed una sola idea. Erano di mille colori, mille fazioni e ognuno faceva di testa sua. Non c’era verso di farli andare d’accordo. Anzi, ognuno diceva all’altro «Traditore!» – tali e quali adesso nella sinistra nostra – e c’era chi diceva «Rivoluzione!» e chi «No, frena: riforme!», e alla fine non facevano niente. E anche quelli che volevano resistere – come gli Arditi del Popolo, per esempio – alla fine si sono ritrovati da soli e hanno detto: «Ma chi me lo fa fare? E che sono, più fesso degli altri? Resto a casa anche io a vedere come va a finire». Ed è così che hanno perso il biennio rosso.
Neanche due mesi dopo – già a novembre e dicembre -c’è stato lo scioglimento di tutte le amministrazioni socialiste della Bonifica ferrarese, dell’Emilia,
della
Puglia,
Venezia
Giulia
e
Bassa
lombarda.
Tutte
amministrazioni rosse che cadevano per dimissioni – dimissioni a schioppettate naturalmente – e al posto loro, alle elezioni, la gente mandava su i nostri. I fascisti. E dove prima era pieno di camere del lavoro, leghe e sezioni socialiste, adesso la gente si cancellava in massa e si veniva a iscrivere tutta quanta al fascio, perché vedevano la forza, la decisione, un’idea unica: «Questi ce la fanno. Anzi, ce l’hanno già fatta». Tale e quale al 25 luglio 1943 quando – il giorno prima – erano tutti fascisti e il giorno dopo tutti anti; o nel 1989-94, prima tutti comunisti o democristiani, dopo tutti berlusconiani o leghisti. Cambia il vento, amico mio, e quando cambia arriva la bufera. Noi però oramai stavamo col fascio di Ferrara, dipendevamo da lì. E a Ferrara comandava Italo Balbo. Il Rossoni invece stava a Milano a dirigere i sindacati fascisti e con il Balbo non si è mai potuto pigliare. Il Balbo era uno che, dove c’era lui, doveva comandare tutto lui. Anche al Mussolini – fino all’ultimo – gli ha sempre detto: «Tu comandi su tutto e io obbedisco. Ma nel poco che mi dai da comandare a me, ci comando solo io e neanche tu ci metti bocca». E difatti anche col Mussolini – pure dopo che è diventato Duce – non è che ci si sia mai tanto preso. Il Duce alla fine non lo poteva proprio più vedere, perché era l’unico che anche in Gran Consiglio continuava a dargli del tu. A quello gli rodeva. Gli sembrava che non rispettasse il grado e lo ha mandato in Libia: «Va a fare il Governatore là, fora dai piè». Anzi, si dice che – ma i miei zii non ci credevano e neanche io ci credo – fosse stato lui a dare l’ordine alla contraerea di sparare, altro che sbaglio, quella volta che Balbo tornava da un volo sull’Egitto. Era appena scoppiata la Seconda guerra mondiale e dalla San Giorgio – una nave da battaglia che era stata interrata
apposta, per proteggere meglio la piazzaforte di Tobruk – vedendo questo apparecchio che arrivava, si sono creduti che era un apparecchio inglese e allora via tutti a sparare Fino a che non lo hanno preso ed è caduto giù. E subito i marinai a tirare i berretti in aria per la contentezza: «O ghémo ciapà, o ghémo ciapà», perché pare che poi la San Giorgio non ne abbia più preso uno solo di apparecchio nemico. Né prima né dopo. Tutti passavano e non gli succedeva niente – l’antitriangolo delle Bermude – e s’era sparsa la voce tra i piloti britannici: «Passiamo sulla San Giorgio che lì non ci prendono neanche se viene giù Cristo». Solo quello hanno preso d’apparecchio in vita loro. E non gli pareva vero. Poi però, quando sono andati a vedere, era il Balbo; avevano buttato giù lui, i lo ghéva copà. E la gente in Italia diceva che non era stato un errore – era stato un tradimento – perché il Duce era geloso e aveva paura che il Balbo gli levasse il posto. Queste sono tutte chiacchiere naturalmente, ciàcole dicevano i miei zii, anche se adesso s’è scoperto che quel giorno in rada c’era pure lo Scirè – un sommergibile famoso per le operazioni speciali supersegrete – e aveva sparato pure lui senza dire niente a nessuno. Era arrivato la sera prima ed è ripartito il giorno stesso, neanche un’oretta dopo che l’aereo del Balbo era stato abbattuto. Poi faccia lei; però rimane il fatto che quello, il Balbo, era un grande organizzatore, una macchina piena d’energia e fu lui che nel 1924 – quando oramai Mussolini stava nel pallone per il caso Matteotti – fu lui che gli diede la scossa e lo resuscitò come Lazzaro. O Frankenstein. Tutti lo attaccavano in parlamento oramai. Era rimasto solo come un cane, aveva poche ore – dicevano tutti quan ti – si doveva dimettere perché il caso Matteotti era trop po grosso ed era lui il mandante. O meglio, lui diceva che non era vero e lo dicevano anche i miei zii: «È stato il Dumini che ha sbagliato tutto». Ora però sarà pure vero che forse ha sbagliato il Dumini e che loro non volessero uccidere, gli volevano solo dare una lezione e basta al Matteotti
che il 30 di maggio del 1924, in parlamento, a Mussolini gliene aveva dette di tutti i colori. Lo aveva fatto diventare una bestia, tanto che appena uscito dal parlamento – proprio lì sul portone dell’aula, rosso di brace, tutto infuriato e fumante – Mussolini aveva urlato a Cesarino Rossi, il segretario particolare suo che sapeva vita morte e miracoli e ogni più piccolo impiccio suo: «Che fa il Dumini?». Ed era incazzato nero. Questa è storia. Loro il Dumini a Roma ce lo tenevano apposta – pagato e stipendiato dal Viminale con tutta la squadraccia sua, la “Cèka nera” come la chiamavano – proprio per questo tipo di evenienze. Così quando il Cesarino Rossi è andato dal Dumini a ridirgli: «Ma che cosa ci stai a fare tu? A mangiare e bere a tradimento? Che stai ad aspettare? Che fa il Dumini! ha detto il Duce» quello ha capito al volo e ha chiamato tre o quattro dei suoi. Sono partiti con la macchina. Hanno preso il Matteotti al Lungotevere. Lui non voleva salire. S’è difeso. Quelli hanno cominciato a menare. Lo hanno caricato a forza. Ma lui si difendeva pure in macchina. E quelli hanno rimenato più forte. Erano partiti per dargli solo una lezione – almeno così hanno detto – ma a un certo punto hanno tirato fuori un pugnale e una lima e lo hanno ammazzato a coltellate. S’erano portati appresso i pugnali. Poi lo hanno nascosto e sotterrato in un bosco. È stato ritrovato – il povero Matteotti – solo due mesi dopo, il 16 di agosto, e Mussolini era di nuovo incazzato: «Ma che avete fatto?». «Ma me lo hai detto tu» gli rispondeva il Cesarino Rossi: «Che fa il Dumini?». Allora – nel 1924 – il Mussolini dipendeva ancora dal parlamento e il parlamento lo ha messo in croce. Era additato per tutta Italia come un assassino, un presidente del consiglio parlamentare che se un deputato gli ha parlato contro, gli manda i mazzieri e gli assassini sotto casa. Tutta la nazione scandalizzata lo stava lasciando solo. Tutti sull’Aventino. Tutti i giornali a dire: «Il caso Matteotti di qua, il caso Matteotti di là». E anche un
sacco di fascisti se ne stava andando e anche un sacco di gente che s’era messa dalla parte sua ma che adesso – vedendo la mala parata – si rivoltava già da un’altra parte: «Eh no, queste cose non si fanno», come se prima non lo avessero saputo che al potere c’era arrivato così, con le schioppettate, e da che mondo è mondo funziona così, il potere mica è pulito, diceva mia nonna. Se tu sei pulito, al potere non ci vai, fai un altro mestiere, non ti metti a cercare il potere. Guardi anche adesso: ma secondo lei Pecorelli si è suicidato? A quello gli hanno sparato. È vero che la magistratura ha detto che erano tutti innocenti – Andreotti e Vitalone – ma quello mica si è suicidato. Il potere funziona così, e finché stai in sella, tutti dicono che tu non c’entri niente, che ti hanno solo messo in mezzo; anzi, sono tutte calunnie inventate dai tuoi nemici per screditarti. Ma se poco poco fai la finta di scivolare, tutti quelli che prima facevano finta di niente adesso dicono subito: «Eh no, queste cose non si fanno», e sono i primi loro adesso a darti addosso. E così era per il Mussolini alla fine del 1924. Solo come un cane. Gli ultimi giorni dell’anno girava come un matto per tutte le stanze della presidenza del consiglio. Girava per i corridoi bianco come un lenzuolo e gli uscieri si aspettavano da un momento all’altro di sentire un colpo di pistola dalla sua stanza, quando restava da solo. È stato così – tra Natale e san Silvestro, mentre lui stava in balìa tra la vita e la morte, tra la fuga e la resa – che Italo Balbo s’è presentato all’improvviso alla presidenza del consiglio insieme a un gruppetto di altri ras, messi insieme da lui, e gli ha detto a brutto muso: «Adesso basta, devi reagire. E se non lo fai tu con le buone o le cattive, lo faccio io e me lo prendo io il potere». Lui era ancora titubante, pareva un ragazzino: «Ma l’opposizione…». «L’opposizione una mona!» lo ha strapazzato il Balbo: «Per cosa lo abbiamo preso a fare il potere allora, per ridarglielo indietro alla prima occasione?». E lui si è fatto coraggio. Si è tirato su con le spalle — pure per non far vedere agli altri ras che aveva paura del Balbo – e un paio di giorni dopo, il 3 gennaio
del 1925, ha fatto il discorso alla camera dove ha detto: «Adesso basta, mi assumo io la responsabilità del caso Matteotti, ma chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori: sciolgo i partiti, chiudo i giornali e faccio le leggi eccezionali. Da inquò, da oggi, la democrazia è finita in Italia, comandi solo mè. Xè ditatura» Tutto questo però è successo nel ‘24 – mentre invece noi stavamo ancora al ‘20 – ma è stato per farle capire che tipo era il Balbo, uno che non aveva paura di niente e che con il Rossoni non si pigliava. Lui era di Ferrara, Rossoni invece di Tresigallo, e lui lo trattava come uno di campagna. Era un giovanotto aitante il Balbo – era del ‘96, quasi come i miei zii, dodici anni in meno del Rossoni – di scarse letture ma di buona famiglia. Era stato ufficiale in guerra, non sapeva niente di politica, figurarsi di operai e contadini. Il Rossoni invece s’era letto Il capitale di Carlo Marx, Cafiero, Bakunin e tutti quanti. Balbo era tutta azione, però era di Ferrara e – come si sa – tutti i ferraresi, pure se di mestiere fanno lo spalamerda, la spalano come fossero il principe D’Este. Anzi, sono proprio tutti figli del principe, perché a quei tempi c’era lo ius primae noctis e quando ti sposavi, la prima passata con la sposa toccava al principe. È così che a tutti i ferraresi gli corre nel sangue il seme del principe loro e gli sono rimasti nel Dna anche i modi del principe e sanno stare al mondo e in società; tutti nobili e mercanti pure i poveracci, specie quelli di città. E il Balbo era proprio di città e per questo il Rossoni non lo poteva vedere. Ma quello oramai comandava tutto lui e non solo perché era stato ufficiale, era amato dai suoi soldati e sapeva di tattica e strategia anche senza averle studiate – gli correvano appunto nel sangue insieme a tutti gli spermatozoi dei principi D’Este – e poi aveva il coraggio personale, che non c’è niente di meglio per un comandante. Ma oltre al coraggio e alle virtù militari, Balbo si sapeva muovere dentro Ferrara. Lui di operai e contadini non sapeva niente e nemmeno stava a San Sepolcro quella volta che c’era anche mio zio Pericle e hanno fondato il fascio. Lui mica lo aveva sentito che il
fascio era di sinistra, concorrente dei socialisti ma rivoluzionario e proletario. Lui era un ufficiale che aveva fatto la guerra ed era di buona famiglia – e ferrarese – e a buon bisogno aveva pure poca voglia di lavorare. Quando è tornato dalla guerra e ha visto che i rossi facevano casino e se la pigliavano coi soldati, lui ha visto pure che c’era questo fascio qua, che era l’unico a opporsi ai sovversivi. Allora ha detto: «Questo è il posto per me. Mo’ lo faccio pure io un fascio a Ferrara» e si è andato a mettere d’accordo – per farselo finanziare – coi ricchi e coi signori di Ferrara, gli agrari, i padroni delle terre. Quelli, oltre ai soldi, gli hanno dato tutte le protezioni di magistratura, prefetto, comune e carabinieri. E lui ha messo in piedi un esercito. Da dove crede che saltassero fuori i moschetti, le mitragliatrici e le bombe a mano che avevano in giro per casa i miei zii? E i 18BL che li scorrazzavano dappertutto, a bruciare camere del lavoro da una parte e dall’altra? Certo c’era pure un contraccambio da dover dare ai signori evidentemente, ma ai miei zii il Balbo non è che dispiacesse. O meglio, non è che si dessero del tu o che lui abbia mai mangiato a casa nostra o noi alla sua. Il Balbo lo vedevano da lontano, magari prima di qualche azione o nelle sfilate e nei comizi. Ma lo vedevano lui di là – come comandante – e noi di qua tra la truppa. Lui se la faceva coi pari suoi – gli avvocati, i conti, gli agrari – mica se la faceva con quelli come noi. Ma neanche noi avremmmo voluto, del resto. Eravamo diversi: noi contadini, lui un principe sangue di principe. Il fascino però era fuori discussione. Era un uomo magnetico anche lui, quasi come il Mussolini. Ma da qualche parte un contraccambio per gli agrari doveva pure esserci, e a mio zio Pericle questo fatto non andava giù e una volta che era venuto da Milano il Rossoni gli aveva chiesto: «Spiegatemi per piacere questa alleanza con gli agrari. Ma non è che dopo si incazzano, quando poi arriva l’ora di dare la terra ai contadini? Per darla a noi, a qualcheduno bisognerà pure toglierla e mi pare un po’ difficile non doverla togliere agli agrari. Voi dite che non si
incazzano? A me mi pare un’alleanza strana, perché qui uno dei due alla fine la dovrà prendere in quel posto. O noi o loro, Rossoni». «Vedi Peruzzi, tu devi capire…» «Spiegatemi solo se San Sepolcro vale ancora o è andato in malora.» «Vale, vale!» faceva il Rossoni: «Però tu devi capire, bisogna andare coi piedi di piombo, una cosa alla volta. Prima arriviamo al potere e poi man mano sistemiamo tutto Però per arrivarci bisogna fare le alleanze, mettersi d’accordo anche con chi non la pensa come noi. Ma se non arriviamo lì, facciamo solo come le altre volte: tante lotte, tanti casini e poi niente risultati». «Sentite Rossoni, ma non è che siamo diventati riformisti anca nantri?» «Sentite voi, Peruzzi…» e stavolta si rivolse a tutti, soprattutto a mio nonno, non sapendo che oramai da tant’anni -dalla guerra appunto – mio nonno s’era dimesso dalla politica e non ne parlava più, lasciava fare ai figli. Comunque il Rossoni ha detto: «Sentite Peruzzi… per arrivare al potere e cambiare qualche cosa, dobbiamo fare i patti anche col diavolo, anche col re. Pure il Papa se serve. Poi dopo, arrivati al potere, ribaltiamo tutto e ci pigliamo le terre, facciamo una seconda ondata. Ma prima dobbiamo arrivare nella stanza dei bottoni». «La stansa d’i boton?» ha fatto zio Pericle pensando lì per lì a una cosa pressappoco come quando le sorelle si riunivano nella stessa stanza tutte insieme, a riattaccare i bottoni caduti da braghe e camicie. Poi ci ha pensato e ha detto: «Va bèn Rossoni, rivémo int’la stansa d’i boton». Questa stanza dei bottoni non era per la verità una pensata tutta nostra, dei fascisti o del Mussolini. Era di un amico suo – Pietro Nenni, romagnolo come lui – che si conoscevano da giovani quando erano rossi. Anzi, il Mussolini era rosso, socialista e rivoluzionario. Il Nenni invece – quando si sono conosciuti e sono andati la prima volta in galera assieme – era ancora repubblicano. Poi erano stati interventisti assieme ed è dopo la guerra, coi fasci di
combattimento, che si sono divisi. Pietro Nenni nel ‘21 diventò socialista e poi è stato anche segretario ed è stato lui che nel 1963 – sessantanni dopo che lo aveva detto Giolitti – è riuscito a portare i socialisti al governo con la Dc, e ancora andava dicendo: «Adesso sì che entriamo nella stanza dei bottoni». «Ma cos’èia, Pierìn, questa stansa d’i boton?» lo prendeva in giro il Mussolini quando ancora stavano in prigione assieme: «A me mi servirebbe proprio un bottone nuovo» faceva mostrando la camicia sporca e sbrindellata. Per il Nenni il potere era la stanza dei bottoni, una camera dove tu entravi – al palazzo del governo o dal re – e c’era un tavolo grande con tutti i bottoni e tu ne schiacciavi uno e partivano automaticamente gli ordini. C’era il bottone delle banche, quello dei negozi, l’esercito, le guardie, la marina, le fabbriche, le centrali elettriche. Per ogni cosa c’era un bottone che diceva sì o no, bastava schiacciarlo e il treno del Paese andava di qua o veniva di là. «Tutto sta ad entrarci, nella stanza dei bottoni» diceva il Nenni, «poi li schiacci e li manovri e si fa quello che dici tu.» Lui c’è entrato nel 1963. Mussolini invece lo ha anticipato e ci è entrato nel 1922. Poi quello che ci abbiano trovato – dentro quella stanza dei bottoni – lo sanno solo loro. Comunque i miei zii hanno creduto al Rossoni – si sono fatti convinti – perché era convinto per primo lui che fosse quella la strada più giusta per ottenere il riscatto e la giustizia sociale che sognavamo da sempre: «Sapessi tu, a me, come mi sta sullo stomaco quel Balbo, con i suoi agrari e quella sua barbetta da cavrìn». E così finalmente nel 1922 – con la marcia su Roma – siamo entrati nella stanza dei bottoni. «Maestà» gli ha detto il Mussolini al re: «Vi porto l’Italia di Vittorio Veneto» che voleva dire che erano tutti i combattenti – il proletariato contadino che aveva fatto e vinto la guerra – e stavano tutti dietro di lui. A Vittorio Veneto era stata vinta l’ultima battaglia prima dell’armistizio con gli austriaci il 4 novembre 1918. “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con
orgogliosa sicurezza. Firmato Diaz” c’era scritto sul bollettino della vittoria che
stava oramai attaccato dappertutto, e lei non ha idea di quanta gente in quegli anni, poi, quando gli nasceva un figlio correva subito all’anagrafe: «Firmato! Questo qua lo ciamémo Firmato come il Diaz». Era pieno di Firmati in giro. I miei zii invece – quando magari all’osteria avevano appena detto chissà cosa d’importante – ogni tanto concludevano anche loro: «Firmato Peruz zi!», assestando un bel pugno sul tavolo. Ma anche quando calavano l’asso. Specie mio nonno: «Firmato Peruzzi!». In quell’Italia di Vittorio Veneto comunque – portata da Mussolini al re – c’erano pure i miei zii. Mussolini aveva schiacciato il bottone ed erano partiti. Mia nonna non voleva. Era la fine di ottobre e i campi – già arrivate le piogge – erano oramai pronti per essere seminati a grano. Ad arare, s’era arato d’estate. S’era cominciato già ad agosto, tra una spedizione punitiva e l’altra. «Prima arate e dopo andate in giro» intimava ogni mattina mia nonna. E quelli tutti in fila coi buoi a rivoltare la terra che ancora fumava del fuoco delle stoppie, che a quei tempi si bruciavano ancora. La stoppia è quel pezzo di gambo che rimane attaccato al terreno dopo che la spiga è stata tagliata. Rimane tutto dritto e spunciuto che magari da lontano uno pensa: «È paglia». Ma se lei ci cammina di pianta sopra – a piedi nudi come andavano tutti, allora – la stoppia le buca il piede per quanto è ritta, pare un chiodo. A queste stoppie gli si dava fuoco e lei vedeva da tutte le parti alzarsi una fumèra alta e diffusa, un fumo che si levava dappertutto dai campi delle stoppie. Adesso non le bruciano più. Subito dopo la mietitura arano con le stoppie ritte e secche lì sul campo e l’aratro -rivoltando la zolla – le manda al di sotto del nuovo strato di humus. Dicono gli agronomi che faccia da concime e, anzi, se tu adesso ti metti a dare fuoco, subito arrivano i vigili del fuoco a spegnere e ti denunciano come piromane, incendiario, e ti fanno la multa perché inquini l’ambiente con il fumo. Però i nostri vecchi bruciavano le stoppie per pulire la terra. Bruciavano e sanavano, e così morivano le infestanti – i semi di
infestante – i microbi e le malattie moleste, perché anche la terra s’ammala e abbisogna di cure. Il fuoco era una cura. La rigenerava. Era terapia e profilassi del terreno. E comunque era concime anche quello, almeno la cenere che restava. Insomma, dopo un paio di giorni che avevamo dato fuoco alle stoppie e ai resti della paglia rimasta sui campi, subito dopo mietuto si cominciava ad arare da sera a mattina, sotto il solleone del mese d’agosto – il prima possibile – perché poi il sole asciugasse e bruciasse la terra, ne allargasse ogni fibra, la disfacesse. Poi passavamo gli erpici a rompere le zolle che le prime piogge finivano di sciogliere, e più le giornate di sole s’alternavano a quelle di pioggia, e più l’opera di assestamento e ricompattamento del terreno proseguiva. A metà ottobre era completata e ai primi di novembre – i Morti per la precisione – si poteva seminare. Non prima, perché il grano avrebbe rischiato di germogliare troppo presto e di trovare il freddo – fuori – e di morire. Neanche troppo tardi però, se no non ci sarebbe stato tempo di coprirlo e il seme si sarebbe infracidato d’acqua sopra il suolo, o quand’anche ricoperto non avrebbe avuto tempo di dormire, fermentare e maturarsi sotto neve: «Sotto la neve il pane» diceva il proverbio. I Morti era il tempo giusto per seminare. Né prima e né dopo. E quando invece mia nonna agli ultimi di ottobre, il 25 o 26 – le sementi erano già pronte dentro i sacchi nella stalletta del cavallo che era stata ripulita apposta – ha visto tutta questa gente che cominciava a prepararsi lo zaino, a farsi lavare e stirare le camicie nere dalle sorelle, a passare l’olio alle armi e a dirle «Fate un po’ di pane mamma, per piacere, che dobbiamo partire», mia nonna è andata su tutte le furie: «E dov’è che andate?». «A Roma.» «A Roma? E perché non più in là? Qui c’è da seminare, desgrasià. Chi è che semina, ch’av vègna un càncher?»
Ma quelli sono partiti tutti quanti – tutti i fratelli maschi più grandi, il nucleo storico – e anche questa volta è mancato poco gli si rinfilasse dietro la zia Bìssola. Erano zio Temistocle, zio Pericle, zio Iseo, Treves, Turati che aveva sedici anni e pure zio Adelchi questa volta, che quando lo hanno visto prepararsi anche lui, nessuno ci voleva credere: «Vieni anche tu? E che vieni a fare? Non è meglio che qualcuno rimanga a casa?». «Rimanete voi» faceva lui, mentre si passava la brillantina sui capelli. Sono partiti in sei e se lei vede, ci sono ancora le fotografie con tutti i miei zii in posa con la divisa della milizia – fotografie scattate dopo, in Agro Pontino, quando erano oramai già tutti grandi – ma si vede bene che sopra la camicia nera, a tracolla, c’è la fascia littorio, perché erano tutti e sei “marcia su Roma”; gli toccava di diritto e mi sa che ce ne sono state poche di famiglie in Italia con tutti questi figli sciarpa-littorio e marciasuroma e zio Turati, le ripeto, non aveva nemmeno sedici anni ed era il più armato, tutto pieno di pugnali e bombe a mano legate alla cintura. E mia nonna strillava verso lo stradone a notte fonda, la notte del 26 ottobre che il 18BL era appena partito: «Disgraziati, qui c’è da seminare». «Semineremo mamma, state tranquilla, seminarém.» E poi hanno fatto davvero in tempo a seminare, che neanche loro ci credevano che potesse andare così tranquilla. Loro andavano davvero a un’altra guerra e qualche pensiero -alla semina che andava a bàccara – se lo facevano pure loro: «Semineranno le femmine». Ma sono partiti la notte del 26 ottobre e la sera del primo novembre, i Santi, erano già a casa stanchi morti e il giorno dopo, i Morti, mia nonna li ha mandati a seminare. Non hanno sparato un colpo. Solo a San Lorenzo del resto – nel quartiere di San Lorenzo in Roma – ci sono stati incidenti. Era un quartiere operaio – ferrovieri socialisti e comunisti – e quando gli sono passati sotto la mattina del 31 ottobre si sono sentiti rodere. È quel giorno che i fascisti sono stati
finalmente fatti affluire a Roma e la marcia era vinta. Il re aveva già chiamato Mussolini e gli aveva detto: «Va bene, fai tu il governo». Quell’altro aveva risposto: «Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto» ed era tutto finito prima ancora che il primo fascista entrasse in Roma. Stavano tutti fuori, ancora. Avevamo vinto. Ma prima di rimandare tutti a casa era pure giusto che li si facesse almeno arrivare a Roma, a fare una sfilata e potersi credere che era merito loro e l’avevano conquistata con le armi, non con le manovre di corridoio; se no. che c’erano venuti a fare? E quando il 31 ottobre sono entrati a fare la sfilata e la colonna che veniva dagli Abruzzi agli ordini di Bottai, nel passare per le strade di San Lorenzo s’è messa a sparare per aria, allora gli operai e i ferrovieri di San Lorenzo gli hanno risparato addosso dalle finestre e ci sono stati morti e feriti. Ma solo là. Per tutto il resto niente. È stata solo una grande sfacchinata. Per tutto il giorno del 27, mentre il treno marciava a rilento verso Terni – perché era previsto lì il concentramento loro – i fratelli non facevano che dire allo zio Adelchi: «Ma perché sei venuto? Ci sarà da sparare». «Spararò anca mì» faceva. Ma loro non erano convinti, insistevano: «Ma sei sicuro? Guarda che c’è da sparare per davvero». «E spararò!» insisteva: «Sempre meglio che restare a casa. Quella mi faceva seminare tutto a me». E invece non ha sparato nessuno di loro – neanche un colpo in tutta la marcia su Roma – solo quelli a San Lorenzo appunto, a marcia finita. A Terni erano rimasti due giorni sotto l’acqua, fermi attorno alla stazione. Un’acqua che Dio la mandava. Notte e giorno. E ogni tanto girava la voce: «Adesso si parte». «No, dopo.» E via di questo passo per due giorni sotto l’acqua, con chi diceva che l’esercito aveva messo i posti di blocco e non ci avrebbe fatto passare e
sarebbe stata una carneficina, e chi diceva invece che l’esercito stava con noi: «Adesso ci fanno passare». Io ora non lo so come è andata per davvero. C’è chi dice che il capo del governo – Facta – avesse già preparato il decreto per lo stato d’assedio con l’ordine all’esercito di sparare. Ma quando è andato dal re per farglielo firmare, il re gli ha detto: «Lascia stare, dai qua che ci penso io» e lo ha fatto dimettere. Poi si è risentito con Giolitti che era vecchio ma ancora comandava tutto lui. «Lo stato d’assedio?» ha detto Giolitti al re: «Lascia stare, Re. Chiama quel Mussolini e dagli il governo, che poi ci mettiamo d’accordo e gli facciamo fare anche a lui quello che vogliamo noi, come abbiamo sempre fatto con gli altri. L’importante è che lo portiamo dalla parte nostra e lo teniamo sempre pronto, per mollarlo contro quegli stronzi di socialisti» perché a quelli non gliel’ha più perdonata. Il re ha assentito: «Va bene Giolitti, hai ragione tu», e ha chiamato il Mussolini e tutto a posto. «Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto» e la marcia su Roma era bella che finita. Mio zio Adelchi ha tirato una palla di schioppo a una folaga che si trovava a passare mentre erano attendati a Settebagni vicino Roma – in mezzo alla campagna – il pomeriggio del 29 che era appena spiovuto. E se la sono fatta allo spiedo insieme a un paio di polli che mio zio Turati aveva rimediato non si sa dove. Non si è mai capito se li avesse comprati o rubati in un pollaio lì vicino. Però i soldi dai fratelli se li è fatti dare: «Io li ho pagati». Il giorno dopo, la sera del 30, sono andati a Roma e zio Pericle li ha portati – cioè ha portato i fratelli più piccoli, zio Temistocle no, perché non è voluto venire: «Io sono sposato» -li ha portati in quel casino dove andava sempre da soldato, quando faceva il cavallaio su e giù da Cisterna. Zio Turati non lo volevano far entrare perché sembrava troppo giovane. «Ma è un fascista» diceva zio Pericle mentre il Turati mostrava il pugnale, «e io un
cliente affezionato.» Così li hanno fatti entrare tutti, e tutti, però, hanno poi voluto andare con la sciantosa – la Mimì – mentre zio Pericle si ostinava a caldeggiare le virtù della sua: «Guardate che è meglio questa, non c’è paragone nelle prestazioni». Ma quelli niente. E quest’altra, la sua, ridiceva sconsolata allo zio Pericle: «Eh, chi ce l’ha d’oro e chi ce l’ha di latta a questo mondo». Il giorno appresso hanno sfilato in quarantamila, preso il potere armati di soli schioppi – «Varda là, xè il Colosèo; varda là San Pièro» – e poi ripreso il treno e via per l’Altitalia. I miei zii fino a Ferrara – tutta la giornata – e da lì i 18BL per Codigoro per poi buttarsi stracchi sui letti senza neanche stare a raccontare, solo mangiare polenta e mollare pedate a zia Bìssola che insisteva che le raccontassero: «Contème Roma, contème Roma». E giù a dormire stracchi morti e la mattina appresso – il giorno dei morti appunto, sul presto, che ancora non faceva giorno e non gli pareva davvero nemmeno d’essersi buttati sul letto – mia nonna li ha ributtati giù: «Ghe xè da seminàr inquò». Insomma una scampagnata, la marcia su Roma. Faticosa, ma sempre una scampagnata. E hanno preso il potere. Quella che invece non è stata per niente una scampagnata – ma è proprio per questo che si sono poi potuti permettere tanti anni dopo, nel 1932, di venire fino a Roma a bussare al portone di palazzo Venezia: «Pùm pùm», «Chi è?», «Peruzzi», se no come facevano? chi li faceva muovere di casa? – è stata l’anno dopo, il 1923. Oramai eravamo al potere. Mussolini era capo del governo. Era ancora un governo parlamentare. C’erano i partiti, le opposizioni, la democrazia. Certo era la democrazia del re, ma era sempre democrazia governata dalle sue leggi albertine, anche se tu eri capo del governo e i prefetti e tutti quanti dovevano rispondere a te; tanto che Giolitti cominciava già a pensare: «Vuoi vedere che ho fatto una cazzata? Questo mo’ chi lo caccia più?».
Al re però gli stava bene: «Finalmente ho uno che sa comandare da solo senza stare a rompere i coglioni a me». Non c’era più la confusione di prima – il vuoto di potere -adesso si sapeva chi comandava e neanche c’erano più disordini o pistolettate. Nemmeno c’erano quasi più camere del lavoro in giro, perché le avevamo già bruciate e quelle che non avevamo bruciato noi, erano diventate case del fascio e la gente ci si veniva a iscrivere come le mosche. Toccava cacciarli a pedate: «Le scrision xè chiuse». I miei zii oramai lavoravano e basta. Zio Pericle andava la sera a Codigoro – alla casa del fascio ex camera del lavoro – giusto per fare quattro chiacchiere, giocare alle carte, bersi un quartino all’osteria e vedere soprattutto se gli riusciva di dare un’occhiata al piano di sopra, a quel famoso diavolo biondo che scalciava coi piedi dalla finestra la sera dell’incendio del pagliaio e del controincendio nostro. Ma quella non si faceva mai vedere. Anzi, le poche volte che lo vedeva, sputava per terra e diceva: «Sasìn», assassino. Tutto tranquillo quindi, c’era un po’ di opposizione parlamentare ma per il resto era tutto tranquillo: “Mussolini è al lavoro” diceva “Il Popolo d’Italia”. In un paese lì vicino a noi però – dalle parti di Comacchio – c’era un prete che non stava per niente tranquillo. Lei ricorderà quello di Cavarzere, no? Be’, questo ne valeva dieci. Era stato pure in guerra come cappellano e una volta che il suo reparto stava per soccombere davanti ai tedeschi – proprio nella rotta di Caporetto – quello prima di sentirsi prete s’è sentito italiano. Soldato coi suoi soldati e italiano tra i suoi italiani, ha riposato il crocifisso e s’è messo lui con la mitraglia a cui era appena morto il mitragliere – «Ta-ta-ta-tà» – in piedi, con questa mitraglia sotto il braccio. E a vedere lui, hanno ripreso animo anche i soldati suoi e si sono difesi, e lui lo hanno decorato al valor militare. Come dice? che un prete non dovrebbe sparare? Eh, queste sono cose che si dicono oggi, e comunque non mi pare ci sia poi tanta differenza tra sparare
direttamente e dare invece la benedizione a chi spara al posto tuo. Sono ipocrisie della modernità. Più andiamo avanti e più ci facciamo raffinati. A quel tempo non era così. Il prete benediva finché bastava benedire; quando la benedizione non bastava più, sparava anche lui. Mica solo quel prete, pure tutti gli altri in tutti gli altri paesi. In fin dei conti quanti anni erano passati che il Papa aveva gli eserciti suoi e sparava e ammazzava in proprio coi cannoni ed i moschetti? Mica solo Giulio II che si metteva la corazza. Pure Pio IX: «Monti e Tognetti», come diceva mio nonno. Certo è bello e giusto che i cattolici oggi parlino tutti di nonviolenza. E questa nonviolenza ci sarà pure – non dico mica – ma è una roba di adesso, perché ancora nel 1969, a piazza Fontana, mi sa tanto che non c’era ancora. Comunque questo prete di Comacchio valeva almeno dieci volte quello di Cavarzere. L’oratorio lo aveva fatto per davvero e non ci faceva solo giocare i ragazzini, ma li faceva anche studiare: scuole serali e un avviamento professionale. Gli insegnava a fare i falegnami e i carpentieri, che lì c’erano i cantieri in cui si costruivano le barche e i pescherecci e – una volta – anche i mulini ad acqua che poi andavano sul Po. In un capannone aveva anche tirato su uno schermo per il cinema, che eravamo ancora nel 1923 e c’era il cinema muto, con l’organista della chiesa che davanti allo schermo suonava le musiche sull’armonium a pedali. E poi faceva politica. Aveva organizzato una lega bianca di mutuo soccorso e nelle prediche parlava male del fascio e del governo. Lui voleva la libertà e diceva che il fascio invece la opprimesse, e pur di non andare d’accordo con il fascio, preferiva andare d’accordo con i rossi. Stava sempre insieme ai socialisti. E già questo fatto era più che sufficiente per far incazzare i neri, perché se si veniva a sapere in giro per gli altri paesi, poi la gente diceva: «Ma se lo hanno fatto a Comacchio, di mettersi d’accordo i preti con i rossi, perché non lo facciamo anche qua?», e allora per noi era finita.
Questa voce però si stava oramai spargendo per tutto il ferrarese. Quello ogni domenica mattina – alla messa grande di mezzogiorno, a cui andavano tutti i signori, gli impiegati e gli avvocati – si metteva sul pulpito a ripetere che il pericolo più grosso era la violenza dell’attacco alle libertà e non le rivendicazioni del proletariato, che aveva invece anche lui i suoi sacrosanti diritti. Lo diceva pure Nostrosignore in fin dei conti e allora anche i signori nostri si dovevano mettere una mano sulla coscienza e dargli i suoi diritti al popolo, e fare fronte comune contro chi attentava «e con la violenza!» alle libertà di tutti. E la voce oramai s’era sparsa in tutta l’Emilia e anche un po’ più in là, proprio mentre quello – oltre che andare d’accordo e farsi vedere all’osteria coi caporioni socialisti – s’era inventato di mettere su un reparto di boyscout. Il Balbo a questo punto s’era incazzato come una bestia ed era andato dal vescovo di Ferrara: «Uèhi, ma a che gioco giochiamo?». Quello aveva risposto: «E che ci posso fare? Mica gli posso dare una bastonata in testa come fate voi. Noi siamo la chiesa, preghiamo e parliamo. Vedrò di parlarci, stai tranquillo». E Balbo se ne è andato tranquillo. Però non è successo niente. Il prete di Comacchio ha continuato ad andare dritto per la sua strada come un treno, sia alle prediche della domenica che all’osteria coi socialisti. E soprattutto in parrocchia con i boyscout. «Còssa vòtu che m’in frega a mì?» avrà pensato il vescovo di Ferrara mentre riaccompagnava Balbo alla porta: «Noi siamo Santaromanachiesa e abbiamo sempre tenuto il piede almeno in due staffe, vuoi vedere che un domani vengono buoni anche quelli là? Sarò mica matto ad andargli a dire qualcosa», perché lui oltretutto – il vescovo di Ferrara – lo sapeva che il Balbo non era esattamente dei suoi ed era un massone. E non solo era massone, era pure pieno di amici ebrei. Erano gli ebrei e i massoni che a Ferrara avevano fatto il fascio, erano loro la forza di Balbo e poi nel fascismo oramai – con la fusione del marzo 1923 – era confluito tutto il partito
nazionalista, che era sempre stato composto soprattutto da ebrei e massoni. Altro che Santa Romana Chiesa. Nel primo governo Mussolini peraltro, c’era stato pure qualche ministro cattolico del Partito popolare – la Democrazia cristiana di allora che si era inventata il Giolitti proprio per tenerla distinta e separata dai rossi socialisti – anche se poi il Giolitti s’era pentito d’avergli dato una mano: «Mi sa che abbiamo fatto una cazzata» aveva detto al re. «Tu! Io no» aveva pensato il Savoia. E ha continuato a pensarlo anche ad aprile del 1923, quando Mussolini ha cacciato dal governo i ministri popolari, i cattolici: «Fuori!». Anzi, ai primi di luglio – d’accordo con il Vaticano, perché pure quello, come il vescovo, avrà pensato: «Non si sa mai» – ai primi di luglio aveva ottenuto che don Sturzo, il segretario del partito popolare che il Duce non lo poteva vedere peggio ancora dei socialisti per Giolitti, dovesse dare le dimissioni e andarsi a rinchiudere in un convento all’estero: «Prega, va’». Era un giro di vite insomma, con l’unica eccezione di questo prete di Comacchio che continuava a fare come gli pareva. «Anche coi boyscout adesso?», il Balbo non ci dormiva quasi più la notte. «Come la sistemo questa cosa qua? Chi lo sente quel can del Mussolini?». Come dice, scusi? perché si preoccupavano dei boyscout? che fastidio gli davano i lupetti? In primo luogo quella era gente che non gli è mai piaciuta la concorrenza. A qualunque gioco dovessero giocare, volevano giocare e vincere soltanto loro. Mo’ si facevano fare la concorrenza dai preti? E poi i giovani li dovevano ammaestrare loro, non la chiesa. Li lasciavano al prete? Ma tu pensa a pregare e a dire messa. Non ti bastava l’oratorio? Adesso pure i boy-scout con le divise, le squadriglie, il cappello, il pugnale e il caposquadriglia? E che ti sei fatto, il paramilitare? Le squadracce pure tu? Non ci bastavano le camicie nere mie, quelle azzurre dei nazionalisti, le camicie rosse e gli Arditi del popolo di Parma? Adesso anche le camicie bianche del Papa? E dov’è che andiamo a finire? debbono avere detto al
fascio: «Non bastava don Sturzo, ci mancava il prete di Comacchio coi suoi soldà?». Cosa dice? che è infantile che si stessero a preoccupare dei ragazzini, il club di Topolino, le giovani marmotte, l’ambientalismo, la nonviolenza, nodi, boschi e campeggi? Eh no, lei non la deve vedere adesso. Anche allora forse era già così, e il giovane-esploratore non doveva essere in fin dei conti che un buon samaritano: nodi e libro della giungla, punto e basta. Però si dà il caso che Il libro della giungla lo aveva scritto Kipling e lo aveva scritto per magnificare e cementare ancora di più l’impero britannico, mica il regno dei cieli. Ma anche gli scout, lo scoutismo – con i nodi, i canti, le squadriglie, le regole, la buona caccia e la promessa – se lo era inventato un amico di Kipling, Lord Baden-Powell, un inglese, un militare. E se lo era inventato durante la guerra coi Boeri in Sudafrica, per poter usare anche i ragazzi e i bambini contro i Boeri – gli faceva fare i portaordini, le vedette, gli esploratori e tutto quello che serviva – e qualcuno morì pure. Io con questo non è che voglio dire che avessero ragione i fascisti. Ci mancherebbe altro. Qui deve essere chiaro che non stiamo parlando di persone per bene – quelli erano così, quella era gente che se tu gli parlavi contro in parlamento, ti mandavano la squadraccia sotto casa come a Matteotti, a coltellate – mentre il prete di Comacchio è evidente invece che abbia fatto tutto solo a fin di bene. Lui voleva la pace, la libertà, il progresso, il regno di Dio e l’amore di tutte le creature. Lui era un uomo del Signore e gli scout li ha fatti per educare i giovani all’amore universale. Erano solamente ragazzini, mentre erano i fascisti ad avere l’occhio malvagio e a vedere le cattive intenzioni anche dove non c’erano. E quindi è fuori discussione che oggi gli scout facciano protezione civile, ecologia, pedagogia e siano uno strumento di pace. Però deve essere altrettanto chiaro che quando sono nati
– ed erano nati da poco, al tempo dei miei zii – sono nati come strumento di guerra. E comunque quelli là si sono preoccupati. Tutto il resto girava tranquillo, il paese sembrava normalizzato, i miei zii zappavano e mia nonna era tutta contenta che non andassero più in giro e stessero solo a lavorare. Quelli però erano preoccupati e un giorno a Roma – appena finita una riunione di Gran Consiglio – poco prima che andassero via tutti e il Balbo si stava per alzare, il Mussolini gli ha detto: «Ma cos’è questa storia di Comacchio? Non sei più buono a far intendere ragione a un curato di campagna?». Balbo s’è fatto rosso per la rabbia e la vergogna: «Avrei già parlato con il vescovo». «Sììì, il vescovo…» ha fatto il Duce e poi lo ha ripetuto con un sorrisetto storto, di sguincio, proprio a prenderlo in giro e rosolarlo al fuoco: «Il vescovo?!». «Be’ no, starei pensando anche a qualcos’altro». «Sì, pensa… pensa, tu!» insisteva il Duce: «E che avresti pensato?». «Be’, non so, di fargli parlare da qualcun altro…» «Il Peruzzi di Codigoro!» è saltato su il Rossoni che stava lì di fianco e che non gli pareva vero d’essere lui a indicare la soluzione ai problemi dell’altro e di far vedere a tutti lì – prima al Balbo e poi al Duce – che aveva ancora pure lui la gente sua, dalle parti sue. «Peruzzi? Un fiòlo del Peruzzi?» ha fatto il Duce con una faccia come a dire: «E perché? Perché proprio lui?». «Lui lo sa come si parla ai curati» ha spiegato il Rossoni e poi, rivolto al Balbo: «Ditegli che ve l’ho detto io», mentre quello quasi si gonfiava come un rospo dalla rabbia, preso oramai nella tela del Rossoni. Il Duce però allungava ancora il muso, con l’espressione: «Ma che stai a dire? Mica ho capito di cosa stai parlando». «Cavarzere! Il curato di Cavarzere» gli ha ricordato Rossoni.
«Ah!» ha fatto il Duce. E così Balbo – tornato a Ferrara – ha chiamato a malincuore uno dei suoi e lo ha mandato a dire a mio zio Pericle: «Dovresti andare a parlare con il prevosto di Comacchio. Lo ha detto il Rossoni» e mio zio è partito. È per questo che ci siamo potuti presentare quasi dieci anni dopo a palazzo Venezia a dire: «Bùm, bum» al portone. «Chi è?» «Peruzzi! Vogliamo il Rossoni» e non ci hanno potuti cacciare. Erano passati dieci anni da quel fatto e non stavamo più oramai a Codigoro, eravamo a Ca’ Bragadìn dal conte Zorzi Vila e le cose c’erano andate a gonfie vele – fino allora -per tutta la nostra famiglia, perché la terra era tanta e tutta buona, e noi un sacco di figli per lavorarla. Anche le condizioni contrattuali erano buone. Non erano mai state così buone come con il conte Zorzi Vila, che ce lo aveva trovato – per quel fatto – proprio il fascio, essendo uno di quegli agrari amici di Balbo. A noi ci portava in palmo di mano -o almeno così sembrava – e tutto oramai girava per il verso suo e noi avevamo progredito di anno in anno per quasi dieci anni, senza avere più né visto né sentito il Rossoni, il Balbo e tanto meno il Mussolini, che era Duce oramai e che stavano tutti a Roma. Noi eravamo solo contadini in pace con Dio e con gli uomini. Lavorare e basta oramai, contenti del nostro pane e del nostro lavoro. Le bestie aumentavano, le figlie si sposavano e i figli anche. E nascevano nuovi bambini e la famiglia cresceva. Fino che all’improvviso non c’è calato il patatràc addosso. La quota 90. Era il 1927 e come lei sa, a quei tempi il commercio estero non avveniva sulla base del dollaro, ma dell’oro e della sterlina inglese che a settembre 1926 era arrivata a 149, quasi 150 lire per una sterlina. La bilancia dei pagamenti import-export era al tracollo. L’industria italiana in crisi. E pure per il grano – dar da mangiare al popolo, perché in Italia ancora non se ne produceva a
sufficienza, tanto è vero che qualche anno dopo si dichiarò apposta la “battaglia del grano” – quando andavi a comprarlo all’estero lo dovevi pagare oramai, faccia conto, 150 lire a sterlina. Be’, lui – il Duce – dalla mattina alla sera ha detto: «Rivaluto la lira, da oggi in poi è a quota 90, mai più di 90 lire per una sterlina» e subito il cambio scese a meno di 86 lire per una sterlina. Come abbia fatto e quali manovre abbia messo in piedi, non glielo so dire, lei s’immagini però come deve essere stata contenta la grande industria italiana che per il carbone, il ferro, il rame ed ogni cosa che doveva andare a comprare all’estero e che fino al giorno prima la pagava, mettiamo, a 150 lire al chilo, adesso la pagava 90. Ed anche noi Peruzzi abbiamo detto lì per lì: «Vaca boia, come che l’è bravo il nostro Duce». Solo dopo però – perché intanto coi conti Zorzi Vila abbiamo continuato tale e quale a prima, cioè a spartire il raccolto a quintalaggio, e anche per le spese in lire: «Segnate, ma in fiducia, che poi faremo un conto unico alla fine» diceva ogni volta il conte maladéto – solo dopo ci siamo accorti che se il nostro campo continuava a produrre solo e sempre, mettiamo, i suoi dieci quintali di grano all’anno, e noi fino al 1926 vendendo quei dieci quintali al mercato avevamo preso 1500 lire, dal 1927 in poi ne avremmo prese solo 900. Veda un po’ quanto ci abbiamo rimesso e se è vero o no, che la quota 90 ha ammazzato i contadini italiani. E provi a immaginare cosa può avere fatto a noi mezzadri. Ci ha proprio massacrato. Noi eravamo tenuti a spartire a metà il raccolto con il padrone – tanti quintali a te e tanti a me, a metà – ma a quintali appunto. Ed eravamo pure tenuti però a spartire le spese. E queste lui – lo Zorzi Vila maladéto – le ha conteggiate tutte in lire. Debiti segnati per anni, e noi convinti di averli già scalati anno dopo anno con una parte del quintalaggio dei nostri raccolti. E invece il conte Zorzi Vila a un certo punto ha chiamato tutti i suoi mezzadri e ha detto: «Fémo i conti». E tanto di questo, tanto di quello, tanto dell’anno
1925, tanto del ‘26 e ‘27 fino al 1932, ognuno di noi aveva una cifra da pagargli da fare paura. «Ma i quintali che abbiamo dato in più?» abbiamo chiesto tutti noi. «Quali quintali? Qui sono schèi, lire! Tirate fuori le ricevute se le avete» ha detto il conte. «Le ricevute? Ma abbiamo sempre fatto in fiducia.» «Ma quale fiducia e fiducia?» ha urlato il conte Zorzi Vila: «Fuori i soldi o le ricevute, prima che chiamo i carabinieri». E ha presentato a tutti il conto e ci ha cacciati via e prese tutte le bestie nostre per andare a pari – diceva lui calcolandocele nemmeno al prezzo giusto loro, ma a quello scontato di quota 90, maladéti loro, che poi alla fine disse pure: «Va bèn, con queste bestie magre non vado mica pari! Avanzerei ancora tanto, ma i Zorzi Vila xè sempre stà magnanimi, avì solo da ringrasiàr». Grazie, conte. Nudi e crudi. Una mano davanti e una di dietro ci hanno ridotto. Ridotti alla fame. Ed è allora che anche mio zio Adelchi s’è ritrovato avvolto dalla furia – «L’è diventà mato» diceva mia nonna – e s’è messo a sparare al conte ed al fattore ed i carabinieri l’hanno portato via lui con le catene. Per questo gli altri miei zii sono dovuti venire a Roma e il Rossoni – appena li ha visti – gli è saltato al collo e non finiva più di abbracciarli e baciarli, mentre rimproverava gli uscieri e le guardie che non li avevano riveriti subito e fatti salire prima. Poi se faceva finta non lo so. Il Rossoni comunque li ha portati su, li ha fatti sedere e s’è fatto raccontare per filo e per segno ogni minima cosa. Con la testa – man mano che parlavano – faceva segno di sì: «Ho capito». Alla fine gli ha detto: «Tornate domani, che intanto oggi mi do un’occhiata in giro, ci penso sopra e vedo quello che posso fare». E il giorno dopo i miei zii sono ritornati – riguardando giustamente in cagnesco un’altra volta quello della portineria – e arrivati su, il Rossoni gli ha
detto: «Allegri! È tutto risolto», e loro manca poco che si mettono a ballare lì dentro nel suo ufficio. Invece era risolto solo per zio Adelchi; era libero, avevano già dato l’ordine, non aveva ferito nessuno d’altronde - «Un Peruzzi senza mira» li ha presi in giro il Rossoni: «A còssa gàlo sparà, àe farfàe?» – e il conte aveva di buon luogo acconsentito a ritirare la denuncia. Ma per le bestie no. Non c’era niente da fare: «Non ci posso fare niente, è quota 90 e il conte sta nel suo» ciapèv’la in quel posto. «L’unica cosa che posso fare, è farvi avere un podere o due nelle Pontine». «Le Pontine?» ha fatto zio Pericle terrorizzato, perché lui da militare le Pontine le aveva viste – pure se da fuori, da lontano – da Cisterna. E già lì si tastavano le foreste impenetrabili, gli stagni, gli acquitrini e la gente con l’addome gonfio come un pallone – anche ragazzi di quindici anni, a cui la malaria già gonfiava il fegato come panzarotti – oltre ai morti buttati sulle strade e in mezzo ai fossi. E in quelle foreste impenetrabili i banditi di cui raccontavano i cisternesi, gente che aveva ammazzato al suo paese – o anche a Roma – e si veniva a rifugiare qua, perché qua nessuno veniva più a cercarli. Arrivavano nelle Pontine ed era zona franca, salvo poi vedersela con la malaria o anche tra loro - perché solo lei o loro ci potevano entrare, non certo i carabinieri o i parenti delle vittime in cerca di vendetta – e se tu passavi di là, dicevano i cisternesi, i banditi t’assalivano. Certe volte uscivano sulle strade – sulla consolare, e fino a Cisterna, a Terracina – e assalivano i viandanti, la corriera, la diligenza: «O la borsa o la vita». Le Paludi Pontine erano terra di morte. E mio zio lo sapeva perché era stato a Cisterna, a governare cavalli per l’esercito: «Ma sìo mato Rossoni? Scusè, ecelensa? Volete proprio farci morire tutti, la razza dei Peruzzi? Ma che vi abbiamo fatto di male?». «Ma no Peruzzi, che hai capito? Lì abbiamo fatto un paradiso, abbiamo prosciugato tutto quanto, mica è più come una volta: da così a così» e gli
metteva la mano davanti – col palmo verso l’alto – e la rigirava di scatto verso il basso: «Da così a così. È diventato un giardino, el Zardìn Terèstre, e daremo la terra ai contadini». «Io non la voglio quella terra là. Quela xè tera impestà. Io voglio la mia e le bestie mie.» «Quelle non posso più dartele. Ma nelle Pontine sì, tutti i poderi che vuoi. E quella terra diventerà tua Peruzzi, stavolta diamo davvero la terra ai contadini, dopo un po’ d’anni a mezzadria la si potrà riscattare e diventerà di tua proprietà, diventi un proprietario anca tì Peruzzi, un signore» e gli brillava il viso al Rossoni mentre raccontava queste storie. Proprio come stesse offrendo loro in dono la Terra Promessa. «Nelle Pontine?» faceva invece zio Pericle: «Nooo, mì le cognòsso». «Ma la terra diventa tua! Proprietario! Vai a vedere, almeno, prima di dire di no» insisteva il Rossoni. «Nooo» continuava a fare zio Pericle, finché il Rossoni non s’è rivolto a zio Temistocle: «Ma tu cosa dici, tu non parli mai, ch’at vègna un càncher?». «Mì…» ha detto solo zio Temistocle, e poi ha fatto una faccia e allargato le mani verso il fratello come a dire: «Siamo venuti fin qua, arriviamo fin là. Cosa abbiamo da perdere? Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno; perché non andiamo a dare un’occhiata?». E allora zio Pericle ha detto: «Va bèn, séimo vegnù fin qua, rivémo fin là; ‘ndémo a darghe un’ociada, còssa ghémo da perdere?» e sono venuti via. Rossoni li ha accompagnati fino fuori dall’ufficio e mentre stavano sul corridoio a finire di salutarsi, s’è aperta un’altra porta e ne è uscito il Duce. Subito gli uscieri sono scattati sull’attenti – «Duce!» e saluto romano – e pure i miei zii, pure loro sono scattati sull’attenti: «Duce!» e hanno fatto il saluto romano. Anche il Rossoni ha abbozzato un salutino a mezzo braccio. Il Duce è passato di fretta per i fatti suoi, ha detto uno stentato «A noi» e ha alzato pure lui un braccettino di circostanza, continuando a pensare alle cose
sue. Ma quando è stato lì – vicino ai miei zii – s’è fermato un attimo di soprabbalzo e li ha guardati in faccia: «A me questi mi pare di conoscerli». Ha aggrottato il muso, quasi a concentrare maggiormente la memoria. Li aveva visti da ragazzini in fin dei conti, e adesso erano uomini fatti e chissà quant’altra gente aveva visto in vita sua in tutti quegli anni e con tutti gli impicci che aveva per la testa; e va bene che qualche somiglianza coi genitori doveva pure esserci e zio Pericle, oltretutto, qualche volta lo avrà pure visto, magari da lontano, in giro per il covo di via Paolo da Cannobio a Milano nel 1919: «Ma mi sa pure a San Sepolcro… non vorìa sbaliarme… Come casso i se ciama?» ha continuato a sforzarsi la memoria il Duce. «Ah…! Peruzzi! Valtri sì i Peruzzi» ha fatto il Duce. «Duce, Duce!» facevano i miei zii. «Salutème vostra mama» ha detto il Duce tutto contento d’essersi ricordato, e ha ripreso a camminare ed è entrato energico dentro un altro ufficio. Ma poi, appena richiusa la porta dietro di sé, subito l’ha rispalancata un’altra volta e s’è riaffacciato con la testa – la testa sola – dentro il corridoio: «E l’erpice? L’erpice va ancora? Dite a vostra mamma che se ha bisogno me lo faccia sapere, che non faccia complimenti. Sono ancora buono col martello. A noi!» e se n’è andato. E se ne sono andati pure i miei zii. Sono tornati alla casa del passeggero, si sono levati la camicia nera, la sciarpa littorio e la divisa della milizia. Ne hanno fatto un pacchetto e lo hanno legato dietro la sella. Si sono rimessi i vestiti di tutti i giorni – con le braghe e la camicia con le toppe -e sono rimontati in bicicletta. Hanno preso l’Appia – la via dei Castelli – e una pedalata dopo l’altra sono arrivati a Velletri e poi a Cisterna e da lì in Agro Pontino e hanno dato un’occhiata in giro. Mio zio Pericle ha potuto constatare di persona che non c’erano più le Paludi – tutto prosciugato -e zio Temistocle gli ha detto: «Visto? Sempre malfidà». Così hanno voltato le biciclette e in capo a meno di un’altra settimana sono tornati su, dove hanno trovato lo zio
Adelchi libero come un fringuelletto. Anzi, appena li ha visti gli ha detto pure: «Ma che casso sìo andà a fare fin Roma? Io me la so cavare da solo, sono già a casa!». Poi hanno fatto le carte, preparato i bagagli, caricata la famiglia e portati tutti qua – in Agro Pontino – via dalla Valpadana, da dove ci avevano cacciato levandoci tutto, le bestie nostre e le scorte accumulate in anni di fatiche. E qui per fortuna abbiamo potuto ricominciare da capo, proprio perché quella volta – nel 1923, dieci anni prima – uno di Balbo era venuto da mio zio Pericle a dirgli: «Dovresti andare a parlare con il prete di Comacchio, lo ha detto il Rossoni» e mio zio era partito ed era andato a Comacchio. «Prevosto!» gli aveva detto energico. Era andato senza la camicia nera, s’era presentato vestito normale in sagrestia coi vestiti della festa, la camicia pulita e pantaloni e giacchetta, puliti pure quelli ma rammendati da qualche toppa, perché non è che ci facessimo un vestito nuovo all’anno; una giacchetta ti doveva bastare una vita e poi da uno passava all’altro. «Prevosto, pensate alle anime» aveva detto, «che ai corpi ci pensiamo noi.» «Eh?» aveva fatto quello, che come lo aveva visto entra re s’era creduto fosse per un matrimonio o qualcos’altro, e lì per lì non aveva capito. «La politica!» ha precisato allora mio zio: «La politica lasciatela stare», e non so se avesse un tono minaccioso; ma forse no, forse era suadente e forse hanno pure parlottato per un po’. Forse il prete di Comacchio deve avere tentato pure lui – e pure lui suadente – di parlargli del pensiero sociale della chiesa e alla fine gli ha detto, suadente ma fermo: «Io faccio solo la volontà di Dio». «Continuate a farla come l’avete fatta per duemila anni; perché cambiarla inquò?» ha ringhiato zio Pericle un po’ meno suadente. E prima di venire via: «Uomo avvisato…», lasciando quest’ultima frase in sospeso. Quello però la domenica dopo alla messa di Comacchio è salito sul pulpito e ha detto fin dall’inizio: «I fascisti mi hanno minacciato, e minacciando me
hanno minacciato la chiesa e il popolo di Dio, non solo me che sono una pecorella che non conta niente. È quindi per difendere la chiesa e il popolo di Dio che questa pecorella, anche a costo della vita, non può subire inerme la minaccia e deve continuare a far sentire l’esile sua voce in difesa delle libertà di tutti». Non le dico quello che è successo a Comacchio. Appena usciti dalla messa, tutti guardavano i fascisti che per caso passavano, come se passassero gli appestati. A casa nostra invece – a Codigoro – i miei zii stavano ancora mangiando. Ancora non avevano finito il pasto domenicale – si stavano appena appena accendendo a tavola chi il sigaro e chi le cartine, pregustando il riposo pomeridiano, perché era caldo e c’era l’afa in giro che era poco più della metà d’agosto – quando s’è sentito il rumore d’una moto dallo stradone, una moto di quelle della guerra. Zio Pericle ha intuito che era per lui ed è andato fuori. Dietro ai piedi gli scorrazzava Paride, il figlio del fratello, che faceva: «Zio, zio, la moto!» e lui lo ha preso in braccio. Era uno di Comacchio sulla moto – uno del fascio, uno di Balbo – che gli ha detto: «Hai visto? Bel risultà! Te ne potevi restare anche a Codigoro, tu e il Rossoni», e mio zio si è fatto scuro, piccato più col fascista di Comacchio che con quel suo prete. S’è voltato, ha posato il ragazzino in casa -il Paride – s’è rimesso una camicia, avvolto una giacchetta sotto il braccio ed è partito pure lui con la moto, seduto dietro. Sono passati a Massafiscaglia a prenderne un altro - un altro come lui, deciso – e in tre sulla moto sono arrivati a Comacchio. Hanno aspettato sera in una casa di campagna fuori del paese, in disparte pure dalla strada. Non ci passava nessuno, neanche le folaghe che facevano in continuazione avanti e indietro dagli stagni con gli anguillotti in bocca. Be’, pure le folaghe facevano il giro largo, manco fosse il castello di Dracula. E mio zio e l’amico suo – quello di Massafiscaglia
- hanno fatto sera alle carte, giocando a briscola; ma dietro alla casa addirittura, neanche davanti, per non farsi vedere. E quando si stufavano di giocare, si sdraiavano sull’erba con le giacchette sotto la testa, al sole o all’ombra alla bisogna, e si facevano le cartine, fumavano e passavano le sigarette – fino a sera inoltrata – mentre il fascista di Comacchio se la faceva col padrone di casa, chiacchierava con lui, gli dava una mano in stalla. Poi – appena ha fatto notte – hanno mangiato e si sono mossi. Sono arrivati fuori dal paese, su una strada di campagna, e quello di Comacchio ha mandato uno dei suoi – uno di quelli meno in vista – a chiamare il prete dentro la canonica. Gli ha fatto dire che serviva l’estrema unzione al povero suo nonno che stava per morire nella casa là in campagna, proprio a due passi dal paese che non serviva nemmeno il biroccio – ci si arrivava comodi a piedi – proprio sulla strada dove sostavano zio Pericle e il suo amico di Massafiscaglia. Il fascista di Comacchio invece era andato all’osteria in piazza, a pagare da bere alla gente per farsi vedere. Mio zio e l’amico suo non stavano proprio sulla strada, stavano al di là del fosso – dietro una pianta d’olmo -e s’erano fatti ognuno un bastone prendendolo da una fascina pronta lì di fianco. I legni non erano neanche tanto secchi – erano ancora verdi – il contadino doveva averli tagliati da poco. C’era un po’ di luna. Hanno visto arrivare il prete che camminava insieme a un altro – forse era il sagrestano, o uno di quei giovani che frequentavano l’oratorio e le scuole sue – e parlottavano. Il prete teneva tra le mani una specie di pisside con le boccette e i calici dell’olio santo e non so, ma non credo l’eucaristia perché a quei tempi non è che la dessero tanto facilmente. Adesso vai e ti danno la comunione – anzi, te la fanno dare dai diaconi, dai laici, da quelli che non sono preti e perfino dalle donne – e ti dicono di comunicarti tutti i giorni, mica solo le domeniche. Allora non era così. Mica era la chiesa conciliare che ognuno va e s’avvicina a Cristo come gli pare e piace. Allora per fare la
comunione dovevi fare la domanda in carta bollata. Al massimo a Pasqua o a Natale – pure Pentecoste, va’ – ma mica tutti i giorni, e quindi non credo che portasse l’eucaristia. Giusto l’olio santo. Comunque aveva questa roba sacra tra le mani – sopra il petto – e la veste nera, e la stola sulla veste e sulle spalle, che gli scendeva ai lati. Sopra aveva un pastrano leggero perché è vero che era agosto, fine di agosto, ma quella sera già tirava a fresco, il giorno s’era sfiatato per il caldo, l’afa, ma a sera aveva rinfrescato e anche mio zio e l’amico suo – sotto l’olmo di là dal fosso che cingeva la strada, nascosti dietro le fratte e col bastone poggiato ai piedi – s’erano messi le giacchette. E quando il prete con l’olio santo in mano e il sagrestano a fianco è arrivato all’altezza loro, sono saltati sulla strada a sbarrargli il passo e il sagrestano – o un giovanotto dell’oratorio, chissà – ha preso paura, ha fatto: «Ahi!», e un salto indietro. In quel momento ha fatto «Ah!» e s’è svegliata anche mia nonna, dentro il suo letto a Codigoro, e le mancava il respiro. «Còssa ghe xè?» ha fatto mio nonno, svegliato anche lui dal soprassalto della moglie che stava adesso seduta sul letto e ansimava, mentre fuori cominciava a cantare una civetta. «Dio ti fulmini!» ha detto nonno alla civetta e ha ripetuto dolce alla moglie: «Cosa c’è?». «Ago visto un manto nero. Nero, nero.» «Dormi, dormi.» E lei pian piano s’è distesa. «Ahi!» aveva però fatto il sagrestano a Comacchio, mentre mio zio e quell’altro gli saltavano davanti a sbarrargli il passo. «Uomo avvisato, vi avevo detto» aveva digrinato tra i denti mio zio Pericle, ancora più incazzato con il fascista di Comacchio e con Balbo e con Rossoni e pure con il Mussolini più che con il prete. E aveva allargato il braccio, a far vedere il bastone ai raggi della luna. Ma il prete non aveva fatto un passo indietro. S’era solo fermato e impercettibilmente quasi aveva sollevato le mani dallo stomaco portandosele
con gli arredi sacri al petto: «Io sono un uomo del Signore» aveva detto. E poi: «Attenti a quel che fate». «Minaccia pure» ha fatto l’amico di zio Pericle, mollandogli una bastonata di fianco all’altezza del groppone, mirando alla spalla sinistra, all’attaccatura del braccio. Quello aveva tentato di schivare la botta, s’era inclinato di lato per attutirne il colpo ma – nel gesto – la pisside con tutti gli oli santi stava per cadere, e allora s’era piegato in avanti, chinato quasi per anticiparla nel volo e per raccorgliela. E non ha finito di dire: «Ma mì al diséa par vaitri», che oramai era già partita anche la botta di zio Pericle. Aveva mirato anche lui alle spalle – ma dritto dall’alto in basso – e quando la bastonata è poi arrivata a destinazione non le ha trovate più le spalle, perché quello s’era abbassato a reggere le sue sante cose. Il bastone – nel finire la sua corsa – lo ha preso in testa, dietro la nuca: dietro la testa oramai tutta esposta in avanti. Mio zio ha sentito subito il «Tòc» come fa un melone rotto, e non lo ha sentito nelle orecchie, ma nella mano, come trasmesso dalle fibre ancora verdi del bastone d’olmo. E quello è caduto a terra in una capriola, tutto raggomitolato attorno alle sue sante cose. E già rantolava. Mio zio ha capito subito. Il suo amico no e mentre il prete oramai stava già a terra, gli ha dato un altro paio di legnate sulla schiena e una al sagrestano che si stava avvicinando. «Sta bòn» gli ha detto mio zio Pericle, «che abbiamo già fatto un bel malanno, che vadano in malora tuti quanti» e pensava al Rossoni, al Balbo e al Mussolini, e a suo padre e a sua madre e al giorno stesso che era venuto al mondo, «e mì per primo, gran fiòl d’un can.» E sono scappati a piedi per la strada che da Comacchio va verso Lagosanto, una strada bianca polverosa, piena di ciottoli su cui pure, nella notte, inciampavano. E mio zio li pigliava a calci per la rabbia quei ciottoli, nel pensare alla faccia di quello, che cadendo diceva «Ma mì al diséa par valtri». Io dicevo per voi, sotto i raggi della luna.
Non so quanti chilometri abbiano fatto e nemmeno che ora fosse – oramai – quando li ha raggiunti quello di Comacchio con la moto, per riportarli a casa: «Ma che avete fatto?». Questa volta era stravolto, e il tono era proprio di rimprovero. «Tasi ch’at cópo anca a tì!» gli ha detto zio Pericle. Sono rimontati in moto e s’è fatto portare a casa. Ad aspettare che arrivassero i carabinieri. Al processo volevano il nome dei mandanti e la conferma del delitto politico. Ma lui ha detto: «Quali mandanti, quale politico? Era solo una questione di donne, signor giudice» e la folla dietro – nell’aula – se lo voleva mangiare. Non le dico le urla e gli strepiti. C’era tutta l’azione cattolica e il giudice ha fatto sgomberare l’aula. Fuori dal tribunale – sotto i portici della piazza – era pieno di fascisti in divisa della milizia. «Agh piaséa ‘e fémene al prevosto» ha insistito mio zio per coprire il Balbo e il Rossoni, e lo hanno condannato a una pena dura, trent’anni o giù di lì. Però quelli gli hanno fatto sapere di non starsi a preoccupare e tre anni dopo – nel 1926, che oramai c’era la dittatura e le leggi speciali, e non c’era più opposizione in Italia, o perlomeno opposizione consentita – gli hanno rifatto il processo. Gli hanno dato il colposo – o il preterintenzionale – cinque o sei anni soli. La gran parte li aveva scontati e il resto a condizionale. Quando è tornato a casa non stavamo già più a Codigoro. Mia nonna continuava ogni tanto a svegliarsi di notte per via d’un manto nero – «Nero, nero» – che le toglieva il respiro, diceva. Ma eravamo a Ca’ Bragadìn – dal conte Zorzi Vila – e ci pareva di stare in paradiso. Senza sapere che proprio questo, invece, sarebbe stato il nostro inferno, la fine delle nostre bestie. Dei nostri pochi averi. Ma è per questo però – per quel prete che a Comacchio, sulla strada che va a Lagosanto appena fuori del paese, sotto i raggi di una luna d’estate aveva detto a mio zio: «Ma mì al diséa par valtri» – che zio Pericle e zio Temistocle
si sono potuti permettere di partire e presentarsi a Roma a palazzo Venezia: «Vogliamo parlare con il Rossoni». È lì che ha avuto inizio la nostra storia; costretti ad emigrare in Agro Pontino – nudi come vermi – per ricominciare da capo tutta la generazione nostra dei Peruzzi e quelle che verranno. Ecco perché siamo venuti qua: perché ci hanno cacciato. Quota 90 e il conte Zorzi Vila. Se no restavamo là. E siamo venuti qua per via d’un prete. Un manto nero. E d’un cavallo, alla fin fine. Quel cavallo di Copparo.
II Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni -diecimila all’anno – venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano storto. E pregavano Dio che ci facesse fuori la malaria. Fu un esodo e noi arrivammo che Piscinara era già prosciugata. Una tabula rasa. Un tappeto di biliardo. Neanche un albero all’orizzonte di tutti quei boschi e foreste che secondo zio Pericle c’erano prima, pullulanti di bestie e briganti assassini scappati dai paesi loro sopra le montagne. Neanche più una goccia d’acqua, un filo d’erba, e noi arrivammo in trentamila a popolare come birilli inermi questo tappeto di biliardo, un vuoto senza fine tutto asciutto e terra vergine. Sembrava il deserto e la nonna dei Toson – con cui avevamo fatto il viaggio assieme e che stanno tuttora due poderi più in là del nostro – appena la sbarcarono dal camion disse proprio: «Ma qui ghe xè il deserto» e scoppiò a piangere ed urlare. I Toson venivano da Zero Branco, un paese posto a metà strada tra Venezia e Treviso; tutto piatto pure là come da noi nel Polesine e le montagne più vicine a un centinaio di chilometri. Ma l’orizzonte no, l’orizzonte non era un
vuoto senza fine. C’erano alberi a Zero Branco, alberi dappertutto, che dividevano campi e capezzagne: olmi, acacie, pioppi e frassini giganteschi, che cingevano strade e canali. E campanili poi. Ogni paese aveva il suo – e paesi vicini, a pochissimi chilometri l’uno dall’altro – e ognuno tentava di costruirlo più alto. Era una gara continua e ogni tanto ne crollava qualcuno, a furia d’innalzarli in sempiterno – un metro in più ogni anno – per non restare indietro al paese rivale. E ognuno era orgoglioso del suo campanile e a Zero Branco erano più orgogliosi degli altri, avendolo rifatto di sana pianta da poco, ed era il più alto – lo è ancora – di tutta la zona. La nonna Toson lo aveva ridetto anche sul treno, a quelli che erano venuti a ciacolare dagli altri vagoni: «Noi siamo di Zero Branco, il campanile più alto, conosce?». Era un ristoro quando in campagna – sotto il sole, a zappare le bietole – sentivi il tocco delle ore e tutti rialzavano la schiena, e asciugandosi la fronte mandavano lo sguardo al campanile. Non serviva solo come punto d’orientamento – che pure è già importante, in mezzo al piano sterminato della Valpadana – ma era il punto d’ancoraggio a cui attaccare l’anima, perché era grazie a lui che tu sapevi di non essere solo in mezzo a questo piano e che in caso di necessità avrebbe suonato le sue campane e tutti sarebbero accorsi per darti e darsi aiuto. Ma la nonna Toson – la vècia, che già da sopra il camion, sul pianale, mentre dalla stazione di Littoria Scalo ci portavano ciascuno sul suo podere, e lei stretta con due ragazzini in braccio tra la biancheria, i mobili e gli attrezzi aveva provato a sbirciare di qua e di là dalla strada e già s’era sbiancata, non volendo credere che fosse reale: «Non mi lasceranno mica qua» – quando toccò a lei scendere dal camion si riguardò solo un attimo intorno, giusto il tempo di vedere la striscia di montagne a una quindicina di chilometri verso levante, una striscia celeste ma incombente, poiché da qui a quella non c’era nient’altro, non un albero, niente, tutto spoglio di qua e di là all’orizzonte: il vuoto assoluto. Solo quella striscia celeste a levante – le montagne – e poi
l’argine del Canale Mussolini. Argine nudo però – terra smossa senza neanche un filo d’erba – non un argine ma un tumulo, una tomba fresca senza neanche la croce. E casette nel piano celesti – celesti come le montagne – ma vuote, senza vita, senza nessuno dentro, senza un albero accanto; sparse nel piano, una qua e una là, vuote, e tutto il piano di fango, terra smossa senza un’ombra di verde, senza una riga d’oglietto o gramigna; un deserto, un deserto di fango. «Dove me gavè portààà!», scoppiò a strillare come un’ossessa la nonna Toson: «Riportatemi indrìo!» e voleva risalire sopra il camion. Malediceva sé stessa per esserne scesa e s’aggrappava con le mani alle sponde, col volto rigato, mentre i figli, col volto rigato anche loro, le strappavano le mani dalle sponde del camion. «Riportème a Zero Branco», piangeva la nonna Toson. E piangevano aggrappati a lei tutti quanti i suoi nipotini: «Nòna, nòna!», le tiravano le gonne. Ma non era tutto così – come Piscinara prosciugata – e quando arrivammo noi la bonifica non era stata ancora completata. Era agli inizi, anche se noi non lo sapevamo. Avevano prosciugato solo da Cisterna fino alla duna quaternaria – dove adesso c’è Latina – ma da lì al mare era ancora un’ira di Dio. Erano le Paludi Pontine proprio come aveva raccontato zio Pericle, un inferno che pochi anni prima arrivava dalle mura di Roma fino a Terracina; oltre settecento chilometri quadrati di pantani, stagni, foreste impenetrabili con serpenti di oltre due metri e stormi di zanzare anofeli che guai a chi ci entrava. Se non finivi nelle sabbie mobili t’attaccavano la malaria le zanzare, ed eri fatto. Ci avevano già provato i Romani a bonificare queste paludi e prima di loro gli antichi Latini, e poi anche i papi e Leonardo da Vinci, Napoleone, Garibaldi; ma la palude aveva sempre vinto lei. Non c’è viaggiatore del Sette-Ottocento – Goethe, Stendhal, M.me de Staël – che tornato a casa non racconti a tutta
Europa la desolazione e morte delle Paludi Pontine. Poi arrivano il Duce e Rossoni, decidono di scavare il Canale Mussolini e dove non erano riusciti Giulio Cesare, Pio VI e Napoleone, in quattro e quattr’otto bonificano tutto. È il Canale Mussolini che dà vita all’Agro Pontino ed è per questo – perché non c’era lui – che erano falliti tutti gli altri tentativi. Subito dopo Roma difatti – se lei guarda una carta geografica – dal Tevere in giù si apre un rettangolo pianeggiante profondo una novantina di chilometri che ha, come lati lunghi, da una parte il mare Tirreno e dall’altra il sistema costituito dai Colli Albani e dai monti Lepini e Ausoni. In fondo – a novanta chilometri da Roma – il promontorio del Circeo e le rupi di Terracina. La prima parte di questo rettangolo però – dal Tevere al fiume Astura – è più propriamente chiamata Agro Romano ed è lunga una cinquantina di chilometri. Questa non era impaludata, non essendo in realtà vera e propria pianura, ma un susseguirsi costante di piccole alture, dossi e saliscendi. Non era il paradiso neanche qui, perché spesso vi ristagnava l’acqua, formando di tanto in tanto pantani ed acquitrini da cui dilagava la malaria. Vita agra – non si discute – ma non era ancora quella delle Paludi Pontine, che cominciavano nella restante parte di rettangolo, quella che adesso è l’Agro «Redento», come diceva il Duce. E questa sì che è tutta pianura per quaranta chilometri – Hic sunt leones dicevano gli antichi – fino a Terracina.
Appena finiscono i monti Lepini difatti – all’immediato loro piede – subito comincia la piana che degrada sempre più liscia verso il mare Tirreno. Prima del mare trova però una lieve increspatura – larga cinque o sei chilometri – che come una spina dorsale la percorre longitudinalmente tutta, parallela alla linea di costa. Questa increspatura la chiamano “duna quaternaria” e qui si frangeva il mare quattro o cinquecentomila anni fa. Poi si è spostato e continuando a frangersi e rifrangersi con sempre nuove onde cariche di sabbia, ha ricostituito una nuova duna – l’attuale linea di costa – a un paio di chilometri dalla vecchia. Tra la duna vecchia però – la quaternaria – e questa
nuova, col tempo s’è formata una specie di catino pianeggiante posto un paio di metri al di sotto del livello del mare, che non riuscendo a smaltire l’acqua piovana ha dato vita a una serie di laghi, stagni e paludi costiere. C’è poi un’altra zona più bassa del mare al di là dell’Appia – tra Mesa e Terracina – chiamata Quartaccio di Mazzocchio ed allagata regolarmente dai fiumi Ufente ed Amaseno. Come dice, scusi? se erano queste le famose o famigerate Paludi Pontine? No. Paludi non vuol dire che stava tutto sott’acqua. Palus o paludem al singolare sì, in latino vuol dire stagno, ristagno d’acqua, terra allagata e sommersa. Paludes al plurale no, è un insieme misto di stagni e terre sommerse con terre pure emerse ed estese, ma preda di foreste impenetrabili, forre, rovi, animali e spinacci. E dentro le foreste e gli spinaceti altri stagni chiamati “piscine”, soprattutto sulla duna quaternaria perché ogni più piccolo avvallamento – costituito nei suoi strati superiori da argilla – una volta riempitosi d’acqua nei mesi invernali restava allagato e stagnante, putrido e marcescente fino a tutta l’estate. Ma non era questo il peggio, l’impossibilità cioè di queste parti di territorio poste al di sotto del mare di smaltire per assorbimento l’acqua piovana loro o anche quella che dalle falde freatiche sgorgava in sorgive già al piede dei Lepini. Qui in fin dei conti bastò colmare le bassure – tutte a non più di due metri al di sotto del mare – e sollevare l’acqua con le pompe idrovore. Al Quartaccio difatti – a Forcellata – la prima idrovora a vapore ce l’avevano già messa i privati nel 1907. Il fascio con l’elettricità le mise dappertutto – al Mazzocchio ne fecero una enorme con sei pompe verticali a elica, le più grandi d’Europa – e lei adesso sull’Appia e lungo la costa, a ridosso dell’ultima duna, vede alla fine d’ogni canale questi caseggiati gialli coi finestroni rettangolari alti e le pompe idrovore dentro, che sollevano l’acqua alla foce e la riversano a mare.
Il peggio vero era in quella più grande parte di pianura chiamata Piscinara che dal piede dei monti arrivava degradando alla duna quaternaria. Fin qui difatti l’acqua scendeva felice e tranquilla, nel suo viaggio verso il mare. Ma arrivata a questi ultimi otto chilometri – a questa lievissima increspatura – si doveva fermare perché, come si sa, l’acqua da sola non può salire verso l’alto. L’unico modo che aveva per andare a mare era quindi prendere la via più lunga, quella longitudinale verso Terracina. Essendo però questa di quaranta chilometri e tutta in piano – con un leggerissimo dislivello di soli due metri – lei capisce che non poteva quella povera acqua che perdere ogni idea d’abbrivio, ogni sogno di velocità e rassegnarsi buona buona a ristagnare. Su questa parte di pianura inoltre non si riversavano solo i fiumi ed i torrenti dei monti Lepini – che già comunque era un bel guaio – ma soprattutto le acque che venivano da fuori, extra-palude, portate dal fiume Teppia e dal Fosso di Cisterna. Queste sono tutte acque “alte”, che vengono dall’alto cioè, dai monti nostri e dai Colli Albani e che se trovassero la strada sgombra se ne andrebbero dirette a mare. Invece così – fermate dallo sbarramento della duna – già a metà autunno inondavano tutta la piana di Piscinara per chilometri e chilometri, da Cisterna a Borgo Faiti e ancora oltre, fino a congiungersi ai paduli del Quartaccio. E lì rimanevano per più di metà dell’anno. Gli antichi Romani – e non si sa se Nerone o proprio gli antichi Latini – a metà piana, pressappoco dove adesso sta la fabbrica della Plasmon, avevano tagliato la duna quaternaria con un canale che collegava il Fiume Antico ai laghi costieri e al mare. È la profondità di questo scavo – assolutamente grandiosa – che fa pensare a Nerone, che s’era messo pure a scavare il canale di Corinto. Non teneva paura di niente, Nerone. Poi però Nerone lo hanno ammazzato, il canale di Corinto non lo hanno più finito e il canale nostro sulla duna, che si chiama Rio Martino, s’è rinterrato e c’è voluto Mussolini per riscavarlo e rimetterlo in funzione. Comunque neanche bastava
e ai tempi nostri, ad ogni pioggia, l’acqua riallagava tutta la piana ed era acqua torbida dei suoli tufacei dei Colli Albani. Il Fosso di Cisterna e soprattutto il Teppia strappavano da quei pendii il terriccio quando la corrente era veloce e lo trasportavano qui. Poi nel piano – quando la velocità diminuiva – la terra si depositava, si accumulavano altri sedimenti, altre ostruzioni e Piscinara impaludava, restando allagata fin che il sole d’agosto, tra i nugoli di zanzare, non faceva evaporare anche le ultime e residue acque. Già s’affacciava novembre però, ed eravamo da punto e da capo. È per questo che la prima cosa che fa il fascio è scavare al limitare nord della piana un grande canale che raccolga le acque «alte» prima che entrino in palude. Un baluardo, un confine: di qua non si passa più. E il Canale Mussolini, che parte lungo lungo fronteggiando il piede dei Lepini e poi volta a sud, a solcare il piano raccogliendo man mano il Teppia, il Fosso di Cisterna e tutti gli altri che arrivino dai Colli Albani. Lui li raggruppa tutti, poi taglia la duna quaternaria e porta ogni acqua direttamente a mare. Lei tenga presente però che quando si dice Fosso di Cisterna o anche Fosso Femminamorta, qui non si intende un fossetto come quello lungo la strada di casa sua. Questi nostri sono fiumi veri, che hanno carattere torrentizio ma portano acqua tutto l’anno – l’acqua che esce dalle sorgenti degli Albani e dei Lepini – anche nei mesi caldi e poi quando si mette a piovere diventano l’ira di Dio. Impaludavano dappertutto le ripeto, se no non c’erano mica qui le Paludi e neanche stavamo qui noi a raccontare questa storia. È il Canale Mussolini che dà vita a tutto l’Agro e se non ci fosse lui, staremmo di nuovo tutti sott’acqua. Lei non si deve far impressionare da quel rivoletto di sei metri che dall’alto del ponte vede scorrere lì sotto d’estate. Lei lo deve vedere d’inverno o nelle grandi piene autunnali o primaverili, quando da un colmo all’altro degli argini – ottanta metri buoni di larghezza – è tutto un solo muro d’acqua rossastra torbida che scorre e s’accavalla, mulinando impetuosa e rumorosa. Mi creda, fa proprio: «Vvuuóóóuhvvvff», come quando
aprono a manetta gli scarichi del vapore alle caldaie delle fabbriche. Mille metri cubi d’acqua al secondo, durante le piene. Pensi la velocità, la quantità, la potenza. Se lei ci cade dentro, lui l’ammazza all’istante con le botte dei metri cubi d’acqua, prima ancora d’affogarla. Difatti c’è il detto, dentro i bar a Latina: «A te e il Canale Mussolini, che t’ammazzi di botte una volta o l’altra». Ci mettemmo otto anni – dal 1928 al ‘35 – a scavare i trentuno chilometri del Canale. Ci lavorarono anche i miei zii. Quando arrivammo noi, non era stato ancora scavato per intero, ma solo la prima parte – dai monti Lepini al Fosso Moscarello – ed anche quella solo per metà, la metà di sinistra del cavo. Tutto il resto e da lì al mare lo scavarono i miei zii, insieme agli altri operai e coloni naturalmente. C’erano quattro escavatori Tosi al lavoro, oltre a due Ruston ed un Bucjrus a benna lanciata a badilone. Questi tre li avrà visti qualche volta, avevano la cabina a parallelepipedo da cui usciva il traliccetto a cui era attaccata con un cavo la benna. Ma il grosso del lavoro sul Canale Mussolini lo hanno fatto i quattro escavatori Tosi a secchie con scala rigida. Erano macchine enormi e lunghissime che sembravano draghi – e difatti si chiamano anche draghe – o millepiedi giganti: una serie di benne, in pratica, attaccate a un lungo traliccio angolato che con una catena le faceva girare una appresso all’altra, dimodoché asportando il terreno in basso a valle e scaricandolo a monte in alto, man mano che si scavava il cavo si cominciava già ad innalzare l’argine di fianco. I quattro escavatori Tosi erano a trazione elettrica – fu un’impresa pure portare i cavi da Cisterna fin là – e ognuno faceva il suo tratto. Ogni tanto si incontravano proprio come nelle gallerie, e quando si incontravano era festa grande tra le squadre. Poi si smontavano per rimontarli da un’altra parte. Nel tratto nostro però – ossia tra l’Appia e il ponte di Babbaccio, sei o sette chilometri – sotto gli strati superficiali del terreno c’è un susseguirsi continuo di cappellaccio di tufo, concrezioni di travertino e banchi di pietra calcarea dei
monti Lepini. Qui i Tosi si dovettero fermare, perché la roccia la graffiavano appena. Allora aprimmo il tronco a colpi di mina – esplosivi e dinamite – e solo una volta disgregati gli strati della roccia, i Tosi poterono ripartire. Mia nonna, a sentire tutti i botti «Dèn! Dèn!» in piena notte – perché si lavorava anche di notte, alla luce delle fotoelettriche – diceva a mio zio Pericle: «E quando finirete?». Come se fosse stata colpa sua. Scavando scavando, poi, ogni tanto si trovava della roba. C’erano degli archeologi di Roma – professoroni come il Lugli o anche Carlo Alberto Blanc – che passo passo ogni tanto seguivano lo scavo. A Torre Annibalda, dalle parti di ponte Marchi, furono trovati dei mosaici romani raffiguranti alcuni nuotatori. Smontarono e portarono via tutto, ma non si sa più in quale museo sono finiti. Dispersi. Dalle parti di Borgo Santa Maria invece – allora si chiamava Gnìf Gnàf, perché c’era un pantano in cui, camminando, le scarpe o anche i piedi scalzi facevano sempre «Gnìf-gnàf» -Blanc trovò sul fronte dello scavo, proprio poco prima che le benne del Tosi se lo portassero via, uno scheletro completo di mammut. Ma generalmente – per i muri, le tombe o i cocci di minore importanza – gli archeologi dicevano, essendo romani: «Vabbene va’, non è importante, andate pure avanti». E che bisognava fare se no? Noi dovevamo fare una bonifica, mica potevamo stare a pensare ai cocci. Se avessimo fatto anche noi come la metropolitana a Roma, «Staressimo ancora tutti sott’acqua» diceva mio zio Adelchi. Al centro dello scavo però – al fondo, passati i Tosi – scavammo a mano con le pale e i picconi, d’estate, e con le vanghe e i palotti d’inverno il cunettone di magra, la savanella che lei vede piena d’acqua adesso, nei mesi caldi. Questa savanella non solo fu scavata a mano ma poi fu selciata di pietra. Pietre e pietre messe tutte a misura una dopo l’altra con la calce e il cemento sopra la massicciata di fondazione, per impedire che le acque filtranti dalle sponde o dalle sorgive nei periodi di magra imbibissero il terreno di fondo, favorendo così il rigoglio della vegetazione palustre. Ma ogni tanto – lungo
tutto il corso del Canale Mussolini – lei vede anche strati interi di canale in pietra, con tutto il fondo completamente rivestito, non solo la savanella, ed un gradino di uno o due metri e, sotto, un grande vascone e un altro tratto di canale rivestito. Sono le «briglie» – noi ragazzini le chiamavamo cascatelle, perché l’acqua lì cade a cascata e sotto queste cascatelle, nel vascone, noi prendevamo il bagno e nuotavamo – e servono a far perdere velocità alle acque, a rallentarne il corso e la corrente, che se troppo impetuosa eroderebbe gli argini. Ma nonostante i calcoli e le misurazioni dei migliori ingegneri idraulici del regime, certi lavori si dovettero rifare due ed anche tre volte. Una sola non bastò. La piena del 1934 per esempio – il 4 novembre 1934 – si portò via tutto il ponte Marchi, quello su cui passa la ferrovia Roma-Napoli a nord dell’Appia, a meno di quattro chilometri dal podere nostro. Mia nonna diceva che quella volta si sentì per tutta la notte venire dall’argine un fragore fatto non solo di quei «Vvuuóóóuhvvvf… Vvuuóóóuhvvvf… Vvuuóóóuhvvvf» simili ai getti del vapore che le dicevo prima, ma anche dei «Bèng… Dèn… Stèng!» dello sbattere e levare dei pali, alberi, ferri, carretti e macchinari che il Canale Mussolini trascinava con sé, man mano che s’ingrossava e depredava a monte. Stemmo svegli tutta la notte diceva mia nonna, e tutti al piano di sopra con le scale a pioli già pronte per salire in cima al tetto, mentre sull’argine i miei zii montavano a turno la guardia, per controllare costantemente il livello e dare l’allarme. Per fortuna a quasi giorno – sull’alba – il Canale uscì dall’altra parte e il livello s’abbassò, avendo allagato oramai la Parallela Destra. Noi ci salvammo quella volta. Ma chi non si salvò fu il ponte Marchi. Tutta la luce a un certo punto si trovò ostruita dai tronchi d’albero, ceppi e sterpaglie che aveva portato nel Mussolini – con la sua onda di piena – il Teppia. Fece diga. L’acqua salì aumentando di pressione finché arrivò alla carreggiata, sorpassò la ferrovia, divelse i binari – «Bèng, dèn, stetedèng», dicevano i miei zii d’avere sentito fin qui da noi – se li portò via e si portò via anche la massicciata,
sasso dopo sasso. Restarono solo i pali, attaccati ai fili e sballonzolati qui e là dalla corrente. Poi il canale forzò la diga, la ruppe di botto – «Boummm!» – e se ne partì tutto il ponte. Per fortuna non passavano treni in quel momento, arrivò poco dopo un merci, provò a frenare e quasi ci riuscì. Ci sono ancora le fotografie in giro, scattate uno o due giorni dopo, con questa locomotiva a vapore – solo la locomotiva però, il resto del treno si salvò – riversa sull’argine, ruote all’aria, a fianco ai resti dei piloni del ponte. Lo dovemmo ricostruire di nuovo il ponte Marchi, più forte e più robusto che pria. E rimettemmo anche mano all’intero tratto di Canale Mussolini, ampliandone la sezione: «Quando ci freghi più?». Quella volta però la piena si ringrossò ancora, e due o tre giorni dopo si portò via le briglie – pietra per pietra -da ponte Babbaccio fino a Gnìf Gnàf ora Borgo Santa Maria, proprio dove Blanc aveva trovato il mammut. Lì fece una strage, strappò e divelse tutto, pure il ponte anche lì -non rimase niente – e forse era davvero il mammut come dicevano i mei zii, o almeno il suo spirito incazzato: «Non se gà da scoerciare i morti, anca si xè solo ‘nimali prìstorici». Ed anche lì bisognò rifare tutto di nuovo e rifarlo più forte e più largo e robusto, nella speranza che il mammut si fosse finalmente placato. E il casino del 1934, il Canale Mussolini non lo ha più fatto, anche se ogni tanto esce ancora dall’alveo, inondando qualche campo. Noi comunque arrivammo che il Canale era stato scavato solo a metà. La prima parte delle Paludi Pontine però -Piscinara – era già tutta bella e prosciugata, con solo i casali dei poderi appena costruiti a punteggiare il paesaggio, e i borghi di servizio e sullo sfondo i cantieri della nuova città di Littoria in costruzione, con la torre del municipio già abbastanza alta. È stata un’impresa titanica, me lo lasci dire. Fino al 1926 non esisteva una mappa quotata di tutta la zona – una carta geografica precisa – e c’erano punti in cui non era mai entrato nessuno. Solo pantani, melma e sabbie mobili. Chi ci cadeva, ci crepava e basta. Mio zio Benassi, quello che poi sposò mia zia
Santapace Peruzzi, raccontava che mentre stavano disboscando la zona dei Pantani da Basso e lui era di servizio a una motrice Fowler sulla sponda del canale – noi le chiamavamo anche Favole ed erano macchine enormi a vapore, che a forza d’argano riuscivano a trainare qualunque cosa – a un certo punto la Fowler fuorviò dall’impiantito di tavole che le era stato costruito apposta sopra la melma per non farla affondare. Prima s’inclinò pian piano e poi affondò tutta e non riuscirono più a ripescarla. Sta ancora là sotto. Come il camion sotto la fontana della Palla in piazza del Popolo a Latina. Fu un esodo però, le ho detto. In trentamila in quasi tre anni ci caricarono sui treni e ci portarono qui. Sulle tradotte. A scaglioni. Un treno al giorno. Diecimila all’anno. Facendoci attraversare tutta Italia. Ci concentravano nelle stazioni di partenza – a Ferrara, Rovigo, Vicenza, Udine, Treviso, Padova – e poi la sera partivamo. Le case e i paesi li avevamo salutati la mattina; ci erano venuti a prendere con gli autocarri della milizia, ci avevano aiutato a caricare le nostre robe, i pochi mobili, gli attrezzi, le bestie chi le aveva. Tutto legato. Ogni animale da cortile chiuso nelle gabbie che coi vinchi – nei giorni precedenti -ci eravamo preparate; non era più rimasto un ramoscello verde, attaccato agli alberi di vinchio della Valpadana. Tutti – nei giorni dell’attesa – non avevamo fatto altro che costruire gabbie per i nostri animali da portare nella Terra Promessa, e quei legacci ci servivano per slegarci dalla vecchia terra, li strappavamo oramai con rabbia, senza più preoccupazione di recare danno. Nessuno mai – prima – avrebbe torto un capello a una pianta. Ma adesso basta, adesso mi hai cacciato terra mia: vai in malora tu e le tue piante. Per tutto il corso della giornata era durato questo viavai di camion dalle nostre vecchie case dei più minuscoli paesi fino alla stazione provinciale. I primi esuli erano arrivati a notte fonda. I camion – scaricate le robe loro – erano ripartiti a prendere gli altri, finché il piazzale non s’era fatto colmo. Il commissariato per le migrazioni interne – quelli che nei mesi precedenti
avevano vagliato le domande, visti i requisiti, messi i bolli e fatte le scelte: «Ti sì e tì no» – aveva già fissato per ognuno il suo posto sul piazzale, corrispondente al posto sopra al treno vicino a quelli che anche laggiù sarebbero poi stati suoi vicinanti. Ma noi non lo sapevamo. Pensavamo fosse gente a caso che non avremmo più rivisto. Nessuno ci aveva detto niente. Ma era una precisione fascista. E con tutti i vicinanti sul piazzale – man mano che arrivavano – abbiamo cominciato a fare amicizia, anche se alcuni erano gente del paese nostro, già vicinanti prima a buon bisogno. Poi man mano siamo saliti sul treno, una tradotta lunghissima arrivata nel primo pomeriggio, trainata da due locomotive a vapore, con i vagoni passeggeri della guerra ‘15-18, carrozze di terza classe senza divisione di scompartimento, con i sedili di legno e il portabagagli sopra, e gli sportelli per scendere e salire ogni due sedili. All’inizio del treno – subito dopo le locomotive e prima delle carrozze nostre – c’era anche una carrozza di seconda classe con gli scompartimenti e i sedili imbottiti, per i funzionari del commissariato, per i tecnici dell’Opera combattenti, il federale di Rovigo quando ci accompagnava e le camicie nere della milizia. A volte c’erano carrozze di seconda – ma con i sedili in legno – anche per noi o la milizia, quando non erano riusciti a trovarne di terza e dovevano comunque completare il treno. E su queste carrozze di terza o seconda classe di legno si ammassavano le nostre donne e i bambini, ma anche i vecchi con i sacchi della biancheria, le stoviglie, le pentole di casa e i setacci per la farina, che pendevano dai portapacchi insieme a qualche gabbia di gatto o di coniglio che qualche ragazzino s’era voluto per forza portare appresso: «Mì a vòjo el mè conìcio». E allora la madre «Pciàff», uno schiaffo in testa – «Va’ in malora tì e ‘l tó conìcio» – e via a trovargli per forza un posto in mezzo alle pentole, e alla prima cagatina di coniglio che fuoriuscendo dalla gabbia cadeva in testa a qualcuno, «Pciàff» un altro schiaffone in testa: «Mì ‘o buto dal finestrìn».
«Nooo!» strillava il ragazzino. «Zitto che ti butto anche a te!» e un altro schiaffo. Ma alla fine si trovava sempre un posto per la gabbia, magari sotto il sedile in mezzo ad altri attrezzi o attaccata a qualche gancio sul fianco del sedile. Gli uomini stavano dietro – in coda alla tradotta, sui vagoni merci – nello stesso ordine delle femmine vecchi e bambini sulle carrozze di terza classe, avendo a fianco le stesse famiglie vicinanti di quei vagoni. Il commissariato per le migrazioni – prima ancora di inserirti nelle liste di partenza – aveva fatto l’elenco di tutto quel che avevi o non avevi e s’era programmato tutto: «A tì un vagòn, a tì uno strapuntìn». E in quel vagone c’era tutto ciò che avevamo, ossia quel poco che ci era rimasto: gli attrezzi, i carri smontati, i tavoli, materassi, madia, credenza, qualche bestia. E gli uomini a guardare tutto, a tenere calmi gli animali, a dargli da bere o un calcio nei fianchi, e poi a fumare o a stendersi sulla paglia, a fare finta di dormire passandosi per l’ultimo sorso la fiasca del vino o della grappa. La tradotta viaggiava tutta notte attraverso l’Italia. Dal Veneto prima – o il Friuli per chi veniva da là – e poi l’Emilia-Romagna e l’Appennino, entrando ed uscendo dalle gallerie. E te ne accorgevi subito – delle gallerie – non tanto dal rimbombo o dalle orecchie che all’improvviso si attappavano, ma dal fumo della ciminiera che sbattendo e rimbalzando sulle volte della galleria entrava nei vagoni da tutti gli interstizi tra le assi del fasciame. E noi a tossire. Era partito a sera il treno, al tramontare. Tutto il giorno a scaricare famiglie salmerie e vettovaglie dai camion sul piazzale; affastellare ogni cosa sull’altra come covoni sui pagliai e poi – via l’una via l’altra – rismontarla e ristivarla fino all’ultimo coniglio o ragazzino dentro il treno, sotto il controllo del commissariato per le migrazioni interne e dei supervisori dell’Opera combattenti. La milizia in camicia nera faceva rispettare tutto, vigile e solerte; ma anche comprensiva coi bambini che scappavano correndo e le madri – ma soprattutto le sorelle grandi, con cui pure i militi tentavano uno sguardo o
un sorriso – che li rincorrevano: «Vièn qua!» e «Pciàff», uno schiaffo in testa appena i militi glieli riportavano trionfanti, con l’occhio ancor più vigile e solerte sulle sorelle suddette. A mezzogiorno c’era stata la fila davanti al bancone del fascio femminile, che dentro le gavette minestrava il rancio, primo e secondo tutto assieme, pastasciutta pure un po’ scotta – ma calda e buona e aggratis – con un pezzo di carne nel sugo e un bicchiere di vino o di grappa. A sera – prima della fatai partenza – altro rancio con minestre e tazze di caffellatte caldo, e pane e polenta a volontà. Tutte dolci il fascio femminile, tutte di buona società, figlie di impiegati e di maestri, figlie pure di conti e marchesi a fare sorrisi alle donne nostre che partivano: «Fatevi onore, fate onore ai vostri paesi e al Duce, quando sarete là». La stessa cosa aveva detto il federale di Rovigo – o di Vicenza, di Udine, di Padova, Treviso – quando era passato nel pomeriggio. Era arrivato in macchina con i gerarchi e salito su un palchetto davanti all’adunanza: «Fate onore al Duce e alla vostra Patria, non dimenticate i paesi che v’hanno dato i natali e siate degni della fiducia riposta in voi; un giorno sarete proprietari di terre e per ognuno che parte, sappiate sempre che ce ne sono almeno dieci, qui, che avrebbero voluto partire al posto suo: neanche col sacrificio della vita riuscireste a uguagliare il dono che il Duce vi ha fatto. A noi!». Poi sceso dal palchetto s’era fatto il giro per i carriaggi a controllare di persona – o almeno a fare finta – e a benedire ogni famiglia. «Peruzzi!» aveva detto a noi, appena visto mio zio Pericle: «Giù coi manganelli, se c’è bisogno» e giù intanto una pacca sulla spalla. I treni erano partiti a sera – «Ciùf… ciùf…» – coi gavettini ancora caldi del caffè d’orzo in mano, con la banda del fascio comunale che suonava Giovinezza, col federale che faceva ancora «A noi!» dal marciapiede. E tutti «A noi!» facevano intorno a lui – con il braccio levato – le camicie nere della milizia, il fascio femminile e i ferrovieri della stazione.
«A noi!» facevano di rimando – con il braccio fuori dai finestrini mentre il convoglio cominciava a muoversi -le nostre donne dalle carrozze di terza classe e gli uomini, dagli sportelloni mezzi aperti dei carri merci-bestiame. «Mùùùùùh» faceva invece qualche bestia mentre pigliava velocità il treno e le
donne si riabbandonavano sui sedili. Solo le ragazze da marito restavano piangendo aggrappate al finestrino, attaccate ai fazzolettoni bianchi sporti al massimo a salutare il moroso. Moroso guardato solamente in chiesa, a volte, o di traverso quando passava sui carri del fieno, o appena detti una parola in mezzo alla gente e dato al massimo un bacino frettoloso su una guancia -senza fretta, perché non c’era da avere fretta, allora – neanche scambiata la promessa d’amore a volte, solo un pensiero neanche detto, avendo una vita davanti per dirsi tutti i pensieri. E adesso c’erano anche loro – i morosi mancati – fuori della stazione in fila a salutare per l’ultima volta le morose che partivano, morose mancate che non avrebbero mai più rivisto. Altro che esodo. «Dedèn-dedèn» facevano oramai – ferro contro ferro – le ruote dei vagoni a
ogni giuntura di binario; cominciava il viaggio. Oggi non lo fa più quel dedèn il treno, perché i binari sono più lunghi, forgiati meglio, e le saldature più precise e calibrate al laser. Ma allora lo sentivi per tutto il viaggio ed era un suono dolce, ritmato, rasserenante: «Dedèn-dedèn de-dèn-dedèn dedèn-dedèn» all’infinito, e bastava solo chiudere gli occhi, abbandonarsi con le spalle allo schienale, lasciarsi cullare e se si era appena un po’ stanchi – e lì di gente stanca era pieno – ci si addormentava subito come alla nenia della mamma. Dopo mezz’ora non c’era un ragazzino sveglio ed anche qualche grande dormiva. Le ragazze invece – rannicchiate – pensavano ai morosi, mentre le donne sistemavano ogni cosa e si scambiavano ciàcole e cortesie: «Un tòco de poènta? Un fià de formàio?», e così gli uomini sui vagoni merci. Il treno ogni tanto si fermava – «Strili, ciùf, ciuf, strììì» – nel buio fondo, alle piccole stazioni, per lasciare la precedenza ai diretti e agli altri treni, o fare il
pieno d’acqua alle caldaie. Poi ripartiva – «Ciùf, ciùf» – ma intanto gli uomini, ancora prima che si fosse fermato del tutto, subito erano scesi a visitare le proprie donne e i figli nelle carrozze e a scambiarsi saluti e nuove conoscenze per tutto il treno. Tra una ripartenza e l’altra si svegliavano – a turno – anche i bambini ed era un avanti e indietro per tutta la tradotta: «Portème anca mì con le bestie». E allora portalo di là con te. Ma poi si stancava: «A vòjo mè mama». E alla stazione successiva riportalo da lei, a litigare sulla carrozza di terza classe e a giocare con gli altri bambini, maschi e femminucce, conosciuti la mattina sul piazzale. E le nonne – a turno – a provare a rabbonirli, raccontando ognuna le sue fiabe. C’è un sacco di gente – vistasi per la prima volta su quel piazzale e litigato e fatto pace tutta notte da bambini su quel treno - che sbarcati nei poderi qui, uno di fianco all’altro, si sono fatti grandi e innamorati assieme e poi sposati, e litigato e fatto pace tutta vita, e qualche volta pure morti, assieme. Bologna, l’Appennino, la Toscana, Firenze, Orvieto, Roma. A Roma era ancora notte – cinque e mezza o sei, cominciava appena ad albeggiare – e qualche donna che sapeva leggere, guardando le insegne dal finestrino aveva detto: «Roma!». «Ah! Roma?…» avevano risposto le altre e s’erano rimesse a dormire tra i «Tonf, tonf», avanti e indietro, del treno fermo che ogni tanto pigliava una botta nel cambio delle locomotive o si spostava di pochi metri da una stazione all’altra – Tiburtina, Termini, Casilino – o sui binari morti, per far passare altri convogli. A quasi giorno la tradotta era ripartita, ma tutti continuavano a sonnecchiare anche oltre Torricola, Santa Palomba, Campoleone, poiché in ogni viaggio c’è sempre – prima - la bramosia del nuovo, la fretta d’arrivare, lo svagarsi del trambusto. Ma poi si fa strada l’ansia di ciò che t’aspetta, il timore di quel che non t’aspetti e l’indolenzimento delle ossa sulle panche di legno dei sedili, la nostalgia di ciò
che hai lasciato, la gente che non vedrai mai più, la voglia di continuare a dormire senza più svegliarti – dormire nonostante i raggi di sole che dal finestrino ormai ti infastidiscono gli occhi – e vorresti che il viaggio non finisse più. Invece no: «Strìììììì…». «Giù dalle carrozze!» La tradotta arrivava ogni giorno a Littoria alle sette e mezza del mattino. L’esodo era terminato. La Terra Promessa raggiunta e le guardie del Faraone – schierate coi fez e le camicie nere sul marciapiede del binario Uno – erano lì a proteggerci nello sbarco ed a guidarci nel prendere possesso del nostro Mar Rosso prosciugato. Mosè le aveva solo divise le sue acque e temporaneamente: giusto il tempo di far passare la sua gente e poi richiuderle. Il Duce e il Rossoni le hanno prosciugate invece per sempre queste terre dalle acque loro. Hanno preso di petto il Mar Rosso e gli hanno detto: «Va’ in malora, qui faremo un etterno giardino». E ci hanno portati qui – «Littoria Stazioneee!» – e scaricati tutti alle sette e mezza del mattino (tutti eccetto noi però, il treno dei Peruzzi, l’unico che abbia mai portato ritardo). E in questa stazione di campagna in Terra Promessa c’erano ad aspettarci i plotoni della milizia con la banda che suonava Giovinezza e lo stuolo di tecnici e fattori dell’Opera combattenti pronti con i camion sul piazzale a caricarci ognuno con le sue robe e scaricarci famiglia per famiglia sui poderi assegnati. Ma davanti a tutti – sul piazzale di questa stazione di Littoria – noi alla fine dell’esodo trovammo di nuovo il fascio femminile ad aspettarci, coi banconi pieni dei pentoloni di caffellatte fumante, fette di polenta abbrustolita, pane bianco a volontà e grappa per chi la chiedesse. Era il fascio femminile di qua, naturalmente, mica più quello di Rovigo o Ferrara: impiegate e dame della buona società romana, ma anche le figlie d’avvocato dei monti Lepini e pure la figlia del principe Caetani in camicia nera e veletta, a fare la brava camerata crocerossina. A sorridere ai bambini. A fare la superiore con le donne nostre. A dire: «Ne vuoi ancora?». E intanto a guardarsi di sottecchi con le amiche sue, a darsi di gomito ogni tanto nel
vedere i nostri uomini – ma pure qualche donna – che dopo avere ingurgitato al volo la zuppa di polenta e caffellatte fumante passavano di gran carriera al vino e alla grappa. «Ma tu guarda questi selvaggi» faceva la principessa Caetani alle amichette sue: «Ma non gli farà acidità?». Ma quale acidità. Noi eravamo abituati. E comunque era freddo la mattina, era ottobre inoltrato – tutti tra settembre e ottobre ci hanno portato, pronti per seminare il grano ai primi di novembre – e dopo tutto quel viaggio e con le ossa rotte, nemmeno un goccio di grappa mi posso fare? E poi non è vero che solo noi; lei non ha idea di quanta gente di queste montagne la mattina, quando si lavorava sui cantieri e per il freddo i tondini di ferro del cemento armato restavano attaccati alle dita – anzi, è la pelle dei polpastrelli che resta incollata al ferro per il freddo e ti si strappa dalle mani – lei non ha idea di quanti ne ho visti iniziare la giornata sulle impalcature al quinto o sesto piano di un cantiere attaccati alla bottiglia della grappa. Mica solo noi cispadani. Come dice, scusi? Be’, sì, noi del Nord beviamo un po’ di più, ma che vuol dire? Noi bevevamo per poter lavorare. La principessa Caetani non ha mai lavorato in vita sua. Comunque eravamo a Littoria, finalmente, dove tutti i treni approdarono precisi e puntuali alle sette e mezzo del mattino perché allora – lo sanno tutti – i treni arrivavano in orario. Se arrivavano in ritardo, i macchinisti li spedivano al confino. E tutti quindi in orario arrivarono gli esuli a Littoria – eccetto noi come le ho già detto però, che fummo l’unico treno che portò ritardo – anche se era Littoria Scalo per la verità e non proprio Littoria-Littoria, che stava invece sorgendo otto chilometri più in là. La stazione stessa non era quella che vede adesso, ma più piccola, perché quando avevano fondato Littoria l’idea era quella d’un piccolo comune rurale – niente di più – ed anche la stazione non doveva essere niente di più d’una stazione di campagna. Non è che avessero avuto tutto chiaro in mente già al momento di partire.
Nel 1928 – quando il Consorzio di bonifica di Piscinara aveva dato inizio all’impresa – c’era un problema solo: levare l’acqua. Quello era l’imperativo loro. Ma per levare l’acqua dovevano prima entrare nel territorio: «Come facciamo a scavare i canali senza le strade per portare sul posto le macchine, le maestranze e i materiali?». Ma anche per fare le strade bisogna prima portarci gli operai. Mica gli si possono far fare tutti i giorni venti o trenta chilometri avanti e indietro in mezzo alle paludi, prima di attaccare a lavorare. Bisogna farli dormire lì, vicino ai cantieri. Lei ha presente la storia se è nato prima l’uovo o la gallina? Ecco, qui è così. Qui non sono nate per prime le strade o i canali, prima è nata l’urbanizzazione e dopo la bonifica. Lo scavo del Canale Mussolini inizia difatti nel 1928, ma due anni prima erano stati costruiti al Cancello del Quadrato – dove poi sorgerà Littoria – i fabbricati del Consorzio. Fino al 1914 al Quadrato non c’era niente, solo una riserva per il bestiame, chiusa da una staccionata di legno ed un cancello da cui appunto il toponimo Cancello del Quadrato. Nel 1926 il Consorzio impianta qui il suo primo villaggio, perché il Quadrato sta al centro dell’area da bonificare – a metà strada tra l’Appia e il mare – ed è quindi il posto ideale per installarci la direzione strategica delle operazioni. Ma l’acqua vera viene da su, da nord le ho detto, e l’anno successivo – per poter cominciare a scavare il Canale Mussolini – costruiscono il Villaggio operaio di Sessano che oggi è Borgo Podgora. A Sessano all’epoca non c’era niente, solo un casale e una vecchia torre cinquecentesca dei Caetani. Ma non c’è strada. C’è uno sfilo, ossia una specie di pista spesso impraticabile. Loro debbono quindi fare la strada per poi poter scavare il Canale, e allora ci fanno il Villaggio. Sulle prime mappe non è nemmeno disegnato l’incrocio, ma intanto fanno le case, una chiesetta, l’infermeria, gli alloggi per i tecnici e dirigenti e – più discosti e decentrati – sette casali per i dormitori operai. Fanno quindi il Villaggio per poter fare la strada per poter fare il Canale, e a tutto il resto ci penseranno dopo.
Nel corso della storia umana i villaggi e le città si sono formati normalmente quasi tutti sulle vie di traffico. A forza di passarci – o ai punti di guado o agli incroci con altri sentieri – ogni tanto qualcuno si ferma, costruisce una baracchetta e lì cominciano a fermarsi e magari a commerciare anche altri viandanti. Allora si sparge la voce e sempre più gente va lì e tira su una nuova baracchetta, un’altra ancora e nasce la città. Pure Roma è nata così: come emporio, come posto di scambio e di mercato tra Etruschi, Sabini e Latini. Sono quindi le strade e i traffici che normalmente fanno nascere le città. In Agro Pontino è stato il contrario e sono state le città -quei villaggi – a far nascere le strade. E difatti sono «città di fondazione» perché non sono nati una casa qui e un’altra là spontaneamente, ma ci è venuto prima un geometra, quando ancora non c’era niente, e ha detto: «Qui ci verrà una casa, lì la chiesa, un’osteria, i carabinieri, la piazza e tutto il resto, e ogni casa che verrà dopo dovrà mantenere questa e quest’altra distanza dalla strada e da tutto il resto». E hanno cominciato a lavorare e a tirare su i muri. All’inizio è il Consorzio di bonifica – consorzio tra i vecchi proprietari latifondisti – che parte all’assalto della palude e si mette a fare i villaggi. Ma quando partono, ancora non sanno dov’è che devono arrivare. Partono un po’ alla cieca, devono solo asciugare l’acqua e poi si vedrà: faranno grandi aziende agrarie capitalistiche e meccanizzate, e i quattro o cinque villaggi che hanno costruito per bonificare gli torneranno magari utili come borghetti “residenziali” in cui tenere i pochi operai o braccianti che ogni tanto potranno servire nelle aziende. Stop. Nemmeno gli passa per la testa – nel 1928 – che tra capo e collo gli sta per arrivare la tegola dell’Opera nazionale combattenti che gli espropria tutto. Questa Opera nazionale combattenti era nata prima dell’avvento del Duce e del fascismo, era nata nel 1917 durante la Prima guerra mondiale. L’aveva fatta Nitti – un liberaldemocratico di sinistra – non solo per dare in qualche
modo assistenza ai reduci, ma soprattutto per mantenere le promesse che erano state fatte dopo Caporetto, ovvero che a guerra finita si sarebbe data finalmente «la terra ai contadini». Questa Opera combattenti s’era pure messa a bonificare qualcosina in giro per l’Italia, ma nel 1929 – quando il Duce decide di metterci a capo il conte Cencelli – era oramai in via di smobilitazione, si occupava di tutto senza occuparsi più di niente. Un carrozzone all’italiana. Pieno di raccomandati. Cencelli ci entra con la frusta, caccia centinaia di persone, ne assume altre e lo rimette in piedi: «Qui bisogna bonificare le terre e darle ai contadini». Questo era il mandato che il Duce e il Rossoni gli avevano affidato spedendolo nel Pontino come un proconsole, con pieni poteri e carta bianca dappertutto. Lui appena arriva comincia a strillare che fino a adesso hanno battuto la fiacca, che non si fa così una bonifica e che di questo passo ci vogliono generazioni. A quelli del Consorzio gli piglia lo scorbuto, anche se la bonifica idraulica rimane formalmente competenza loro, mentre l’Opera dovrebbe solo organizzare, gestire e sovrintendere la parte agraria e umana della bonifica. Essendo però oramai divenuta con gli espropri il più grande proprietario, adesso anche nei Consorzi è l’Opera il maggiore azionista e Cencelli il ras assoluto. In realtà, i settantamila ettari appoderati nel Pontino non è che l’Opera li avesse presi proprio tutti con l’esproprio, strappandoli brutalmente ai vecchi proprietari. Una parte sì, ma un’altra parte di terreni – per fare prima ed evitare lungaggini burocratiche e ricorsi giudiziari – l’aveva direttamente comprata dai proprietari stessi, anche se al prezzo stracciato che diceva lei: «O prendi i soldi che ti offro, oppure ti faccio il decreto di esproprio». Ai privati quindi non fu tolto tutto e al principe Caetani, per esempio, furono lasciati i latifondi al di là dell’Appia, tra l’Appia e i monti, ma a condizione che bonificasse pure lui e li frazionasse a singoli poderi -costruendo naturalmente stalle e casali e mettendoci dentro i mezzadri – se no Cencelli gli levava tutto.
E il principe Caetani – che per settecento anni non aveva mai mosso un dito in palude, prosciugato un secchio, scalzata una ranocchia – bonificò, colonizzò e immise pure lui di corsa sulle terre sue, famiglie intere di mezzadri provenienti dall’Umbria e dalle Marche. Cencelli dunque si mette fin dall’inizio a pestare calli -Rossoni e il Duce lo avevano scelto proprio per questo, perché era un carro armato – e in un batter d’occhio si piglia a male parole con tutti. Ora è vero che erano tutti fascisti e tutti agli ordini del Duce, però come lei sa c’è stato fascismo e fascismo e soprattutto eravamo in Italia, tutti figli di Roma e di Romolo e Remo. E se hanno litigato quei due che erano fratelli gemelli, si figuri un po’ questi che non erano neanche cugini. Nelle manifestazioni ufficiali e davanti al popolo stavano tutti assieme sopra il palco e non facevano che sorridersi e salutarsi con il Cencelli, e tutti a dire: «Il fascismo di qua! la bonifica fascista di là! tutti in un sol corpo unito per la Patria e per il Duce». Ma appena scendevano dal palco le coltellate facevano fumo. Tale e quale adesso peraltro. Sia a destra che a sinistra. Quelli del Consorzio – in fin dei conti – fino al giorno prima avevano comandato a bacchetta. Giravano avanti e indietro come fossero i padroni delle Paludi. Ogni geometra del Consorzio si sentiva un padreterno, ogni assistente un dio e pure il cavallaro si credeva san Michele Arcangelo. E all’improvviso arriva Cencelli e mette tutti sull’attenti: «Guai a chi fiata, guai a chi dice una parola». È ovvio che gli abbia roso e si siano messi a rispondere a muso duro. Ma non era solo una lotta di potere personale e di ambizioni: «E che sei, meglio di me?». Dietro c’era proprio un diverso modo di intendere sia la bonifica che il fascismo. Destra e sinistra, diciamo così. Le bonifiche difatti non sono un’invenzione di Mussolini, ma un problema che l’Italia unitaria s’era posta subito dopo il Risorgimento e l’unificazione nazionale. Tutte le pianure del Centrosud erano completamente abbandonate da secoli e la gente s’era ritirata sopra i monti, prima per la difesa dalle
invasioni dei barbari e dei saraceni, e poi per i latifondi e la malaria. Un deserto. Ed è quindi già alla fine dell’Ottocento che si iniziano a fare – ma sempre e soprattutto in Valpadana – le prime leggi e i primi grandi interventi di
bonifica
per
iniziativa
dei
privati,
che
intendevano
giustamente
incrementare le colture e i guadagni. Non è che fossero filantropiche. Nell’Italia centromeridionale invece – che era quella che ne aveva più bisogno, perché più povera e più malarica -non s’era mai mossa una paglia, poiché non esisteva un ceto imprenditoriale vero e i ricchi proprietari si accontentavano di raccogliere quello che arrivava e di mangiarselo nei loro palazzi di città. È così che dai circoli di Nitti e della Banca Commerciale nasce l’idea – per modernizzare il Mezzogiorno – di farlo diventare anche lui capitalista a tutti i costi: «Se i ricchi del Sud non sono capaci, andiamo noi del Nord al posto loro». Ma con i soldi dello Stato ovviamente. E così fanno nel Pontino, col finanziere Clerici, i Caetani e Omodeo. Ma finì a scandali. Intanto i ricchi proprietari del Sud s’erano incazzati, Nitti era caduto, era caduta la “vecchia Italia” ed era arrivato al potere il Duce, che non aveva però una gran classe dirigente e la sera – prima d’addormentarsi – ogni tanto pure lui dentro il letto si chiedeva: «Ma a me mi sa che un Paese non si può dirigere solo coi manganelli e le schioppettate. A me mi sa che mi ci vuole pure qualche tecnico». Così i tecnocrati dei circoli nittiani passano al fascismo, lui se li prende perché gli fanno comodo e loro ripartono: aggiustano il tiro e ripartono. Chiedono scusa agli agrari meridionali e fanno marcia indietro: «Va bene, bonificheremo con voi attraverso i Consorzi dei proprietari». Loro sono di scuola economica liberale, avrebbero voluto i padroni moderni del Nord, ma a questo punto si accontentano pure di quelli retrivi del Sud. Tertium non datur e un padrone privato ci deve stare per forza, perché senza capitalismo non si va avanti. Ma nel loro mestiere sono bravi e finalmente – dopo secoli e secoli di incuria e d’abbandono da parte dei
proprietari – nel 1928 la bonifica idraulica comincia per davvero. Con i Consorzi dei proprietari. Ma chi è che paga secondo lei? Ecco: tutta la bonifica idraulica, con lo scavo di fossi e canali e la sistemazione d’ogni corso d’acqua, era a totale carico dello Stato. Gli altri lavori invece – ossia ogni opera edile e stradale, le alberature, il consolidamento delle dune, la bonificazione dei laghi, la provvista di acqua potabile e di energia elettrica – lo Stato li pagava solo per il novantadue per cento, mentre l’altro otto per cento se lo dovevano sobbarcare i poveri proprietari. Ha capito? Tu avevi un pezzetto di terra – migliaia d’ettari – che stava sott’acqua, ci crescevano solo le ranocchie e se te lo volevi andare a vendere, non se lo pigliavano nemmeno regalato. All’improvviso te lo ritrovi tutto asciutto, con le strade, i ponti, le file d’alberi e i pali della luce. Lei che dice, quanto vale di più? Be’, tu non ci hai speso una lira, ha fatto tutto lo Stato. Tu sì e no hai cacciato l’otto per cento per il ghiaietto della strada. Anzi, se poi su quel pezzo di terra – che prima stava tutto sott’acqua e adesso è bello e soleggiato e ci puoi arrivare anche in carrozza – ti ci costruisci una casa le stalle i fienili e tutto quello che ti pare, pure lì il trentotto per cento lo paga lo Stato. Lei permette allora che il Duce nel 1931 abbia detto «Ma va’ in malora va’, ma tu sei scemo»? Quello sarà stato pure Mussolini e avrà fatto la dittatura, il totalitarismo, le leggi speciali, le guerre, le persecuzioni contro gli ebrei – ci ha portato al disastro, insomma – ma da giovane era stato socialista come mio nonno e pure a San Sepolcro, quando ha fondato il fascio, aveva un programma di sinistra. Allora ha detto: «Sai che c’è? A me mica mi sta bene che io caccio i schèi e il guadagno poi va ai proprietari. A questo punto do la terra ai contadini». Ha chiamato Cencelli e gli ha detto: «Mettiti l’elmetto». E quello se l’è messo. Tanto è vero che il giornale dell’Opera combattenti si chiamava “La conquista della terra”. Cosa crede che volesse dire? Proprio
esattamente quello: conquista. All’arma bianca. Ed è stata lotta dura. A coltello appunto. Certo il Duce non appariva troppo, mandava avanti Rossoni e Cencelli. Ma questo è il dato di fatto: non litigavano perché si stavano antipatici, s’azzannavano perché era uno scontro di classe, era la rivoluzione che il Rossoni e Mussolini avevano sempre detto a mio nonno e l’Opera combattenti era la «guardia rossa» – un po’ fasciocomunista -di questa rivoluzione. Togliere le terre ai ricchi per darle ai poveri non è in fin dei conti – si vada a controllare i sacri testi di Marx, Lenin, Mao Tse Tung – una cosa che normalmente fanno le destre. La fanno solo le sinistre rivoluzionarie, nella storia dell’uomo. Se avessero vinto i Consorzi, oggi sarebbe completamente diverso il panorama sia fisico che sociale della regione pontina. Lei ci vedrebbe in tutto due o tremila persone – invece di mezzo milione – e ognuno di noi starebbe ancora al paesello suo d’origine a puzzarsi dalla fame. Altro che borghi e Latina-Littoria. Ed ecco perché i villaggi costruiti dal Consorzio in Agro Pontino cambiano tutti nome e l’Opera combattenti – dicendo formalmente di voler solo onorare le battaglie sanguinose in cui più s’erano sacrificati i suoi “combattenti” del ‘15-18 – gliene mette di nuovi per ora e per sempre, e così Sessano diventa Borgo Podgora, Passo Genovese si trasforma in Borgo Sabotino, Casal dei Pini in Borgo Grappa e il Villaggio Capograssa in Borgo San Michele. Littoria poi la facemmo proprio dove già stava il Villaggio del Quadrato. Ma lo buttammo giù tutto, però. Raso al suolo. Pietra su pietra. Il Consorzio aveva costruito gli edifici neanche quattro anni prima. C’era il ben di Dio in quel villaggio: cinema, dopolavoro, capannoni, magazzini, officine, decauville. Ma raso al suolo a fundamentis: «Delenda Quadrato». Che bisogno c’era di buttarlo giù? Avremmo potuto riutilizzare almeno qualcosa, oppure si poteva farla un po’ più in là Littoria – anche solo cento metri – e si salvava tutto. Ma non c’è
battaglia senza perdite, si figuri una rivoluzione. Pure in Francia – quando ci fu la Restaurazione – la prima cosa che fecero fu andare a sradicare gli «alberi della libertà» e in Italia, il 25 luglio, si andranno a buttare giù tutti i fasci di marmo dai muri. E lei vuole che Cencelli tenesse in piedi il Quadrato, che era stato il covo delle «guardie bianche» del Consorzio e della controrivoluzione? È la prima cosa che gli abbiamo buttato giù: «Vae victis». Comunque eravamo rimasti che nel 1931 il Duce chiama Cencelli e affida all’Opera combattenti le Pontine. Da quel momento in poi i lavori ingranano la quarta: mattina e sera, tre turni continuati per lo scavo del Canale Mussolini, pure di notte con le fotoelettriche, con la pioggia e col bel tempo. Si fermeranno solo a lavoro finito, quando prima invece si scavava solamente di giorno e dal mese di novembre fino ad aprile, poi stop, e nei mesi estivi i lavori venivano interrotti per evitare le infezioni malariche. Per bonificare la sola Piscinara il Consorzio s’era dato sette anni di tempo -1936 e solo la parte idraulica, senza la colonizzazione e messa a coltura – sembrandogli pure di stare a fare il record dell’ora. Poi invece è arrivata l’Opera combattenti, che era peggio di Eddy Merckx, e prima che finisse il 1935 tutte le Paludi Pontine erano non solo prosciugate, ma piene di case, borghi e città. Cencelli già dal febbraio 1931 – appena il Duce e Rossoni glielo avevano detto e quelli del Consorzio stavano ancora in mezzo alla boscaglia a rotolarsi nel fango coi bufali e i cinghiali – aveva sguinzagliato i suoi tecnici a fare sopraluoghi, misure, studi e progetti. E a novembre 1931 -quando entra in possesso dei primi quindicimila ettari per esproprio – parte davvero come un carro armato: strade, ponti, canali, disboscamenti, dissodamenti, case coloniche, magazzini e tutto quello che le pare. E per i contadini pensavano – all’inizio – che potessero bastare le case coloniche: «Che vogliono di più?». Però quelli dell’Opera erano gente che si sapeva accorgere degli errori e man mano che andavano in giro e si rendevano conto di ciò che stavano facendo
– una selva di poderi che spuntava ogni giorno come i funghi dall’ex fango – si rendevano anche conto che c’era qualcosa che non quadrava. Ai primi di novembre del 1932 erano difatti cominciati ad arrivare i primi coloni – tra cui i Peruzzi – tutte grandi famiglie a struttura patriarcale. Ma un conto era pensarteli in mente tua dentro l’ufficio all’Opera questi contadini lindi e felici, un altro conto era vederli adesso in carne e ossa coi ragazzini, dentro e fuori dai poderi. Mica potevano solo lavorare. A questo i tecnici dell’Opera non avevano pensato. Quelli invece – i coloni – il sabato e la domenica ed ogni volta che potevano scappare, pigliavano le biciclette e via a Sessano, perché lì c’era l’osteria, il cinema e la sala da ballo. Era un via vai di biciclette e Sessano lo chiamavano “la piccola Parigi”. Allora all’Opera hanno detto: «Qui bisogna che ci inventiamo dappertutto anche noi i borghi di servizio», veri e propri embrioni di città posti all’interno della maglia poderale – uno ogni duecento poderi, in media – completi di tutti i servizi: chiesa, scuola, casa del fascio, posta, telegrafo, carabinieri, cinema, campo sportivo, dopolavoro, eccetera. E quando all’inizio della nuova annata agraria – prima delle semine, nell’autunno 1933 – è arrivata la seconda e più grande ondata di coloni, ha trovato questi borghi già belli che fatti. Cencelli però s’era pure pensato: «Ma questa è un’Olanda sterminata, come farà tutta questa gente che ci stiamo portando? Non gli servirà anche un’anagrafe o un cimitero?». E tra il febbraio e il marzo del 1932 – nel giro di soli tre mesi – gli era venuto in mente di fare oltre ai borghi un qualcosina di più grosso: «Sai che c’è? Mo’ ci faccio una città» (lui era mezzo reatino, era di Magliano Sabina), e subito aveva messo al lavoro un paio di ingegneri del suo ufficio tecnico. Quando il 5 aprile del 1932 il Duce ed il Rossoni vennero in palude per un giro d’ispezione, arrivati al Quadrato li portò sul terrazzo del casale e coi disegni in mano gli fece vedere di qui e di là, puntando con il dito in ogni direzione: «Qui faccio la chiesa, là il comune e laggiù il cimitero».
«Ma Cencelli, sei impazzito?» si incazzò il Duce: «Questa è una città, ch’at vègna un càncher». Bisogna infatti sapere che il Duce all’inizio era contrario alle città. Non le poteva vedere. Lui era per il ruralismo e la deurbanizzazione. Il primo nemico da battere era l’urbanesimo, era quella la fonte d’ogni male: la gente lasciava le campagne dove aveva lavorato in pace senza dare fastidio a nessuno, e veniva in città a fare gli scioperati e i disoccupati, a ubriacarsi nelle osterie e – mezzi ubriachi – a parlare pure di politica. «Altro che urbanesimo» aveva detto Mussolini, «tutti in campagna li voglio, gli italiani» e aveva fatto pure chiudere per sicurezza venticinquemila osterie in tutta Italia. In quelle poche che aveva lasciato aperte, fece attaccare un cartello con tanto di marca da bollo: “Qui non si parla di politica”. E con questa fissa della ruralizzazione era andato avanti per una decina d’anni, dal 1922 che era salito al potere fino al 5 aprile 1932 che era salito col Rossoni e il Cencelli sul terrazzo del casale del Quadrato: «Fuori dalle città, via in campagna» aveva continuato per tutti quegli anni, «è questa la vera mistica fascista». E il fascio – in campagna – la gente ce la teneva con la forza, anche se continuava a scappargli da tutte le parti per correre appunto in città. Lui però voleva costruire l’uomo nuovo – rurale e soldato – e lo doveva fare con le buone o le cattive. Fatto sta che quando Cencelli gli ha detto «città», al Duce gli è saltata la mosca al naso: «Ma come ti permetti? Mo’ ti meno». «Ma no, Duce, ma che avete capito? Mica è una città vera, è una città per modo di dire, rurale; ma io a questi un’anagrafe, un cimitero, un minimo di servizi, quattro uffici del cavolo glieli debbo pure dare; saranno migliaia di persone, mica li posso lasciare tutti spersi in mezzo alle campagne che per un certificato o un funerale si debbono fare trenta o quaranta chilometri fino a Cisterna o Terracina. Abbiate pazienza, Duce, ma a me un minimo di comune con uno straccio di podestà mi ci vuole pure».
«Vabbene, va’» gli disse allora il Duce, che a furia di stare oramai da quasi dieci anni a Roma gli si era imbastardito anche il dialetto e ogni tanto parlava mezzo romagnolo e mezzo romanesco pure lui: «Ma che sia solo un comune rurale, Cence’! Non mi venite più a parlare di città perché divento una bestia». «Non vi preoccupate, Duce. Ma che scherziamo? E mica sono scemo! Solo un comune rurale: l’anagrafe e basta.» «Occhio, eh?» gli ripetè il Rossoni prima di venire via. «Ancora? E che m’hai preso, per un ragazzino?» fece piccato il Cencelli. Poi però gliel’ho già detto che tipo che era, un carro armato con l’elmetto in testa. E pure reatino. Genti di pecore e di montagne. Quando è rimasto solo, s’è rimesso a riguardare i disegni che avevano fatto i suoi tecnici e neanche gli sono più piaciuti: «Ma che vuoi che capiscano questi? Questi capiscono di canali e di paludi, ma a me per una città mi ci vuole almeno la supervisione artistica di un architetto». Così ne ha fatto chiamare uno da Roma – Oriolo Frezzotti – e gli ha detto: «In quarantott’ore voglio un progetto nuovo completo, se no non ti pago». E questo glielo ha fatto e lui è partito con le gare d’appalto. Era il 6 o 7 aprile quando ha chiamato l’architetto, e il 30 giugno c’erano già tutti i campi picchettati, le imprese sul terreno e la buca scavata della torre comunale. Nel frattempo però – era reatino, le ripeto – aveva convocato i giornali: «Mo’ facciamo una città, nuova di zecca» e aveva spedito alle massime personalità di Roma e del regno gli inviti per la sacra cerimonia della fondazione e posa della prima pietra. I giornali a loro volta se ne erano usciti a titoli di scatola: Nasce Littoria, la nuova città. “Il Messaggero” aveva scritto: “Un giorno sarà una metropoli”.
Non le dico al Duce gli attacchi di bile che gli sono presi, quando ha visto i giornali. Schiumava bava per tutta piazza Venezia: «Portatemelo qua, portatemelo qua che lo ammazzo con le mani mie».
Rossoni – appena visto il Duce così – subito s’era attaccato al telefono ad avvisare Cencelli: «Scappa figlio, gira alla larga da palazzo Venezia, datti malato e non farti vedere per un paio di giorni, perché se no sono dolori». E quello s’è nascosto. Intanto il Rossoni cercava di rabbonire il Duce: «Ma dai Duce, è solo un comune rurale, non è una città; ma mo’ ti metti pure tu a dare retta ai giornali?». «Ma porco qua e porco là, m’avete preso per coglione? Non mi fare incazzare anca tì, Rossón» e difatti – siamo seri – quello sarà stato anche un dittatore e il male assoluto, ma mica era proprio del tutto stupido. Littoria è progettata dall’inizio – e lui adesso lo vedeva dai disegni – con tre enormi piazze distinte e separate che contraddistinguono i tre rispettivi centri della futura città. Hai voglia a dirgli: «Non è città, è comune rurale». Ogni volta che glielo dicevi, lui si rincazzava come una bestia. Comunque, fatto sta, i contratti con le imprese erano già firmati. Non si poteva tornare indietro. Anche la festa per la posa della prima pietra, Cencelli aveva provato a disdirla. Ma gli inviti erano partiti e il giorno dopo s’è presentata un sacco di gente da Roma. Pure il vescovo di Terracina a benedire la pietra in questione. Solo il Duce non c’era. Non c’è voluto venire: «E neanche tu ci vai!» ordinò al Rossoni. E dal giorno dopo i giornali non scrissero più una riga. Aveva fatto mandare a tutte le redazioni un biglietto suo – firmato autografo del Duce – che diceva testualmente: “Tutta quella rettorica a proposito di Littoria, semplice comune e niente affatto città, Est in assoluto contrasto colla politica antiurbanistica del Regime Stop Anche la cerimonia della posa della prima pietra Est un reliquato di altri tempi Stop Non tornare più sull’argomento -Mussolini”. Proibito a tutti i
giornali di darne la benché minima notizia e Cencelli – a questo punto – dovette proprio dare l’ordine ai sorveglianti dell’Opera di sparare a vista sul primo giornalista che si fosse affacciato in palude. Littoria oramai non si
poteva più non costruire, ma la si doveva costruire in silenzio: «Taci, che il nemico ti ascolta». Purtroppo – come lei sa – è abbastanza inutile piangere sul latte versato o chiudere, come si suole dire, la porta della stalla quando i buoi sono già scappati. La notizia era oramai arrivata alla stampa estera, che aveva cominciato a scrivere sui giornali di tutto il mondo: “Questi fanno le città!”. E tutti ammirati. A bocca aperta. E cominciarono a voler venire a vedere di persona – sul posto – dall’America alla Russia, dalla Thailandia all’Ungheria. Pure i ministri sovietici e i presidenti dei kolchoz. A vedere come si faceva. E allora il Duce cambiò idea e ci prese gusto e cominciò pure lui a venirci almeno una volta a settimana, a con trollare l’andamento dei lavori, accompagnato sempre da qualche ambasciatore straniero. A questo punto, giustamente, volle però anche tutto il merito – «È stata un’idea mia» diceva agli ambasciatori suddetti – e il 18 dicembre 1932, neanche sei mesi dopo la posa della prima pietra a cui non era voluto venire, venne proprio lui a inaugurare Littoria in pompa magna. E dopo non ha più smesso, s’è messo a fondare città a iosa – alla fine ne hanno fatte più di centocinquanta in tutta Italia, tra grandi e piccoline – ogni giorno fondava un borgo o una città. Il «mal della pietra», si chiama al mio paese. Comunque una mattina del 1934 – solo due anni dopo, quindi, d’avere inaugurato Littoria – s’è svegliato all’improvviso e ha fatto chiamare il Rossoni: «Sai che c’è? Agò cambià idea, Litoria la fémo provìnsa». Provincia. E Rossoni diramò gli ordini. Ogni cosa doveva essere più grossa, più bella, rimodellata e adeguata al nuovo ruolo e la stazione ferroviaria – che nel 1932 avevano giustamente costruito piccolina e di campagna, con l’appartamento al piano di sopra per il capostazione e per la moglie, che quando lavava i panni li stendeva poi a gocciolare dalle finestre sulla testa dei passeggeri che aspettavano i treni – quelli la stazione neanche due anni dopo, nel 1934, l’hanno buttata giù e rifatta di sana pianta, bella, monumentale e littoria come
la vede adesso, con le pensiline rotonde, il bar, le sale d’aspetto e un palazzo a fianco di quattro piani per metterci dentro i ferrovieri con i loro figli e soprattutto le loro mogli, che si andassero finalmente a stendere i panni sopra il terrazzo. Ma è in quella stazione di campagna di prima, le ripeto – quella dove gocciolavano le mogli, non quella che vede lei adesso – che tutti i treni dell’esodo arrivarono a Littoria alle sette e mezzo precise eccetto il nostro. Noi arrivammo in ritardo purtroppo, con la principessina Caetani che erano già due ore che si andava sbatticchiando sulle mani il mestolo della grappa: «Ma quando arrivano questi oggi?». «Adesso, adesso» faceva il capostazione, e invece non arrivavamo. Lei allora riponeva i mestoli e ordinava alle sottoposte: «Riaccendete il fuoco al caffellatte», mentre la milizia batteva i tacchi per il freddo sopra il marciapiede e quelli dell’Opera combattenti – coi camion sul piazzale a motori accesi – non facevano che bestemmiare: «Come faremo a sistemarli tutti a dovere prima di sera?». E noi non arrivavamo. Fummo l’unico treno che portò ritardo, anche se eravamo partiti pure noi in perfetto orario. Dal paese nostro di Ca’ Bragadìn ci eravamo mossi parecchio prima dell’alba, a metà notte ancora, perché da lì a Rovigo ci sono quasi quaranta chilometri. Ci avevano portato i nostri cugini Peruzzi, quelli che erano sempre stati assieme a noi anche a Codigoro e poi ci eravamo divisi, ma divisi sul lavoro, sulle terre e la politica. La parentela era rimasta però, e l’affetto pure, anche se un po’ guardingo. Neanche loro adesso erano più socialisti – nessuno più lo era, tutti avevano accettato il fascismo, vedendo che con questo nostro Duce oramai c’era, come si suole dire, chi governava davvero il paese e tu potevi stare tranquillo che a ogni cosa c’era finalmente qualcuno che ci pensava – però non erano neanche fascisti sfegatati; non gli sentivi dire una parola contro il Duce e contro il fascio e se c’erano delle adunate in piazza ci venivano pure, però dentro di sé tu capivi che
pensavano: «Va bene, va’: attacchiamo l’asino dove vuole il padrone, ma non sia mai che un giorno cade, io di sicuro non mi metto a piangere». I nostri cugini però non vennero in Agro Pontino. Anche loro erano stati cacciati dai conti Zorzi Vila e pure a loro mio zio Pericle aveva offerto di venire. Ma non avevano voluto: «Restiamo qua. Qualche cosa troveremo». Come dice, scusi? Vuol sapere perché hanno rifiutato? Non lo so. Mio zio Pericle si sarebbe portato tutto il paese appresso. Lui dentro il fascio contava – ed è inutile che le stia a rispiegare il perché – e riuscì a far avere un podere anche al cognato, a mio zio Dolfin che aveva sposato la prima sorella e che era un noto socialista ed era tra i pochi che lo era anche rimasto. Ma zio Pericle tanto fece e tanto brigò – «Garantisco io!» – che gli diedero un podere a Borgo Hermada, anche se all’inizio al fascio avevano detto: «Peruzzi, ma sei sicuro? Noi, per noi, lo manderemmo piuttosto a Ponza al confino, tó cognà». Mio zio Pericle un po’ alla volta si portò tutti quelli che vollero venire, si sarebbe incollato anche il campanile di Codigoro per non lasciarlo più là sopra: «Ch’ai vaga tuta in malora, l’Altitalia e i Zorzi Vila». Si figuri quindi se non si sarebbe portato anche i cugini, i figli del fratello di suo padre. Ma forse è proprio per questo che non hanno voluto venire: «Meglio poveri ma liberi qui, che tutta la vita laggiù in grazia del Pericle». In ogni caso furono i cugini Peruzzi – coi loro carri e con quelli presi in prestito – a portarci di notte, armi e bagagli, verso Rovigo. E qualcuno di loro rimase fino a sera a farci compagnia e a salutarci con il fazzoletto in mano all’imbrunire dal piazzale, insieme ai militi, quando il treno tra i primi goccioloni di pioggia cominciò a partire. Dopo i primi «Ciùf-ciùf», appena fuori dalla stazione, già pioveva a dirotto e la folla dei morosi – schierata sui montarozzi lungo la ferrovia – continuava anche lei imperterrita sotto il diluvio e la notte incombente a sventolare fazzoletti. Solo qualcuno smise e ci si coprì la testa, ma appena si fece zuppo
ed inservibile riprese a sventolarlo verso le mie zie, che oramai si allontanavano, tutte fuori dal finestrino a sbracciarsi pure loro con il fazzoletto in mano. Poi le zie ricaddero sui sedili a piangere – sia le donne nubili ancora da sposare, sia quelle sposate, sia, soprattutto, quelle non sposate ma già con qualche figlio spurio a fianco – e qualcuna intonò il canto: M’affaccio al mio balcone e vedo il treno. Sull’ultimo vagone c’è l’amor mio. Sull’ultimo vagone c’è l’amor mio, col fazzoletto bianco mi dà l’addio. Col fazzoletto bianco mi salutava e con la bocca i baci la mi mandava.
Anche mia nonna piangeva, ma senza farsi accorgere, senza lagrime. Mia nonna piangeva solo dentro. Piovve fino a Ferrara e poi ancora fino a Bologna. Piovve su tutta la Valpadana. Solo dopo l’Appennino – sbucati in Toscana a notte fonda, sui marciapiedi della stazione di Firenze, al banco del caffellatte dei fasci femminili – smise di piovere. Ma sotto l’acqua che rigava i finestrini – già dormendo e sonnecchiando, e svegliandosi ogni tanto – fino a Bologna le mie zie avevano continuato a dirsi l’un l’altra: «Ma tu guarda quella matta». Ce l’avevano con la cognata, la moglie di zio Pericle, che non era salita sulla carrozza passeggeri, ma aveva preteso di stare con gli uomini – lei diceva col suo – sul vagone merci, insieme alla roba ed al bestiame, per restare in realtà con le sue api. O meglio, lei aveva provato pure a portarsele in carrozza passeggeri – «Còssa vòtu che sia?» – con l’arnia ricoperta da una rete per non farle uscire e da un panno scuro per non far prendere loro troppa aria. E con un gancio aveva attaccato l’arnia al portapacchi. Ma tutte le altre donne – quelle delle altre famiglie – e il ferroviere non avevano voluto: «Le api sono pericolose». «Ma quali pericolose?» faceva lei: «Le guardo mì». «Sono pericolose, sono pericolose» facevano le altre donne a ogni minimo ronzare; e si sa che le api tanto più sono coperte e stanno al caldo, tanto più ronzano perché ci sono apposta le api ventilatrici che battono le ali per
smuovere l’aria all’interno dell’alveare. Una delle Mambrin – che era incinta di cinque o sei mesi – voleva andare a chiamare la milizia, ed era pure mezza parente nostra. Le donne nostre invece – le cognate – non dicevano niente, stavano formalmente con lei; ma dentro di sé pensavano che avessero ragione le altre. Le api – diciamoci la verità – non avevano mai avuto niente a che fare con la nostra famiglia, noi eravamo gente da bestiame grosso, da asini ossia mussi, da cavalli e da vacche soprattutto. Ma insetti no. Noi se trovavamo un insetto lo schiacciavamo e se solo entrava un’ape o una vespa dentro la stanza – o anche solo in stalla – scoppiava la guerra. Era lei che le aveva portate a casa nostra le api, noi non le conoscevamo – o meglio, sapevamo anche noi chi fossero, ma così alle strette non ci avevamo fatto prima conoscenza – è lei che ce le ha portate e ce le siamo dovute tenere. A cavai donato eccetera eccetera. Ma anche lei era stata un cavallo che – a casa nostra – ancora quasi nessuno aveva digerito. Specie le femmine. Facevano sempre segno di sì, ossia che la stavano a sentire e le portavano rispetto. Ma appena si voltava era tutto un: «Ma varda tì dove che l’è andà a cascare il Pericle». E non solo per le api. Le api erano il meno. Loro dicevano che fosse un po’ strega e che avesse fatto qualche sortilegio al fratello: «Se no at pare che ‘l Pericle se rimbambìsa acsì?». E poi era bella ed era appunto la donna del Pericle e per un Pericle dei Peruzzi – se lei permette – non sarebbe andata bene nessuna donna a questo mondo secondo loro, neanche la figlia del re. Dove la trovavi una alla sua altezza? Giusto una Peruzzi gli ci sarebbe voluto. Se solo si fosse potuto. Così la moglie del Pericle s’era ripresa l’arnia e il bambino piccolino che ancora allattava – la prima, la grandina, l’aveva lasciata lì con la nonna – e ridando ogni tanto una sistemata al panno che copriva l’arnia era arrivata al vagone merci.
A mio zio Pericle – appena l’ha vista – gli è venuto da ridere. È sceso con un salto e mentre lei poggiava sul pianale l’arnia e dava il bambino a mio zio Temistocle, l’ha presa da dietro e l’ha sollevata sopra, non mancando però nel gesto di tastarle visibilmente il culo. «Stà fermo, spòrco», s’è divincolata lei appena sopra. E lui rideva. Come dice scusi? Chi era questa moglie di mio zio Pericle? Da dove veniva? Ecco, adesso glielo spiego. Lei ricorderà quella volta che nel 1919 a Codigoro ci bruciarono il pagliaio e i miei zii andarono in paese a farsi un po’ di giustizia, diciamo così. Be’, ricorderà pure che a un certo punto prese fuoco la camera del lavoro (come dice, scusi? che non prese fuoco da sola, che furono i miei zii ad incendiarla? Va bene, sì, non stiamo a sottilizzare), e che sopra ci abitava della gente che mio zio Pericle, con grande sprezzo del pericolo, aveva messo in salvo. Come dice? Che era stato però lui ad incendiarla? Ho capito, lo abbiamo già detto, è inutile stare a rimestare. Comunque lei si ricorderà di quella ragazza bionda che scalciava con i piedi dalla finestra per non farsi salvare da lui e che, appena salvata, gli mollò uno schiaffo in faccia gridandogli: «Asasìn!». Bene, lei ricorderà anche quell’altra sera – anni dopo -che mio zio ebbe diciamo un incidente con quel povero prete di Comacchio. Come dice, scusi? Che non fu un incidente? Ho capito, però così non andiamo più avanti. Mi faccia continuare, per piacere. Bene, quella sera di ritorno da Comacchio, mio zio sapeva d’averla fatta grossa e che l’avrebbe dovuta in qualche modo pagare: «Chissà quanto mi farò, dentro». Il pensiero più grosso, l’enormità che gli gravava le spalle, non era tanto quella di andare in prigione – «Passerà» – bensì il peso di ciò che aveva fatto o, diciamo meglio, di ciò che gli era capitato, secondo lui, di dover fare. E sul sellino di dietro della motocicletta – attaccato a quel bestia di amico suo di Massafiscaglia, che stava a sua volta attaccato a quell’altra
bestia di guidatore di Comacchio che li riportava a casa -mentre ogni tanto sussultava ai balzi della moto e sentiva l’aria scorrergli dietro per il collo, non si sapeva dare pace e continuava, da un lato, a farsi i conti di quanto si sarebbe dovuto fare dentro e, d’altro lato, a risentire i rantoli del povero prete già senza più vita. Arrivati a Massafiscaglia, scaricato quel bestia d’amico in piazza e rimasto da solo dietro la moto a stringere direttamente – «Toccarlo con le mani, porca vaca» – quest’altro peggior insetto del fascista di Comacchio, mio zio non ce l’ha fatta più. Non gli andava di tornare a casa – «Dove vado? Còssa fasso?» – e gli era pure venuto in mente di dare una botta al guidatore, piegare con il corpo la moto e buttarsi tutti e tre, lui, la bestia e la moto, dentro il Po di Volano: «Così non ci pensiamo più. Finita». Ma mio zio Pericle non era uomo da queste cose. Mio zio sarebbe stato capacissimo – e su questo non c’è il minimo dubbio – di farlo fermare, questo disgraziato della moto, e di annegarlo con le mani sue dentro il Po, di tenercelo duro per ore con la testa dentro l’acqua, a farlo scalciare quanto voleva finché non avesse detto «Basta» e si fosse bevuto da solo tutto il Po: «Va ben: muoio, crepo, va’ in malora». Mio zio sarebbe ancora lì, a tenergli la testa sotto. A quell’altro però. Ammazzarsi da soli non è nel Dna dei Peruzzi: «Cópene quanti ne vòtu, ma la tó vita xè sacra». Il cosmo in un modo o nell’altro troverà il modo di avere pietà di te, anche se uccidi; dovrai penare e pagare, ma alla fine qualche porta si apre anche per il peggio assassino. L’unica cosa su cui il cosmo non transige è il suicidio. Solo a quello non c’è proprio rimedio. Comunque zio Pericle, una volta deciso di non ammazzare nemmeno l’altro – «Uno basta, per oggi» – arrivati in prossimità di Codigoro gli ha detto: «Non star portarme a casa, pòrteme in paese» e s’è fatto lasciare appena fuori. Con la giacchetta sotto il braccio – scuro in volto e pensando ai casi suoi – s’è fatto il corso, è arrivato sulla piazza e s’è presentato a quell’ora a casa sua. Di quella ragazza là, intendo.
Ora
a
lei
sembrerà
strano,
ma
era
dall’incendio
del
pagliaio
e
dall’autocombustione della camera del lavoro -quattro anni prima quindi, e non mi ristia ad interrompere – che non si erano più rivolti una parola. L’ultima era pro prio quell’“asasìn” che lei gli aveva urlato prima di mollargli uno schiaffo, mentre lui sparava in aria come un imbecille per darsi un contegno. Dopo, mai più una parola. Ed erano passati quattro anni. Non – naturalmente – che non si fossero più visti o non ci fosse più stata occasione. La gente si incontra per caso in giro per Milano e non si incontrava a Codigoro? Siamo seri. E che lei – appena lo vedeva – alzava il viso dritto e faceva finta di non averlo visto. Anche se ce lo aveva davanti. Non esisti. Non ti ho visto. E più lui provava a metterlesi davanti e più lei lo scansava. Non lo vedeva. Non esisteva. Mio zio ci aveva perso la testa. Se la sognava la notte. Si sognava quei polpacci, quelli che lui da sotto provava a prendere mentre la salvava dall’incendio e lei scalciava. Coi camerati del fascio e con gli amici faceva sempre il duro ed il gradasso. Ogni tanto la domenica andavano tutti insieme a Ferrara al casino. Quando stavano al fascio a Codigoro invece – che come le ho detto era la vecchia camera del lavoro e lei abitava di sopra – come lei scendeva in strada lui alzava più forte la voce per farsi notare. Ma più lui alzava la voce e più a lei aumentava il disgusto. Faceva proprio la faccia schifata – voltata ovviamente dall’altra parte, verso l’altra gente o le amiche sue – col grugno all’ingiù come a dire: «Varda che roba». Mio zio non si dava pace. Specie a vedere che la domenica al passeggio dopo la messa – o anche ai balli in piazza per la festa del patrono – lei rideva, scherzava e ballava proprio col Pellegrini, quel nemico suo giurato della lega socialista che secondo lui ci aveva incendiato il pagliaio, quello che poi i miei zii andarono a sparargli e dargli fuoco ai casoni. Le mie zie dicevano che se la facesse proprio con quello: «Ah, l’aghémo vista in campagna col Pelegrìn
l’altra sera, i era dentro il fosso, chissà che facevano». Mio zio si faceva rosso e non diceva niente. Era convinto che nessuno si fosse accorto di nulla – e sì, quelle serpi delle mie zie? – non la nominava mai e non faceva segno d’averla vista. A lui però – al Pellegrini – tutte le volte che lo incontrava da solo gli sibilava: «Aténto a tì». «Còssa vòtu?» faceva finta di non avere paura quello. Però gli girava al largo e capitava di rado che si incontrassero. Quello svicolava sempre prima. Mio zio invece cercava in ogni modo di incontrare per caso o per forza lei, da sola o in compagnia. E lei nemmeno svicolava. Mica era il Pellegrini: capitami davanti tutte le volte che ti pare, io non ti guardo e basta. Anzi, capitami davanti anche più spesso. Non esisti proprio. Lui si rodeva il fegato. Come dice, scusi? Perché non l’ha fermata qualche volta, perché non ha provato a parlarle, a dirle qualche cosa? Ah, ma allora non ha capito. Quello avrebbe affogato tutta Codigoro con le mani sue, l’avrebbe messa a ferro e fuoco, non aveva paura di niente e di nessuno a questo mondo. Ma davanti a lei non aveva neanche il coraggio di respirare. Se quella gli avesse detto «Crepa», sarebbe crepato lì all’istante. E così s’è crepato in silenzio e sulle spine – e tra le mille battute oblique delle sue sorelle: «Inquò aghémo visto una certa persona in ziro per l’arzine col Pelegrìn» -per quattro anni senza riuscire a dirle mai una sola parola. Poi – dietro la motocicletta quella sera, con quel disgraziato che lo stava riportando a casa e ripensando a ciò che aveva appena fatto e alla nessuna buona speranza che lo poteva attendere nell’immediato futuro – allora si è detto: «Rotta per rotta, adesso vado lì; peggio di così non può finire la giornata, in fin dei conti». Saranno state le undici o forse quasi mezzanotte. Il corso era giustamente deserto e poco illuminato. Erano tempi quelli che non c’era ancora la
televisione o il cinema, i bar le discoteche e la musica rock. Non c’era neanche la radio e la gente andava a letto con le galline perché il giorno dopo -alle prime luci dell’alba, ma proprio ai primi primi chiarori – doveva già stare a lavorare di lena in mezzo ai campi. Mica era come adesso che nessuno ha più niente da fare tutto il giorno, figuriamoci la notte. Allora la notte dovevi dormire e non c’era nessuno in giro, se non i malandrini. E così mio zio Pericle – come un malandrino – s’è fatto tutto il corso di Codigoro da solo a passo svelto e nella fioca luce di qualche lampione, quasi più quella della luna che dei lampioni, senza neanche starsi a fare un piano di battaglia. No, solo: «Mo’ vado là e poi si vede». Prima vado e prima Dio provvede. Tutto però si sarebbe aspettato – sbucato dal silenzio e dalla penombra sulla piazza – fuor che di trovare le finestre ancora accese al piano di sopra dove abitava lei, e un gruppetto di persone in strada a chiacchierare davanti alla casa del fascio, proprio all’inizio della rampa della scala che salendo voltava sul retro fino al pianerottolo dove c’erano gli ingressi: di qua quello di lei e della sua famiglia, di là quello dei vicinanti loro. «E che è successo? Mica staranno già aspettando me» sussultò zio Pericle, colpito dall’improbabile evenienza che si fosse già saputo dei fatti di Comacchio e che la gente si fosse data appuntamento per accogliere e punire l’assassino. Invece no. C’era un morto pure là. Era una veglia funebre. Un vicino di casa di trenta o quarant’anni, nel pomeriggio, aveva avuto un colpo apoplettico mentre era all’osteria di fronte – sull’altro lato della piazza – a farsi una partita a briscola con gli amici, col figlioletto in braccio. Aveva detto: «Briscola!» alzando la carta per batterla col pugno forte sopra il tavolo, e assieme al pugno era caduto pure lui – forte – con la fronte e tutto il corpo. Rimasto lì, mentre il figlio gli scivolava dalle gambe e gli amici pensavano che scherzasse. Invece non scherzava per niente. Portato su a casa, chiamato il
prete e il dottore non restò che chiamare il becchino; pulirlo, lavarlo, vestirlo di nuovo, stenderlo sul letto, accendergli due ceri e cominciare le orazioni. Lei non so se sa come usa dalle nostre parti – o almeno come usava – ma quando c’è il morto in una casa, chi si fa carico di tutto sono i vicini. Sono loro che fanno il mangiare per tutti, preparano il caffè o mescono il bicchiere di vino a quelli che vengono a fare le condoglianze e a spartire il dolore. E la veglia va avanti fino a tardi. Una volta durava tutta la notte, con le vecchine che si alternavano a recitare rosari e litanie. Mio zio però davanti a quella scena non si è arrestato. È andato avanti. Nemmeno gli è passato per la testa di rivedere il programma, tipo: «Va be’, c’è il morto in casa, faccio un passo indietro». Lui no: «Son qua per questo e per questo vado avanti, morto o non morto agò da fare il mio dovèr». Il gruppetto che stava sulla scala non ha mostrato nessuna meraviglia – «Sarà qui anche lui per fare le condoglianze» – e gli hanno fatto largo. Lui ha chiesto al volo «Com’è successo?», e glielo hanno detto. Lui ha tirato un mezzo sospiro di sollievo – «Menomale che non è proprio un morto suo di lei», se no sarebbe stata ancora più impervia la sua strada – ed è salito sopra. La porta era aperta. E’ entrato. Un cenno col capo a salutare tutta la gente ed è andato in camera del morto. Gli si è messo a fianco in piedi, vicino alla testa, a rendergli omaggio. S’è fatto un segno di croce. Tutti lo guardavano normale. Poi dalla porta – con un vassoietto in mano – è entrata lei, e lo ha guardato con odio, come a dire: «Casso vòtu, tì? Fora de qua!». Lei non se n’era accorta prima, era in cucina a preparare il caffè quando zio Pericle era arrivato, ma appena lo aveva visto nella stanza aveva subito capito: «Casso glin frega a lù del morto? L’è quà par mì, el maladéto». Lui niente. Ha aspettato tranquillo che facesse il giro del caffè e quando è stata vicino a lui, a porgere la tazzina anche a lui – «Prego, el favorìssa»
anche se avrebbe preferito porgergli il veleno – lui le ha detto piano piano, appena sibilato: «Agò da parlarte». Lei s’è voltata ed è tornata in cucina. Lui ha aspettato un po’ e le è andato dietro. In cucina non c’era nessun altro. Lei era stata tutto il pomeriggio ad aiutare la famiglia del morto. A pranzo – quando lui era ancora vivo – la madre l’aveva mandata da loro a spartire un po’ di baccalà. Lui l’aveva pure presa in giro – «Va’ che bèla tosa che la xè vegnùa» – la conosceva fin da ragazzina, aveva giocato anche lei sulle ginocchia sue. Ma nel pomeriggio aveva dovuto pulirgli a lungo le mani sul letto – con lo spazzolino e la bacinella – a togliergli da sotto le unghie, ma senza neanche riuscirci a fondo, gli orli neri di anni di terra e di lavoro. E aveva fatto giocare i fratellini suoi con i figli del morto e li aveva messi a dormire da lei, sul letto di suo padre e di sua madre. Ora aspettava solo che un po’ di gente sfollasse, per poter andare a dormire anche lei: «Almeno stendermi sul letto». E invece questo canchero – a mezzanotte passata, con tutto quel che c’era da fare l’indomani – le si era infilato dietro. «Ma mì lo cópo» e già aveva preso con la mano il coltello grosso del pane. Zio Pericle di là dal tavolo – lei stava di qua, davanti alla tenda che copriva l’ingresso dello sgabuzzino – le ha ridetto piano, perché nessuno sentisse dalle altre stanze: «Agò da parlarte». «Va’ via! N’agò gnènte da dirte!» ha sibilato piano piano pure lei. «Ma agò da dirtelo mì» ha insistito zio Pericle quasi pregando, e intanto superava il tavolo e le si avvicinava. «Va’ via!», ha detto più forte lei minacciandolo con il coltello. Lui le ha messo una mano sulla bocca – per tappargliela – e con l’altra l’ha stretta forte per un braccio tirandola a sé: «Agò copà un cristiàn, un prete! maladéto mì», e appena finito di dire «maladéto mì» è scoppiato a piangere. E s’è nascosto il viso tra le mani.
In quel mentre – attratto da quell’abbozzo d’urlo della ragazza – s’è affacciato alla porta della cucina un parente del morto, un cugino, che appena ha visto di spalle mio zio singhiozzare ha pensato: «Ma guarda tu quanto bene che gli voleva il Pericle a mio cugino. Chi lo avrebbe mai detto?». Lei subito gli ha fatto segno tranquilla con la mano: «Vai, vai, ci penso io» e quello se ne è andato. Neanche hanno chiuso la porta. Lei gli ha solo toccato le mani per scostargliele dal viso, per farlo smettere di piangere. Ma appena c’è stato il contatto c’è stata la scossa. Non ha capito più niente nessuno dei due. Mio zio ha rivisto per un attimo il prete e subito ha risentito il «Toc» sordo del cranio che si rompeva sotto il suo bastone e i rantoli e il cattivo odore che subitaneo s’era emanato dallo sfintere non più sotto controllo. L’Armida anche lei ha risentito gli odori del morto suo e il capo che – rivestendolo – senza più vita ondeggiava di qui e di là ad ogni movimento ed il calore che man mano se ne andava, e si faceva gelido, quell’uomo che ancora a pranzo era nel pieno delle forze e la pigliava in giro. E mentre dal corridoio giungeva sommesso il coro delle litanie Santa Maria. Ora pro nobis. Santa Dei Genetrix. Ora pro nobis. Santa Virgo Virginum. Ora pro nobis.
loro si sono buttati oltre la tenda dello sgabuzzino tenendosi strette le braccia. Lei con la mano, da dietro, s’è solo sincerata che la tenda – un cotone sdrucito e rammendato più volte anche da lei stessa – non si fosse per caso impigliata nella madia, senza richiudersi a dovere. E si sono presi con furia, in piedi, appoggiati alla parete di fianco allo scaffale delle bottiglie di pomodoro. Mater Divinae Gratiae. Ora pro nobis. Mater Purissima. Ora pro nobis. Mater Castissima. Ora pro nobis.
continuava il coro delle litanie, con le voci flebili in falsetto delle donne e i toni bassi e forti delle voci maschili
Turris Eburnea. Ora pro nobis. Ianua Coeli. Ora pro nobis.
mentre zio Pericle le diceva: «Spèteme!» pensando a tutti gli anni di carcere. «Aspettami, Armida, non posso più star sènsa tì.» E lei ansimando «At spèto, at spèto», rispondeva a ogni colpo andandogli ogni volta più forte incontro: «At spèto par sempre, maladéta mì». E quando hanno finito – «Amen» diceva intanto il coro -mio zio s’è sentito svuotarsi l’anima, entrare tutta dentro di lei e poi tornare nuova e mondata in lui. E allora ha pensato: «Oggi ho generato dentro di te tutti i miei figli e le mie generazioni». Ma non lo ha detto, perché aveva paura di quel che aveva pensato. Pure lei però – pure l’Armida – quando lui s’era svuotato, aveva sentito entrare in sé il fiume sacro delle sue generazioni: «Oggi ho concepito dentro di me come le mie api tutti i tuoi figli, che conserverò gelosamente e metterò uno per uno, come le mie api, quando sarà l’ora al mondo». Poi zio Pericle ha detto: «Spèteme al ponte», ha salutato i vivi e il morto, è uscito ed è andato lì e da allora in poi -per tutta la vita – ogni tanto la sera lei, girata dall’altra parte per dormire dopo avere fatto l’amore, gli ha chiesto dubbiosa nel buio: «Ma se ti dicevo di no quella volta, tu che facevi?». E lui immancabilmente duro: «At còpavo anca tì». Lei gli risaltava addosso, e rifacevano l’amore. Intanto però quella volta era arrivata prima lei al ponte, di corsa. A quelli della veglia aveva detto: «Agò da correr dalle api, agò un presentimento» e nessuno aveva trovato da ridire. Il padre e la madre c’erano abituati. A qualunque ora del giorno e della notte era capace di saltare su e partire come un fulmine: «Le me ciàma, le me ciàma; mi stanno chiamando». «Questa xè mata» diceva la madre. Ma lo diceva col sorriso, come fosse un vanto.
Le api le aveva imparate dalla nonna. Non è che fossero una cosa molto diffusa là da noi, ce ne stavano poche. Lei aveva quest’arnia di legno lasciata dalla nonna a cui lei ogni tanto sostituiva qualche tavola. Sembrava proprio una casettina con tanto di tetto. Dentro c’erano gli alveari e lei la spostava di qui e di là – oggi su un campo o una contrada, domani da un’altra parte – in cerca del posto migliore, dove ci fossero più fiori da cui suggere il polline. Ma non è, ripeto, che lassù ci fosse questa grande quantità di pollini pregiati. Solo pioppi, qualche olmo e giusto un’acacia ogni tanto. Lì sì che il miele veniva buono – sull’acacia -ma ce n’erano talmente poche: solo campi di grano, fieno, granturco e barbabietole. Ma anche il fieno – l’erba medica – non arrivava mai a fioritura che c’è il massimo di polline, veniva falciato prima e lasciato poi seccare al sole. Cosa vuole che raccogliessero le api? Per questo ce n’erano poche – c’era solo lei – e lei le spostava di qua e di là. La gente a dir la verità comprava di corsa il suo miele -e il prete la cera – anche quando non c’erano proprio soldi, perché un po’ ce ne voleva per forza in casa e non tanto come dolcificante, ma per quel po’ di salute dei figli. Era l’unica medicina in giro e andava bene sia per la tosse che alle puerpere e se non c’erano soldi si faceva a baratto, ma sempre con il contraccambio più conveniente a lei; era capace di chiederti un vitello per un vasetto solo di miele. Quasi sempre però, tutta questa gente che veniva a fare la fila, poi non era per niente contenta quando lei piazzava l’arnia sulla terra loro. Tentavano tutti di scacciarla: «Agò paura; tiènle lontàn da mì ste appi». Lei allora faceva finta di levarla, ma per riposizionarla appena lì di fianco, sulla strada – «Xè tua anca la strada?» – o sull’argine d’un canale, continuando a borbottare per conto suo con le api, mentre la gente si faceva il segno della croce. La vedevano nera nera – o meglio, nera e gialla – con tutte queste api sulla pelle assiepate l’una sull’altra che le camminavano sulle mani, le braccia, il collo, il viso, tutta piena fin dentro la bocca ed il solco dei seni. E loro si facevano la croce – «Stròlega!» – convinti che quella parlasse davvero con le
api. Ora – come lei sa – questa cosa non è possibile. Non sta né in cielo né in terra. È esclusa da tutta la scienza. Gli uomini possono parlare e possono pure capirsi con certi animali. Ma debbono essere animali grossi, un po’ più vicini a noi nella catena dell’evoluzione. Pure i miei zii e i miei parenti parlavano con gli animali. Mio nonno per esempio col cavallo. Quando si arrabbiava con la nonna e non c’era più verso di dirle una parola perché l’ultima doveva essere sempre la sua, il povero mio nonno usciva fuori e diceva al cavallo: «Vièn qua tì, ch’at me capìsi solo tì a sto mondo». Non parliamo poi dei cani e delle vacche. Le vacche sono proprio intelligenti e i miei zii ci sono sempre andati d’accordo. Ognuna aveva il nome suo – me lo ricordo ancora da quando ero piccolo – nella stalla nostra in Agro Pontino. Noi arrivammo qua, come le ho detto, praticamente senza bestie. Ce le avevano rubate tutte i conti Zorzi Vila. Ma appena arrivati – uno o due giorni dopo – l’Opera ci portò tutti a Doganella in una riserva dove avevano ammassato non so quante migliaia di capi di bestiame. Era un mare, un recinto enorme che faceva tutto: «Mmmééuh, mm-mééuh». Si sentivano da lontano, si sentivano fin sull’Appia ed arrivati là pareva proprio un mare bianco sporco, con le onde delle groppe e delle corna che si movevano in continuazione. Migliaia e migliaia di vacche maremmane strette tutte l’una all’altra. Noi non le avevamo mai viste queste maremmane. Da noi c’erano altre razze, più da carne o più da latte e con delle corna normali, non questi cornoni lunghi e aguzzi, tutti arcuati sulla testa. Sulle prime, facevano impressione. Poi uno si abitua e anche la vacca maremmana ti diventa un cristiano, uno di famiglia. Da latte, non sono buone un granché, ne fanno troppo poco. Anche da carne non c’è da scialare, sembrano sempre pelle ossa pure se le riempi di mangiare. Ma da lavoro, Dio ne scampi e liberi. Non ce n’è un’altra come la maremmana. Più la tiri e più ti tira. Sotto l’aratro e sotto i carri, gli erpici, quello che ti pare da mattina a sera non fa mai una piega, non dice mai di no, più la tiri e più lei tira. Peggio di un trattore. Una
bestia da farci un monumento. E l’Opera disse a tutti: «Entrate dentro, pigliatevi sei bestie e tornatevene a casa». E i miei zii sono entrati nel recinto, titubanti all’inizio, tutti assieme, a farsi arco e toccarsi con le mani per sincerarsi ogni momento l’un altro che erano tutti pronti lì e che la cosa non poteva procedere che bene perché i Peruzzi in ogni caso – anche in mezzo a questo branco di maremmane in tumulto, che la gran parte non era mai stata aggiogata da uomo e nemmeno mai munta – avevano comunque in mano la situazione. I miei zii cominciarono a toccarle una ad una, a parlarci piano vicino alle orecchie, a guardare i denti, a tastare le mammelle, ad alzare le zampe per controllare gli zoccoli e man mano che gliene andava bene una: «Vai!» dicevano a mio zio Turati, che se la portava fuori e con una corda al collo la legava all’esterno della staccionata. Poi lo richiamavano: «Can del Turati, quéla là!», e lui via. Alla fine ci siamo incolonnati con le nostre sei bestie nuove, passo passo fino a casa tutti contenti, e quando siamo arrivati non le dico: tutta la famiglia anche le femmine e i putìni in stalla a fare festa, a rivedere di nuovo una stalla nostra con le bestie dentro. E una stalla nuova di zecca oltre tutto, e alla prima merda che la Venezia – la prima maremmana – ha fatto appena entrata dal portone della stalla in mezzo al corridoio, tutti hanno gridato «Auguri! Auguri!» e non ci pareva vero. «Aghémo fàto bèn a venìr qua» disse mia nonna: «In malora i Zorzi Vila e tuta l’Altitalia.» Però quel giorno a Doganella non tutti gioirono come noi. Anzi, i fattori dell’Opera combattenti stavano con le mani nei capelli perché uscì fuori – e loro, certo, non se lo aspettavano – che un sacco di gente venuta come noi coIona dal Veneto in Agro Pontino, non aveva mai toccato una bestia in vita sua. Scappavano da tutte le parti, appena messi dentro il recinto. Alcuni non ci vollero proprio entrare. Altri si stringevano addosso alla staccionata e appena gli si avvicinava una vacca maremmana – con quelle corna che, le ripeto, erano enormi – strillavano dalla paura.
«Andate, forza!» strillavano invece i fattori: «Pigliate le vostre bestie». I più coraggiosi allora si buttavano. Ma non sapendo dove e come prenderle – e sul davanti c’erano, le ripeto, le corna – si buttavano a pigliarle per la coda e poi a cercare di tirarle. Certe scene che non le dico, con questi poveracci che finivano regolarmente per terra al minimo scarto della vacca, e più di qualcuno si fece anche male, calpestato. «Questi non hanno mai visto una bestia in vita loro» pensarono i fattori dell’Opera: «Che razza di mezzadri sono? Chi ce li ha mandati?». Il fascio glieli aveva mandati, chi altro vuole che fosse stato, un complotto delle demoplutocrazie giudaico-massoniche o un «sabotaggio», come disse il Cencelli? Loro -l’Opera – avevano chiesto mezzadri e non braccianti, perché il bracciante sa fare un lavoro solo: o zappare, o mietere, o raccogliere o spalare o stare appresso alle bestie, e fa solo e sempre quello. Lavora il giorno – quando lo chiamano -sulla grande azienda e la sera se ne torna in paese o al suo casone di canne e di paglia. Il mezzadro invece sta notte e giorno sulla terra che gli è stata affidata e sa fare tutto dall’a alla zeta ed è un contadino completo. Sa quando è ora o meno di seminare ogni coltura e per ogni coltura sa come è meglio preparare il terreno. Sa curare e portare avanti fino alla raccolta – diradare, potare, concimare – ogni tipo di coltivazione e le conosce a perfezione tutte, avendole praticate fin da bambino al ciclo dei pleniluni e delle stagioni: dal grano all’erba medica, dalle cipolle agli alberi da frutto. Sa piantare, trapiantare ed innestare e sa soprattutto accudire il bestiame, sa – guardando solo la pancia – se è il caso di dormire in stalla perché la vacca sgraverà e se il parto magari si presenta pure male. Lì invece c’era gente che non aveva mai messo un giogo su due buoi e che solo all’idea di doversi sporgere sotto la pancia di un mulo per agganciargli le cinghie del basto, avrebbe preferito ammazzare il padre e la madre.
Come dice, scusi? e perché allora erano venuti fino qua? Ma per la fame, abbia pazienza, per quale altro motivo, se no? Per la fame uno fa carte false e quelli fecero carte false per farsi passare come mezzadri e venire qui. Una volta si emigrava in America in cerca di fortuna. Poi hanno chiuso i cancelli e negli anni Trenta, per l’Italia, l’America è diventata l’Agro Pontino – «La Merica xè in Pissinara» – e hanno fatto le carte false anche i braccianti, i barbieri, gli arrotini, i calzolai, perfino i segretari comunali per farsi mandare qui a conquistare un podere. Sono andati a cercarsi le raccomandazioni dal podestà o dal fascio per farsi inserire negli elenchi del commissariato per le migrazioni interne. Ma lei deve scorrere i registri delle parrocchie o gli stati di famiglia all’anagrafe di Latina-Littoria, per vedere quanti pastrocchi furono fatti. La regola difatti non era che tu dovessi essere solo mezzadro o contadino – che sapevi fare tutto, cioè – ma che almeno uno per famiglia fosse stato combattente della guerra 1915-18, se no che Opera combattenti era? E la famiglia doveva essere grossa, perché per lavorare la terra ci vogliono le braccia. Ogni famiglia doveva essere almeno di dieci persone, dovevi avere un mare di figli e – arrivato qua – dovevi poterne fare ancora di più. Così anche quelli che magari erano provetti mezzadri e che in guerra avevano ammazzato una montagna di austriaci o di tedeschi ma che avevano pochi figli – una famiglia piccola come quelle di adesso – si sono dovuti mettere a imbrogliare i documenti e le carte, e lei non ha idea di quanti stati di famiglia tarocchi, con l’aggiunta di parenti e parenti che dall’Altitalia non si sono mai mossi. E soprattutto i matrimoni fasulli, arrangiati con la dispensa del prete o del vescovo alle figlie di tredici o quattordici anni – per risultare di più – con tutti i vedovi o vecchi zitelli che c’erano in giro o con il primo fesso che passava, senza manco consumarlo il matrimonio, dietro il contraccambio di qualche soldo. Proprio come i matrimoni tarocchi di oggi per far avere la cittadinanza
italiana agli extracomunitari. E poi quelle – arrivate qua – man mano che trovavano un moroso vero ci hanno fatto i figli, ma non essendoci il divorzio se li sono tenuti illegittimi per tutta la vita e i figli non si sa più se portino il cognome del padre vero o di quello che sta ancora lassù, sepolto da qualche parte senza mai averli visti e conosciuti. Comunque onestà vuole – perché se no ci pigliamo in giro – che io le dica tutta la verità e fino in fondo, almeno per come la conosco io e per come i miei zii me l’hanno raccontata. E quindi bisogna dire che anche noi abbiamo fatto qualche piccolo imbroglio. Mio zio Dolfin per esempio – quello che mio zio Pericle gli fece avere il podere a Borgo Hermada sulla destra del fiume Sisto, prima della chiusa – era socialista sfegatato e già questo basterebbe, anche se arrivato qua s’è messo la camicia nera pure lui. Però era stato combattente e non si discute, era andato un sacco di volte all’assalto con mio zio Temistocle negli arditi fuori dalle trincee, solo con i pugnali e le bombe a mano. Però non aveva mai visto una vanga in vita sua, un forcone. Lui non era mai stato neanche bracciante. Non s’era piegato una volta sola sulla terra e fin che è stato vecchio – poi – ha sempre detto che gli faceva male la schiena e maladéto il giorno che era venuto qui: «L’è màsa bàsa la tèra», è troppo bassa la terra, non la potevano mettere un po’ più in alto? Mio zio Dolfin era barbiere e ciabattino. Faceva certe scarpe che erano la fine del mondo. Ti toccava i piedi, li guardava e ritoccava, ti pigliava la misura con il centimetro e ti faceva due guanti sul piede, una cosa precisa precisa. Ma quante scarpe nuove vuole che ci facessimo noi morti di fame al mio paese? E chi vuole che – fatto pure una volta un paio di scarpe nuove – si permettesse poi di consumarle per doverle risolare? La gente da noi camminava scalza, come abbiamo poi camminato scalzi per tutto l’Agro Pontino fin che nel 1960 non è arrivato il benessere. E non è neanche da dire che tu quelle scarpe nuove te le mettevi solo il giorno del matrimonio e poi quello del tuo funerale – dimodoché, portandotele via con te, tuo figlio quando
si sposava era costretto a farsi fare le sue – poiché essendo nel BassoRovigotto praticamente tutti ferraresi, noi in quanto tali abbiamo pure il sacro rito e costumanza che il morto va via scalzo. Lei non vede in nessuna veglia funebre o camera mortuaria di Ferrara e Codigoro – ma pure a Pontinia e Borgo Hermada – un morto con le scarpe nella bara. Sempre scalzo. Sia maschio che femmina. Coi calzini puliti e nuovi di zecca. E pure con la cravatta al collo. Pettinato bene e tutto rasato e – dentro le tasche che la gente non vede – pure un po’ di soldi, le sigarette, l’accendino o i fiammiferi se fumava, e prima di chiuderlo col coperchio della cassa, la moglie e i figli gli mettono una bottiglietta di grappa e qualcosa da mangiare. Sono gli usi nostri. Certo gli mettiamo pure la corona del rosario tra le mani, ma assieme a tutta questa roba qua, perché sono usi millenari e non c’è ragione – dopo millenni e millenni che i morti se ne vanno così – di cambiare il modo di mandarli via. Come dice, scusi? Perché gli mettiamo i soldi? Sono gli usi nostri, le ho detto, e perché è l’obolo di Caronte. Che ne sappiamo difatti noi di preciso come stanno davvero le cose, partiti di qua? Perché debbo far correre dei rischi al morto mio – pensa la gente – nel mondo di là? Io gli faccio il biglietto come s’è sempre fatto – e di prima classe -poi se gli ho pagato qualche extra o stazione in più, amen; ma non lo posso mandar via senza tutto l’accompagno che gli serve, o con una stazione pagata in meno. Che gli dice dopo al controllore? Ed è per lo stesso motivo che ancora oggi – quando si costruiscono le case – prima di gettare le fondazioni il muratore lancia sul fondo della fossa un po’ di soldi e di monete. Servono a placare gli dei, a chiedergli il permesso di violare senza eccessivi rischi la madre terra. Una volta ci si mettevano i cristiani sotto le fondazioni sacrifici umani – poi solo i soldi, l’obolo di Caronte che sublima il morto, sta al posto suo. E ogni volta che lei ancora oggi passa vicino a una fontana o a un pozzo – fontana di Trevi a Roma per esempio, o fontana della Palla a Latina -
ci butta una moneta perché dentro di sé, inconsciamente, lei pensa: «Così è come se fossi già morto e non posso più morire finché almeno non ripasso di qui». In ogni caso dalle parti nostre i morti – pur con qualche soldo – se ne vanno però scalzi. Scalzo sei entrato e scalzo te ne rivai. Veda un po’ quindi quanti affari poteva fare dalle parti nostre un ciabattino provetto – un artista delle scarpe – come mio zio Dolfin. E pure come barbiere – povero zio Dolfin – cosa vuole che guadagnasse? Con la fame che c’era, secondo lei la gente andava a farsi fare la barba dal barbiere? Ma quelli piuttosto se la mangiavano, la loro barba. Lui lo chiamavano, appunto, solo quando c’era da fare la barba a un morto. Se no s’arrangiavano da soli. E mia zia che se l’era sposato – che lei sì la sapeva lavorare la terra, lei era la seconda, ossia la prima delle femmine, venuta al mondo dal grembo di mia nonna l’anno dopo zio Temistocle e l’anno prima dello zio Pericle – se l’era sposato per amore, perché aveva una voce canterina e sapeva raccontare mille storie, anche le più strampalate, facendogliele però credere vere. Ma anche la fame era vera e tra una storia e l’altra avevano già partorito un mare di creature, e prima che noi partissimo lei disse una sola volta ai fratelli: «Còssa i farà qua i mè fiòi? i ciabatìn morti de fàm anca lori?». Allora zio Pericle partì e si presentò al fascio, dove però eccepirono che il Dolfin era socialista: «A Ponza, Peruzzi, a Ponza lo dovremmo mandare». Ma poi chiesero se sapeva fare il mezzadro. «E come no? Garantìsso mì.» «E le bestie? Le bestie le sa trattare?» «Orco se’l sa tratàrle, l’è ‘na bestia anca lù. Garantìsso mì.» «Bòn. Se è così, grazie del suggerimento Peruzzi, siamo proprio contenti de staltro bel aquisto.» «Figurarse mì» pensava zio Pericle tornando a casa, e alla madre disse: «Ma come farà, che non l’è bòn a tegnèr un forcòn in màn?».
«Imparerà. Cosa ci siete a fare voi allora, suoi cognati?» e per tutti i primi anni, a turno, c’è stato sempre fisso qualcuno dei Peruzzi a Borgo Hermada sul podere lungo il Sisto, ad insegnare e assistere mio zio Dolfin a lavorare la terra e a stare appresso e parlare anche lui col bestiame tale e quale parlasse alla moglie con la sua bella voce canterina. E lui però – anche dopo imparato – asciugandosi ogni tanto il sudore continuò a chiedere giorno dopo giorno indefessamente ai suoi cognati: «Ma parché xè acsì bàsa la tèra? N’i podéa farla un fià più in alto?». Povero zio Dolfin, che non era davvero mestiere suo. E come lui ce n’erano tanti. Non tutti naturalmente, la stragrande maggioranza erano mezzadri come noi. Ma loro – l’Opera – avevano chiesto mezzadri e mezzadri si aspettavano. Quando hanno visto invece questa manica di impediti che scappava di qua e di là davanti alle bestie, non ci hanno visto più. Telefona subito a Cencelli e falla pure più grossa di quello che è. Lui corre, monta in macchina – o a cavallo, perché in palude girava spesso a cavallo col Borsalino in testa e la pistola alla cinta – arriva qua e ne vede due o tre attaccati davvero alla coda d’una vacca maremmana che se li trascinava sbattendoli da ogni parte. E i suoi fattori – perché si sa che il mondo è così e a uno non gli pare di avere davvero avuto un ruolo nelle cose se non le fa sempre più grosse – subito a dirgli: «E questo è niente, Conte. Avesse visto stamattina». Lei si figuri come si deve essere sentito il Cencelli. Strillava dappertutto – era reatino – «Porco qua e porco là!». Voleva rimandare tutti indietro: «Andassero affanculo loro e il Veneto. Ricaricateli sui treni e marsc!». E invece non s’è potuto fare. Gli è toccato tenerseli. «Ma io avevo chiesto solo mezzadri» strillava al telefono col Rossoni: «Che cazzo ci faccio con questi qua?». «Parla pulito Cencelli, che io non sono tuo fratello. Arrangiati ma è un ordine del Duce, non ci possiamo mettere contro il commissariato per le migrazioni
interne e riportarli su. Fagli dei corsi e va’ in malora anca tì.» E l’Opera combattenti fece dei corsi borgo per borgo per insegnare a tutta questa gente qua – che non aveva mai visto la terra -come si conduce un fondo, come si zappa e si ara, come si ammazza un maiale, si semina il grano, si aggiogano i buoi, ci si siede sul treppiede davanti alle mammelle e come si fa a far nascere un vitello. E alle mogli che erano sempre state in paese e il pane lo avevano sempre comprato al forno – facendo segnare naturalmente a debito e pagando chissà quando – dovettero fare dei corsi per insegnare ad impastare e cuocere il pane, perché venimmo qua che tanta gente non sapeva neanche farsi il pane da sola. Questa è la verità e sarebbe vergogna nasconderla, anche se naturalmente non è la verità generalizzata di tutti quan ti ma di una parte sola, e per quanto riguarda i Peruzzi -soprattutto – noi sapevamo non solo farci il pane ma tutto quanto. Noi eravamo contadini provetti lassù, e per parte di madre eravamo pure stati proprietari di terra, in antico. Sono stati i conti Zorzi Vila – e quota 90 – che ci hanno tolto tutto e ridotti sul lastrico. in ogni caso, come le dicevo, i miei parenti hanno sempre parlato con gli animali e ci si sono sempre intesi quasi meglio che con i cristiani. Mio nonno faceva il carrettiere da giovane e il suo cavallo era per lui un fratello. Non le dico i cani da caccia, che tutti i miei zii li hanno sempre trattati come figli. Le vacche, poi, sono state il vero amore nostro. Non c’è un Peruzzi che non abbia amato più le sue bestie che le sue mogli. O almeno le bestie gli hanno sempre obbedito più delle mogli e non c’è una bestia sola che ci abbia mai risposto come rispondevano queste. Mai una moglie che a un certo punto ci sia riuscito di far tacere e far restare zitta. Niente da fare. Sempre a noi tocca. Sono loro le vere bestie nostre, mentre quelle altre bastava che i miei zii le chiamassero e subito rispondevano. Ognuna aveva il nome suo, e non solo da noi, ma in tutte le stalle era così. Le nostre avevano nomi di città. Non so come sia nata questa abitudine; forse qualcuno all’inizio – magari tra i parenti
di mia nonna o quell’altro che era stato in Russia con Napoleone – quando è arrivata la prima bestia era ancora fresco di militare e aveva girato come si suole dire il mondo, e ha cominciato a mettere i nomi delle città che aveva visto. E quei nomi sono rimasti – di vacca in vacca e di stalla in stalla per tutte le stalle che abbiamo avuto, esattamente come certe famiglie nobili che si tramandano i nomi di Francesco, Emanuele, Vittorio o Figliòlditroia di generazione in generazione – fino all’altro giorno, fino a che abbiamo avuto le vacche. E fin che abbiamo avuto vacche e stalle, ci sono sempre stati nelle stalle dei Peruzzi almeno un bue o un toro che si chiamassero San Pietroburgo, o una vacca o vitella Mosca, e ancora mi ricordo quand’ero bambino mio zio Iseo che all’ora di mungerle nel recinto -con loro libere al pascolo – si portava secchi e treppiede sotto la staccionata e si metteva a chiamare: «Venèssiaaa!», e quella ciondoloni ciondoloni arrivava e gli si fermava di fianco, senza manco fargli spostare lo sgabello, direttamente con le tette sopra il secchio. Zio Iseo le massaggiava un po’ i capezzoli – se erano sporchi li lavava pure – e poi cominciava a mungere a croce, due alla volta, prima uno e poi l’altro. E se il secchio era vuoto si sentiva il rumore del getto – «Fìsssc… Fìsssc» – del primo latte sul fondo d’alluminio. Zio Iseo era capace di far fare getti lunghissimi e quand’ero piccolo, ogni tanto, voltando all’improvviso il capezzolo mi schizzava tutta la faccia – «Bevi, macaco!» – mentre io stavo lì a fianco a guardarlo estasiato. Era il mio preferito, zio Iseo. E il macaco doveva essere – diceva lui – la scimmia più stupida che ci fosse in Africa. Finito con la Venezia, le dava una pacca sul fianco, lei si scostava e lui richiamava: «Torinooo», «Firènseee», «Milanooo», finché non erano venute tutte. Si figuri quindi se per noi era una novità che qualcuno parlasse con gli animali – non avevamo fatto altro in vita nostra si può dire – ma con animali grossi però, che abbiano un cervello grande; non con gli insetti, abbia pazienza: ma che anche adesso s’è mai sentito di qualcuno che parli con gli
insetti? E invece no. Quella parlava con le api e non è che ci parlasse solo per sfogarsi o fare finta – come uno che parli con i muri o con un pupazzo perché non c’è nessun altro in giro ed è come se parlasse a sé stesso, ma a voce alta perché così si ascolta meglio – no, quella era convinta che le api non solo la capissero ma a modo loro le rispondessero pure, facendo con lei i ragionamenti. Diceva di capirle dai versi del ronzio e soprattutto dal modo di volare quando erano in più d’una, in sciame. E quella volta appena arrivata al ponte sul Po di Volano – dove qualche sera prima, sotto un’arcata, aveva piazzato l’arnia – subito ha detto loro felice e contenta: «Attenzione che arriva una persona. Stì bòne». Ma poi, non riuscendo a contenersi, gli ha strillato dalla contentezza: «Agò trovà il moroso, appi!». Ora non è che loro non lo sapessero, o che lei non sapesse che loro lo sapevano già. Glielo avevano detto la mat tina, era lei che non ci aveva voluto credere. O che non lo aveva capito. Già la sera prima aveva nettamente sentito gli inizi del canto d’amore dell’ape regina, che man mano s’era fatto sempre più netto e stringente: «Gnièèèè, gniè gniè gnèut… frrrwt frrrwt… Gnièèèè, gniè gniè gnèut… frrrwt frrrwt». Era rimasta quasi
tutta la notte lì vicino ad ascoltare e immaginava i fuchi che a ogni nuovo «Gnièèèè, gniè gniè gnèut» fremevano dentro l’alveare. In fin dei conti erano
venuti al mondo per questo, non è che avessero qualcos’altro da fare. Non avevano mai lavorato in vita loro, come si suole dire, ed erano sempre e solo state le api femmine a mantenerli a panza all’aria e miele a sbafo fino a questo giorno. Questa era la gara della loro vita: Hic Rhodus, hic salta. I cento metri più importanti – l’Olimpiade – e tutti lì a fremere che finisca sta solfa, che s’oda l’ultimo gnièèèut, spari lo starter e s’aprano le gabbie. E allora finalmente fuori a correrle dietro, a giocarsi la pelle per salvarsi l’anima, il senso della propria vita, le proprie generazioni. Chissà quanti – pensava l’Armida – erano già morti nella notte dentro l’alveare, per il solo fremere dopo quei frrrwt, carichi d’orgasmo fino a spaccarsi il cuore.
Poi a giorno lo sciame era uscito. Lei fuori – l’ape regina – e loro, i mille e mille fuchi, dietro. Ma prima di virare verso l’alto, verso il sole, lo sciame aveva fatto due strani giri attorno a lei, giri che Armida prese come cattivo segno, e si sentì colta da malinconia per i fuchi che non sarebbero ritornati. L’ape regina volava sempre più in alto, mentre lo sciame dietro sempre più s’assottigliava. Lei è più forte di loro, perché mangia solo pappa reale. Ai fuchi invece miele di scarto. Ma nessuno recede o torna indietro – anzi, quei pochi che lo fanno trovano l’alveare chiuso, sbarrato dalle api custodi e loro restano lì fuori per qualche giorno, finché muoiono di fame – e man mano nell’ascesa e nella corsa, a uno a uno ai fuchi gli scoppia il cuore: arrivederci e grazie, pregate per me. Solo i più forti arrivano in alto e a loro finalmente – gli ultimi sei o sette, ambito premio a fatal cruenta corsa – l’ape regina concede, alta nel sole, di poter scaricare fin l’ultima stilla di vita, fino l’ultimo gene nel suo ventre sacro. Ciò fatto, l’apparato copulatore del maschio si strappa – serviva solo a quello – e addio fuco. Ma le sue generazioni sono vive per sempre, perché ciò che conta è l’alveare – la collettività – non l’individuo ed anche l’ape guerriera ha un pungiglione solo, e quando inietta il veleno le si strappa e muore. Ma se qualcuno solo si profila a minacciare l’alveare, lei non ha titubanze e parte per la sua missione, poiché è lì che si sublima il pieno senso del suo stare nel mondo: «Dulce et decorum est prò patria mori». La regina quindi accoglie tutto il seme dei fuchi in una sacca tutti i loro
semi, centinaia di migliaia e anche milioni di gameti – e poi nel corso della sua vita, che è in media di cinque anni, man mano che servono api nell’alveare feconda di volta in volta le sue uova con i gameti conservati nella sacca. Alla bisogna. Non tutti in una volta sola. Come dice scusi? che anche Krishna o il dio Vishnu – non ho capito bene come ha detto – quando copre per la prima volta Satyabhàmà, la feconda in quella sola volta di tutte le creature che poi lei partorirà nel corso delle ere?
Ma cosa vuole che ne sappia io di questa Satyabhàmà che dice lei, di Krishna e di Vishnu? Quelli stanno in India, io sto in Agro Pontino e parlo solo di ciò che conosco, o almeno di ciò che m’hanno raccontato i miei zii. E alla fine di quel volo nuziale – quella mattina – l’ape regina carica dei suoi milioni di gameti non se ne era tornata, secondo consuetudine, tranquilla all’alveare. Certo tanto tranquilla un’ape regina non torna mai dal volo nuziale. E quando vuole che le capiti un’altra giornata così? È il giorno della vita anche per le ragazze del mio paese – o almeno era una volta – che ci spendono un sacco di soldi per l’abito da sposa, il pranzo, gli invitati, i mobili nuovi, il servizio fotografico e adesso pure il filmino e dvd. Figurarsi le api, che le ragazze del mio paese si sposeranno pure una volta sola -adesso un po’ di più – ma poi, volendo, fanno anche tutte le sere. L’ape regina invece fa quella volta sola e basta, poverina. Permette che quando torni all’alveare si senta un po’ scomposta – diciamo – un po’ su di giri? E quando le ricapita più? Per questo tutte le api regine quando tornano a casa dal volo nuziale sembrano un po’ fatte o ubriache. Sbandano di qua e di là. Motivo per cui l’Armida non s’era preoccupata vedendo da lontano sbandare anche la sua. Quella però – invece di prendere bene la mira all’alveare o chiamare almeno in aiuto le compagne – s’era messa a girarle attorno alla testa come una matta e ronzava e vibrava e pareva che dicesse: «Anca tì, anca tì». L’Armida la scacciava con la mano: «Stà in là, maiala, non star tocàrme». Ma quella invece insisteva con giri sempre più stretti, sgusciava e le ronzava sempre più attorno all’orecchio sinistro: «Zzzz… zzzz… anca tì… anca tì… zzzz, zzzz, anca tì anca tì».
«Bruta spòrca de ‘na sporcassa maialassa», s’era allora arrabbiata l’Armida, «te gò dìto o no de lasiarme stare?» E allora quella aveva detto: «Ma va’ in malora, va’» e se n’era tornata volando imbronciata all’alveare, continuando a borbottare tra sé e sé uno stranissimo «Zz, zz» che – volendo -si sarebbe
potuto benissimo interpretare come una specie di: «Anca tì, anca tì, testa de casso». Comunque io adesso non lo so se davvero quell’ape dicesse così, come non so cosa pensino in generale le api. Bisognerebbe solo farsi api per saperlo. Però lo sapeva l’Armida. O almeno credeva di saperlo e come nel pomeriggio – quando il vicino che l’aveva sempre tenuta in braccio da bambina aveva detto «Briscola!» all’osteria e poi s’era reclinato ad esalare l’anima sul tavolo – lei aveva finalmente capito che i primi tristi giri dello sciame erano stati per lui, così a tarda sera, dentro il ripostiglio della cucina dei vicini quando il suo grembo s’era aperto a ricevere il fiume vitale di Pericle, lei s’era finalmente resa conto all’improvviso che il ritorno gioioso della regina intorno al suo viso, «Anca tì, anca tì», era stato per lei. Proprio quando lei -come doveva evidentemente avere detto anche la regina al fuco – diceva al fiume di Pericle: «Oggi ho concepito dentro di me come le mie api tutti i tuoi figli, che conserverò gelosamente e quando sarà l’ora metterò, come le mie api, uno per uno al mondo». Poi al ponte è arrivato zio Pericle. Si sono detti tutte le cose che si dovevano dire e anche di più, e hanno smesso di prendersi e di dirsele solo al far dell’alba. Mio zio – per decenza al morto – prima che fosse giorno l’ha riportata in paese. Davanti alla casa del fascio – dopo l’ultimo bacio, già col piede sul primo gradino della scala – l’Armida s’è accarezzata la pancia e radiosa gli ha detto: «Am pare già d’sentirlo mòverse, Pericle. La prima xè femena, la se ciàma Adria». «Eh, no!» s’è messo a ridere mio zio, la prima e unica volta che abbia riso quel giorno: «Spèta un fià, tosa; vorìa èsserghe anca mì quando che la nasce». «Va ben, aspeterò: la rimando indrìo» ed è salita su. Lui ha riso di nuovo ma poi s’è rifatto serio, e tornato a casa ha detto a mia nonna: «Madre, oggi o
domani verrà l’Armida e io non ci sarò. Prendetela con voi, perché è già mia moglie». «Come ‘na fiòla ‘a tolerò, fiòlo.» E di lì a poco arrivarono i carabinieri. L’Armida aspettò un altro paio di giorni, poi si fece una borsetta con la sua poca roba, prese l’arnia, uscì dal paese e si presentò in campagna dai Peruzzi. Mia zia Bìssola la vide arrivare dallo stradone – tutti da quello stradone abbiamo visto arrivare – con la borsa in una mano e con l’arnia nell’altra: «Còssa vòlea sta qua?», perché era vestita bene, vestita da domenica, non da giorni feriali in cui andava a portare l’arnia in giro. «Aaah, non penserà mica di venire qui?» «Tasi!» le disse mia nonna, e accolse l’Armida a braccia aperte. «Quella è la tua stanza», destinandole uno stanzino piccolo ma solo per lei, non assieme alle cognate, «e quando tornerà il Pericle si vedrà.» E si misero tutte e due ad aspettarlo e quando finalmente lui tornò, lei l’aiutò a partorire e a far nascere finalmente l’Adria. Mia nonna le voleva bene all’Armida. L’accettò subito. Non fu come per la moglie di mio zio Temistocle, che non la voleva perché era dei casoni ed era stata – tutto sommato -nostra garzona e servitora. L’Armida le piaceva, e non solo perché era bellissima, bionda bionda, alta, occhi azzurri, il seno anche alto e i fianchi pure, e larghi, ma la vita stretta e un portamento altero – camminava tutta dritta con le spalle alte e il petto in fuori, pareva la regina di Savoia – le piaceva perché era proprio altera di carattere, dolcissima coi bambini, anche quelli non suoi, e dolcissima con chiunque animale pianta o cristiano più debole di lei; ma forte come il ferro e sprezzante e dura con chiunque ritenesse d’essere più forte e sprezzante di lei: «‘A fémena giusta par il Pericle».
Per gli stessi identici motivi non altrettanto bene fu accolta e riuscì mai a trovarsi con le sorelle del marito. Con le altre cognate sì, con le mogli dei fratelli, con cui era proprio amica e sorella: la moglie di zio Temistocle e soprattutto quella di zio Iseo. Come erano legati i tre fratelli, così erano legate le loro mogli. Sorelle le ho detto, e anche di più – amiche – perché anche tra sorelle non è che andassero tutte perfettamente d’accordo. Eravamo una barca di persone e anche se eravamo tutti uniti, non eravamo però uniti tutti nello stesso modo. Noi ci univamo come un sol pugno – maschi, femmine, animali e bambini – al minimo sospetto d’un pericolo esterno. Ma le mie zie dentro di loro dovettero pensare – quella volta – che fosse proprio l’Armida il pericolo esterno: «In casa nostra quella là? Quéa del Pelegrìn?». Ora io non so se fossero vere le cose che dicevano di lei e del Pellegrini. Dicevano anche che avesse avuto un figlio da ragazzetta e lo avesse abbandonato alla ruota dell’ospizio. Come lei sa, queste non erano cose rare a quel tempo. In fin dei conti, noi non è che venissimo dal monastero di Sant’Orsola. Noi venivamo dal Veneto ma soprattutto dal Ferrarese, che non è mai stato un campionario di moralità o educandato. C’era certo anche lì un po’ di religione, ma a messa la domenica ci andavano i più bravi. Il resto era a manica larga, un chiudere un occhio. E poi con quella povertà, cosa vuole che guardassimo alle convenzioni e alla buona educazione? Là si pinciava. Prima si pinciava e poi si ragionava. E quando una restava incinta, se era proprio povera o troppo giovane si cercava qualcuna che le bucasse l’utero con un ferro per la maglia oppure – se non l’avevi trovata – si aspettava che sgravasse e il fantolino lo si portava al monastero di monache più vicino. Lo si poggiava sulla ruota che c’era apposta al portone, si girava e via: qualcuno avrebbe provveduto. Era pieno difatti in giro – tra i mezzadri – di garzoni che la gente s’era andata a prendere dalle monache per il sussidio che lo Stato dava ai trovatelli, e per farli poi lavorare pure gratis. Tipo i contratti di formazione adesso.
C’erano però anche tante ragazze né troppo povere né troppo giovani, che pinciando magari per sbaglio con uno sbagliato – che perché troppo povero se n’era partito un giorno all’improvviso per l’America o la Francia, o perché lo avevano chiamato a militare o gli era preso un colpo e era morto, o perché magari non aveva un buon carattere e poteva andare bene per una pinciata ma non per farci una vita assieme o perché era proprio troppo povero ed era la famiglia stessa allora che le diceva: «Ma làsia stare fiòla, resta qua, che ci teniamo volentieri vaca e vedèo» – s’erano ritrovate incinte ma non avevano intenzione né d’ammazzare il figlio né d’abbandonarlo. E allora restavano in casa, in attesa che prima o poi passasse – e prima o poi passava sempre – quello giusto, che si prendeva su, come si dice dalle nostre parti, «vaca e vedèo», vacca e vitello. Io le ripeto che non so se fossero vere o no tutte le cose che le mie zie – le sorelle di mio zio Pericle – dicevano di sua moglie. Quello che so però è che anche noi eravamo ferraresi e che come tutta o quasi l’assoluta totalità delle famiglie venete friulane o ferraresi che vennero qui, anche noi quando arrivammo in Agro Pontino avevamo qualche vedèo in più – con le mie zie – da piazzare. Comunque fu un esodo e come Dio volle – sotto l’acqua che cadeva a rovesci – partimmo anca nantri e partimmo in orario. Fummo l’unico treno però, in tutto quell’esodo, che arrivò in ritardo, con le camicie nere della milizia e la principessina Caetani che sul marciapiede ci accolsero tutti bestemmiando. Anche il viaggio nostro era andato bene fino a Roma e pure oltre, tutto preciso uguale come gli altri: stesse stazioncine, stesse grappe, caffellatti e fasci femminili a Bologna e Firenze, stessi trasbordi di uomini e ragazzini – a ogni minima fermata – da un vagone all’altro e stessi bisticci e fiabe raccontate dalle nonne. E poi i «Tonf, tonf» avanti e indietro dei vagoni fermi a Termini, il torpore prolungato nell’attesa delle ripartenze, il nuovo sonno «Dedèn-dedèn dedèn-dedèn» oltre Torricola, Santa Palomba, Campoleone,
Cisterna. Eravamo quasi arrivati si può dire, ed eravamo anche noi in perfetto orario. Ma poi abbiamo accumulato ritardo per la distrazione di un bambino dei Mambrin, parenti nostri alla lontana dalla parte di mia nonna, che avevamo ritrovato sul nostro stesso vagone. Ma chissà quanti altri come noi hanno ritrovato parenti su quelle tradotte. I poveri in fin dei conti sono tutti parenti tra loro, perché fanno tanti figli. I ricchi invece no. Ma se non fai figli non hai parenti. In ogni caso questo ragazzino aveva sei o sette anni e si chiamava Benito, ma tutti lo chiamavano Benitìn perché era Piccolino. Non c’era naturalmente ormai famiglia, allora, che non avesse almeno un Benito. Ce lo avevano avuto anche i miei nonni – l’ultimo cucciolo della covata – nel 1926 o ‘27. Era arrivato inaspettato, perché mia nonna credeva oramai d’essere fuori quota – «Finita là» – e i primi due o tre mesi che non le veniva più il mestruo, nemmeno ci pensava: «Son vècia e stop». E invece no, e quando mio nonno le ha visto ricrescere la pancia, rindurirsi i seni, rimettersi a sferruzzare con la maglia per fare le babbucce piccole e lei gli ha detto che lo sentiva muoversi e scalciare, mio nonno s’era tutto ringalluzzito: «Sono ancora buono a qualcosa, ciò». Orgoglioso. Eravamo già a Ca’ Bragadìn dai conti Zorzi Vila e i miei nonni forse erano sul serio, oramai, un po’ più in là per queste cose, e le linfe vitali che hanno infuso nel nuovo figlio non erano le stesse degli altri. A poco più di tre anni s’è ammalato di una febbre grave il giovedì grasso – primo giorno di carnevale, che mia nonna gli aveva fatto apposta i crustoli, le frappe e le frittelle con l’uvetta passita – e alle Ceneri è morto. Sta ancora lassù, nel cimitero di Ca’ Foscari. «Pòv’ro Benito mio» erano state le ultime parole di mia nonna sul marciapiede della stazione di Rovigo prima di salire sulla tradotta: «Chì ghe porterà, adesso, un fiore?». Glielo portiamo noi – io e i miei cugini ogni tanto – un fiore a mio zio Benito adesso, quando passiamo per di là in ferie.
Comunque questo Benito dei Mambrin era dalla partenza che smanettava con il conigliaccio suo. Ci parlava come fosse un cristiano e quello lo capiva – lei mi deve credere – proprio meglio di un cristiano. Sua madre diceva che era capace di chiamarlo pure da lontano, sull’aia: «ìcio!», e quello subito correva come un cane. «ìcio, dà la zampa.» E quello gliela dava. «Fai un salto.» E lo faceva. «A te ti manderemo al circo» gli dicevano tutti quanti, e per l’intero viaggio non ha fatto che trambustare con il suo coniglio – l’unico bambino che non abbia dormito tutto un sonno neanche da Bologna a Roma – ogni tanto si svegliava e lo rimestava, e per rimestarlo svegliava tutte le donne del vagone: sua madre, sua nonna, le sue zie e pure quelle degli altri. Mia nonna chissà quante volte gli ha dovuto raccontare la favola del diavolo al Pontelungo. Ma lui ricontinuava ogni volta – appena finita – a riandarsi ad infilare sotto ogni sedile. Una zecca. Non ne potevano più. E durante una sosta – credo poco dopo Firenze, quando sono venuti a fare una visitina gli uomini – lo hanno dato a un suo cugino più grande insieme a tutta la gabbia del coniglio: «Portateveli con voi, che vi venga un bene». Il padre quando lo ha visto arrivare s’è pure arrabbiato – «Ma qui prende troppa aria e troppo fumo» – però ci ha giocato un po’ e se lo è tenuto vicino, anche se stava meglio prima, più libero di bere le sue grappe, ciacolare e giocare a carte coi miei zii. Adesso invece doveva stare anche attento che non andasse a disturbare troppo le api dell’Armida. «Che c’è qua sotto?», faceva: «Che c’è qua sotto?» e tirava su con la manina il panno. «Pciàff», e gli arrivava una sberla. Alla sosta successiva lo hanno rimandato di là con le femmine e pare che a un certo punto – e non col dedèn, bensì proprio col silenzio di Roma, nella lunga sosta a Termini -si sia finalmente addormentato anche lui. «Aaaah!» hanno fatto in coro le donne.
Poi la tradotta è ripartita e siamo arrivati dormendo più o meno tranquillamente tutti – turbati magari dai sogni del paese lasciato – fino oltre Cisterna, già in Agro Pontino. Passata Cisterna, questo ragazzino Benito della famiglia dei Mambrin si è risvegliato un’altra volta di soprassalto con la smania di andare a rimestare la gabbietta del suo coniglio. Il treno era pure in leggero anticipo. Il sole era da poco uscito da dietro la corolla dei Lepini e una nuvola nera -era novembre oramai – appena lo copriva. Il treno ha sferragliato forte sul ponte Marchi, il ponte che al di là dell’Appia consente alla ferrovia di attraversare il Canale Mussolini. E tutti dormivano sul vagone, tutte le donne, i vecchi ed anche il cugino più grande di Benitino, che il padre aveva mandato a fare da guardia. Si era già in Agro Pontino. Mancavano solo sei chilometri – da Ponte Marchi – a Littoria Scalo. Lui ha ripreso la gabbietta che prima di Termini aveva rificcato sotto il sedile della nonna – quella ha solo scostato le gambe nel dormiveglia, per lasciarlo libero nel suo trambusto – e proprio lì, di fianco alle ginocchia di sua nonna, gli è venuta voglia di attaccarla a mezz’aria. Ha visto una cosa che secondo lui poteva fare allo scopo – la maniglia dello sportello – e ce l’ha appesa. Però il gancio della gabbia non calzava bene. Allora lui ha fatto forza. Mia nonna – che essendo parenti e avendo ciacolato con la sua tutto il viaggio, stava seduta di fronte – ha poi sempre raccontato che proprio in quel momento, allo sferragliare del treno sul ponte Marchi nel dormi e non dormi, all’improvviso le era venuto in sogno un manto nero. S’era sentita un’angoscia nello stomaco – un dolore cupo – e poi su bito lo schiaffo forte e gelido dell’aria, addosso al viso, che oramai entrava dallo sportello spalancato. S’è svegliata e il bambino non c’era più. Lo sportello sbatteva e risbatteva sulla fiancata esterna del vagone. S’è svegliata nello stesso istante e di botto – anzi, un istante prima di mia nonna – pure la madre del bambino, che era incinta di cinque o sei mesi e
che stava sull’altro sedile di là del corridoio. E s’è buttata per riprenderlo. Era già fuori si può dire, con tutte le spalle e una gamba. Mia nonna l’ha ripresa per la schiena, stringendole la lana delle maglie dentro il pugno. E l’ha tirata dentro. Con l’altra mano – da quando era salita a Rovigo non faceva che guardare sopra di sé quella leva minacciosa con scritto “Freno d’emergenza” – ha tirato l’allarme. La nonna di Benito – la vècia Mambrin – si voleva buttare anche lei. Il treno ha cominciato a frenare. Ma un treno non è che prenda e fermi, continua a camminare per un pezzo anche con i freni che stridono. La madre del bambino urlava: «Mè fiòlo, ‘I mè fiòlo». E la nonna pure. E ogni metro – «Strììììì!» – che il treno continuava a fare, scemava in loro ogni speranza. Le
altre donne riguardavano – ognuna contandoli – i propri figli. E contandoli ad uno ad uno e ritrovando esatta la somma, tiravano un sospiro di sollievo: «Mariavèrzine». La gente è scesa e sono corsi i ferrovieri, la milizia dal primo vagone, i maschi incuriositi dai vagoni merci – «Còssa ghe xè?» – compresi i Mambrin, sbigottiti poi e annichiliti dal sapere che era toccato a loro: «Ma parché propi a nantri?». Tutti a tornare indietro – sui passi del treno – per cercare il ragazzino. Lo hanno trovato a un centinaio di metri, appena sotto la scarpatella pietrosa della strada ferrata, proprio ai piedi dell’argine del Canale Mussolini, poco prima che cominciasse il ponte. Giaceva scomposto. Senza un gemito. Con il dietro della testa ed un braccino sfracellati. Morto. Ma col visino che pareva dormisse. Il padre lo ha preso in braccio che stillava goccioloni di sangue e lo ha mostrato alla moglie che arrivava. «Beni tìn!», strillava lei: «Ti e quel conìcio maladéto». «Maladéta la quota 90» diceva invece il padre, col suo agnellino profferto senza vita sulle braccia – «Maladéti i conti Zorzi Vila» pensava dentro di sé
mio zio Pericle che gli stava a fianco – ma il ferroviere glielo ha fatto riposare per terra: «Bisogna aspettare l’Autorità. Vada a prendere un lenzuolo per coprirlo, per piacere, o una tovaglia». «Ma quale Autorità?» strillava intanto il capomanipolo della milizia ferroviaria: «Qui l’autorità sono io! Pigliate quel ragazzino e fate ripartire il convoglio, ho degli ordini da rispettare». Hanno questionato per un po’: «Il capotreno sono io» faceva il ferroviere. «E io sono la milizia» ribadiva l’altro. Intanto il padre aveva risalito il treno fino alle carrozze passeggeri, per cercare qualcosa nel saccone della biancheria. Ma prima di arrivare lì, aveva visto da lontano sullo sportello aperto – attaccata penzolante alla maniglia – la gabbietta del coniglio con lui dentro che faceva: «Quìck, quìck». L’ha strappata con la mano e mentre la strappava dallo sportello già la stritolava con la stessa mano. Poi ha preso il coniglio, lo ha sbattuto per la testa addosso al vagone e lo ha buttato morto dentro la macchia giù dalla scarpata. Quando finalmente dalla stazione di Littoria sono arrivati due carabinieri a piedi, i ferrovieri e i militi hanno fatto risalire la gente e ripartire il convoglio. Due ore di ritardo. E lì è rimasto solo il silenzio, rotto appena dal fruscio che faceva l’acqua sotto le campate del ponte Marchi, dentro la savanella già gonfia del Canale Mussolini. Due anni dopo – come le ho già detto – la piena del 4 novembre 1934 se lo portò via tutto, il ponte Marchi. Lo dovettero ricostruire da capo – più grosso e più robusto – lì dove sta adesso e dove stava anche prima, perché lì passava la ferrovia. E dovettero allargare pure la sezione del canale, riscavarlo ed allargarlo. Mio zio Iseo – che ci lavorò – diceva di averceli buttati anche lui questa volta, sotto le fondazioni nuove, cinquanta centesimi per il povero Benitino dei Mambrin. Con il corpicino – dopo la partenza del treno – lungo la scarpata erano rimasti solo i genitori. «Pensate a tutto voi» aveva detto il padre ai suoi fratelli, affidando loro le bestie e gli altri figli.
«Stà tranquillo» gli avevano risposto. Lui e la moglie sono rimasti seduti per terra – insieme ai carabinieri un po’ discosti – a guardare il corpicino coperto con una tovaglia bianca del corredo da sposa. Aveva gli orli tutti ricamati. E due piccole macchie rosse di sangue, all’altezza del braccino e della testa. Lei piangeva tenendosi il pancione. Lui invece la teneva per le spalle. Prima che il treno ripartisse, però, mia nonna era scesa giù dalla scarpata a cercare tra i rovi il coniglio; finché non lo aveva trovato ed era risalita su, col ferroviere che faceva: «Andiamo, andiamo! Ma mo’ vi ci mettete pure voi?». Lo ha dato alla nonna dei Mambrin – la sua parente – dicendole dolce: «Almanco poderi mangiarlo questa sera». Qualcuna delle mie zie disse piano piano a una sorella: «L’è stà èla», l’Armida, la cognata. «Non ti ricordi con che occhi ha guardato la madre alla partenza, quando quella strillava per l’arnia? Le ha fatto il malocchio.» Loro – i genitori di Benitino – sono poi arrivati sul podere il giorno dopo, accompagnati da un fattore dell’Opera con il calesse: «È quello lì» gli ha indicato, e li ha fatti scendere sulla strada, davanti al ponte. Tutti i loro gli sono andati incontro e la vècia – la nonna dei Mambrin – abbracciandoli gli ha detto: «Vi ho lasciato qualche pezzo del coniglio». «Grassie, mama». Benitino se lo erano sepolto in mattinata al cimitero di Sermoneta – in terra dei Caetani, perché quello di Littoria non era ancora pronto – dopo averlo vegliato in silenzio tutta notte da soli dentro la chiesetta. Adesso stava sotto terra e tutti i loro – e pure tutti noi, parenti e vicinanti della strada, che ogni famiglia andò a fare le condoglianze – tennero per un momento la faccia mogia e triste, ma poi subito dovemmo voltarci trafelati a vivere, a correre appresso ad ogni nuova incombenza che la Terra Promessa richiedeva. Eravamo qua, ci eravamo venuti da lontano, dovevamo costruirci un’altra vita. Potevamo stare a pensare alla morte? Benito dei Mambrin era andato. Non
avrebbe più conosciuto pene. Anzi, lui stava in Paradiso perché Dio accoglie come angeli i bambini: «Pensasse lui adesso a tutti noi» disse mia nonna. Noi eravamo arrivati il giorno prima, come le ho detto, sul nostro podere e mentre si sentiva da lontano – quattro poderi più avanti – la vècia Toson che strillava «Riportème a Zero Branco» e il silenzio dei Mambrin invece che pensavano al Benitino, mia nonna era stata la prima a scendere dal carro e ad ordinare a tutti: «Forza ragassi, ormai siamo qua e qua restaremo per sempre. Tì qua, tì là, tì zò», assegnando a ognuno il proprio posto di combattimento. «Ci resteremo benissimo» risposero tutti quanti e saltarono subito all’opera, chi a scaricare la roba dai pianali, chi a portare la roba dentro e sistemarla dove lei, la nonna, con la mano indicava: «Là! Là! Là!». Per noi non era bastato un camion solo, c’erano voluti anche due carri trainati da buoi, che appena li aveva visti zia Bissa, vacche maremmane appunto, biancogrige e corna altissime, aveva detto subito schifata: «Che bestie èle, ste qua?». I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della possibilità d’irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare “podere” il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano, scritto a lettere alte di pietra, c’era: “O.N.C. – Podere N. 517-Anno XE.F.”. O.N.C, vuol dire Opera nazionale combattenti e Anno X dell’Era Fascista vuol dire 1932, dieci anni dalla marcia su Roma, inizio di un’era millenaria che non doveva finire più. Prima c’era stato il mondo di prima, con il disordine, l’ingiustizia e il disprezzo dell’Italia da parte di tutti; adesso s’era aperta un’era nuova, dove il nome di Roma avrebbe trionfato e imposto la sua pace su tutto il mondo. O almeno questo era quello che dicevamo orgogliosi. Sul casale
c’era scritto “Podere” a lettere di pietra bianca, ripeto – belle grandi sull’intonaco celeste – e quindi noi i casali li abbiamo chiamati allora e per sempre “poderi”. Il nostro stava – come sta tuttora – sulla Parallela Sinistra, la strada che costeggia parallelamente il Canale Mussolini nel tratto che da ponte Marchi attraversa l’Appia prima e la Provinciale poi. Tra la Parallela Sinistra e l’argine del Canale – per quattrocento metri circa – c’era la terra nostra e sulla strada, a trecento metri l’uno dall’altro, i nostri due poderi. Confinanti. Ne avevamo avuti due perché due erano, nella nostra famiglia, i combattenti della Prima guerra mondiale, zio Temistocle e zio Pericle. Zio Temistocle poi aveva la famiglia grossa – ne aveva già sfornati sette o otto – tutti gli altri invece risultavano con zio Pericle: padre, madre, fratelli, cognate, sorelle e vitellini sparsi. Fin dall’inizio abbiamo sempre lavorato tutti assieme però – tale e quale a come facevamo su – scambiandoci le bestie, gli attrezzi e le giornate di lavoro, e facendo ogni cosa insieme. Però fin dall’inizio mia nonna disse a zio Temistocle, anche se la nuora non le era mai piaciuta: «Quélo xè il tó podèr, e ogni roba che la vièn, la gà da èsere la tua. Xè giusto acsì». I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani. Col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere – reti metalliche a maglia finissima che impedivano l’accesso agli insetti – poi i vetri e dietro, all’interno, gli «scuri» di legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce. Al piano terra, sulla corte, davanti all’ingresso del podere c’era un tirabasso – bow-window si dice adesso, o anche veranda – una tettoia coperta anch’essa con le tegole e tutta richiusa da zanzariere, con un sistema interno di filo, carrucola e contrappeso che faceva richiudere al volo la porta, appena veniva
aperta. Dopo questo antingresso c’era il portoncino vero e serviva appunto – l’antingresso – a tenere lontane le zanzare e non farle entrare in casa. Dovevano al massimo fermarsi lì, davanti la tettoia e le poche volte che qualcuna riusciva pure ad infilarsi, subito c’era l’ordine di gridare «Zanzara!» e tutti accorrevano a darle la caccia. Guai soprattutto se qualcuno – specie i ragazzini – nella foga d’aprire o chiudere la porta faceva uscire il filo dalla carrucola o cadere il perno. Tutti ti saltavano addosso come al più orrendo misfatto. Erano le zanzare il maggiore pericolo e questo all’Opera – ma anche le maestre a scuola – non facevano che ripeterlo: era lei che pungendoti trasmetteva la malaria. Come dice, scusi? No, no, non si trattava delle zanzare normali che si vedono in giro ancora adesso. Era la zanzara anofele ed era un po’ più grossa, ma non era lei che faceva nascere dentro di sé il bacillo della malaria. Lei quando nasceva era sana. Era solo portatrice e il bacillo lo pigliava andando a succhiare il sangue ai cristiani già ammalati. Quando poi riandava a mordere i sani, l’attaccava a loro. Nelle Paludi Pontine era pieno di gente ammalata. Pure da noi in Valpadana c’era un po’ di malaria, ma non come qui, qui era un’ira di Dio e c’erano tutti i tipi della malattia, non solo quella più endemica, normale, che t’ammazzava piano piano con grandi febbroni periodici e con l’avvelenamento del fegato, l’epatite. Il fegato man mano s’ingrossava e vedevi tutta questa gente qua – e anche i pastori ciociari e abruzzesi e i butteri cavallari di Cisterna – con la pancia grossa grossa. Gonfia. “Panzarotti” li chiamavano, e poco a poco morivano. Ci si curava con il chinino. Passavano i cursori della Croce Rossa a cavallo a distribuirlo in pasticchette, che pigliavamo pure come misura preventiva. In ogni borgo c’erano le dispense, dove appunto «dispensavano» il chinino e dove vendevano anche i sali e tabacchi, perché allora il chinino, il sale e il tabacco erano tutti e tre privative dello Stato. Poi i primi commercianti ci hanno messo anche i generi alimentari, la pasta, l’olio di semi e poi la
mescita del vino, l’osteria, il gioco delle bocce e così ancora adesso – che sono cinquant’anni che non s’è più visto un malarico o una pastiglia di chinino – da noi le botteghe d’alimentari continuano a chiamarsi “dispense”. Erano veri e propri general store come i saloon della conquista del West. Lei ci poteva trovare pure le vanghe e i chiodi, se le servivano. C’erano però anche le forme più pericolose di malaria -la perniciosa o la terzana – che erano capaci d’ammazzarti nel giro di quarantotto ore, con febbri improvvise di oltre quarantadue gradi. Non c’era il Ddt allora, non c’era niente. Dovevi solo corrergli appresso con la paletta alle zanzare. O meglio: c’erano i pipistrelli – grandi torrette di legno piene di buchi rotondi, messe un po’ qua e un po’ là per tutta la palude in via di bonificazione – in cui i pipistrelli facevano il nido. Ce li avevano portati da tutt’Italia perché il pipistrello è ghiotto di zanzare e le prende al volo meglio di un caccia intercettore. Un F-16. Alle donne facevano un po’ schifo – non è tanto bello il pipistrello, diciamo la verità, e se ti si attacca ai capelli non si stacca più – ma appena hanno cominciato a impiantarsi da soli i nuovi nidi sotto le cantinelle dei cornicioni dei poderi o sulle capriate d’ogni stalla, la gente gli ha fatto gli altarini, gli ha steso i tappeti all’ingresso e li trattava meglio dei bambini in fasce. Le donne mancava poco gli portassero il latte coi biscotti e se solo ti vedevano con la mazzafionda in mano davanti alla stalla – il pomeriggio, quando loro dormono attaccati in fila a testa in giù nell’angolo più buio della capriata – ti schiacciavano di botte più che a una zanzara. È un animale sacro in Agro Pontino e guai ancora adesso a fargli torto. Però non era Dio, il pipistrello. Da solo non ce la poteva fare in questo universo di zanzare anofeli. L’unico modo per batterle era sterminare dentro l’acquitrino i figli prima che nascessero. Era quella la cerniera del fatale trinomio «anofele-acquitrino-uomo malarico», perché l’anofele – quando fa le uova – le deposita sul filo umido e caldo dell’acqua stagnante, tra dentro e fuori. Ma deve essere acqua ferma, non corrente, se no le uova se le porta
via e arrivederci e grazie. Lì l’ovetto si fa tutto il suo percorso di larva e quando è ora rompe il guscio, sale a galla, si dà un scrollatina alle alucce, comincia a svolazzare e il primo cristiano che incontra – malarico o non malarico – si mette a mozzicare a rotta di collo, succhiando e alfin mischiando i sangui. Per questo bisognava fare la bonifica e asciugare ogni pozza, ogni stagno, ogni padule e scavare canali. Solo acqua corrente doveva esserci, neanche più un bicchiere lasciato all’aperto con una goccia d’acqua ferma. Era peccato mortale – quando siamo arrivati – dimenticarsi per caso un secchio o una bacinella la sera con un po’ d’acqua all’aperto. Ti rimpacchettavano – l’Opera controllava tutto, i fattori facevano avanti e indietro a ogni ora del giorno e della notte, il nostro pretendeva che spazzassimo pure il fondo delle scoline in fianco alla strada, non gli bastava che ne falciassimo l’erba – ti rimpacchettavano e spedivano indietro con tutta la famiglia. Altroché l’ecocidio di cui parlano alcuni, per i quali la palude sarebbe stata un ecosistema che avremmo dovuto ad ogni costo proteggere. E sì, no? Mo’ proteggevamo le zanzare e la malaria? Come dice, scusi? che così però non vengono più neanche le poiane e gli altri uccelli migratori? Ma che vada in malora anche lei e le poiane. Adesso una poiana ha più diritto a vivere di me? Io vorrei vedere lei al posto nostro, se ci stava lei nelle Paludi Pontine con la malaria. Perché non se le alleva dentro casa sua le zanzare? Comunque la bonifica non è che si sia fatta dalla sera alla mattina. Ci sono voluti dieci anni per prosciugare e sistemare tutto, da Cisterna a Terracina e dai monti al mare. Bonificavamo un pezzo alla volta e neanche tanto piano piano, ma proprio di corsa. E mentre già c’erano i coloni dentro i poderi nelle aree bonificate, contemporaneamente a valle c’era ancora la palude melmosa e tu correvi il rischio che gli operai – che stavano appunto a scavare i nuovi canali -ti morissero di malaria per le zanzare ancora vive e vegete nel
padule superstite. Nemmeno si sa con precisione quanti siano stati i morti per malaria durante i lavori e tanto meno quanti – presa la malaria qui – se ne siano poi tornati a morire a casa loro in Toscana da dove erano partiti, o anche dalla Calabria, Ciociaria, Sicilia, Bergamasca e tutta Italia. Più di centocinquantamila furono gli operai impiegati da Opera e Consorzi, e non meno del dieci per cento – quindici o ventimila – debbono essere morti per malaria. Si davano il cambio, facevano un periodo di lavoro e poi subito scappavano con la poca paga a casa loro. E poi Dio vede e provvede. Quelli che invece – «Zac!» – li pigliava all’improvviso la terzana e restavano la mattina in baracca stesi sopra il letto a saltare con la febbre a quaranta, quelli li caricavano su una lettiga e via di corsa a morire a Velletri, in ospedale, perché non risultassero morti di malaria in palude. “Meningite” o “infarto”, scrivevano poi sui certificati di morte, e “Velletri”, non “in palude”, perché il fascio «la malaria l’aveva debellata». Ma che debelli, se poi invece la gente ci muore? Quelli morivano a Velletri mentre a noi – sugli acquitrini – il fascio faceva spandere manti di carburo misto a sabbia e polvere di strada. Il manto polveroso restava per un po’ a galla e l’anofele – quando cercava di deporre le uova sull’acquitrino – non riusciva a penetrarlo e rimaneva fregata, le uova restavano a seccarsi nella polvere e addio figli. Ma non era con la polvere di strada che potevi debellare la malaria. Era poca roba. Funzionava un giorno o due. In America ci buttavano il petrolio. E quello sì che funzionava. Ma loro il petrolio ce lo avevano. Noi no, noi neanche per accenderci i lumi, si figuri per buttarlo sugli stagni. E la lotta contro le zanzare e la malaria l’abbiamo fatta con la polvere di strada, i pipistrellai, un po’ di «flit» – una specie di insetticida che spruzzavamo con la pompa a mano e un barattoletto attaccato in fondo; ma era più un ricostituente, una Ferrochina Bisleri, per le zanzare che ne andavano ghiotte e ci si ingrassavano come maiali – e soprattutto le carte moschicide che tutte nere pendevano dai soffitti. Oltre naturalmente alle
palette di fil di ferro e alle ciabatte per schiacciare al muro le zanzare, quando le trovavi. Questa è stata in Agro Pontino la lotta antimalarica fino a tutti gli anni Quaranta e i primi Cinquanta – quando continuavamo ancora ogni tanto a prendere la malaria – finché non è arrivata la Seconda guerra mondiale con gli americani. Allora sì che è davvero finita la malaria, perché se al resto d’Italia hanno portato come si suole dire libertà e democrazia, a noi – che di libertà non ne avevamo mai vista e masticata tanta neanche prima del fascismo, anzi pure peggio – a noi gli americani hanno portato soprattutto il Ddt. Loro lo avevano appena inventato e non lo avevano ancora sperimentato su larga scala. Così quando sono arrivati qui hanno detto: «Provémolo qua!». Hanno riempito un paio di Dakota – certi apparecchioni loro – con tutti questi bidoni di Ddt e avanti e indietro per l’Agro Pontino finché non lo hanno allagato tutto quanto di Ddt. L’esperimento è riuscito – «Orca, se l’è riusìto!» deve avere detto a Truman il generale suo – e non s’è più vista una zanzara anofele in tutto il Lazio e neanche s’è più visto un ammalato di malaria, nemmeno a pagarlo oro. A Velletri hanno dovuto chiudere il reparto. Così gli americani – verificato che a noi cristiani non avesse fatto niente, perché il Ddt sarà anche non-biodegradabile ma sull’uomo non ha alcun effetto negativo; forse, chissà, ce l’ha positivo – gli americani ci si sono tranquillamente andati a disinfestare tutte le paludi loro: «Testato in Agro Pontino» hanno detto. Adesso il Ddt è vietato in tutto il mondo. Perché non è biodegradabile. Resta nel ciclo alimentare e non si dissolve più. Lo hanno trovato perfino nel tessuto adiposo delle foche al Polo Nord. Allora hanno detto: «Basta col Ddt, non si può più fare». Ma a noi ci ha salvati dalla malaria e se non era per il Ddt, noi non ci vivevamo in cinquecentomila su questo territorio. Sarebbe ancora un deserto paludoso-malarico e noi saremmo dovuti tornare – prima o poi
- nei nostri paesi d’origine, da cui ci avevano scacciato a calci. Ora a me dispiace per la foca del Polo Nord – perché ci vuole il giusto rispetto per tutti, pure per le foche – però, se lei permette, è meglio che muoia una foca al Polo Nord o è meglio che moriamo io e i miei figli qui? Comunque, per entrare in ogni podere, c’era prima di tutto il ponte d’accesso – con tanto di spallette, muretti in pietra viva e bauletto di cemento sopra, su cui ci sedevamo in fila tutti quanti nelle sere d’estate a chiacchierare nei filò – che superando il fosso laterale della strada immetteva sulla corte, l’aia. Poi il podere – il casolare – dove subito dopo il tirabasso antizanzare c’erano due scalini e il portoncino d’ingresso, l’ingresso stesso e il vano delle scale per andare sopra. Tutti gli scalini erano in graniglia di cemento – come pure il lavandino in cucina – di colore abbastanza chiaro all’inizio, ma che poi col tempo, con l’uso e con il continuo strofinare e levigare d’acqua mista a cenere e sapone acquistò sempre più un colore grigioscuro lucidissimo, con i pezzetti di graniglia che luccicavano come diamanti. Pareva granito delle Dolomiti. A sinistra, subito dopo l’ingresso, la porta sempre aperta della cucina. Un cucinone enorme col focolare in fondo in cui entrava – nel cucinone, non nel focolare – tutta la famiglia patriarcale. Era questo il cuore del podere in cui tutti assieme si mangiava – chi in piedi e chi assiso – e si discuteva pure, se e quando era il caso. Su uno dei lati lunghi si aprivano due finestre che davano sull’aia e sulla strada, sull’altro invece la porticina di servizio per la stalletta del cavallo e quella per il magazzinetto delle granaglie. Noi poi in effetti il cavallo non lo abbiamo più avuto qui - l’ultimo se lo era preso il conte Zorzi Vila – e mio nonno non s’è mai saputo dare pace. Ogni tanto diceva: «Ma come fémo a ‘ndare avanti acsì? Ma non se gà mai visto un Peruzzi, su la faccia de la terra, che non fosse almanco a cavallo d’un cavàl».
«Vattela a prendere coi Zorzi Vila va’, maladéto tì e lori» lo zittiva mia nonna. E qui abbiamo avuto solo e sempre asini, muli, somari mussi da attaccare ai carretti e birocci, o agli erpici, falciaerba, ranchinatori e qualche volta anche agli aratri. E li abbiamo sempre fatti dormire in stalla con le altre bestie – in fianco alle vacche – mentre nella stalletta del cavallo, rimessa a posto alla bell’e meglio, ci abbiamo sempre fatto dormire col letto e il comodino qualche cristiano dei nostri, come così pure nella stanza delle granaglie. Io mi ricordo nei pomeriggi d’estate – quando il mucchio del trebbiato era ancora alto – che io e i miei cugini dormivamo direttamente su quel mare di chicchi di grano, e le garantisco che non c’è al mondo un letto migliore. Vorrei proprio morire lissù – rigirandomi su un letto di grano – quando verrà sbadigliando la mia ultima ora. Di fianco al podere – subito dopo il grande portico rotondo che funzionava da rimessaggio carri – c’era la stalla a un piano, con le mangiatoie di cemento, le greppie, le lettiere in pendenza, il corridoio al centro e le finestre a vasistas. Al piano di sopra del podere invece – più grande del piano di sotto, perché comprensivo anche della copertura del portico – c’erano cinque grandi camere da letto. O meglio, quattro cameroni grandi e una più piccola. In ogni camera c’era un portacatino di ferro smaltato, con la bacinella a mezza altezza, lo specchio dritto, le mensolette per il sapone e – alla base – la brocca per versare l’acqua ed il vaso da notte. Ci si lavava lì, alla bacinella, e di fianco sostava un secchio per l’acqua sporca, quando questa non si buttava direttamente dalla finestra, avvisando però prima – «Atensión!» – quelli che per caso passassero sotto. Solo che arrivava quasi sempre prima l’acqua che l’“Atensión!”. E allora: «Andè in malora, ch’av vègna un càncher» facevano quelli di sotto. La cameretta piccolina era originariamente destinata a saletta bagno, per lavarsi e farsi il bagno appunto. Ma da noi il bagno ce lo siamo sempre fatti tutti i sabati – non si scappava, almeno una volta a settimana ti dovevi fare il bagno, dopo che siamo venuti qua, se no mia
nonna ti spennava – dentro la tinozza di legno in mezzo all’aia, quand’era bel tempo. Se pioveva, in cucina. E nella cameretta da bagno ci abbiamo messo pure lì dei letti, un comodino, un vaso da notte e un portacatino per far vivere, dormire e riposare i cristiani. Era un podere nuovo di zecca. Un sacco di camere. I muri odoravano ancora di calce, le porte di vernice e un podere così bello e spazioso non lo avevamo mai visto prima. Ma noi eravamo tanti – troppi, le ho detto – e troppo spazio non c’è mai stato per nessuno. Come ti muovevi, sbattevi in qualcun altro. La gente, a quei tempi, stava sicuramente più comoda nella cassa da morto quando moriva, che nella casa di famiglia insieme ai suoi parenti. Mio nonno – quando voleva un po’ di pace – se ne doveva andare solo in stalla a fumarsi il suo sigaro con le bestie. Davanti al casale – nell’aia – c’era il pozzo. Un pozzo per podere, profondo tra i cinque ed i sei metri e largo uno, circolare e rivestito di mattoni. Scavato a mano. Nei poderi sulla duna quaternaria – dove il terreno è più secco e la falda freatica più in basso – i pozzi arrivavano anche a una trentina di metri, scavati con le sonde a percussione, ed erano più poveri d’acqua, per cui il pozzo, una volta svuotato, ci metteva più tempo a riempirsi ed in ogni podere c’era quindi la pompa a vento, un traliccio con la ventola che man mano, cigolando, lentamente tirava su l’acqua e riempiva un serbatoio. Dalle parti nostre invece – in Piscinara e proprio sul podere Peruzzi – ancora adesso basta che lei scavi una buca d’un metro, la sera, e la mattina la ritrova piena d’acqua. Sorgente. Le vene della falda corrono fin quasi in superficie. Acqua a volontà. Ed è per questo che sulla terra nostra – Terra Promessa, appunto – nasce e cresce il ben di Dio e i pozzi non si seccano mai. Per tirare su l’acqua, però, noi avevamo solo la pompa a mano – oppure il secchio – perché in Agro Pontino nel 1932 le campagne non erano elettrificate. L’energia elettrica era presente – insieme al telegrafo, telefono e fogne -solo nei borghi e in città, e lì la gente, insieme alle lampadine sul
soffitto, aveva anche i bagni dentro le abitazioni. Nei poderi dell’Opera invece la luce si faceva col lume
A
petrolio o a carburo, ed anche per il pozzo c’era
quindi una pompa di ferro, fatta a forma di fascio con le verghe attorno e la sua bella leva. «Gnèu, gnèu, gnèu» faceva quando pompavi, e l’acqua cadeva nell’albio a fianco – i trevisani dicevano “lèbo” – ossia l’abbeveratoio, una vasca rettangolare in muratura e cemento impermeabilizzato. L’albio era il centro della nostra vita, c’era sempre qualcuno intorno a pompare acqua o a fare mestieri. I miei zii però non volevano che ci si lavasse lì, diventavano delle bestie se ti ci vedevano. Dovevi prima pomparti l’acqua nel secchio e poi ti ci andavi a fare da un’altra parte quello che ti pareva. Ma guai a guastargli l’acqua – a sporcargliela – dentro l’albio, che pretendevano pure di trovare sempre pieno. Ogni giorno era una storia a cercare chi lo riempisse – «Gnèu, gnèu, gnèu» con le braccia alla fine che non te le sentivi più – anche se
tutti i lavori lì, uno per uno, avevano ognuno un responsabile preciso. Appena nascevi, mia nonna ti assegnava il tuo lavoro – «A tì questo, a ti quélo, a tì quel’altro» – e l’albio toccava ai ragazzi. Ma ogni giorno era una fuga ed ogni giorno erano storie e guai soprattutto se i miei zii – giunta l’ora a sera di abbeverare le bestie – trovavano che l’acqua avesse un’ombra sola di sporco, una macchia oleosa o quello che sia. Ti facevano svuotare l’albio dal tappo di sotto e riempirlo di nuovo da capo – «Gnèu, gnèu, gnèu» – con una scudisciata di vinchio ogni tanto alle gambe: «L’acqua la gà da èser pura! per le bestie» strillavano. Poi le mollavano a due a due dalle catene che per il collo le tenevano alle greppie e loro – caracollando lemme lemme e lasciando ogni tanto qui e là qualche merda – dal corridoio uscivano sul ciottolato davanti la stalla, voltavano a sinistra, giravano l’angolo della casa e a venti metri dal podere, sull’aia, si chinavano all’albio a bere. Qualcuno ovviamente stava di guardia col forcone lungo la strada per evitare che saltasse loro in mente di girare e andar per campi. Zio Iseo sull’albio fischiava: «Fìu,fìu,fìu», e loro bevevano e
facevano provvista fino al giorno successivo. Oggi in tutte le stalle c’è il beverino sulla mangiatoia e la vacca quando ha sete beve, basta che prema il muso ed esce l’acqua. Allora bevevano una volta al giorno e bevevano a volontà, e più zio Iseo fischiava amorevolmente «Fìu, fiu, fìu», e più loro amorevolmente bevevano. Nessuno gli ha mai voluto il bene che ha voluto mio zio Iseo alle bestie e – comunque – chi glielo fischia più adesso, sul beverino, «Fìu,fiu,fìu», mentre bevono automaticamente? Noi invece bevevamo dentro la secchia, in cucina, col mestolo di ferro o d’alluminio. Pure per noi non c’erano ancora rubinetti automatici, che basta che giri ed esce l’acqua. Te la dovevi pompare «Gnèu, gnèu, gnèu» a forza di braccia, nel secchio attaccato al gancio sulla pompa. Poi si portava in casa e restava lì – dentro il secchio, sopra il lavandino -vicino alla finestra. Il mestolo – un mestolino rettangolare – stava attaccato a un gancio alla parete. Chi aveva sete pigliava il mestolo, lo immergeva nell’acqua e beveva da lì. Poi lo riattaccava alla parete e quando l’acqua s’era un po’ troppo riscaldata o il secchio era oramai vuoto, mia nonna mandava il primo ragazzino che passasse a riempirlo di nuovo alla pompa. Il mestolo – come ogni altra stoviglia -veniva lavato due volte al giorno, vicino all’albio se era bel tempo o dentro il lavandino, con l’acqua sempre dai secchi; e come lei capisce, meno acqua e meno secchi possibile. O se avevi proprio voglia d’acqua fresca e tutta intonsa, andavi al pozzo, pompavi «Gnèu» e bevevi là. Come dice, scusi? che però non era tanto igienico bere tutti quanti dallo stesso mestolo senza neppure sciacquarlo o rilavarlo ogni volta? Ho capito, ma che ci posso fare? Mica stavamo al Grand Hotel. Allora le stoviglie si lavavano con acqua, sapone e cenere. Poco sapone, perché non c’erano ancora Tide od Olà, ed era sapone fatto in casa, facendo bollire il grasso e le ossa degli animali. E poca acqua, perché i secchi pesavano e con la stessa acqua ci
lavavi tutte le stoviglie. Che vuole da me? Ci venga lei, la prossima volta, a bonificare le Paludi Pontine. Dietro la casa invece, sul retro – a circa trenta o quaranta metri dal podere – c’era il gabinetto, la latrina, una specie di garitta in muratura, un parallelepipedo con poco più di un metro quadro di base, alto più o meno un paio di metri, con tetto a due falde e tegole in laterizio anche lui. Quando arrivammo qui – e lei non era nemmeno scesa dal carro, ancora stava sul pianale, ancora con un piede sopra e l’altro pronto per saltare – mia zia Bissolata urlò a tutti che toccava a lei inaugurarlo: «Prima mì La prima agò da èsere mì e si fiondò di corsa dietro il podere. Quando tornò sull’aia era radiosa e proclamò a tutti: «A son proprio contenta, agh’s caga bèn». Il gabinetto era dietro, staccato dalla casa, e gli americani poi – quelli del New Deal, non quelli dopo della guerra e del Ddt – dissero che si chiamava “prìvy” e che ce lo avevano anche loro fuori, nelle campagne loro, staccato dalle case come si vede ancora adesso nei film western, tipo Gli spietati, che quando debbono ammazzare uno lo vanno ad aspettare proprio fuori del prìvy. Erano venuti con il Rossoni – «Vardè, Peruzzi, v’agò portà i nostri camerati mericàn» – durante un giro di visite. Erano vecchi amici suoi dei tempi antichi e socialisti, diventati adesso anche loro fascisti del New Deal. «Il camerata Roosevelt» dicevano sempre difatti tra di loro il Duce ed il Rossoni, perché dopo la crisi del ‘29 e andato finalmente su lui – il Roosevelt – anche l’America, dal 1932 in poi, stava diventando fascista. Lì prima era un sacrilegio – e lo è tuttora – che lo Stato s’immischiasse nell’economia, quella era roba solo per i capitalisti privati. Però la crisi del 1929 era stata grossa – uscirne fu tosta – e così mise anche lui il bavaglio al parlamento, leggi speciali, nazionalizzò un sacco di roba e partì con le bonifiche tale e quale a noi, all’Urss e alla Germania nazista. Erano proprio i giornali americani – il “New York Times” del 1933, mica solo il Duce o il Rossoni – a dire: «Questo è fascismo, se non addirittura
nazionalsocialismo». «E me ne vanto» rispondeva il Roosevelt, tirando dritto. Con noi era culo e camicia: «Io, Stalin e Mussolini siamo fratelli di sangue» diceva anche in pubblico, e mandava tutti i giorni qui i suoi tecnici – in Agro Pontino – a imparare come si faceva il New Deal. Poi più avanti però – quasi come con l’Alceste De Ambris – le cose si sono guastate e ognuno per la strada sua: noi siamo diventati il male assoluto e lui il campione della democrazia. Poi dice come cambia il mondo. Chi ci avrebbe mai creduto, dentro il grattacielo del “New York Times” nel 1933? «C’è chi ce l’ha d’oro e chi ce l’ha di latta» diceva quella vecchia amica di mio zio Pericle. Comunque quella volta a un certo punto questi americani si misero a fare: «Tel prìvy, tel prìvy» e noi non capivamo. Rossoni allora – che come lei sa l’America era casa sua – disse: «El prìvy xè il cesso», e anche noi da quel momento cominciammo a chiamarlo “prìvy” e ancora ce lo chiamiamo adesso; anche se naturalmente non c’è più e abbiamo tutti il bagno in casa. Fu zia Bìssola la prima che – una volta che c’era un ospite, non so chi fosse, forse il medico o il prete – dovendo improvvisamente andarci ma volendo motivare un po’ più signorilmente la sua assenza, disse: «A vago int’el prìvy». «Dove vai?» fecero tutti quanti «Int’el prìvy.» «Dove?» rifecero ancora più forte gli altri. «A cagaareee!» strillò allora lei spazientita. E da allora in poi – prima per gioco e poi per davvero – per tutti i Peruzzi il cesso è sempre stato il prìvy e stava dietro, staccato dalla casa, come si faceva allora in tutte le zone di campagna. Mica solo in Agro Pontino. In tutto il mondo e le ragioni erano igieniche. Non essendoci disponibilità d’acqua corrente nelle case – disponibilità legata evidentemente all’energia elettrica – non c’era neanche la possibilità di smaltire in condotte o fognature i rifiuti che ne derivavano. Lo smaltimento doveva farsi quindi solo con i pozzi neri – scavati direttamente sotto la latrina – in cui i liquami ristagnassero per essere
poi svuotati una o due volte l’anno. Non era perciò opportuno che le persone risiedessero stabilmente – ossia vivessero, mangiassero e dormissero – proprio sopra il pozzo nero. Per questo lo si metteva fuori, anche se nelle zone più povere e arretrate – come in Altitalia nei casoni – non c’era proprio nessun prìvy, o latrina che fosse, e nemmeno il pozzo nero, e la gente andava di volta in volta in mezzo ai campi. Da noi stava vicino alla letamaia, che quando siamo arrivati era nuova nuova e tutta pulita, una platea di cemento che giorno dopo giorno abbiamo cominciato a riempire con i rifiuti solidi della stalla. Nella letamaia, la paglia delle lettiere mischiata con la merda delle vacche, col passare dei giorni fermenta, si amalgama chimicamente e perde i liquidi, che per percolamento calano verso il basso, sulle linee di pendenza della platea, e da lì vengono convogliati al pozzo nero. Nella letamaia resta il concime solido – oro per l’agricoltura, le ho detto – che una o due volte l’anno viene sparso per i campi. I liquidi invece vanno tutti al pozzo nero, dal piscio delle vacche in stalla – l’urea, oro al quadrato, condottavi gelosamente dai bocchettoni e dalle apposite tubature – ai rifiuti umani dentro il prìvy. E quando il pozzo nero era pieno, si svuotava con una pompa a mano, si riempiva la botte del piscio e come l’acqua benedetta si andava a spargere in processione su tutti i campi. Niente si sprecava in Agro Pontino: «Gnànche» – come diceva mio zio Iseo – «una pissàda». Il prìvy stava sul pozzo nero, a una quarantina di metri dal podere perché deve stare per forza a non meno di sessanta metri dal pozzo dell’acqua chiara, quello che sta sull’aia, nel cortile davanti, e che dà da lavarsi, bere e cucinare a uomini e animali. In quasi tutti i poderi dell’Agro Pontino – non solo nel nostro – sta a sessanta metri precisi, non un metro di meno o uno di più. Non meno, poiché è la distanza minima di sicurezza affinché le eventuali perdite del pozzo nero non inquinino la falda freatica da cui si sugge l’acqua chiara. E non di più però, perché più aumenta la distanza e più aumenta la fatica per trasportare i secchi d’acqua.
Non che facessimo grandissimo uso d’acqua nei prìvy, perché i secchi pieni appunto pesano. Il cesso nostro era costituito da un vaso alla turca, senza sedile cioè. La gente andava lì, si accucciava, faceva i bisogni e se ne riandava. Per pulirsi si usava un ciuffo d’erba o una foglia di vite – quella di fico no, perché è rasposa – o anche un pezzo di giornale quando si trovava. Io mi ricordo quand’ero bambino i fotoromanzi delle mie cugine grandi: “Bolero”, “Grand Hotel”. Carta dura che faceva anche male. Ma che ne sapevamo noi allora? La prima carta igienica che ho visto in vita mia è stato nel 1960, e se per caso il secchio che stava lì di fianco era pieno, allora uno buttava un po’ d’acqua nel vaso per ripulire e mandare giù i rifiuti. Se invece era vuoto, amen: uno se ne andava e si arrangiasse il prossimo. Ma che era scemo -secondo lei – ad arrivare fino al pozzo, incollarsi un secchio pieno d’acqua e senza che nessuno lo avesse obbligato, portarselo fino al prìvy per sessanta metri? Col pensiero poi del prossimo che arriva e trova il secchio bello pieno per la buona grazia tua e si mette lì a sciacquare, risciacquare e scaricare alla sgrandesona? Eh no, ci andasse lui a riempirsi il secchio. L’incombenza quindi di portare i secchi d’acqua al cesso ossia il prìvy è sempre stata una delle più ingrate – e quindi la più disattesa – nella divisione del lavoro fissata da mia nonna all’interno della nostra famiglia, cosiddetta patriarcale. Formalmente toccava ai ragazzi, e quindi il secchio era quasi sempre vuoto. Almeno una volta a settimana però -non c’era scampo – a mia nonna riusciva di mandare a furia di mestolate sulla schiena qualche femmina a pulirlo di sana pianta; secchi a volontà, portati da qualche uomo sul carriolone della stalla e poi creolina e varechina fin sulle pareti. Tirato a nuovo, lucido. Ma il giorno dopo era già zozzo. Eravamo una marea, le ripeto, là dentro: caga tu che cago io, si fa presto a sporcare un prìvy. Come dice, scusi? Se dopo avere fatto i bisogni ci lavavamo le parti basse? No, non ci lavavamo, cosa vuole da me? Il bidè in tutta Italia è arrivato nel 1960 – in America e a Parigi, ma credo che lo sappia, non ce l’hanno ancora
– e lei voleva che noi ci facessimo i bidè proprio durante la bonifica delle Paludi Pontine? «Aspetta» gli dicevamo mentre con la fanga alla bocca stavamo a scavare coi palotti il Canale Mussolini: «Aspetta che mo’ mi vado a fare il bidè»? Il prìvy, bagno o quel che sia, ad ogni modo viene portato in Agro Pontino dentro l’abitazione – in ogni abitazione, sia di città che di sperduta campagna – solo dopo il 1960, quando è arrivato il benessere e l’elettrificazione anche da noi. Allora sì, giù acqua a volontà, perché oramai c’erano le pompe elettriche, i serbatoi e le condutture per portare subito i nostri rifiuti lontano da noi, senza più bisogno di andirivieni e pesantissimi secchi. E tutti noi della famiglia Peruzzi – da quella volta dei camerati americani del New Deal – lo abbiamo sempre chiamato prìvy. Tutti eccetto una, però: zia Bìssola dopo quella volta è stata l’unica che non lo ha più chiamato prìvy. Era di un permaloso mia zia, che lei non ne ha idea. Era permalosa come una biscia e per evitare che gli altri la prendessero di nuovo in giro, prìvy è una parola che non ha più pronunciato in vita sua e ancora pochissimi anni fa, al matrimonio del primo nipote, lei durante il pranzo al ristorante – come sa, dalle parti nostre i pranzi di nozze durano ancora un’eternità anche se non c’è più la fame in giro che c’era allora, che uno se la levava solo a Pasqua, a Natale, e ai matrimoni – lei a un certo punto s’è alzata dal tavolo come fanno tanti fra la ventesima portata e la ventunesima. Però ha l’artrosi alle gambe e quando sta ferma, per ripartire le ci vuole un po’, ai primi passi barcolla. Allora l’ha vista la sposa – un’antropologa culturale americana innamorata quasi più di lei che del nipote – s’è preoccupata e ha detto allo sposo, il nipote prediletto di zia Bìssola: «Ma guarda tua nonna, povera vecchia! Guarda un po’ se ha bisogno di qualcosa?». «Nonna», ha fatto allora forte e premuroso il nipote: «Dov’è che vai?». «A cagaareee!» ha ristrillato giustamente zia Bìssola in mezzo al ristorante, ma – essendosi subito accorta d’averla fatta grossa e volendo in qualche
modo riparare – ha immediatamente aggiunto, strillando ancora più forte: «E va’ a cagare anca tì e quéa vàca mericana de tó spòsa!». Dall’altra parte della casa invece – sul lato corto opposto a quello della stalla – c’era il forno per il pane. C’è uno che si chiama Gadda che dice che non c’è una macchina termica più assurda e irrazionale e dispersiva – inventata dall’uomo – del cosiddetto camino o focolare. Lui dice che non c’è rapporto tra le calorie che si consumano e quelle che effettivamente usi, sia per riscaldare l’ambiente in cui stai, sia per far cuocere o bollire l’acqua che ti serve. La quasi totalità delle calorie prodotte prende subito la strada del camino, canna fumaria e tutta fuori. Quella che usi è sì e no la minima parte. L’Opera invece – con il forno -fece una macchina termica di massima efficienza; un massimo ovviamente relativo a quella che rimane pur sempre, come dice Gadda, la macchina termica più assurda e scalcagnata del cosmo. Era il forno per il pane, che si cuoceva una volta a settimana e anche ogni due. Mia nonna cominciava la sera prima – e tutte le altre femmine appresso a lei, a impastare e rimestare – finché a notte la cucina era piena di forme di pasta cruda messa a lievitare. E gli uomini ad accatastare la legna. E il giorno dopo vai con il fuoco al forno, a cuocere pane per tutta la mattinata. Cuocevano anche un po’ di pizza, biscotti e dolci per noi ragazzini, subito dopo sfornata l’ultima pagnotta di pane. Tutte nella madia finivano, e i primi giorni erano an cora fresche e croccanti. All’ultimo era pane duro, ma te lo mangiavi uguale e non se ne faceva altro finché la madia non era vuota. Mica lo sapeva solo Gadda che quella macchina termica non era molto conveniente; lo sapeva anche mia nonna e quindi vi faceva ricorso proprio il meno possibile. Una fatica e un dispendio da morire. Ci fosse stato il modo di conservare il pane gli anni, mia nonna ce lo avrebbe fatto mangiare dopo anni. Comunque anche il rorno era intonacato a celeste ed era coperto col regolamentare tetto a due falde e tegole alla marsigliese. Sul davanti aveva
una tettoia retta da due pilastri per potervi lavorare e cuocere sia sotto il sole che sotto la pioggia. Sopra il forno – per sfruttare il calore – c’erano i colombai per i piccioni. Sotto, il ripostiglio per la legna e le fascine fresche, che così si asciugavano prima e bruciavano meglio. Sul retro, attaccati al forno – per sfruttarlo al massimo – c’erano in alto il pollaio e in basso il porcile per il maiale. Così stavano al caldo e all’asciutto tutti quanti. Come dice? che non le sembra tanto igienico tenere il maiale e le galline dove si fa il pane? Che c’entra, innanzitutto stavano dietro e non proprio a contatto. Secondo poi, il calore è calore e alla guerra come alla guerra: si trattava di utilizzare al meglio quella specie di smacchina termica. Terzo poi, è stato così solo all’inizio. Quando il pollame è cominciato ad aumentare e abbiamo riavuto di nuovo galline a volontà – e tacchini, oche, papere, anatre, pavoni e faraone che non sarebbe bastato neanche più il recinto delle bestie maremmane dell’Opera a Doganella – lo abbiamo spostato e abbiamo costruito da soli i nuovi ricoveri. Così per il maiale, quando – per fortuna -ha cominciato pure lui e non essere più un maiale solo. Avevamo una scrofa che ne faceva carrettate, e ogni anno, a novembre, da noi era una strage del ‘15-18, con tutti i miei zii ad ammazzare maiali col pugnale tra i denti e poi insaccare cotechini, salami, pancette, e appenderli a ogni gancio sul soffitto per farli colare ed asciugare. C’erano tutte le stanze piene – da qualche parte dovevamo pure metterli, e noi eravamo una marea e ci volevano maree di salami e cotechini per darci da mangiare – e per tutto novembre-dicembre e anche gennaio-febbraio, c’erano tutti questi soffitti con la roba che pendeva e tu dormivi e la notte, ogni tanto, ti cadeva una goccia di grasso sulla faccia. E tutte le mosche che volavano intorno, schivando quando possibile le strisce di carta moschicida che ogni due o tre salami ci mettevamo a protezione come spaventapasseri. Non creda però che noi mangiassimo salumi e porchette d’Ariccia a
crepapelle. Noi eravamo una marea le ripeto, e per quante stragi facessimo di polli, salami e maiali, noi eravamo sempre di più, restavamo sempre in disavanzo e mia nonna misurava ogni cosa con il centimetro da sarta e quando cuoceva un salame o un cotechino – una o due volte a settimana – uno solo doveva bastare per tutti. Te ne toccava sì e no una fettina a testa, giusto da sventolarla sopra la polenta per farle prendere un po’ d’odore. Ma pure con il matematico misurino di mia nonna – a calcolare la soglia minima di proteine per tenerci in vita – arrivati ad aprile-maggio non c’era già più niente attaccato ai soffitti. Solo le carte moschicide, schivate e schernite dalle mosche e i ganci appunto, poveri ganci di ferro oramai vuoti e desolati in quell’immenso mare bianco del soffitto, senza più un salame o un cotechino a cui appendere – dal letto – la nostra sempiterna fame. Così comunque era fatto il nostro podere, e tali e quali al nostro l’Opera combattenti ne fece tremilacinquanta nell’Agro Pontino e li popolò con trentamilacinquecento diseredati uguali a noi dall’Altitalia, presi e trapiantati qui come un’armata biblica, a diventare finalmente, noi stessi, proprietari della terra che coltivavamo. Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portati qui, e caricati famiglia per famiglia sui camion e sui carri con tutte le nostre masserizie. E ci hanno riscaricati uno per uno dentro questi poderi nuovi di zecca coi muri ancora freschi di calce e – mi deve credere – ci hanno fatto trovare i campi non solo già divisi per ogni capezzagna e con le pendenze giuste, più alti al centro e più bassi ai fianchi e le scoline di lato già scavate e livellate al punto giusto, ma ci hanno fatto trovare anche i campi già belli che arati, scassati per oltre un metro dalle Fowler, le Favole, che si mettevano una al di qua e una al di là per tutta la lunghezza dei campi, e con dei cavi attaccati all’argano si tiravano ora l’una ora l’altra un aratro gigantesco che spaccava in profondità il terreno per oltre un metro.
E tutti quei trentamila raccontano che la prima cosa che hanno fatto – dopo avere scaricato le masserizie, guardato in ogni angolo il loro podere, perlustrata la terra e sistemati i letti e le brande – è stato correre in giro podere per podere a vedere come s’erano sistemati tutti gli altri Pilgrim Fathers con cui avevano spartito l’esodo sulla tradotta e con cui avrebbero spartito, da qui e per sempre, le vite ed il sudore. Questi poderi erano posti a coppia sulla strada – uno di qua e uno di là – e ogni duecentocinquanta metri, mediamente, ce n’era una coppia. Nel raggio di soli cinquecento metri, quindi, eravamo almeno sei famiglie e non famiglie d’adesso – le ripeto – ma quelle dell’Opera, tra le quindici e le venti persone l’una. Un formicaio rispetto a prima – anche se mentre da Littoria Scalo oramai, in fila sui carri ed i camion ci andavano scaricando uno ad uno sulla Parallela Sinistra: «Qui ghe xè il deserto» continuava a grida re la vècia Toson – senza un albero in giro per chilometri e chilometri. Solo il serbatoio dell’acqua e le quattro case di Sessano da una parte, il palazzone di Borgo Carso dall’altra e sullo sfondo il cantiere della torre di Littoria. E poi tutte queste piantine d’eucalyptus alte neanche un metro – appena messe a dimora di là dal fosso, sui due fianchi della strada – che noi a dire il vero non sapevamo neanche cosa fossero. «Còssa xèi?» chiedevamo tutti quanti. «I sarà alberi» aveva giustamente proclamato sul carro mentre venivamo mio zio Adelchi, che aveva preso la licenza elementare durante il servizio di leva ed era il più studiato. «Eucalypti» gli aveva allora detto il sorvegliante dell’Opera che sedeva davanti a lui a cassetta, voltandosi con la testa. «Come?» aveva fatto zio Adelchi. «Eucalipto, eucalypti, eucalyptus!» «Ah!» convenne allora mio zio, e voltandosi lui adesso sul carro verso tutti gli altri, specificò a voce alta, una volta e per sempre: «Calìps! I se ciàma calìps».
«Ah» fecero allora tutti i Peruzzi: «Calìps!». Ma oltre ai campi arati ed erpicati e ai poderi nuovi di calce e di cucchiara, ci fecero trovare dentro i poderi, dentro il camino sulla parete in fondo della cucina – dentro il focolare – la legna già tagliata e pronta per essere solo accesa. C’erano pure belli pronti sopra la cornice della cappa i prosperi, dentro una scatola nuova di fiammiferi. Bastò aprire la scatola, sfregare il fiammifero e mettere il paiolo di rame sopra il fuoco. Tutte le nostre nonne appena arrivate qui – anche la mia – prima che gli uomini avessero ancora iniziato a scaricare le masserizie, poterono come primo atto, grazie al fascio e all’Opera combattenti bisogna dire, accendere il fuoco e dare vita alla casa. Era fuoco sacro, il fuoco di Vesta, come diceva la canzone: Fuoco di Vesta che fuor dal tempio erompi, con ali e fiamme la giovinezza va. Fiaccole ardenti sull’are e sulle tombe, noi siamo le speranze della nuova età. Duce, Duce, chi non saprà morir? Il giuramento chi mai rinnegherà? Snuda la spada quando tu lo vuoi: gagliardetti al vento, tutti verremo a te. Armi e bandiere degli antichi eroi, per l’Italia, o Duce, fa balenare al sol.
E ci sentivamo davvero tutto il sangue degli antichi eroi bollirci nelle vene, mentre iniziavamo la conquista della Terra Promessa: «Qui noi costruiremo il Giardino Terrestre pieno di frutti e di fiori. Il nostro nome sarà conosciuto nel mondo. Domeremo le acque e ogni forza della natura. Nei nostri canali
scorrerà latte e miele e quella torre che all’orizzonte sta già sorgendo, sarà la nostra torre d’avorio. Turris Eburnea. E dalla sua cima toccheremo il cielo». Mia nonna su quel fuoco – nel paiolo – cucinò la prima grande polenta, a pranzo, per tutta la famiglia. E qui iniziò la nuova vita dei Peruzzi, nella grande cucina del podere 517 sul Canale Mussolini, con tutti che mangiavano in piedi, con le sedie ancora non sistemate, solo il tavolo grande al centro e la polenta sopra. E ognuno pigliava un tocco e mangiava e rideva, e solo ogni tanto qualcuno diceva: «Pace all’anima di Benito Mambrin». Quando è stata la sera però – verso le sei o le sette, dopo cenato alla luce fioca di un lume a petrolio, mentre già i bambini e le donne cominciavano a sbadigliare – s’è visto scendere dalle scale zio Adelchi tutto impomatato, coi capelli pieni di brillantina: «A vàgo a védere Litoria». «Orco can» sono saltati zio Pericle e zio Iseo: «Vegnémo anca nantri», mentre le mogli li guardavano storto. «Ah, mì vàgo intanto. Raggiungetemi.» Mia nonna ha fatto un gesto verso l’Armida come per dire «Lascialo andare» e zio Pericle e zio Iseo sono volati di sopra. Allora subito sono saltati anche mio zio Turati e gli altri maschi: «Vegnémo anca nantri». «No, fermi tutti», ha urlato mia nonna e pareva una furia: «Qui stiamo a fare un trasloco, sém drìo fare san Martìn, maladéti fiòi. Voi andrete domani o doman l’altro. Guai a chi si muove» e tutti si sono riaccucciati. Pure zio Pericle e zio Iseo hanno fatto per fermarsi e tornare indietro mogi, ma lei li ha guardati di fuoco ed ha intimato: «Andè via, valtri» e sono rivolati, riscesi giù e già con le biciclette sotto i piedi. «Mì a vàgo a fumarme un sigaro sul ponte dèa strada» ha detto mio nonno. Era una strada nuova nuova appena fatta, un manto liscio di polvere bianca su cui la bicicletta pareva scorrere da sola – silenziosa, col solo rumore «Ffrrrr» dell’aria a frangersi sui raggi – senza alcun bisogno di pedalare. Lei non so se sa come sono fatte le strade, o almeno com’erano fatte una volta.
Oggi si scava con le ruspe lo sterro della fondazione. Poi strati di pozzolana mista a polvere di calce, rulli compressori ed altri strati. Un po’ di pietrame misto di cava e poi il manto bituminoso – liscio liscio ma quasi senza pendenze – steso con queste grandi macchine automatiche, che quando poi lei ci passa sopra con la macchina e piove, l’acqua non sa dove andare, ristagna come le Paludi Pontine e lei alla prima frenata scivola, sbanda, va fuori strada e muore. O quanto meno tampona quello davanti. Una volta le strade erano fatte a mano. Si scavava la fondazione fino a trovare il duro, tale e quale come le case. Certo dove il terreno di partenza era basso e la livelletta della strada doveva correre più in alto, bè, lì allora si portava terra chiamata proprio «di riporto» per portarla al livello giusto, e da lì si ripartiva. Come dice, scusi? Che cos’è una livelletta? No, non è una livella piccola, di quelle che usano i muratori. È un’altra cosa. C’è sempre quel Gadda di prima che imbastisce una storia di oltre quaranta pagine sulla livelletta d’una ferrovia minore dei Castelli Romani – «E la livelletta di qua, e la livelletta di là» – senza però mai dire o spiegare bene cosa sia. E mica che tutti quelli che comprano i libri siano obbligati a sapere cos’è una livelletta o ad avere studiato ingegneria stradale. La livelletta altro non è che ogni singolo tratto di strada a pendenza costante. È chiaro che il terreno su cui corre ogni strada – e la ferrovia è una strada pure lei, solo che in cima è ferrata: «ferrovia» – non è mai uniforme, ha avvallamenti, dossi e bassure pure quando sta in piano. Il progettista prima allora traccia sulla mappa il percorso che la strada dovrà fare. Poi, sulla base del percorso, si va a fare il rilievo del terreno, ossia il disegno altimetrico – la sezione – con l’andamento punto per punto delle altezze e delle bassure con tutti i punti di quota, ossia di altezza sul livello del mare. Quando ha questo disegno in mano, traccia una bella linea dritta da un certo punto a un altro e questa è la livelletta di progetto. Tutta la terra che rimane al di sopra – più alta
– dovrà essere scavata e rimossa, e tutti i punti invece che restano più bassi dovranno essere colmati con terra o rocce di riporto. Tutto qua: tracci queste linee a pendenza costante – le singole livellette – le unisci una ad una secondo i cambi di pendenza, le curve e i rettilinei e alla fine hai la strada. C’è un amico mio che avendo letto il Pasticciaccio da giovane, dice d’averlo capito solo quando – per lavoro – si dovette prendere il diploma di geometra. Fosse rimasto solo con il classico, non lo avrebbe mai capito. Questa storia delle livellette però in Agro Pontino lei la vede bene nella fascia costiera, sulla Litoranea che da Borgo Sabotino va a Sabaudia e che corre tutta in alto – anche a cinque o sei metri sul terreno di campagna – perché lì erano tutte bassure, fossi, pantani e stagni, e per farci passare la strada dovettero portare vagoni e vagoni di terra e pietrame e costruirla sensibilmente più in alto. Fu così anche per tutte le altre strade però – tutte più in alto stanno, perché un eventuale allagamento del terreno non possa riversarsi su di loro – ma sulla Litoranea si nota di più. Le strade poi si chiamano così perché già i Romani le facevano a strata, ossia a strati di pietre prima più grandi, poi man mano più piccole a coprire gli interstizi e alla fine -al sommo della pavimentazione – lastroni di pietra o uno strato di conglomerato cementizio. Quelle dell’Agro Pontino sono tutte fatte a macadam, dal nome dell’ingegnere scozzese McAdam che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento inventò il sistema. Prima si scava a cercare il duro, se no la strada – coi pesi degli stessi suoi materiali e dei carichi che ci passeranno sopra – affonda e si dissesta. Poi le fondazioni – possibilmente ci butti sotto anche delle monete, se no poi la gente ci muore a grappoli – mettendo per bene i massi di pietra più grossi. Poi un altro strato di media grandezza, un altro di pietre sempre più piccole – calcandole a buon bisogno con grossi pestelli a mano – ciottoli via via più fini, ghiaia e sabbia di cava a
volontà. Strati di sabbione bianco calcareo sparsi con la pala e le carriole, rullati e costipati coi rulli e coi pestelli e annaffiati abbondantemente d’acqua – acqua a volontà pure lei, acqua quanta ne vuole, si chiama proprio «macadam all’acqua» – perché l’acqua fa man mano scendere e penetrare la sabbia, fino a colmare tutti i vuoti e gli interstizi eventualmente rimasti tra ogni pietra e tra ogni strato, rendendolo così un tutto compatto. Questa era la strada bianca come si faceva una volta, e come si sono fatte in Agro Pontino. Se invece la vuoi asfaltare per far correre meglio le macchine e non alzare troppa polvere, sopra il manto di ghiaia e di sabbia ci stendi l’asfalto. Quando ero piccolo io, si faceva anche questo a mano. C’era una caldaia montata su ruote e collegata a un compressore a scoppio, che squagliava i blocchi di asfalto e l’asfaltista – con un tubo lungo in mano e tutto coperto di teli, parannanzi e stivali – tutto sporco di nero d’asfalto bollente spruzzava direttamente dalla cipolla che stava in fondo al tubo il getto sullo strato di sabbia e di ciottoli, compattato per bene dai rulli e dai pestelli. Come lui spruzzava con un getto ondulatorio – di qua e di là – la strada avanti a sé, gli altri operai dietro, pigliandolo dalle carriole, spandevano con un lancio della pala il brecciolino sullo strato nero. Come lo strato si rifaceva bianco per il nuovo brecciolino gettato, l’asfaltista lo riannaffiava di nuovo. Di nuovo nero. E di nuovo bianco per un nuovo lancio della pala e di nuovo ancora nero per un ultimo spruzzo d’asfalto. C’era un calore intorno che lei non ha idea – sudavano tutti come stufe – e un odore forte d’asfalto che lei direbbe brutto, ma che pure era buono per chi ci era abituato. Era un continuo andirivieni di manovali con le carriole – carica il brecciolino, portalo all’asfaltatrice, aspetta che l’altro manovale con la pala la svuoti gettandolo tutto sotto l’asfalto, corri a ricaricare la carriola vuota – e un mare di gente con le pale e poi quello che arriva con le forme fredde d’asfalto solido, quello con la benzina per il compressore, quegli altri alle stanghe dell’asfaltatrice per smuoverla e spostarla avanti. E il compressore intanto
che passa avanti e indietro per premere e costipare il brecciolino nell’asfalto, dimodoché freddandosi l’asfalto ogni chicco di brecciolino resti incollato e attaccato agli altri – un corpo unico – e ogni tanto l’asfaltista che si fermava, povero cristo più povero di tutti gli altri, e cavava dalla tasca dei pantaloni, facendosi strada con la mano tra i grembiuli di protezione, un fazzolettone nero oramai d’asfalto pure lui, e con quello s’asciugava il sudore dal viso e poi ripartiva. Erano quasi tutti orbi gli asfaltisti. Dai e dai, uno schizzo d’asfalto bollente riusciva prima o poi a cecargli un occhio. C’era Vullo – lui non era guercio – che faceva l’asfaltista tutto l’anno eccetto sotto Natale. Io me lo ricordo ancora che andava da mio zio Benassi per la novena di Natale -ma anche da mio zio Adelchi a Latina quando ero bambino io – con la bicicletta e la zampogna mezza sgonfia sulla canna, e tutti si mettevano davanti al presepe, i ragazzini ma anche i grandi, tutti in piedi e solo Vullo seduto su una sedia, a pompare dentro la sua zampogna: «Fùùùùoh, fùùùùoh, fùùùùoh» finché alla fine si riempiva e ne usciva il suono delle sue nenie abruzzesi. Conosceva tutti i bambini per nome, uno per uno, anno dopo anno, e tutti li salutava, con tutti parlava davanti al presepe o mentre entrava in casa con la zampogna sgonfia. Puzzava però quella zampogna, puzzava di fraschino a starle troppo vicino. E li carezzava sulla testa. Riveniva a suonare le nenie il giorno dell’Epifania, quando arrivano i Re Magi, e allora mia zia Santapace ma anche zio Adelchi lo pagavano, e il giorno dopo tornava ad asfaltare il brecciolino. Ma se lo incontravi per le strade – me lo ricordo come fosse adesso, sulla circonvallazione di fianco all’ex Gil – e lo riconoscevi in mezzo all’andirivieni di pale e di carriole, attaccato al manico dell’asfaltatrice fumante tutto sporco, grondante asfalto e sudore, e cominciavi a strillare: «Vullo! Vullo!», lui neanche ti rispondeva. Neanche ti riconosceva forse, come neanche avrebbero riconosciuto più lui – lì in mezzo – le amate sue pecore d’Abruzzo.
Quando ero piccolo io però, le strade bianche dell’Agro Pontino già non erano più quelle. C’era stata la guerra, le bombe, e nessuna manutenzione. La strada ha bisogno come il pane di manutenzione, è un organismo che vive, ci passa la gente sopra, i carri, i camion, le macchine. Si usura. Sfrega oggi e sfrega domani, si usura. E poi sta all’aperto, povera bestia anche lei, esposta a tutti gli agenti atmosferici: il freddo, l’acqua, il gelo, il sole, il caldo. Ogni componente, ogni molecola si espande e si restringe per le dilatazioni. Col gelo, le molecole d’acqua penetrate negli interstizi ghiacciano, si espandono a cristallo e tagliano le fibre dei materiali che le circondano. Quando però il ghiaccio si risquaglia e torna acqua e se ne va, ciò che lo circondava non ha più la consistenza di prima, è sfibrato oramai e non riesce più a riempire quegli spazi, che restano vuoti e man mano rompono il vincolo di coerenza di tutto l’insieme che si sfalda, si sfarina e arrivederci e grazie. Lei deve fare la manutenzione a ciò che costruisce – sia casa che strada che affetti -e ripristinare man mano ciò che l’usura e l’erosione dell’acqua e del vento hanno consumato, altrimenti le viene giù tutto. E già quando ero piccolo io, sulla strada nostra Parallela Sinistra di fianco al Canale Mussolini, in bicicletta bisognava andare solo “in parte” – non sul centro – perché al centro della strada spiccavano oramai solo i sassi grossi del macadam. Anche i carri facevano fatica – sobbalzavano – e con le biciclette non era proprio possibile. Quel poco di brecciolino e di sabbione che pure era rimasto però, s’era accumulato ai lati, e pestato dal ripasso continuo aveva formato una cunetta con il fondo liscio ed omogeneo, su cui la ruota della bicicletta poteva ancora scorrere. Adesso le hanno asfaltate tutte. Centinaia e centinaia di chilometri di strade bianche ma col macadam liscio e compatto a regola d’arte – un manto di velluto – e tutte a schiena d’asino, alte al centro e degradanti ai lati, perché ogni goccia d’acqua trovasse subito la sua via al fosso. Adesso le fanno tutte in piano e ad ogni acquazzone Latina nuova s’allaga – se invece stai sulla
Pontina quando piove, allora sì che è peggio del Canale Mussolini – e allaga anche la vecchia perché non puliscono le caditoie delle fogne. Nessuno passa più a controllare – dopo gli appalti – che le ditte abbiano fatto il loro dovere, con le giuste pendenze o i giusti strati. Forse è questione di mazzette. L’Opera invece gli dava le mazzate in fronte, alle ditte. Stavano sempre lì a misurargli i peli e non si contano i lavori che Cencelli gli ha contestato senza più pagare: «Fammi causa. Anzi, ti faccio causa io a te» e li obbligava a rifare due volte i lavori. Li ha mandati per stracci. Certe ditte le ha fatte proprio fallire: «Si nun sì bbono a lavorà» – era reatino – «meglio che mori». Comunque quella volta i miei due zii si sono messi per strada in bicicletta con il buio – erano le sette o sette e mezza di sera, ma di novembre, e non c’erano le strade illuminate pure in mezzo alla campagna come adesso – e dopo due o tre chilometri hanno raggiunto zio Adelchi che li stava aspettando davanti all’osteria di Sessano. Via quindi per Borgo Piave e poi Littoria. Dieci chilometri in tutto. A Sessano non si erano fermati perché – chi con una scusa chi con un’altra – c’erano già stati a vederselo nel pomeriggio. Il primo era stato proprio il nonno: «Son sensa sigari» aveva cominciato a fare alla nonna appena scesi dal carro, tastandosi con tutte e due le mani le tasche di giacca e pantaloni, tante volte quasi quasi ne potesse uscire fuori uno. Lei lo guardava con l’occhio furbo suo, di chi ha capito ma non vuol toglierti dall’impaccio: «Ah no, can! Abbi tu il coraggio di dirlo chiaramente». Allora lui – «Bruta desgrasià, mica m’aiuta» – aveva dovuto esplicitare: «Che dici, arrivo fin là a prendermi un sigaro?». «Va’, va’» aveva fatto lei: «Non te podéi tòrtelo in stasiòn?». E il nonno s’era andato a vedere per benino tutto Sessano, adesso Borgo Podgora, pure dentro la chiesa; ma soprattutto dentro le osterie e s’era già scelto la sua,
provato il vino – vino dei Castelli: «Bòn!» – e già fatti gli amici: «Als vedarém per qualche partita a brìscoa». E così i miei zii sono arrivati a Littoria di notte. O meglio, non era ancora Littoria, era solo Littoria in costruzione, però era sempre Littoria. Le luci si vedevano già da Borgo Piave e lì – a Borgo Piave che ancora si chiamava Passo Barabino e c’erano un sacco di baracche anche lì, e pure baracche che vendevano vino e le impalcature del cantiere al centro della rotonda, dove stavano costruendo la torre serbatoio dell’acquedotto – i miei zii vedendo sullo sfondo le luci di Littoria hanno calcato sui pedali: «Forza tosi, vedém chi riva primo», per uno sprint di quattro chilometri. A Littoria cantieri dappertutto. Lampade. Cellule fotoelettriche. Viavai come se fosse giorno. Migliaia di persone – tutti maschi – a lavorare per le strade e per i fossi. Non è da dire però che i miei zii siano rimasti impressionati più di tanto, quella notte. Sì, il casino, la frenesia, il movimento, i traffici di tutte queste moltitudini – e il rumore, il vociare, il battere dei martelli sul legname in piena notte, il vorticare «Brèuuu brèuuu brèuuu» delle prime molazze e betoniere che si vedessero in giro, i fasci di luce dai cantieri, e le urla e gli strepiti di chi si chiamava e gli echi lontani dei canti e dei cori dei gruppi d’avvinazzati – questo non poteva non stupirli. Meglio e più intenso ancora – pensava zio Pericle – del casino folle e quasi entusiasta delle retrovie, poco prima che venisse scatenata l’ultima offensiva di Vittorio Veneto: «Am pàr la guèra» disse difatti ridendo ai fratelli. «Questo è il posto par mì» disse invece zio Adelchi. «Ma va là» gli rifecero gli altri due, perché – le ripeto -non è che la città facesse già impressione: «Con tutto questo fango?». «Con tutto il fango!» concesse zio Adelchi: «A mì, s’agò da dìr la verità, non è che mi piace tanto lavorare la terra».
«Ma va? Non ce ne eravamo mai accorti» hanno risposto gli altri due, perché lui riusciva sempre a scegliersi in ogni lavoro le mansioni di coordinamento generale o logistiche diciamo così, e lasciava volentieri quelle più esecutive e manuali agli altri. Zio Pericle e zio Iseo, invece, bastava che gli si dicesse di sporcarsi le mani ed erano subito contenti come pasque. Zio Adelchi è stato l’unico in tutta la razza dei Peruzzi – almeno dopo tornato da militare -che non avesse mai le unghie orlate di nero. Prima sì. Ma una volta tornato non ce lo hanno più fregato, e se proprio era costretto anche lui – specie durante il raccolto o le arature – a imbracciare un forcone o aggiogare una vacca, stava bene attento a non sporcarsele troppo e la sera se le lavava con lo spazzolino. Comunque Littoria – al di là della frenesia e del formicaio di quell’ora di notte – non è che fosse bella, ancora. Fango dappertutto e argilla bianca – stava all’inizio della duna quaternaria – che non era come la terra nostra del Canale Mussolini, terra nera scura, anche rossastra, per i sedimenti portati nel corso dei millenni dal Teppia e dal Fiume Antico, il Fosso di Cisterna. Sulla terra nostra del podere 517 poteva piovere e cadere tutta l’acqua che voleva; più il cielo ne mandava e più la terra nostra l’avrebbe assorbita e noi – mezz’ora dopo che era piovuto a dirotto per giorni – noi eravamo in grado di entrarci con le bestie e di ararla per lungo e per largo. Qui invece, dalle parti di Littoria -a soli dieci chilometri, tutta argillosa – bastava che facesse una goccia d’acqua e non potevi più entrarci né con le bestie né con i trattori per una settimana. L’acqua restava tutta in cima, non filtrava, e permeava gli strati superficiali, i microcristalli dell’argilla caolina – creta proprio – che ti si attaccava saponosa su tutta la pelle e non riuscivi più a levarla; e più acqua mandava e più s’accumulava questo strato di limo, fino appunto a farne pantani e sabbie mobili. E adesso il fascio – ovverosia l’Opera – ci stava facendo una città.
A noi avevano detto che sarebbe stata pronta – finita e inaugurata – a metà dicembre. I miei zii però hanno guardato i cantieri: sì, in quasi tutti i fabbricati avevano alzato i muri già del secondo piano e in qualcuno li avevano pure coperti, ma nella maggior parte dovevano ancora stendere i solai, fare il tetto e le finiture, gli intonaci, finestre, eccetera. C’erano solo i muri scarni e le impalcature dei ponteggi a fianco. Sulla piazza non le dico. Quella che è adesso piazza del Popolo era un casino infernale, una bolgia dantesca attraversata dai binari in mezzo al fango del trenino-decauville, con qualche vagone buttato di lato e proprio dietro al comune – dove stavano cioè costruendo il comune – c’erano i capannoni del rimessaggio locomotive e anche qui vagoni e vagoncini rovesciati ogni tanto per terra con qualche asse storto, in attesa che il giorno dopo qualcuno li riparasse. E i miei zii hanno detto: «Ma come i farà a finir per desèmbre? Ma gnànche a dicembre del prossimo anno, neanche se viene giù il Duce, a metterseli lui uno per uno i matón». Quando poi sono stati davanti alle fotoelettriche che da sotto illuminavano le impalcature della torre del comune – mio zio Pericle se le ricordava in guerra le fotoelettriche, quando di notte dalle trincee cercavano nella terra di nessuno gli arditi austriaci in mezzo ai reticolati – hanno visto un po’ d’operai armeggiare là sopra proprio come arditi, e zio Iseo ha detto: «Ma a mì am pàre un fià bassa sta tore, rispèto a la só base». «E mica è finita» gli ha spiegato al volo uno che passava: «Mica sono arrivati in punta, stanno ancora a metà». «I se garà sbalià quéi de l’Opera» ha detto allora mio zio Pericle: «I garà dìto desèmbre de l’anno pròsimo». Poi però – e questo sì che gli è piaciuto – sono tornati indietro, hanno rigirato tra l’ospedaletto vecchio e la caserma della milizia in costruzione e si sono ritrovati pressappoco dove adesso c’è piazza Roma, dietro al comune in costruzione e dietro al vecchio capannone del Consorzio che funzionava da
centrale di rimessaggio e smistamento treni della decauville. Dalla parte di qua e di là della strada c’era una fila sterminata, un susseguirsi continuo di baracche e baracchette che vendevano vino. C’erano decine di migliaia d’operai lì, e tutti maschi, che dopo dieci o anche dodici ore di lavoro notte e giorno dovevano pure, da qualche parte, andare a spendere un po’ dei soldi guadagnati. In qualche baracchetta c’erano pure donne a pagamento; ma per queste bisognava fare la fila. E poi panche e tavoli di fortuna dappertutto, fatti con qualche palanca rubata nei cantieri, col lume a petrolio sopra e i gruppi di ubriachi – quelli che avevano sentito prima, appena entrati in Littoria – che cantavano Angioina, bela Angioina o anche Ta-pum: Nella valle c’è un cimitero, cimitero di noi soldà. Ta-pum, ta-pum, ta-pum. Ta-pum, ta-pum, tà-pum. Cimitero di noi soldà, forse un giorno ti vengo a trovar. Tà-pum, tà-pum, tà-pum. Tà-pum, tà-pum, tà-pum. E domani si va all’assalto, soldatino non farti ammazzar. Tà-pum, tà-pum, tà-pum. Tàpum, tà-pum, tà-pum.
I miei zii si sono fermati anche loro ad una fraschetta. Hanno poggiato le biciclette da una parte, hanno chiesto un litro di vino e si sono seduti sulla panca, mentre quelli che c’erano prima si scostavano leggermente per fargli posto. A zio Pericle – ma anche a zio Iseo – era venuta quasi voglia di unirsi al coro dei Tà-pum. «N’avì cantà bastansa, sóra e zó pel treno?» li ha presi in giro mio zio Adelchi. C’era gente di tutte le città e regioni d’Italia. I poveri di tutto il mondo – si può dire – s’erano dati appuntamento qua. Calabresi, siciliani, toscani, piemontesi, sardi, marchigiani, genovesi, chi non aveva da lavorare al paese suo -ed erano tanti – era venuto a Littoria. Poi se ne sarebbero riandati fra qualche mese – quando qui sarebbe stato tutto completato – e tornati al paese loro, ogni tanto li avrebbe presi un attacco di malaria; eccetto naturalmente quelli che, come le ho già detto, al paese non sarebbero più
tornati, avendo lasciato l’anima per sempre qua, sotto un’impalcatura o all’ospedale di Velletri. Tutti uomini giovani e forti tra i venti e i trent’anni. Ma soprattutto era pieno di questa gente qui dei monti Lepini e del Lazio: Sezze, Cori, Norma, Sermoneta, Bassiano, Priverno, Sonnino e poi della provincia di Roma e della Ciociaria, Alatri, Ceccano, Ferentino, Rieti, Viterbo. Tutti venuti qui a lavorare, e quelli dei monti Lepini – quando dopo un po’ di chiacchiere i miei zii hanno detto finalmente chi erano – tutti subito con il dente avvelenato. Come saputo difatti che non eravamo operai come loro sui cantieri o sui canali, ma coloni venuti a risiedere stabilmente nei poderi già costruiti e bonificati da loro, manca poco e si ripigliano il posto sulla panca che ci avevano lasciato prima: «Cispadani di qua! cispadani di là!» hanno cominciato. Lì per lì i miei zii non hanno capito: «Ma che vorranno dire con questo cispadàn?». E mio zio Iseo ha proprio chiesto piano all’orecchio a mio zio Adelchi, che aveva studiato: «Casso signìfichelo cispadàn?». «Casso vòtu che ne sàpia mì?» Per non restare indietro però – perché a mio zio Adelchi, ma diciamoci la verità, un po’ a tutti i Peruzzi, di restare indietro non gli è mai piaciuto con nessuno – e capito comunque che questo “cispadani” non doveva essere, nei loro intendimenti, esattamente un complimento, gli ha detto lui subito: «Ma bruti marochìn, casso vulìo da nantri?». «I poderi, voi ci avete rubato i poderi!» Ora però bisogna dire che qualche minuto prima – prima che si scaldassero gli animi con questa storia dei cispadani e che quelli ci riconoscessero, o credessero di riconoscerci nei presunti ladri dei loro ancor più presunti poderi – c’era già stata un’altra piccola discussione su questa Littoria e sui suoi tempi di costruzione. E uno di questi dei monti Lepini – uno di Sezze – aveva detto con scherno, lasciando capire di non essere esattamente un fascista
della prima ora: «Sta bene Mussolini a volerla venire a inaugurare a dicembre. E che inaugura, le ranocchie?». Zio Pericle s’era risentito allora, e aveva detto: «Non star parlare acsì. Se il Duce ha detto che a dicembre l’è finida, a dicembre la sarà finida. Firmato Pericle Peruzzi, orcocàn» e aveva pure sbattuto la mano sul tavolo. «Ah, va bene! non ti arrabbiare» avevano fatto subito queglialtri cambiando discorso – anche perché in quel momento stava proprio passando davanti alla panca la ronda di due carabinieri – mentre mio zio Pericle però già si diceva da solo: «Ma che casso m’è vegnù da dire?». Pure i fratelli-Adelchi ed Iseo – lo avevano guardato con la faccia stralunata come a dire: «Pericle!». Non gli avevano detto niente ovviamente, perché quello era Pericle ed era meglio non dirgli niente, però lo avevano guardato strano e lui aveva capito: «È meglio che sto zitto va’, che la figura l’ho già fatta». Quando però quelli hanno detto «Cispadani!» e mio zio Adelchi «Marocchini!» e quelli di nuovo «Ladri di poderi!», mio zio Pericle non ci ha visto più, ci ha messo insieme l’incazzatura per l’inaugurazione decembrina – «A fémo tuto un conto, va’» – s’è alzato in piedi e al di là del tavolo, al sezzese che aveva proprio di fronte, ha detto: «Ritira la parola, marochìn!». «Ma che ritiro? Il cazzo che ti si frega ritiro, cispadano d’un polentone.» «Pam!» mio zio è partito con un cazzotto e s’è tuffato di là dal tavolo. Subito ci
si è lanciato anche zio Iseo. Un po’ di sezzesi si sono buttati su zio Adelchi. Un gruppo di coloni come noi – sbarcati pure loro da queste parti pochi giorni prima, e in visita anche loro al cantiere misterioso di Littoria – avendo sentito strillare cispadani di qua e marocchini di là e nutrendo il sensato sospetto che la questione potesse in qualche modo riguardarli, si sono buttati in mezzo pure loro. Sono arrivati i pecorai di Guarcino però – dalla parte degli altri – ed è stato un casino generale. «Fermi!» gridavano gli osti: «Fermi che arriva la Forza», ossia i carabinieri.
«Fermo un corno» gridavano i velletrani, e giù botte pure loro addosso ai nostri. Mio zio Adelchi – che nel corpo a corpo non era mai stato così bravo come mio zio Pericle, e sempre, tutte le volte che s’erano presi, le aveva prese lui – non s’è preoccupato dei cazzotti che gli arrivavano da ogni parte sul groppone e nemmeno ha pensato a restituirli se non con qualche zampata o pugnettino di circostanza. Lui l’unico pensiero che aveva in mente durante questa temperie era: «La bicicletta! Non vorrei che con questo casino qualcuno mi fregasse la bicicletta». E s’è diretto lentamente là, con la folla degli assalitori che lentamente – sgrugnandolo – lo seguiva. Appena però ci è arrivato e ha sentito la canna della sua bicicletta tra le mani, allora – e i miei zii lo hanno raccontato per anni – allora il Leone di Giuda si è scatenato. Pareva Sansone con la mascella d’asino – Achille sotto le mura di Troia, preso dalla sua ubris – e vorticava quella bicicletta intorno a sé come una spada celeste, facendo strage dei nemici e terrorizzandoli ulteriormente con lo strepito delle urla aguzze: «Ladro a mi? Ladro de podéri a mì? Andè via, marochìn mangiamerda marocàssi! che Dio ve stramaledìssa tuti quanti!». E quelli indietreggiavano. Lei doveva vedere come indietreggiavano. Certe biciclettate tirava quel giorno – ossia quella notte – mio zio Adelchi, che manco con Durlindana in mano. Tanto che zio Pericle – vedendolo da lontano mentre lui andava spartendo a destra e manca calci, cazzotti e coltellate secondo la bisogna – s’era detto: «Ma varda tì l’Adelchi». E s’era sentito un moto nel cuore proprio come quella volta che voleva sparare al fattore degli Zorzi Vila – «At cópo! Dove sì ch’at cópo?» – un moto di profondo amore anche per questo fratello qua: «L’è dei Peruzzi, l’è mè fradèo quel là!». E quando a un certo punto ha perso il coltello e doveva fare oramai solo coi pugni contro tutta quella ressa, ha copiato dal fratello, ha schiodato una
mezza palanca da un tavolo e ha cominciato a mulinare anche lui con quella, recuperando lo svantaggio. «La Forza, la Forza!» s’è messo però a strillare a un certo punto un oste e si sono visti quei due carabinieri e un po’ di camicie nere della milizia che arrivavano correndo. Il tumulto s’è sedato all’istante. I miei zii hanno fatto finta di niente, cercando solo di sgattaiolare con le loro biciclette. Mio zio Adelchi ansimava. Ogni tanto ruggiva un «Marochìn!», la bici ancora a mezz’aria. «Tasi, bestia» gli diceva ridendo zio Iseo: «Vòtu farne carcerare?» mentre se lo tirava via, facendogli finalmente posare le ruote della bicicletta sulla terra. Uno dei sezzesi – andandosene anche lui – senza farsi sentire dai carabinieri disse a zio Pericle: «Ci rivediamo». «Sempre pronti» rispose piano piano, ma netto, mio zio: «Firmato Peruzzi, podere 517, Canale Mussolini. A disposisión». Bel match e danni lievi, comunque. Giusto qualche graffio. Coltellate di striscio. «Canchero» disse però poi la moglie a zio Pericle nel letto quando – facendo l’amore – ad ogni suo minimo gesto o carezza, lui non faceva che fremere: «Non star tocàrme là, non star tocàrme qua, che me fa màl». «Canchero d’un tacabrìghe» allora, graffiandogli più forte la schiena. Dopo però, calmata e prima di dormire: «E a mì, domàn, am tocherà de novo da dovér ramendàr ‘l pastràn» il pastrano, che s’era preso lui il grosso delle coltellate. Ma anche quelle di zio Pericle dovevano essere andate tutte a segno così, senza danni gravi per i marocchini. Come dice, scusi? perché ci chiamassero cispadani e perché soprattutto il fascio avesse dato le terre prosciugate a noi – facendoci venire dall’Altitalia – e non a loro che erano già qui? A lei pare un’ingiustizia? Lei dice che il motivo forse è che quelli di queste parti non fossero abbastanza fascisti? No, questo no. Erano fascisti come in tutta Italia. C’era il fascio locale fin dall’inizio dappertutto e s’erano fatti la marcia su Roma anche loro come tutti
gli altri. Certo, pure loro prima avevano avuto i socialisti e le camere del lavoro. Ma come dappertutto, a un certo punto era cambiato il vento pure qui – oggi va di moda una cosa, domani un’altra – e tutti erano diventati fascisti. Né più né meno degli altri. Lei ha presente come ancora pochi anni fa – in tutto il Norditalia – erano tutti democristiani o comunisti e il giorno dopo tutti della Lega o berlusconiani? Se lei va a vedere uno per uno quelli che cucinano la bistecca, salsiccia e fagioli alle feste della Lega, la maggior parte li hanno già cucinati alle feste dell’Unità. Così va il mondo, che vuole da me? Innanzitutto però a noi dissero che era per ripagare il Triveneto dei danni e dolori subiti nella guerra ‘15-18. Secondopoi, quelle nostre erano le zone più povere d’Italia, i più morti di fame e disoccupati che riempivano le navi degli emigranti per le Americhe. Chiusasi quella emigrazione – là non ci volevano più, esattamente come noi oggi con gli extracomunitari – da qualche parte ci dovevano mandare. Ci hanno mandato qua. Eravamo gli extracomunitari dell’Agro Pontino. E poi però – come le ho già detto – all’Opera servivano mezzadri o coltivatori diretti, che sapessero fare tutti i lavori e che risiedessero stabilmente sul podere. Questi qui invece erano abituati a tornare ogni sera al paese loro. Chi ce li faceva restare di notte – con la paura della malaria – appresso alle bestie nella stalla? La mezzadria in Italia era praticata solo in Toscana, Umbria, Marche e Valpadana. Nel Lazio – negli Stati della chiesa -non c’era mai stata, c’era solo e sempre stato il feudalesimo e il primo in assoluto che avesse introdotto la mezzadria nelle terre sue nel Lazio, a Magliano Sabina, era stato proprio il conte Cencelli. Anche per questo, forse, il Rossoni lo aveva consigliato al Duce per l’Opera combattenti. Ora però è anche evidente – come dice giustamente lei -che qui prima di noi non è che non ci fosse proprio mai stato nessuno. Le Paludi Pontine erano un
inferno – un deserto paludoso-malarico – però ci stava pure qualcuno qua sopra, prima di noi. E questa è la verità. C’erano innanzitutto i cisternesi – i butteri – che a cavallo proprio come i cowboy andavano appresso al bestiame del principe Caetani o delle altre famiglie nobili romane, i Borghese, i Colonna, gli Annibaldi. Era tutto loro qua, tutto dei nobili e soprattutto dei Caetani. C’era però anche gente dei monti Lepini in palude. Questi in realtà – per la maggior parte – il mangiare se lo procuravano lassù in montagna. Quelli di Cori il grano lo piantavano a Tirinzania e fin sul monte Lupone. A Sezze idem: il frumento per tutto l’anno se lo facevano in montagna, ai Casali e nelle Valli di Suso, che vuol dire proprio «valli di sopra», sopra al paese. Non di sotto. Di sotto, in palude, ci venivano solo i morti di fame, i ricchi no – e neanche quelli non ricchi ma non proprio proprio disperati – a contendersi appunto fame e morte con la palude e la malaria. Però qualcuno ci veniva; a caccia di ranocchie, alla pesca di frodo nelle piscine, a provare a coltivarsi un campicello nascosto da qualche parte. E poi a raccogliere il legnatico e allevarsi qualche porco. I bassianesi – quelli di Bassiano – vantavano un diritto di proprietà secolare collettivo, chiamato università agraria, su parecchie terre della duna quaternaria, nella zona dove adesso c’è Borgo San Donato. Qui diverse famiglie -anche qualche centinaio di persone – risiedevano nei mesi freschi dentro le lestre, che erano gruppi di capanne pressappoco come i casoni nostri del Veneto, fatte di pali, rami, legni, canne ed erbe palustri. E qua i bassianesi ci piantavano il granturco. Ma soprattutto il guadagno loro – sempre se si può dire guadagno, perché non è che fosse proprio un pozzo di petrolio – le popolazioni dei monti Lepini lo facevano coi pecorai che ogni anno calavano dai monti della Ciociaria e dell’Abruzzo. Era la transumanza verticale. I pastori d’estate tenevano le greggi a pascolare in montagna, in altura, e a metà settembre le guidavano a valle: «Settembre, andiamo. È tempo di migrare./Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori / lascian gli stazzi e vanno verso il mare».
Alla fine dell’inverno poi – quando in palude ricominciava a fiorire la zanzara anofele e sui monti, invece, iniziava il disgelo, le nevi si scioglievano e rifiorivano i nuovi e freschi pascoli – pecore e pastori ritornavano su: «Ci rivediamo a settembre». C’è ancora oggi – ad attraversare la piana dell’Agro Pontino dai monti fino alla duna quaternaria – una strada che si chiama appunto “strada dei Bassianesi” ed è quella che percorrevano i pastori nella loro transumanza dalla Ciociaria e dall’Appennino a qui e su cui si metteva, armata, la guardia dei Bassianesi a fargli pagare uno per uno ingresso, passaggio e pascolo di pecore e cristiani. Era una sorta di dogana e anche Doganella si chiama così, perché ce ne era una del principe Caetani e dei sermonetani. In
tutta
questa
piana
sterminata
quindi
–
in
cui
adesso
vivono
cinquecentomila persone – allora ce n’erano sì e no duemila, sparse qui e là, per tutto il periodo invernale. Nei mesi estivi – quando l’aria s’offuscava per i nugoli di zanzare – qui non c’era un cane; venti persone al massimo, giusto i briganti che non potevano tornare in paese. Un deserto paludoso-malarico appunto, e i bassianesi che dovevano eventualmente raccogliersi il granturco, facevano avanti e indietro dal paese loro dietro la montagna ogni mattina. A piedi o a dorso di mulo, quei pochi che lo avevano il mulo; perché qui, le ripeto, venivano solo i più morti di fame. E in paese tornavano la sera, appena qui faceva leggermente scuro e cominciavano a volare le prime squadriglie di anofeli. Con tutto questo, ci morivano di malaria come mosche, sezzesi coresi e bassianesi in palude, e se solo potevano, si guardavano bene dal venirci. Loro erano secoli che stavano sopra la montagna – millenni – arroccati sulla pietra calcarea a guardare dall’alto la palude. Chi ci scendeva moriva e basta. Ed era da secoli -da millenni – che da là sopra ogni tanto vedevano qualcuno, dai tempi dei Cesari fino a quelli dei papi ed oltre, che un bel giorno arrivava e tentava di bonificare, scavando un canale o prosciugando una piscina. Ma
dopo un po’ – regolarmente – i lavori si arenavano, i terrazzieri smettevano di scavare e la palude, in quattro e quattr’otto, si rimangiava tutto. Anche stavolta – nel 1928, quando il Consorzio aveva iniziato la bonifica – loro erano scesi giù a spalare fanga, trainare carriole e prendersi la paga ma, appunto, giusto per prendersi la paga e senza farsi soverchie illusioni: «Finché dura… Ma quanto vuoi che duri? Pure stavolta vedrai che fra poco torna tutto sott’acqua». Quando poi però nel 1931 hanno visto l’Opera combattenti che in quattro e quattr’otto se la mangiava lei la palude e cominciava a immettere nei primi poderi i suoi coloni veneti, allora i sezzesi e quelli dei paesi intorno hanno cominciato a protestare: «E perché non li date a noi questi poderi? Perché chiamate loro? Noi è una vita che stiamo qui a penare, e adesso chiamate gli altri? A loro le terre buone e prosciugate, a noi solo i sassi di montagna?». L’unica loro speranza era che morissimo: «Vedrai quanto tempo ci mette la malaria a portarseli via tutti, sti cispadani». Ma passa un anno, passa l’altro, veneti friulani e ferraresi continuarono ad arrivare, ad occupare poderi e a non morire in quantità, giusto qualcuno ogni tanto. E quando hanno visto che non morivamo, allora si sono incazzati anche di più. Dopo però, non prima. Prima – agli inizi – non erano ancora tanto incazzati; ci dicevano, è vero, «Cispadani!», ma al fascio non lo hanno messo tanto in croce a dirgli: «Dateli a noi, sti cazzo di poderi». No, aspettavano tranquillamente che morissimo. E quando non siamo morti e abbiamo cominciato a fare razza ed hanno continuato ad arrivare pure gli altri e loro si sono finalmente resi conto che le paludi non c’erano più e non ci sarebbero più state e che qui ci si poteva vivere e prosperare, allora sì che hanno cominciato a strillare pure contro il fascio: «Dateceli a noi, sti poderi! A chi l’osso e a chi la polpa?» ed è stata guerra aperta ed odio sempiterno tra noi e loro. Non ci siamo mai capiti. Tutto un altro modo di pensare, oltre che di parlare e mangiare. Loro per esempio non sapevano neanche cosa fossero i tortellini o
i cappelletti in brodo, ma mia nonna raccontava sempre di quella volta che una spigolatrice di queste montagne le aveva portato in dono, per sdebitarsi, una sacchetta di olive e lei le aveva prese – «Grazie mille, cara» – ma appena quella se ne era andata, le aveva buttate nel fosso: «Còssa xèle queste?». Non le avevamo mai viste. Pensavamo – chissà – che potessero farci male. Noi avevamo sempre condito con l’olio di semi o con lo strutto di maiale. Per loro però – soprattutto – le femmine nostre erano tutte puttane. Loro non avevano mai visto una bicicletta, prima. E la donna era una schiava. Un essere inferiore all’uomo. Guai se parlava davanti al marito. E tutte intabarrate sempre di nero. Le nostre invece avevano vesti non dico corte, ma comode e tutte colorate, e andavano e venivano in bicicletta e – si sa – andando in bicicletta le gonne si alzano e lasciano vedere un po’ di gamba: «Puttane». E non le dico ai balli. Per le feste della trebbiatura capitava di farne anche insieme a loro. Da noi non c’era niente di male nel ballo. Era una pura espressione, per così dire, artistica. Ti facevi un ballo e arrivederci e grazie. Per loro invece – a Sezze e sui Lepini – se ballavi una volta con una, poi te la dovevi sposare. E quando vedevano le donne nostre ballare con tutti – prima con te e dopo con un altro – gli saltavano i circuiti di sicurezza del cervello, nascevano i fraintendimenti e finiva regolarmente a cazzotti e a coltellate, ogni sabato quando si ballava e ad ogni trebbiatura, ogni mercato; specie a Pontinia e nelle borgate di confine. Marocchini appunto. Ecco perché li chiamavamo così, perché erano indietro e anche mio zio Pericle a Doganella una volta – non so se si trattasse d’un ballo, una trebbia o una fiera del bestiame e se fosse di giorno o di sera – ne dovette accoltellare qualcuno. Qualche puncicata però la prese anche lui e lo riportarono a casa i fratelli su un carretto. La madre – mia nonna – e sua moglie lo dovettero ricucire a puntino. Non c’era stato il pastrano – era luglio – a risparmiargliene qualcuna.
Zio Adelchi invece raccontava di quando stava andando in Africa sulla nave, alla conquista dell’impero d’Abissinia – sarà stato due o tre anni dopo che eravamo qui -e una sera hanno fatto vedere un film, a tutti i soldati, sul ponte della nave. Lui stava insieme alle camicie nere della compagnia «Littoria», che erano quasi tutti coloni come lui. Davano un film western di quelli americani in bianco e nero, ma già con il parlato. I bianchi erano sempre i buoni che portavano la civiltà e il progresso, gli indiani pellerossa invece i cattivi che ostacolavano con le peggiori mostruosità il cammino sia del progresso che della civiltà. Comunque a un certo punto – saranno già stati nel Mar Rosso, dopo Suez – nel buio della notte, sul ponte della nave, appare grande grande sullo schermo il profilo di un apache che stava di vedetta su una montagna a guardare da lontano i visi pallidi che avanzavano. Era tutto pieno di rughe, aveva gli occhi cattivi, il naso adunco e somigliava spiccicato spiccicato al caposquadra loro – corrispondente al grado di sergente – che era di Sezze. Adesso non so se lei lo sa, ma da queste parti – ossia in tutti i paesi dei monti Lepino-Ausoni – s’è sempre detto e ancora oggi si dice: «Guai a mettere i gradi a uno di Sezze». Comunque nel pieno silenzio della notte – o meglio, nella musica paurosa del film che dalla tolda della nave increspava i flutti del Mar Rosso, resi argentei dai raggi della luna piena sull’Equatore – mio zio Adelchi aveva detto forte nel buio: «Il sesése! Vardè il sesése fiòi, l’è proprio lù». Tutta la nave a ridere mi creda, un boato. Chi si sganasciava di qua e chi si sganasciava di là. Pure gli ufficiali. Subito s’è levato il grido: «Peruzzi!» del sergente offeso. Ma era tutto un coro oramai – «Il sesése!», «Il sesése!» – che si levava sempre più forte e sguaiato da ogni angolo della nave. Mancava che si mettessero a strillarlo anche i macachi dalla riva (come dice? che sul mar Rosso non ci stanno i macachi? Ma non mi stia a interrompere con queste monàde. I Peruzzi ce li hanno visti). Allora zio Adelchi non ce l’ha fatta – non c’era niente che gli
desse entusiamo ed euforia come il sentirsi al centro dell’attenzione o del consenso popolare – e ha continuato, ancora a voce più forte e strillante: «Nantri i visi pàlidi, i sesési xè i Apàss», e giù davvero di nuovo un fragore che la nave per poco non affonda. «Sesési di qua, sesési di là» hanno sghignazzato per ore tutti quanti. A lui poi diedero dieci giorni di consegna da scontare appena sbarcati a Massaua, anche se il comandante della compagnia – il povero Barany, un mezzo cispadano milanese di origini ungheresi, che in Agro faceva il perito agrario per l’Opera combattenti – alla fine glieli abbuono. Per il sezzese invece non ci fu più scampo. Da allora in poi e per tutta la campagna d’Abissinia fu per tutti indistintamente il «sergente Apàss», ed era quando lo chiamavano Apàss gli ascari, soprattutto, che non si poteva più reggere il sezzese. Zio Adelchi diceva che nelle situazioni più rischiose – quando c’era proprio da giocarsi la pelle – non ha mai avuto un attimo di esitazione e ha sempre mandato lui davanti a tutti: «Vai!». «Ma sempre a mì?» faceva zio Adelchi. «Sempre a te, cispada’». Lo voleva vedere morto. O almeno così diceva mio zio Adelchi. Quando poi però è finita l’altra guerra – la Seconda guerra mondiale – ed è caduto anche il fascismo, i sezzesi e tutti gli abitanti dei Lepini sono diventati rossi, socialisti e comunisti, non solo perché così accadde giustamente anche nel resto d’Italia, ma soprattutto perché dicevano che eravamo noi i fascisti veri, beneficati dal fascismo. Solo loro erano stati socialisti prima, e per questo danneggiati. Noi no. E occuparono le terre. Rivolevano i poderi. E a noi ci volevano mandare via come gli arabi con gli israeliani ancora oggi. La Dc accomodò le cose, ma già il fascio ci aveva messo una pezza, dandogli alla fine un po’ di poderi nella zona di Pontinia. E quelli, a forza di vedere noi, anche loro hanno imparato a stare notte e giorno in campagna sui poderi, senza starsi a rifare tutti i giorni quattro o cinque ore di cammino, su e giù fino
al paese sopra la montagna. E quei pochi che non gli bastava di vedere noi per imparare, ci pensava l’Opera con i fattori suoi, certe bestie che nemmeno nei kolchoz dell’Unione Sovietica. Pareva la Siberia qua, per chi non rigava dritto. Anche a noi – che pure come le ho detto qualche piccolo merito verso il fascio ce lo avevamo – pure a noi il fattore ci veniva a mettere in croce: «Piantate questo e non piantate quell’altro, la scolina non è pulita bene e vi faccio rapporto, guai a voi se andate a lavorare a giornata fuori, tutti qua sul podere dell’Opera dovete restare». Tanto che zio Pericle una volta – che era pure sindacalista fascista dei contadini, uno dei capi del sindacato – ne dovette prendere da parte uno, di questi fattori. Ma non lo prese in campagna davanti a tutti. Mio zio non era una bestia e sapeva che ognuno ha diritto alla dignità sua. Si fece trovare sotto la sede dell’Opera a Littoria come per caso – vestito bene diciamo, da città – e gli disse gentile: «Venite fattore, andiamo a prendere un bicchiere». E poi per strada, da soli, pacato pacato: «Guardate, io sono fascista più di voi». «Lo so, lo so, ma vedete Peruzzi, le differenze…» «Qua non è questione di differenze. I Peruzzi non vogliono differenze. Ognuno deve fare il suo lavoro e voi dovete fare il vostro. Ma la carogna no. Io sono fascista e rispetto la disciplina, ma la carogna…» e lasciò in sospeso, con la voce però che gli si era fatta dura. «Ma perché, io sono una carogna?» «No, no, ci mancherebbe altro. Io parlo in generale.» Però bastò. Almeno con quello. Come dice, scusi? come facevano le famiglie che non avevano uno zio Pericle? A parte il fatto che un Pericle c’è sempre in ogni famiglia – almeno uno – quelli che non ce lo avevano, quando proprio non ce la facevano più scrivevano al Duce. Il Rossoni disse una volta – ogni tanto passava durante
qualche giro, sentivi la macchina suonare da lontano e poi saltava giù, appena stava sul ponte, a strillare: «Peruzzi! ‘O ghetu ancora il cavallo di Copparo?» – il Rossoni disse che arrivavano delle lettere indirizzate al Duce, Palazzo Venessia, Roma, tutte sgrammaticate e piene di strafalcioni, ma che però si facevano capire benissimo: “Lustrissimo” o anche “Carisimo Ducce, cuì le cose ne va par gnente bene par cuesto e par cuestaltro” e lui mandava a controllare.
Se poi avevi ragione te la davano, se avevi torto ti rimpacchettavano con tutta la famiglia e ti rispedivano da dove eri venuto – in Altitalia – a ripuzzarti di fame. Comunque lei non ci crederà, ma quando siamo stati al 18 dicembre del 1932 – poco più d’un mese da che noi eravamo venuti qua – Littoria era bella pronta e l’hanno inaugurata. I miei zii lo avevano detto anche al Rossoni pochi giorni dopo il nostro arrivo – quando era venuto non solo per noi, ma proprio per vedere i primi arrivi dei coloni, anche se da noi s’era fermato un minuto in più – i miei zii gli avevano detto: «Ma non può essere che ce la fanno, stanno troppo indietro». «Non stì preocuparve. Quando il Duce dice una cosa, l’è quéla, ciò.» E il 18 dicembre 1932 – era domenica, quarta domenica d’Avvento e il giorno prima, sabato, era piovuto a dirotto per l’intera giornata – era tutto pronto. Tutti i palazzi lindi e pinti. Solo la chiesa di San Marco no, San Marco l’hanno completata dopo. Ma il palazzo comunale, la grande torre bianca di travertino, la caserma della milizia, quella dei carabinieri, le scuole di piazza Dante, le poste futuriste del Mazzoni, la sede dell’Opera e i fabbricati di piazza del Quadrato, il campo sportivo, la sede dei fasci, il dopolavoro, il cinema, i bar, la stazione delle corriere, l’albergo Littoria e le prime palazzine d’abitazione, tutto già pronto che mio zio Adelchi – che il giorno prima aveva trovato comunque il modo di venire a dare un’occhiata, intabarrato sotto l’acqua in bicicletta con la mantella incerata, prima che facesse sera – aveva voluto proprio andare a toccare e vedere dietro ogni muro se fosse tutto vero,
perché a quel punto pensava che fossero facciate finte, messe lì per imbrogliare il Duce. E invece no. Era tutto finito. «Potènsa del fasìsmo» disse al ritorno agli altri miei zii. Solo la piazza restava da finire: «Quella no, non ce la fanno a finirla, l’è màsa indrìo». Mio zio Benassi invece – quello che poi ha sposato mia zia Santapace – lui quella notte tra il sabato e la domenica c’era stato fino all’ultimo, perché guidava una Pavesi della Motomeccanica, una di quelle trattrici di allora, che al posto delle ruote di gomma avevano gabbie di ferro cilindriche con delle staffe in cima, ruote di ferro cingolate che impedivano alla macchina di slittare, e facendo leva sul terreno riuscivano a trasmettere intatta la forza del motore. Erano stupende per l’aratura – le Pavesi – perché oltre che forti erano agili e svelte, e riuscivano a muoversi anche in mezzo metro di fango. Mio zio Benassi lavorava ancora con la Motomeccanica, un’impresa costituita apposta dall’Opera combattenti, sua proprietà, per la gestione di tutti i movimenti di terra con macchine, magazzini, depositi e personale suo. Mio zio Benassi raccontava sempre – quando oravamo piccolini – che fino alle dieci di sera, a sovrintendere ai lavori, era rimasto lì con loro anche il conte Cencelli, non facendo però che dire: «E come faccio? Come faccio mò’?». Lui aveva già mandato tutti gli inviti, l’inaugurazione era fissata categoricamente con il Duce per il 18 -il giorno dopo – non faceva più in tempo a spostarla. Ma come le ho detto pioveva che Dio la mandava. E non accennava a smettere. I canali di bonifica erano tutti al massimo del livello, qualcuno era già straripato e la piazza di Littoria stessa sembrava un pantano. Il casale dei Caetani al centro e i capannoni del Consorzio a lato, con la torretta del serbatoio dell’acqua e tutto il resto del vecchio Villaggio del Quadrato, erano stati demoliti qualche giorno prima – non c’erano più – ma i camion I8BL che trasportavano le pietre per la massicciata del macadam, affondavano con tutte le ruote e non riuscivano più a muoversi. Allora Cencelli diede l’ordine già nel primo pomeriggio che tutti i trattori fossero
prelevati dal deposito e messi a rimorchiare – anche due o tre trattori alla volta – i camion. Alle dieci di sera però – persa ogni speranza – Cencelli lasciò la piazza e andò a dormire. Mio zio Benassi lo sentì che diceva proprio: «Vaffanculo, va’» – era reatino – «sarà quel che sarà». Solo su metà piazza la massicciata era stata più o meno completata; sull’altra metà, Dio vede e provvede. «Fate quello che potete» disse rassegnato Cencelli a tecnici ed operai. Quando invece la mattina dopo, 18 dicembre 1932, alle otto di mattina s’è ripresentato là e il cielo era ancora tutto scuro e ancora un po’ piovigginava – il sole è uscito fuori all’improvviso solo un paio d’ore dopo, appena è sbucata sulla piazza la macchina del Duce – ha visto la piazza completamente finita, tutta rullata e asfaltata, con i cigli di travertino posti perfettamente in ordine lungo i marciapiedi e i marciapiedi pure finiti e i lampioni della piazza tutti in piedi e nei giardinetti in mezzo pure gli alberelli già piantati. Non ci voleva credere. «Bravi! Mezza giornata pagata in più a tutti!» disse Cencelli. Mio zio Benassi però ci raccontava sempre che a un certo punto della notte – in mezzo al via vai di camion e di trattori e di pioggia che cadeva a rovesci – s’era aperta una voragine pressappoco al centro della piazza, esattamente nel punto in cui adesso c’è la fontana circolare con la grande palla di marmo al centro a causa della quale quasi tutti a Latina non la chiamano piazza del Popolo, ma piazza della Palla. Comunque io non so bene cosa fosse successo – se avesse ceduto qualche cavità negli strati più profondi – anche perché zio Benassi non ce lo ha mai spiegato. S’era aperta questa voragine diceva lui, e aveva inghiottito tutta la fanga il limo e la melma che c’erano in giro. Com’è come non è, il 18BL pieno zeppo di pietre che stava lì vicino pronto a scaricare il suo carico, è stato travolto anche lui dal fiume di fango ed è stato mezzo trascinato nel gorgo. Zio Benassi diceva di avere appena fatto in tempo a tagliare con l’accetta dietro di sé la corda con cui lo stava tirando con
la sua Pavesi, se no sarebbe stato travolto e trascinato anche lui con tutta la Pavesi dentro il gorgo. Erano già stati trascinati per dieci metri e allora «Zac!», aveva tagliato giusto in tempo la corda. Comunque – fatto sta – il camion 18BL è rimasto impantanato in questa voragine piena di fango, limo e sabbie mobili, mezzo dentro e mezzo fuori. Gli hanno riattaccato dei cavi e hanno provato a tirarlo con quattro Pavesi, ma niente da fare: «C’era il Diavolo lì che lo teneva» diceva mio zio Benassi. E allora tira di qua, tira di là, un assistente ha detto: «Qui si fa troppo tardi». Hanno fatto arrivare altri camion di pietre, hanno staccato i cavi e lui, il 18BL, lo hanno lasciato andare con tutto il pantano – «Va’ in malora, va’» – e man mano che affondava lo hanno ricoperto bene bene di pietre. Fatta la massicciata, rullato il pietrisco, la piazza era fatta e s’era fatta anche l’alba. Rimetti a posto, sistema tutto e vai con l’inaugurazione. Il camion sta ancora là – sotto la fontana con la palla, al centro di piazza del Popolo, davanti alla torre comunale – insieme al gattino che l’autista, nella foga di saltare e mettersi in salvo, s’era scordato dentro la cabina. E mentre affondava con il 18BL, il gattino spaventato faceva: «Miaouuu! Miaouuuì». Ora io mi rendo benissimo conto che questa storia non è del tutto credibile. Era una storia che mio zio Benassi raccontava a noi bambini. Può anche essere che l’abbia ingrandita. Anzi, sicuramente è così. Però è una storia che raccontano in tutta Latina. Non c’era solo mio zio Benassi, la raccontavano tutti i vecchi coloni e non c’è un nonno – in giro per Latina – che quando passa vicino alla fontana con il nipotino, non gli racconti di nuovo la storia e gli dia anche delle monete per buttarcele dentro. Anzi, ce le buttano assieme, nonno e nipote. E qualcuno dice pure che nelle notti d’inverno – quando piove a dirotto come piove a dirotto da noi quando piove – passando vicino alla fontana con la palla si sentano ancora ogni tanto, tra gli scrosci dell’acqua, i «Miao-miao» del gattino che vuole uscire, oltre al lontano rombo del motore del
18BL. Verità o leggende? Superstizioni in ogni caso. Chissà quanto c’è di vero e quanto invece c’è d’inventato. Come dice, scusi? Perché non scaviamo e così vediamo se il camion c’è per davvero oppure non c’è? Assolutamente no. Ma sta scherzando? Un mito è un mito, e non si va mai a vedere se un mito di fondazione è vero o meno. Ciò che conta è ciò che il mito racconta. E se noi scaviamo e dopo il camion non c’è – per esempio che facciamo, restiamo senza mito? Ma lei è matto. Non si scherza con i miti. Anche perché c’è un altro detto in giro per Latina e per l’Agro Pontino, un detto che ripetevano i nostri vecchi coloni dentro le osterie ed io l’ho sentito sia da mio nonno che dai miei zii: «Il giorno che viene giù la palla o che si sposta, quel giorno è la rovina per Latina-Littoria e l’Agro Pontino. Inizia la fine e non c’è più niente da fare. Viene giù tutto. Morte e distruzione totale». Quella palla è un tappo – signore mio – un tappo che tiene chiuse le potenze ctonie. Se lei lo toglie anche per un minuto solo, è come il vaso di Pandora, arrivederci e grazie; le potenze degli inferi fuoriescono tutte ed entrano in insanabile contrasto con quelle sidereo-celesti. È un cortocircuito cosmico e non vorrei proprio essere lì, il giorno che dovesse accadere. La fine di LatinaLittoria. E forse è proprio per questo che certi politici d’origine sermonetana – seme dei Caetani, marocàssi maladéti – vogliono scavare a tutti i costi un parcheggio sotterraneo sotto piazza della Palla. Dio stramaledica chi tocca la piazza e la fontana. Anatema. Comunque il giorno dopo, il 18 dicembre 1932, lo stesso Duce che neanche sei mesi prima s’era rifiutato incazzatissimo di venirla a fondare – «Guai a voi se la chiamate ancora città» – venne a inaugurare Littoria sfavillante nel sole. Anzi, lo portò lui il sole e da sopra il balcone del comune -sotto la torre – disse ai miei zii e a tutti gli altri stretti stretti in un sol corpo nella piazza, ma pure a tutto il mondo che attraverso la stampa estera ci stava quel giorno ad ascoltare a bocca aperta: «È questa la guerra che noi preferiamo». Il lavoro. La
terra. «State in guardia però», voleva dirgli: «Non stì a romperne i cojoni». E poi più direttamente a noi: «I contadini ed i rurali /debbono guardare/a questa torre che domina la pianura/ e che è un simbolo della potenza fascista. / Convergendo verso di essa / troveranno, quando occorra,/aiuto e giustizia. /Mussolini» come sta scritto
ancora adesso sulla lapide attaccata al balcone. Poi disse pure, però, che sarebbero state costruite altre città nell’Agro Pontino: Sabaudia subito l’anno dopo e poi Pontinia, Aprilia, Pomezia. Il mondo avrebbe visto di cosa eravamo capaci: obbedendo al comandamento dei padri -«Siccentur hodie Pomptinae Paludes» – noi ricostruivamo dal nulla le città «scomparse» di cui parlava Plinio il Vecchio. I coloni infine – ex combattenti come gli antichi legionari di Cesare, a cui alla fine del servizio venivano assegnate terre da colonizzare in santa pace – entro dieci o quindici anni avrebbero potuto riscattare il loro podere ed entrarne in proprietà. Urla di gioia che non le dico: «Du-ce! Du-ce! Du-ce!» strillavamo in coro tutti quanti, e poi squilli di trombe e di fanfare, colpi di cannone, rombo dei motori di tutti i trattori accesi insieme. E poi canti, urla e strepiti vari e la festa è finita, la massa s’è sciolta e ogni famiglia – coi carri o in bicicletta o anche a piedi – ha ripreso la via di casa: «Ghètu sentìo còssa gà dìto il Duce?». «Ah, quélo sì che xè un Uomo», che non voleva però dire che era un uomo solo un po’ più fuori del normale. Anche zio Iseo – una volta che quand’ero ragazzo, parlando parlando, pure a lui era uscito «Quello era un Uomo» e io lo avevo interrotto: «Sì, zio, ma neanche io sono una donna» – zio Iseo aveva detto: «Che c’entra, macaco? Quello però non era un uomo come me e te, era un Uomo Speciale che ne nasce solo uno per secoli e secoli». Oramai era presa la fissa un po’ a tutti in Italia – e certo, non discuto, sarà stata pure colpa del Duce e del fascismo che la continuavano a ripetere a volontà – la fissa della romanità e dei fasti imperiali che ci toccavano per forza e per diritto a noi italiani, ma anche questa cosa un po’ pagana che gli uomini non fossero, per così dire, tutti uguali. O meglio, c’eravamo noi
normalissimi uomini – ma anche donne – che già non eravamo proprio tutti uguali, c’erano quelli più intelligenti e quelli meno, e i più intelligenti era giusto che comandassero. Però sempre uomini normali e pressappoco tutti uguali. Solo una volta per secolo – quando proprio non per millenni – appariva sulla faccia della terra un Uomo con la U maiuscola, che aveva le fattezze di un uomo, ma che dentro di sé aveva lo Spirito di tutto un popolo o di tutta un’era. Era un Uomo-Dio, un Demiurgo, una potenza cosmica incarnata in un solo uomo; ben diverso da un uomo normale. Una specie di Messia come per gli ebrei, e del resto non era stato proprio il Papa Pio XI a dirgli «Uomo della provvidenza»? E secondo lei cosa voleva dire? Esattamente questo, che questa grande fortuna che capitava sì e no a qualche popolo ogni tanti millenni, stavolta ce l’avevamo noi – l’Uomo – e gli altri facessero attenzione. Maradona. Padre Pio. E se ci credeva il Papa, lei permetterà che ci abbiamo creduto anche noi? Mia nonna ogni tanto, quando veniva qualcuno, diceva: «E pensare che quell’Uomo mi ha aggiustato i denti dell’erpice a mì, una volta!». «Sì» però poi le diceva il nonno a letto la sera, avvicinandosi di più alla parte sua, «e te gà vardà anca ‘l cùl bruta troia, che te smovevi tuta davanti a lù.» Il guaio vero -purtroppo – è che a un certo punto se lo è creduto per davvero anche lui. Lui il Duce naturalmente, non mio nonno. Comunque fu un grande giorno di festa e un giorno grandemente fortunato non solo per la città di Littoria che nasceva e per tutto l’Agro Pontino, ma anche proprio per la nostra famiglia Peruzzi che – se non proprio un Uomo come quello, una specie di Dio – almeno un altro uomo normale, che ci serviva però come il pane, lo trovò. Finita la cerimonia dell’inaugurazione infatti, in mezzo alla folla che defluiva, mio zio Pericle s’era fermato a un banchetto che stava poco fuori della piazza – su un fianco della strada che va a Borgo Piave – di fronte alla caserma della milizia dove adesso c’è invece l’ufficio del catasto. Di questi banchi e banchetti ce ne erano tanti per tutta la strada, e venuti da ogni parte. Si
sapeva in tutto il Lazio e in Italia che oggi si inaugurava Littoria e quindi avevano pensato: «Chissà quanta gente c’è. Fammi andare pure a me, a vedere se riesco a imbrogliare e vendere qualcosa a questi coloni polentoni cispadani». A questo banchetto vendevano mutande. Ed è lì che zio Pericle ha conosciuto il Lanzidei. Il Lanzidei in realtà di mestiere non è che vendesse mutande, il banchetto non era il suo, era di un suo amico di Roma – lui era di Nettuno, un paese qua vicino, sul mare – che gli aveva detto: «Vienimi a dare una mano» e lui era venuto. Di mestiere faceva quello che capitava: manovale, muratore, facchino, insomma niente, più spiantato di noi. Però era simpatico, aveva la battuta pronta ed era una persona per bene. I miei zii lì per lì non ci hanno fatto nessun pensiero – s’era fermato anche zio Adelchi a guardare le mutande – poi non so se le hanno comprate o hanno fatto solo un po’ di chiacchiere, amicizia e arrivederci e grazie: «Io mi chiamo Lanzidei, voi Peruzzi, morta lì». Quando è stato l’anno dopo però – 5 agosto del 1933 – che il Duce e Cencelli sono andati a fondare Sabaudia, quel giorno, anche se era agosto, c’era nuvolo e pioveva. Prima ha pioviccicato piano piano e poi è piovuto a dirotto. La gente non sapeva dove andarsi a riparare, perché non c’era niente lì, solo le buche o i picchetti di legno per terra delle fondazioni ancora da scavare. Però di gente ce n’era in quantità. Ci avevano fatto venire tutti perché – lei capisce – viene il Duce a fondare una nuova città e tu non gli fai trovare nessuno? «Guai», allora, «a chi non c’era», aveva detto l’Opera. E ci eravamo andati tutti quanti. Poi come lei sa – perché sta sui libri di storia – appena è arrivata la macchina del Duce ha smesso di piovere ed è uscito fuori un sole anche qui che in cinque minuti ha asciugato tutto quanto, e la gente non si poteva più tenere per il solleone. Era agosto. Però questo non c’entra. Comunque, mentre pioveva, anche i miei zii hanno cercato un posto per ripararsi e a un certo punto si sono sentiti chiamare: «Peruzzi!».
Era questo Lanzidei che sulla strada – di nuovo con l’amico suo – s’era messo con la bancarella a vendere mutande, e però questa volta era una bancarella coperta con un telo. Lui a dir la verità se l’era portato per il sole: «È agosto!», però era tornato buono per la pioggia e i miei zii sono andati lì e c’era pure zia Bìssola e gliel’hanno presentata: «Piacere, Lanzidei», «Piasèr mio, Peruzzi Bissolata». Sotto l’acqua hanno fatto due chiacchiere. Non so che cosa si siano detti. Comunque morta lì, arrivato il Duce, fondata Sabaudia, ognuno s’è ripreso le cose sue e noi siamo tornati a lavorare. Passa un po’ di giorni e arriva sul podere – ma non in pieno giorno, verso sera, verso quasi l’imbrunire – questo Lanzidei in bicicletta a vendere mutande. Lì per lì, ovviamente, nessuno ha trovato da ridire, era pieno di mercanti e venditori ambulanti che passavano per tutti i poderi a vendere chi il pesce, chi i tessuti, chi le pentole, chi l’accidente che lo spacca. E tutti più spiantati di noi. Neanche uno col carretto a cavallo. Tutti in bicicletta – pieni di pacchi davanti e di dietro – o con un carrettino a mano, spinto per le stanghe per chilometri e chilometri. Venivano quindi tutti, non poteva venire questo Lanzidei? Fagli le feste, dagli un bicchiere di vino e compragli una mutanda (quei mutandoni di lana grossi, non so se si ricorda). Passa però una volta, passa un’altra, ma sempre all’imbrunire. E zio Adelchi – che era maligno e malfidato come una faina – ha finalmente mangiato la foglia, ha preso zio Pericle da una parte e gli ha detto: «Ma quanti culi crederìa ch’aghéimo, quà?». «Eh?» gli ha fatto zio Pericle. «Quélo vièn par la Bissa, maladéto tì!» «Eh no, casso!» s’è sbiancato zio Pericle: «Stavolta ‘a cópo», e si sono messi a fare la guardia. Appena lo hanno rivisto sbucare da lontano sulla strada con questa bicicletta cigolante «Ciò, ciò, ciò» – che faceva appena finta di fermarsi sugli altri ponti dei poderi a dire «Volete mutande?», ma giusto per alibi, perché appena quelli dicevano: «No, ma…», via, ripartiva di corsa senza
manco starli a sentire -zio Pericle e zio Adelchi si sono messi coi forconi ad aspettarlo dietro la cunetta del fosso proprio in fondo al confine del podere di zio Temistocle, dove, appunto, cominciava la terra dei Peruzzi: hic sunt leones. Come è stato lì, gli sono sbucati davanti. Ma non minacciosi, solo poggiati ai forconi come se stessero lavorando e, all’improvviso, lo avessero visto arrivare: «Facciamogli un saluto». Quello però veniva sì da Nettuno ma non dalla montagna del sapone, e appena li ha visti è sceso dalla bicicletta e s’è messo una mano in tasca anche lui, dove si presuppone che avesse il suo bravo coltello: «Come va Peruzzi? Che piacere vedervi, vi serve qualche paio di mutande?». «Poche ciàcole» gli ha detto allora mio zio Pericle: «Vàca e vedèi! O se nò corteàe». «Eh?», ha fatto il Lanzidei. «Vacca e vitelli» gli ha tradotto zio Adelchi: «Dalle parti nostre si dice che chi si prende la vacca si prende anche i vitelli. O se no coltellate». «No, le coltellate le avevo capite, sono i vitelli che non ho capito tanto bene.» Quello, le ripeto, anche se di Nettuno non è che mangiasse pane e sapone e lo aveva capito pure lui che la puledra, diciamo così, non poteva essere proprio di primo pelo – aveva già venticinque anni e poi l’aveva vista che carattere che aveva – però non si aspettava una sorpresa così: uno, tò, ma non di più. E giusto per curiosità ha provato a chiedere: «E quanti sarebbero sti vitelli?». «Trì», zio Pericle. «Tre», zio Adelchi. «Tre? Ma andatevela a piglià ‘nderculo, va’» e s’è messo subito a rigirare la bicicletta. «Ma dò i xè zemèi», Pericle. «Due sono gemelli», Adelchi.
«Ma sempre tre fanno, ve possin’ammazzà. Ma che ciò scritto, micco, in fronte? Lassàteme annà, lassàteme annà. Chi ce ripassa più deqquà?» faceva Lanzidei tentando di ripartire a tutta forza sui pedali della bicicletta che sotto il peso dei pacchi di mutande barcollava di là e di qua, mentre zio Pericle e zio Adelchi, attaccati ognuno a un braccio suo, cercavano a tutti i costi di far ripartire la trattativa. «Lassàteme, lassàteme che ve dinuncio» strillava Lanzidei. «Va’ in mona» s’è vergognato allora a un certo punto zio Adelchi, e lo hanno lasciato. Ma mentre lui acquistava sempre più carriera – «Ciò, ciò, ciò» – e già stava a una trentina di metri, a zio Pericle gli si è accesa una lampadina in testa: «Ma tu non sei combattente?». «Sì» ha strillato quello ma continuando a pedalare, solo voltando un po’ indietro la testa: «Stavo sul Piave, 21° fanteria». «Alóra at demo un podèr!» ha urlato dalla gioia zio Pericle. «Ti diamo un podere, insieme alla vacca e ai vitelli» ha tradotto zio Adelchi. «Un podere?» e quello ha fermato la bicicletta, l’ha rigirata mentre i miei zii lo raggiungevano e insieme, uno di qua e uno di là e lui nel mezzo – e loro che gli reggevano i pacchi e quasi lo portavano in braccio a lui, alle sue mutande e alla sua bicicletta – si sono cominciati a indirizzare verso casa discutendo ed appianando, punto per punto, tutti i capitolati dell’accordo: «Ma io il contadino non l’ho mai fatto». «Non star preocuparte, t’ensegnémo nantri e poi t’ensegnerà èla.» «Ma il padre chi è, è lo stesso per tutti e tre?» «Ma che casso t’in frega a tì de chi xè ‘l padre? Adesso sei tu il padre, il padrone della vacca, dei vitelli e del podere. Che casso vòtu che ne sapia mì de chi xè stà il padre? Prenditi il podere, che te lo facciamo dare noi dal fascio.» «Io però non sono fascista, Peruzzi, questo sia chiaro.»
«Ma che casso m’in frega a mi de che casso te sì tì? Tòlte la vàca e i vedèi, e va’ in malora.» Ed è così che Lanzidei s’è sposato mia zia Bìssola e ha smesso di andare in giro a vendere mutande. Arrivati a casa, la prima che ha cominciato subito a fare i salti dalla gioia – «Come son contenta, come son contenta» e le saltava proprio al collo – era zia Modigliana, la sorella gemella di zia Bìssola che erano tanto legate e che però era tanto più buona di lei. Anche l’Armida – la moglie di zio Pericle, quella delle api – la sera a letto non faceva che dire al marito, tutta contenta anche lei: «Come son contenta, come son contenta che la va fora dai piè». «Calma» le diceva però lui, «calma che ci vuol tempo, prima ghe xè da sistemar i Dolfin e i parenti della mamma» e difatti per due o tre anni la zia Bìssola e il Lanzidei sono rimasti lì sul podere al Canale Mussolini con noi – insieme ovviamente anche ai nuovi vitelli che intanto facevano – e tutti i miei zii e le mie zie gli hanno sempre voluto bene al Lanzidei e gli hanno insegnato ogni mestiere ed ogni cosa per bene, anche perché, dopo che era arrivato lui, anche mia zia Bìssola era cambiata. Non che fosse diventata un’altra persona – sempre vipera era – però un po’ più dolce qualche volta, un po’ più buona. E finalmente nel 1936 o ‘37, quando poi è stata fondata Aprilia, mio zio Pericle è riuscito a fargli avere un podere da quelle parti. «Dàghe bòte, dàghe bòte» diceva a lui ogni volta che li andava a trovare. Lei diventava una bestia: «Provate tì, se ti xè bòn», e mio zio rideva perché le voleva bene. Anche Lanzidei le ha voluto bene e lei a lui: «Bruto marochìn maladéto» gli diceva venti volte al giorno. «Sta cispadana!» rideva lui. In fin dei conti, se era venuto tutte quelle volte fin qui con quei carichi di mutande, un motivo ci doveva pure essere. Mica glielo avevamo promesso già a Sabaudia il podere. La vacca era piaciuta subito anche a lui evidentemente. Il podere è venuto dopo. Per il disavanzo di un po’ troppi vitelli. E con tutti questi vitelli però -sia
quelli di prima che quelli di dopo – si sono sempre voluti bene e mai fatta nessunissima differenza. Anzi, i figli che gli hanno voluto più bene – se si può dire – e che hanno sempre portato il maggiore rispetto al padre, sono stati proprio quei tre vitelli di prima. Lui poi era simpatico, aveva sempre la battuta pronta anche se era di queste parti; e pure i cognati, i miei zii, lo hanno portato sempre in palmo di mano. «Aghéimo fato un capolavòr, fradèo» s’erano detti difatti l’un l’altro zio Pericle e zio Adelchi quella famosa sera sfregandosi le mani, dopo averlo presentato alla nonna: «Xè ‘l moroso de la Bìsola». «Mariavèrzine fiòi, ma ‘l xè marochìn» s’era lì per lì sbiancata lei. «Sì, ma se la ciàpa con tuti i vedèi, màma» fecero i figli. «Benón allora!» assentì mia nonna. «Anche con un podere però» riprecisò il Lanzidei un tantinello preoccupato: «Non vorrei che ce lo fossimo scordato». «Ma sì, sì» lo tranquillizzò a furia di pacche sulla schiena – ridendo – mio zio Adelchi. Dopo un po’ aveva già imparato a parlare anche lui in veneto, zio Lanzidei, e ogni volta che doveva andare al bagno diceva sempre anche lui alla moglie, sorridendo sotto i baffi: «A vàgo int’el prìvy». «Va’ in mona!» strillava allora lei, perché di strillare non ha mai smesso. Solo quando è morto e stava oramai silenzioso e compunto – pure se un tantino sorridente dentro la cassa – zia Bissolata non fece che ripetere piangendo, indicandone con un gesto della mano il viso ad ognuno di quelli che venivano a salutarlo: «El me bèl marochìn». «Ciao, cispada’» le aveva detto con un sorriso prima di morire. Il sorriso che gli era poi rimasto nella cassa. Come dice, scusi? che però non le ho spiegato cosa voglia dire cispadani e perché ci chiamassero così?
Non lo so. Di preciso non lo so. Loro ci chiamavano così, o anche polentoni. E noi a loro maròchi, marocchini o marocàssi per dire africani, ossia gente della Bassa che più indietro non si può. Forse però quel cispadani era dovuto all’altra volta che eravamo stati qui, agli inizi dell’Ottocento, con Napoleone, e loro se lo dovevano ricordare ancora, significando pressappoco «invasori». Loro in quel tempo stavano ancora sotto gli Stati della chiesa, con il Papa che li comandava più di un re. Guai a chi sgarrava. Ti impiccavano e tagliavano la testa come a Monti e Tognetti. Erano nell’ignoranza più assoluta. Ha presente i padroni e signori nostri, tipo i conti Zorzi Vila? Bene, i padroni loro erano peggio: feudali – principi feudali – e li trattavano come schiavi. Il principe Caetani – quello che comandava tutta Piscinara dai monti al mare, padrone d’ogni lago, palude, stagno, campo, foresta – era padrone anche dell’anima dei sudditi suoi. Se eri nobile, negli Stati della chiesa potevi fare quello che ti pareva, nessuno ti avrebbe perseguito e se succedeva una questione fra nobili, se la vedevano loro e il Papa. Stop. Se invece loro facevano un qualunque torto al popolo, nessuno gli poteva dire una parola: «È gente mia dei possedimenti miei? Ci faccio quello che mi pare». Un feudalesimo quindi, che al paragone loro noi dell’Altitalia eravamo signori; morti di fame ma signori appetto a loro. Poi però ci fu la Rivoluzione francese, e Napoleone la portò anche da noi quella rivoluzione – in Altitalia – facendo le leggi uguali per tutti nelle repubbliche Cispadana prima e Cisalpina poi. Noi ci arruolammo tutti entusiasti con lui e Napoleone disse: «Adesso andiamo anche un po’ più in là, a portare questa nuova giustizia, uguaglianza e progresso anche nella Bassitalia». E noi appresso a lui, fino allo Stato pontificio e al regno delle Due Sicilie, e il Papa fu cacciato da Roma. Napoleone se lo trascinò appresso prigioniero in Francia, per evitare che lasciandolo qui avesse potuto continuare a brigare. Così – insieme ai francesi – instaurammo la libertà dappertutto in Italia, con l’uguaglianza e il progresso pure per queste genti che stavano sulle montagne intorno alle Paludi Pontine.
Be’, lei sa però cosa fecero loro? Non la vollero la libertà. La rifiutarono. E insorsero contro di noi liberatori. Erano i preti – dicevano i miei zii – che accendevano il fuoco all’ignoranza delle genti loro: «I cispadani offendono la chiesa e bestemmiano Cristo. Indulgenza plenaria a chi li scanna». E quelli «Vai!», a guadagnarsi secondo loro il paradiso e la riconoscenza del principe Caetani – o anche Borghese – che fino al momento prima avevano scannato le esistenze loro. S’erano scordati all’improviso d’ogni torto, e quel canchero era oramai diventato l’amatissimo principe loro di Santa Romana Chiesa: difendevi lui e difendevi Cristo. Poi dice l’oscurantismo. Quel Papa lì però – Pio VI, quello fatto prigioniero da Napoleone – era stato pure un Papa progressista. S’era messo in testa di bonificare le Paludi Pontine e ci era quasi riuscito. Sì, non aveva fatto il Canale Mussolini, però aveva scavato fossi e canali, tracciato le strade miliari, prosciugato stagni e rimesso in uso la via Appia. Ma tutti questi lavori li aveva dovuti fare contro il volere dei principi Caetani – a cui giustamente però li voleva far pagare – e contro questi abitanti qui delle montagne intorno, che non li volevano neanche loro. Volevano tenersi tutti la palude come stava. Il principe per non doverci spendere una lira perché lui stava bene già così. Che gliene fregava di bonificare? Era padrone di tutto, aveva il castello a Sermoneta, il palazzo ducale a Cisterna e però abitava costantemente a Roma nel palazzo ancora più bello che teneva a via delle Botteghe Oscure. Lui stava a Roma a fare la bella vita e qua ci teneva gli sgherri suoi, i fattori, i servi ed i soldati a controllare che la gente pagasse pure il fungo che trovava nel bosco. Non parliamo se ti facevi una fascina. Poi affittava le terre ai mercanti di campagna – «Un tanto a occhio: da qua a Fogliano» – e quelli facevano man bassa di tutto: legnami, foreste, bufali, caccia, cavalli e tutto il pescato degli stagni e dei laghi. E così il Papa Pio VI che voleva bonificare, erano affari suoi a scavare i canali di giorno. Appena faceva notte e pompati bene bene dal principe e dai suoi sgherri, questi delle montagne facevano a gara a
buttare giù gli argini e a costruire in mezzo ai fossi – coi pali e le fascine come i castori – le dighe per non far scorrere l’acqua e rimpaludare: «La bonifica? Ma tu sei scemo. Se prosciugano le terre, noi dopo come facciamo a venire di notte a rubare le anguille e le ranocchie del principe dentro gli stagni?». Povero Pio VI, sono loro che gli hanno rovinato davvero la salute, altro che Napoleone Bonaparte. Lui davvero la prima volta che ha visto da lontano arrivare i francesi, deve avere tirato un sospiro di sollievo grosso come una casa: «E vaffanculo va’, mo’ vi ci arrangiate voi con questi qua», e difatti dopo poco è morto. Ma lui – per continuare a fare la bonifica – ci aveva dovuto mettere le guardie pontificie a fare avanti indietro sui canali con lo schioppo in spalla, per tirare addosso a questi selvaggi che continuavano di notte ad assaltare e demolire gli argini. E Napoleone quando è arrivato qui insieme a noi cispadani – di sentinella sopra quegli argini a sparare ai castori lepini, al posto delle guardie svizzere ci ha messo le milizie francesi e cispadane. Lui la bonifica la voleva continuare – «Quella è una cosa santa» – e fece venire dalla Francia e dall’Altitalia i meglio ingegneri e tecnici per portarla a buon fine. Ma questi marocchini ripresero a sabotarla – «Dai che è la volta buona» gli mandava a dire il principe Caetani per mezzo dei suoi preti – e si misero a sparare sulle guardie cispadane nostre e sui francesi, per poter continuare a sfasciare i canali. Poi, come si sa, Napoleone non si seppe accontentare, si intestardì ad esportare la libertà e la democrazia dall’Alpi alle Piramidi, e noi lasciammo gli argini e gli andammo dietro, anche se i marocchini nostri nel frattempo continuavano a far rimpantanare la bonifica. Ma lui diceva: «E che ci fa? Appena vinto ritorniamo, e gli spacchiamo le costole a questi selvaggi apache reazionari delle Pontine». Poi invece gli venne in mente di portare il progresso e l’eguaglianza anche in Russia e andammo pure noi con quel parente nostro – il nonno di mio nonno credo – che tornò dalla Russia unico e solo di tutti i cispadani ferraresi amici suoi, rimasti là assiderati in fila, statue di ghiaccio sulla via della ritirata. Ma lui tornò con un tesoro trovato non so
dove, che spese tutto per dei mulini ad acqua – galleggianti sul Po – che i figli dei figli si sono mangiati, come mi pare d’averle già detto, e arrivati a mio nonno eravamo di nuovo morti di fame peggio di prima. Comunque, al ritorno dalla Russia arrivederci e grazie: Napoleone a Sant’Elena e noi in Cispadania, ognuno a casa sua. Il Papa è tornato a Roma – il Papa nuovo, non Pio VI che intanto era morto: «Andè in malora voi e le Paludi Pontine» – il principe Caetani a Sermoneta e i sermonetani a risguazzare tra le ranocchie. Arrivederci e grazie quindi pure alla bonifica: la palude di nuovo padrona del territorio. Chi li poteva smuovere questi marocchini qua? Neanche il fascio. E quando siamo arrivati noi, hanno ripreso a dare addosso a noi. Come dice, scusi? che però rimane il fatto che loro fossero qui da ben prima di noi? Ah, non si discute. Però il progresso lo abbiamo portato noi. Anche il progresso avrà le sue ragioni, o no? Ognuno ha le sue ragioni a questo mondo e io – sia chiaro – non ho la pretesa di starle qui a contare la verità di Dio, quella perfetta ed assoluta che conosce solo Lui. Io le racconto la verità dei Peruzzi, che i miei zii hanno raccontato a me, secondo come l’avevano vissuta loro. Per sentire l’altra campana e le ragioni degli altri, lei deve andare a parlare con loro. Ognuno ha le sue ragioni. Da noi non può sentire che le nostre, ed anche la zanzara anofele per esempio – sosteneva mio zio Adelchi – «gàla le só razón. Mì son zanzara dìsela, e agò da smorsegàr. Anca i abisìni, fiòlo, i ghèva ‘e só razón.» Questo naturalmente mio zio Adelchi lo diceva più avanti – molto più avanti – al tempo cioè in cui lei si ricorda d’averlo visto in divisa da vigile urbano a Latina Scalo, a fare più da giudice di pace che da sceriffo. Prima però – quando faceva ancora più lo sceriffo – non la pensava così e diceva che noi, proprio come Napoleone, avevamo portato la civiltà sia qui
che in Africa, in Abissinia, e che ci avrebbero solo dovuto ringraziare. Cambiò idea -o almeno cominciò a venirgli un dubbio – quella volta che alla fine del suo discorso, se ne uscì all’improvviso mio cugino Manrico, uno dei figli di mio zio Benassi che avrà avuto all’epoca una decina d’anni scarsa. Eravamo – mi ricordo come fosse adesso – a un altro matrimonio di famiglia e a zio Adelchi, a tavola, era capitato di fronte un parente dello sposo mezzo professore. Via un bicchiere via l’altro di vino, s’erano messi a discutere e man mano s’erano scaldati. A un certo punto – come preso da un po’ della sua furia, con voce all’inizio sorda e con un sorrisino di scherno sulle labbra – zio Adelchi gli fece proprio: come dice, scusi? lei dice che eravamo invasori e che siamo andati a casa loro a depredarli? No, non ha capito, noi siamo andati a portare la civiltà. Non li abbiamo sfruttati. Vada a vedere adesso come stanno, sono tornati indietro di due secoli. Muoiono di fame. Malattie, pestilenze. Noi gli abbiamo portato la civiltà e ci abbiamo pure rimesso, altro che sfruttati. Lì non c’era niente. Oro, diamanti, petrolio? Niente di niente. Mica come gli inglesi, che sono andati solo dove c’era il ben di Dio. Andavano e portavano via. Quelli sì che rubavano. Mica come noi, che non abbiamo portato via niente. Anzi, siamo noi che abbiamo lasciato il ben di Dio lì da loro. Gli abbiamo fatto le strade, i ponti, le ferrovie, che prima non avevano neanche le mulattiere. Come dice lei? che le abbiamo costruite perché servivano a noi per conquistarli? Però gli sono rimaste, sono le uniche strade che hanno, e gliele abbiamo fatte noi. E sa perché? Per portargli la civiltà. Quelli avevano ancora la schiavitù. Noi gli abbiamo portato la libertà, gli abbiamo spezzato le catene e ancora ce ne sono grati. Mica come i francesi o gli inglesi. A noi ci portano ancora in palmo di mano e in tutto il mondo dicono: «Italiani brava gente». Ci vogliono ancora bene. Come dice lei? Che gli abbiamo buttato i gas? Li abbiamo conquistati con l’iprite? E che ragionamenti sono? Io ti vengo a liberare e tu mi opponi resistenza? Mi spari addosso? La guerra è guerra, se permette. Quelli
spararono anche al maresciallo Graziani, un attentato a tradimento. Sette morti con le bombe a mano, anche civili. Che dovevamo fare, noi? Tre giorni di carta bianca ci diedero e gli facemmo passare la voglia. Non vedevi più un nero in giro per Addis Abeba. Tutti rintanati. Noi andammo tucul per tucul con la benzina a dargli fuoco, e poi granate a chi tentava di scappare: uomini, donne, bambini e quello che le pare. E tanti li abbiamo dovuti finire a bastonate. Io c’ero. C’ero anch’io. Noi gli stavamo portando la civiltà. Che dovevamo fare? Me lo dica lei, no? Firmato Adelchi Peruzzi, il zio della sposa. Così finì la sua concione mio zio, ritto in piedi – e con la voce stridula oramai – mentre con il tovagliolo s’asciugava i fiumi di sudore dalla fronte. Aveva un sorriso quasi radioso sulle labbra. Soddisfatto ed orgoglioso. Fu lì che mio cugino Manrico – che mentre lui parlava gli si era messo a fianco – disse: «Ma zio, ma non erano esseri umani anche loro? E non eravate voi, a casa sua di loro?». Zio Adelchi restò senza parole. Si fece pensieroso. Quasi triste. Si guardò intorno un attimo – ansimante ancora – e si risedette lento, zitto zitto sopra la sua sedia, mentre dai tavoli vicini gli altri parenti intonavano Faccetta nera. Rimase così fino alla fine del pranzo – assorto tutto tra sé e sé, col solo Manrico ritto come un fuso al fianco suo e la sciarpetta bianca al collo, fissa immobile pure lei – in mezzo ai «Viva i spósi!», «Bacio, bacio!», applausi e Valsugane, fino al dolce, frutta, confetti, caffè e grappino della staffa,
«Arrivederci e grazie» poi. E la gente cominciò a defluire. Solo allora zio Adelchi – due statuine del presepe lì in mezzo lui e Manrico, il bue e l’asinelio, senza avere toccato più niente nella greppia – si scosse e s’alzò. Trangugiò una grappa al volo, si rimise una specie di sorriso mesto sopra il viso, e posò la mano sulla spalla di Manrico piccolino. Gli disse: «Erano i
tempi, fiòlo…», e se lo strinse a sé. E insieme guadagnarono – stretti stretti a passi lenti – la vetrata del ristorante. Eravamo al Fogolar Furlan. Me lo ricordo come fosse adesso. Appena fuori però – sulla ghiaia del piazzale – zio Adelchi richinò di nuovo il capo su Manrico, e gli disse piano piano ma convinto: «Hai ragione tu, però, nipote. Non ci avevo mai pensato. Ognuno ghéva le só razón. Sia lóri che nantri».
III Quello che più colpì mio zio Adelchi di Addis Abeba quando vi entrò per la prima volta alla testa delle truppe vittoriose subito dietro al maresciallo Badoglio, furono gli eucalypti. «Varda i calìps» disse al suo amico e compare Franchini di Cisterna che marciava al fianco suo – a passo romano e moschetto spall’arm – nell’ultima fila in fondo del plotone d’onore della compagnia
Camicie
nere
“Littoria”,
subito
dietro
alla
bandiera
di
combattimento: «Varda i calìps come ch’i vièn!». Era il 5 maggio 1936 e loro stavano nell’ultima fila perché erano i più alti. «Zitto e marcia, compa’» gli rispondeva però Franchini, «che qua ci puniscono un’altra volta.» «Ma guarda i calìps come sono grandi, Franchìn! Varda che bestie ch’i vièn.» Bestie appunto da quaranta metri d’altezza. Con dei tronchi che non ce la facevano due uomini grandi ad abbracciarli, e mio zio e il compare Franchini ci si provarono pure. Era tutto un bosco d’eucalypti Addis Abeba, una macchia scura in cui si nascondevano tra i tronchi le abitazioni e da cui emergevano in altezza – fra i rami e le fronde – solo i tetti e le coperture in lamiera dei palazzi più grandi e degli edifici pubblici. Mai visti prima, ripeto, eucalypti così, perché da noi -appena arrivati – non erano che piantine d’un metro, messe a dimora il giorno prima. Anche i miei zii erano andati a piantarli per conto dell’Opera nei mesi invernali – pagati a
giornata per integrare il reddito – lungo tutte le strade, fossi e canali. I primi furono proprio quelli in cima all’argine del Canale Mussolini, piante piccoline appunto, che facevano anche pena a vedersi, fragili e striminzite, con questi filini di foglie allungate come spine di pesce: «Ma sono foglie queste? Sono alberi?». Poi arrivi ad Addis Abeba e trovi queste bestie. «Orca!» aveva detto mio zio Adelchi. Lì ce le aveva fatte mettere nel 1896 l’imperatore Menelik II Negus d’Etiopia – subito dopo averci sconfitto ad Adua - perché i ginepri che c’erano prima s’erano seccati. «Qua non ci cresce più niente» pare gli avessero detto i tecnici nostri qualche anno prima, quando ancora andavamo d’amore e d’accordo. Poi invece avevamo cambiato idea rispetto all’amore e all’accordo, lo volevamo tutto noi l’impero suo. Allora lui ci aveva bastonato e al posto dei tecnici nostri erano arrivati quelli inglesi: «Prova gli eucalypti» gli avevano detto. «Proviamo» aveva fatto Menelik, e questi eucalypti si erano adattati lì meglio che a casa loro. Da noi nel 1935 – in Agro Pontino, quando zio Adelchi era partito per l’Africa Orientale – erano arrivati a quattro metri, che non è la fine del mondo ma che è comunque già un alberello, non più solo il cespuglio dell’anno prima. E tutti pieni di foglie odorose. E quando poi lui è tornato a casa due anni dopo, erano già più alti del podere: «Ma tu varda sti casso de calìps» diceva a tutti, ammirato, mio zio Adelchi. In realtà l’unica che li guardasse ammirata quanto lui era l’Armida – la moglie di zio Pericle – per via delle sue api che andavano pazze per questi eucalypti. Non le aveva mai viste così. Un miele da cui esalava un profumo che era la fine del mondo. Tutti gli ormoni in ebollizione, le api. Se vedevano una rosa la schifavano, oramai. Solo i calìps. E l’Armida s’era dovuta far fare due arnie nuove da zio Iseo
- che era il più bravo nei lavori di falegnameria – più una per la moglie di lui: «Ti insegno» le aveva detto, perché andavano d’accordo come due amiche, ancora più che sorelle. Insomma, arrivate qua e trovato questo eucalyptus cor le foglioline allungate e i fiori che sembravano pallini da caccia, le api erano impazzite dalla gioia, fottevano dalla mattina alla sera – «Brutte maiale», faceva l’Armida – e in capo a tre anni tutti gli alveari avevano figliato due o tre volte l’anno. Da una, adesso c’erano quattro arnie di legno con i tettucci ognuna d’un colore diverso, sotto l’argine del t anale Mussolini al confine del nostro podere 517. Lei però vada pure a chiedere in giro, non è solo un fatto di quantità, è che proprio non c’è – a questo mondo – un miele migliore di quello d’eucalyptus. Oggi gli eucalypti si trovano dappertutto in Italia e perfino foreste intere, o filari e fasce frangivento che non finiscono mai. Ma ogni eucalyptus che lei trova disseminato anche nella landa più sperduta e deserta della Sicilia o della Sardegna, è un segno permanente e tangibile di quella che allora si chiamava «Era Fascista». Altro che damnatio memo-riae. Non è stato sufficiente andare a togliere i fasci e le iscrizioni dai muri e dalle torri littorie il 25 luglio 1943. Se davvero volevi estirpare quel ricordo, bisognava solo andare a strappare ab radicibus – come dice Catone – ogni eucalyptus dal suolo patrio. In realtà ai tempi di Catone l’eucalyptus qua non c’era. Stava solo in Australia, dove ce ne sono seicento specie. In Europa lo portò James Cook, dopo averlo appunto scoperto lì nel 1770: «Che casso d’albero xèo, questo?» pare abbia detto anche lui – come mio zio Adelchi – ai suoi marinai ap pena sbarcato là. Fu il fascismo ad importarlo su larga scala e ad impiantarlo nelle zone di bonifica, perché è un grande assorbitore d’acqua, allontana le zanzare, ha crescita velocissima e fornisce un robusto legname da costruzione. Può arrivare anche a centotrenta metri d’altezza e campa sei o sette secoli come il cipresso.
Noi ne importammo due sole specie, ma la Milizia forestale le piantò dappertutto. Piantava solo l’eucalyptus oramai, e risultò subito vero che di acqua ne assorbiva. Ma in eccesso. «Troppa grazia, sant’Anto’» facevano i coloni. Era peggio d’un cammello. Tutt’attorno non ci cresceva più niente. Hai voglia a piantare grano o trifoglio e ad irrigare a profusione. Per quindici o venti metri dagli eucalypti non ci nasceva più un filo d’erba. Pure Attila sarebbe stato invidioso. Anche la crescita era veloce, e dopo i primi tre anni erano già arrivati intorno ai cinque metri. Ma anche questo non tranquillizzava per niente i contadini: «Più cresce e più beve, sto disgraziato». L’effetto balsamico si sa – se ne estrae l’eucaliptolo – ma le zanzare le attira come il miele; d’estate ancora adesso non ci puoi passare sotto che t’assalgono in picchiata gli stormi di vampiri. Sulla qualità del legno invece non so dire. In Australia ci pavimentavano pure le strade, in Agro Pontino lo abbiamo usato solo per la cellulosa o per il fuoco del camino. Una fiammata e via. Ma come fascia frangivento funzionava da dio. L’Opera combattenti s’era tenuta come sua proprietà queste fasce di terreno – larghe tra i cinque e i dieci metri - ai lati d’ogni strada, fosso, canale e confine d’appoderamento. E le aveva tutte piantumate ad eucalyptus. Così il vento – dal mare – non aveva più modo di razzolare, rinforzarsi e inturbinarsi indisturbato per la piana fino ai monti. Veniva franto man mano che passava e un po’ alla volta dominato, abbattendo la sua forza almeno del sessanta per cento, dai cinquanta chilometri in media all’ora a meno di diciotto. Adesso però non è più così. Se lei va da Latina ad Aprilia non vede più una pianta d’eucalyptus. L’Opera combattenti è stata soppressa. Era un ente inutile, dissero - di sicuro era un po’ fascista, non dico di no, o fasciocomunista – comunque l’hanno disciolta e le migliaia d’ettari di fasce frangivento sono passate alla regione Lazio ed ora le fasce non ci stanno più. Scomparse. C’è rimasta la
terra, ma le piante se le sono vendute tutte qualche anno fa alle ditte, che le hanno segate una ad una alla radice e poi se ne sono andate con i pezzi di tronco caricati sopra i camion. Cellulosa. Hanno lasciato per terra solo le foglie che il vento – il primo vento che dal mare s’è levato – s’è caricato bene bene insieme a un paio di vitelli e a qualche tetto, per scaricarli in cima ai monti Lepini nella prima e giuliva tromba d’aria che dopo tanto tempo d’astinenza s’è fatto. Adesso ogni anno ce ne toccano almeno tre o quattro di trombe d’aria, che spazzano la pianura, scoperchiano le villette, sventrano le serre, i capannoni e sradicano gli oleandri e le magnolie che la gente di città – ma pure i contadini – s’è piantata nel giardino di casa. Qualche pianta d’eucalyptus è pure rinata. Ma la maggior parte no. La gente gli è saltata addosso come al peggio delinquente. C’era chi faceva i buchi sulle radici con le punte lunghe dei trapani per poi buttarci l’acido o iniettare la benzina; chi gli dava fuoco tutte le estati; chi le radici le estirpava con i caterpillar. Non gli pareva vero di levarseli di torno. L’Opera combattenti aveva i fattori che passavano a controllare, e guai a chi toccava un eucalyptus. A questi di adesso invece non gliene frega niente, né alla regione né al comune. Anzi, al comune di Latina – che sono oltretutto postfascisti – appena ne incontrano uno gli sparano a vista. Non lo possono proprio più vedere. L’eucalyptus – che per il fascio era il monumentum perenne della bonifica – è diventato il nemico pubblico numero uno. Dicono che è un’essenza alloctona e che da queste parti le essenze vere e autentiche del territorio sono solo le querce, i lecci e qualche pino. Razzismo biologico. Gli eucalypti come gli extracomunitari. Però poi in tutte le aiuole, le rotonde, i rondò, i giardini privati – e soprattutto pubblici della città – al posto dell’eucalyptus che hanno appena giustiziato piantano una palma, una bouganville, un’ortensia, una magnolia, un canneto di bambù. Che vengono dall’Africa, dall’America tropicale, dall’Asia, dal Messico e dal Giappone.
Come pure – se lei ci pensa – i pomodori, i fagioli e le patate; per non parlare dei kiwi, di cui oramai l’Agro Pontino è il primo produttore mondiale, ne produciamo più noi che la Nuova Zelanda dove è nato. La verità è che l’alloctonia è una scusa, se no la prima cosa da sradicare sarebbero i giardini di Ninfa e di Fogliano -creazione d’una principessa Caetani, che s’era fatta venire apposta le essenze più esotiche da tutte le parti del mondo – vantati su tutti i dépliant come le meglio attrazioni ecologiche e turistiche del territorio. Quella s’era fatta impiantare un viale di palme tutto intorno al lago di Fogliano, per poterci andare a cavallo mentre i butteri suoi e il popolo delle Paludi si puzzavano di fame e di malaria in mezzo al fango. Il vecchio Benassi però – il padre di mio zio Benassi, che era mezzadro dei Caetani – diceva che non ci andasse a cavallo e basta la principessa, ma che ci andasse come Lady Godiva. Nuda. E se incontrava un buttero giovane e forte, lo sai tu quello che succedeva, diceva il vecchio Benassi. È per questo comunque che il film Scipione l’Africano vennero a girarlo qui, al lago di Fogliano; non per la principessa nuda, ma per le dune che somigliavano al deserto e soprattutto per le palme. Quando ero giovane io ci vennero a girare Sandokan con Ray Danton e Franca Bettoia, e pure Bora Bora. Mo’ le palme secondo lei sono autoctone? Le palme sì e gli eucalypti no? Ma non c’è una piazza a Latina in cui non mettano palme e non buttino giù eucalypti. Lei non ha idea dei salti di gioia che ho fatto io quando è arrivato il punteruolo rosso. C’è anche un po’ di giustizia a questo mondo. È la nemesi. La verità è che a loro l’eucalyptus – il Genius loci della bonifica – gli ricorda la povertà e la miseria da cui sono partiti. Tutti quelli che stiamo qui – non solo i Peruzzi – ci siamo venuti per la fame. Fossimo stati bene al paese nostro, saremmo rimasti là. Siamo venuti i senzastoria – i senzaterra con le pezze al culo – diseredati come quelli che popolarono già l’America e l’Australia. E ogni ricco qui – o politico, avvocato, uomo di successo – non è che un parvenu alla fin fine, un pidocchio rifatto figlio pure lui d’un esule con le pezze
al culo, che ogni volta che vede un eucalyptus si sente prudere quelle pezze. Invece di vantarsi si vergogna. E ammazza l’eucalyptus. Ma di che ti devi vergognare, dico io? Pure il primo dei Savoia non dev’essere stato che un bandito di strada, e l’ultimo canta a Sanremo. In ogni caso però mio zio Adelchi non era andato in Africa per vedere gli eucalypti, ma per conquistare l’impero. Qualcuno ci doveva andare e c’era andato lui. Anche questa cosa non se l’era ovviamente inventata per primo il Duce, ma appena fatta l’unità d’Italia tutti avevano cominciato a dire: «E mo’ a noi chissà che ci tocca». Essendo stati per tanti secoli dispersi e divisi, il mondo - ora che ci eravamo uniti – secondo noi si doveva mettere alla pecorina: «Siamo tanti, siamo forti e siamo poveri: fateci largo che arriviamo noi». È Francesco Crispi - la Sinistra – che incomincia l’avventura coloniale e rimedia quella scoppola di Adua da Menelik II. Dopo una botta di quelle, però, uno ci dovrebbe pure ripensare: «Forse non è il mestiere mio, forse è meglio che rimango a casa». Invece no. Proprio come i latinensi che appena gli dici «Eucalyptus» pensano che li stai insultando, così gli italiani di allora appena sentivano «Adua» si sentivano immediatamente in dovere di andare a vendicare l’offesa. Fino a adesso s’erano trattenuti, perché non c’erano proprio le forze. Ma ora che finalmente i treni arrivavano in orario, che il fascismo aveva sistemato tutto, che eravamo una potenza mondiale – e che soprattutto avevamo finalmente quest’Uomo inviatoci dalla Provvidenza e che tutto il mondo ci invidiava, o almeno così ci dicevamo tra di noi – be’, adesso era finalmente giunta l’ora di onorare la parola dei Padri e di andare a saldare quell’antico conto di Adua. E siamo partiti anche noi Peruzzi. Potevamo mancare? Noi in realtà non è che non avessimo proprio nient’altro da fare in Agro Pontino – c’era da lavorare come somari – però quella era la musica e su quella musica cantavamo tutti quanti allora: «Gli altri l’impero ce l’hanno tutti:
Francia, Germania, Inghilterra. Solo a noi non deve toccare mai niente? E che siamo, più fessi?». Ora io lo so benissimo che Francia, Germania e Inghilterra non fanno tutto il mondo, e che anzi tutto il resto del mondo non solo non ce lo aveva l’impero, ma era proprio ai danni suoi che quelli se lo erano andati a fare; e comunque non è giusto andarsi a prendere la roba degli altri. «Ma se lo fanno loro» dicevano però i miei zii, «perché non lo debbo fare io?» Gli vada lei a rispondere. Noi italiani avevamo bisogno di terra. Terra e materie prime. Avevamo solo braccia. Un popolo numeroso. Ma neanche un chilo di ferro o di carbone. Non parliamo dell’oro e del petrolio. E nemmeno avevamo terra per tutti. La gente nostra doveva emigrare altrove. Infine – e questo dovrebbe troncare ogni discussione – c’era la questione dell’Imperium. Come dice, scusi? Che cos’era l’Imperium? Be’, tanto bene non l’ho capito neanche io, ma provo a spiegargliela come la spiegavano i miei zii, che a loro volta gliel’aveva spiegata il Rossoni. L’impero in pratica non è il nudo fatto che lì c’è della roba e tu te la vai a prendere. Questo sarebbe solo furto, ladrocinio. L’Imperium è il sacrosanto diritto ad andarsela a prendere quella roba, e questo diritto è dato solo dalla concordanza delle tue azioni con quelli che sono i voleri più generali delle forze che governano il Cosmo. O almeno così diceva il Rossoni: se tu stai in un posto dove c’è il ben di Dio, oro, petrolio, ferro, carbone, terra da lavorare e fertilissima in quantità, però non sei capace di lavorarla e di utilizzare quelle materie prime, è come se per il Cosmo tutte quelle potenzialità venissero sprecate. Allora permetti che per lui Cosmo è giusto mandare qualcun altro a insegnare a te come si fa, e camminare così tutti quanti verso le umane sorti progressive? Questo è l’Imperium, il diritto di comandare secondo i voleri più generali, ultracosmici ed ultraterreni.
«E come si fa a riconoscere chi ce l’ha e chi non ce l’ha quest’Imperium?» chiesero i miei zii. «È semplicissimo» rispose il Rossoni: «Basta guardare un libro di storia». L’Imperium per lui non era un colombaccio che volava volava e si posava poi
sulla testa del primo che passasse. E mica si ferma dove capita. È una potenza del cosmo e nei libri di storia c’è scritto che la prima e unica grande volta che l’Imperium – l’aquila imperiale – ha lasciato le sedi celesti per posarsi finalmente sulla terra a dare vita a un’era di pace giustizia e progresso universale, è stato nell’antica Roma. Solo a Roma. A lei pare un caso? No. Se quello s’è posato a Roma, una ragione ultracosmica ed ultraterrena ci deve per forza essere, perché se no proprio lì e non da un’altra parte? La sede predestinata e fissa dell’Imperium è Roma. Come dice, scusi? E allora l’impero inglese e quello francese come si spiegherebbero? E che c’entra? Questi imperi erano usurpati. Che diritto avevano di prendersi ciò che non gli toccava? Loro mica avevano l’Imperium, mica erano stati scelti e predestinati dal cosmo. Erano usurpatori, perché gli scelti eravamo noi, i figli dei legionari romani – stessa stirpe stesso sangue – che guidati dalle aquile imperiali troneggianti sulle loro insegne avevano portato la pace e la civiltà in tutto il mondo. E a noi – che adesso avevamo finalmente un Uomo – toccava rialzare quelle insegne e imporre a tutti un nuovo ordine di pace e di giustizia nel sacro nome di Roma. E tutti giù a cantare: Sole che sorgi libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma: tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma, maggior di Roma!
Come dice, scusi? Che a lei questo discorso non sembra in realtà tanto convincente? Ah, non si discute. Pure a me se è per questo. Però lei permetterà che anche l’idea di dover andare a portare per caso – a tutti i costi e con i carri armati o le corazzate stellari – la democrazia in Iraq o in Afghanistan, o sui pianeti di
Orione, non mi pare molto più sensata. Anzi, dette così sembrano solo un mucchio di fesserie. Però ci credevamo e questo è ciò che conta – è questo il guaio – e il guaio ancor più grosso è che ci credesse per primo lui, il Duce: «Mì son un Omo e noi abbiamo l’Imperium: più forti de nantri ghe xè nisùni a questo mondo». Lei pensi che quando il Balbo tornò dalla trasvolata atlantica ed era tutto entusiasta dell’America – dove dopo gli onori gli avevano fatto vedere ogni cosa, e lui s’era innamorato – il Duce gli disse di mettersi l’anima in pace che prima o poi ci si sarebbe dovuti scontrare anche con loro. Balbo era sbiancato: «Ma Benito» – lui era l’unico che lo chiamasse ancora per nome e gli desse del tu – «ma tu hai idea della potenza economica che hanno quelli là? Quelli in un minuto ti fanno un’aeronautica dieci volte più grossa della nostra. Ci sommergono! noi siamo pigmei, confronti a lori». «Ma tasi, Italo! Còssa vòtu che sia la potènsa del loro oro contro quella del nostro sangue?» «Ah, va bèn» fece allora il Balbo, che poi uscendo chiese però piano piano al Rossoni: «Ma sta diventando matto? Ma fatelo vedere, fiòi». «El xè un Uomo, Ittalo!» gli rispose il Rossoni. In ogni caso anche il cardinale di Milano – ossia la chiesa cattolica – diceva che era sacrosanto e giusto conquistare l’impero in Abissinia: «Quelli sono eretici e noi nel nome di Roma cristiana li andiamo a redimere». E così partimmo con la benedizione sua e con quella di tutti i vescovi. E con tutti i cappellani appresso per giunta, che non solo parteciparono alle azioni di guerra ma si contraddistinsero per ardimento e valore – amor patrio – conquistando anche delle medaglie d’oro per «spezzare le catene degli schiavi e preparare la via ai missionari cattolici» dicevano, «che andranno a liberare milioni di anime riconducendole all’ovile di Gesù Cristo nel seno della chiesa cattolica».
Ora quanto fosse d’accordo Gesù Cristo con tutto questo, io non lo so. Però quello era il tempo e quelle erano le cose in cui credevamo, e in ogni caso è vero che fossero eretici. Non erano mussulmani come i somali o i libici. Gli etiopi erano cristiani ma copti – monofisiti – riconoscevano cioè solo la natura divina di Cristo e non quella umana. E da secoli e secoli avevano una loro civiltà, con scrittura, letteratura e opere d’arte. Avevano preti, chiese, vescovi, seminari e seminaristi. Dicevano la messa e facevano la comunione. E prima d’essere cristiani erano stati di religione ebraica, perché l’antico Negus Menelik I non era che il figlio di re Salomone e della regina di Saba, ossia d’Etiopia, e tutti i loro discendenti – i falascià – sono rimasti ebrei fino a ieri che se ne sono andati in Israele. Veda quindi un po’ lei se questo era un popolo senza una storia e se quella era una terra di nessuno. Noi però avevamo quest’Imperium che s’era rimesso a svolazzare sopra il colle fatale nostro di Roma e non gli potevamo dire: «Ahò, e va’ a volare da un’altra parte». Abbiamo preso e gli siamo andati dietro. Alla conquista dell’impero. E alla conquista dell’impero è dovuto partire pure qualcuno dei Peruzzi. Secondo lei potevamo restare a casa? Innanzitutto eravamo d’accordo pure noi, sia chiaro, che eravamo fascistissimi – e mi pare che sia chiaro anche questo – e se non ci andavamo noi in Africa, mi spiega chi è che ci doveva andare? Quando la Fiat in un’azione promozionale aveva regalato due trattori al fascio di Littoria perché li desse a qualche colono tra i più meritevoli dell’Agro Pontino, provi a indovinare a chi ne andò uno? Esatto: zio Pericle. Che poi però la prima cosa che fece fu andarselo a vendere: «Còssa ghe fàsso mì con un tratòr?». Ci si comprò due o tre bestie buone da latte – le prime olandesi bianche e nere – e ci fece altri investimenti. Mio zio Benassi non si poteva reggere: «Ma sei matto, Pericle? Tieniti questo trattore, tu non hai idea di cosa ci puoi fare, di quanto ti può rendere». «Ma che ne capisco io di macchine?»
«Ma ne capisco io» faceva Benassi: «T’insegno io». «Ah, no no, meglio le bestie. Mica fanno il latte i trattori.» Gente solo da vacche i Peruzzi. Per le macchine i Benassi. Tornando però all’Africa, se lei permette, a noi avevano dato un podere, anzi due per meglio dire. Anzi tre e pure quattro o cinque, se contiamo i Dolfin, i Lanzidei e i parenti della nonna. E tu non ti volevi sdebitare andando in Africa? Abbia pazienza, qualche Peruzzi ci doveva andare in guerra, e quando è arrivato a casa nostra, il Barany ha trovato le porte aperte. Questo Barany era un tecnico dell’Opera, un perito agrario coi fiocchi. Era nato a Paullo, tra Lodi e Milano, ma era di origini ungheresi. Difatti si chiamava Hindart Barany di cognome: Camillo Hindart Barany. Suo nonno se ne era partito a suo tempo dall’Ungheria per venire in Italia a combattere insieme a Garibaldi. Partecipò alla spedizione dei Mille in Sicilia. Poi è rimasto qua e Camillo – il nipote – è stato anche lui garibaldino in Messico e nelle Argonne, al comando di non so quale nipote di Garibaldi, qualche figlio di Menotti o di Ricciotti, non so. Credo che in Messico abbiano combattuto con Pancho Villa o con Zapata. Fatto prigioniero poi nella grande guerra 1915-18, evase dal campo di concentramento austriaco, tornò a combattere e dopo la guerra passò nell’antiguerriglia contro i libici, poi legionario a Fiume, squadrista e Marcia su Roma. Un vero patriota, e tra una guerra e l’altra faceva l’agronomo. Aveva partecipato alla bonifica di Maccarese, poi a quella di Mussolinia di Sardegna – ora Arborea – e alla fine in Agro Pontino. Insomma, o stava in guerra o faceva bonifiche. Tertium non datur. Ed era pure di religione ebraica. Era ebreo. Ebreo-ungherese. Che i miei zii a vederlo così – e chissà come si immaginavano che dovesse essere invece un ebreo – si dicevano sempre tra di loro: «Ghètu visto ‘l Baranì? Non sembra gnànca un zudèo». In Agro Pontino poi, tra una badilata e l’altra, tra lo squadro d’un terreno e la messa a punto d’una qualche nuova tecnica colturale, il Barany aveva messo
su con i coloni alcune attività al dopolavoro – una compagnia di teatro amatoriale che faceva quasi sempre commedie di Goldoni, un coro di canti folkloristici alpini – e soprattutto la locale e neonata compagnia Camicie nere della Milizia, la compagnia «Littoria». Pure i miei zii ne facevano parte e ogni sabato pomeriggio – il sabato fascista – andavano a fare le marce e le esercitazioni al Borgo o anche a Littoria. Lui gli diceva sempre: «Più siete in gamba qui, e più sarete in gamba nei campi. Avanti o camerati, eia eia alalà!». «Alalalà!» gli rispondevano i miei zii, sia perché erano fascistissimi come lui, sia perché gli volevano bene – e lui si sapeva far volere bene – e anche perché, non dico soprattutto ma certo nemmeno per ultimo, era l’agente agrario dell’Opera combattenti. Comunque appena è scoppiata la guerra d’Abissinia e ha sentito la voce della patria, il Barany non ci ha visto più: «La Patria chiama». Ha buttato all’aria tutti gli strumenti, gli squadri, le livelle, le provette dell’Opera combattenti ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia «Littoria» sua. Venne a prenderci casa per casa, podere per podere uno per uno: «All’erta camerati, a conquistar l’Impero! Chi viene di voi?». «Comandi, qualcuno vegnerà» rispondemmo tutti quanti. Non è difatti che si dovesse insistere troppo per trovare volontari a Littoria. Anzi, parecchi li rimandarono pure indietro: «Siamo troppi». Quelli – le ripeto – ci avevano dato la terra e mo’ che la patria chiamava, tu manco volevi rispondere: «Volontario!»? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo battaglione «M» della Rsi, fino alla X Mas. Ora lasci stare – le ripeto – che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, eravamo noi che andavamo ad invadergliela. Ma noi credevamo così, punto e basta, è inutile stare ad insistere, il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione.
E noi mandammo zio Adelchi: «Toca a lù stavolta» perché era l’unico, dei fratelli grandi, che non fosse ancora sposato e con figli. E «Toca a mì stavolta» aveva detto subito lui stesso peraltro – prima ancora che i fratelli parlassero -perché qui c’era da lavorare dalla mattina alla sera e un po’ d’avventura, pensava lui, e vedere il mondo non gli avrebbe fatto male. E così quando il Barany venne a casa la sera a dire «Chi viene?», zio Pericle non lo fece neanche parlare e gli chiese solo: «Andrebbe bene l’Adelchi?». «Certo che va bene l’Adelchi» rispose Barany, perché gli stava simpatico. E poi, diciamoci la verità, zio Adelchi era fatto proprio per la divisa. Ai Peruzzi le bestie – come si suole dire – ai Benassi i trattori, agli Adelchi i galloni. A zio Adelchi la divisa era sempre piaciuta. Fin da bambino non aveva fatto che dire alla madre, mia nonna: «Da grande voglio diventare carabiniere». O non so se fosse stata proprio lei, invece, a dirgli da piccolo: «Ah, tu bisogna proprio che fai il carabiniere». Lui era il cocco della nonna, il preferito. Lei se lo ricorderà sicuramente, era alto e moro moro. Nella nostra famiglia o biondi o mori – alternati quasi ogni due anni, maschi e femmine – un biondo ed un moro, un biondo ed un moro: zio Pericle biondo e zio Adelchi moro moro. E anche da piccoli non è che si prendessero molto, lo riempiva di pugni in testa mio zio Pericle, che invece era legatissimo a zio Iseo, quello venuto subito dopo zio Adelchi. La forza d’un leone però ce l’aveva anche zio Adelchi, e le spalle ampie, il sorriso largo sui denti bianchi, il viso perfetto con le ciglia scure, i capelli neri foltissimi col ciuffo ad onda che portava sempre da una parte – una criniera appunto, sempre curata e lucidissima di brillantina Linetti – e lo sguardo allegro e fiero che diceva al mondo: «Mondo, son qua per far contento te». E con questo sguardo -diceva mia zia Bìssola – pare che fosse uscito direttamente, già a suo tempo, dal ventre di sua madre. Come si faceva a non innamorarsene?
Ora zio Adelchi lo sapeva benissimo, naturalmente – e lo sapeva benissimo anche mia nonna – che non era lui il primogenito. Il primo maschio da noi – quello in cui immediatamente dopo mio nonno risiedeva la massima potestas era zio Temistocle, e il fatto che sua moglie non piacesse a mia nonna era secondario. Non le piaceva però se la teneva, era lei – volere o volare – la donna che avrebbe preso il suo posto. Poi appena arrivati qui e avuti due poderi e mio zio Temistocle il suo tutto per lui, mia nonna non ci aveva pensato un attimo a dirgli: «È il tuo e fai tutto per te, per parte tua». Lui aveva pure tentennato: «No, no, mamma Siamo una famiglia sola, siamo pure tanti, continuiamo a fare tutti insieme una famiglia sola». «No, no, è giusto così» e mia nonna dentro di sé era al settimo cielo, perché con la moglie di Pericle invece andava d’amore e d’accordo, come ci andavano anche tutti i cognati eccetto le femmine. E così zio Temistocle aveva fatto famiglia per conto suo e a quel punto – come è giusto che fosse – subito dopo mio nonno la potestas era passata a zio Pericle, senza neanche bisogno di dirlo. Lo sapevamo già tutti. Lo sapeva quindi pure zio Adelchi di essere solo il terzo maschio, e mai gli è passato in mente di porlo in discussione. Anzi, quando appena divisi con zio Temistocle, zio Pericle aveva detto: «Va bene, mamma, adesso siamo qui, e terra nuova vita nuova. Da oggi in poi tutti i più giovani bisogna farli studiare, debbono diventare qualcuno, perché nessuno possa più imbrogliare i Peruzzi come hanno fatto gli Zorzi Vila», subito zio Adelchi aveva fatto cenno di sì, che lui era d’accordo. Pure il nonno da un canto diceva di sì con la testa. Solo mia nonna provò a dire: «Ma i schèi? Quanto ne costerà? Come faremo?». «Faremo, faremo!» disse subito zio Adelchi, manco l’idea fosse stata la sua. «E se n’i gà la testa?» «Gliela faccio venire io a calci.»
E fu così che mandarono i miei zii più giovani a scuola. Quando stavamo su, sì e no che si faceva la seconda o terza elementare. Invece qui – finite le elementari al Borgo – ci mandarono tutti i giorni a Littoria in bicicletta, creature di dieci o dodici anni come zio Cesio e zia Ondina, sotto l’acqua d’inverno. E quando facevano storie, davvero zio Adelchi ce li mandava a calci: «L’è pel vostro bèn, desgrassià». «Ma mì ago fredo!» «Viaaa!» mandava uno strillo acuto allora, perché quando strillava – non so se gliel’ho detto – la voce gli si faceva aguzza. Lui però era raro – e questo sì che gliel’ho detto – vederlo con le braghe sporche di terra, la camicia sudata e soprattutto la zappa o un forcone in mano. Aveva sempre qualche altra faccenda più importante da sbrigare – nell’interesse di tutti, naturalmente – una commissione dal fattore, le sementi da controllare, un attrezzo da portare a riparare. Sembrava lui il fattore e ogni mattina – ancora quando stavamo su, in Altitalia – era sempre un cane arrabbiato. Piombava già rasato nello stanzone delle femmine che ancora non aveva iniziato a lumeggiare – alle cinque, cinque e un quarto al massimo, quando appena si vedeva un piccolissimo chiarore farsi strada tra le nebbie – e strillava con quella voce aguzza: «Sveglia ragasòle! che il sole l’è già alto» girando tra le brande a scoprire le sorelle, a togliergli di dosso le coperte. «Sveglia! che ghe xè d’andare a lavorare.» Le sorelle lo odiavano. Pericle lo adoravano invece, però era lui – l’Adelchi – il vero custode della famiglia, quello che faceva la guardia e le controllava: «Chi è quel là? Chi è quel’altro?». Fosse stato per zio Pericle, ne avremmo avuta una mandria di vitelli spuri. Comunque all’Adelchi piaceva la divisa – o piaceva a mia nonna? non si saprà mai più, oramai – e non gli piacevano molto i lavori manuali; preferiva, diciamo così, quelli di comando o di concetto, più comando però, e aveva
fatto la domanda per partire carabiniere già all’età di quindici o sedici anni, quando ancora stavamo su. A quei tempi si partiva presto e lo avevano chiamato. Mia nonna era tutta contenta: «Ah, Delchìn, Delchìn, te và carabignèr!». Ma quando è stato là – in questa caserma di non so quale città, ma lontana lontana da casa, lui che era grande e grosso come adesso ma pur sempre una creaturina di sedici anni che non aveva mai visto altro che le merde di vacca e le nebbie del Polesine – s’è messo a piangere a dirotto ogni sera sotto le coperte dentro la camerata. Passa una sera, passa un’altra, è venuto a saperlo il comandante di compagnia: «Ma perché piangi? T’ha fatto qualche torto qualcheduno?». «A vòjo mè màma» ha detto zio Adelchi, e quelli lo hanno rispedito a casa: «Va’ da tua mamma, va’». I fratelli lo hanno preso in giro per anni e quando poi lo hanno chiamato a militare in fanteria per il servizio di leva a vent’anni, non facevano che dirgli, prima di partire: «Oh, non stare a piangere», e lui si vergognava. Però era cresciuto oramai, questa volta non ha pianto e a militare ha preso anche la licenza elementare. La mamma gli mancava uguale, però non ha più pianto. E adesso finalmente - che aveva trent’anni, era alto e grosso e si trattava di andare con il Barany in Africa a pigliare l’Abissinia – ha proclamato: «Ah, stavolta vàgo mì». «Prego, accomodati» hanno detto i fratelli, e lui è partito con il Barany e la compagnia “Littoria” delle Camicie nere: «Cosa volete che sia, conquistare un impero?». Ora però, come lei sa, questa conquista dell’Abissinia non fu esattamente una passeggiata. Noi avevamo un esercito moderno – o almeno così pensavamo – con artiglieria, autocarri, cannoni, mitragliatrici, mezzi corazzati e soprattutto aviazione. Eravamo in fin dei conti quelli che avevano appena trasvolato l’Atlantico. Loro invece avevano due aerei in tutto ed anche fucili moderni, mitragliatrici e qualche cannone comprato all’estero; ma avevano
soprattutto lance, spade e si muovevano a orda. Con tutto questo ci mettemmo otto mesi per arrivare dal confine eritreo fino ad Addis Abeba. Ci fecero penare. Per piegarli – come si dice - dovemmo fare uso dei gas, arsine e iprite, lanciati con i fusti dagli aerei o sparati coi proiettili dai cannoni. Una manna, che a chi la riceve gli fa subito delle piaghe su tutta la pelle, sugli occhi e nei polmoni. E a seconda di quanta ne ha presa, può morire in due ore o una settimana. Non so cos’è meglio. Zio Adelchi – per la verità – diceva di non averla vista l’iprite: «No, mì i gas n’i gò visti». Però diceva pure che per la ferocia che c’era in giro, se era vero che ce li avevamo allora era anche vero che li avevamo usati: «Se avessimo avuto l’atomica, nantri ghe butavàm la tòmica». Si sono difesi con le unghie e con i denti. Glielo abbiamo dovuto strappare palmo a palmo il loro impero. Ed erano incazzati neri. Se cadevi prigioniero in mano a loro, ti cacciavano gli occhi e ti eviravano, ti strappavano con le spade e coi pugnali i gioielli che avevi tra le gambe. Anche noi però non è che scherzassimo. Una volta che all’Asinara, in libera uscita – dopo essere stati al casino a puttane – mio zio e il compare Franchini cammina cammina erano arrivati al campo d’aviazione e avevano visto uscire il figlio del Duce, Vittorio, che era appunto un aviatore, gli erano andati intorno insieme agli altri soldati. Quello s’era messo a raccontare: «L’abissino è un animale e sa nascondersi bene. Uno col fucile stamattina correva verso sud. Una bella sventagliata e era a terra. Una caccia isolata all’uomo, ogni apparecchio nostro frugava ogni buco annusando l’abissino». Il meglio però erano le bombe incendiarie: «Un lavoro divertentissimo. Le bombette incendiarie danno soddisfazioni: almeno si vede fuoco e fiamme. Una grossa zeriba, circondata da alti alberi, non riuscivo a colpirla. Bisognava centrare bene il tetto di paglia, e solo al terzo passaggio ci riuscii. Quei disgraziati che stavano dentro e si vedevano bruciare il tetto, saltavano fuori come indemoniati», e rideva.
«Ah, è proprio il Figlio dell’Uomo!» disse entusiasta il compare Franchini di Cisterna. «Casso dìsito, Franchìn?» fece mio zio. Fatto sta comunque che nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1936 – cinque mesi dopo che era iniziata l’avanzata – il comandante della compagnia «Littoria» Camillo Hindart Barany, di religione israelitica e di origini ebreoungheresi, bonificatore di Maccarese, di Mussolinia di Sardegna, di Littoria e dell’Agro Pontino, morì in Abissinia nella conquista dell’Amba Aradam. Aveva quarantasette anni e nell’antica Roma il legionario, arrivato a quarantacinque anni d’età, veniva posto in congedo. Barany peraltro era già stato ferito ad Abbi-Addi, ma appena curato e dimesso dall’ospedale aveva rifiutato la licenza che gli toccava. Aveva voluto tornare subito a combattere, anche col braccio ingessato, appeso al collo con una fascia. È così che è morto ed è per questo che gli hanno dato la medaglia d’oro alla memoria e noi gli intestammo subito il Distretto militare e il gruppo rionale del partito fascista alle Case popolari. Sul frontone del Distretto c’era scritto proprio: “Caserma Camillo Baranj”; con la j però, non con la y. Dopo la caduta del fascismo la scritta venne cambiata -epurata – e al posto suo ci andò “Caserma G. Mameli”, che però è un po’ più corto di “Caserma Camillo Baranj”. E io da ragazzino ogni volta che passavo di sotto mi chiedevo: «Ma
perché questa scritta non l’hanno fatta al centro?». Ora hanno levato anche Mameli e non ci si pensa più. Non c’è più nemmeno il Distretto, ci hanno messo l’università e da quel frontone hanno cancellato tutto. Anche il gruppo rionale Pnf “Barany” non c’è più. Il 25 luglio 1943 nessuno andò a toccarlo. Nessuno difatti a Littoria toccò niente il 25 luglio, neanche un fascio di marmo sopra i muri, neanche un busto del Duce – fummo gli unici in tutta Italia, sempre probabilmente per la storia del debito e della terra – dalle altre parti invece già dalla mattina alle sei la gente stava con gli scalpelli in mano. E nessuno quindi toccò neanche la sede del gruppo “Barany”. Ma
dopo una settimana e visto che nessun altro veniva però nemmeno a riaprirselo – e sentito soprattutto che da dietro la saracinesca esalava un fortissimo odore di formaggio, odore che aveva già inondato tutta la piazzetta mentre in giro c’era una fame, la fame cosiddetta di guerra, che ti correva appresso lei con la forchetta e il coltello in mano – tutte le donne delle Case popolari si sono date una voce e hanno buttato giù la porta. E dentro era pieno di forme rotonde di formaggio grana, provolone e parmigiano. Pieno in ogni stanza. E loro hanno fatto provvista. Pareva l’assalto al forno di Renzo Tramaglino, con la gente che strillava: «Guarda questi qua, noi a morire di fame e loro a nascondersi il formaggio». Mio zio Adelchi però diceva che il formaggio lo tenessero lì pronto per una distribuzione da farsi a breve. Poi vai a sapere. Comunque Barany non c’entra con il formaggio e se pure è chiaro che tu non ti potevi tenere un gruppo rionale del Pnf, è anche chiaro però che questo Camillo Barany qualche cosa a questa città e al suo Paese l’ha data; non sarà stato giusto e sarà stato sicuramente sbagliato, ma quando è morto in Africa stava alla testa di centinaia di soldati-contadini littoriani come lui. C’erano pure i miei zii là in mezzo e chissà quanti nonni e zii – bonificatori dell’Agro Pontino e fondatori di Latina-Littoria – di tutti noi. Lares et Penates. Come dice, scusi? che il Barany però era un fascista? Ho capito. Però è sempre un mio Antenato e quella notte che è caduto c’era pure mio zio Adelchi con lui sull’Amba Aradam. O meglio, non proprio sopra ma sulle falde. Sopra c’erano ancora gli etiopi – e tutto intorno – e se mio zio diceva di non avere mai visto i gas, diceva però anche che quella notte sull’Amba Aradam, nascosto in una fossa col compare Franchini, aveva sentito a un certo punto, a un rapido mutare del vento, un forte e persistente puzzo d’aglio e di cipolla che, lei sa, è l’odore appunto dell’iprite. Faceva freddo quella notte sull’Amba – anche se febbraio, lì, è come agosto qua da noi – e zio Adelchi e il compare Franchini avevano appena visto
cadere un paio d’ore prima il loro comandante Barany. Pure loro avevano partecipato ai corpo a corpo, con mio zio Adelchi che ogni volta gridava, con quella voce aguzza: «Bruti marocàssi maladéti», furioso più che di rabbia, di terrore. E avevano schivato le lance e i colpi di spada. Sparato e inferto colpi con la baionetta nel ventre dei nemici, calpestandoli poi, per poter affrontare i prossimi e andare avanti. E avevano visto altri compagni cadere al fianco loro, quelli con cui avevano spartito poco prima il rancio o la grappa. Adesso nella forra – in una pausa del combattimento, nell’odore di cipolla e della polvere da sparo, negli echi dei colpi di cannone e delle granate che su qualche altra balza o forra continuavano ad esplodere; con la bocca secca e riarsa, e con il senso di viscido oleoso che lasciava il sangue altrui sulle tue mani – mio zio e il compare Franchini percepirono di colpo il freddo. Prima – durante il combattimento – non avevano sentito niente, con la bava alla bocca e le forze centuplicate: «O la vita tua o la mia». Adesso però – nel freddo – mio zio e il compare Franchini si ritrovarono a tremare. Un tremolio convulso, irrefrenabile. «Qui dobbiamo cercare di riposare» disse allora mio zio Adelchi, «se no domani come facciamo a riportare a casa la pelle un’altra volta?» Così si sedettero vicini stretti stretti nel fondo della forra, si sciolsero le fasce dei gambali, si tolsero le scarpe che erano tre giorni che non se le levavano, si strinsero ancor più vicini l’un con l’altro, tutti e due tremanti e infine – l’un con l’altro – si tirarono vicendevolmente una pippa e si placarono. Il tremito se ne andò e spalle al crinale, fucile col colpo in canna a portata di mano, riuscirono a riposare. Si svegliarono di soprassalto qualche ora dopo – tra la notte e il giorno, al primissimo chiarore in mezzo ancora a tutti i rimbombi di bombe e di cannoni di qua e di là della forra – al piccolissimo frusciare d’una foglia, il viso d’un nero che li guardava sorpreso tra i rami d’un cespuglio, a tre o quattro metri da loro. Senza neanche stare a pensare di chiedergli o chiedersi se era dei
nostri o dei loro – perché ce ne erano tanti pure dei nostri là sopra, mica solo dei loro: ascari eritrei somali e libici e pure abissini di qualche tribù dissidente assoldata a talleri, a schèi – «Pam, pam!», hanno cancellato sull’istante quella faccia dalla terra. «Va’ in malora, va’!» ha detto zio Adelchi. «Un’altra volta avvisa» ha aggiunto il compare Franchini. Però erano freschi e riposati. Pimpanti. Si rimisero le scarpe e via, pronti a scannare di nuovo quanti più cristiani – anche se copti – possibile, pur di non farsi scannare da loro. Che altro dovevano fare? A la guerre comme à la guerre. Chi non ci vuole andare rimane a casa. Che c’è da ridere, però? Come dice? Se mio zio e il compare Franchini erano amanti? Ma cosa le salta in mente, non si permetta! Non che ci sia qualcosa di male, Dio ne scampi, non ho pregiudizi ed oggi è consentito tutto. Però il compare Franchini non lo so, ma mio zio di certo non era omosessuale, sta scherzando? Erano solo buoni amici e si chiamavano «compari» perché s’erano ripromessi – tornati a casa – di farsi l’un l’altro da compare quando si fossero sposati e quando poi fossero arrivati i figli. Erano soldati assieme – in guerra, camerati – e di questa cosa non hanno proprio più parlato, ciascuno la sapeva ma nessuno la diceva, che se la ridicevano a fare? Cosa vuole che contasse? È omofilia eroica, stop. Un esorcismo della morte. Un rito magicoreligioso di preparazione al combattimento. Come Achille e Patroclo alla guerra di Troia. Secondo me. Comunque presero l’Amba Aradam, la porta dell’Abissinia – Ianua Aethiopiae – e davanti a loro si spalancò la strada per Addis Abeba. Non era esattamente l’autostrada del Sole e per questi cinque o seicento chilometri ci abbiamo messo altri due mesi e mezzo, irrorandoli però bene bene di arsine e di iprite, quella famosa manna che aveva mandato il Duce. E nel pomeriggio di un giorno di maggio -sfilando in un bosco continuo di stupendi eucalypti – mio zio Adelchi entrò in Addis Abeba.
Tutti gli altri miei zii quel giorno invece – maschi e femmine, eccetto qualcuno che dovette restare per forza a casa perché, come lei sa, impero o non impero le vacche debbono bere ed essere munte ogni mattina e sera che Dio manda sulla terra – erano entrati con la littorina alla stazione di Roma, e la sera stavano assiepati stretti stretti con tutti gli altri in mezzo alla piazza sotto palazzo Venezia, a gridare «Du-ce Du-ce Du-ce» ancora prima che lui s’affacciasse. Poi s’è affacciato e ha detto: «Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani e amici dell’Italia al di là dei mari: ascoltate! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa: “Oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose sono entrato in Addis Abeba”. Durante i trenta secoli della sua storia, l’Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la pace è ristabilita».
E loro di nuovo: «Du-ce Du-ce Du-ce». E come loro pure tutti gli altri in Italia, davanti agli altoparlanti della radio dopo che per tutta la giornata le campane delle chiese e le sirene delle officine avevano chiamato in piazza il popolo italiano. Manco ai mondiali di Spagna. E quattro giorni dopo ci sono ritornati – ed erano ancora di più e ancora più stretti – e il Duce ha detto: «Levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro, e i cuori a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma». E loro di nuovo: «Du-ce! Du-ce! Du-ce!». Lei
capisce che una cosa così non capita tutti i giorni e tutti in Italia avevamo il cuore che andava a mille: «Orcocàn, xè proprio un Uomo» e anche mio zio Adelchi si credeva davvero che la guerra fosse finita. Invece non era finita per niente. L’impero era nostro, ma quelli ancora credevano di no e si ribellavano. C’erano sì un sacco di ras che a suon di talleri ci eravamo comprati, e nelle regioni loro potevi stare relativamente tranquillo; ma in ogni zona c’era sempre qualcuno che i talleri non li aveva voluti e ci faceva la guerriglia. Attaccavano i reparti nostri un po’ isolati o anche distaccamenti e postazioni – noi li chiamavamo «banditi» – e guai se trovavano qualcuno proprio da solo, gli facevano il servizio completo di
tortura, accecamento, evirazione e te lo lasciavano lì, morto stecchito e ignudo al sole. È chiaro che noi dopo dovessimo fare delle rappresaglie, e questa storia è andata avanti fin che siamo rimasti lì. Mio zio raccontava di quella volta che erano aggregati a una compagnia di carabinieri – a lui non gli pareva vero: «Son stà carabignère anca mì» diceva a tutti mentre gli camminavano a fianco, senza però precisare che s’era messo a piangere – e hanno circondato un villaggio di tucul perché nella zona c’era stato un atto di guerriglia. «Fermi tutti, non fate un passo di più e sparate a volontà solo al mio ordine» gli ha detto il capitano dopo averli messi bene bene tutti in circolo. Poi ha fatto incendiare il villaggio e ha dato ordine di sparare su tutto quello che tentasse di scappare: uomo, donna, bambino o capra che fosse. Un’altra volta invece – che avevano trovato uno dei nostri ammazzato su una strada in mezzo all’altopiano – sono andati nel villaggio più vicino e il caposquadra, quello di Sezze, il sergente Apàss, ha fatto chiamare il capo del villaggio e davanti a tutti gli indigeni schierati ha chiesto di consegnargli il responsabile: «O lui o te». «Non lo so chi è stato» ha risposto il capo del villaggio all’ascaro che fungeva da interprete. «Va bene così» ha tagliato corto il caposquadra nostro e lo ha fatto uscire – con tutto il villaggio dietro – dal cerchio dei tucul e arrivare fino a un grande termitaio lì vicino. Gli ha ordinato di scavare una buca alta quasi quanto lui, ce lo ha fatto scendere dentro – ritto in piedi – e lo ha fatto ricoprire. Solo la testa era rimasta fuori. Il sergente ci ha versato sopra del miele e gliel’ha impiastrata tutta. Come hanno sentito l’odore del miele, tutte le termiti sono uscite fuori di corsa. Se lo sono mangiato. E mentre i nostri già venivano via, si sentivano le ultime sue urla. «Però la guerra è guerra e l’antiguerriglia si fa così, che altro dovevamo fare?» diceva a noi ragazzi il compare Franchini,
quando veniva a trovare mio zio Adelchi e si mettevano – tra grandi risate – a ricordare i bei tempi andati: «Se no come lo mantieni un impero?». A compiere le rappresaglie non erano però solo i soldati o le camicie nere – che poi dico «camicia nera» ma la camicia nera lì se la levarono appena arrivati dall’Italia a Massaua, al porto, e si misero le divise coloniali come l’esercito perché se no scoppiavano, sotto il sole – erano soprattutto i civili: gli impiegati, i bottegai, i camionisti che erano già arrivati in quantità dalla madrepatria. Furono i civili che fecero la gran parte del lavoro di quei tre giorni di carta bianca subito dopo l’attentato a Graziani. Giravano armati per Addis Abeba coi manganelli, le sbarre di ferro e le taniche di benzina. Mio zio vide un camionista atterrare un vecchio nero con un colpo di mazza, e poi trapassargli la testa da parte a parte con la baionetta. Un altro – un architetto che era lì non so se per il piano regolatore della nuova Addis Abeba imperialfascista o solo per alcuni edifici – una sera si lamentava che gli faceva male tutto il braccio, a furia di lanciare granate. Comunque Graziani – il Viceré che era succeduto a Badoglio – non si fece niente, o meglio, gli dovettero solo togliere 350 piccole schegge che s’erano fermate a livello cutaneo. L’attentato costò sette morti e una cinquantina di feriti. Era il 19 febbraio 1937 – un anno dopo la conquista dell’Amba Aradam – e un gruppetto di giovani intellettuali abissini che avevano studiato in Europa approfittò del ricevimento organizzato per festeggiare la nascita del figlio di Umberto di Savoia, vivallui. Arrivarono in due, salirono su una palazzina, buttarono otto bombe Breda e scapparono. Fuori c’era un altro che li aspettava con la macchina. Scattò subito la rappresaglia nostra. Tre giorni di dolore per Addis Abeba. Non si vedeva più un nero in giro, come le ho già detto. Non si sa quante migliaia di morti. Chi dice seimila. Chi trentamila. Comunque, passata qualche settimana, il servizio informazioni comunicò a Graziani che dietro il complotto c’era il clero abissino – «Sono i preti copti, sono loro che hanno
organizzato tutto» – e che i due attentatori, quel giorno, sarebbero stati portati a Debra Libanos, il più grande santuario copto-abissino che era una specie di Lourdes nostra, o San Pietro a Roma, con migliaia di fedeli che affluivano ogni giorno da ogni parte dell’Etiopia. Da lì avrebbero poi raggiunto le bande partigiane
per
riparare
infine
in
Sudan.
E
allora
partì
l’ordine:
«Rappresaglia!». Erano passati tre mesi dall’attentato e mio zio Adelchi e il compare Franchini stavano tranquilli negli acquartieramenti. In un giorno di maggio però li hanno caricati sui camion e in serata – insieme ai colleghi loro – hanno circondato Debra Libanos, che era costituita da due grandi chiese in muratura e un migliaio di tucul in cui abitavano i religiosi. Nei giorni seguenti hanno fatto tutto un mucchio di questi preti, sottopreti, vescovi, abati, diaconi, seminaristi, studenti di teologia, chierichetti, monache, suore, educande e qualche pellegrino, e ne hanno portata una parte sulla riva di un canyon lì vicino – nella piana di Laga Wolde – in fondo al quale scorreva un fiume che era quasi secco. Li hanno fatti mettere in fila sullo strapiombo e con le mitragliatrici li hanno falciati tutti. Poi sono passati a dare i colpi di grazia, una spinta e giù nello strapiombo. Era il 21 maggio 1937 e alle quattro del pomeriggio lì da loro -da noi saranno state le tre – era tutto finito. Mio zio stava in un plotone di guardia messo di fianco alle mitragliatrici e doveva sparare con il moschetto a quelli che eventualmente provassero a scappare. «Ma questi sono preti, compa’» faceva il povero Franchini. «Sì, ma i xè rètici! Non l’hai sentito il cappellano? Tasi e spara Franchìn, non star farte sentire che qui ne cópa a nantri.» Quelli avanzati invece – l’altra parte che era rimasta sotto sorveglianza a Debra Libanos – li abbiamo portati cinque giorni dopo a Engechà, verso Debra Berhàn, dove avevamo già scavato con le ruspe due grandi fosse. Ce li abbiamo messi davanti – erano quasi tutti diaconi questi: ragazzini, giovani seminaristi – e anche loro con le mitragliatrici e via.
«Ma questi so’ preti compa’, so’ chierichetti» continuava a fare piano piano, sconsolato, Franchini. «Tasi Franchìn, tasi, maladéto!» imprecava mio zio. L’avessero fatta a noi cattolici una cosa così, staremmo ancora a pregare tutti i giorni in piazza san Pietro. Li avremmo fatti tutti santi e io non la vorrei disilludere, ma guardi però che tra portare la democrazia in giro sulle canne dei fucili e portarci gli imperi, non c’è poi tanta differenza. Pure il Duce diceva di farlo per il bene loro: «Agh portèmo la civiltà». Ora poi – come lei sa – in quell’impero non trovammo un solo chilo di ferro o di carbone, neanche una materia prima, non parliamo del petrolio. Petrolio ce n’era quanto ne avremmo voluto in Libia, ma non ci riuscì mai di trovarlo. Lo trovarono solo dopo. E anche di terra per farci emigrare i contadini ne trovammo quasi quanta l’oro il ferro il piombo, ossia niente. Le terre fertili erano poche, la maggior parte era pietraia. Dia retta a me: la prossima volta che l’aquila imperiale – con tanto di Imperium tra gli artigli – si rimette a svolazzare sui colli fatali nostri, ci conviene chiamare a raccolta l’Arci-caccia e farle sparare subito come al peggior colombaccio. In Agro Pontino intanto – nel podere 517, sulla strada Parallela Sinistra che costeggia il Canale Mussolini – dentro la cucina a piano terra mia nonna, il 21 maggio 1937, verso le due o due e mezza del pomeriggio era sola in casa, tutti gli altri stavano in campagna e lei s’era messa a filare la lana vicino alla finestra. Ai suoi piedi, il cane ed il gatto giocavano nella cesta; da noi i cani ed i gatti hanno sempre dormito e giocato assieme, sempre convissuti benissimo; solo i cristiani un po’ meno. A un certo punto – al «Toc, toc, toc» dell’orologio a pendolo attaccato al muro – s’era appisolata, col filo della lana posato in grembo. Pure il cane ed il gatto – nella cesta – addormentati. Il sonnellino di mia nonna subito si fece duro però quel giorno, e subito le venne in sogno un manto nero, un manto che come asfalto la copriva tutta, impedendole di respirare. Lei faceva: «Ah! Ah!», e
tentava di annaspare l’aria. Ma le mancava proprio il fiato, le bruciava la gola. Credeva di morire e sapeva – ed è per questo che poi non se l’è scordato più – lei sapeva nel sogno di stare sognando e si voleva svegliare, ma non ci riusciva, quel manto nero la copriva sempre più: «Mariavèrzine son drìo morire!» ha pensato e s’è raccomandata, pure in sogno, l’anima a Dio. All’improvviso è però entrata di corsa in cucina l’Armida, la moglie di zio Pericle, urlando: «Còssa ghe xè?». Così mia nonna s’è svegliata – o meglio, è finalmente riuscita a svegliarsi, a strapparsi al manto – e all’improvviso s’è svegliato anche il cane, «Cài càiiiii», e pure il gatto, «Miàààà», e sono scappati via come il fulmine. Fuori si sentiva il «Vhùùùùù vhùùùùù vhùùùùù» di migliaia d’api che vorticavano. È per seguire loro che l’Armida aveva gettato la zappa in mezzo alle bietole – «Dove va quella, sempre dietro alle sue api?» avevano brontolato le cognate -ed era corsa in casa. «Un manto nero, agò sognà un manto nero nero, credevo di morire» ansimava mia nonna, ed ha guardato dietro di sé l’orologio a pendolo per vedere l’ora. Erano quasi le tre e mio zio Adelchi al canyon di Laga Wolde – in Africa Orientale – aveva appena finito di tirare l’ultimo colpo di moschetto ai preti e chierichetti che avevano tentato inutilmente la fuga. Cinque giorni dopo se lo è risognato. Era prima mattina – quasi in dormiveglia – e allora ha preso proprio paura: «Due volte in pochi giorni? Deve essere successo qualcosa. Dio, il mio Adelchi!». S’è fatta portare al Borgo ad accendere una candela in chiesa e dopo qualche giorno è arrivata la lettera che lui stava bene, che il servizio era quasi alla fine e che tra un mese al massimo sarebbe tornato a casa. «Dio te ringràssio» ha detto mia nonna. Io non vorrei però che lei pensasse che ci sia – come dire -una sorta di conto aperto tra noi e i preti, per cui ogni volta che un Peruzzi incontra un prete, piglia e lo ammazza. No, non è così. È stata una fatalità. Siamo – come tutti – fuscelli nel vento del destino. Andiamo dove quel vento ci porta. E arrivati lì
facciamo – ogni volta – quello per cui quel vento ci ha portato. Ma non siamo noi ad avercela coi preti. Anzi. Mia nonna – appena arrivati qua – subito la prima domenica s’era fatta portare al Borgo col carretto, per poter andare alla messa. E poi la domenica dopo e le altre ancora. Mio nonno la scaricava davanti alla chiesa e se ne andava all’osteria. Poi quando la rivedeva arrivare da lontano diceva agli amici: «Aspettate che vengo subito». La riportava a casa e tornava indietro, e così per qualche settimana. «Chissà cosa le è preso» pensava mio nonno. Lassù in Altitalia le capitava una volta ogni tanto di voler andare a messa. Dava qualcosa al prete e pure ai frati quando venivano in cerca, ma a messa ci andava anche lei quasi solo a Pasqua e a Natale. Qui invece sembrava che le fosse preso il ghiribizzo – mio nonno pensava: «Agh passarà» – di volerci venire ogni domenica, puntuale come la pendola che tenevamo attaccata al muro. Comunque, a farla breve, una domenica mattina, quando sono stati davanti al piazzale della chiesa e mio nonno ha fatto «Ihììì!» alla mussa, ha fermato il carretto e s’è messo ad aspettare anche un po’ impaziente che lei si sbrigasse a scendere per potersene subito andare all’osteria – dove già c’erano gli amici schierati davanti ai bicchieri e col mazzo delle carte già mischiato e pronto per la briscola – lei gli ha detto: «No, no! At vièn anca tì». «Eh?» ha urlato mio nonno. «At vièn anca tì!» «Ma tu sei matta! Ahààà» e ha fatto ripartire il somaro. Al ritorno, un muso che non le dico e poi a casa – appena lui le compariva all’orizzonte – via a strillare davvero come una matta per tutta la settimana. «Ma che ha la mamma?» chiedevano tutti quanti. «Ma casso ne so mì de còssa gàla tó mama?» faceva lui.
Quando è stata la domenica appresso però, lei s’è alzata la mattina all’alba e ha cominciato a strillare per tutto il podere: «Sveglia! Tutti in piè! L’è domenica inquò! Tutti a messa!». «A messa?» faceva uno. «Ma io ci sono già stato a Natale» faceva un altro. Non c’è stato verso. Li ha tirati giù tutti e li ha voluti tutti lavati, sbarbati e vestiti per bene, ossia puliti e con le scarpe. Pure zio Pericle ha fatto: «‘Ndémo a messa» e gli veniva da ridere con zio Iseo. L’Armida invece è stata subito contenta e non per la messa in sé, ma per l’andare al Borgo tutti insieme coi bambini e coi mariti vestiti a puntino. Così a un certo punto anche a mio nonno è venuto un sospetto e ha chiesto: «Ma anca mì?». «Anca tì, anca tì!» ha ricominciato a strillare mia nonna: «Terra nuova vita nuova. Da oggi in poi i Peruzzi i va sempre a messa la doménega». «I Peruzzi?» faceva lui: «Ma son mì Peruzzi! Da quando in qua sei diventata tu Peruzzi? Non ci vengo» e se n’è rimasto a casa. «Faccio la guardia» ha detto all’ultimo, come per lasciare un appiglio a cui agganciare una possibile conciliazione. «E a chi fai la guardia?» lo stoppò invece lei da sopra il carro: «Di cosa hai paura, che vengano i sesési a portarne via tuto?». Allora è rimasto a casa. «Monti e Tognetti…» faceva: «Monti e Tognetti!». Ma dopo un po’ ha pensato: «E perché non debbo andare all’osteria? Mica vegnerà davéro i sesési». È andato in stalla, ha messo il basto all’unico musso rimasto libero e via all’osteria. Quando è stato lì però – e ha visto che non c’era nessuno – gli è preso un colpo: «Dove sono andati tutti?» ha chiesto preoccupato all’oste. «A messa. Stanno tutti a messa.» «Porca putana vaca» ha fatto mio nonno, e la domenica dopo gli è toccato andarci anche lui. E che faceva se no, l’ultimo dei Mohicani? Lui e gli amici suoi si mettevano in fondo dalla parte degli uomini – a sinistra entrando, le donne invece a destra; i figli piccoli sia maschi che femmine con
le madri e poi, dopo la cresima, pure i maschietti a sinistra ma davanti, ai primi banchi, i vecchi in fondo – e appena il prete entrava e diceva due preghiere, loro si facevano un segno di croce, un abbozzo di genuflessione e di corsa all’osteria. La presenza l’avevi fatta. Il cartellino era timbrato. Una volta però – al ritorno – mia nonna ha detto vaga: «Mi sono voltata e non t’ho più visto in chiesa». «Ma non avrai guardato bene, sarò stato coperto, c’era tanta gente…» «Ah, sì?» ha rifatto lei: «E ridimmi un po’ la predica allora, dimmi cos’è che gà dìto il prevosto dopo il vangelo?». «Che te sì una spòrca!» ha strillato lui e la domenica dopo gli è toccato restare fino all’omelia. Poi però ha imparato e messo a frutto la lezione, e con gli amici suoi usciva di nuovo subito dalla chiesa, ancora prima che il prete avesse finito di dire «Introito ad altare Dei», ma finita la messa -appena passava il primo ragazzino davanti all’osteria – subito tutti a chiedergli: «Còssa gàlo dìto il prete?». «Questo e quest’altro.» «Benón!» e il passaggio dell’esame era assicurato. Da allora in poi però non c’è stato più verso: tutta cattolicissima la mia famiglia. Ma anche quelle degli altri. Pure i friulani e i ferraresi. Non solo i veneti che un po’ baciapile erano sempre stati anche in Altitalia. Pure gli altri, pure quelli che – come noi – l’acqua santa là sopra non gli era mai piaciuta. Qui andava più del vino e vai in chiesa oggi, vai domani, il vizio come lei sa si allarga sempre di più e abbiamo cominciato a pregare dalla mattina alla sera anche in casa e nei giorni feriali. Preghiere appena t’alzavi e preghiere prima d’andare a letto la sera – mia nonna ti menava se non le dicevi – e prima d’ogni pasto: «Segno di croce e benedisión». E si doveva fare il segno di croce anche mio nonno: «Ma Monti e Tognetti?» ha provato a dirle una volta. «Ch’i riposa in pace che la xè ora, va’ in malora tì e anca lori», e lui s’è dovuto stare zitto – «Bruta spòrca» diceva solo piano dentro di sé – e guai se
si sentiva una parolaccia in casa: «Stai in stalla, per caso?». Pareva un convento, non più un podere. Come dice, scusi? che secondo lei questa conversione si deve tutta a quel fatto del prete di Comacchio? Non credo. Quello era successo nove anni prima. Si fosse trattato solo di riparare in qualche modo a quel torto, mia nonna avrebbe avuto tutto il tempo già in Altitalia, non aspettava di arrivare qui. E poi abbia pazienza, ma il prete di Comacchio lo abbiamo ammazzato solo noi, mica pure gli altri. Gli altri chi avevano ammazzato allora, per convertirsi pure loro e pregare come monaci in ogni podere dell’Agro Pontino? Lei doveva vedere il mese di maggio -ma lo può vedere pure adesso, basta che si faccia una passeggiatina la sera per le strade poderali a maggio appunto, davanti a tutte le madonnine e cappellette che abbiamo disseminato su ogni incrocio – tutte le famiglie riunite a dire il rosario. E non c’è famiglia, si può dire, in cui non c’è almeno un parente prete. Dev’essere stato qualcos’altro dia retta a me – mia nonna non era fessa – dev’essere stato un fatto di integrazione. Vede, fin dall’inizio noi abbiamo cominciato a scambiarci le giornate di lavoro e i mezzi agricoli con i nostri vicini, e financo le bestie. C’è stata da subito una solidarietà totale, un aiutarsi l’un l’altro – una comunità militante, come si dice adesso – a partire proprio da quell’esodo che avevamo fatto tutti assieme. Pilgrim Fathers. E i lavori come la mietitura, la diserbatura con la zappa, la raccolta del cotone o delle bietole – ma anche il kiwi o l’uva ancora oggi – si sono sempre fatti tutti assieme, prima in un podere e poi in un altro. Lei doveva vedere tutta questa gente in fila che cantava sotto il sole – ognuno sotto il suo cappello di paglia con le falde larghe, chino sul terreno – ciacolando e cavando barbabietole da zucchero. Dal Veneto ci eravamo portati la tradizione del filò, quella di riunirsi tutti a sera, dopo cena, ora in un podere ora in un altro a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio. D’inverno ci
mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva più caldo. Lei doveva vedere la gente che si portava da casa la sedia o uno sgabello, per paura di restare in piedi. Ogni tanto una bestia alzava la coda e via, scappavano tutti prima che pisciasse schizzando intorno. E tutti a ridere. D’estate invece in strada, seduti sulle spallette dei ponti. E questo rito veneto del filò – andare per poderi a chiacchierare – si è esteso subito a tutti gli altri, anche a quelli dell’Emilia o del Friuli che abitando in paese non lo avevano. Al filò s’è poi aggiunto il ballo sull’aia, che a dir la verità era una caratteristica dei ferraresi; i veneti erano un po’ più bigotti ma – venuti qua – come i ferraresi col filò, si sono impratichiti e appassionati al ballo. Il guaio era quando ai balli capitava qual cuno dei paesi qui intorno, e allora succedevano i casini. Noi comunque eravamo un’enclave strapiantata da casa propria e gettata in mezzo al «paese dei maròcchi» – come diceva mia zia Bìssola – «che ci potevano vedere come il fumo agli occhi». Questo non significa che non abbiamo anche imparato in qualche modo – dai e dai – ad andarci d’accordo. Mio zio Adelchi per esempio – come le ho detto – si fece compare con uno di Cisterna. Ma erano casi isolati e anche i matrimoni misti – che sono il segno di una prima integrazione tra etnie diverse – iniziarono già nei primi anni, ma mantennero sempre caratteri, diciamo così, un pochino imperialistici. All’inizio difatti il matrimonio misto era rigorosamente a senso unico, con il maschio veneto che sposava la donna dei Lepini e la portava a vivere in pianura, nel podere. Qui lei imparava subito a parlare in veneto e doveva proprio smettere – o dimenticare – il dialetto del paese suo, come capitò a mia zia Nazzarena che era di Cori, un paese sulla montagna tra Norma e Roccamassima. Lì si puzzavano di fame anche peggio di noi e quando noi abbiamo cominciato a piantare il grano in pianura, le donne delle montagne sono venute a spigolare e questa Nazzarena veniva anche lei. Era una bella ragazza. Mia nonna poi non è mai stata maleducata, era gentile, e questa
Nazzarena ha continuato a venire ogni tanto – su e giù dalla montagna – a fare qualche lavoro a giornata. È lei che ci ha portato le prime olive e mia nonna le buttò. Chi ci aveva buttato gli occhi invece sopra era mio zio Adrasto, uno dei giovani, che avrà avuto nel 1933 – il primo anno che, per così dire, raccogliemmo il grano – sedici o diciassette anni. Lei ne avrà avuti quattordici o quindici, parlava questo dialetto strano, però era bella e mio zio Adrasto ha cominciato a fare avanti e indietro lui dalla montagna – un paio di volte a settimana – in bicicletta. Partiva dal podere sempre di gran carriera ma arrivato a Doganella, dove cominciavano le prime salitelle, cominciava a smadonnare. Quando stava sotto il monte – che poi lei neanche stava a Cori Basso, perché il paese è diviso in due, ma a Cori Alto – e si sfiancava sui pedali e a un certo punto gli toccava scendere a piedi e trascinarsi boccheggiando appresso la bicicletta a mano, ogni volta diceva: «Basta, no ghe vègno più. Me ne troverò un’altra in pianura». E invece quand’era lì che la vedeva – e soprattutto nel ritorno, in discesa – subito gli riveniva voglia di tornarci la volta appresso. Però dai e dai, una salita dopo l’altra, appena hanno potuto si sono sposati e l’ha portata giù, nel podere: «Mai più in montagna». Lei all’inizio le è piaciuto – perché le era piaciuto Adrasto - ma quando si è ritrovata ragazzina di sedici o diciassette anni in mezzo a gente che per tutta la casa, in ogni stanza, in campagna, in stalla, sulla corte, nell’aia le diceva «Tòli la scaràna» e lei non capiva che era la sedia, «Ciàpa la granàta» e lei non capiva la scopa, s’è sentita persa. Quelli a un certo punto hanno proprio smesso di parlarle, parlavano tra loro come se lei non ci fosse, oppure le insegnavano a gesti – straniera in mezzo a genti straniere – e quando la sera tutti andavano in stalla a fare filò, lei si sedeva fuori sull’albio e si metteva a piangere. Che doveva fare? S’è imparata il veneto – s’è scordata tutto il corese – e se lei ci va a parlare adesso, vedrà che mia zia Nazzarena parla veneto meglio di me, di lei e di
Mara Venier. Ma con tutto questo, restava sempre marocchina. Non c’era niente da fare, come il peccato originale. Lei pensi che nella famiglia patriarcale colonica, l’ultima nuora che entrava in casa non veniva mai chiamata con il suo nome – Giulia, Francesca o Maria – neanche dal marito. Si chiamava semplicemente “Spòsa” o “la spòsa”, ed era assoluta usanza e buona educazione che quando qualcuno del podere andasse per un motivo o per l’altro al Borgo - dal fabbro o alla dispensa, in ferramenta, all’osteria – la gente gli chiedesse sempre: «Come sta la spòsa?». Quella ripigliava a chiamarsi con il suo nome proprio – Rosa, Maria, o quello che fosse – solo quando, grazie a un nuovo matrimonio, entrava nel podere una nuova nuora. Ma se non si sposava più nessuno, lei si chiamava Spòsa per tutta la vita. Mancava poco che le mettessero “Spòsa” pure dopo, sulla lapide. Solo di questa mia zia Nazzarena e delle altre indigene venetizzate come lei, la gente al Borgo chiedeva: «Come stàla la marochìna?». Mia zia ci si faceva certi pianti che lei non ha idea. Comunque è sempre il maschio veneto che prende la femmina marocchina. Mai il contrario. Come dice, scusi? Vuol sapere come mai allora zia Bissola e il Lanzidei? E che ragionamenti sono? Abbia pazienza, qui stiamo parlando di merce buona – come si suole dire – prima scelta. La merce avariata è un altro paio di maniche. Le seconde scelte lei le dà via anche regalate. Pure zia Santapace col Benassi, per esempio, è una cosa che non s’è mai capita tanto bene come sia andata. I miei zii erano un po’ reticenti nel raccontarla e si confondevano sempre, chi diceva una cosa e chi ne diceva un’altra. Non so, ma ci deve essere stato un che di spurio anche lì, se no a lei pare che i miei zii davano senza fiatare una giovenca nostra di diciotto anni come la zia Santapace, a un mezzo-marocchino di trentadue come il Benassi? Ma sa le schioppettate che gli faceva rivendere mio zio Pericle? E invece lo portava in palmo di mano: «Benassi di qua e Benassi di là»; poi s’è venduto il trattore e
non gli ha dato retta, però intanto lo portava in palmo di mano. E Benassi a lui. Anche zio Iseo. Ma pure Temistocle. Chissà che ci deve essere stato lì sotto. Solo parecchio dopo la Seconda guerra mondiale – negli anni Cinquanta e Sessanta – si avranno anche i matrimoni in senso alternato, con la donna veneto-cispadana che sposa l’uomo marocchino dei Lepini. Ma il luogo di abitazione e residenza della nuova famiglia resterà rigorosamente la pianura. Non c’è una veneta sola sui monti Lepini e l’unica di cui si avesse notizia era la madre di quel tal Lidano Sensucci direttore di “Resistenza Lepina”, autore del famosissimo distico “Il sogno del sezzese la mattina /è affacciarsi e non veder più Latina”. Ma approfondite ricerche hanno poi confermato che anche lì fu il
padre a dover scendere in pianura a Santa Fecitola e lui – il Lidano Sensucci – parla sezzese solo perché il nonno ogni tanto se lo veniva a prendere e se lo portava a Sezze, senza riportarlo più giù per un pezzo. Lo rapiva. Proprio come nei film western. Wasp contro Apache. Solo John Wayne ci sarebbe voluto per liberare Lidano Sensucci. Mo’ che gli fai più? Queste sono le relazioni matrimoniali che contraddistinguono – da quando mondo è mondo – tutte le situazioni di tipo imperialistico. Quando si conquista un territorio, i matrimoni funzionano così ed anche in Eritrea e in Abissinia noi avevamo tutte le nere che volevamo – mogli, amanti e concubine – ma provi a immaginare cosa sarebbe successo a un abissino se si fosse preso un’italiana. Purtroppo però noi – a questi marocchini nostri dei monti Lepini – gli abbiamo levato solo le terre e le donne. Per tutto il resto siamo stati, come si suole dire, alla mercé loro. Noi difatti eravamo calati qui senza alcuna élite o ceto dirigente. Eravamo solo i senzaterra, i poveracci, i figli di nessuno, e da ceto dirigente – qui – hanno fatto gli altri. Maestri, professori, medici, avvocati e politici erano tutti marocchini dei monti Lepini, venuti subito ad abitare a Littoria per prendere il comando. E ogni volta che ci serviva qualcosa – fosse
appunto un medico, un notaio, un avvocato – non potevamo non andare che da loro, con le uova e i polli in mano. Anche se appena usciti, dopo ci dicevamo tra di noi: «Ma còssa vòtu che ‘l capìssa? L’è un marochìn». Comunque quando si parla oggi dei coloni dell’Agro Pontino, si dice costantemente «veneti» includendoci tutti. In realtà il Veneto fu un grosso tributario di questa migrazione ma non fu l’unico. Delle tremila famiglie originarie, portate giù dall’Opera, solo un terzo era rappresentato da veneti e gli altri due terzi da friulani e ferraresi. Al di là dell’Appia, invece, negli appoderamenti privati e dei Caetani furono immessi coloni umbri e marchigiani – come mio zio Benassi che era umbro – e in quelli delle università agrarie i bassianesi, cisternesi, sermonetani e sezzesi. Nella fase successiva – ad Aprilia e Pomezia – l’Opera diede i poderi anche a famiglie coloniche precedentemente emigrate in Francia, Romania e BosniaErzegovina. Li presero e li riportarono in patria. A Pomezia immisero anche famiglie romagnole; della provincia di Forlì, paesani del Duce. Ora noi ci diciamo giustamente tra di noi anche “veneti”, “friulani”, o “ferraresi”. A seconda. Ma per tutti quelli che ci indicano da fuori, noi siamo tutti indistintamente “veneti”, al punto d’essere divenuti un nuovo e distinto gruppo etnico, i “veneto-pontini”. E sa perché? Perché tutte le differenze che pure esistevano singolarmente tra di noi coloni dell’Altitalia, non erano nulla rispetto alla diversità assoluta tra noi e le popolazioni locali dei monti Lepini. Per noi erano tutti marocchini, compresi gli umbri e i marchigiani: marocchini del Nord, diciamo così. Però – come lei sa – il diavolo spesso fa le pentole ma non fa i coperchi, e questo processo di assimilazione e identificazione collettiva veneto-pontina non ha agito solo nei confronti dell’extra-Agro, ma anche al suo interno, nella distinzione tra città e campagna. A Littoria difatti il primo nucleo di abitanti è costituito da famiglie del ceto medio impiegatizio reclutato a Roma, e noi che stavamo in campagna invece eravamo tutti indifferentemente percepiti da loro
come veneti. Anzi, quando andavamo in città ci chiamavano «Bèpi», «Bèppi» o «coloni». «Colono» è peggio di «negro» nelle città dell’Agro Pontino e indica – secondo loro – persona grezza, ingenua, ignorante ed arretrata, nella stessa accezione di «cafone» a Napoli o «burino» a Roma; e se per noi i lepini erano tutti Apache e gli umbro-marchigiani Sioux, noi per quelli di Latina eravamo e siamo wasp, ma di campagna. Noi Missouri, loro New York. I sezzesi sono sezzesi e basta. Noi non eravamo quindi che un’enclave rurale presa tra due fronti. Accerchiata
dal
mare
magnum
marocchino-rum
all’esterno
e
insidiata
dall’arrogante spocchia cittadino-romanesca al centro. Che dovevamo fare? Unirci o perire. E così ci siamo uniti. Certo c’era pure l’organizzazione dell’Opera e del partito fascista che tendevano a questo, cioè a fare un blocco di tutti i rurali, la massa critica che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza del fascismo nei secoli. E vai allora con le colonie al mare per i bambini, le esercitazioni dei Balilla, i campi Dux, il paramilitare, il cinema in ogni borgo, i film Luce, il Carro di Tespi che portava IL teatro dappertutto, in ogni piazza, e le biblioteche ambulanti, la Befana fascista, la cassa mutua, la casa del contadino, la casa del fascio, il dopolavoro. Però anche noi da subito, alle prime relazioni di strada e di vicinato – nate per così dire insieme all’esodo, dall’esodo stesso – abbiamo aggiunto quelle di borgo: alla posta, alla dispensa, dal fabbro, all’azienda agraria e soprattutto all’osteria. Ci sono degli storici americani che vanno dicendo che nei borghi dell’Agro Pontino non ci fossero i bar e le osterie: «Il fascio le aveva vietate per impedire la socializzazione tra i coloni, per tenerli tutti divisi e controllarli meglio». Ma non è vero niente, sono tutte fesserie. Io non discuto che gli americani ci abbiano portato la libertà e la democrazia – ci mancherebbe altro, lei lo sa, io li ringrazio – ma che mo’ noi non avessimo neanche i bar e che i bar e le osterie ce li abbiano portati loro, questa è una fesseria. Noi li riempivamo di bar se volevano, ed era pieno d’osterie dappertutto in Agro
Pontino, e tutte col gioco delle bocce davanti – ad ogni strada, ad ogni incrocio – e i nostri vecchi stavano sempre ubriachi. C’era il vecchio Pellicelli che quando era fatto non era più capace di salire sulla bicicletta. All’osteria s’erano imparati e quand’era l’ora di chiudere o lui s’era stufato del vino o della briscola e diceva basta: «Rimandème a casa», lo mettevano in due sopra la bicicletta – uno reggeva la bici e l’altro il vecchio Pellicelli – gli davano una spinta e lui prendeva a pedalare fino a casa. Là – sul ponte – cadeva e i suoi lo venivano a pigliare. Ma se per un motivo o per l’altro si doveva fermare, allora non era più capace di ripartire e stava ore a girare da una parte e dall’altra della bicicletta senza più riuscire a salirci a cavallo, almeno fin che non passava la sbornia. Per tanti anni è andata bene, poi una sera sull’Appia invece no. Una macchina lo ha preso in pieno. Comunque a volte a me è venuto il sospetto che i venticinquemila osti rimasti senza lavoro nel 1928 in tutta Italia, si siano trasferiti tutti in Agro Pontino. Solo a Borgo Carso ce n’erano tre – e tutti col gioco delle bocce – e ci sono non so quante decine di incroci tra strade poderali in Agro Pontino che si chiamano ancora adesso “Baracchetta”, per via della prima baracchetta di legno con mescita di vino, messa su alla bell’e meglio da qualche intraprendente. Sono arrivati prima gli osti qua – nelle Paludi Pontine – che i coloni e i bonificatori. Pure che Mussolini fosse astemio – come dicono anche – è un’altra fesseria. Adesso pare che bevesse solo acqua, e poi litri e litri di latte. Ora io non so quello che bevesse a casa sua. A casa sua sarà stato pure astemio – non discuto – ma a casa nostra dei Peruzzi beveva, eccome se beveva. E non solo da noi, ma anche su tutti gli altri poderi, perché lei deve sapere che dopo quella volta che non era voluto venire alla fondazione di Littoria, dopo ci aveva preso gusto e stava sempre qua. Non solo in visita ufficiale con la macchina e la scorta, ma soprattutto in moto da solo, su un Guzzi 500 Falcone Sport – «Tòmm, tòmm, tòmm», faceva quando stava in folle – in
incognito, a perlustrare. E poi quando tornava indietro erano dolori. Il Rossoni raccontava che ogni volta partivano a raffica foglietti d’ordine assassini per ogni destinazione: “Su quel canale c’è l’erba alta, mandare a tagliare. Su quella strada c’è una buca, riparare. Chi è quel fesso che ha fatto potare in quel modo gli eucalypti a Littoria? Mandarlo al confino”.
Stava sempre qua le ho detto – a Littoria pare avesse anche un’amante fissa a cui aveva impiantato un garage-officina-distributore di benzina che è tuttora un gioiello d’architettura – e in quasi tutti i poderi lei trova le foto del nonno o della nonna vicini al Duce che beve un bicchiere di vino rosso clinto o clintone come anche si dice, anche se noi diciamo clintón. Oggi questo vitigno è proibito in tutta l’Unione Europea per la tossicità dell’acido cianidrico e l’altissima concentrazione di metanolo, lesiva del nervo ottico e delle cellule cerebrali. Insomma, è un’arma di distruzione di massa: o muori o resti cieco e scemo. Però era buono e – se le interessa – gliene posso far trovare ancora qualche bottiglia perché, nascosto come un clandestino ma coccolato più d’un calciatore, se ne trova ancora qualche vitigno in Veneto, Friuli e Agro Pontino appunto. Ma non lo dica all’Unione europea. Da noi il Duce si fermò la prima volta poco dopo l’inaugurazione di Littoria. Lui transitava sulla Parallela Sinistra con un corteo di macchine insieme a Cencelli che gli faceva vedere le realizzazioni. Passano e lui vede sul ponte del podere mia nonna: «Ma io quella la conosco» fa a Cencelli. E poi subito: «Ferma, ferma» all’autista, «fai marcia indietro». Quello ingrana la retromarcia – manca poco e intruppano la macchina dell’Ovra che veniva dietro – ritornano al ponte e lui salta giù: «Peruzzi! Ci sono degli erpici per caso da aggiustare?». Lei non ha idea mia nonna. S’era tutta intimorita – quello era il Duce oramai, mica era più lo sbarbatello che aveva avuto da giovane per casa – e intimoriti erano tutti i miei, pure mio nonno. Però la nonna non s’è persa d’animo,
l’intimorimento se l’è tenuto tutto dentro; ha alzato il petto e le spalle e gli ha risposto: «Eh, altro che erpici, ce ne sarebbero qua di cose da aggiustare». Cencelli ha fatto una faccia come – diceva zia Bìssola -gli avessero appena dato da mangiare una merda. Il Duce invece s’è messo a ridere e ha detto a mio nonno: «Passano gli anni ma èla non la cambia, eh?». «A chi lo dite, Duce.» Lui s’è rimesso a ridere e poi le è girato un po’ intorno per vedere di quanto – anche dietro – fosse cambiata. Non troppo. Ha riso di nuovo soddisfatto e ha detto: «Ripasso. Adesso agò da andar via con sti braghiéri ma poi ripasso. Preparatemi gli erpici». Saluto al Duce, arrivederci e grazie. Mio nonno subito ha ricominciato tutto il pomeriggio a dirle «Bruta spòrca» e lei che si faceva tutta rossa: «Ma còssa dìsito, Peruzzi?». «Bruta spòrca!» allora lui più forte. «Ma che hanno quei due?» facevano tra di loro gli altri miei parenti. «Il Ducce se gà pincià la nòna, quand’èrimo là de sóra in Altitalia» deve avere detto qualche mio cugino ancora ragazzino. «Ciàf-ciùmpf-ciàf», botte a rotta di collo e poi: «Tasi!».
Ma intanto il nonno aveva sentito: «Mì ‘o cópo! Mì ‘o cópo quel là» strillava. E allora via la sua mamma a prenderselo in braccio: «Ma è un ragazzino papà, un tosatèo, non sa neanche lui quello che dice». «Ma casso min frega a mì del tosatèo? ch’agh vègna un càncher anca a lù. L’è quel’altro ch’ago da copàre mì.» «Tasi, Peruzzi!» faceva mia nonna: «Zitto che ci levano il podere e ci mandano al confino». Insomma a farla breve hanno fatto pace solo a sera, a cavallo dentro il loro letto perché – come si dice – tutti i salmi finiscono in gloria e lei non faceva che giurargli: «Ma sei matto Peruzzi? E quando lo avrei fatto? Non sono mai rimasta da sola con lui neanche un minuto, ci sei sempre stato anche tu con
me. E poi gnanca me piàse quel’Omo, no me piàse, no me piàse» e intanto gli andava sotto più forte. «Ma at vardava il cul.» «Ma quale cul, ma quale cul» faceva lei sempre più forte: «Son vècia oramai, son vècia». E il giorno dopo parevano due colombi. Da quel giorno però – in casa Peruzzi – ogni volta che un ragazzino raggiungeva la capacità di capire qualcosa e spiccicare anche solo due parole in fila, subito i cugini e i fratelli più grandi si riunivano nel fienile e gli dicevano: «Varda, il Ducce se gà pincià ‘a nona ma non se gà mai da dirlo. Guai a te se lo dici perché il nonno diventa matto. Capito?». «Sì. Il Ducce se gà pincià mè nona» e la consegna veniva quasi sempre rispettata. Solo un paio di volte è capitato che qualche mio cuginetto piccolo sia andato da mia nonna a chiedere conferma: «Nona, xè vero che ‘l Ducce te gà pincià?». Certe botte che lei non ha idea. E poi, appena usciva, tutti gli altri a dirgli: «Che t’avevamo detto?», e giù botte anche loro. Comunque Lui – l’Uomo – da quella volta non s’è più visto per qualche mese. È passato il Rossoni, ma il Rossoni era diverso per mio nonno, era uno di famiglia, una specie di figlio o di fratello minore. Quando è stato però luglio, che era ora di trebbiare il grano e in alto loco hanno pensato di far trebbiare pure il Duce lui ha detto: «Benón! È una grande idea. Trebbiémo dai Peruzzi» e sono venuti qua con tutte le cineprese dell’Istituto Luce. E se lei vede i filmati e le foto d’epoca su tutti i libri di storia, quella col cappellone di paglia e il vestito a fiori che passa i covoni di grano al Duce è mia nonna. E quella che ha i piatti in mano e sta proprio dietro di lui in un’altra foto che gli mesce il vino e lui beve vino rosso clintón alla faccia degli storici americani – non tutti però, perché Mia Fuller è brava – quella è mia zia Bìssola e quell’altro alla guida del trattore, a cui Mussolini nei film Luce si
volta e dice «Avanti guidatore! dai forza ai tuoi motori» per far partire la trebbia, quello è mio zio Benassi. Su quella trebbiatura però ci sarebbe qualcos’altro da dire. Lì non era difatti tutto grano nostro. Bisognava festeggiare perché era il primo grano dell’Agro Pontino. E su questo non si discute. Dopo mill’anni e mill’anni di desolazione e morte, paludi, pantani, forre, foreste, cinghiali, serpenti velenosi, ragni e tarantole velenosissime, zanzare anofeli, malaria e tutto quello che le pare, be’, lei per la prima volta tira fuori il grano e non vuole fare neanche un po’ di festa e un filmino piccolo piccolo da mandare in giro per l’Italia e per tutto l’universo? Era il primo raccolto di questa terra vergine, ma per avere un buon raccolto ci vogliono almeno due o tre anni. La terra si deve sverginare e da puro minerale deve diventare humus organico. Ci vuole tempo. Neanche Roma l’hanno fatta in un giorno e lei sa che a quel tempo – al tempo nostro, non quello di Roma – la resa media del grano era tra i diciotto e i trenta quintali per ettaro, diciotto sulla terra peggiore e trenta su quella più fertile. Noi Peruzzi negli anni successivi abbiamo sempre fatto trenta e anche quaranta quintali su un ettaro, ma nel 1933 – primo raccolto – raccogliemmo sì e no quello che avevamo seminato. Alla gente veniva da piangere. Anche mia nonna disse: «Ma allora conveniva restar là». Noi non lo sapevamo. Ce lo spiegarono quelli dell’Opera che ci voleva il suo tempo. A noi poi lo rispiegò per bene un agronomo mezzo napoletano o casertano, non ricordo bene, un certo Pascale che stava su una grande azienda agraria al di là dell’Appia rimasta in mano ai privati – certi conti Cerisano-Caratelli – e che però ogni tanto veniva per conto dell’Ispettorato agrario anche sui poderi dell’Opera. Questo agronomo ispettore Pascale era una brava persona, ammodino ammodino, ti spiegava tutto quanto per filo e per segno e però non se ne andava finché non gli mettevi un cappone in mano. Allora faceva: «No, no, ma si figuri», e intanto pigliava questo cappone ed eri buono tu a ristrapparglielo dalle mani. Manco con la tronchese. Gli
dovevi solo tagliare le mani con l’accetta. Tornava sempre a casa dal suo giro sui poderi con il carretto stracolmo. Con lui però non ti dovevi far sentire a dire in alcun modo: «Ah, non ci sono più i pomodori di una volta». Allora diventava una bestia e se magari insistevi – «Be’, quelli di una volta erano più gustosi» – si faceva rosso rosso, gli usciva la bava dalla bocca e si metteva a strillare per ore da sopra il suo carretto pieno di capponi: «Ma che ‘vve dice ‘a capa? Ma che sfaccimme e sfaccimme de na vota, ‘e pummarole e mo’ so’ cchiù migliori assaie, so’ moderne e fasciste», e andava avanti le ore. Per farlo smettere ci voleva solo un altro cappone. Lui difatti – insieme a certi altri amici suoi agronomi marocchini come lui – aveva selezionato un nuovo tipo di pomodoro che ci hanno poi fatto seminare a raffica per tutto l’Agro Pontino. Veniva come la gramigna, in quantità che non le dico. E grossi grossi come cocomeri, e belli lucidi splendenti che se li guardavi fissi al sole t’abbagliavano. Quando però li mettevi in bocca, il succo c’era, sì, non discuto, ma la buccia era di un duro che ti spaccava i denti, la dovevi solo sputare. Tanto è vero che durante l’autarchia – e questa è storia – ci fecero proprio le fabbriche per estrarre la cellulosa, al posto che dagli alberi, dalle bucce di questo pomodoro. È un brevetto che abbiamo venduto anche all’estero, come il terital, la viscosa e il moplen. A noi però il Pascale ci fregò una volta sola e appena lo vedevamo sbucare col carretto in fondo alla strada, avevamo oramai l’ordine, tutti i ragazzini dei Peruzzi, di smettere immediatamente di parlare della nonna che pinciava con il Duce per cominciare a strillare in coro: «‘E pummarole e mo’ so’ cchiù migliori assaie, so’ moderne e fasciste». «Vafammocca a chi t’è muorto» faceva lui piano piano. Ora però mi dicono – ma provi anche lei ad informarsi meglio, se è possibile – che con le bucce dei pomodori del Pascale adesso ci fanno pure i giubbotti antiproiettile.
Comunque per trebbiare da noi nel ‘33 dovettero portare il grano da fuori e per i primi due o tre anni – anche per il nostro sostentamento – il grano ogni anno ce lo diedero loro, l’Opera, un tanto a testa, e ci pagavano anche un tanto al giorno e ci consentivano pure d’andare a lavorare fuori. O meglio: prima no, all’inizio non ce lo consentivano, ma poi mio zio Pericle si intestardì coi sindacati e organizzò una riunione con tutti i capifamiglia alla casa del fascio a Littoria e disse: «Nantri non ghe la fémo a andare avanti. O l’Opera ci dà di più e ci consente di andare a lavorare fuori sui canali e coltivare anche le viti» – perché all’inizio era proibito pure questo, dovevi coltivare solo quello che decidevano loro e l’Opera non voleva fare concorrenza ai produttori di vino dei Castelli Romani, ai velletrani – «oppure da domani i coloni entrano in sciopero». Come sentirono «sciopero», all’Opera gli venne la febbre terzana. Era proibito per legge sotto il fascio, e Cencelli andò su tutte le furie, voleva mandare la cavalleria – «E che ciò, i bolscevichi? Ma io gli mando i cosacchi» – e chiese subito una riunione col Rossoni: «Ciò un sovversivo là, mortacci sua, che me sta a sobbillà tutti i coloni». «Un sovversivo?» ha fatto il Rossoni che di sovversivi s’intendeva: «Dimmi chi è, che lo carceriamo subito». Cencelli spulcia sulle carte sue: «Famme vedé… famme vedé… Ecco qua, l’ho trovato: Pericle Peruzzi». «Pericle Peruzzi? Ma va’ in malora Cence’! Dagli subito tutto quello che hanno chiesto e non ti far sentire più a dire queste cose, che quello t’accoppa pure a te. Un po’ d’elasticità, benedetto Iddio…» E così ci venne concesso e potemmo tirare avanti finché i poderi entrarono in piena produzione. Allora si cominciò a ragionare – man mano che i raccolti diedero quel che ci si aspettava ed anche più – e cominciammo anche a pagare anno per anno le quote previste per il riscatto. La conduzione era però sempre a tipo mezzadria e dovevi fare tutto quello che ti dicevano.
L’Opera era una caserma, un esercito militare ed anche il raccolto lo dovevi consegnare a loro – sotto il loro controllo – e poi si facevano le ripartizioni. Lei doveva vedere – quando si trebbiava – tutti i fattori e gli assistenti dell’Opera a segnare sacco per sacco il grano che usciva da sotto la trebbia. E tutto a loro andava, direttamente sui carri e sui camion loro, per essere portato all’ammasso. A noi lasciavano solo il quantitativo precedentemente assegnato ad ogni famiglia – bocca per bocca: un tanto agli uomini, un po’ meno alle donne, ancora meno ai bambini – per mangiare e alimentarci tutto l’anno. E non era mica tanto mi creda – giusto una dieta di pura sopravvivenza – e il resto all’ammasso, perché la dieta di sopravvivenza la faceva tutto il Paese e quel poco che avanzava doveva andare a finanziare il progresso, lo sviluppo e la modernizzazione fascista del Paese e dell’impero. Se no che Imperium era? Come le facevi le bonifiche che restavano ancora da fare in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Calabria? Però – se lei permette – non è neanche un bello spettacolo, dopo un anno di lavoro, vedersi portare via da sotto gli occhi, sacco per sacco, tutto il grano che tu, dopo averlo la vorato sui campi, covone dopo covone avevi infilato den tro la trebbia e raccolto poi, sacco per sacco, con le braccia tue. Loro se lo portavano via sui carri e i camion loro, e a te lasciavano solo il sufficiente stretto per non morire. E allora ad ogni trebbiatura noi rubavamo il grano nostro. A un certo punto, con una scusa o un marchingegno – una donna che offriva da bere, un’altra che faceva le moinesi distraevano i sorveglianti dell’Opera e si faceva sparire qualche sacco. Chi stava all’imbocco lo legava in cima e al volo lo buttava sulla carriola già pronta lì vicino, con un fratello che lo copriva subito di paglia e via, da una mano all’altra, si nascondeva nel fienile o proprio sotto il pagliaio in costruzione. Se ti pigliavano ti cacciavano. Non c’era requiem o misericordia. Furto. E qualcuno lo hanno proprio preso. In tutti i poderi dell’Agro Pontino s’è rubato il grano alla trebbia. Chieda a chi
vuole. Mica solo noi Peruzzi. Era roba nostra. Rubavamo il nostro. E qualcuno – qualche famiglia – lo hanno preso, se ne sono accorti, e non c’è stato niente da fare, né pianti né strilli e né lamenti; li hanno rimpacchettati tutti quanti il giorno dopo, caricati sopra i treni e riportati in Altitalia: «Morite di fame adesso». Ma era roba nostra e mia zia Santapace raccontava sempre – fino all’ultimo giorno che è morta – di quella volta che la trebbia venne quindici giorni prima che lei si sposasse. Il prete era libero il 17 d’agosto – «Se volete è così» le aveva detto – e la trebbia venne il 2 e lei era sì felice che doveva sposarsi, ma era pure tanto triste e preoccupata perché erano poveri in canna. Ma a un certo punto – mentre stava passando in mezzo alla polvere, al rumore del trattore, allo sbattere dei magli – ha visto mio zio Pericle che dopo averlo stretto con lo spago al sommo, buttava al volo a dieci metri più in là, a suo fratello Iseo che subito lo nascondeva, un sacco da un quintale di grano. La spada dei Peruzzi. Leone della nostra gente. Un quintale di grano buttato con una mano dieci metri più in là. E appena visto che il fratello Iseo – veloce e rapido come lui, gazzella della nostra gente mio zio Iseo – subito aveva eseguito ed il sacco già stava sul solaio del prìvy, zio Pericle sorrise a mia zia Santapace: «Questo l’è per tì, Spòsa». Lei rimase un po’ sorpresa. Non aveva capito subito, il tutto era stato troppo veloce: due fulmini quei due, Castore e Polluce. «Credevi che mi fossi desmentegà de le tó nozze?» le risorrise di nuovo mio zio Pericle. «Fradèo» disse solamente, mia zia Santapace. E si mise a piangere. E piangeva ancora ogni volta che lo raccontava. Noi eravamo un’enclave le ho detto, e ci siamo stretti a coorte. Terra nuova vita nuova. Lavoro, filò, ballo, bocce, briscola, osteria, fascio, milizia e religione. Ma più del fascio, soprattutto la religione. Per via di mia nonna. «Ora pro nobis» di qua e «Ora pro nobis» di là. Nessuno diceva più parolacce dentro casa. Non solo noi. Tutte le famiglie. E in ogni discorso sono
scomparsi nel nulla, svaniti dai racconti d’ogni famiglia, i cenni e i ricordi alle note un po’ più dolenti. Quelle sono rimaste tutte sopra – in Altitalia – e qui ognuna è diventata d’incanto la famiglia di Maria Goretti. Quel pellegrinaggio ci aveva mondato proprio come quelli a Santiago de Compostela. Tutti i peccati nostri se li era assunti su di sé il Benitino dei Mambrin a ponte Marchi. E non c’era più nessuno oramai – tra i veneto-cispadani dell’Agro Pontino – che avesse mai avuto anche lontanamente un parente in carcere o qualche figlio illegittimo in famiglia: «Tute vache vérzini, bolà dal vetterinario provinsale». Comunque andare la domenica mattina a messa al borgo - con le ragazze improfumate e i veli di pizzo bianco sulla testa, le donne invece coi fazzolettoni colorati o il velo nero - era diventata la cosa più bella che ci fosse, passavi tutta la settimana ad aspettare che arrivasse domenica. Il guaio però era che domenica mattina davanti all’altare – e soprattutto dietro la balaustra a fare le omelie in una lingua che nessuno di noi conosceva – c’erano solo preti marocchini. Tutti di queste parti erano. Neanche uno nostro. Greggi venete con pastore marocchino. Quando ti andavi a confessare o a chiedere qualcosa, nemmeno ti capivano. All’inizio non c’era neanche il prete fisso per ogni borgo, venivano la domenica mattina – ce li mandavano per forza i vescovi di qua – dicevano questa loro messa e se ne andavano via. Arrivederci e grazie. Poi nel corso del 1933 fu completata finalmente la grande chiesa di Littoria, affidata ai Salesiani di don Bosco e dedicata giustamente a san Marco, che in quanto protettore di Venezia era stato promosso protettore anche dell’Agro Pontino, poiché appunto i coloni venivano dalle Tre Venezie. Ma solo fino al 1950 però, perché dopo che hanno fatto santa la Maria Goretti – che era di queste parti e aveva ricevuto il martirio a Borgo Montello – l’hanno associata a lui e sono tutti e due adesso protettori di Latina-Littoria e dell’Agro Pontino.
San Marco e santa Maria Goretti, un cispadano e una marocchina come vuole la consuetudine nostra: maschio cispadano e femmina marocchina. Il primo parroco di San Marco fu don Torello – un piemontese – ma tutti gli altri confratelli che ogni domenica spediva in bicicletta per i borghi, erano preti di Roma o di queste parti pure loro. È vero che venivano nei borghi un po’ più spesso, ma poi tornavano a San Marco la sera. A Littoria. Quella era casa loro e là se ne tornavano. Parroci per finta, oltre che marocchini che facevano come gli altri fatica a capirti. Lei pensi alla confessione, ma non solo al fatto della lingua e allo sforzo che ci voleva per fargli capire bene i peccati, lei pensi proprio al fatto in sé, come diceva oramai tutti i giorni mia nonna all’Armida: «Ma quanto possiamo andare ancora avanti, a dirghe i cassi nostri a un marochìn?». Allora l’Armida ha cominciato a mettere in croce il marito: «Tua mamma vuole un prete delle nostre parti». «E vieni a dirlo a me? Còssa posso fàrghe, mì?» «Tì te pòl farlo.» «E che sono, el Patriarca de Venèssia mi? Andè in malora tute e dò.» Ma dai una volta dai un’altra – «Portaci il prete Pericle, portaci un prete nostro» – mio zio non ne poteva più e l’ha presa di petto: «Ma che volete da me, santa mamma? E proprio da mì? Ma dove casso vàgo a tórvelo mì un prètte, in quél de Comacchio?». Poi però ci si sono messe anche le api – «Vhùùùùù, vhùùùùù, vhùùùùù» tutto il giorno intorno a lui, con la nonna e l’Armida che facevano: «Il prètte, il prètte» – e alla fine ha detto: «‘Ndè fanculo tuti quanti». Ha preso su e è andato al fascio a Littoria: «Vogliamo preti veneti». «E vieni a cercarli qui i preti, Peruzzi?» lo hanno preso in giro quelli: «Proprio tu, che sei il più pratico di tutti?». «‘Ndè fanculo anca valtri» ed è andato da don Torello a San Marco. Pure lui però gli ha detto: «E che ti posso fare io? I preti dipendono dai vescovi, ma
chi comanda qua sono i vescovi di qua, e i vescovi di qua hanno solo preti di qua. I preti di là ce li hanno i vescovi di là. Scrivete a quelli». «Benón, e grazie del consiglio.» È tornato e s’è messo a scrivere lettere a tutti i vescovi del Veneto – “Mandène zó di preti nostri” – ha fatto il giro di tutti i poderi, le ha fatte firmare ai capifamiglia e le ha spedite. «Basta però» ha detto poi alla moglie, «adesso fatela finita.» Passa un mese passa un altro, nessuna risposta. E la moglie e la madre hanno ricominciato a rompere: «E ‘l prètte de quà, e ‘l prètte de là». «Ma che cos’ha il prete marocchino che non va?» ha provato a dire. Ma dentro di sé la furia cominciava a montargli: ma come, io mi muovo e nessuno mi si fila? Adesso ve lo faccio vedere io il Patriarca. «Isèo!» ha strillato. E quello subito: «Son qua!». Sono montati sopra il treno – gli erano rimasti ancora un po’ di soldi del trattore – terza classe e sono andati a Venezia, che non c’erano mai stati in vita loro. Sì, abitavamo là vicino, però non c’eravamo mai stati. Girato tutto il mondo magari, per guerre e servizi militari, ma a Venezia non c’eravamo mai stati. E lei non provi a farsi meraviglia perché non ha idea di quanti venetipontini – che stanno qui da settant’anni e passa, ormai, e che ogni mattina quando si alzano vedono davanti a sé sulla montagna Cori, Norma, Sermoneta, Sezze, che quando il cielo è terso pare quasi di poterli toccare con la mano – quanti veneti-pontini non sono mai stati in tutta la loro vita né a Cori, né a Norma, né a Sermoneta e non parliamo di Sezze. Comunque i miei zii sono sbarcati in divisa della milizia – e con la sciarpa littorio al petto – alla stazione di Venezia. Hanno preso il traghetto, sono andati a San Marco dentro la basilica e al primo prete che hanno trovato gli hanno detto: «Nantri doverìa parlàr col Patriarca de Venèssia». «E mica è possibile» ha risposto quello: «E che uno arriva qui e pretende di parlare con il Patriarca?». Pareva quasi romano.
«Ah, sì?» ha fatto zio Pericle: «E io allora che sono venuto a fare qua, a cambiare aria? Sbrigati a farmi parlare con questo Patriarca, se no tu non hai idea di quello che succede qua dentro». Stavano dentro la basilica di San Marco, sotto l’altare principale. «Stà calmo, Pericle» gli ha detto mio zio Iseo. «Son calmo, son calmo. Se non mi fanno incasàre son calmo.» Fatto sta che il prete gli ha detto: «Mo’ guardo». Li hanno fatti aspettare due o tre ore, per vedere tante volte si stufassero e se ne andassero. Loro invece calmi e tranquilli sempre sulla stessa sedia dove gli avevano detto di stare. Senza una piega. Fermi immobili. Hic manebimus in sempiternum amen.
«Questi non se ne vanno più» hanno pensato i preti, e allora all’inizio della quarta ora gli hanno detto: «Va bene, ma uno solo però, non tutti e due». Non gliel’hanno voluta dare vinta per intero. Solo metà. «Vuoi andare tu?» ha chiesto zio Pericle a zio Iseo. «Ma scherzi? Mì vegnerò sempre dopo de tì, fradèo.» Così mio zio Pericle è andato dal Patriarca di Venezia. Lo hanno portato su e giù per certe scale, gli hanno fatto attraversare non so quanti corridoi, poi una saletta piccola e scura, un’altra ancora più piccola e più scura e infine hanno aperto una porta e lo hanno mandato dentro da solo. Era un salone grande, con delle finestre altissime alle pareti da cui entrava un sacco di luce e da cui si vedeva la piazzetta dei Leoni e sullo sfondo piazza San Marco. In fondo al salone invece c’era il Patriarca. Zio Pericle ha attraversato tutto il salone, è arrivato fino da lui e gli ha detto: «Noi vorremmo preti nostri, ch’i parla come nantri». «Sarà fatto, siòr! Comandi!» ha risposto subito il Patriarca. Allora mio zio si è messo a ridere e si è messo a ridere pure il Patriarca, che poi gli ha detto: «Vieni qua figliolo, fatti dare una benedizione, che il Signore Dio Nostro ti protegga».
«Ma quale proteggere, Patriarca» ha fatto senza più ridere mio zio, «ho tanti di quei peccati sulla coscienza.» «Ma sìto pentìto?» gli ha chiesto dolce il santuomo. «Sì, pentito sì. Ma i xè gròssi, màssa gròssi…» «Non fa niente, ego te absolvo, ti sono rimossi… Va’ in pace, figlio.» Mio zio è sceso, ha ripreso il fratello, sono rimontati sul treno e tornati a casa. Appena scesi dal traghetto però – sul piazzale davanti alla stazione nuova, che era stata da poco inaugurata in perfetto stile littorio sull’estremo lembo interno della laguna – mio zio Iseo s’era voltato un attimo indietro verso Venezia e il Canal Grande, e aveva infine detto al fratello: «Ma varda quant’acqua, Pericle! Se lo sa il Duce, viene qui e bonifica tutto anche qui. Altro che i sesési, vorìa vedere i venesiàn quando ch’i s’alza la matina e i dìse: Il Canàl! Chi ne gà sciugà il Canàl?». «Ma va’ in malora tì e il canàl» aveva risposto zio Pericle, con l’animo ancora smosso dal Patriarca. «E allora?» fece mia nonna appena furono a casa. «Vedarém» risposero loro, ma non passò nemmeno un mese che in tutti i borghi dell’Agro Pontino arrivarono di corsa e trafelati – spediti di gran carriera da ogni diocesi del Veneto, insieme a una valigia e un baule di vesti e arredi sacri – parroci delle nostre parti che parlavano la nostra stessa lingua. Finalmente un prete fisso e veneto per ogni borgo. Uno che ti capiva – come si suole dire – quando parlavi. «Ah, son proprio contenta» disse mia nonna: «Adesso sì che mi sento in pace e felice in questo Agro Pontìn benedèto. Am manca più niente» quando invece – se gli avesse detto di prendere anche maestri ed avvocati – mio zio Pericle le portava giù pure i maestri e gli avvocati. Ma non ci ha pensato. Ha pensato solo al prete. Anzi, fino all’ultimo suo giorno ha continuato a dire che avrebbe tanto voluto che almeno uno dei Peruzzi si facesse prete – «Acsì andémo a pari» aggiungeva anche, sommessamente triste, fra di sé – e mia
zia Santapace, quella del Benassi, finì per mandarci apposta i figli suoi in seminario, Accio e Manrico; ma si fecero cacciare tutti e due; o vennero via loro, non so. In ogni caso siamo stati finalmente in ogni borgo un solo gregge con il suo pastore – il popolo di Dio nella Terra Promessa – e «Forza San Marco!», sembrava gridasse tutto l’Agro Pontino quando dalla strada di Cisterna si videro sbucare assieme don Federico per Borgo Carso e don Orlando per il Borgo Podgora. Don Federico nella guerra 1915-18 era stato capitano d’artiglieria, aveva la voce grave, severa, tutti i capelli bianchi, autorevole, ieratico sul pulpito e abituato a comandare -«L’è un capitàn d’artilieria!» dicevamo tutti – ma era pure dolce, da come mi ricordo io; almeno con noi bambini. Don Orlando era stato un combattente pure lui, ma era più alla mano, più prete di fatica. In un altro borgo che non dico, invece, arrivò don Brodino. Lo chiamavano così perché era secco e allampanato e ogni volta che andava per le case e lo invitavano a restare per pranzo o per la cena, diceva sempre: «Ma no, ma no, lasciate stare», proprio come l’agronomo Pascale. La gente giustamente insisteva e allora lui alla fine cedeva: «Va bèn, va bèn, rimango; ma solo un brodìn am racomando, un brodino solamente; mangio giusto quello per farvi piacere, perché tutto il resto mi fa male». E allora la nonna di turno metteva su l’acqua, tirava il collo a una gallina, la infilava nel paiolo e nell’attesa che cuocesse passava la farina col setaccio sopra il tavolo, faceva la buca in mezzo come i vulcani, vi rompeva dentro cinque o sei uova e incominciava ad impastare. Poi stendeva la sfoglia – lui intanto continuava a dire «Solo un brodìn, solo un brodìn per mì, paróna» e lei a tranquillizzarlo: «Non si preoccupi, questo è solo per noi» – la ripassava bene bene e fina fina con il mattarello finché, quand’era pronta, la arrotolava come un cartoccio e col coltello, sul tagliere, la tagliava tutta ad anelli che poi scioglieva con le mani in alto, mentre le fettuccine ricadevano sul tavolo. «Solo un brodìn» rifaceva lui, «per me solo un brodìn.»
Poi quand’era tutto pronto e tutti seduti al tavolo e lui a capotavola – dopo avere detto giustamente la preghiera in piedi a capo chino e avere dato la benedizione – prima si faceva il brodino assoluto che la nonna gli aveva messo davanti, poi diceva «Provémo ste taliatèle» e se ne faceva un altro con le tagliatelle in brodo, poi appresso si mangiava tutta la gallina assieme alla polenta che era avanzata dal giorno prima, una mezza pagnotta di pane con il salame o cotechino che il nonno aveva tirato giù dal soffitto e cominciato ad affettare, un altro piatto di tagliatelle con il sugo pronto per il giorno dopo e alla fine, quando proprio non c’era rimasto nient’altro, prima di andarsene si faceva un ultimo bicchiere di vino rosso Clinton col pane inzuppato dentro. Lo strano però è che questo don Brodino è morto subito dopo che era passata la guerra mondiale, quando non c’erano più ponti rimasti in piedi – tutti caduti per i bombardamenti o fatti saltare per aria da sotto con le mine o la dinamite, vuoi dai tedeschi vuoi dagli americani – e per passare da una parte all’altra del Canale Mussolini bisognava scendere a piedi giù dall’argine, arrivare a una briglia sulla savanella e lì, su una passerella di fortuna stesa sui gradoni di pietra, la gente transitava a passo d’equilibrista. Fatto sta, questo don Brodino una notte d’inverno che sotto le feste di Natale era andato a visitare un gruppo di famiglie di là dal Canale – riunite in un podere un po’ meno sinistrato degli altri – al ritorno, nel rivenire da questa parte del Canale Mussolini dove stava la sua chiesa e la canonica, al passaggio a notte fonda sulla passerella della briglia è scivolato o ha inciampato o ha perso l’equilibrio. Ed è caduto dentro il Canale Mussolini. L’acqua non era troppo alta e lui sapeva nuotare. Però era notte, era inverno ed era fredda. Lui è uscito fuori – non c’era nessuno, lì, insieme a lui – ha risalito l’argine e piano piano, tutto intirizzito, se ne è tornato a casa. Ci avrà messo un’ora, non di più. Ma era la fine di dicembre. Si è messo a letto e tempo una settimana è morto di polmonite. Ora qualcuno dice – ma
sono malelingue – che fosse pure un po’ bevuto, quando è venuto via da quel podere. Un brodino di qua, un brodino di là, un bicchiere di vino tra una sorsata e l’altra, forse non ci vedeva più tanto bene quando è stato sopra la passerella. Ma sono solo malelingue ripeto, io non ci credo. Quello che è strano però è che – morto lui – in Agro Pontino poi c’è sempre stato un don Brodino, ora in un borgo ora in un altro, lo adesso non lo so e non sono sicuro, ma certi miei parenti che sono rimasti in Altitalia dicono che anche lì da loro – in Altitalia – ogni tanto capita in qualche posto di trovare un prete che lo chiamano anche loro don Brodino. Vai a sapere perché. Comunque, quando mio zio Adelchi tornò dall’Africa col petto pieno di medaglie – in Africa Orientale non si negò una medaglia a nessuno, la nuova Italia aveva bisogno di eroi e se i caduti furono poco più di seimila, le medaglie al valore furono quasi settemila, più medaglie che caduti -quando mio zio Adelchi tornò dall’Africa, già zio Pericle e zio Iseo se ne erano andati dal podere. Se ne era ovviamente già parlato prima che zio Adelchi partisse con il Barany e la compagnia «Littoria». Non è che a casa dei Peruzzi uno si svegli la mattina e dica: «Oggi me ne vado». La gente discute, ci pensa e ci ripensa, e solo alla fine si decide. E mio zio Pericle era da un pezzo – da appena arrivato qui si può dire, dalla prima volta che gli hanno detto: «Fai qua e fai là! E non fare quell’altro» – che non ne poteva più di stare a sopportare i fattori dell’Opera combattenti: «Io un giorno o l’altro faccio uno sproposito». In più eravamo tanti, eravamo troppi per quel podere. È vero che era un po’ più grande degli altri, e proprio perché eravamo tanti ce ne avevano dato uno da quindici ettari – e non da dieci – e tutta terra fertilissima. Ma sempre tanti eravamo e soprattutto – pensava mio zio Pericle – man mano che crescono i fratelli piccoli, ma pure i figli nostri, dove ci mettiamo tutti quanti qua? «Cosa mangeremo» faceva a mio zio Iseo, «l’argine del Canale?»
Solo di loro fratelli c’erano zio Pericle e zio Iseo con moglie e figli, zio Adelchi ancora signorino, zio Turati che aveva già preso moglie anche lui e aveva uno o due figli, zio Adrasto che la stava per prendere – la zia Nazzarena marocchina di Cori – e poi zio Treves e zio Cesio che era ancora piccolo e andava a scuola da geometra a Littoria; in più tutte le femmine da sposare o con figli spuri. Lei capisce che non c’era da stare molto larghi e mio zio Adelchi gli aveva quindi sempre detto, ogni volta che erano andati in argomento: «Avete ragione, qui siamo troppi». «Eh sì, avete proprio ragione» assentiva immediatamente zio Adrasto, perché lui e zio Adelchi erano come zio Pericle e zio Iseo, ossia uno biondo e l’altro moro ma un solo sentire, una coppia sempre compatta. Bastava che uno avesse detto una parola e l’altro aveva subito compreso e condiviso l’intero ragionamento. Macchine da guerra che lavoravano all’unisono – due buoi sotto un giogo – pensiero e azione, coppie d’assalto e d’acciaio. Una coppia zio Pericle e zio Iseo, e un’altra zio Adelchi e zio Adrasto; anche se questa era un po’ più squilibrata, perché zio Adelchi tanto braccio in campagna non ce lo ha mai messo, quello lo ha lasciato sempre a zio Adrasto. Lui metteva il giudizio e i consigli. Comunque: «Avete proprio ragione» dicevano quei due. E poi si stavano zitti e restavano ad aspettare. «Ma no, ma restémo tuti qua insieme» facevano zio Treves e zio Turati: «Oppure andiamo via noi», ma si capiva che lo dicevano per cortesia verso il fratello. «Ma restè tuti qua» faceva il nonno: «Quando fra dieci anni il podere sarà nostro, semineremo tutto a ortaggi, tutto intensivo e camperemo come re tutti quanti». «Ma no» faceva la nonna, «i gà razón lori, qui saremo troppi.» Fatto sta – ragiona un anno, ragiona un altro – zio Pericle e zio Iseo se ne erano andati per conto loro. Non che fossero andati dall’altra parte del mondo. Stavano a tre o quattro chilometri da noi. Sempre sulla Parallela
Sinistra di fianco al Canale Mussolini, ma dall’altra parte dell’Appia, sui poderi non più dell’Opera combattenti ma delle terre rimaste in mano ai privati. I miei zii – sempre tramite il fascio, il Rossoni e soprattutto quell’agronomo mezzo napoletano del Pascale – erano riusciti ad entrare ad enfiteusi con promessa di riscatto in due poderi di venti ettari ognuno di una grande azienda agraria di certi conti Cerisano-Caratelli, dove quel Pascale faceva appunto il direttore. «Ma sempre coi conti aghémo da combattere?» aveva provato a dire zio Iseo. Ma erano andati. Questi conti Cerisano-Caratelli erano però gente per bene, alla mano, non come i conti Zorzi Vila, che Dio ci pensi lui. Quelli, una volta che mia zia Ondina aveva saltato il fosso tra un campo nostro a mezzadria e il giardino loro della villa per prendere un fiore, la contessa la vide e successe una tragedia. Mia zia Ondina era piccola – avrà avuto sei o sette anni – e stava a pascolare le vacche su quel campo, e di là dal fosso vedeva questi fiori di tutti i colori e piante ornamentali, cespugli, alberelli, vialetti con la ghiaia, e ci andava sempre volentieri a pascolare le bestie fin là, perché vedeva questo giardino e a lei sembrava il giardino delle fiabe. Una volta ha saltato il fosso e ha preso un fiore. E quella cagna maledetta della contessa stava alla finestra e non ha detto niente, ha fatto solo venire il fattore e lo ha mandato a chiamare mio nonno: «Con la tosa, voglio anche la tosa qua». E quando mia zia e mio nonno – che la teneva per mano piccolina – sono stati lì, lei non ha idea di cosa è stata capace di dire: «Ma come li educate i figli? Questa è una ladra, una ladra! È venuta a rubarmi i fiori la ladra, proprio come voi rubate sempre sul raccolto». «Perdonate contessa, perdonatela» faceva mio nonno: «Vero che non lo farai più?» chiedeva a mia zia Ondina, e lei piangeva piangeva. E ancora piangeva settant’anni dopo, quando lo raccontava: «Io non piangevo per me, ma per mio padre che era un sant’uomo buono come il pane, a vederlo
mortificato così per un fiore, un fiore solamente, maladéta la Zorzi Vila e tuta la só ràssa». I Cerisano-Caratelli no, ci potevi parlare, era gente per bene, e ogni volta che zio Pericle diceva «Facciamo così o cosa?», il conte subito gli rispondeva: «Fate come volete voi, Pericle, per noi sta bene». E fecero investimenti d’ogni tipo. Fu in quel periodo che il fascio provinciale gli regalò il trattore e mio zio Pericle se lo rivendette – zio Benassi ancora sta a strillare – e comprò bestie nuove da latte. II terreno era buono – meglio del nostro perché già lavorato in precedenza – era in alto e poco soggetto agli allagamenti anche prima che si facesse la bonifica, e c’erano piante da frutto e viti. I miei zii lavoravano dalla mattina alla sera, però c’era soddisfazione – tiravano fuori certe bietole da zucchero grosse come un braccio – e loro erano tutti felici e non le dico le mogli. Erano solo l’Armida e la moglie di zio Iseo – la zia Zelinda – su quei poderi, i casolari erano quasi attaccati e ognuna cullava o picchiava di santa ragione quando occorreva i figli dell’altra come fossero i suoi. Andavano d’amore e d’accordo e le api facevano un miele che non le dico, non c’erano più i fattori dell’Opera e quando venivano i conti Cerisano-Caratelli o anche l’agronomo Pascale non avevano mai da ridire, facevano sempre segno di sì con la testa e prima di entrare chiedevano pure: «È permesso?». Basta che non gli parlavi male dei pomodori però, al Pascale. L’unico difetto è che stavamo in piena terra infidelium, circondati di qua e di là da coloni sermonetani che ogni volta che ci vedevano passare con i carri o con le bestie da lavoro, li sentivi che facevano: «Va’ i cispadani, va’». «Marochìn marocàssi» facevamo noi. E una volta che alla fiera del Monticchio l’Armida s’era portata un carrettino per vendere il miele, un gruppo di donne di queste parti qua – marocchine sezzeso-sermonetane che stavano a vendere le olive, i carciofi, i carciofini sott’olio, i fichi d’India -hanno cominciato man mano a spingerle il banchetto suo, ad urtarglielo: «Che vuole
qua sta cispadana?», si facevano tra loro, «non gli basta d’averci rubato le terre, mo’ pure il posto alle fiere?». L’Armida non è che restasse zitta. Anche se era in minoranza rispondeva, non si tirava indietro. Poi una parola ha provocato l’altra e alla fine una di quelle le ha detto, perché lei capisce bene che oltre al miele c’era pure e soprattutto – come vero casus belli – la sfolgorante beltà dell’Armida: «Ma va’ sta puttana cispadana con le cosce di fuori». Lei difatti aveva un vestitino leggermente più corto del loro, sarà arrivato a mezza caviglia. L’Armida non ha fatto nemmeno in tempo a rispondere perché di là passavano in quel momento le altre mie zie -le Peruzzi, tutte assieme – e in testa le due gemelle, la Modigliana e la Bissolata. E subito è scattata come una iena mia zia Bìssola. «A chiiiiii?!» strillava come una matta tirando già la marocchina pei capelli: «A chi hai detto puttana, a mia cognata? A mè cugnàààà!» e tirandola per i capelli l’ha buttata per terra. E tutte le sorelle sono subito scese in combattimento: «A mè cugnàààà!» – tanto che l’Armida dentro di sé pensava: «E chi l’avrebbe mai detto che mi volevano così bene?» -fin che non sono arrivati gli uomini e se la sono vista fra di loro. Poi dopo – andando a casa – tutte che se la stringevano e se la coccolavano: «Mè cugnà de qua! Mè cugnà de là!». Se la potevano insultare solo loro la cognata. Comunque zio Adelchi, appena tornato dall’Africa, la prima cosa che ha fatto – ancora prima di andare a casa ad abbracciare sua mamma – è stata correre in comune con le medaglie al petto a presentare la domanda al podestà. Poi via di corsa sui poderi nuovi dei conti Cerisano-Caratelli a vedere come s’erano sistemati i fratelli. Ha guardato di qua, ha guardato di là, fatto un giro per i campi, controllata la stalla, fatto «Oooh!» davanti alle olandesi e poi ha detto: «Ah, son contento! Vi siete proprio sistemati bene.. Pericle, varda ch’ago apena presentà domanda de vigile urbàn. Mettici una buona parola tu».
«Ecco perché sei venuto, fiòl d’un can» s’è messo allora a ridere mio zio Pericle. Però la parola gliel’ha messa. In fin dei conti era un pluridecorato, la licenza elementare ce l’aveva, era “sciarpa littoria” e “marcia su Roma”, stava pure bene in divisa che pareva un Adone: «Chi volete se no come vigile urbano» disse mio zio Pericle al fascio, «il principe di Piemonte?». E zio Adelchi diventò vigile urbano. Fu uno dei primi a Littoria. Erano in tutto cinque o sei. Sempre con pistola e cinturone, casco coloniale e divisa bianca immacolata d’estate, uniforme nera d’inverno. Era un’autorità, uno sceriffo. Andava in giro con la bicicletta all’inizio, poi gli diedero la moto – la prima moto dei vigili di Latina-Littoria, un Gilera 125 – perché in Africa era diventato pure motociclista e s’era congedato col grado di sergente o caposquadra, non so bene adesso. Comunque girava per tutte le strade ed era proprio un’autorità – allora – un vigile urbano di Littoria. La sera – dopo il servizio – tornava a casa con la bicicletta sua al podere 517 sul Canale Mussolini, e ci riandava a Littoria al mattino. Lì pigliava la moto o la bicicletta del comune, ma solo per servizio, perché era preciso mio zio Adelchi, lui – per sé stesso – non si sarebbe mai approfittato di niente. A casa, sul podere, era lui oramai il primo maschio, ma è ovvio che con un forcone in stalla – o sui campi – non ce lo abbiamo proprio visto più. Io me lo ricordo solo una volta -da ragazzino – che stavamo cavando le bietole. Erano i primi anni Cinquanta e stavamo tutti in fila sul campo. Lui e il collega sono passati sulla strada. Erano gli anni Cinquanta le ripeto, e Latina aveva già fatto grandi passi avanti come città, non aveva più quattro o cinque vigili urbani, ma tanti oramai e c’era proprio la pattuglia motorizzata, andavano sempre in due come i carabinieri o la polizia stradale. Loro comunque passavano sulla Parallela e si sono fermati. Hanno lasciato le moto sulla strada e sono venuti a salutare. «Te sì vegnesto anca tì a cavar le bietole, Delchi?» lo prese in giro mio zio Iseo. E allora lui – per far vedere all’amico – si tolse prima il cinturone con la pistola, poi la giacca, la camicia e
in canottiera, con tutte le braghe della divisa addosso e gli stivali da motociclista prese un rampino e disse: «At fàsso véder mì!» e si mise a cavare due o tre bietole. È l’unica volta che l’ho visto. Ma due o tre bietole sole però, perché subito fece: «Purtroppo devo tornare in servizio» – mentre tutti ridevano – «se no ti farei vedere io». Con tutto questo, lui continuava naturalmente a svegliarsi prima di tutti – adesso aveva diritto a una cameretta per conto suo – a lavarsi per bene, radersi, improfumarsi, mettersi la camicia pulita e la divisa che mia nonna gli faceva trovare sempre stirata in perfettissimo ordine, dopodiché, tutto pronto a puntino e col ciuffo imbrillantinato sotto la visiera cominciava ad aprire le porte e a strillare in tutte le stanze, specie alle sorelle e alle nipoti, sia nubili che zitelle, ma anche maritate: «Sveglia ragasòle che il sole l’è già alto, sveglia che l’è ora d’andare in campagna». «Ch’at vègna un càncher, Adelchi» gli dicevano ogni mattina i miei zii. Comunque era il 1937, mio zio Adelchi era appena tornato dall’Africa Orientale ma – come lei sa – era già bella che scoppiata anche la guerra di Spagna. Fu una guerra durissima. Di là i rossi, aiutati da migliaia di volontari provenienti da tutte le nazioni e aiutati in armi e mezzi soprattutto dall’Unione Sovietica. Di qua – coi generali golpisti – l’Italia e la Germania nazista. «Ma che bisogno ghe xè de andare a far guèra anca in Spagna?» diceva mia nonna. «Ma che volete capire voi di politica, mamma?» ridevano i miei zii: «Se tu non vai dagli altri, gli altri prima o poi vengono da te. Si chiama supremasìa, mama». E mica era stupido il Duce secondo i miei zii: mo’ lasciava che dall’altra parte del Mediterraneo – il Mare Nostrum – ci si impiantassero i bolscevichi? Ma tu sei scemo, ha detto il Duce, e ha mandato subito le truppe nostre. E fin che noi avevamo avuto zio Adelchi in Africa, avevamo pure potuto dire al fascio: «Be’, c’è l’Adelchi in Africa». Ma appena zio Adelchi è tornato, è bisognato anche a noi di dover mandare qualcuno – volontario – in
Spagna: «Chi va stavolta?». È toccato a zio Treves, che anche lui non aveva ancora preso moglie. Voleva partire pure zio Turati insieme a lui – per non lasciarlo solo – pure se aveva moglie e due figli piccolini: «La paga xè bona» diceva contento alla moglie, «e noi siamo troppo forti, non c’è nessun pericolo, tosa. E metteremo qualche soldo da parte». «Sì, ma resto sola» piangeva lei. «Tì te stè qua!» ha fatto allora mia nonna, e zio Turati è rimasto a casa. Non è andato. Zio Treves invece è partito per la guerra di Spagna e noi abbiamo continuato quella, giorno dopo giorno, per la redenzione nostra e delle Paludi Pontine – maladéti i Zorzi Vila – oramai quasi completamente bonificate. Il 19 dicembre del 1934 intanto – dopo avere inaugurato ad aprile Sabaudia – il Duce e Cencelli avevano fondato Pontinia e c’eravamo pure noi. O meglio, Cencelli per la verità aveva rischiato di non esserci. Pochi giorni prima aveva avuto un incidente con la macchina. Su non so quale strada poderale, gli era uscita all’improvviso una vacca maremmana. L’ha presa in pieno. La vacca morta e lui buttato di fianco con la macchina, addosso a una spalletta del ponte. Ha buttato giù pure quella ed è finito nel fosso. I contadini lo hanno tirato fuori che smadonnava come un disgraziato: «Fate piano ve possin’ammazzà, fate piano che ve rispedisco in Veneto». S’è fratturato il mento e un paio di costole. Però non è voluto mancare ugualmente all’appuntamento: «E che cazzo, si fonda Pontinia e io non ci sto?» s’è messo a strillare per tutto l’ospedale di Velletri, finché non gli hanno trovato una lettiga e lo hanno portato in barella a Ponti nia. Ci sono ancora in giro queste foto del Duce che mette la calce con la cucchiara sulla prima pietra, e a fianco Cencelli che pare una mummia, dentro la divisa della milizia con la camicia nera, ma con tutte le fasce e le garze bianche a fasciargli il collo, il mento, metà della faccia e la capoccia tutta intera sotto il fez nero. Pare Tutankhamon.
Comunque era il 19 dicembre 1934, benedizione del vescovo, posa della prima pietra, ambaradan come tutte le altre volte – tutti i Peruzzi presenti, naturalmente – e pioveva a dirotto anche lì a Pontinia. Ma appena è arrivato il Duce, è uscito il sole (che fa, ride? È inutile che si mette a ridere, se non ci vuole credere sono affari suoi, ma a me i miei zii me l’hanno raccontata così. E loro c’erano). Chi non c’era più però il 18 dicembre dell’anno appresso -1935, quando poi l’hanno inaugurata, Pontinia – era proprio il povero Cencelli. Lui se l’era voluta, se l’era fondata a costo della vita come detto, s’era fatto fare tutti i progetti e controllato le imprese una ad una, ma quando è stata l’ora di vederla finita e poterla inaugurare, lui non c’era più. Era stato scancellato. Il Duce era così: quando gli giravano, gli giravano. Il Cencelli – è vero – s’allargava troppo. Era reatino. Stava sempre a baccagliare di qua e di là: coi vecchi proprietari, con le famiglie nobiliari, con le imprese appaltatrici, coi terrazzieri sui canali, coi coloni dentro i poderi, coi sindacati e con i santi del Paradiso. Insomma, era più odiato lui in Agro Pontino oramai, che la zanzara anofele o i sezzesi. Per onestà bisogna anche dire che il Duce pare fosse diventato un po’ invidioso. Lui era così, prima ti portava alle stelle e poi – appena cominciavi a brillare un po’ troppo – subito ti ributtava alle stalle. Guardi quello che ha fatto con Balbo, che i miei zii ancora in vecchiaia non se lo riuscivano a spiegare; eppure i miei erano di Rossoni, non di Balbo. Bene, quello ti mette in piedi un’aeronautica che è la fine del mondo, ti fa due trasvolate atlantiche, l’ultima con 25 idrovolanti che in formazione compatta passano l’Atlantico e arrivano in Canada e in Usa. Tutto il mondo a guardare. Nessuno era riuscito fino allora a fare una cosa così, segno non solo di grande coraggio, ma soprattutto di assoluta precisione organizzativa e strapotere tecnico e produttivo. Eri all’avanguardia dell’aviazione mondiale, o almeno così dicevano i miei zii. E difatti gli americani gli fanno un trionfo – prima a
Chicago e poi a New York – che in Italia se lo sogna. Ancora adesso, se lei va a Chicago, c’è Balbo Avenue – una strada grande così – e gliel’hanno lasciata anche dopo che gli abbiamo dichiarato guerra. Lei pensi un po’. E invece il Duce non ci voleva pensare per niente, gli rodeva: «Ma chi si crede di essere diventato il Balbo?» faceva in continuazione al Rossoni. Lei capirà che il Rossoni è difficile che gli abbia detto: «Duce, stai buono». Quello a buon bisogno ci avrà messo l’aggiunta – «E lo dici a me? Sei tu che l’hai portato sempre in palmo di mano» – così appena è tornato dall’America, il Duce lo ha cacciato dal governo, gli ha tolto l’aeronautica e lo ha mandato in Africa a fare il governatore della Libia. Adesso io non so se come dicevano i miei zii, la nostra fosse davvero la prima aviazione del mondo nel 1933, ma certo sette anni dopo – quando siamo entrati nella guerra mondiale – eravamo oramai l’ultima. Gli altri avevano fatto passi da gigante e noi eravamo rimasti fermi. Fermi ai biplani che aveva fatto fare Balbo. In sette anni soli, noi al palo e gli altri a volare. Solo perché quello ogni tanto s’ingelosiva. Non fece così anche col Rossoni alla fine? Ora io non so come andarono davvero le cose col Cencelli. Resta però che il Duce lo sapeva bene – anche se s’era preso lui tutto il merito – chi era il vero fondatore di Littoria e chi, invece, non gliela voleva proprio far fare. E soprattutto sapeva che anche l’altro sapeva. Certo, non glielo diceva – almeno a viso aperto – e anzi a faccia a faccia, a buon bisogno, gli diceva: «Duce tu sei la luce e hai fatto tutto tu, io non ho fatto un cazzo e di quel fatto là non mi ricordo niente, neanche mi ricordo che è successo, me pòssino cecà». Ma con la coda di paglia che aveva il Duce, lei vuole che questo fatto non lo facesse rodere? Comunque, fatto sta, un bel giorno il Duce aveva detto «Basta», lo aveva cacciato dall’Opera nazionale combattenti e a inaugurare Pontinia bella che finita c’era venuto solo col Rossoni; Cencelli si stava a rodere il fegato lui,
adesso, a Magliano Sabina. Era il 18 dicembre 1935 dicevo, e anche se lei non ci vuole credere, in giro per il podere ci dev’essere tuttora una copia del “Mattino” di Napoli che dice come -dopo tutta l’acqua che era scesa ininterrotta dalla sera precedente e il cielo tutto scuro e coperto di nubi – appena arrivato lui spuntasse fuori il sole: “Era tutto nuvolo, s’è detto, ma in questo preciso momento una frustata di tramontana ha spinto la bruma verso i monti Lepini sbiancati di neve. È apparso anche nello strappo un po’ di celeste, e Mussolini vi ha puntato gli occhi, prima di guardare la folla”.
Era il 18 dicembre 1935 ripeto, tre mesi che stavamo in guerra in Abissinia e trenta giorni – come recita la lapide posta a imperitura memoria sotto la torre di Pontinia – da quando tutto il mondo, ossia la Società delle Nazioni, ci aveva decretato l’assedio economico, le sanzioni, come protesta e condanna di tutto il consesso civile alla nostra brutale aggressione all’Abissinia. I miei zii erano incazzati come bestie: «Ah, sì? Tu hai tutti gli imperi che vuoi, e a me mi metti le sanzioni?». Lasci stare che poi quelle sanzioni ce le avevano levate subito a luglio del ‘36 – a fatti compiuti come si dice, quando l’Etiopia oramai era nostra – e avevano ricominciato a mandarci tutto quello che volevamo: ferro, petrolio, carbone, caucciù; bastava che lo pagassimo. Ma questo ai miei zii non l’hanno detto, la propaganda è andata avanti anni con la storia delle sanzioni e dell’assedio economico – ce l’avevano tutti con noi, ci volevano strozzare – e una propaganda che aveva fatto passi da gigante oramai. Il cinema non le dico. Adesso in ogni borgo la domenica proiettavano un film -a Littoria tutti i giorni, o meglio, le sere – e prima del film il documentario Luce, con le conquiste del fascismo e tutte le angherie che invece ci faceva il resto del mondo. Non volevano riconoscere il nostro sacrosanto diritto a quel famoso Imperium che – se si ricorda – noi reclamavamo proprio nell’interesse loro, per portargli anche a loro la nostra pace romana. Invece no, non ce lo riconoscevano e in ogni discorso alla casa
del fascio – ma anche a casa nostra o all’osteria – prima o poi s’arrivava sempre alle sanzioni: «Maladéti lori e só sansión». «Ma còssa xèle de preciso ste sansiòn?» chiese una volta mia nonna. «Oh, mama» le disse zio Adelchi, «una cosa peggio di quota 90.» «Mariavèrzine» fece lei. A noi, comunque, che queste sanzioni ce le avessero levate già a luglio del 1936, non ce lo hanno mai detto. O almeno non lo abbiamo capito. E quando nel 1954 o ‘55 – che la guerra mondiale era passata da dieci anni – mio zio Iseo comprò la radio nuova e la portò a casa dicendo: «Spòsa, agò catà l’aradio», mia zia Zelinda era tutta contenta e la guardava di qua e di là e la rigirava proprio in quanto oggetto, non solo perché emettesse suoni e canzoni. Era una radio piccolina di nuovo tipo – marca CGE, di plastica e lamierino – grossa sì e no una scatola da scarpe. Non più un comò di legno di una volta. «Che bel aradio» faceva zia Zelinda. Poi però s’è fatta anche leggere dalla figlia cosa c’era scritto dietro lo chassis, s’è sbalordita ed è corsa a chiedere al marito: «Ma dove ‘o ghètu catà, dove l’hai comprato quest’aradio?». «Da l’aradiàro» ha fatto zio Iseo. «Perché?» ha chiesto poi: «Cos’ha che non va?». «Ma xèo stranièr!» «E alora?» le ha richiesto lui. «E le sansión? Come ghètu fàto còe sansión?» Ed era il 1954 o ‘55. In ogni caso, sanzioni o non sanzioni, le conquiste del fascismo proseguivano e il 21 aprile 1936 il Duce venne in Agro Pontino – o meglio al limitare Nord, ai confini con quello Romano – a fondare anche Aprilia. C’erano tutti i miei zii naturalmente e lo hanno visto di persona salire su una trattrice Fiat ultimo tipo – un cingolato arancione nuovo fiammante – mettersi alla guida, partire e tracciare il sacro solco di fondazione con l’aratro attaccato dietro. Anzi, se lei guarda le fotografie, quello che sta in piedi a
fianco a lui con la tuta da meccanico e lo assiste nelle operazioni, è il povero sor Augusto Reali caposquadra alla Motomeccanica di mio zio Benassi. Quello che si vede invece sullo sfondo con il fez e gli occhiali è Gerardo Rizzo, un siciliano dell’Opera che dopo la guerra scappò con i depositi del risparmio rurale. Anche lì ad Aprilia – e non si metta a ridere però, se no smetto e me ne vado – per tutta la notte precedente era piovuto, e fin che non è arrivato il Duce il cielo è stato carico di nubi, ma appena è sbucato lui alle nove di mattina, il sole l’ha rifatta da padrone: “I campi si presentavano lucenti, il terreno era intriso d’acqua e gli alberi ancora grondanti” scrivono le cronache.
Lui comunque s’è messo sul trattore Fiat, ha tirato la cordicella dell’aratro, ha innestato la marcia e s’è tracciato il suo solco sacro come ai tempi di Romolo e Remo. Anche allora le città si fondavano così, si tracciava un solco seguendo il rito degli antichi àuguri etruschi, e la città cominciava a nascere. Guai a chi lo passava quel solco e anche Romolo aveva messo in guardia tutti: «Chi lo passa muore». Il fratello invece per sfidarlo ci si mise a saltellare sopra, di qua e di là: «Visto che l’ho passato? Visto che l’ho passato?». Che doveva fare Romolo? L’ha scannato. E quando s’è ritrovato tutto stralunato con la coratella del fratello in mano, ha detto: «Oddio, che ho fatto?». Però era troppo tardi – «Quel che è fatto è fatto», non s’è più potuto tirare indietro – ha pulito la spada dal sangue con un ciuffo d’erba, ha messo il corpo del fratello dentro il fosso, s’è fatto un segno di croce o le altre preghiere che dicevano a quel tempo, e ha cominciato a buttare giù pietre e tirare su muri. Che figura ci faceva se no con i compagni? E ha fatto Roma. Così il Duce il 25 aprile 1936 arò il sacro solco di Aprilia – era la prima volta che faceva questa cosa del solco, e noi eravamo là, tutti i Peruzzi, i Benassi, i Lanzidei – poi murò la prima pietra e tornò a casa sua a palazzo Venezia. Passarono diciotto mesi e il 29 ottobre 1937 Mussolini rivenne ad Aprilia a inaugurarla. Finita. Tutta completa. E lui contento, perché era venuta proprio
un gioiello. Poi -dopo soli sette anni – la guerra distruggerà tutto e Aprilia non verrà più come prima, ma lei la doveva vedere allora. L’avevano progettata in quattro – due ingegneri e due architetti – e i due architetti erano ebrei; ebrei fascistissimi naturalmente, tali e quali al povero Barany. A quel tempo, ancora non ci si faceva caso agli ebrei, erano persone uguali, italiani e fascisti come tutti gli altri. All’inaugurazione il Duce si portò appresso Rudolf Hess, il numero due della grande Germania nazista. Veniva subito dopo Hitler e noi oramai eravamo diventati amici. Agli inizi il Duce non li calcolava proprio. Era lui – l’Hitler – a volergli stare attaccato e a volerlo incontrare sempre: «Duce tu sei la luce, tu sei il mio maestro, io ho imparato tutto da te, voglio essere uguale a te». «Ma stà in là Adolfo, non starme sempre tacà» lo scansava lui col braccio, perché quello lo toccava proprio, era una zecca, e al Duce invece non gli piaceva d’essere toccato. Lui voleva toccare solo le femmine. «Ma non gli insegnano l’educazione a casa loro?» faceva al Rossoni che gli stava di lato: «Al pare un saltimbanco». Quando poi Hitler gli disse che ce l’aveva con gli ebrei, allora il Duce ci voleva mettere una croce sopra: «Ma questo xè mato! Ma che casso ghe gà fato de mal, sti pori brèi?». Poi invece quello è diventato una potenza e in Spagna – a fare la guerra insieme a noi contro i rossi bolscevichi -schierò tanti di quegli apparecchi, e così moderni, da mettere paura: Dornier, Messerschmitt, Junkers Stuka Ju87. Fu lì che misero a punto le tecniche e le sperimentazioni per la Seconda guerra mondiale. Anche i bombardamenti aerei a tappeto li calibrarono lì, a Guernica – il 26 aprile 1937 – radendola al suolo proprio mentre noi in Agro costruivamo Aprilia. Ad ogni modo la vita è così, prima uno lo schifi e dopo te lo sposi. E noi ci siamo sposati con la Germania nazista. A ottobre del ‘36 abbiamo firmato il protocollo per la politica estera – l’Asse Roma-Berlino – e poi via di questo passo, sempre più stretti fino al Patto d’Acciaio: “Due popoli una fede” c’era scritto sui francobolli.
Il fatto è che per la guerra d’Abissinia ci eravamo trovati alle strette con Francia ed Inghilterra che ci mettevano i bastoni fra le ruote – loro avevano l’impero e noi, come le ho detto, dovevamo restare all’angolo – e anche il camerata Roosevelt aveva cominciato a defilarsi: «Eh, le aggressioni no!». La Germania nazista, invece, subito s’era messa a dirci: «Ma come no? Voi avete ragioni da vendere, da oggi in poi siete amici e fratelli nostri, andate avanti che noi vi aiutiamo». Ora lasci perdere che poi – mentre noi facevamo la guerra – loro erano i migliori fornitori di armi del Negus. Questi sono affari. Business is business, dice Tony Soprano. Però un passo tira l’altro, e anche se dopo la conquista dell’impero ci hanno tolto le sanzioni e tutto è tornato pressappoco come prima, più Francia ed Inghilterra ci guardavano in cagnesco e più noi ci stringevamo – per la forza delle cose – alla Germania. Loro intanto – i tedeschi – crescevano sempre di più, giorno per giorno, in potenza economica e militare. L’organizzazione loro non era la nostra – precisa e perfetta come la meccanica tedesca non c’era niente a questo mondo, diceva mio zio Benassi che di meccanica se ne intendeva – e loro erano davvero una macchina che cresceva, s’aumentava e raddoppiava da sola a vista d’occhio. Progressione geometrica si chiama, e ogni volta che il Duce andava lì e vedeva le parate, tornava a casa sempre più impressionato. Adesso era lui che gli si attaccava al braccio: «Adolfo di qua, Adolfo di là». Ed era l’Adolfo che diceva a lui: «Sta in là, Duce, non star tocàrme». E faceva un passino più in là per discostarsi, mentre piano piano diceva a Goebbels: «E che educazione sti taliani!». Comunque il 29 ottobre 1937 alla inaugurazione di Aprilia c’era pure Rudolf Hess insieme al Duce, che era tutto contento perché gli era riuscito di nuovo – e davanti a Rudolf Hess – il trucchetto del sole: «Tie’, vaglielo a raccontare a Adolfo adesso. Di’ se l’è bòn lù, da farlo». Ma quello che è più strano è che due anni dopo esatti -28 ottobre 1939, inaugurazione di Pomezia – anche a Pomezia era una giornata piovosa,
acqua a rotta di collo e il cielo una cappa di piombo. Il Duce arrivò da Roma a mezzogiorno su una macchina scoperta e appena spuntò lui da lontano, subito ricominciò ad uscire piano piano il sole: «Quando tutto il corteo delle macchine sortì dal ponte e si avvicinò a noi che stavamo in piazza» – raccontava il Lanzidei, che quando beveva un bicchiere di troppo diventava pure poetico – «in quel momento apparve splendente ed improvviso il sole, che rese luminoso tutto l’ambaradan». «Luminoso un casso, l’Amba Aradam!» lo interrompeva allora mio zio Adelchi: «T’avrei voluto far vedere». Quella fu però l’ultima volta che gli riuscì il trucchetto. Anzi, era proprio l’ultimo trucco che gli fosse rimasto, gli altri era da un pezzo che non gli uscivano più. Lui era ancora convinto di sì: «Ogni numero che tiro fuori non può che essere tombola assicurata, Mussolini gà sempre razòn». E invece no, nel sacchetto gli erano oramai rimasti solo i numeri disgraziati, quelli buoni se li era fumati tutti, ma non se ne è voluto rendere conto. Anzi, ogni volta che gliene usciva un altro brutto diceva: «Non fa niente, il prossimo sarà sicuramente buono», e via con la mano dentro il sacchetto a tirarne fuori uno peggiore ancora. Non c’era verso di tenergliela ferma quella mano -gli era presa proprio la frenesia – perché come dicono gli antichi, gli Dei rendono ciechi coloro che hanno già deciso di perdersi. Pomezia comunque l’ha inaugurata il 29 ottobre 1939. Tutta finita. Un gioiello pure lei. L’avevano progettata quegli stessi quattro amici – due ingegneri e due architetti – che avevano progettato Aprilia. Ora però si dà il caso che mentre avevano cominciato a costruirla, Pomezia – 22 aprile 1938 – era uscito il Ma nifesto degli scienziati razzisti e aveva cominciato le sue pubblicazioni una rivista che si chiamava “La difesa della razza”. Poi norme e leggi antisemite tra settembre e novembre, e alla fine dell’anno 1938 gli ebrei erano fuori legge in Italia, non erano più cittadini uguali agli altri, non potevano insegnare né avere nessun posto pubblico né –
Dio ne scampi – fare parte dell’esercito o del partito fascista, o esercitare determinati mestieri o professioni. Anzi, manco più i figli a scuola insieme agli altri potevano mandare. Io dico la verità: ai miei non gli fece nessun effetto. Come a tutto il resto del popolo italiano, sia ben chiaro. Lei ha mai sentito di qualcuno per caso in Italia che nel 1938 o ‘39 si sia alzato a dire: «Però con questi ebrei no, non si fa così»? Nessuno. Neanche una parola. Tutto il popolo italiano ha detto: «Casso min frega a mì? Son mica ebreo mì». Anzi, a ricordarsi bene tutto quel che avevano detto e fatto preti e chiesa cattolica in cinquecento anni in Italia – che se li erano inventati loro i ghetti, e il primo proprio dalle parti nostre, a Venezia, in Altitalia – lei capirà che pure i miei parenti e tutto il popolo italiano non ci hanno messo niente a ricominciare a dire: «Eh, sti casso d’ebrei i xè proprio maladéti». Ora però lei ricorderà pure che due dei quattro progettisti di Aprilia e di Pomezia erano ebrei. Fascistissimi ma ebrei. Come il Barany del resto. E tu da un giorno all’altro gli hai voltato le spalle e piantato un pugnale alla schiena. Pure mio zio Adelchi – tanti anni dopo – ogni tanto diceva: «Tu pensa ‘l Barany! Se campava altri due anni, lo copévimo nantri. Menomale che è morto su l’Amba Aradam, è stato fortunato». Prima lo avremmo cacciato dall’Opera e dal partito e poi – a buon bisogno – lo avremmo caricato pure lui su un vagone piombato per Mauthausen; dove difatti morì il figliastro di Petrucci, uno di quei due architetti di Aprilia e di Pomezia. E tutto perché quell’altro s’era legato mani e piedi – anima e corpo, anima e mente – al suo nuovo alleato germanico. «Ma siete matti?» strillò il solo Balbo – Italo Balbo, onore e gloria a lui – insieme a De Bono in Gran Consiglio del fascismo: «Ma che vi hanno fatto gli ebrei? In Italia sono più fascisti di noi».
«Tu non capisci niente di politica» gli sibilò il Duce. E tutti zitti come mosche, anche il Rossoni. Non fiatava più nessuno là dentro. “Mussolini ha sempre ragione” stava scritto sui muri di tutta Italia, e a furia di farlo scrivere, alla fine
ci avevano creduto pure loro. Anzi, quel che è peggio è che ci credeva lui. Gli unici tentennamenti e titubanze gli venivano quando stava con l’amico suo, Hitler: «E quando si sbaglia questo?». Gli rodeva, ma non c’era più niente da fare: «L’Adolfo ‘l gà sempre razón». Lo aveva messo sotto oramai. Fatto soggetto, come si dice da noi. Comunque mentre noi stavamo a costruire Pomezia -e mentre cucinavamo quel bel piattino agli ebrei – intanto finiva la guerra di Spagna e mia nonna era tutta contenta perché zio Treves tornava a casa. Invece no. «Ma dove vai?» gli hanno detto a zio Treves: «Con tutto il casino che c’è in giro, qui non si smobilita più nessuno». Quell’altro difatti – l’amico tedesco del Duce -già s’era annesso l’Austria e tredici giorni prima che finisse la guerra in Spagna ne aveva cominciata un’altra con la Cecoslovacchia. L’aveva invasa ed era finita subito. Noi intanto – per non restare indietro – il 7 aprile 1939 eravamo andati a invadere l’Albania e l’avevamo annessa all’Italia: «Roba nostra». Non c’era niente là, però questo consentiva – quando si annunciava il nostro re da qualche parte – di poter dire adesso: «Ecco a voi Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Imperatore d’Etiopia, per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia e d’Albania». Le pare niente, a lei? Il primo settembre del 1939 infine – meno di due mesi prima che noi terminassimo la costruzione di Pomezia e che il Duce venisse a inaugurarla – Hitler invase la Polonia dando inizio alla Seconda guerra mondiale. Il mondo ripigliava fuoco un’altra volta, anche se per il momento noi restavamo fuori dal casino. Anzi, l’Adolfo glielo aveva detto chiaro al Duce: «Stà fora tì, per i commerci mi sei più comodo fuori che dentro. Dentro mi dai solo impiccio».
«Va bèn ‘Dolfo, nantri restémo fora» ha risposto. Però dentro gli rodeva: «Che figura fàsso?» pensava tra di sé. Chi non gli rodeva invece eravamo noi, ossia mia nonna, che di guerre s’era stufata: «Con tutto quello che c’è da lavorare qui?». Noi no, i maschi. I maschi pensavano: «Otto milión de baionete! Ma còssa spetémo a entrare in guèra?». Oramai ci eravamo convinti che forti come noi non ci fosse nessuno a questo mondo: «Che vuoi che valgano gli altri?». Comunque questa era la situazione quando il Duce era venuto a inaugurare Pomezia il 29 ottobre 1939: il mondo era in guerra. Ma ciò che le sembrerà più strano è che per noi Peruzzi la cosa più grave non fosse questa – ossia la guerra – bensì che quel giorno a Pomezia a inaugurare la nuova città non ci fosse più, insieme al Duce, l’Edmondo Rossoni. S’era stufato anche di lui stavolta. Cacciato. Pochi giorni prima lo aveva fatto chiamare: «Camerata Rossoni, ho deciso di accettare le vostre dimissioni da ministro dell’agricoltura». «Eh?» aveva fatto il Rossoni. «Firmate qui e andate in pace», mettendogli sotto il naso un foglio e una penna: «Domani stesso verrete sostituito dal camerata Tassinari». Lui, il Rossoni, era un anno oramai che insieme a questo Tassinari – un giovane e sconosciuto sottosegretario – stava preparando l’assalto al latifondo siciliano. Cinquecentomila ettari – mezzo milione – da dividere in tanti poderi da dare ai contadini, più una cinquantina di borghi e di città da costruire nuove di zecca. Una rivoluzione gigantesca – dieci volte l’Agro Pontino – con tutti i baroni e latifondisti siciliani da mettere sulla graticola. Era già cosa fatta. Tutto pronto. Di lì a pochi giorni sarebbe uscita la legge e si sarebbe potuti partire. E difatti partirono – borghi e poderi a rotta di collo per tutti gli anni di guerra fino al 1943; si fermarono solo quando sbarcarono gli americani, che i baroni
siciliani, ma pure i mafiosi, dissero: «Menomale» – ma partirono senza il Rossoni: «Firma qua». Io adesso non lo so se lui lo ha cacciato perché stava diventando troppo importante – «Di questo passo la gente crederà che l’è lù che dà la tera ai contadìn, non mì» – oppure perché era fatto così e basta, era fatto male. O magari - chissà? – gli rodeva Tresigallo. Lei ricorderà che il paese di Rossoni era solo un bivio, una piccola frazione – tre case e una chiesetta – nel comune di Formignana. Be’, dopo essere diventato ministro, Rossoni ci aveva fatto costruire pure lì una città nuova – cinquemila abitanti – e l’aveva fatta comune; se lei passa da quelle parti ci deve andare. Pure Mussolini – come sa – s’era fatto costruire Predappio Nuova al bivio di Dovia dov’era nato lui, ma non c’è proprio paragone con Tresigallo e magari è lì, passandoci, che il Duce s’è fatto rodere: «Fiòl d’un can!», perché Tresigallo è un gioiello d’architettura. Ci vengono da tutte le parti del mondo per studiarlo. Per lui doveva essere l’anti-Ferrara – «Agh fàsso védere mì, al Balbo» - e aveva fatto tutto da solo: espropri, affari, imprese. Una piazza ad emiciclo porticata – «La devi vedere», diceva a mio nonno quando lo veniva a trovare – e fabbriche d’ogni tipo tutto intorno alla circonvallazione: trattori, trebbie, trasformazione dei prodotti agricoli; la «città corporativa», la chiamava lui. Al centro del cimitero, poi, s’era fatto fare un mausoleo enorme con scritto “Rossoni”: «Ti ci metto anca tì quando ch’at mori» diceva a mio nonno.
«Ma stàghe da sòl» rispondeva lui: «Mì sto bèn sul Canàl Musolìn». Comunque, fatto sta, quando il Duce aveva ordinato «Firma qua e vai in pace», il Rossoni aveva provato a dire: «Ma Benito…». «Benito a chi? E che sono, tuo fratello?» «Scusate Duce, ma veramente…»
«Veramente un corno! Guardate qui» e gli aveva tirato fuori da sotto il tavolo un pacco grosso così di informative vecchie di anni: «Vi siete arricchito come un ladro a Tresigallo, avete depredato i vostri paesani, avete fatto la cresta anche in Agro Pontino…». «Ma no, ma che dite? Sono tutte calunnie.» «Calunnie?» strillava il Duce, e gli tirava in faccia le scartoffie: «Guardate qua! Il tesoro dei sindacati! Vi siete rubato anche i soldi dei lavoratori». «Ma ancora con quella storia? Ma nol xè vero niente, Ducce» implorava il Rossoni. «E vostra moglie? Guardate qua vostra moglie!» «Mè mojère?» s’è sbiancato e quasi sentito male il Rossoni, quando quello ha tirato fuori un rapporto dell’Ovra che diceva che la moglie – aveva la moglie giovane il Rossoni – se la faceva con un suo cugino. «Mentre voi una sera eravate in comune a Tresigallo, quella stava in albergo con il figlio di vostro cugino.» «Ma nol xè vero, nol xè vero» faceva il Rossoni. Poi il Duce ha cambiato tono. Ha smesso di strillare e con voce dolce – quasi suadente ed affettuosa – gli ha passato un foglio della Difesa della Razza: «Ma tua mamma, Rossoni, perché non me lo hai mai detto che era ebrea?». «Ebrea? Mè mama? Anca mè mama adesso?» «Firma e vai in pace, e ringrazia Dio che non ti faccio fucilare», con voce di nuovo dura. «Grazie, Duce» ha detto allora il Rossoni. Ha firmato ed è tornato a casa. «Anca brèo son diventà» raccontava poi però a mio nonno, piangendo quasi dalla rabbia: «Anca brèo, ch’agh vègna un càncher sèch». Neanche a casa nostra peraltro le cose andavano più tanto bene. O meglio, da noi Peruzzi sì, al podere 517 sul Canale Mussolini. Ed anche a quello a fianco di mio zio Temistocle. Pure zia Bìssola ed il Lanzidei erano finalmente andati a sistemarsi vicino a Aprilia, e lui ci si era portato il padre ed i fratelli
suoi. Tutti contadini li aveva fatti diventare – e tutti contenti naturalmente, perché almeno era pane sicuro – e mia zia Bìssa a sovrintendere su tutti, perche non ce n’era uno, lì, che avesse mai visto prima una bestia. Lui naturalmente era sempre antifascista, però adesso gli avevano dato un podere, Aprilia era bella, la palude bonificata, la moglie era quella che era e pure lui, oramai, andava a fare il sabato fascista alla casa del fascio con la camicia nera, la divisa della milizia e il moschetto in spalla per le esercitazioni. «Camerata Lanzidei!» gli facevano i miei zii quando si incontravano. E lui: «A noi!» e si metteva a ridere. Ma c’era sempre qualcuno di noi lì da loro – magari ragazzi o bambini – e pure loro stavano sempre da noi. Era un continuo andare e venire in bicicletta o con i carri, e non era solo uno scambiarsi favori, lavori e giornate, era proprio un voler continuare a stare tutti assieme, una sola grande famiglia. Zia Bìssola era capace di arrivare da noi all’improvviso – carica di ragazzini su quella bicicletta che neanche suo marito quando andava in giro a vendere mutande – e mettersi a urlare come una pazza se qualcuno aveva solo spostato un centrino su un comò: «Qui non si può andare via un minuto che ti spostano tutto quanto». «Ma non ce l’hai una casa tua?» le diceva mia nonna: «Resta là!». «Aaaah! Volete cacciarmi, volete cacciarmi!» faceva lei. E stava sempre qua. «Ma cacciatela davvero nonna» facevano tutti i ragazzini. «Pciàff! Tasi sa, che quéla l’è tó zia.»
Dove invece le cose non andavano più tanto bene era da mio zio Pericle e mio zio Iseo. In salute sì che stavano bene e le mogli andavano d’amore e d’accordo. All’inizio pareva proprio che avessero trovato l’isola di Bengodi. Barbabietole grosse come un braccio – le ripeto – cavavano da quella terra, e centinaia di quintali di grano, fieno, cotone, granturco e tutto quello che mettevano. Poi un bel giorno di fine maggio o primi di giugno del 1939 mia nonna s’è svegliata dicendo: «Agò sognà un manto nero».
«Ancora con sto manto nero!» fecero tutti quanti. Rischi per zio Treves – l’unico che fosse lontano in quel momento – non ce n’erano, perché la guerra in Spagna era già finita e lui faceva il soldato di caserma in qualche parte del Piemonte. «Non stare a portar male» le disse allora mio nonno: «Di’ una preghiera e tasi». C’erano però pure le api dell’Armida, che dalla sera precedente facevano voli strani: «Vhù, vhù, vhù, vogliamo andar là» le dicevano. «Ma dove volete andare? Sté qua, maladéte!» Ma quando è stato il primo pomeriggio – subito poco dopo pranzo, che da noi c’era il sole – non c’è stato niente da fare, le api sono partite per conto loro, «Vhùùùùù vhùùùùù vhùùùùù» e se ne sono venute tutte qua da noi, sull’argine
dove lei aveva lasciato un’arnia. Appresso a loro è venuta giù l’ira di Dio. Tanta di quella grandine da fare paura. Solo da loro a ponte Marchi però, da noi no. Chicchi di grandine grossi come uova. Sassi. Uno dei ragazzini non fece in tempo a scappare sotto il fienile che un chicco lo prese in testa e cadde a terra tramortito. Un taglio che gli usciva il sangue a fiumi. E le tegole rotte e fragore di fulmini – «Sdèn! Sdèn!» – saette da tutte le parti che tra l’una e l’altra, quando finiva il chiarore,
era così scuro che pareva notte buia. Da noi il sole invece, e si vedeva però laggiù da loro – a non più di tre o quattro chilometri oltre l’Appia – questo cielo compatto scuro scuro fino alla montagna, solcato ogni tanto «Sdèn!» dallo scheletro delle saette. «L’è da Pericle» faceva mia nonna tenendosi la testa tra le mani, «l’è il manto nero.» Tutto il raccolto andato a male. Tutto il grano per terra, le pannocchie del granturco, i frutti sui rami già pronti. Ora io non so se lei si rende conto di cosa voglia dire un raccolto intero andato a bàccara, come dicevano i miei zii. Significa che lei tutto l’anno prossimo lo deve fare senza una lira di stipendio. Campare la famiglia, pagare l’affitto, la rata della macchina, mandare i figli a
scuola e andare lei a lavorare senza avere una lira di stipendio a fine mese per tutto l’anno. Il conte Cerisano-Caratelli – altro che gli Zorzi Vila – si mise una mano sulla coscienza, chiamò tutti i suoi coloni e disse: «Va bene, è andata male, il raccolto è perso. Cerchiamo di rimboccarci le maniche e recuperare l’anno prossimo, io vi verrò incontro e tutti i debiti sono sospesi. Vedete però di pagare almeno la rata per il riscatto, perché lì non c’entro più io ma la banca». E allora si sono rimessi sotto bestemmiando tutti quanti, ma dandosi anche una mano tra di loro – «Hai visto, cispada’?» «Eh, marochìn!» – per ripartire. A mio zio Pericle e mio zio Iseo non è mancato naturalmente l’aiuto dei Peruzzi, e non solo in giornate di lavoro, ma anche proprio di grano e farina e pure qualche soldo di quelli che mandava zio Treves dalla caserma o che metteva mio zio Adelchi dallo stipendio suo di vigile. Mio zio Pericle accettava, però gli rodeva perché aveva pure un po’ di coda di paglia – come tutti i Peruzzi peraltro – non serviva che gli altri gli dicessero: «Eh, hai visto? Non potevi startene sul podere nostro in santa pace che non ti succedeva niente?». No, ci mancherebbe altro, e chi era così scemo da andargli a dire una cosa del genere? E non solo perché quello era Pericle, ma proprio perché queste cose non si fanno, anche i Peruzzi lo sanno che non bisogna mai andare a mettere il dito nelle piaghe della gente. Ma zio Pericle non era scemo. Lui lo sapeva quello che pensavano e solo a zio Iseo – perché si sentiva responsabile d’averlo trascinato lì con la famiglia – solo a zio Iseo ha detto: «Isèo…». «Pericle!» non lo ha fatto nemmeno iniziare mio zio Iseo: «Non stare a dire una sola parola. Mì son con tì fino a la morte. E basta! ch’at vègna un càncher» e si sono rimessi a lavorare come Castore e Polluce. Quando è stato novembre però, subito dopo l’inaugurazione di Pomezia – che s’era visto all’improvviso il sole – s’è rimesso a piovere tutti i santi giorni.
Non a catinelle – per la verità – solo pioggerellina vai e vieni sull’Agro Pontino; ma sempre buio scuro e qualche scroscio più grosso ogni tanto. Sui Colli Albani invece l’ira di Dio. Tanta di quell’ac qua a partire dal 2 o 3 novembre che il Fosso di Cisterna e soprattutto il Teppia erano pieni fino all’orlo. Le api già dalla sera prima s’erano messe in agitazione: «Vhù, vhù, vhù». Ma tutti quanti avevano detto di no, che non c’era pericolo, sia i tecnici dell’Opera che quelli del Consorzio e l’agronomo Pascale: «Eh no, può piovere quanto gli pare a Velletri, ma stavolta al Mussolini gli abbiamo preso le misure, può portare tutta l’acqua che viene da qui al Paradiso. State tranquilli». L’Armida però – sentito il «Vhù, vhù» delle sue api -questa volta non ha fatto discussioni. Ha dato un’occhiata al livello del Canale Mussolini che cresceva, ha detto «Va’ in là!» al Pascale, ha chiamato la cognata – «Zelinda!» -hanno preso le arnie e i ragazzini e sono venute di corsa al podere Peruzzi 517. Ma quando sono state da noi, non se la sono sentita di lasciare completamente soli i mariti: «Una fémena ha da star col só omo». Hanno mollato i figli e le api a mia nonna e sono ripartite per il ponte Marchi. Era notte buia quando sono arrivate e i mariti sono stati contenti. Il Pascale non c’era più. Veniva però un rumore sordo di gorghi vorticanti e masse d’acqua dal Canale – «Vvuuóóóuhvvvf, vvuuóóóuh-wvf» – che non c’era proprio da stare tranquilli. Ma i miei zii facevano: «Ma nooo… il Canale è grande, oramai regge». E invece nella notte tra il 4 e il 5 di novembre del 1939 il Canale Mussolini è rivenuto fuori un’altra volta. È venuto fuori solo da mio zio Pericle però, da tutte le altre parti l’argine resse bene, proprio come avevano assicurato i tecnici. Solo da lui ruppe. Ma fu pure colpa sua. E di quel Pascale. Dopo la grandine che gli aveva distrutto tutto il raccolto ai primi di giugno, i miei zii s’erano lasciati invaghire da lui che bisognasse investire di più. «È come al lotto» diceva, perché era casertano-napoletano: «Quanno nun iesce
‘o nummero, s’adda raddoppia’. Mettite ‘e pèrzeche, ‘e pèrzeche». E così impiantarono un pescheto. «E mmiezo ‘e pèrzeche mettìtece ‘e pummarole mie.» E quelli misero le pesche e i pomodori, e i soldi per le piantine se li fecero prestare un’altra volta dai conti Cerisano-Caratelli. Un sacco di soldi per quelle piantine di pesco selezionate dal Pascale stesso, si seppe dopo. Comunque – e questo è il guaio – non bastandogli la terra per tutti i loro investimenti, i miei zii sono andati a piantare gli alberi di pesco pure sopra l’argine, che non era terra loro. «Ma chi vi dice niente?» diceva Pascale: «Mettìtele pure accà, che diventate ricchi». Gli fece anche estirpare gli eucalypti dalla fascia frangivento, per poter usare pure quella: «Che cazzo fanno ccà st’eucalypti? Se zucano tutta l’acqua e so’ pure alloctoni». E così hanno arato e piantato le pesche sull’argine, e quando il Canale Mussolini s’è riempito bene bene ha cominciato a spingere con tutta la forza e il peso delle sue acque contro le fiancate degli argini. E dove poi ha trovato la terra smossa, l’acqua ha cominciato ad infilarcisi e man mano che il livello è aumentato, è aumentato anche il suo peso e quella terra smossa se l’è portata tutta via, dilavando la cima dell’argine ed aprendovi una piccola breccia. Da quella breccia s’è infilata tutta l’altra acqua, pigliando velocità e violenza e portandosi via anche gli altri strati più solidi dell’argine – quelli che stavano sotto – e da quel buco s’è riversato il Mar Rosso sul podere dei miei zii e c’è rimasto per più di quindici giorni, prima di defluire. S’erano allagati solo i poderi loro e i due o tre più a valle. I vicini – i marocchini sermonetani – venivano a soccorrere ed aiutare, mentre le donne portavano da mangiare. Però fra loro non facevano che dirsi: «Sti cazzo de cispadani». Il Consorzio fece pure causa ai miei zii, e voleva i danni. Intanto tutto distrutto, tutto irrimediabilmente perso. Pure il grano che avevano appena seminato. Riprovarono ai primi di dicembre – appena la terra fece finta d’asciugarsi – a riseminarne un po’ e a riseminare l’orzo, l’avena, gli erbai e tutto quello che
hanno potuto. Ma era tardi, il terreno impregnato e difficile da lavorare. Non c’era da farci nessuna speranza. Anche per quest’anno non ci sarebbe stato un buon raccolto. I miei zii non sapevano più che pesci prendere. Pieni di debiti fino al collo. Andavano a cercare Pascale per consiglio, ma non lo trovavano più. S’era nascosto. Si faceva negare. Uccel di bosco. Allora i miei zii hanno detto: «Che facciamo?». Mio zio Adelchi subito: «Rivenite da noi», e così tutti gli altri Peruzzi. «Ma i debiti?» pensavano zio Pericle e zio Iseo. E soprattutto pensavano alla rata del riscatto. Un raccolto passi, due pure, i debiti anche; ma perdere le rate di riscatto già pagate e non diventare più padroni di quella terra che consideravano già loro, quello no. E allora hanno detto: «Il raccolto frega un casso, quel che esce esce. Ma le rate e i debiti se gà da pagarle» e sono andati a Littoria alla caserma della milizia – prima erano andati in giro dappertutto a cercare aiuto, pure a Roma dal Rossoni, che però non contava più niente – e sono andati a Littoria alla caserma della milizia ad arruolarsi volontari per la prima guerra che saltasse fuori. Oramai ce n’erano tante in giro di guerre per il mondo, e prima o poi entravamo nella guerra mondiale anche noi – dicevano tutti – e sarebbe stata un gioco da ragazzi, l’avremmo vinta al volo, insieme a quel nostro alleato germanico che era una vera potenza della natura, nessuno gli poteva stare dietro. L’Italia sotto sotto – ma neanche troppo – si stava già preparando. Si rinfoltivano i reggimenti e le divisioni e si cercavano – benedetti che fossero – i volontari, e li si pagava anche bene. Allora i miei zii hanno detto: «Andiamo in guerra volontari, la paga xè bòna, vincere vinceremo e intanto pagarém le rate e tuti i debiti». «Bòn!» gli dissero alla milizia: «Arruolati! Partenza alla fine del mese. Destinazione: Africa Orientale».
«Bòn, bòn, bòn!» ridissero i miei zii: «Se ha preso tutte quelle medaglie l’Adelchi, figurarse nantri, in Affrica, còs-sa combinémo». Le mogli non volevano. L’Armida non faceva che piangere: «Non star andare Pericle, non star andare». «Non t’ho mai visto così, fémena! Còssa te gà preso?» «Non star andare! Non star andare!» strillava lei, tanto che pure la cognata – mia zia Zelinda – a un certo punto le ha detto: «Ma falla finita insulsa, at pari una ragazzina». «Ma quale ragazzina? Agò le appi mì, che mi dicono tutto il giorno: non star a farlo andare.» Anche mia nonna non voleva: «Agò rinsognà un manto nero». Ma così è la vita: «Aghémo da andare» dissero i miei zii, «ma andiamo, vinciamo e torniamo. In un anno siamo a casa». Il partito intanto – ma soprattutto il conte Cerisano-Caratelli, che era un grosso gerarca e ci si era messo in mezzo anche lui – era comunque riuscito a fare in modo che il Consorzio rinunciasse a fargli causa; fecero risultare che l’argine del Canale era venuto giù per i fatti suoi, non per dolo loro. Non è che la cosa avesse risolto tutto, però era già un bel passo avanti, perché se avessero dovuto pagare anche i danni provocati a terzi, ai miei zii non gli bastavano le guerre stellari quella volta. Certo erano alla fame -alla canna del gas si direbbe adesso, però allora il gas non c’era, almeno sui poderi nostri – ma passin passino ce la faremo, pensavano i miei zii: «Un Peruzzi non s’arrende mai, maladéti i Zorzi Vila». Le donne era inteso che restassero sul podere, non dovevano venir via per non lasciarne il possesso. Facessero poi quello che potevano. A primavera piantassero le barbabietole, il frutto che veniva, veniva – per campare c’era la paga da soldato – e pensassero alla stalla, che erano anche rimaste poche bestie, perché un’olandese se l’era portata via subito, con tutta quell’acqua, una polmonite o tubercolosi fulminante che adesso non le so dire. Un’altra
invece aveva mangiato troppa erba bagnata e le si era gonfiata la pancia fin che era crepata. Era rimasta poca roba e per quel poco sarebbe venuto ogni tanto anche qualcuno di noi – dal podere 517 – a dare una mano. «Non star andare» aveva però ripianto tutta la notte – prima che partissero – l’Armida, graffiando più e più volte la schiena a mio zio Pericle: «Non star andare». Alla stazione di Littoria il mattino dopo, indovini un po’ però chi c’era a salutarli? L’agronomo Pascale. Mai più visto da quella sera del 4 novembre che se ne era andato con l’ultimo cappone due ore prima che l’argine venisse giù. Adesso stava lì alla stazione a fare: «Peruzzi, mi dispiace». «Sta in là!» fece l’Armida sputando per terra. Mio zio Pericle invece lo prese gentilissimamente da parte e gli disse: «Pascale, questa è andata e andè in pace anche vù. Amen. Però state attento, perché ho dato ordine a tutti i miei parenti che appena vi vedono da lontano, debbono correre a ciapàre i fusìli e spararve adosso a volontà». «Ma Peruzzi…» «Andè, che se no incomincio a sparare subito mì» e già s’era tolto da tracolla il moschetto e infilava il colpo in canna, mentre zio Iseo per soprammercato si metteva a strillare: «E quei casso de pomodori moderni i fa proprio schifo!». Tutti i militi in camicia nera allora – perché lo conoscevano dappertutto oramai, in Agro Pontino – col treno che già partiva e la banda sul marciapiede che intonava Giovinezza, tutti fuori dal finestrino ad urlare: «Ah, i pomodori di una volta!». Non lo abbiamo più rivisto, ovviamente. Ma la parola d’ordine di mio zio Pericle è un comandamento che è rimasto impresso per tutte le nostre generazioni e ancora adesso, ogni volta che un Peruzzi raggiunge l’età di capire qualcosa e di spiccicare una sola parola, la prima cosa che gli si dice è – no, non che il Duce se gà pincià la nonna, quello non si dice più da quando sono morti prima il Duce e poi la nonna – la prima cosa che gli si dice è: «Guarda, ci sono due parole sole che un Peruzzi appena le sente deve
correre a prendere il fucile e sparare, una è Zorzi Vila e l’altra Pascale. Appena le senti, figlio, prendi e spara, ci sono tutti i tuoi antenati dietro di te. Anzi, più che Zorzi Vila, proprio Pascale». Comunque, fatto sta, i miei zii sono partiti per l’Africa che l’Italia era ancora in pace. Non belligerante. E se da una parte speravano che non belligeranti fossimo rimasti – così in un anno o due di paga si sarebbero rimessi a posto – d’altra parte pensavano pure che se anche fossimo entrati in guerra, l’avremmo comunque vinta in un batter d’occhio: «Quanto vòtu che la duri?». Ed era quello che pensava tutto il popolo italiano. Loro invece – dal re e dal Duce fino all’ultimo gerarca o generale, dal genero del Duce Ciano che era ministro degli esteri, fino a Badoglio e Cavallero – sapevano come stavano le cose: «Ma dove andiamo, che l’esercito non è pronto?». «È pronto l’Adolfo, e nantri ghe ‘ndémo drìo» disse il Duce: «Che facciamo se no, restiamo a guardare?». «Benón, Ducce! Il Ducce gà sempre razón.» I miei zii li mandarono a Napoli e lì si imbarcarono. Quando poi il 10 giugno 1940 il Duce si affacciò a palazzo Venezia a dire: «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano…», giù tanti di quegli applausi dalla gente che stava sotto. E noi
entrammo in guerra. I miei zii però erano già da un pezzo in Abissinia e nel frattempo – ossia da gennaio quando erano partiti fino a giugno – pure se impreparati, i nostri Stati Maggiori avevano preso atto che quello voleva entrare in guerra e s’erano messi a richiamare la gente e a rinfoltire le truppe. Noi aspettavamo che tornasse zio Treves – era venuto una volta sola in licenza, da quando era
rientrato dalla Spagna – e invece erano stati richiamati pure zio Temistocle e suo figlio Paride, ossia il cugino più grande, il primo di tutti i cugini dei Peruzzi, nato nel 1918 quando suo padre stava a combattere la Prima guerra mondiale. Adesso – padre e figlio – andavano a combattere la Seconda, ma non nello stesso posto e nello stesso reparto, bensì divisi da migliaia di chilometri. Poi partì mio zio Turati – che questa volta non valsero a niente le lacrime della moglie – e perfino zio Cesio il più giovane, quello che studiava da geometra, partì anche lui. Non c’era più un uomo dai Peruzzi. Sui poderi nostri solo mio nonno, che era già un po’ vecchio – sarà stato quasi vicino alla settantina oramai – i ragazzi giovani di mio zio Temistocle di quindici o sedici anni e mio zio Adrasto, che s’era appena sposato e lo avevano lasciato a casa perché «almeno uno bisogna che lo lasciamo su ogni podere, se no che mangiamo più tutti quanti?» s’erano evidentemente detti. E poi naturalmente mio zio Adelchi – perché qualche vigile urbano bisognava pure che restasse a Littoria, li avevano sfoltiti al massimo, tre li avevano richiamati sotto le armi, ma tre bisognava che se li tenessero – però come lei sa, per quanto riguarda lavorare la terra non è che su zio Adelchi si potesse fare tanto affidamento: «Agò il servissio mì! Svélia ragasòle, andate a lavorare». Vista così la mala parata, i miei zii Pericle ed Iseo già da Porto Suez – prima che il bastimento attraversasse il canale – scrissero alle mogli di affittare tutti i terreni o meglio ancora di vendere, se trovavano qualcuno disposto a comprare. E ancora il 7 giugno 1940 – tre giorni prima che quello dichiarasse la guerra – mio zio Pericle da Addis Abeba scriveva: Issa Beba 7.6. famiglia carissima Genitori e Armida di salute stiamo bene Armida dimi come vai in riguardo ai nostri in teressi, che già quando riceverai la presente avvrai terminato la mietitura, e perciò di cuanto racolto ai fatto e come vano lebiettole il grano turco il cotone, delle vache comestano il foraggio, e dimmi i nostri bambini come stano che cosa dice Adria. Onesto cosa dice dime la Pisana come sta di salute, Menego e venuto grande, e in cuanto ai in teressi cerca di fare alla melio, e consiliati senpre coi miei fratelli su tutto per tutto, e fai il modo che il racolto e le piante di mantenerle pulite, se può spendi
cualche cosa a farle pulire. Cari fratelli quelli che alla presente vi trovate a casa, in quanto al mio piccolo andamento fate se condo il vostro giudisio, e se fosse anche di vendere tutto e portare mia famiglia a Podegora fatelo pure, e se in vece vedete diandare avanti meglio io sono senpre contento, che anche andando a bitare a Podegora mia famiglia col suo susidio vive allo stesso, consigliateve fra voi, Adrasto quado ti trovassi unpo inbroliato coi miei in teressi per non avere conosensa, vai da Rinaldi che lui ti puo dare uno Consilio tuo fratello Pericle. Carissima Armida ti prego quando vano per i tuoi interessi cerca di ricon pensarli, sia Adrasto come altri.
Su un altro foglio invece, nella stessa busta, zio Iseo scriveva: Addis Abeba 7; 6; 1940 Carissimi Genitori e Famiglia la mia salute e ottima, così credo sia di voi tutti di famiglia dopo un lungo viaggio siamo rivati a Addis Abeba, i calips sono come diseva Adelchi ma non si resta qui, non si sa dove si vada quando partiremo vi scrivero e vi terò informati di tutto. Zelinda quando riceve la mia presente dimi se sei alla corente col susidio se ai fatto falciare il fieno ese avvete cominciato a taliare il grano, come viene il racolto? dimi se ai trovato un garzone se non lai trovato fa in modo di trovarlo: cosi sto melio anchio perche so che tu non puoi andare avanti cosi da solla, specialmente con le bestie che so che fano combatere, dimi di tutto della nostra campagna, va malie di certo non e vero? Zelinda ma coraggio che tutto passa? quando scrivi fami sapere di tutti li interessi che riguarda al nostro andamento, se hai ancora i due giovenghi se ti fano molto danare; vendili pure, Adrasto da una guardata a casa mia per gliteresi fai per il melio che puoi quando ti vedi in broliato scrivimi e dimi ciò che si tratta. Ora tralasio di scrivervi e col salutarvi tutti di famiglias. Peruzzi Iseo.
Sono arrivate ancora tre o quattro lettere, ma poi più niente. E noi siamo entrati in guerra il 10 giugno 1940 solo perché quell’altro – l’amico tedesco del Duce – sembrava che avesse fatto oramai man bassa. Occupata la Norvegia, invasi il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, aveva sbaragliato le armate congiunte anglo-francesi e stava per entrare a Parigi. Gli inglesi superstiti erano ammassati sulla spiaggia di Dunkerque, in attesa che da casa li venissero a prendere e salvare – come fecero – anche con le barchette a remi. Una rotta completa. La Francia isolata e in ginocchio. E allora il nostro Duce – l’Uomo – disse: «Ma cosa aspettiamo?
Entriamo anche noi, che con due o tremila morti mi siedo anca mì al tavolo dei vinsitor». E così assalimmo la Francia, che era già persa per conto suo e in ginocchio. Maramaldo. La assalimmo da sotto, dalle Alpi, e c’era pure mio zio Treves e anche lui si credeva – come credeva il Duce -che essendo già vinta bastava un niente. Avremmo dilagato. E invece manca poco e ci rompono loro le costole a noi. Ci siamo potuti sedere a quel tavolo solo perché, nel frattempo, li avevano schiantati del tutto i tedeschi. «Ma che sei venuto a fare?» gli avrebbe voluto dire quella volta anche l’Adolfo, al Duce: «Ma non ti vergogni?». Comunque avevamo battuto la Francia, eravamo vincitori e adesso si trattava di battere l’Inghilterra e poi tutti a casa. Ora – come lei sa – i primi anni di guerra non andarono sostanzialmente male per noi. L’alleato germanico era forte – una macchina bellica e un apparato industriale da mettere paura; sfornavano cannoni, aerei e carri armati come i campi nostri le barbabietole – anche se noi facemmo di tutto per farlo perdere. Quando invademmo la Grecia – che lui gli aveva detto in tutti i modi, prima: «Lascia stare i Balcani, non star a aprire un nuovo fronte là, concentrati sull’Africa Settentrionale e conquistiamo Suez e l’Egitto» – all’Adolfo gli prese una sincope: «Ma che casso sìto ‘ndà fare in Greccia, sènsa dirme niente a mì? Ma vòtu almeno avertìrme?». «E tu mi hai avvertito a me, quando sei andato a invadere Polonia, Cecoslovacchia e inquò anca la Romania?» Il 12 ottobre infatti i tedeschi – calando dall’Ungheria -avevano mandato una “missione militare” pure a Bucarest, per evitare che il petrolio di Ploesti finisse in mano ai russi, che ancora non erano nemici in quel momento, ma Hitler lo sapeva che presto lo sarebbero diventati: «Potevo lasciare quel petrolio in mano a loro?» disse poi al Duce nel tentativo di scusarsi, per non averlo avvisato. L’Italia lo aveva letto sul giornale. Ma il Duce s’è incazzato: «Ah, sì? E mo’ at fàsso védere mì». Buona parte della colpa fu però del genero, il
Galeazzo Ciano, che gli aveva detto: «La Grecia? La mangiamo in un boccone». E la invademmo – si può dire – giusto per fargli vedere che anche noi avevamo gli attributi. Chi si credeva di essere lui: l’unico capace a fare invasioni? «Al sémo bòni anca nantri.» E lui – l’Hitler – si incazzò come una bestia: «Ma desgrassià da Dio, ma ghe xè il petrolio là? Che casso ghe xè in Greccia? Sono più poveri di voi, siete andati là solo per farmi dispetto a me, ch’av vègna un càncher». Niente da fare però. Oramai c’eravamo andati a invadere la Grecia, e c’era anche mio zio Temistocle – un Peruzzi c’è sempre – ma i greci ci diedero tante di quelle botte e lasciammo tanti di quei morti su quei monti, che ci respinsero subito e invasero loro l’Albania, da dove noi eravamo scattati all’offensiva. Ci ributtarono a mare – quasi – e già erano arrivati alle porte di Tirana si può dire, mancavano solo un centinaio di chilometri. E allora abbiamo dovuto chiedere aiuto ai tedeschi – «Scùseme ‘Dólfo, dème una màn» – che se non entravano con le armate loro e i mezzi corazzati e non aprivano per forza pure questo nuovo fronte, un altro po’ ed eravamo noi che dovevamo arrenderci alla Grecia. Lei se lo ricorda il canto di dolore della Julia – la divisione alpina – alla guerra di Grecia? Sul ponte di Perati bandiera nera, l’è il lutto della Julia che va alla guerra. L’è il lutto della Julia che va alla guerra, la meglio gioventù va sotto terra.
Be’, lo sa dove sta Perati? Non sta in Grecia dove pure si dovrebbe pensare – visto che eravamo noi gli attaccanti e che dal balcone di palazzo Venezia il Duce aveva detto proprio: «Spezzeremo le reni alla Grecia» – Perati sta nel cuore dell’Albania. Altro che reni, ce le hanno spezzate loro le ossa e se non arrivavano i tedeschi – le ripeto – erano loro, i greci, che sbarcavano in Italia e forse era meglio così, che almeno finiva subito questa storia. E invece no, sono arrivati i tedeschi e loro si sono arresi. E noi li abbiamo occupati fin nell’ultima isola o paesino. E con mano dura. Spietata. Altro che italiani brava gente o i film tipo Mediterraneo.
Comunque l’ultima lettera dei miei zii dall’Africa Orientale è del 27 settembre 1940. Poi più niente. Sembrava però - come le ho già detto – che dovessimo vincere noi dappertutto, e all’inizio fu proprio così pure in Africa Orientale. Scattammo subito all’offensiva e già ai primi di luglio penetrammo in Sudan e un po’ anche nel Kenya. Gli inglesi indietreggiarono senza sparare un colpo. Ai primi di agosto entrammo nel Somaliland – la Somalia britannica su nel Corno d’Africa – e anche lì gli inglesi sgombrarono, ci inflissero un bel po’ di perdite ma poi si imbarcarono a Berbera e via. In Italia la propaganda e i film Luce non le dico. «Abbiamo già vinto» dicevamo tutti quanti in Agro Pontino. Intanto era scattata l’offensiva anche in Africa Settentrionale – in Libia, dove c’era zio Cesio, il più giovane, quello che studiava da geometra – e avevamo invaso parte dell’Egitto. Bastava arrivare ad Alessandria – «Che ci vuole?» pensavamo noi – impadronirsi del canale di Suez, sloggiare gli inglesi dal Mediterraneo e il gioco era fatto. Ma ad Alessandria d’Egitto non ci siamo mai arrivati. Prima ci hanno respinti loro fino oltre la Cirenaica. Poi siamo ripartiti all’attacco noi, ma abbiamo dovuto chiamare un’altra volta i tedeschi -l’Afrika Korps di Rommel – e a maggio eravamo davvero finalmente a El Alamein, a sessanta chilometri soli da Alessandria: «È lì, l’abbiamo presa». Invece lì ci siamo fermati. Ci siamo battuti con valore – e non solo a El Alamein, ma pure a Tobruk, Bir el Gobi e dappertutto - e sul cippo della Folgore a El Alamein c’è scritto proprio, e giustamente: «Mancò la fortuna, non il valore». Ma più che la fortuna mancarono i cannoni, gli aerei, la benzina e i carri armati. O meglio, mancò il buon senso, perché già è insensato andare in guerra – diceva mia nonna – ma ancora più insensato è andarci senza le armi e le munizioni che ha il tuo avversario. «Stì a casa allora!» diceva mio nonno: «Cosa casso vai a fare in giro se non sei all’altezza? Stai a casa, maladéto tì e i Zorzi Vila».
«Eh, ma io credevo che avesse pensato a tutto l’Adolfo, e che a nantri bastasse andarghe drìo» diceva invece il Duce. O almeno così raccontava il Rossoni. Il compare Franchini invece – quello di Cisterna che era stato alla conquista dell’impero in gioventù insieme a mio zio Adelchi, e che poi si mise a studiare per diletto la storia della Seconda guerra mondiale – diceva che non era vero che fossimo poi tanto arretrati in mezzi ed armamenti tecnici: «Il primo prototipo di aereo a reazione lo abbiamo fatto noi e stavamo costruendo pure una portaerei, gli ultimi modelli dei caccia erano meglio dei loro e pure i bombardieri, e anche gli ultimi cannoni, carri armati, radar, sommergibili e sommergibili tascabili non avevano niente da invidiare al nemico, noi avevamo una capacità tecnica e progettuale e creativa che loro se la sognavano, non eravamo secondi a nessuno noi..». Ora – come si sa – per far stare zitto un cisternese quando parte per la tangente e comincia con le vanterie, bisogna solo sparargli e così mio zio Adelchi lo stoppava subito: «Ma va in mona, desgrassià! Mentre tu costruivi un sommergibile, gli americani ne costruivano centomila. Xè questo che conta in guèra. Se abbiamo perso, un motivo ghe sarà, non la sfortuna o il tradimento, Franchìn, ma la mancànsa totale de bonsènso». Queste cose però mio zio Adelchi le diceva dopo, tanti anni dopo. Durante i fatti invece – lì per lì – era pure lui convinto che avremmo vinto senza discussioni: «Vincere e vinceremo! La nostra fede è più forte del ferro e dell’oro». In Africa Settentrionale – in Libia – per noi Peruzzi c’era mio zio Cesio come le ho detto, che finì prigioniero in India. Catturato a Tobruk. Ferito. Curato e portato là con la nave. Lo abbiamo rivisto nel 1946. Era partito che era un ragazzino di diciotto anni. Gli hanno dato tante di quelle botte in India gli inglesi – in prigionia – che lei non ne ha idea. Quando è tornato sembrava un vecchio. Metteva spavento. Chi non è più tornato è stato mio zio Pericle invece. La spada dei Peruzzi. Leone della nostra gente.
In Africa Orientale non è che fosse andata meglio che in quella Settentrionale. Subito dopo l’offensiva nostra difatti, gli inglesi avevano fatto affluire dall’India e dal Sudafrica rinforzi di uomini e mezzi. Truppe fresche e ben equipaggiate. Noi avevamo trecentomila uomini lì. Loro sessantamila. Ma non c’era paragone. L’aviazione nostra era rimasta indietro non solo come velocità, manovrabilità ed armamento dei velivoli; ma anche proprio come numero, perché molti dei vecchi aeroplani di Balbo – divenuti oramai inutilizzabili per l’usura – non erano stati sostituiti. E così le truppe a terra. Eravamo stati i primi a fare una guerra meccanizzata in Africa, usando autocarri e carri armati; ma pure quelli erano rimasti gli stessi. Anzi, non avevamo nemmeno i ricambi di gomme e camere d’aria. I pezzi d’artiglieria erano quasi tutti superati e il munizionamento risaliva in buona parte al 1918. Molte granate – una volta sparate – poi non esplodevano. Le lanciavi e «Puf», niente, non succedeva niente. Gli inglesi invece arrivarono armati fino ai denti e con tutte le armi e gli armamenti all’ultimo grido. Gli mancavano solo i Ray-Ban. Noi a piedi coi moschetti e loro con un mare d’aerei che li coprivano dal cielo, e in terra carri armati, autoblindo e camionette fuoristrada – le antesignane della Land Rover – con tanto di cannoncino e mitragliatrice. “Gazelle Force” la chiamavano. Nel gennaio del 1941 sferrarono un attacco simultaneo da nord e da sud. Erano sessantamila, le ripeto. Noi trecentomila. Ma trecentomila pellegrini. In Africa Orientale non abbiamo potuto chiamare in soccorso i tedeschi. Non potevano arrivare. Suez era chiuso anche per loro. Se no avremmo allungato l’agonia anche lì. Non arrivò nessun soccorso e neanche più un rifornimento dalla madrepatria. Resistemmo il più possibile e ci battemmo anche con valore. Il duca d’Aosta si asserragliò sull’Amba Alagi e resistette fino al 17 maggio 1941. Quando ci arrendemmo, gli inglesi ci concessero l’onore delle armi.
Il Duce disse: «Ritorneremo! L’impero sta là, è nostro e nessuno ce lo tocca. Mo’ vinciamo la guerra in Europa, gli spezziamo per sempre la schiena e poi andiamo lì e ce lo ripigliamo». Che le debbo dire? Noi davvero gli credevamo ancora. Certo c’era il dispiacere e soprattutto il pensiero e l’ansia per quelli che erano lontani e di cui non si avevano notizie. Mica c’era internet allora – o i telefonini satellitari – e la posta aerea, lei capisce, se la supremazia inglese era totale non poteva certo passare. A un certo punto anche le comunicazioni radio per la truppa erano saltate. Mesi e mesi senza sapere niente. Solo i bollettini di guerra e i proclami del Duce: «Ritorneremo!». Ma che fine avessero fatto i miei zii, solo Dio lo sapeva, diceva mia nonna. Poi la mattina presto della vigilia di Natale del 1941 -che lei s’era alzata proprio per fare i cappelletti per il giorno dopo – appena ammazzate le galline per fare il brodo ed il ripieno dei cappelletti, appena tirato il collo e schiacciatolo ben bene dentro un cassetto per lasciarle penzolare negli ultimi spasmi delle ali allargate, prima ancora di cominciare a spennarle, ha detto a mio nonno che scendeva dalle scale: «Agò sognà un manto nero stanotte». «Va in malora tì e il tó manto nero, bruta stròlega» ha risposto mio nonno, ma lo ha detto dolce e non irato e l’ha presa per le spalle e la voleva abbracciare, con gli occhi già pieni di pianto, perché anche lui aveva grosso il magone pei figli, per tutti i figli in giro per il mondo, ma soprattutto per quei due in Africa, Pericle e l’Iseo. Mia nonna lo ha scansato con la gallina in mano: «Agò da fare», e ha continuato il lavoro suo. Ha aggiunto legna al fuoco del camino, saggiato con la mano il calore dell’acqua nel paiolo, preparato l’orzo e fatto bollire il latte per la colazione di tutti quanti, e infine ha spennato le due galline. Una volta nude, ha tolto un attimo il paiolo, riattizzato la fiamma e passato su e giù e per ogni verso le galline sulla fiamma – per bruciare nell’odore acre i residui delle penne -e poi s’è messa a pulirle
tagliando loro il collo, aprendole e togliendo le interiora. Le ha tagliate ognuna in due tocchi grossi che ha messo a bollire. Poi altre faccende e quando sono state le dieci – che il brodo era quasi pronto – ha impastato la farina con le uova rotte in mezzo. Tira e stendi la sfoglia con il mattarello. Cotte le galline le ha tirate fuori, le ha spolpate, e con il coltello a battere sul tagliere le ha tritate. Ha tritato anche un cotechino ed un salame. Ha messo tutto insieme – con un po’ di prezzemolo, odori, noce moscata – ha mischiato il tutto, ci ha aggiunto una o due uova e il ripieno era pronto. I ragazzini lì intorno ad aspettare. Ha preso una sfoglia da sopra la madia – dove le aveva messe ad asciugare – e l’ha ristesa sul tavolo. Un’altra spruzzata di farina sopra e con la punta del coltello l’ha incisa tutta a quadratini, tracciando prima delle grandi righe verticali da un capo all’altro, e poi orizzontali. A scacchiera. Su ogni quadratino ha posato un pizzico del ripieno e poi ha detto: «Via!». E tutti i ragazzini di corsa a chiudere i quadratini uno per uno sopra il ripieno, finché la tavola s’è coperta di tanti piccoli cappelli con il rialzo della carne in mezzo e le tese larghe, ai lati. Erano un rito i cappelletti a Pasqua e Natale – non era Pasqua e Natale se non c’erano i cappelletti – e per i ragazzini era una festa, perché era di norma che qualcuno ogni tanto, dentro un cappelletto, insieme al ripieno ci mettesse un bottone. Poi il giorno dopo – Natale – era tutta un’attesa ad aspettare chi lo trovasse e facesse: «Ahi!», mentre tutti ridevano. Mio nonno è così che si giocò l’ultimo dente di sopra. Gli rimase in mano, dove lo risputò insieme al cappelletto. Noi una volta – ma è stato dopo la guerra, io ero piccolo – ne mettemmo tanti di bottoni: «Sai le risate?». E invece le botte che ci hanno dato, lei non ne ha idea: «Uno solo se gà da méttarne, uno solo!». «Ma perché uno solo?» facevamo noi. «Perché sì!» e giù botte. Uno solo. Non di più. Uno fa ridere e tanti fanno botte, perché uno solo ricorda comunque a tutta la compagnia che oggi è
Natale e mangi a crepapelle, ma fa’ attenzione perché la disgrazia è sempre in agguato, non c’è niente di gratis a questo mondo e in ogni caso da domani non è più Natale e la vita vera è quella lì, quella di domani, dolore e sacrificio, tanta fame e poco vino. Ecco a che serve quel bottone. Uno però. Troppi no. Troppi ti rovinano anche il Natale. Saranno state le undici però – quella volta – quando s’è sentito: «Permesso?». Era don Orlando, il parroco veneto di Borgo Podgora, e mia nonna ha detto: «Avanti, s’accomodi, pranza con noi Reverendo?». «No, son vegnù solo a portar una létera.» In realtà era una cartolina postale, con scritto sopra a grandi lettere “P.O.” – che sarebbe stato post office – e “P.W.”, prisoner of war. Lui l’aveva ricevuta tramite il Vaticano, la Pontificia opera d’assistenza, che era collegata con la Croce rossa internazionale. Arrivava – chissà appunto per quali e quante vie – dal Kenya. Era zio Iseo, che diceva d’essere stato ferito ma che ora stava bene, era guarito, e stava lì in un campo di prigionia degli inglesi. Chiedeva notizie di tutti quanti, di casa e della sua famiglia e di tutti i fratelli in guerra: Temistocle, Tre-ves, Turati, il nipote Paride. Alla fine però – dopo i saluti – chiedeva notizie anche di Pericle: “Perso contato Fratello Pericle, fattemi avere sue notisie”. «E le chiede a nantri?» s’è messo a strillare la sera mio zio Adelchi, quando è tornato a casa: «Lui è lì con lui, e vuole notìzie da noi?». «Adesso l’è colpa del mio Isèo?» è scoppiata a piangere la Zelinda – la moglie – stringendosi alle gonne i figli. L’Armida – la moglie di zio Pericle, che oramai era da un pezzo che erano tornate a stare dai Peruzzi – l’Armida l’ha abbracciata: «Ma no, ma cosa dici? Ringrasiémo Dio che ‘l tó omo almanco l’è salvo». «Anche il tuo è salvo!» ha urlato mia nonna, ma con la faccia scura, con la faccia di chi non è tranquillo per niente
E lì di tranquillo non c’era più nessuno oramai, per tutti quelli che avevamo in giro per il mondo e che da un momento all’altro gli poteva capitare qualcosa, perché la guerra è guerra – come si sa – e in guerra ogni tanto capita che qualcuno pure muoia (anche se a noi italiani questa cosa non è mai entrata tanto bene in mente e ogni volta che mandiamo gente in giro, vuoi in Congo, Iraq o su Plutone e qualcuno muore, subito diciamo: «Occazzo, e perché hanno sparato proprio a noi, questi vigliacchi assassini, che noi portiamo solo la pace? Torniamo a casa! Torniamo a casa»). Ma finché a quelli non capitava niente, noi stavamo pure relativamente tranquilli – «Almeno è vivo e poi Dio provvede» - e anche di zio Iseo che adesso era prigioniero, stavamo proprio tranquilli del tutto: «È prigioniero ma vivo di sicuro; soffrirà ma prima o poi ritornerà, perché non deve più andare in battaglia». Ma quell’altro – Pericle – Dio solo sa, che fine che aveva fatto. Lì è cominciata l’angoscia dei Peruzzi. Avanti e indietro a chiedere a questo e a quell’altro: al Distretto a Littoria, al fascio, alla milizia, alla Croce rossa, a don Orlando al Podgora, a don Federico a Borgo Carso e poi con loro due dal vescovo a Velletri. E avanti e indietro anche dal Rossoni a Roma – che non contava più niente e gli avevano lasciato solo per contentino la presidenza dei consorzi agrari e il posto in Gran Consiglio, perché il Gran Consiglio era una vita oramai che il Duce non lo riuniva più: «Fasso tuto mì, casso cóntelo più ‘l Gran Consilio?» - che faceva avanti e indietro pure lui, da qualche amico che gli era rimasto al ministero della guerra. Ma niente. Zio Iseo risultava negli elenchi dei prigionieri – poiché ogni tanto se li scambiavano, anche tra eserciti nemici, tramite Vaticano o Croce rossa – zio Pericle invece non risultava da nessuna parte, nessun elenco, né italiano né inglese, né tra i prigionieri né tra i morti e i feriti. Nessunissima parte. Disperso. «Ma che vuol dire disperso?» chiedeva mia nonna a mio zio Adelchi.
«Disperso! Che non si sa che fine abbia fatto. Pòl èser morto o pòl èser vivo.» «Ma più morto o più vivo?» «Conforme! Nol se sa. Può essere che a un certo punto salti fuori.» «Ma capita?» «Qualche volta, mama», ma lo sapeva anche lui che quasi sempre non capita. Giusto raramente. Rarissimamente. Il più delle volte i dispersi in guerra sono soltanto morti senza nome, quelli che non sei riuscito a identificare – persa la piastrina di riconoscimento – o interamente dilaniati. Poi ogni tanto, si sa, qualcuno torna ed esce fuori; ma è un miracolo di Dio, uno su milioni. A quell’uno su milioni però s’attaccavano i Peruzzi, a partire da mia nonna e dall’Armida che non faceva che chiedere anche lei alle sue api, quando i figli non la sentivano: «Ma l’è vivo o l’è morto?». Quelle: «Z, z, z» e facevano finta di non sentire. Lei s’incazzava: «L’è vivo o l’è morto, av gò dìto?». «Zzz… zzz… zzz… né vivo né morto» facevano loro: «Disperso!», e voli strani. «Ma andè in malora va’!» e come lei sa, non c’è niente di peggio di una cosa del genere, poiché ciò che distrugge l’uomo non è la disgrazia in sé, ma l’incertezza e soprattutto l’attesa della disgrazia. Alla disgrazia fai pure fronte, e dopo in qualche modo ti rialzi. Ma se quella non si compie – e resta sempre appesa – quando più potrai rialzarti? È come i morti in mare, gli insepolti che non si trovano più e i parenti non sanno dove andare. Se l’annegato non torna, tu non vedi e non vedrai il suo corpo morto – il cadavere – e non potrai mai rivestirlo, mettergli una moneta, calarlo nella tomba e richiudere finalmente la pietra su di lui. Lui non è né vivo né morto, non sta in una casa sua, sta nel mondo di mezzo – al di qua dell’Acheronte ancora – a gridare invano alla barca di Caronte: «Portami di là, portami di là nell’oltremondo». E
questa è una pena che tu avrai per sempre, per ogni giorno della tua vita fino a quando partirai anche tu, e trovando il tuo caro tra le anime urlanti degli insepolti potrai dirgli finalmente: «Eccomi, son qua! Dammi la mano e attraversiamo insieme, ho io l’obolo per tutti e due da versare a Caronte». Zio Iseo non so se avesse ricevuto la risposta nostra in cui spiegavamo che non sapevamo niente neanche noi di zio Pericle; se non lo sapeva lui, come diceva mio zio Adelchi, figuriamoci noi. Comunque non ne ha più fatta parola in quei pochi messaggi – sempre le cartoline “P.W.-P.O.” – che abbiamo ricevuto da lì fino al 1945. Chiedeva notizie di tutti, ma solo di zio Pericle non ha più chiesto nulla. Mai nominato né in bene né in male. Dell’Armida sì. Tutte le volte e con tantissimo affetto ha chiesto di lei e dei figli. Ma di zio Pericle neanche una parola ed ogni volta che arrivava una lettera o cartolina dal Kenya e qualcuno si metteva subito a leggerla ad alta voce, arrivati a quel punto che zio Iseo parlava di lei e dei suoi figli – ma non diceva una parola del marito – l’Armida si metteva a piangere. Ora è chiaro che più passava il tempo e più scemavano le speranze, anche se lei e mia nonna non hanno mai smesso di sperare. Pregavano, e lei ogni volta richiedeva alle sue api: «Ma l’è vivo o l’è morto?». «Aàààh Armida! Zzz… zz… zz… né vivo né morto, stop…» Zio Iseo è tornato dalla prigionia ad autunno inoltrato del 1945. I miei zii Temistocle e Adrasto avevano seminato il grano su alcuni campi appena sminati, e stavano erpicando la terra con i buoi per ricoprire il seme. Lui è arrivato dal Canale Mussolini. Il ponte non c’era più – quello lo avevano fatto saltare subito, non so se i tedeschi o gli americani, già il giorno dopo lo sbarco di Anzio – e lui aveva utilizzato la passerella stesa a cavallo della briglia. Veniva avanti lungo il colmo dell’argine e come li ha visti – loro non s’erano nemmeno accorti – ha urlato: «Ehilà!… Peruzzi!». I miei zii si sono bloccati al solo suono della voce – «Isèo?» si sono detti all’unisono – hanno mollato i buoi e l’erpice, si sono voltati e corsi subito
incontro a lui che pure già correva, inciampava, rotolava giù dall’argine, si rialzava e ri pigliava a correre finché: «Fradèo!» hanno fatto loro acco gliendolo tra le braccia. «Fradèl!» ha rifatto lui. E mentre subito zio Adrasto si voltava e ripigliava a correre per conto suo come uno scalmanato verso casa – «Isèooo, Isèooo… L’è torna l’Isèooo!» urlava – mio zio Iseo invece, divincolatosi dalla stretta e dalle lagrime di mio zio Temistocle, non s’è diretto subito anche lui verso la mamma la moglie i figli, ma è andato sul campo, dalle bestie, dall’erpice, ad abbracciare le bestie e piangere attaccato al collo loro con il viso tra i due buoi; se li stringeva uno di qua uno di là e con le mani li carezzava, e ancora col suo fagottino a tracolla ha poi preso tra le mani l’impugnatura dell’erpice, ha fatto: «Ah!», i buoi sono partiti e lui s’è messo ad erpicare. Ma dopo pochi passi ha detto «Eéééh» e ha mollato l’impugnatura, i buoi si sono fermati e lui s’è lasciato cadere a terra, e rannicchiato in ginocchio con il viso nella terra smossa, mista a qualche chicco di grano – al seme -piangeva piangeva e mio zio Temistocle, che piangeva anche lui, tentava di rialzarlo, di pulirgli il viso e gli diceva: «Non star a far acsì, Isèo, non star a far acsì». Intanto le urla si sentivano per tutta la strada. Da tutti i poderi: «Isèo, Isèo! L’è tornà l’Isèo!» – con i pensieri che avevano anche loro in ogni podere, coi morti, i feriti, i dispersi, e tutta la gente ancora in giro per il mondo – e quando lui e zio Temistocle sono arrivati a casa sul podere nostro 517 c’era intera la Parallela lì sull’aia, ad abbracciarlo e a piangere con lui. L’unica che non piangeva era mia nonna che in cucina, appena aveva sentito urlare «Isèo!» da mio zio Adrasto giù in campagna, s’era sentita mancare – «Oddio, muoio!» – e s’era messa a riprendere fiato su una sedia. Poi s’era alzata, aveva ordinato: «Peruzzi!» a mio nonno che invece singhiozzava – «Ma va in mona, va’» aveva detto lui, asciugandosi però subito con il
fazzolettone – ed era uscita fuori anche lei, sulla porta a molla della veranda antizanzare. Come è apparsa, tutti hanno fatto largo – un corridoio, da lì fino al ponte d’ingresso su cui stavano ancora mio zio Iseo, la moglie Zelinda i figli e i fratelli – e silenzio. Mio zio s’è asciugato. Ha raddrizzato le spalle, la schiena. Con le mani s’è anche aggiustato i capelli e poi le è andato incontro. Anche lei ha fatto due passi. Lui s’è chinato ad abbracciarla: «Mama». «Fiòlo!» ha fatto lei. E sono ricominciate le urla ed i pianti – «Isèo, Isèo!» – c’era tutta la strada, c’erano i Toson gli Zago i Mambrin i Pellicelli e tutti quanti, e la gente ancora continuava ad arrivare e allora zio Temistocle gli ha detto: «Conta», ossia racconta. Volevano andare dentro, ma la gente ha detto: «No, no, conta qua per tuti quanti». E allora dalle finestre sono passate le sedie e la gente ha fatto cerchio e chi non era seduto restava in piedi o si sedeva sull’albio, sul pozzo, oppure accucciati per terra, anche se l’erba e la terra erano umidi perché – le ripeto – era novembre. E mio zio Temistocle ha ridetto: «Conta». «E l’Armida?» ha chiesto però zio Iseo non vedendola lì intorno. «Làsia stare adesso, conta!» ha detto zio Adrasto, e zio Iseo ha capito di cosa volevano che lui contasse, ma l’ha presa alla larga, s’è messo a raccontare della prigionia, ed a quell’altra cosa sembrava quasi non ci volesse arrivare. Stava bene – disse – e questo lo vedevano tutti. Certo non era grasso, però lucido, abbronzato e i muscoli pieni e tesi. Gli inglesi in Kenya non lo avevano trattato male. Niente botte. Mai menato. Anzi, lo avevano pure curato. Non come in India invece – come raccontò zio Cesio quando l’anno dopo riuscì a tornare anche lui ed era uno spaventapasseri che metteva paura, solo pelle e ossa, e tutto invecchiato, sembrava più morto che vivo – che lì gli inglesi li gonfiavano di botte dalla mattina alla sera.
Ora io non è che le voglio dire che questa è la verità di Dio. Questo era quello che diceva mio zio Cesio e – per quanto mi riguarda – io le posso dire solamente che mio zio Cesio il più giovane, quello che prima di partire studiava da geometra, non era uno che raccontasse balle; se diceva che lo avevano menato, lei può stare tranquillo che lo avevano menato. Poi se lei mi dice che mio zio Cesio era però più giovane di zio Iseo, e aveva ancora quindi più bollenti spiriti ed era fumino come tutti i Peruzzi e non gli piaceva piegare la schiena davanti a nessuno e magari pure in prigionia non si sarà saputo assoggettare e avrà risposto male o sarà stato indisponente con gli inglesi – e allora quelli si sono fatti girare le scatole e giù botte – io questo non lo so e non lo posso dire. «Ognuno gà le só razón» diceva sempre mio zio Adelchi, ma certo era un Fascist criminal camp quello in cui stava mio zio Cesio in India, tale e quale al Fascist criminal camp in cui stava mio zio Iseo in Kenya. Però a mio zio Cesio in India lo menavano e a mio zio Iseo in Kenya no. Questi sono i fatti e così glieli racconto. L’unica cosa in quel campo del Kenya però – diceva zio Iseo – era la fame. Tanta di quella fame che lei non immagina. Mangiare ce n’era pochissimo. Broda lunga lunga e pane bianco molle – tipo pancarrè – ma poco poco, tutto razionatissimo. Li trattavano bene le ho detto, non li menavano, ma mangiare nisba: «Agh n’è poco anca par nantri» gli dicevano gli inglesi. «E come fai tu, allora, a stare così bene?» gli chiese zio Temistocle. «I topi. Agò magnà tanti di quei tòppi fradèo, che non son più seguro ch’al sarò ancora bòn da magnàre un polàstro.» Anche se poi la sera stessa si mangiò tutto da solo un pollo: «Aààh! E meglio di un topo» (come dice, scusi? di che sa il topo? Un misto tra il coniglio, il maiale e la pernice. Con una punta in più di coniglio e pernice). Lui e qualche amico suo s’erano costruiti delle trappolette e dei cappi con lo spago. Si mettevano le ore a fargli la guardia appostati – erano prigionieri, non è che avessero granché da fare – e appena il topo abboccava: vai!, uno
strappo con lo spago, via la testa con il coltello che s’erano fatti limando ben bene il manico del cucchiaio, scuoiaio, togligli le interiora, infilalo su un bastone sopra il fuoco e via con l’arrosto. È così che mio zio Iseo è tornato ancora in forze, dopo quattro anni di prigionia in Kenya. «Ma l’Armida?» ha richiesto a questo punto. «Làsia stare» ha ridetto zio Adrasto, mentre invece: «Il Pericle, piuttosto?» pronunciava alfine il temuto nome mio zio Temistocle, e il silenzio che di nuovo è calato su tutto il podere 517 era il silenzio anche di tutta la Parallela Sinistra. Muto anche lui – di là dall’argine – il Canale. Mio zio Iseo allora ha allargato le braccia, e solo dopo un’eternità ha detto: «Del povero Pericle» – e appena sentito «povero», mia nonna s’è risbiancata di nuovo e le è tornato l’affanno – «del povero Pericle non so niente… Non l’ho più visto… Sparito… Disperso» mentre mia nonna sulla sedia, quasi sollevata, riconquistava il controllo. Intanto era arrivato anche zio Adelchi con la motocicletta Gilera nera del servizio. La notizia rimbalzando di podere in podere – «L’è tornà l’Iseo dei Peruzzi, l’è tornà l’Iseo dei Peruzzi» – era difatti già arrivata a Littoria. Lui era partito come un matto, scartando tutte le buche della guerra sulla strada, come neanche Giacomo Agostini. Piangeva. «‘L mè Isèo, ‘l mè Isèo», se lo abbracciava tutto. Zio Iseo ha ripreso a raccontare, ma ricordava poco di tutta la battaglia. Ricordava solo che a un certo punto, mentre andavano all’assalto tra gli scoppi ed i fumi – procedevano a balzi mio zio Pericle e zio Iseo e scattavano ogni tanto a correre accucciati, uno a fianco all’altro, tra la gente e i camerati loro che cadevano e strillavano, mentre il capo-manipolo continuava ad urlare: «Avanti! Avanti!» – a un certo punto si è ritrovato in ginocchio e poi a terra, ma senza capire il perché e senza più fiato, senza quasi respiro. E poi s’è messo una mano al fianco e quasi non lo ha trovato più, il fianco. Allora ha ritratto la mano e l’ha guardata. Era rossa. È andato a ricercare il fianco
ma ha sentito solo dolore. Allora ha strillato: «Pèricle, Pèricle, Periclìn!», come quand’era bambino e cercava aiuto dal fratello maggiore. Zio Pericle lo ha visto e sentito subito, e subito s’è steso lì per terra vicino a lui: «Stà calmo, stà calmo» gli diceva. «I me gà ciapà, i me gà ciapà» faceva invece zio Iseo e poi: «Muoio, muoio, pènsaghe tì a mè fiòi, maladéti i Zorzi Vila», e zio Pericle lo ha trascinato al coperto, dietro una camionetta rovesciata, e gli ha messo un tampone sulla ferita, mentre gli altri camerati continuavano a andare e tutto intorno era solo un inferno di scoppi, di fiamme, di fumi e di urla. Zio Iseo aveva paura, sentiva un grande freddo calargli addosso e allora insisteva: «Non lasciarmi solo Pericle, non lasciarmi solo, resta qui con me». Ma tutti gli altri continuavano a andare, sparando, e zio Pericle non poteva restare, lo ha dovuto lasciare al coperto: «Stà calmo Isèo, non è niente; stai qui, vado all’assalto e torno, torno a prenderti. Spèteme fradèo, spèteme che ‘rìvo, maladéti fin ch’i mòre i Zorzi Vila». E zio Iseo: «At spèto, at spèto». Poi basta, non si ricordava più niente. S’è risvegliato – ma non si sa quanti giorni dopo – in ospedale. Ed anche qui, ricordi solo confusi. Prima gli pareva che fosse italiano l’ospedale, coi medici italiani in un ospedale da campo. Poi però nei suoi ricordi i medici cambiavano e diventavano inglesi e cambiava pure l’ospedale – in muratura – però non sapeva dire né come né quando fossero avvenuti i cambiamenti. Man mano è stato meglio, e lo hanno portato in campo di prigionia. Lui però già all’ospedale – appena ha cominciato a muoversi, a poter parlare e poter capire – subito ha cominciato a chiedere a tutti quelli che riconosceva se per caso avessero visto suo fratello Pericle Peruzzi; e ancora di più arrivato in prigionia, dove ne ha trovati tanti dello stesso reparto loro. Chi diceva di averlo visto prima dell’assalto e poi più. Uno diceva d’averlo visto durante, ma tutto denudato e sporco nero nero d’olio, di nafta e di fumi. Non era proprio sicuro al cento per cento che fosse lui, però pensava di sì.
C’era stata un’esplosione – diceva – ma questo era rimasto stranamente in piedi e tutto nudo, solo con gli scarponi ai piedi e il casco coloniale in testa. E sembrava proprio lui. Ha camminato imbambolato i primi passi tutto sporco d’olio e tutto nero pure in viso, ma con gli occhi bianchi stralunati e un riso storto tra le labbra, e dopo un po’ s’è messo lì tranquillo tranquillo a procedere a passo lento, ma deciso, per i fatti suoi in mezzo alla battaglia manco fosse stato a spasso per le strade di Littoria, e ogni tanto si fermava o faceva un gesto con le dita ai soldati combattenti che incontrava – sia dei nostri che gli inglesi – come a chiedere: «Che per caso hai una sigaretta?». Che fine poi però avesse fatto, non lo sapeva neanche questo qui; anzi, lui era l’unico che raccontasse questa cosa e non era neanche sicuro sicuro che si trattasse proprio di Pericle – «Am paréva» – mentre la stragrande maggioranza se lo ricordava in battaglia a combattere e poi più. Un paio lo avevano visto saltare su un carro armato leggero degli inglesi, alzargli la botola d’entrata, lanciargli una granata dentro, richiuderla e saltare giù. E mentre quella esplodeva nel carro e lo bloccava, lui subito era già su un altro carro che veniva dietro. E avanti così. A bombe a mano contro i carri armati. Erano nel plotone degli arditi i miei zii. Ma dopo la battaglia non lo aveva incontrato più nessuno. Nessuno nessuno. Anzi, uno di Borgo Montenero che era proprio amico loro e che erano partiti assieme dall’Italia, anzi da Littoria, e che poi però era morto durante la prigionia in Kenya per dissenteria, gli aveva proprio detto di essere stato insieme a lui e d’essersi scambiati bombe a mano e munizioni quasi fino all’ultimo, ossia era lui che gli aveva dato delle bombe a mano perché zio Pericle le aveva finite, e poi d’averlo visto nettamente davanti a sé sul colmo d’un piccolo dosso – a una trentina di metri, vicino a un albero isolato d’acacia con due rami larghi e senza foglie che sembravano due braccia allargate – venire colpito in pieno da una granata d’obice. Un 152/13 – diceva questo di Borgo Montenero -un Howitz-Echaurren. Lui quando aveva sentito il
proietto – «Frufrufrufruuh» – frullare nell’aria s’era buttato subito per terra. Poi dopo l’esplosione – quando aveva rialzato gli occhi, e il fumo man mano si era andato diradando e mischiato alla polvere ascendeva piano piano al cielo – sul colmo di quel piccolo dosso non c’era più niente, solo una buca, ma nessunissima traccia più, né di mio zio Pericle né dell’acacia con le braccia allargate. Svaniti con il fumo che in mezzo a quel fragore li aveva avvolti come un grande manto nero e che ora diradandosi saliva in cielo. Che le posso dire? Niente, solo che mia nonna – ma pure l’Armida se è per questo – ha continuato a pregare fino all’ultimo suo giorno che mio zio Pericle tornasse. «Disperso» disse poi lo Stato. E così c’è scritto sul foglio matricolare e sui certificati di pensione. «Ma l’Armida?» richiese a questo punto mio zio Iseo, vedendo attorno a sé i figli suoi, ma non vedendo ancora da nessuna parte lei. «Dopo» gli fece con la faccia scura mio zio Adelchi, come a dire: «Non è roba da discutere in pubblico». «Pòv’ro Pericle…» disse allora zio Iseo. L’Armida l’avevano già cacciata. Le avevano tolto tutti i figli – almeno i più grandicelli – che stavano ancora qui, sul podere nostro dei Peruzzi. Lei invece stava in una Casina a Doganella. Confinata là. Lontano. Le avevano lasciato solo i due più piccoli. Anzi, gliene volevano lasciare uno solo. Pure Menego le volevano portare via. Se lo volevano tenere dai Peruzzi. Fu mia zia Santapace – quella sposata col Benassi – che riuscì a farglielo tenere, implorando la madre, mia nonna: «Ma mamma, non si può toglierle un bambino così piccolo, avì pietà mama, avì pietà». «Levateglielo, levateglielo», strillava invece come una iena mia zia Bissolata. E uno o due anni dopo – quando sono venuti un po’ più grandicelli e quando le cose soprattutto hanno cominciato a sistemarsi e sono tornati tutti quelli che dovevano tornare ed è cominciato davvero finalmente il dopoguerra –
tutti i suoi figli le sono stati dispersi. Chi di qua chi di là, ma tutti sotto l’occhio vigile dei Peruzzi: Adria da zio Adelchi, che aveva preso casa in affitto in città – «Ah, io l’ho detto la prima volta che l’ho vista Littoria, quand’era ancora in costruzione: questo è il posto par mì!» – e finalmente s’era sposato; Onesto dai miei zii Dolfin a Borgo Hermada a fare da garzone; Florinda e Pisana prima in collegio e poi qui sul podere nostro dei Peruzzi; e Tarcisio pure lui in collegio, però scappava sempre e lo riandava a prendere ogni volta mio zio Adelchi dalla madre a Doganella e lo riportava in collegio o al podere qui da noi. Una volta sola lo portò da zia Bìssola ma lei non lo ha più voluto, perché quando lei lo menava lui si ribellava e le dava i calci sugli stinchi: «Vòio mè mama, vòio mè mama! Riportatemi da mia mama, brute putane». Tutti glieli hanno tolti. E lei confinata a Doganella. E nemmeno poteva venirli a trovare. Glieli portavano loro ogni tanto. Poteva andarsi a vedere una volta a settimana solo l’Adria a Littoria, perché lì c’era mio zio Adelchi che controllava e vigilava. Ma questa è tutta storia del 1945 però – novembre 1945, quando zio Iseo finalmente tornò dal Kenya – e degli anni appresso. Noi invece eravamo rimasti – se non ricordo male – alla vigilia di Natale del 1941, quando arrivò la prima cartolina dal Kenya di mio zio Iseo prigioniero che chiedeva lui notizie a noi di zio Pericle, e tutta l’Africa Orientale e l’impero erano già andati a farsi benedire e la zia Zelinda con l’Armida erano tornate, da quei maladéti poderi di ponte Marchi, in casa dei Peruzzi. Le due donne erano riuscite a vendere ad un subentrante trovato proprio dal Pascale. Per pagare i debiti fu però necessario vendere tutto, anche i “giovenghi” e le poche altre bestie rimaste. Tornarono dai Peruzzi senza niente. Giusto le api. E a prenderle – a caricare insieme ai figli quel po’ di reti, materassi, due sedie, biancheria e una carriola che erano rimasti – dovettero andare mio zio Adrasto e i figli di mio zio Temistocle, col carretto e i mussi loro. Neanche quelli gli erano rimasti e con tutto questo, neppure riuscirono a
saldare i debiti per intero. Comunque tornarono e volevano stare assieme – così come erano state da buone cognate e quasi più che sorelle sui poderi a ponte Marchi – pure sul podere 517 sulla terra dei Peruzzi, da dove erano partite. Ma quando sono state lì – un attimo solo prima che si desse il via per lo scarico dei carretti – qualcuno ha cominciato a dire: «Ma forse è meglio che una resti qui e l’altra vada da Temistocle, così stiamo tutti più larghi». Loro hanno fatto la faccia storta, volevano restare assieme: «Ma veramente… nantre ghéssimo pensa…» provò a dire la zia Zelinda, la moglie di zio Iseo. «Ma no, acsì stì più larghe, è meglio per voi, lo diciamo per il vostro bene» disse subito zio Adelchi. «Sì, sì, solo per valtre», subito anche zio Adrasto, «è meglio per voi.» «Sì, sì, è meglio; una di qua e una di là» subito appresso le cognate Peruzzi – zia Bìssola in testa, che stava al podere nostro quel giorno e la zia Nazzarena, la «Spòsa» marocchina di Cori che s’era preso zio Adrasto – cominciando loro a scaricare la roba e la biancheria di mia zia Zelinda. «Ma no, ma no» faceva il nonno alla moglie: «Di’ che non le scompagnino, di’ che restino qui tutte e due». «Acsì l’è mèj per lori» disse mia nonna: «Una di qua, una di là». L’Armida che le debbo dire? Alla Zelinda veniva da piangere. Quello era il podere loro. Anzi, a dir la verità era di Pericle, perché erano lui e Temistocle gli unici combattenti del ‘15-18 che in quanto tali, avevano consentito all’intera famiglia di rientrare nei ruoli e nel diritto all’assegnazione dei poderi da parte dell’Opera combattenti; oltre al fatto -e non mi pare secondario – che erano venuti loro a Roma dal Rossoni quella volta in bicicletta. Però lei sa come funzionano queste cose: se te ne sei andato e poi ritorni con la coda fra le gambe, non è che puoi pretendere che come il figliuol prodigo ammazzino i vitelli per te. Quello succede solo nella Bibbia. Nel mondo terreno il più delle
volte succede invece che ti prendano a sassate, se ti va bene. Se invece non ti prendono a sassate e ti vengono anzi loro fin là a pigliare col carretto, tu dici di sì ad ogni cosa – «Sì, grazie» -e ti metti buono buono nel cantuccio che t’hanno destinato. Fai buon viso a cattiva sorte, come si suole dire. Mica ti vorrai mettere a protestare e a voler per forza comandare tu. Peraltro poi c’era la Clelia – la moglie di zio Temistocle, che in Altitalia era stata prima servitora e garzona nostra e che mia nonna non poteva tanto vedere – che era invece contentissima che l’Armida andasse da lei: «Vieni là, vieni là», perché lei aveva solo maschi e una femminetta sola. «Vieni là, che mi dai una mano e ce la contiamo fra di noi», perché anche con questa cognata, l’Armida andava d’amore e d’accordo. Come dice, scusi? che io però le avrei detto prima che l’Armida andava d’amore e d’accordo anche con mia nonna e perché allora non se l’è tenuta lì con lei come voleva invece il nonno? E che le posso dire? Certo che mia nonna andava d’amore e d’accordo con l’Armida – la portava in palmo di mano, e d’esempio pure alle figlie sue – però andava più d’amore e d’accordo con zio Adelchi. Così stanno i fatti e così si sistemarono: zia Zelinda e la famiglia di mio zio Iseo nella casa del padre al podere 517, l’Armida e la famiglia di mio zio Pericle al podere 516, sempre sul Canale Mussolini: «Poi quando torna Pericle» pensò giustamente a quel punto l’Armida, «si arrangerà lui con i suoi fratelli». Prese la sua roba, le arnie, le api, i figlioli e andò a stare da zio Temistocle insieme alla Clelia. Questo però era successo parecchio tempo prima – parecchi mesi, quasi un anno – prima di quel Natale 1941 in cui noi avevamo già perso da un pezzo l’Africa Orientale ed arrivò la cartolina di zio Iseo che lui era prigioniero ma vivo, e l’altro invece, Pericle, non si sa. Ancora prima però – nel corso di quel 1941 – lo scenario internazionale s’era complicato ulteriormente. Intanto gli Stati Uniti d’America – che erano neutrali
– avevano cominciato a dire che non erano più tanto neutrali alla pari. Sì, non entravano in guerra e non ci volevano entrare, ma «camerata per camerata» – pensava oramai il Roosevelt -«mì son camerata più degli inglesi, visto che il Mayflower mio è partito da Southampton». Mica da Copparo o da Ferrara.
Questioni di sangue. E hanno ricominciato a rifornirli di tutti i materiali che chiedevano. Poi i tedeschi hanno invaso anche l’Unione Sovietica. Eravamo a giugno 1941, il 22, e i russi – giustamente – s’erano subito alleati con la Gran Bretagna con cui prima non si potevano vedere. Che altro dovevano fare? «Casso min frega a mì» aveva però detto subito Hitler al Duce, «tanto agò da magnarmeli tuti e dò!» «Benón, te gà fato benón Adolfo. Posso venire anca mì?» «Certo!» e abbiamo mandato un corpo di spedizione italiano anche in Russia. Gliel’ho già detto mi pare – o forse no? – che se l’aquila imperiale niente niente si rimette a volare un giorno sopra i colli fatali nostri, bisogna intercettarla subito e buttarla giù con le Frecce tricolori? Se tu sei un peso piuma – non so se lei è pratico di pugilato – non ti può venire in testa di andare a combattere per il titolo mondiale dei massimi. Tu sei solo scemo. E così s’era inscimunita quell’aquila fa,tale nostra. A ottobre comunque stavamo quasi sotto Mosca. Guerra lampo. Blitzkrieg: «Visto? Casso at ghévo dìto mì?» s’era vantato il Führer. «Porca putana Adolfo, tì sì che te gà sempre razón.» I primi di dicembre però l’offensiva nostra e dell’alleato germanico si arresta e s’impantana, fermata dalla resistenza sovietica e soprattutto dal Generale Inverno – come lo chiamano loro – con freddo, neve e ghiacci precoci a quaranta gradi sotto zero. «Orca santa sgnàchera» disse allora mio nonno quando il bollettino della radio diramò la notizia dentro l’osteria: «Qui fémo un’altra volta la fìne del Napoleon». «E quale xéa?» gli chiesero i suoi amici.
«Quéa del capòn.» Il cappone. E gli amici subito abbassati tutti a capochino sul piano del tavolo: «Tasi Peruzzi, che se ci sentono xè tradimento». Uno o due giorni dopo però – il 7 dicembre 1941 – l’aquila imperiale nostra deve essersi messa a volteggiare pure sui cieli di Tokyo. L’altro nuovo alleato nostro – quello nipponico – decide anche lui di giocare una carta, come si suole dire, veramente fatale, decisiva ed ultrafortunata. Alle ore 7 e 48 minuti la prima ondata delle forze aeronavali giapponesi si abbatte senza preavviso su Pearl Harbor nelle Hawaii. La seconda ondata alle 8 e 50. Gran parte della flotta Usa affondata o comunque inservibile. «Ghètu visto l’alleato niponico?» pare abbia detto il Führer al Duce: «Gli abbiamo dato una botta che non si rialzano più». «Porca putana!» ha rifatto lui. E subito ha dichiarato anche lui guerra all’America: «Tanto abbiamo già vinto; mica sarò stupido, che me ne resto a casa». Quando però sono andati dal senatore Agnelli – quello della Fiat – a dirgli che il Duce aveva appena dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America, quello ha detto solo: «Bòia fàust, ma non glielo avete fatto vedere un elenco del telefono di New York?». Lui lo sapeva – li faceva lui, per noi – che nel tempo di costruire noi un aeroplano nuovo, in America te ne potevano sfornare centomila. Non è tanto con gli eserciti ma con le fabbriche, che quelli hanno vinto la guerra. Il Duce invece si credeva che stessero ancora ai tempi di Furore, che si morissero di fame e fossero indrìo come quando il camerata
Roosevelt mandava gli esperti del New Deal in Agro Pontino a farsi un po’ d’esperienza, a vedere come si faceva. Mica gli aveva voluto credere al Balbo, quella volta che tornando dalla trasvolata atlantica gli aveva detto: «Duce, i xè avanti anni luce». «Va in mona, va’», e lo aveva mandato in Libia.
Questa comunque era la situazione alla vigilia di Natale del 1941 quando a casa dei Peruzzi era arrivata la notizia che di zio Pericle non c’erano proprio più notizie di nessun genere, né vivo né morto. Le truppe dell’Asse erano all’attacco su tutti i fronti – eccetto l’Africa Orientale naturalmente, che oramai era persa – la loro avanzata sembrava inarrestabile e la vittoria sempre più vicina: «Chi ci ferma più?» diceva mio zio Adelchi quando sentiva il bollettino di guerra alla radio. «Vincere! Vincere! Vincere! E vinceremo per cielo terra e mar» cantavamo tutti quanti e in Agro Pontino la vita era quella di sempre. Lavorare e lavorare. Lavorare anche più di prima ovviamente, notte e giorno, vecchi donne e bambini, perché di uomini ne erano rimasti pochi in giro. Tutti i Peruzzi sparsi per il mondo. Zio Cesio in Libia; zio Treves che dalla Francia era passato in Russia insieme a mio zio Turati – che anche se la moglie piangeva, adesso stava in guerra pure lui con il fratello – zio Temistocle che dalla Grecia era passato in Jugoslavia; mio cugino Paride tra la Dalmazia e l’Albania nella milizia portuaria e i fratelli del Lanzi dei tutti in guerra pure loro mentre dalla parte dei Dolfin, quelli di Borgo Hermada, il marito della mia prima cugina femmina stava in Russia in cavalleria e il maschio grande dei Dolfin, mio cugino Ampelio, era con la marina in Cina pensi lei, su un incrociatore in Manciuria. Non c’era una parte del mondo in cui non ci fosse gente dei Peruzzi che si stesse giocando la pelle. E c’erano i Peruzzi rimasti in Agro Pontino invece – maschi e femmine – che tutto il giorno tiravano la carretta cercando di non pensarci, e però ci pensavano a tutti loro, e pregavano il Signore che gliela mandasse buona e soprattutto lo pregavano per che fine avesse fatto il Pericle. «Signore, fa’ che ‘l torni a casa» pensavano ogni istante mia nonna e l’Armida. Noi lavoravamo. Adesso era mio nonno ad alzarsi per primo la mattina e andare in stalla – alla sua età – a portare il fieno alle bestie, a mungerle, a pulirle. Ed anche le donne in stalla, e a volte pure ad arare e lei le doveva vedere con tutto il peso e la forza – magari due alla volta, buttate proprio con
la pancia sul vomere, per tenere l’aratro basso ed infisso – con gli strattoni delle bestie che le mandavano di qua e di là. E mangiare poco, perché adesso era tutto razionato. Anche l’ammasso del grano non funzionava più solo per noi dell’Opera combattenti; adesso l’ammasso c’era in tutta Italia. Era stata una delle ultime cose – la più importante – che aveva fatto il Rossoni prima che il Duce lo cacciasse. Adesso, chiunque produceva grano – sia il piccolissimo contadino che il più grande latifondista – non lo poteva più vendere sul libero mercato a chi volesse lui. Lo doveva consegnare tutto e subito allo Stato a prezzo imposto – prezzo uguale per tutti – senza più poterselo tenere nascosto nei granai fin che il prezzo era basso, ad aspettare che non ce ne fosse più in giro per poi tirarlo fuori solo quando era salito alle stelle, speculando così sulla fame della povera gente. Adesso come trebbiavi dovevi darlo allo Stato, che ci pensava lui: prezzo uguale per tutti e tutto l’anno. Avesse visto gli agrari come strillavano: «Ma questo è comunismo! E che siamo oramai, in Unione Sovietica?». È per questo – per gli ammassi e per Rossoni – che Ezra Pound si fece fasciocomunista pure lui. Quell’altro invece – il Duce – a novembre del ‘39 lo cacciò; Rossoni naturalmente, non Ezra Pound. La vita comunque era questa: lavorare e basta, mangiare poco, pregare che quelli tornassero, crescere i ragazzini, andare a messa al borgo la domenica e qualche volta pure al cinema, rilavorare e ripregare: «Speriamo tornino tutti sani e salvi. Specie il Pericle». Più passava il tempo e più però le speranze si affievolivano. «Come faccio senza il mio uomo?» non faceva che dirsi l’Armida. E lo chiedeva in continuazione pure alle sue api. Quelle facevano finta di non sentire: «Zz… zz… zz», volteggiavano di qua e di là. Qualcuna poi, qualche volta ha detto
proprio: «O Armida! E morto un fuco se ne fa un altro». «Tasi, maladéta!» – «Pciàff» – e l’ha schiacciata lì tra le due mani. Morta e stecchita per sempre. Chi s’è azzardata più a dirle niente?
Ora però lei capisce che al di là di tutto il dolore per l’uomo amato – il padre dei propri figli, il braccio ed il sostentamento a cui si era appesa la propria vita – la carne è carne e l’Armida non era persona, come credo lei oramai abbia potuto intuire, da riuscire a non pensarci più per niente a certe cose. Non ci voleva pensare, però ci pensava. Come facessero le altre non so e non lo sapeva neanche lei, però lei ci pensava ogni tanto: «Come farò senza il mio uomo?». E la sera nel letto – specie quando laggiù dalle arnie sotto l’argine del Canale si sentiva venire il canto d’amore dell’ape regina che cominciava a scaldare il sangue ai suoi fuchi perché il giorno dopo le corressero dietro con l’anima e la bava alla bocca – l’Armida si girava e rigirava nel letto: «Brùte spòrche maiale putanasse» e si stringeva addosso a sé tutti i suoi figli che s’era portata nel lettone per non pensarci. E alla fine si metteva un cuscino tra le gambe. Provi lei a non pensarci. Intanto s’era fatto il giugno 1942. Rommel s’era attestato al El Alamein, sessanta chilometri soli da Alessandria d’Egitto. Stavamo vincendo. La razione di pane quotidiana in Italia era scesa a centocinquanta grammi al giorno. Anche in Russia era ripresa poderosa l’offensiva dell’Asse contro Stalingrado e i pozzi di petrolio caucasici. Le truppe italiane – noi avevamo un cugino da parte dei Dolfin, le ho detto, lì in cavalleria e i miei zii Treves e Turati nelle camicie nere – già pregustavano la vittoria. Il 24 agosto questo mio cugino Argesilao Piva di Borgo Montenero – cugino perché aveva sposato la prima femmina dei Dolfin – partecipò all’ultima carica di cavalleria di tutta la storia del regio esercito italiano contro truppe regolari, nella steppa di Izbusenskij in un’ansa del Don. Era il Savoia Cavalleria e andarono più volte alla carica al galoppo coi cavalli e le sciabole sguainate contro i mortai, i cannoni e le mitragliatrici dell’812° reggimento di fanteria siberiano, appostato nelle sue trincee fra i campi di girasole. Si chiama proprio – nei libri di storia – la carica di Izbusenskij e mio cugino Argesilao Piva ritornò vivo. Adesso è inutile che le stia a ripetere che loro però – i russi – erano a casa loro e siamo
noi che eravamo andati là: «Ognuno gà le só razón» diceva mio zio Adelchi. A noi il Duce ci ha fatto andare in Russia e noi ci siamo andati. Chi non tornò più invece dalla Russia fu mio zio Turati. Anche lui cadde vicino al fratello – «I me gà ciapà, i me gà ciapà» – e il fratello, mio zio Treves, si stese a fianco a lui: «Stà calmo, stà calmo». «Ma còssa gò da star calmo Treves, l’è finìa, maladéti i Zorzi Vila» e già gli si sbiancava a vista d’occhio tutto il viso, man mano che il sangue lo abbandonava a fiumi. «Non starme a far acsì, Can del Turati!» e mio zio Treves già piangeva. «Pensa tu ai miei figli… e a mè mojère!» «Ma son cose da dire? Certo che ci penserò, Canetto mio.» «Giuralo…» e l’è morto. «Te lo giuro, te lo giuro» faceva zio Treves, ma già il Can del Turati, airone dei Peruzzi, se n’era andato. Mio zio Treves allora s’è asciugato gli occhi, ha richiuso quelli del fratello ed è ripartito all’assalto. E poi in tutta la ritirata di Russia, trecentocinquanta chilometri di marce forzate in mezzo al ghiaccio e alla neve peggio di Napoleone – il Generale Inverno appunto, tra i trentacinque e i quarantadue gradi sotto zero, vestiti pure male, gli scarponi di cartone e le pezze d’infima qualità, con la gente che non ce la faceva più e diceva «Mo’ mi riposo un attimo», e appena si fermava e si sedeva, restava sull’istante congelata assiderata – mio zio Treves è riuscito ad andare sempre avanti, arrivare alla fine e tornare a casa solo per il pensiero fisso in mente: «Agò da tornar pei fiòi e la mojèr del mè povero fradèo». E la prima cosa che fece arrivato a Sebekino – al riparo delle linee tedesche – fu scrivere a casa: “Ditte a la cognata che par ela e cari fili penserò tuto per sempre mi”.
«Come sarìa che ghe penserà lù!? E noialtri chi siamo?» disse mio zio Adelchi, mentre le donne strillavano e mia nonna tirava fuori i vestiti neri del lutto. Lei poi non se l’è più tolto il lutto, anzi, subito s’è pensata mentre lo
indossava: «Vale anche per Pericle», pure se ha tentato di reprimerlo quel pensiero, e di correggerlo con un «Signor, fa’ che almeno lui ritorni». Mio zio Treves – dopo un mare d’altre traversie in giro per l’Europa – riuscì a tornare verso la fine del 1945 e la prima cosa che fece, neanche il tempo di dire buongiorno o buonasera, andò a sposare la cognata, la moglie di suo fratello Turati, con tutti i figli e i parenti dietro, in chiesa. Solo in chiesa però, non in comune. Don Orlando li sposò di nascosto, vestiti tutti a lutto – solo lei un veletto bianco sulla testa – nella chiesetta di Borgo Podgora, e solo dopo, loro due si sono detti buongiorno e buonasera, vediamo un po’ che odore hai e se riusciremo ad intenderci. Non c’era bisogno di dirselo. Si dovevano – ma soprattutto si volevano – intendere per forza, come poi peraltro hanno fatto, aggiungendo i figli loro a quelli già di zio Turati. Non era solo per il giuramento a lui, è il comandamento dei padri, sta nella Bibbia. Mio zio Treves però sposò la cognata solo davanti a Dio ed ai Peruzzi. Davanti allo Stato no. Mo’ gli ridavamo indietro la pensione di guerra? Se la vedova si risposava, difatti, non le toccava più. Allora fregati Stato, se sei così ignorante. Intanto però a giugno del 1942 noi stavamo ancora vincendo su tutti i fronti – quasi – eccetto l’Africa Orientale ovviamente. Certo la fame era tanta, il lavoro pure e le preoccupazioni anche – per tutti quelli via – ma a noi tornò a casa zio Temistocle e la cosa non ci pareva vera. Non solo alla moglie zia Clelia – che quando si chiuse in camera la sera col marito aveva un sorrisetto che pure l’Armida si era messa a ridere, ma poi sentendo o immaginando i rumori di là, si dovette riprendere tutti i figli nel letto e il cuscino tra le gambe – ma erano contenti e strafelici tutti quanti, perché era un uomo in più e di quella fatta. L’Opera combattenti era riuscita a farlo congedare: «Qualcuno ci vuole nei campi per il grano, se no i soldati vincono la guerra ma il popolo non c’è più, perché è morto di fame». Così lo avevano rimandato a casa e abbiamo respirato un po’.
Si era a giugno però del 1942 – metà dell’anno – e anche se in quel momento stavamo vincendo, un anno è sempre fatto di dodici mesi; dopo la primavera arriva l’estate e dopo l’estate, come lei sa, arrivano quasi sempre l’autunno e l’inverno. Guai a chi non si copre per tempo. Le fabbriche americane s’erano messe a lavorare a rotta di collo. «Pciàff!», sbattevano le mani e uscivano i cannoni. Non facevano in tempo a dire la parola «Carro armato!», che subito gli uscivano le brigate di carri armati, le divisioni intere. Quelli davvero – se volevano – ci affogavano solo di elenchi del telefono. E subito si sono messi a rifornire tutto il mondo degli alleati loro dall’Atlantico al Pacifico, dal Polo Sud a quello Nord, e oltre agli armamenti hanno messo sul piatto la meglio gioventù, perché anche loro ce l’avevano una meglio gioventù – mica solo tu – ma non gli hanno dato in mano le baionette e basta; che pure se otto milioni, sempre e solo baionette erano. Quelli – sfidati – hanno sfornato in meno di un anno il più potente esercito che si fosse mai visto sulla faccia della terra. Erano pellegrini come noi – Pilgrim Fathers, partiti da Southampton col Mayflower – non gli dovevi andare a rompere le palle. Il Dio di Sabaoth – il Dio degli Eserciti – stava indubitabilmente dalla parte loro a questo punto. E le sorti della guerra si sono rovesciate. Già a metà novembre del 1942 gli inglesi ci avevano tolto ogni speranza di vittoria in Africa. A febbraio 1943, poi, Stalingrado era caduta. Arrivederci e grazie pure là. I primi superstiti cominciarono a rientrare in Italia. La gente li vedeva – parlava – la voce girava. E se alcuni raid c’erano già stati nel 194041, è nel 1942 che le nostre città, specie portuali o industriali del Nord, cominciarono ad essere sottoposte a massicci e sistematici bombardamenti. Fu l’“offensiva aerea di autunno” della Raf. E quando la gente le notizie dal fronte, pure se brutte, le riceve solo dalle lettere o dai bollettini della radio è un discorso, ma un altro discorso – se permette – è quando gli cominciano a
piovere direttamente sulla testa le bombe d’aereo da un quintale: «Occazzo!» comincia a dire allora la gente. A marzo 1943, quindi, dappertutto in Italia si iniziò a esprimere più di qualche dubbio, e alla Fiat Mirafiori di Torino gli operai scesero in sciopero – era la prima volta, dopo vent’anni – chiedendo più pane e soprattutto la pace. Lo sciopero si estese a Milano e agli altri centri industriali del Nord, ma non è che gli potevi mandare le squadracce d’azione stavolta, per farli stare zitti. Certo non lo pubblicizzarono alla radio, però la voce girava, con l’andirivieni che c’era di reduci, feriti, militari richiamati o trasferiti: «I gà fato sìopero a la Fiat». E sciopero era una parola proibita a quei tempi, ha capito? Poi a maggio ci hanno cacciato via anche dall’Africa Settentrionale – addio Tripoli, bel suol d’amore – e hanno cominciato subito a prepararsi per venire su in Italia. La radio da noi diceva: «Ritorneremo! Intanto ci stanno le roccaforti di Pantelleria e Lampedusa che impediranno ai loro eserciti di venire qui», specie
Pantelleria che era una roccaforte che lei non ne ha idea, armata per resistere all’infinito contro ogni e qualunque tentativo di sbarco. Be’, dopo un po’ di giorni di bombardamento aereo, Pantelleria s’è arresa senza combattere, senza neanche aspettare che quelli sbarcassero con un gommone solo. Quando sono arrivati, hanno trovato gli hangar sotterranei pieni pieni intatti intatti con gli aerei pronti in perfetta efficienza: «Porca putana!» hanno detto gli inglesi. Il Duce disse: «Non fa niente, li fermeremo sul bagnasciuga. Tuti là su l’onda! i resterà morti stechiti». E invece quelli il 10 luglio 1943 sbarcarono in Sicilia tranquilli tranquilli – o almeno quasi – al comando del generale Eisenhower. Le lascio immaginare quello che deve avere pensato il popolo italiano: «Ma come, non eravamo i più forti che dovevano portare il loro Imperium su tutti i popoli del mondo? E invece questi com’è che sono loro a venire dentro casa nostra, senza che noi siamo neanche più capaci di difenderla?». La resistenza delle truppe italiane
fu difatti debole. In dieci giorni quelli occupano due terzi dell’isola. Il 22 stanno a Palermo e tutta la gente in tutta Italia – pure i gerarchi, pure i ministri, pure il re e tutti i generali – tutta la gente dice: «Basta, Duce, è finita. Chiudiamola qua, prima che sia troppo tardi. Chiedi la pace». E lui – il Duce – il 19 luglio parte e va a Feltre, a metà strada tra Roma e Berlino, per incontrare il Fuhrer e dirgli proprio: «Scùseme tanto Adolfo, ma nantri aghéimo da chièder la pace». È per questo che gli ha chiesto l’incontro. E tutti i suoi generali e sottoposti stanno tutti in trepida attesa: «Speremo bèn». Quando però al ritorno il capo di stato maggiore Ambrosio gli chiede: «Allora Duce, come è andata? Che ha detto quello là?». «Non mi ha fatto parlare. Parlava solo lui, strillava come un matto», e lui s’è stato zitto il Duce, non ha avuto il coraggio di dire una parola. Assoggettato. «Però mi ha detto che hanno un sacco di armi segrete, armi nuove potentissime inimazinàbili, che le xè in grado de ribaltàr le sorti dèa guèra da un momento a l’altro.» «E voi, Duce, voi che dite?» ha chiesto Ambrosio. «Boh…» ha fatto lui. Intanto però quello stesso 19 luglio che lui stava a Feltre, bombardavano per la prima volta in assoluto Roma. 4000 bombe. Gli aerei s’erano sentiti passare su tutto l’Agro Pontino e noi Peruzzi avevamo detto preoccupati: «Chissà dove vanno…». E dopo un po’ da Roma è venuto un rumore soffuso «Booom!… Booom!… Booom!» che pareva un temporale lontano. Tutto San
Lorenzo raso al suolo, e poi pure il Tiburtino, Prenestino, Casilino, Labicano, Tuscolano, Nomentano. Tremila morti e undicimila feriti. Potevamo andare ancora avanti così? La mattina presto del 25 luglio 1943 – quando sul nostro podere 517 mio nonno si è alzato per andare in stalla – come ha aperto la porta del gabbiotto antizanzare, c’era ad aspettarlo sopra il ponte della strada una macchina
ferma. E seduto sul muretto il Rossoni. In borghese. Con un vestito blu. Fumava. E appena ha visto mio nonno affacciare il muso fuori, subito ha buttato la sigaretta nel fosso, è scattato in piedi, s’è lanciato sul cancello e lo ha implorato: «Scàmpame Peruzzi, scàmpame!». «Eh la Madòna, Rosón!» ha fatto mio nonno: «Ancora con questa storia di Copparo?». «Ma quale Copparo Peruzzi, maladéto tì» ha detto allora il Rossoni: «Scàmpame inquò, benedéto, no a Copàro! Che s’i ne tòle i ne cópa». Lui era dalle quattro – o anche un po’ prima forse, le tre e mezza – che stava lì ad aspettare sul ponte che qualcuno s’affacciasse. Non voleva né suonare il clacson né fare alcun rumore. Anzi, era pure preoccupato che il rombo del motore – solo nella notte, sulle strade bianche dell’Agro -avesse già fatto insospettire qualcuno di troppo. Lo avevano infatti sentito mio cugino Paride e l’Armida, mentre uno con la bilancia a tracolla e l’altra col ragazzino piccolo in braccio tornavano per la via dei campi dall’argine del Canale Mussolini, dove erano stati a pescare sotto la cascatella: «Chi sarà?» s’erano detti, senza neanche però la più lontana idea d’andare a vedere, perché era forse il caso di sbrigarsi a tornare a casa in letto, prima che facesse giorno. La moglie del Rossoni – la sera prima – non voleva che lui andasse alla riunione del Gran Consiglio: «Non star andarghe». «Ma come fàsso? Còssa ghe dìgo?» «Non andarci, che quello è una carogna.» «Ma proprio per questo ci debbo andare.» «Va bèn, ma stà aténto.» «Stà atènta tì piutosto, e non star aspetarme. Se le cose si mettono male, ognuno per sé e Dio per tutti.» «Edmondo…» «Tosa…», e le ha dato un ultimo bacio: «Non combinarmi troppi malanni». S’è messo un cambio di panni borghesi in macchina – perché tutto si potrà
dire del Rossoni, ma non che non fosse uno pratico e pronto ad ogni evenienza, specie se c’era il rischio di dover magari avere a che fare con guardie e questurini – e s’è presentato alle ore 17 del 24 luglio 1943 con la divisa sahariana nera a palazzo Venezia per la riunione del Gran Consiglio. Era dal 7 dicembre 1939 che non veniva più riunito sto Gran Consiglio benedéto, e veniva riunito solo oggi, perché stava oramai bruciando la stalla. Non c’era più niente da fare e tutti i gerarchi volevano provare a trovare una soluzione che salvasse capra e cavoli: lui si faceva da parte, subentravano loro con il re, trattavano la resa, la pace, e ricominciava tutto come prima, con sempre loro al comando. «Lui è d’accordo» avevano detto al Rossoni, «il re pure e così sistemiamo tutto.» «A mì am pàr strano» aveva pensato Rossoni, «e per sicurezza mi porto il vestito blu.» E difatti quello là dentro non sembrava più tanto d’accordo, anche se tutti gli storici oramai dicono e lo diceva pure il Rossoni a mio nonno, che sotto sotto – almeno prima – lo fosse stato per davvero. Poi ci deve avere ripensato. «Io lo conosco» diceva il Rossoni, «quello non molla un centimetro del suo potere, neanche se casca giù tutto il mondo.» Comunque – arrivato là un po’ prima delle 17 – «Edmondo!» gli aveva fatto il Duce, come se avesse appena visto il meglio amico suo e più fraterno: «Come va, caro il mio Edmondo?». «Insomma, Duce, insomma… Così e cosà!» pensando però dentro di sé: «Ch’at vègna un càncher sèc! Adesso sarìa ‘l tó Edmondo?». E quando è stata l’ora di votare gli ordini del giorno, gli ha votato contro, ha votato l’ordine del giorno Grandi, insieme a Ciano e tutti gli altri. La riunione terminò tra le due e mezza e le due e quaranta del 25 luglio. Dei cosiddetti «congiurati» – quando uscirono fuori – alcuni erano tranquilli e soddisfatti: «Domani ci pensa a tutto il re, e noi siamo di nuovo a cavallo». Altri – come Ciano – erano preoccupati: «Quello ci fa arrestare». C’erano
difatti quattro divisioni della milizia intorno a Roma. Tutti – però – se ne andarono tranquilli a casa, manco fossero usciti da una partita a poker al bar dell’angolo: «Ci vediamo domani». Il Rossoni invece era montato in macchina: «Voi siete matti, compari. Statemi bene» e da piazza Venezia era andato subito a San Giovanni – che casa sua stava tutta da un’altra parte – aveva preso l’Appia e via verso Albano, Ariccia, Genzano, Velletri, Cisterna di Littoria, Canale Mussolini e podere 517 Peruzzi finalmente, Parallela Sinistra. Mio nonno ha spalancato il cancello e poi via a spinta -per non accendere il motore e farsi sentire da tutta la strada – apri il fienile dietro, scansa un bel mucchio di fieno, mettici la macchina sotto, ricopri tutto quanto, ciàpa la scala lunga da fuori, fai entrare il Rossoni per il tetto su in solaio, e chiudilo per bene lì dentro. Nessuno doveva sapere niente – neanche quelli di casa – perché una parola fa sempre in tempo a volare. Solo mia nonna che gli preparava da mangiare e – quando nessuno vedeva – saliva circospetta le scale di casa con un piatto ricoperto, bussava con il manico della scopa sotto la botola sopra il soffitto, lui apriva, pigliava il fagotto e richiudeva. Usciva ogni tanto a sgranchirsi le gambe a notte fonda, quando mio nonno gli ripoggiava la scala a pioli da fuori. Nessuno doveva sapere niente le ripeto. Solo Paride e l’Armida – quando tornavano dall’argine a notte fonda, prima che facesse giorno, sempre con la bilancia e un ragazzino a tracolla – lo vedevano andare e venire su o giù dal tetto: «Va’ il Rossoni, va’». Anche tutti i bambini dei Peruzzi però – specie se veniva in corte a giocare qualche ragazzino dagli altri poderi – subito gli dicevano in coro, ma piano piano e sottovoce: «Sopra al tetto c’è il Rossoni, ma non bisogna dirlo che il nonno si arrabbia, parché anca ‘l Rosón quand’èrimo sopra in Altitalia se gà pincià mè nona». E uno dei più piccoli andò poi da mia nonna a chiederle: «Ma xè vero, nona, che anca ‘l Rosón te gà pincia?».
Voleva strozzarlo, mi deve credere – il ragazzino mio cugino naturalmente, non il Rossoni – e già lo aveva messo con il collo dentro un cassetto della credenza a pendere e sbattere le sue alucce come le galline dei cappelletti. Glielo tolsero di forza all’ultimo minuto e mio nonno faceva meravigliato: «Ma l’è un putìn, Mariavèrzine». «Un putìn?» strillava lei: «Ma sai cosa mi ha detto?». «E còssa te garà mai dìto, benedéta?» «S’agò anca pincià col Rosón!» «Dammelo a mì» s’è messo allora subito a strillare mio nonno, «che lo cópo mì.» Comunque, fatto sta, il Rossoni è rimasto quattro o cinque giorni nascosto nel sottotetto nostro senza che nessuno lo sapesse – a parte naturalmente tutta la Parallela Sinistra da Borgo Carso fino a Borgo Podgora – finché lui e il nonno non sono stati ben sicuri che quello, ossia il Duce, una volta caduto non fosse più riuscito a rialzarsi. Solo al lora il Rossoni è sceso dal tetto. Mio nonno aveva fatto avanti e indietro tutti i giorni all’osteria, a sentire il bollettino alla radio. Tornava quasi sempre indietro mezzo ciucco: «Tì e st’aradio» faceva mia nonna. «El beve par desmentegàr» facevano i miei cugini piccoli. Il re aveva fatto arrestare il Duce, ma manca poco e fa arrestare pure i gerarchi congiurati. Gliel’aveva giustamente messa in quel posto anche a loro. Il fascismo era caduto e basta. Non se ne riparli mai più. La gente in tutta Italia le feste che non le dico. Fino all’anno prima tutti: «Duce Duce Duce e vinceremo». Adesso non lo aveva mai potuto vedere nessuno. Tale e quale ai socialisti nel 1919-21. Ma pure al Pci e alla Democrazia cristiana intorno al 1994. Craxi non ne parliamo, fra poco – lei vedrà – pure al Berlusconi e fra cent’anni al canchero che ci sarà: «Chi, io? Ma ti pare che io ho potuto dare il voto a un canchero di quella maniera?».
E così il 26 luglio 1943 – quando la radio ha ripetuto e ripetuto: «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, Sua Eccellenza il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio» – tutti sono scesi per strada a
festeggiare. Vere e proprie manifestazioni di massa – oceaniche, si diceva allora – in ogni angolo d’Italia. Tutti salivano sulle scale con mazzetta e scalpello e si mettevano a buttare giù i fasci da sopra i muri. Lei doveva vedere i busti del Duce che volavano dalle finestre in mezzo alla strada, e la gente intorno che ci sputava sopra, anzi, i soldati di passaggio gli sparavano anche addosso, al busto del Duce. Non c’era più un fascista in giro. Una divisa. Spariti tutti. Fuori che in Agro Pontino. In Agro Pontino abbiamo detto solo: «Boh? Mo’ vediamo come va a finire» e ognuno ha continuato a fare il suo lavoro. Ma nessuno che sia andato a toccare qualcosa sopra i muri. Ci mancherebbe altro. Anzi, in Agro Pontino abbiamo pure detto: «Ma come faranno adesso senza di lui, senza un Uomo di quella maniera?». «Ghe xè sempre il re.» «Ah, be’.» Sui paesi della montagna nostra, invece, hanno fatto festa grande e per diversi giorni ma – lei capisce – anche lì, giustamente, le ragioni loro non erano le stesse nostre. Da noi a Littoria provò a presentarsi sotto il municipio un gruppetto di reclute e imboscati dell’82° fanteria, che volevano scalpellare il fascio littorio dalla facciata della torre. Ma quando sono stati sotto il portone del comune c’era mio zio Adelchi di piantone – con la divisa bianca estiva e il casco coloniale – che gli ha detto: «Via di qua! Che cos’è questa confusione?». «È caduto il fascismo» facevano quelli dell’82° mentre una piccola folla di littoriani gli rumoreggiava contro. «È caduto il fascismo!»
«Frega un casso a mì» ha detto mio zio Adelchi: «Fasìsmo o non fasìsmo, questo xè il comùn de Litòria e guai a chi ‘o tóca», ha tirato fuori la pistola – «Cliclìck» – fatto scorrere il carrello e messo subito il colpo in canna.
Quelli hanno fatto dietrofrónt e via. «Fascista!» hanno poi strillato a mio zio prima d’andarsene. «E me ne vanto!» ha fatto allora lui, mentre la folla dei littoriani – le donne soprattutto, che erano uscite per fare la spesa magari, e lui, le ripeto, era pure bello come Sylvester Stallone da giovane – la folla gli diceva: «Bravo Adelchi, bravo». Lui allora s’è gasato perché, diciamoci la verità, aveva fatto il suo dovere – o almeno quello che credeva fosse il dovere suo – ma dentro di sé s’era pure preoccupa to, essendo quelli una decina di soldati ed alcuni pure armati. E allora – tutto gasato – avendo riconosciuto in mezzo a quei soldati anche uno dei Ciammaruconi, certi sermonetani che stavano su un podere al di là della ferrovia a Littoria Scalo, gli ha strillato forte lui adesso: «E aténto a tì Samarucón, che t’ho riconosciuto e ti tengo d’occhio, bruto marochìn d’un maladéto». «Bravo, bravo!» facevano le donne. Comunque il Duce era finito – arrestato – e non si sapeva dove lo avessero ingabbiato. La milizia naturalmente con tutte le sue armate e divisioni in camicia nera non aveva fatto «ba», era passata tranquilla ed ordinata sotto gli ordini diretti del regio esercito, s’era tolta i fasci dalle mostrine e dai fregi sul cappello, ci aveva messo le stellette e arrivederci e grazie. E allora mio nonno è tornato una mattina dal borgo e ha detto al Rossoni: «Xè tuto tranquìlo. Se vuoi restare resta, però puoi anche scendere dal tetto». «Ah, mì non me fido Peruzzi. Pòrteme ‘l prevosto.» «El prevosto?» ha fatto mio nonno: «E che vuoi, morire proprio adesso?». «Ma quale morire e morire, Peruzzi! Pòrteme un casso de prete e una tónega in più, che quando che ‘l se gà da scampare, nol se gà d’avere peli su la lingua.»
Allora mio nonno è tornato assieme a don Orlando e una tonaca d’accompagno. Il Rossoni se l’è messa – «Si è fatto prete per il rimorso della nonna» dicevano tra loro piano piano i miei cugini – sono rimontati tutti e tre sul carretto e mio nonno, con don Orlando di qua e il Rossoni vestito anche lui da prete di là, li ha portati a Cisterna alla stazione. «La macchina?» gli ha chiesto mio nonno prima che partisse. «Fatene quel che volete», ed entrato nella parte, gli ha fatto pure un bel segno di croce – una benedizione grossa così – dal finestrino. Arrivato a Roma non è nemmeno passato per casa. Diretto in Vaticano. Quelli gli hanno detto: «Ma non c’è nes sun pericolo, il maresciallo Badoglio è persona di fiducia». «Non c’è pericolo? Ma lo dite voi! Mì non me sposto de qua» e se lo sono dovuti tenere. Non passano due mesi, e anche in Vaticano – non appena dichiarata la Repubblica sociale italiana – hanno dovuto dire: «Ma tu varda ‘l Rosón che ‘l gà sempre razón». Insieme agli altri congiurati traditori del 25 luglio – anche se il primo congiurato pare sia stato, le ripeto, proprio il Duce che all’inizio era d’accordo – il Rossoni era diventato il nemico pubblico numero uno. La prima cosa che hanno fatto i fascisti repubblichini quando i tedeschi li hanno rimessi a cavallo, è stato andarli a cercare uno per uno, metterli dentro e poi via a processo a Verona questi traditori. Però non li hanno presi tutti, solo un po’: Galeazzo Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi, Gottardi. Tutti condannati a morte il 10 gennaio 1944 a sera, e sentenza eseguita il mattino successivo. Gli altri – quelli che non gli era ancora riuscito di prendere – condannati a morte in contumacia: «Tradimento!». Come li pigliavano, li fucilavano. «Mi raccomando il Rossoni» aveva detto il Duce a Pavolini: «E fate attenzione perché è un’anguilla e vi scappa tra le mani. Lo voglio vedere con gli occhi miei mentre che muore, quel desgrasià».
«Sarà fatto, Duce» aveva detto Pavolini venendo via. Lui era il segretario del Partito fascista repubblicano, il fondatore e capo delle Brigate Nere. Prima era stato amico intimo di Ciano, tanto che lui – il Ciano – in carcere a Verona in attesa del processo non faceva che dire: «Ma tu vedrai che mo’ Pavolini ci mette una pezza e mi fa liberare». Ciano mica si rendeva conto di quello che aveva fatto, del vespaio che aveva suscitato. Lui s’era messo tranquillo tranquillo su un aereo dei tedeschi – subito dopo che questi avevano liberato il Duce al Gran Sasso e trasferito in Germania – e s’era fatto portare lì con tutta la famiglia: «Inquò parlo col suocero e sistemémo tutto. Abbiamo scherzato». Là invece – oltre a tutti i tedeschi e ai fascisti repubblicani incazzati con lui come iene – la prima e più incazzata di tutti era proprio la suocera, Rachele, che disse subito a suo marito il Duce: «Fallo subito fusilàr, se no m’incasso per davero mì!». Hai voglia la figlia a piangere: «È il padre dei miei figli». «Poteva pensarci prima.» Lui invece – Ciano – si credeva davvero ancora che stava a giocare. Mica lo immaginava che Pavolini invece -«Ognuno gà le só razón» – non stava a giocare per niente. Anzi, Alessandro Pavolini si stava a giocare davvero con tutte le sue forze – e con totale e disperata consapevolezza – l’ultima sua partita: «Costi quel che costi». Era un bravo scrittore e buon padre di famiglia, ma aveva il sangue agli occhi oramai, e pietà per nessuno, a partire da sé stesso. Fu l’unico di tutti i gerarchi a reagire, sparare, tentare di combattere e fuggire armi alla mano, quando i partigiani li catturarono il 27 aprile 1945 sulla strada che da Menaggio, costeggiando il ramo superiore del lago di Como, va verso Dongo dove poi li fucilarono il giorno dopo – il 28 aprile 1945 – la mattina presto. Lui era quello che apriva la fila mentre li conducevano al luogo dell’esecuzione ed era anche l’unico ferito dal giorno prima, l’unico che avesse provato a resistere. Tutti gli altri si arresero e basta: «Amen», come peraltro fece il Duce stesso. Anzi, lui – l’Uomo – si fece catturare nascosto dentro un camion tedesco, camuffato sotto il pastrano
dell’ultimo soldato del suo alleato germanico. Altro che «se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi». Poi, come lei sa, nella mattinata del 28 aprile 1945 i cadaveri del Duce e dei suoi gerarchi che come lui s’erano arresi senza difendersi – insieme a quello di Pavolini, che invece s’era difeso – furono presi e portati a Milano con un camion. Pure la Claretta Petacci. E poi appesi per i piedi – per farli vedere alla gente – alla pensilina di un distributore di benzina a piazzale Loreto, dove meno d’un anno prima loro avevano fatto altrettanto, giustiziando ed esponendo al ludibrio i cadaveri di quindici partigiani antifascisti. «Ognuno gà le só razón» diceva mio zio Adelchi: «Quello che dai, ti sarà dato.» Comunque erano dolori se il Rossoni lo pigliava Pavolini. Ma non gli è riuscito. Neanche con le cannonate lo tiravi fuori dal Vaticano finché in giro per Roma c’erano repubblichini e tedeschi, ed aveva a pendergli sul collo la condanna a morte. Quando poi quelli se ne sono andati e a Roma sono arrivati gli americani, la moglie è corsa ad aspettarlo in piazza san Pietro: «Ah, Edmondo mio! l’è finìa finalmente». «Finita? Ma tu sei matta» le ha detto lui, e via di corsa a casa a preparare la valigia e mettersi in fila a Napoli davanti alla prima nave per le lontane Americhe. «Ma che pericolo ghe xè in Italia, che oramai l’è liberà?» «Ma tasi insulsa, vuoi insegnarmi a me com’è che si scappa?» e sono andati in Canada. Come quarant’anni prima. Be’, lei non ci crederà, ma la nave non stava nemmeno fuori dalle acque territoriali che i tribunali nostri dell’Italia liberata gli avevano dato l’ergastolo come criminale fascista, responsabile come gli altri di tutte le malefatte del ventennio. Lui però intanto stava in Canada – «Ciàpame, se ti xè bòn» – ed è tornato solo nel 1948, quando con l’amnistia è finito tutto. S’è ritirato a vita privata e non ha fatto più parlare di sé. Neanche è più tornato a Tresigallo. Mai rimesso piede, perché pare ci fosse ancora qualcuno – danneggiato dai
suoi espropri – che gliela volesse far pagare: «Meglio che sto fora dai piè». Ci si è fatto portare solo dopo morto – nel 1965 – dentro quel mausoleo che le ho detto. In vita, non s’è più visto o fatto notare in giro da nessuna parte. Stava solo a Roma a casa sua oppure qui da noi in Agro Pontino, finché è stato vivo mio nonno. Arrivava con la macchina, suonava con il clacson sul ponte, scendeva dalla 1100 e in piedi, appoggiato allo sportello, si metteva a strillare: «Scàmpame Peruzzi, scàmpame!». «Maladéto tì» faceva subito mio nonno e lo veniva ad abbracciare. Stava qui anche dei giorni. Non più sul tetto, ma nella camerina che avrebbe dovuto essere il bagno. Stavano le ore a chiacchierare, lui e il nonno – «Ti ricordi quela volta?», «E quel’altra?» – e se c’era da lavorare veniva anche lui a raccogliere il fieno, a cavare le bietole col cappello di paglia in testa, a bere pure lui al mestolo in cucina. Era qui anche quando s’è inteso male mio nonno, ed è rimasto fino all’ultimo: «Sempre se non disturbo». «Ma figurève, Rosón» gli disse mia nonna: «L’è un piasèr par nantri, voi siete sempre stato un fratello più piccolo per il mio uomo». «E lù par mì. Fratello maggiore» disse il Rossoni, e in quei venti giorni che mio nonno è stato allettato e che la nonna lo accudiva avanti e indietro notte e giorno come un bambino, lui è stato sempre seduto lì vicino e aiutava la nonna a voltarlo, pulirlo e rivoltarlo, mentre ogni tanto mio nonno gli diceva sorridendo: «Monti e Tognetti». «Monti e Tognetti!» rispondeva il Rossoni. E per sgranchirsi le gambe, veniva ogni tanto con noi ragazzini in campagna. Noi – tra di noi – dicevamo: «I èra fradèi! L’è stà il papà del nono che se ghéa pincià la mama del Rosón». E c’era anche lui quella sera – seduto a fianco dalla parte di là – che mia nonna s’è seduta un momento a fianco di qua, e mio nonno l’ha guardata e ha detto: «Che dici tosa, se domani sto meglio e mi alzo, tu che dici se rivado a comprarmi un cavàl?». «Un cavàl? Tuti i cavài che ti vól, toso, tuti i cavài del mondo.»
Lui ha sorriso e dopo un po’ – con voce fioca – le ha detto: «Come te sì bèa». Lei rispose subito: «No, caro! Te sì tì che te sì bèo», e mio nonno morì. Rossoni rimase fino al funerale – sempre vicino a mia nonna che non piangeva, distrutta ma non piangeva – mangiò con noi la sera a cena dopo averlo sepolto e poi se ne andò a casa sua a Roma. Ritornò venti giorni dopo per il funerale della nonna, che dopo quello del marito – la sera – s’era messa a letto e non s’era più alzata. Lui venne, ed anche questa volta, l’ultima, rimase a cena, a raccontare da capo a chi non la sapesse -alle nuove generazioni dei Peruzzi – la storia del carretto e delle botti e del cavallo di Copparo, «Scampame Peruzzi, scàmpame», e di quella volta che zio Pericle e zio Temistocle s’erano presentati in bicicletta da lui a palazzo Venezia. Poi è ripartito e non è più tornato. Andava ogni tanto qualcuno di noi a Roma – soprattutto zio Adelchi, se magari serviva un consiglio – una volta l’anno a dicembre, prima delle feste di Natale, a portargli due braciole, i ciccioli e un cotechino del maiale appena ammazzato. Quando è morto nel 1965, al funerale a Roma c’erano la moglie e almeno due per famiglia di tutte le famiglie dei Peruzzi. Sarà stato fascista ma era nostro fratello, costruttore di città e bonificatore dell’Agro Pontino. A noi Peruzzi è lui che ci ha portato qua, l’Edmondo Rossoni del bivio di Tresigallo – sulla strada che da Codigoro va verso Copparo – provincia di Ferrara. Come dice, scusi? Lei vuol sapere se era vera o meno la storia della moglie e del cugino? Ma vada in malora, lasci stare queste monàde. Cosa vuole che ne sappia io? Lo vada a chiedere al Duce, no? Noi però eravamo rimasti alla mattina del 25 luglio 1943 in cui, dopo vent’anni e passa di dittatura, il regime fascista era caduto per mano del Rossoni, di Ciano e degli amici loro – oltre che del re – e tutti oramai in Italia si aspettavano che arrivasse subito anche la pace. Alla radio però il giorno dopo il nuovo capo del governo – il maresciallo Badoglio – aveva detto,
probabilmente per non far insospettire i tedeschi: «La guerra continua a fianco dell’alleato germanico. L’Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni». Mo’ di quali tradizioni parlasse non so. Forse quelle di
Maramaldo. Noi però gli credevamo ancora – c’era il re dietro – e lui soprattutto era ancora il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio che era entrato con mio zio Adelchi e il compare Franchini, alla testa delle truppe vittoriose, in Addis Abeba. Potevi mettere in discussione la sua parola? «La guerra continua!» anche per noi, a fianco all’alleato germanico. E così mio cugino Paride – da bravo soldatino quale era, come tutti i Peruzzi peraltro – finita la licenza si rimise la divisa, si caricò lo zainetto e una mattina di metà agosto del 1943, una ventina di giorni circa, dopo quel 25 luglio, salutò e baciò tutti per fare ritorno al reparto. Nessuno fece caso all’Armida che piangeva; piangevano tutti le ripeto, potevano stare a pensare all’Armida? «Non stare a andare figlio, non star andare» piangeva la madre di Paride. «Mama, xè disersiòn» le disse dolce lui. «Ma non vedi la confusione che c’è in giro?» riferendosi evidentemente sia alle sorti del fascismo – «Sì sì, la confusión!» faceva coro l’Armida – sia alle sorti della guerra oramai quasi persa: «Chissà cosa potrà succedere?». «Fémene! Succeda quel che succeda, non s’è mai sentito d’un Peruzzi che ‘l gàbia disertà. Dème un bacio e preghè par mì.» Era tornato a metà giugno in licenza cosiddetta estiva – la prima sua licenza in tre anni di guerra – perché veniva data ogni tanto a qualche soldatocontadino per permettergli di tornare a casa a dare una mano per i raccolti e le prime arature. La richiesta veniva avanzata da quelli di casa tramite l’Opera e l’ispettorato agrario, e tutti le facevano queste richieste. Ogni tanto ne veniva accolta una, e dopo più di tre anni che era partito con la milizia portuaria per l’Albania, stavolta era toccato a lui e ce lo eravamo visti
arrivare alla metà di giugno, bello come solamente uno che si chiama Paride può essere a questo mondo bello. Il Paride nostro era alto alto, due spalle larghe come quella porta e la vita stretta. Tutto un fascio di nervi e di muscoli. Nero nero, moro moro – gliel’ho già detto che i Peruzzi sono tutti così, o biondi o mori, alternati; Pericle biondo, zio Adelchi moro – moro moro ma con gli occhi azzurri, i capelli lisci come mio zio Adelchi ma il viso e tutti i tratti, la muscolatura e i nervi e l’animo soprattutto, di mio zio Pericle. Era il meglio dei Peruzzi il Paride, il primo della nuova generazione, l’orgoglio di tutte le famiglie, il più adorato da tutti i cugini. Lei lo doveva vedere camminare in campagna a torso nudo con questo stuolo di ragazzini dietro, tutti i cugini – «Paride! Paride!» – chi sul collo a tracolla e chi in braccio, chi attaccato alle braghe e chi invece gli correva davanti e poi gli si voltava di fronte, sui piedi, a dirgli anche lui: «Paride, Paride, ascóltame a mì!». E lui ascoltava tutti, gli raccontava favole, li prendeva a schiaffetti in testa e calci nel culo – e loro ridevano – e li consolava poi, però, quando per caso cadevano e si facevano male, oppure li avevano menati le madri magari, o anche mia nonna, e loro piangevano: «Vieni qua, che ti racconto una storia». Forte come un toro – una volta per scommessa coi fratelli, mi ricordo bene perché c’ero anch’io piccolino, si mise lui al posto dei buoi a tirare l’aratro e i fratelli a tutta forza a spingere sul vomere per mandarlo giù il più possibile, eppure lui ce la fece e strattonando strattonando, con l’aratro e coi fratelli dietro che saltavano di qua e di là, riuscì ad arrivare alla fine del campo e arrivato lì mi prese sulle braccia e mi lanciò due o tre volte in aria – sapeva mille storie, aveva mille battute e pure al borgo e al dopolavoro era al centro di tutte le compagnie. Ma era un Peruzzi anche lui, e della migliore specie – non era un giullare – ed era fumino e deciso, quando gli giravano. Non so se le ho mai detto di quella volta a Casal delle Palme – dentro l’osteria -che mio zio Pericle e zio Temistocle ebbero a che dire con i Di Patroclo, certi
marocchini sermonetani che stavano di là dell’Appia. Fu solo una questione di carte le giuro – non c’entrava la politica – anche se quelli dopo la guerra sono andati a dire che era stato per la politica, perché loro erano antifascisti e i Peruzzi li avevano aggrediti per questo, e uno ci prese pure la pensione, come perseguitato politico dai fascisti. Invece no, fu solo per le carte e forse per il troppo vino – «Marocchino di qua», «Cispadano di là», mentre giocavano – e poi vie di fatto. Con zio Pericle e zio Temistocle c’erano mio zio Cesio – che studiava da geometra -e mio cugino Paride, che erano più giovani. Due giovani e due grandi: quattro in tutto i nostri. Quelli invece erano sei o sette e quando l’oste ha detto: «Fermi tutti! Andè fora, per piasèr», Paride è scattato per primo a divellere i pali della staccionata – o i paletti di sostegno a fianco ai pini appena messi sull’Appia, adesso non so, comunque pali ecco, passoni – e appresso a lui gli altri, e gli hanno dato tante di quelle passonate a quelli là, che ancora se le ricordano. Uno ci piglia tuttora la pensione come perseguitato politico, perseguitato dei Peruzzi. «Va’ a zogàre a le carte con altri, va’» gli diceva però mio zio Adelchi ogni volta – fino all’ultimo giorno – dovunque lo incontrasse. E quasi quasi si guardava in giro, come a voler cercare di nuovo un passone anche lui. Però con noi era dolce e gentile come i principi delle favole il Paride – mi deve credere – era buono e sensibile e ti stava a sentire qualunque fesseria tu gli andassi a raccontare. Ma era perfino timido – se uno lo sapeva prendere – ed era servizievole. Mia nonna non faceva in tempo a dire «Paride», che lui subito correva e la cosa già era fatta: «Contènta, nona?». «Contènta sì» faceva lei. Le prime che lo hanno visto arrivare sul ponte del Canale quel giorno della licenza – loro stavano nelle arnie lì sotto – sono state le api, che gli sono corse tutte incontro: «Zzz… zzz… zzz», felici. Ma appena gli sono state vicine: «Fvvììì-sccccccc!» e sono scappate subito via.
«Ma che hanno?» ha pensato lui, e ha tirato dritto verso il podere nostro Peruzzi 517 dove ha salutato al volo la nonna e tutti quanti, e poi per casa sua, podere 516, dove c’era il padre Temistocle, la madre Clelia, la sorella coi figli suoi che il marito stava in guerra anche lui, i fratelli e un’altra sorella della madre con tanto di figli pure lei e poi l’Armida – la moglie di zio Pericle – coi figli suoi. E baci e abbracci tutti quanti: «Paride, Paride». Solo quando è stata l’ora dell’Armida d’abbracciarlo – tenga presente che era quasi come un figlio suo il Paride, perché quando l’Armida arrivò a stare per la prima volta dai Peruzzi a Codigoro, che avrà avuto diciassette o diciotto anni, lui ne aveva cinque e chissà quante volte lei gli ha fatto il bagno da piccolo dentro la tinozza insieme magari ai figli suoi, e tenuto in braccio, consolato, sculacciato, curato quando stava male – Armida come l’ha abbracciato, subito s’è ritratta schifata: «Ma te gà i peòci, maladéto tì e i Zorzi Vila». I pidocchi. «I peòci! Paride gà i peòci» strillavano ridendo tutti i ragazzini. Via a mettere sull’aia la tinozza. Porta i secchi d’acqua calda dal paiolo. Metti un altro paiolo su di un nuovo fuoco vicino al forno, per far bollire i vestiti. Strofinagli bene bene la testa – lui faceva: «Ahi, ahi!» – col petrolio dei lumi, spoglialo tutto e poi lascialo in mutande e via dentro la tinozza: «Insapónete!», con tutti i ragazzini intorno e l’Armida e la madre che ridevano. I ragazzini strillavano: «Cónta, cónta, cóntene del tó motoscaffo da guèra. Come fa? Bròòòm bròoom?» e arrampicati sul tinozzo schiaffeggiavano l’acqua. Lui rideva. Si guardava intorno e rideva. Poi ha incontrato lo sguardo dell’Armida e le ha chiesto con la stessa voce di quand’era piccolino: «Ziaaa! Lavème la schienaaa…». E allora l’Armida ha preso a insaponarlo e rideva anche lei. Ma via via che lo insaponava e che la mano passava sul collo, lungo la schiena e sui fianchi, e sentiva il pulsare dei muscoli e dei nervi, l’incavo d’ogni costola e il fascio
duro dei dorsali intorno al canale delle vertebre, l’Armida s’è sentita una specie di sdilinquimento e poi subito umida tra le gambe. Le ha strette allora e s’è stretta al tinozzo, a cui per un attimo s’è strusciata. La mano intanto s’era fermata. Poi ha ripreso a insaponare e gli ha stretto forte la schiena, quasi come un morso. E subito s’è ritratta l’Armida e non rideva più. Ha gettato il sapone nella tinozza e se n’è allontanata d’un passo. «Còssa ghe xè, zia?» ha fatto Paride: «Dai, lavatemi la schiena…». «Fattela lavare da tó mama», e se ne è andata. «Ma còssa ghe gò fato?» chiedeva invano Paride a tutti quanti. Ma la storia è andata avanti per più di qualche giorno, perché più lui giocava coi figli suoi – «Ma sì, qualche volta, una di queste sere, vi porto anche voi a pescare» – e provava ad avvicinarsi a lei, e più lei s’imbronciava e lo scostava a brutto muso: «Sta in là!». «Ma che vi ho fatto, zia?» «Stà in là, at gò dìto.» E così anche in campagna, lui a lavorare in mezzo alla fila con tutti che gli davano la voce, e lei per conto suo, che tentava in ogni modo di tenere lo sguardo fisso a terra e non guardarlo mai, ma che di tanto in tanto, inevitabilmente, rialzava gli occhi verso le sue spalle – quelle spalle – e sentiva di nuovo la contrazione tra le gambe. Neanche le api le si potevano più avvicinare – «Ma va in malora va’,… zz, zz!» – e quando proprio doveva fare i lavori lì da loro, ossia prendere il miele o raschiare la cera, lo faceva sbrigativamente, senza perdere più tempo o dare chiacchiera a nessuna. Mancava poco si mettesse anche il cappello con la vela di protezione. «Va’ che sgarbata, va’», facevano loro: «Vilàna!». Poi però – quando a sera prima dell’imbrunire lui si lavava su un tino vicino all’albio e a torso nudo si buttava con le mani l’acqua sotto le ascelle o si passava il sapone sul collo e lei, volendo o non volendo, dal rigovernare le galline gli rilanciava un altro sguardo di sottecchi, e puntuale come la disgrazia si sentiva ripartirle un’altra
contrazione tra le gambe – subito allora qualcuna le piombava dall’alto in picchiata vicino all’orecchio: «Brutta maiala… zz, zz» ed impennandosi di lato, cabrava subito per sfuggirle. «Maladéte» faceva lei, tentando invano con la mano d’acchiapparle al volo. «Maiala, maiala» risuonava alto il sorriso «Zz, zz» delle sue api; anche se qualcuna poi – più dolce – tornava ogni tanto indietro a dirle: «Stà atènta, Armida, stà atènta». Lei stava attenta e lo evitava in ogni modo. Lui in ogni modo riprovava a dirle: «Ma còssa ve gò fato, zia?», e lei ogni volta: «Va in là!». Ma lui era lì. Non poteva annullarsi. E parlava e rideva a voce alta, schiamazzava coi vicini che capitavano, coi fratelli e coi cugini. E poi la sera dopo cena ed il filò sul muretto del ponte – dopo che la maggior parte dei parenti era andata a letto – s’armava della bilancia da un metro e della lampada ad acetilene e una sera con uno, una sera con l’altro, andava a pescare sul Canale Mussolini. Si pescava di tutto, allora. L’acqua era limpida e pulita, si poteva pure bere e il Canale Mussolini era pieno di pesci. C’erano anguille quante ne voleva, e grosse da non crederci. E poi rovelle, cavedani, carpe, galassi, gamberoni di fiume, latterini. Sa quei latterini lunghi meno d’un dito – con la striscia argentea sul fianco – da mangiare a cucchiaiate, in frittura? Be’, bastava poggiare la bilancia sul pelo dell’acqua e quelli saltavano dentro da soli, per la voglia di venirci; bisognava dirgli: «Stai in là!», per mandarli via. E carpe mai più piccole di dieci o quindici chili, anche da venti ne abbiamo presa qualcuna. Dopo – quando con il 1960 è arrivata la ricchezza e il benessere, e a Cisterna pure le fabbriche – non c’era più un pesce nel Canale e lì alla briglia, dove l’acqua cade a cascata, c’era una montagna di schiuma che arrivava fino laggiù al ponte di via della Sorgente. Adesso è qualche anno – da quando hanno messo i depuratori anche a Cisterna – che sono tornati i pesci sul Canale e proprio ieri, mi deve credere, c’erano di nuovo gli aironi
bianchissimi, appostati lungo i gradoni della briglia, sul grande vascone, intenti a pescare. Non so se però ci siano – o siano tornati – anche i salmoni. Le carpe, i galassi e i cavedani sì, ma mio cugino Paride diceva che c’erano anche i salmoni, che dal mare risalivano il Canale Mussolini a salti enormi su per tutte le briglie – salti da un metro, oltre i gradoni e le cascate – e andavano a deporre le uova al piede dei Lepini. Una volta li ho visti pure io e quando raccontavo questa storia in collegio, tutti ridevano e mi pigliavano in giro, perché alla Tv dei ragazzi – che i preti ci facevano vedere solo quella – a Lungo il fiume San Lorenzo avevano appena detto che tutti i salmoni del mondo,
in qualunque mare stiano, quando è l’ora di pinciare e deporre le uova per mettere al mondo i figli, vengono al fiume San Lorenzo in Canada, a risalirlo e a deporre le uova lì. Io che le posso dire? Quel documentario si sarà sbagliato perché mio cugino Paride diceva che venivano pure – ai nostri tempi – sul Canale Mussolini. Sul fiume San Lorenzo e sul Canale Mussolini. Che c’è di tanto strano? Come dice, scusi? non ho capito. Lei dice che il salmone vuole l’acqua fredda, i climi artici? E ai mammut allora che climi gli ci vogliono, quelli caldi? Com’è allora che sotto il Canale Mussolini ci stanno i mammut? o almeno le ossa, quelle che ha trovato Carlo Alberto Blanc alla briglia di Gnìf Gnàf. E se sotto il Canale Mussolini ci stanno i mammut, lei mi spiega perché sopra non ci possono stare i salmoni? Non mi faccia incazzare, per cortesia, se no le ci metto pure gli orsi polari su quei gradoni -al posto degli aironi – a mangiarsi questi cavolo di salmoni. Come dice, scusi? che i resti di mammut sarebbero però dell’era glaciale? Appunto. Ma se c’era l’era glaciale, allora c’erano pure i salmoni, no? E questi saranno i figli dei figli dei figli di quelli là. Non lo dicevano pure a Lungo il fiume San Lorenzo che il salmone va a pinciare, nidificare, deporre le uova e
tutto quello che le pare, solo e soltanto nello stesso posto dove è nato lui? Lui
da lì – appena nato – se ne parte per tutti i mari del mondo, ma appena si sente anche lui una strana contrazione tra le gambe, si mette con le pinne in spalla e via a pedalare verso casa, dov’era nato: «Agò da pinciàr». Solo lì gli viene bene, che le posso fare? E questi da secoli e secoli -da millenni – hanno continuato evidentemente a venire da queste parti pure quando s’è scaldata l’acqua e fatta la palude; ma non trovando più a Foceverde il Fosso Moscarel lo bensì il Canale Mussolini, si sono messi a risalire quello. Che vuole da me? Certi salmoni da un quintale e mezzo, le giuro, pescava certe volte mio cugino Paride, grossi come il maiale che avevamo in porcilaia – maiali volanti – sopra le briglie nostre del Canale Mussolini. Comunque quando Paride poi tornava con qualcuno dei suoi fratelli dalla pesca – lui era il più patito, la passione gliel’aveva messa da bambino mio zio Pericle, che già se lo portava appresso quando ancora stavamo a Codigoro – era notte fonda. Accendevano il lume a petrolio nell’ingresso e poi salivano le scale. Dormivano tutti. Le porte tutte aperte e le finestre pure. Solo le zanzariere chiuse. Letti dappertutto. Lui stava da solo – era il più grande – nello stanzino diciamo da bagno. Lei – coi suoi bambini – stava nello stanzone di fronte, su un letto grande addossato alla parete. Verso la finestra invece dormiva la sorella di Paride, la prima femmina di mio zio Temistocle, coi figlioletti suoi. L’Armida – appena li sentiva rientrare – subito si svegliava. Non era più un dormire il suo, diciamo, con quel fuoco addosso. Una smania. E l’ansia le serrava lo stomaco man mano che i riverberi del lume si riflettevano – da sotto – lungo le pareti ed il soffitto delle scale. Poi salivano. Lei si rigirava nel letto. Sentiva l’altro – il fratello più giovane – cercarsi a tastoni nel buio, nello stanzone, il letto suo tra quello dei fratelli. Lui invece si spogliava al lume, nello stanzino – tra il capo del letto e la porta – e lei non riusciva a non guardarlo ogni volta, da sotto il suo cuscino, mentre
restava in mutande. Un gigante con le spalle larghe – ampliate dai riflessi del lume – e le mutande a pantaloncino del servizio militare. L’Armida ripigliava il cuscino e piangendo in assoluto silenzio se lo rimetteva tra le gambe: «Dove sarà ‘l mè omo? L’è vivo o l’è morto? L’è morto, l’è morto…». Poi un giorno – sarà stata una settimana che Paride era arrivato in licenza – mentre erano in campagna è caduto un aereo. Era un caccia e stava tornando insieme agli altri all’aeroporto che – come lei sa – sta a quattro chilometri sì e no dai poderi nostri. Volava basso, volava a stento, s’alzava e riabbassava, perdeva fumo e soprattutto perdeva giri il motore: «Vrooèmbèmbèm… vròòòòèm…», mentre un amico suo gli girava intorno dall’alto. Non
ce l’ha fatta. Pian piano s’è abbassato, s’è messo lungo sull’argine e ha provato ad atterrare – il motore non girava quasi più: «Vròòò… bum bum» – nell’alveo largo del Canale. S’è sentita una botta cupa – «Bóhm!» – sul terreno, e poi uno scoppio e i primi crepitìi del fuoco. Siamo corsi là. Paride ha detto: «Stì lontani!» anche a quelli dei poderi vicini, e sono andati lui e zio Temistocle a tirare fuori il pilota e a trascinarlo sull’argine, mentre i serbatoi scoppiavano e l’aereo bruciava. L’amico ha fatto un altro giro sopra, s’è abbassato a volo radente e poi è andato ad atterrare in aeroporto. Neanche quattro chilometri, le ho detto. Sono arrivati quasi subito, con un’ambulanza ed un camion. Ma non c’era più niente da fare. Il pilota era morto. Era giovane, era biondo. L’Armida accucciata a fianco gli teneva la testa sulle gambe. Le aveva detto solo: «Ivana…?». «Sì, son mì» aveva fatto l’Armida e gli aveva dato un bacio. Poi lui era morto e lei se lo teneva lì. Se lo sono ripreso i suoi camerati. Hanno spento quel che restava dei fuochi dell’aereo e se lo sono portato via: «L’aereo torneremo tra un paio di giorni a prenderlo». Appena ripartiti, ci siamo voltati anche noi per tornare, mesti, in campagna. Solo l’Armida è rimasta lì per un po’, proprio sul punto in cui,
nell’erba, l’aveva tenuto tra le braccia e baciato mentre moriva. Era giovane. Era biondo. «Ivana» aveva detto. Chissà quanto piangerà l’Ivana, e per quanto tempo. Poi riderà di nuovo. Perché è giovane l’Ivana. E si rinnamorerà. «Stà atènta» le facevano le api intorno: «Stà atènta, Armida!». «Andè via! Maladéte.» Quella sera nessuno ha voluto andare a pesca con Paride: «Io non ho voglia», «Io neanche». Hanno provato i figli dell’Armida a dirgli: «Pòrtane nantri alóra Paride, pòrtane nantri». «No, via a letto voi» ha fatto l’Armida. Anche lui non ci voleva quasi più andare. Ma poi ha pensato: «Io dopo la licenza debbo tornare in guerra e potrei anche morire. No, a vàgo a pescàr!», ha preso la bilancia, la lampada per abbagliare i pesci ed è ripartito da solo verso la briglia su per il Canale. Quando è tornato dormivano alla solita di grosso tutti quanti. Porte e finestre aperte. Solo le zanzariere chiuse e solo l’Armida dentro il letto che s’era rigirata fino allora senza riuscire a prendere sonno, sempre a pensarsi suo marito – mio zio Pericle – che forse non c’era più e quell’altro ragazzo invece, quello di stamattina biondo e giovane col capo reclinato sopra il grembo suo, che di sicuro oramai non c’era più e la sua Ivana però non lo sapeva ancora, adesso magari anche lei stava a letto pensando a lui sorri dente, quando sarebbe tornato la prossima volta. E Armida ha ripensato all’altra volta – a Codigoro, tanti anni prima – quando il suo vicino di casa che aveva appena visto a pranzo aveva detto «Briscola!» all’osteria ed era rimasto là sul tavolo; lei gli aveva pulito le unghie, lo aveva composto sul letto ed era arrivato nella notte improvviso Pericle matto, che lei prima non lo voleva. E mentre si girava di qua e di là nel dormiveglia – che i figli a fianco si rigiravano anche loro sbuffando man mano che li urtava: «Uff, màààma!» – lei lo ha sentito entrare da basso, ha sentito il «Fvuìscc» del prospero che s’accendeva e i primi riverberi del lume andare a sbattere come
un treno addosso alle pareti ed al soffitto della scala. L’Armida ha trattenuto il respiro, ferma e immobile adesso dentro il suo letto. Lui è salito. Fischiava – quasi – con quella specie di fischio che si emette lasciando solamente sbattere un po’ l’aria addosso ai denti davanti. Quasifischiava solo per sé Lili Marleen: Tutte le sere sotto quel fanal davanti alla caserma ti stavo ad aspettar. Anche stasera aspetterò e tutto il mondo scorderò con te, Lili Marleen, con te, Lili Marleen.
Lei lo ha guardato spogliarsi da sotto il suo cuscino, restare in mutande – la schiena nuda – sollevare il lenzuolo, stendersi dentro e soffiare sul lume. Buio. Solo il chiaro di luna che dalle finestre andava a sbattere anche lui – e turbando anche lui gli improbabili sonni dell’Armida – su tutte le pareti del podere 516 di mio zio Temistocle Peruzzi. L’Armida ha sentito Paride voltarsi due o tre volte nel letto come fa chiunque cerchi – appena stesosi – di prendere sonno. Preso. Paride oramai dormiva come tutti nel podere. Chiaro di luna sulle pareti. Il canto di una civetta dal ramo di un eucalyptus. Il trillo d’un grillo sul tetto della stalla. Un «Mméèuh» dalle bestie. Il ronfo intermittente – ogni tanto -di zio Temistocle. Il «Màm…» indistinto d’un bambino nel sonno. Solo l’Armida sveglia e disperata. S’è alzata. In punta di piedi è andata nello stanzino. Ha richiuso dietro di sé la porta. S’è tolta la veste dal capo. Lasciata cadere per terra. Ha sollevato il lenzuolo e gli si è infilata dentro il letto nuda. Con una mano gli tappava la bocca, con l’altra ritirava su di sé il lenzuolo. Paride ha spalancato gli occhi. Lei allora ha ritratto la mano. Lui la teneva per le reni. Lei gli premeva dure e grandi le poppe sulla bocca: «Mórsega» faceva, «mórsega!». E lui obbediva morsegando.
Quando hanno finito le ha detto: «Grazie, zia. È da quando ero piccolo, che non facevo che sognarmi questo momento». «Maialo!» ha fatto lei. «Maaaaiààlaaa» però, non hanno fatto che dire a lei tutto il santo giorno dopo le sue api. E ridevano tutte e rideva anche lei. «La vita se gà da godérsela» faceva l’ape regina. «Atènta però Armida, atènta!» diceva l’eucalyptus lì di fianco. «Stà atènta… zz zz zz» ripeteva con lui qualche ape operaia. La sera sono andati a pescare finalmente anche i figli dell’Armida. Tutti quanti. Lui aveva preparato nel pomeriggio un capanno poco sopra la briglia, addossato all’argine, con dei rami d’eucalyptus e le foglie sopra. Una coperta in terra – contro l’umidità – e dopo le prime due ore, man mano che scemava la novità e giungeva il sonno, uno alla volta sono andati lì sotto a dormire. Loro due invece -controllato che anche l’ultimo già sognasse – sono andati a farsi il bagno nudi sotto la cascata, a prendersi e riprendersi, coi pesci che le sgusciavano da ogni parte e che anche loro ridendo le dicevano: «Bruta maiala». «‘Ndè in là!» faceva lei, e rideva rideva, mentre distesa con le spalle sulla pietra del colmo della savanella – ed il resto del corpo invece nell’acqua fluente del cunettone centrale di magra del Canale Mussolini – Paride la prendeva. «Non star grafiàrme» faceva lui. «Sei tutto tuo zio» gli diceva dopo – quasi ogni volta -lei, carezzandogli dolcemente il viso. «Póv’ro mè zìo» faceva allora mesto lui. E così ogni sera. Poi dopo una, due e tre sere, i figli man mano si sono stufati: «Basta pescare, io vado in letto» ed uno alla volta si sono sfilati – sia maschi che femmine – e alla fine sono rimasti loro due ed il più piccolo, Menego, che era nato solo da due mesi quando era partito mio zio Pericle.
Avrà avuto un tre anni e mezzo. Lei se lo portava sempre in braccio – questo non poteva dire di no – e partivano ogni sera con lui a tracolla e la bilancia sulle spalle verso il Canale Mussolini. «Ma com’è che ti va così male ultimamente?» chiedevano a Paride la madre e i fratelli: «Non hai mai pescato così poca roba». «Eh, ci vuol fortuna nella pesca» rispondeva lui: «Sarà la luna…». Con tutta la luna, però, qualcosa per far vedere doveva pure portare a casa – giusto un’anguilla lei capisce, due carpe, tre cavedani e qualche chilo di latterini per proforma – ma andando a pesca tutti i giorni non è che lì da zio Temistocle si riuscisse a smaltire poi tutto il pescato. La gran parte veniva dirottata sul podere 517 di mio nonno, da cui poi si divideva e diramava per l’intero comparto Peruzzi dell’Agro Pontino. Con la fame che c’era in giro, noi eravamo gli unici – in tempo di guerra – affetti da surplus proteinico. Non c’era un ragazzino dei Peruzzi -in tutte le famiglie dell’Agro – che oramai a pranzo e cena non dicesse: «Sempre pesce, sempre pesce? Ma mì me son stufà de mànzar pésse». Per fortuna loro, quando è stata la metà d’agosto – «Succeda quel che succeda, non s’è mai sentito di un Peruzzi che ‘l gàbia disertà» – Paride ha dovuto riprendersi il suo fagotto e ripartire verso la Dalmazia: «Dème un bacio e preghè par mì». Era il 16 d’agosto del 1943 – lunedì – e nei ricordi della famiglia Peruzzi è rimasto impresso perché il giorno dopo, il 17, era l’anniversario di matrimonio di mio zio Benassi con la zia Santapace, e lei ci avrebbe tenuto proprio tanto ad averlo a pranzo lì da loro. Invece era dovuto partire il giorno avanti. L’ultima sera sul Canale – distesa sul lastricato di pietra della savanella, dopo avergli graffiato quasi a sangue la schiena e morso in tutti i modi le spalle ed il collo – l’Armida gli aveva detto dolce ma imperiosa: «Giura Paride, giura che non dirai mai a nessuno di questa cosa». Nel pomeriggio, difatti, più di
qualche operaia s’era messa a volarle intorno: «Zz, zz, Armida! Ma che potrà succedere di questa storia?». Ora non è che lei avesse bisogno delle api per saperlo. Lo sapeva anche lei in che guaio si sarebbe cacciata se si fosse venuto a risapere. Però – come si dice – detto dalle api pigliava tutto un altro sapore. E allora sul Canale – prima dell’addio – lo ha fatto giurare: «Succeda quel che succeda, tu non dovrai dire mai a nessuno al mondo, che sei stato con me. Giuralo su di me, giuralo su tuo zio Pericle, sul povero Can del Turati e su tutti i nostri vivi o morti che abbiamo in giro per il mondo. Zùralo, Paride!». «Te lo giuro, te lo giuro.» «Nega sempre, qualunque còssa nega sempre!» «Negherò Armida, negherò.» «Guarda che hai giurato!» «Ho giurato!» e il giorno dopo ripartì. Era però – le ripeto – il 16 d’agosto 1943. Per tornare al di là dell’Adriatico – in Dalmazia, che adesso è Montenegro – gli ci sono voluti due o tre giorni, con lo sballamento dei treni e traghetti a causa della guerra. Messosi comunque il cuore in pace e la divisa da fatica addosso della milizia portuaria, s’era di nuovo inchiodato tranquillo tutto il santo giorno davanti alla mitragliatrice Colt da 6,5 del barchino da ricognizione – uno Svan da quattordici metri come quello dei Mas – a perlustrare tutte le coste da Ragusa fino al Cattaro: «Chissà quando la rivedo mia zia Armida». Non passano però neanche venti giorni e – come lei sa – arriva l’8 settembre, la «morte della patria» lo chiamano adesso. Il re e Badoglio – dopo avere firmato senza dire niente a nessuno l’armistizio con gli angloamericani – per darne finalmente notizia al popolo italiano, al regio esercito, alle istituzioni e alla macchina statale, ad ogni suddito e sottoposto d’ogni ordine e grado e perché no, pure al vecchio alleato germanico, lasciano un disco attaccato «all’aradio» e via di corsa a gambe a scappare da Roma, ognun per sé e Dio
per tutti. «Questi» – disse mio nonno – «quando se gà da scampàre, i gà meno peli su ‘a lingua del Rosón». Gli mancava solo la veste da prete anche a loro, che mentre il disco girava-girava all’aradio: «… ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza», già stavano
sull’incrociatore Baionetta a Pescara diretti a Brindisi – «Ciapèv’la in quel posto» -tra le braccia del nuovo alleato angloamericano. Mai nome fu più fatato: un «Baionetta» infisso per sempre nel cuore di quella che fino allora avevamo chiamato Patria. Ci metta lei una pezza adesso, poiché pare proprio che se in Italia ci sono la mafia e la camorra, se i politici rubano a rotta di collo, se la gente parcheggia in doppia fila e nessuno paga le tasse, la colpa sia tutta di quell’8 settembre, la morte dello Stato: «Ognun per sé e Dio per tutti». Scappi tu e non scappo io? Lasciati senza uno straccio di piano, ordini o direttive seicentomila soldati italiani allo sbando furono disarmati dai tedeschi, caricati sui treni e portati in Germania nei campi di concentramento. Tutti gli altri, via di corsa a buttare le divise e darsi alla macchia, prima che i tedeschi pigliassero anche loro. C’erano gruppetti sparsi d’avieri sulla Parallela Sinistra che dall’aeroporto cercavano d’arrivare a Cisterna – alla stazione – e poi da lì chissà dove. Buttavano i giubbotti, le mostrine. Chiedevano ai coloni gli abiti civili. Li chiesero anche a noi. «Ma còssa xè, Caporetto?» faceva scandalizzato mio zio Temistocle e li cacciava – «Andè via!» – con lo schioppo in mano, presidiando il fronte della fascia frangivento dei poderi nostri: «Via dai mè calìps, vergònia d’i disertòr». Lui a Caporetto – non so se si ricorda -lui li fucilava. Mio cugino Paride invece era rientrato in rada nel pomeriggio a Ragusa – quell’8 di settembre – mentre eravamo ancora in guerra, o almeno credeva lui coi suoi compagni. Così hanno fatto tranquillamente il pieno e preparato ogni cosa per il giro del giorno dopo alle Bocche di Cattaro, quando all’improvviso
– alle 19 e 42 – quel disco all’aradio ha cominciato a girare e loro tutti contenti a buttare i baschi per aria: «La guerra è finita, la guerra è finita». Non passa nemmeno un’ora – era ormai buio – e in porto t’arrivano però due camion di tedeschi armati fino ai denti. Saltano giù e piazzano sul molo due mitragliatrici MG e un cannoncino semovente. Il comandante nostro non sapeva che fare. Chiama di qua, chiama di là, chiunque chiamava ne sapeva quanto lui. Quelli intanto – i tedeschi – due colpi in aria e hanno cominciato a mettere in fila gli italiani. Mio cugino Paride e gli amici suoi si sono guardati in faccia, e via di corsa al motoscafo loro che stava un po’ discosto. Lui, non so come, gli è venuto pure il lampo – prima di fiondarsi alla 6,5 sua – di buttare sullo scafo una bicicletta di servizio della capitaneria, che era lì vicino: «Questa l’è mia». Accendi il motore e parti. I tedeschi che da riva urlavano «Alt! Alt!» e poi colpi di fucile. Paride: «Tatatatà», un paio di sventagliate prima che
la
Colt
s’inceppasse.
Via
allora
le
MG
dei
tedeschi:
«Tatatatatatatatatatatatatà». Ma oramai era buio fondo, loro già lanciati
relativamente al largo: «Ciàpame, se ti xè bòn». «Dove andémo?» ha fatto il timoniere quando sono stati fuori del porto. «A casa!» hanno strillato in coro. Via per l’Adriatico a tutta birra come i clandestini. Alle tre di notte erano sulle coste del Molise, tra Termoli e il lago di Lesina. Butta l’otturatore in acqua, rendi inservibile ogni arma, danneggia il motore, sfascia con le asce la chiglia, di’ addio per sempre allo Svan, arriva alle prime case più vicine, informati sulle strade da prendere – possibilmente nascoste – e poi anche loro: «Ognun per sé… e in bocca al lupo a tutti». Io però a questo punto è necessario che le dica pure tutta la verità, non è che le possa mentire. A mio cugino Paride, vede – mentre nella notte, o meglio alle prime luci dell’alba pedalava oramai con la bicicletta della capitaneria di porto di Ragusa verso l’Appennino – a mio cugino Paride, della morte della patria non gliene fregava proprio niente. È triste ma è così. Pensava solo ai
fianchi ed alle poppe dell’Armida. Era al settimo cielo lui. L’uomo più felice di tutto l’8 settembre: «Porca putana, ritorno da èla!». Mio zio Temistocle se lo è visto sbucare tre o quattro giorni dopo – era mattina presto e mio zio stava sul ponte in strada, dove era andato a mettere il bidone del latte perché il lattariolo lo trovasse quando passava con il camion per la raccolta – e se lo è visto sbucare dall’incrocio della Parallela con via della Sorgente, su questa bicicletta oramai tutta cigolante, sporco, lercio e puzzolente dentro certi vestitacci borghesi che gli avevano dato i pecorai dell’Abruzzo. Mio zio s’è sentito un mancamento. S’è appoggiato per un attimo con la mano al calipso di fianco – l’eucalyptus -e gli ha detto: «Fiòlo! Ma te sì disertòr…». «Disertòr mì? Ma disertore sarà il re! Am faséo prènder prisonièr dal nuovo nemico?» «Ah no, caro!» e mio zio Temistocle se lo è abbracciato. Chi non se lo è abbracciato – ma anzi gli è preso un mancamento più forte e duraturo di quello di mio zio Temistocle – sono stati i ragazzini miei cugini Peruzzi, che appena lo hanno visto, si sono sbiancati tutti quanti: «Ancora pesce?». «Ma non sarìa posìbile» disse invece il nonno, «trovare un modo per pescar salsicce?» Via di nuovo quindi tutte le sere alla briglia. «Dio!» faceva dentro di sé il Paride: «L’è questo il Paradiso». Per altri due o tre giorni. Poi il 16 settembre – poco dopo le nove di sera – quando Paride e l’Armida erano appena appena arrivati sul Canale e s’erano sì e no dati il primo bacio, dalla parte dell’aeroporto s’è sentito arrivare il finimondo. Durò fino a mezzanotte. Ottantaquattro bombardieri Wellington a ondate successive – erano della Raf, uno andava e l’altro veniva, a rotazione – scaricarono per tre ore tonnellate e
tonnellate di bombe sull’aeroporto nostro di Littoria. Lei non ha idea di cosa fu quella notte. Da casa dei Peruzzi sembrava giorno e dalle finestre del primo piano si vedeva il campanile del Podgora netto, lucido e preciso come in un mattino radioso. I bengala illuminavano a giorno fin la montagna dietro Littoria Scalo. Dal campo – dall’aeroporto – salivano bagliori e fiamme altissime che arrivavano al cielo, non erano solo le bombe ma soprattutto i serbatoi e le autocisterne della benzina che esplodevano e pigliavano fuoco, come solo dev’essere davvero il fuoco dell’inferno. E rombi, scoppi, tuoni che da un momento all’altro ci sembrava dovesse cadere la casa. Tutte le finestre spalancate, i vetri che tintinnavano e alcuni già andavano in frantumi. Le travi i muri e i pavimenti che tremavano. Tornarono ancora – poi – a bombardare in Agro ed altre volte già c’erano venuti, ma niente fu mai più come all’aeroporto. Morti fra i civili ce ne furono pochissimi – fu un bombardamento chirurgico, come si dice adesso – senza neanche una bomba sui poderi vicini; tutte sul campo andarono, sulla pista e sulle attrezzature, gli hangar, le palazzine, la mensa: tutta una buca enorme e i relitti degli aerei di fianco. Noi però non lo sapevamo che era chirurgico – qui esplodeva tutto – e allora tutti giù, fuori di casa, e per tutta la Parallela Sinistra la gente correva con i bambini in braccio, passandosi la voce: «Tutti al ponte della Madonnina» poco più in là del podere Peruzzi 517, un ponte d’una decina di metri sotto la Parallela e largo non più di due, ma incassato stretto nel terrapieno e con le spallette forti e robuste di pietra viva. Un cunicolo. Ma in quella ventina di metri quadri di cunicolo sotto la strada – il nostro rifugio antiaereo – ci siamo ammassati tutto il popolo della Parallela Sinistra, stretti stretti uno all’altro. Anzi. Sull’altro. Un centinaio di persone in venti metri quadri e la vècia Toson che piangeva piano piano: «Riportéme a Zero Branco». Mia zia Santapace e il Benassi stavano invece dall’altra parte dell’aeroporto, a mezza via da Littoria Scalo a Tor Tre Ponti. Davanti a loro c’era una
stazione trasmittente -o radiofaro, non so – a servizio dell’aeroporto ed una batteria d’artiglieria contraerea tedesca. Gli avieri italiani se n’erano andati l’8 settembre, ma i tedeschi erano rimasti e continuavano a fare il lavoro anche di quelli. Saranno stati quattro o cinque, non le so dire con precisione. Però erano ancora l’alleato germanico per i miei, ed erano ragazzi come i nostri, alcuni – peraltro – pure più gentili e studiati dei nostri. Ce n’era uno – si chiamava Hans – che era studente di belle arti al paese suo, artista, e faceva certi ritratti e disegni a matita che le case dei Peruzzi ne sono ancora piene. Certe volte venivano a farsi scaldare il rancio da mia zia ed erano sempre rispettosi e educatissimi, la sera si mettevano lì con loro a chiacchierare e tenevano in braccio i miei cugini ed ogni volta che gli arrivava un pacco da casa, subito correvano da mia zia Santapace a darle un po’ di cioccolata o caffè vero, e lei faceva i salti dalla gioia perché caffè non ce n’era più, in giro, bevevamo solo orzo o caffè di cicoria. O miscela Leone. Bene, lei deve solo provare a immaginare cosa dev’essere stato lì da loro, quella notte del 16 settembre 1943 che bombardarono l’aeroporto. Loro erano proprio sulla linea di tiro dei bombardieri, sulla rotta che i Wellington tenevano arrivando dal mare. Viravano e s’abbassavano all’altezza loro – per allinearsi e prendere bene la mira della pista d’atterraggio – proprio come volessero atterrare. E invece arrivati lì sopra sganciavano e poi cabravano, rifacevano un altro giro largo e tornavano di nuovo, finché non c’era più nemmeno l’ultimo uovo dentro il bagagliaio. Si figuri cosa dev’essere stato, coi rombi di questi apparecchi che ci passavano e ripassavano sulla testa, le bombe sopra l’aeroporto a nemmeno due chilometri, i bagliori e le fiamme, e i colpi di cannoncino e mitragliatrici della batteria nostra tedesca e le picchiate, cabrate e virate dei caccia, che ci cercavano lungo la scia dei nostri proiettili traccianti, sventagliando raffiche e sganciando ogni tanto qualche bomba apposta per noi.
Per fortuna non ci hanno preso. «È la fine del mondo» diceva Benassi, e pensò solo ai figli. Non è che ci fosse chissà che altro da fare. Se uscivi – pensava lui – era peggio, eri più esposto ai colpi di mitraglia ed alle schegge. L’unica cosa era restare in casa – era una casetta piccolina dell’università agraria, un piano terra e il tetto con le travi; però era carina e il pomeriggio si poteva intravedere il pulviscolo, nell’aria, attraversato dai raggi di sole sfuggiti alle tegole – e per non correre il rischio di trovarsi il tetto in testa se crollava, cercare di proteggersi sotto il tavolo della cucina. E così fece. Mettendoci anche – per ulteriore precauzione – i materassi sopra. E ci si mise sotto con le due figlie femmine più grandi, Norma e Tosca. Lui sopra e loro sotto la pancia sua: «Prima voglio morire io, puttanaeva». Lei invece – mia zia Santapace – non c’è stato verso di farla mettere anche lei sotto il tavolo. Lo ha aiutato a prepararlo e a metterci di corsa sopra i materassi, ma poi lei è rimasta in piedi, sempre dentro e fuori dalla porta di casa col maschietto piccolo in braccio – mio cugino Otello – il primo maschio loro che avrà avuto non più d’un anno e mezzo e ancora lo allattava. Faceva avanti e indietro tra dentro e fuori fino alla strada, proprio sotto la batteria della contraerea a strillare: «Ciàpalo, ciàpalo! Dai che lo prendi!» al tedesco che sparava agli aerei nemici. «Guarda che ne arriva un altro di là! Spara anche a quello, Hans, a quello!» Mio zio Benassi invece le urlava da sotto il tavolo: «Vieni qua Santapace, vieni qua! che ti prenda un colpo a te e sta matta». «Mo’ vègno, mo’ vègno». continuando a fare avanti e indietro. «Vieni quaaa!» «Mo’ vègno, mo’ vègno.» «Ma dammi almeno mio figlio, te possin’ammazzà a te e quando t’ho incontrato. Dammi mio figlio!» Alla fine glielo ha dato e lui s’è messo pure Otello sotto la pancia: «Debbo mori’ prima io… Ma a te se non t’ammazzano l’americani Santapa’» – perché
lui era convinto che fossero americani, invece erano inglesi – «appena finita sta buriana t’ammazzo io, come esco da qua». E lei è riscappata fuori e non è più tornata dentro. Non strillava più adesso solamente «Ciàpalo, ciàpalo», ma s’era fatta servente al pezzo, in capo alla fila dei soldati tedeschi nel passamano delle munizioni sotto la torretta. S’è affacciata di tanto in tanto alla porta di casa – per tutte le tre ore di bombardamento – giusto per far sentire la presenza ai ragazzini: «Come va?» faceva. «Vaffanculo, va’» le rispondeva da sotto il tavolo mio zio Benassi, e lei rideva. E strillando «Ciàpalo, ciàpalo» tornava al pezzo. Come dice scusi? Non ho capito bene Sì, sì, ha ragione lei questa volta: bisogna ammettere che erano tutti un po’ matti questi Peruzzi (ma mi creda, non era una caratteristica solo loro. C’è uno psichiatra di Latina che ha formulato una teoria sulla «sindrome del pioniere»: se tu ti metti a fare il pioniere e a bonificare le paludi sovvertendo le forze del cosmo degli Dei e della natura, tu non puoi essere esattamente uno con tutte le rotelle a posto; qualche cosa che non va, ce la devi avere. Qui siamo tutti un po’ matti. Compreso lui, probabilmente). Lei però – in difesa di mia zia Santapace – deve pure capire che quelli, fino a pochi giorni prima, erano stati l’alleato germanico nostro. Si ricorda come faceva la canzone? Camerata Richard, benvenuto. Posa il sacco si scivola bada, il nemico è al di là della strada… paria piano già t’hanno veduto. Ventun anni, la stessa mia classe… Questo vedi è il mio primo bambino e tu sei fidanzato a Berlino e abitate alla Krausenstrasse? Se mia madre a quest’ora pensasse che ho trovato un amico vicino! Camerati d’una guerra, camerati d’una sorte, chi divide pane e morte, non si scioglie sulla terra! Camerata Richard, tre minuti… Due minuti… un minuto… si attacca, c’è il mio nome cucito alla giacca. Pronti? Fuori! Che il cielo ci aiuti! Camerata Richard, come canta la mitraglia da quella piazzola… Tieni a mente Salvetti Nicola, vico Mezzocannone, cinquanta. Oggi tutta la terra si schianta, ma noi due siamo un’anima sola.
Camerati d’una guerra, camerati d’una sorte, chi divide pane e morte più nessun lo scioglierà.
Quello poi – il camerata Richard – a parte i giuramenti e «Camerati di qua e camerati di là» (che uno può pure dire giustamente, arrivati a un certo punto: «Ahò, ma mica è colpa mia se il Duce e l’Adolfo s’erano bevuti il cervello; m’avete fatto credere un sacco di fregnacce? E mo’ andatevela a piglià ‘nder culo» come dicevano in dialetto loro marocchinesco il Lanzidei e il Benassi), quello poi stava a difendere, con la pelle sua, la terra e i poderi che il Duce ci aveva dato e che noi avevamo bonificato. Io adesso non voglio dire niente né sulla dittatura né le leggi razziali e tutto quello che hanno fatto di male al Paese, portandolo alla tragedia più totale. Però lei deve pure provare a mettersi nei panni nostri. Ognuno gà le só razón. E secondo lei chi doveva essere – per noi – il nemico: chi ci stava difendendo i nostri poderi bonificati, o chi ce li stava bombardando? Veda un po’ lei, adesso. Comunque quella sera cominciarono a venire al pettine – come si suole dire – anche i nodi del Paride e dell’Armida. A lei già dal pomeriggio – quando era andata a rigovernarle – le sue api le erano volate tutte attorno, non facendo che dirle: «Oggi non andare sul Canale, Armida… zz, zz… Non star andare inquò». «Sarò matta?» rideva lei: «Ci vado, ci vado, brutte invidiose». Ma quando verso le nove era scoppiato il finimondo -che lei aveva appena posato al lume dell’acetilene il bimbo piccolo, il Menego, sotto la capannetta e il Paride aveva sì e no calato la bilancia dentro il vascone – subito s’era pensata: «Me l’avevano detto le api di non venire!». Il bambino – prima – le si era addormentato in braccio mentre venivano, e quando poi lo aveva posato e ricoperto con un lembo della copertina, s’era stiracchiato, aveva fatto un sorriso, s’era voltato di fianco e aveva ripreso a dormire. Lei lo aveva guardato ed aveva sorriso anche lei. Poi s’era voltata per scendere alla cascata ed andare a sorridere a Paride. Ma non aveva fatto
in tempo ad arrivarci, che Menego era scoppiato a piangere e lei subito s’era rigirata per correre da lui. Nello stesso istante però – o meglio, una frazione dopo il primo urlo di Menego – s’è fatto giorno, mentre i riflessi dei bengala si rincorrevano come saette lungo il filo dell’acqua sul Canale Mussolini, Canale che pareva adesso proprio un fulmine lunghissimo, scagliato dalla briglia nostra sulla savanella fino a laggiù lontano, oltre il ponte di via della Sorgente. E subito dall’aeroporto gli scoppi delle bombe – «Bèm-bèm-bèm-bèmbedebèm» – e i bagliori e le fiamme alte di là dall’argine.
«I miei figliiii…!» ha strillato come una furia l’Armida, e colto al volo Menego s’è messa a correre sull’argine e per i campi perdendo gli zoccoli e proseguendo scalza: «I miei figli, i miei figli! mèo ghéva dìto a mì, mè appi». E Paride dietro. Fino a casa. Gli altri figli erano già sull’aia. Adria la grande – undici o dodici anni – in sottana bianca da notte stringeva attorno a sé fratelli e sorelle che piangevano tutti. «Fiòi!» li ha abbracciati ansante l’Armida. Paride – dietro – fermo immobile, mentre l’aia veniva travolta dal fuggi fuggi di tutti i parenti che in mezzo ai boati, i bagliori, i rombi degli aerei «Vròòaamm» che sulle nostre teste acceleravano per riprendere quota e tornare indietro, strillavano tutti: «‘Ndémo al ponte, ‘ndémo al ponte», quel ponticello che funzionò da rifugio antiaereo per tutta la Parallela Sinistra. Solo mia zia Clelia e zio Temistocle – lui coi mutandoni addosso, perché dormiva coi mutandoni sia d’estate che d’inverno – fermi immobili all’improvviso anche loro. Due statue di sale in mezzo all’aia. A guardarli e leggergli sul viso – zia Clelia all’Armida e zio Temistocle al figlio – la colpa. Una coltellata al cuore. Fino ad allora non s’era accorto di niente nessuno. Neanche i fratelli. Ora li guardavano negli occhi.
Paride li ha subito abbassati, davanti allo sguardo del padre. L’Armida no. Ha continuato a guardare dritta negli occhi la zia Clelia e poi s’è voltata a guardare zio Tèmistocle – il cognato – il fratello più grande di mio zio Pericle Li guardava addossandosi ogni colpa e chiedendo con gli occhi perdono e pietà. «‘Ndémo tuti al ponte!» ha detto allora mio zio Temistocle, e non se n’è più fatta parola. «Era questo allora» ha pensato l’Armida, «che volevano dirmi le api.» Poi tutti a correre, mentre in ogni stalla della Parallela Sinistra le bestie urlavano, il pollame starnazzava e tutti i cani «Aùùùùùùùùh» ululavano come lupi e disperati correvano a rintanarsi anche loro sotto i ponti dei poderi. Sistemati i figli al ponte, l’Armida ricorse fuori – «Stai quaaa» le faceva zia Clelia: «Stai qua!»; «No, debbo andare» – in cerca delle sue api che ronzavano impazzite dentro le arnie: «Son qua, appi» faceva lei, «stè bòne, son qua». Paride s’era morto dalla voglia d’andarle dietro – di proteggerla in quell’inferno – ma si sentiva addosso gli occhi dell’intera Parallela, assiepata secondo lui dentro il cunicolo solo per giudicare lui, quando in realtà non lo guardava più nemmeno il padre, che non ci voleva proprio pensare. La madre invece – dopo un boato un po’ più forte dall’aeroporto e l’immediato strillo sotto il ponte – gli ha fatto furtiva una carezza. E lui s’è stretto tutti addosso a sé – a cercare di raccontargli storie e farli ridere – i figli dell’Armida. Lei è tornata di nuovo ansimando, ma con un’arnia per parte e s’è messa a spingere per farsi posto anche lei con le sue api sotto il ponte. Una cognata – non la Clelia, ma una delle femmine Peruzzi del podere 517, sorella del suo povero marito Pericle – le ha detto sempre gentile: «Stà in là, tì e tó appi». «Stà in là tì!» Anche i giorni dopo, mio zio Temistocle e la moglie non hanno mai detto una parola né a lei né al figlio, di quel fatto. Parlavano normali come sempre di tutto il resto, ma di quello nemmeno una parola, nemmeno da soli tra di loro.
Niente. Solo un macigno. Ognun per sé. E ognuno cercava di proteggerli e coprirli, affinché nessuno – neanche tra i fratelli – potesse entrare in sospetto di qualcosa. Loro – Paride e l’Armida – nemmeno loro, ovviamente, facevano un cenno. Paride, anzi, cercava proprio d’evitarli i genitori, scattava immediato ai comandi ma sfuggiva agli sguardi, abbassava subito gli occhi. Armida invece li guardava e a lungo, continuando a chiedere solo con gli occhi perdono e pietà. Tra loro invece: «Còssa sarà de nantri?» chiedeva Paride. «Niente, non sarà niente. Tu ti sposerai e avrai una famiglia tua, caro.» «No! Mì ghe lo dirò a tuti.» «Ti, se tì me vól bèn, tu non dici niente, me lo hai giurato sul tuo povero zio.» E quando è stata la fine di ottobre, o anzi i primi di novembre che già erano cominciate le semine e lei s’è resa conto che la pancia cresceva – aveva già finito il quinto mese – un giorno finalmente ha visto i due cognati, zio Temistocle e la moglie, che stavano nello stanzino delle sementi a capare il seme da soli. È andata lì e s’è richiusa dietro la porta. Loro l’hanno guardata da sotto in su – poiché stavano seduti sui sacchi – e lei ha detto: «Forse sarebbe meglio mandarlo via… il Paride». Loro si sono alzati in piedi – zia Clelia tirando un sospiro che pareva proprio di sollievo – e hanno detto: «Sì Armida, te gà razón tì… Gràssie». «E non direte mai a nessuno che è stato lui. Nisùn nisùn. Mai.» «Mai Armida, mai!» «Giuratelo! Giurate sul Pericle» e l’Armida piangeva. «Giuriamo! Grazie Armida, grazie di nuovo» e il giorno dopo mio zio Temistocle è andato a Littoria al nuovo fascio repubblicano che – come lei sa – in Agro Pontino fu il primo ad essere ricostituito in tutta Italia. Subito dopo l’8 settembre – quando il re e Badoglio avevano detto «Fermi tutti! Armistizio! Nantri scapémo» e dopo avere attaccato il giradischi alla radio s’erano messi le gambe in spalla – i tedeschi giustamente, secondo
loro, s’erano andati a liberare il Duce prigioniero di Badoglio sul Gran Sasso, se lo erano portato in Germania dove lo aspettava no già Pavolini e i gerarchi più incazzati, e gli avevano fatto rimettere in piedi un nuovo partito e un nuovo governo. Il 16 di settembre uno speaker aveva potuto annunciare da Radio Monaco la nascita di una repubblica nei territori italiani ancora controllati dai tedeschi – la Rsi, Repubblica sociale italiana – e la ripresa della guerra accanto all’alleato germanico. Adesso avevamo due governi: uno al Sud - quello del re – alleato e agli ordini degli angloamericani, e uno al Nord agli ordini dei tedeschi. In tutta Italia, però, la gente non ci aveva creduto molto - «Ma quello è uno speaker, mica è la voce del Duce. Badoglio, al Duce, chissà da quanto tempo lo avrà fatto già ammazzare» – ed anche i più fascisti erano rimasti un po’ tiepiducci. Gli ci è voluto che due giorni dopo – il 18 settembre 1943, alle cinque del pomeriggio – da Radio Monaco parlasse direttamente, con la voce sua, il Duce: «Camicie nere! Italiani e italiane! Dopo un lungo silenzio ecco che arriva a voi la mia voce e sono sicuro che la riconoscete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria…» e da lì, come lei sa, siamo ripartiti tutti quanti di gran
carriera verso l’esito finale. Era il 18 settembre 1943 le ripeto, ma già due giorni prima – ossia il 16, lo stesso giorno che poi a sera ci bombardarono l’aeroporto – e senza il notarile bisogno di stare a sentire la sua viva voce ma fidandoci anche solo di quella dello speaker, a Littoria era stato ricostituito il nuovo fascio repubblicano. I Peruzzi, ovviamente, s’erano reiscritti subito nei ruoli della milizia, anche se all’inizio l’attività non fu un granché, giusto dare una mano a sgombrare le macerie dell’aeroporto, atturare le buche e rimettere un po’ in sesto la pista. C’erano però stati grossi contrasti – in seno al governo della Rsi – sul ruolo della nuova milizia e delle forze armate repubblicane.
Il ministro della difesa Graziani voleva a tutti i costi la leva obbligatoria. Ci si doveva arruolare per forza – il bando Graziani – e chi non veniva era renitente e disertore. Hai voglia i suoi camerati ministri a dirgli, specie Renato Ricci: «Grazia’, arruoliamo solo i volontari; quegli altri lasciamoli stare, che dopo tutti questi casini sono già incazzati; e tu li vuoi far rivenire per forza in guerra? Pigliamo solo quelli che vogliono venire». Invece no: «Debbono venire per forza» disse Graziani. E la gente piuttosto scappò in montagna, perché non ne poteva proprio più né del fascio né d’una guerra oramai persa: «Basta!» diceva la gente. Se a quel punto lui li avesse lasciati in pace e avesse continuato a fare quello che voleva lui, ma solo con i volontari, magari finiva lì. Nossignore, gli mandò dietro i soldati suoi a prenderli fin lassù in montagna e fucilarli al muro – «Disertori!» – se non tornavano giù subito a combattere di nuovo con lui e con i tedeschi. E così quelli hanno detto: «Eh no, e mo’ basta davvero» e si sono messi a sparare anche loro – a fare la resistenza – ed è cominciata la guerra civile. Poi – come si sa – tu spari a me, io sparo a te e la cosa s’incarognisce sempre più, con i tedeschi amici tuoi che si mettono pure a fare le stragi e bruciare i villaggi che danno ospitalità a me. E quando finisce il ciclo delle vendette, poi? La guerra civile è così: sangue contro sangue, sangue agli occhi. E la colpa è tutta del bando Graziani. Chi te lo aveva detto – dopo tutto quello che mi avevi fatto già passare – di venirmi ancora a richiamare per forza, e di volermi stanare a tutti i costi e fucilare lassù in montagna? Comunque, fatto sta, mio zio Temistocle quella mattina dei primi di novembre del 1943 – dopo avere parlato con l’Armida – s’era presentato al fascio di Littoria a chiedere al primo che aveva trovato: «Fate partire mio figlio». «Bravo Peruzzi!» gli dissero quelli: «Così si fa. Fossero tutti come voi Peruzzi». Lui riprese la bicicletta e tornò a casa.
La moglie era sull’aia – di fianco all’albio – che preparava non so che pastone per il maiale. Lo ha guardato e gli ha detto: «È nella stalla». Lui è andato lì. Il figlio stava con la brusca in mano a spazzolare una vacca. Come lo ha visto s’è fermato, ha riconosciuto la cartolina dal colore e ha chiesto: «Quando gò da partìr?». «Domàn.» Allora s’è avvicinato a prendere la cartolina e leggere la destinazione. Poi – per la prima volta da più di un mese e mezzo – ha alzato gli occhi a guardare il padre. «Papà…» ha detto solo. «Fiòlo…» ha risposto mio zio Temistocle, e lo ha abbracciato. Poi basta – non si sono detti altro – e Paride è andato a lavarsi, a preparare le sue cose e poi al podere 517 a salutare la nonna, il nonno e tutti gli altri nostri parenti: «I me gà riciamà». «Stà aténto a tì, putèo» faceva mia nonna. «Almeno non mangeremo più pesce» facevano i miei cugini. «Ma non te poderéssi proprio imparàr, a pescàr salsìse?» gli ha ridetto mio nonno, allungandogli però la mancia. «Ma no, nonno, non state a darmi schèi.» «Prendili, fiòlo, che te sì sempre un putìn.» Al podere 516 di mio zio Temistocle – intanto – sua madre e l’Armida gli rammendavano le maglie di lana e i calzini; con le molle grandi raccoglievano dal fuoco le braci, le mettevano dentro il ferro e gli stiravano la giacca, la camicia, i fazzoletti. Mica c’erano quelli di carta allora. «Amor dammi quel fazzolettino» – cantavano le mie zie – «vado alla fonte e lo vado a lavar.»
La sera, dopo un po’ di filò con tutti i foresti e i parenti Peruzzi del podere 517 venuti a salutare il Paride che partiva – e quando tutti hanno finalmente cominciato, come si suole dire, a togliere il disturbo – mia zia Clelia ha preso lei il piccolo Menego in braccio e ha detto all’Armida: «Andate un po’ fuori voi
due, te li metto io a letto i figli», e Paride e l’Armida sono tornati sul Canale Mussolini, senza lampada però questa volta e senza bilancia. Era un po’ freddo oramai, era novembre. Avevano le maglie e i pastrani. Lungo lo stradone della campagna nostra camminavano al centro – sul duro dell’erba – per non infa rigarsi nei solchi lasciati dai carri. Sul Canale, la savanella con il suo lastricato non si vedeva più, ricoperta per intero dall’acqua delle prime piene, che ai riflessi della luna scorrevano veloci nell’alveo tutto. Anche il rumore della cascata – oramai sommersa – non s’era fatto che un brusio sottotono. Loro stavano in cima all’argine, seduti su una pietra sotto un eucalyptus. In basso, pure la capannetta era stata portata via da una piena più grossa. Ne restavano solo – sbilenchi, inclinati già dalla corrente – gli ultimi rami del tetto di frasche, infissi nell’argine. «Còssa sarà de nantri» faceva Paride, «inclinà come quei rami?» «Farém come quéi rami, caro, seguirém nostra corènte.» «E mio figlio?» faceva lui, abbracciandole la pancia. «Non è tuo figlio Paride, è figlio del Pericle.» «Non stare a dir bestemie Armida! Perché vuoi darmi anche questo dispiacere?» «Perché ‘l xè vero. Tu sei il mio amore adesso, ma i figli, tutti i miei figli sono di Pericle, che li ha concepiti dentro di me la prima volta, proprio come fanno le mie api.» «Non stare a dir bestemie Armida, non starti a far sentire.» «Non starte a far sentire tì! L’è fiòl del Pericle.» «Il figlio è mio Armida, e lo dirò a tutti.» «Tu non dirai mai niente neanche a lui, Paride. Mai! Me lo hai giurato, tu ti devi fare la tua vita.» «Sì», e Paride piangeva piangeva. «Armida! Armida!», ansimava e piangeva, mentre per l’ultima volta la prendeva. Lei da sotto le maglie gli lacerava la schiena.
«Da domani e per tutta la vita» gli ha detto poi davanti al gabbiotto antizanzare, prima di rientrare in casa, «tu devi di nuovo chiamarmi solo zia.» La mattina presto è partito. Non era ancora giorno. Ha salutato dentro il letto i suoi fratelli. «Torna vincitor» gli ha detto uno. «Torna sano piuttosto» ha fatto un altro. «Torna come che ti vól, basta ch’ai torni» un altro ancora. Poi è passato a baciare uno ad uno i figli dell’Armida – tutti quanti – che subito si rigiravano nel sonno. L’Adria s’è svegliata: «Ciao Paride, dammi un altro bacio». Anche Onesto s’è svegliato, ma era solo un dormiveglia: «Xè già ora d’andare a pescàr?». Giù – in cucina – c’erano i genitori e l’Armida. Lo guardavano in silenzio tutti e tre – in piedi – mentre seduto al tavolo mangiava la polenta con il caffellatte; caffellatte d’orzo, non caffè vero. Poi ha baciato il padre e la madre, e l’Armida lo ha accompagnato sul ponte. L’ultimo bacio. «Grassie, zia» le ha detto. «Grassie a tì, amore mio benedèto, grazie per sempre… e siano benedetti anche i dolori che potranno venire dalla mia colpa, maladéta tuta la ràsa d’i Zorzi Vila.» Insieme a Paride partirono da Littoria – tra la fine di ottobre e i primi di novembre del 1943 – altri sei o settecento giovani, volontari per la caserma Piave di Orvieto. Lei la vede ancora lì dall’autostrada del Sole – quando viene giù da Firenze – alta sulla rupe, sulla sinistra del paese, dall’altra parte del duomo; con i finestroni verticali, sotto le arcate imponenti di colore rosso. A noi – in Agro Pontino – non ci fu bisogno che ci venisse a cercare Graziani, ci arruolammo in massa da soli. Anzi, a noi Graziani ci avrebbe dovuto fucilare per non farci andare (e certe volte penso che se magari prima avessero dato la terra e i poderi anche a quelli che poi sarebbero andati in montagna, chissà, magari non ci andavano neanche loro, magari rivenivano come noi a fare la guardia al bidone e a rigiocarsi la pelle; tutto sta come la tratti la gente: «Ognuno dopo gà le só razón») e c’erano anche ragazzini di quattordici o
quindici anni che con la scolorina cambiavano la data sui certificati per farsi prendere; e poi invece se li andavano a riprendere le madri alla caserma della milizia e li riportavano a casa a schiaffi; alcuni però riuscivano a riscappare di nuovo e ad andare a combattere fino al Nord, come Luciano Bonanni delle Case popolari che non è più tornato, e la sua mamma lo piange ancora. Alla caserma Piave, Paride e gli altri seguirono un breve periodo di addestramento e furono poi inquadrati nei reparti della milizia, che adesso però era la Guardia nazionale repubblicana. E tornarono a combattere, vuoi contro il vecchio nemico angloamericano – che era però intanto divenuto il nuovo alleato del governo italiano del Sud – vuoi contro gli italiani che, scappando in montagna, avevano secondo loro tradito. Tornarono a combattere quindi, e tanti non tornarono più a casa. «Per l’onore d’Italia» dicevano. E insieme a loro tornò a combattere Paride. Prima in un battaglione M – il «IX Settembre» – sul fronte proprio di Anzio-Nettuno, quando sbarcarono gli angloamericani. Noi eravamo già sfollati e lo vedemmo una volta sola però, che lui venne a trovarci durante un turno di riposo sulla montagna sopra Cori, dove i parenti di mia zia Nazzarena – la moglie marocchina di zio Adrasto – ci avevano sistemato in una specie di grotta con una tettoia di legno davanti, normalmente usata dai pastori di pecore. Noi stavamo lì – sparsi per la montagna con tanti altri coloni, sfollati come noi – ad aspettare che passasse la guerra. Lui venne a cercarci e il bambino era già nato. Fece fatica però a trovarci, perché il paese era vuoto – essendo sfollati anche i coresi sulla montagna loro – e lui chiedeva «Peruzzi» man mano che saliva, ma nessuno sapeva chi fossero e dove stessero. Solo alla fine, uno ha capito: «Ah! I cispadani con le api? Vai di qua, di là, giri a destra e torni su» e finalmente ci trovò.
Non fece nessuna festa all’Armida, la salutò algido e freddo – «Salve, zia» – come giustamente si aspettavano gli altri, che sembravano invece scansarla come un’appestata. E si mostrò sorpreso pure – come lui pensava che gli altri si aspettassero – della presenza di questo bambino: «E da dove viene?». Ora io non le so dire se gli altri la bevessero o facessero solo finta, però così me l’hanno raccontata e così gliela racconto. Tra lui e l’Armida dovettero bastare gli sguardi. Gli abbracci ed i baci li diede tutti alla madre, alla nonna e alle altre zie. E al bambino naturalmente, che invece gli altri sembravano – poverino – schifare abbastanza anche lui come la madre. Dicono che se lo sia tenuto sempre in braccio per le due ore che è stato lì, e ogni tanto lo buttava per aria e lo riprendeva: «Mè cusìn!» faceva. E poi: «Come si chiama, Paride?». «No, Pericle.» «Periclìn» faceva allora: «Periclìn!» e lo ributtava per aria e gli metteva in testa – che quasi ci entrava con tutto il corpo – il suo basco grigio con la M rossa dei battaglioni M. Il piccolo rideva – zia Bìssola scura – e lui lo ributtava per aria: «Periclìn». L’Armida – sua zia – s’è dovuta fare forza davanti a tutti e dirgli: «Paride! Gli viene su il latte!». «Eh» faceva zia Bìssola con la faccia fintosorridente, «gli sono sempre piaciuti i putìni al Paride.» Poi lo hanno ribaciato ed è ripartito – con l’Armida solo un altro sguardo: «Addio, zia» – e dal fronte di Nettuno lo hanno mandato in Altitalia, sull’Appennino, a dare la caccia ai partigiani, ossia quelli che erano andati in montagna per sfuggire a Graziani. Guerra civile le ho detto. E gira di qua, gira di là per le valli e le montagne per la costa e per il piano a caccia sempre di questi partigiani, Paride su in Altitalia ha finito per incontrare un altro dei cugini nostri, suo coetaneo, dei Peruzzi che erano rimasti su – quei nostri parenti da parte del fratello di mio nonno che eravamo sempre stati assieme
sia a Codigoro sia dai Zorzi Vila maladéti, e che però erano rimasti socialisti, non erano diventati fascisti come noi e non erano nemmeno venuti in Agro Pontino ma erano rimasti là – e questo cugino era partigiano. Comunista. E lei sa come andò a finire poi tra lui e il Paride in mezzo a tutto quel carnaio di sangue e ammazzamenti che fu là sopra, e se pure non lo sa e neanche sa se Paride torni o non torni sano e salvo a casa – ma torna, torna; anche se non sarà più lo stesso di prima – glielo racconto un’altra volta perché adesso non c’è tempo. C’è questa storia qui, adesso, che deve arrivare alla sua fine. Le altre storie – se Dio ci darà modo e buona salute – gliele racconto in un altro filò. Il dramma vero comunque fu quando vennero a saperlo da mia nonna, che doveva arrivare questo bambino. Fu il finimondo. Una tragedia greca. Era appena iniziata la novena di Natale. La sera prima eravamo andati tutti in chiesa al borgo. Gli angloamericani oramai stavano sotto Cassino, davanti alla linea di difesa Gustav approntata dai tedeschi. Il primo assalto era imminente e lontani si sentivano gli echi – «Booooommm… booooo-ommm… bodoboooooom» – dei cannoneggiamenti di preparazione. L’Armida era entrata
nel settimo mese e sempre più frequenti s’erano fatte anche le incursioni aeree sulla piana pontina. La gente diceva che la guerra di terra fosse già entrata in provincia di Littoria – a Formia, Gaeta, Minturno -e i bombardamenti erano oramai il pane quotidiano. Anzi, più quotidiani ancora del pane, che neanche al mercato nero si trovava più farina per farlo. Noi non è che scialassimo ma – come si dice – qualcosa ancora avevamo, e quel giorno degli inizi della novena stavamo ammazzando il maiale sul podere 517 di mio nonno Peruzzi. Ammazzato. Fatto uscire il sangue e raccolto nelle bacinelle per il sanguinaccio. Acqua bollente sul corpo, per ammorbidire e togliere le setole. Issato col paranco. Aperto in due e pulito. Pulito e ripulito con l’acqua bollente ogni budello. Tirato giù e spolpato. Affettate un po’ di braciole. Salate le
lonze. Arrotolate le pancette. Tritata tutta la carne e preparata in mucchi distinti: quella più magra pei salami e l’altra per i cotechini. Bollita e scarnificata tutta la testa e poi tritata la carne e cartilagini per la coppa. Restava da insaccare. Noi eravamo tutti lì, tutte le famiglie sia di mio nonno che di mio zio Temistocle e la notte prima – aveva raccontato mia nonna mentre stavano facendo il maiale – la notte prima mia nonna s’era risognata il manto nero. Mancavano solo la zia Clelia e l’Armida, che soprattutto questa era un po’ di tempo che non andava lì. «Come mai non te vièn più a trovarme?» le diceva mia nonna dal biroccio, quando passava per andare al borgo. «Ho tanto da fare» rispondeva l’Armida, «vegnerò, vegnerò» sorridendole dalla corte. Ma sempre senza avvici narsi troppo. «Vieni, sai? Guarda che ti aspetto» faceva premurosa mia nonna, mentre di fianco sul carro – appena ripartite – le figlie le mugugnavano: «Ma dite piuttosto che resti fora dai piè». Tutte, eccetto forse la zia Santapace, quella del Benassi. «Non stè a dìr acsì!» le rimproverava subito mia nonna: «Xè una tosa par bèn. Foste voi come lei». «Eeééh?!» facevano loro. E lei «Ciàf», un ceffone. Comunque – quel giorno del maiale – al podere 517 mancava lo spago per legare i salami, e mentre sulla nostra testa un paio d’aerei tedeschi o repubblichini tornavano malconci e tossicchianti verso l’aeroporto, mio zio Temistocle ha detto che là da loro ce n’era tanto di spago: «Qualcuno vada a prenderlo, lo sanno la Clelia e l’Armida dov’è». È andata una mia cugina, adesso non so quale. Avrà avuto una decina d’anni. E quando è tornata tutta carica di rotoli di spago, ha detto pure: «Am sa che la xè gràvida la zia Armida, faceva fatica a muoversi, si teneva la schiena e mi pare pure che fosse un fià gròssa». Mancava solo l’ecografia. Lei non ha idea di quello che è successo.
Erano ripresi ancora più forti i rumori dei bombardamenti dalle parti di Cassino – «Booom, booom, bodobòum» – e ancora più vicino, dalle parti di Anzio e Terracina ma pure su Velletri, c’era qualche apparecchio americano che lanciava caramelle anche lì: «Bèm, bèm, bedebèm». Ma niente, in confronto a quello che è successo al podere 517 dei Peruzzi. Mio zio Adelchi sfasciava tutte le sedie per terra in cucina – «Dopo bisognerà ricomprarle» diceva in parte, piano piano, mio nonno – e sbatteva piangendo la testa al muro «Che vergogna, che vergogna» strillava mentre sbatteva la testa – «Tóum, tóum, tóum» – «Che vergòògnaaaa!» e piangeva piangeva. «Chi xè stà! Chi xè stààà!» facevano tutti gli altri intorno – specie le femmine – ma non col punto interrogativo di domanda per sapere chi era stato, bensì con quello esclamativo di come s’era permesso, quel disgraziato. Mia nonna ha mandato subito a chiamarla. È andata zia Santapace piangendo anche lei: «Ma còssa ghètu combinà, Armida…». «Dio mi perdoni» lei disse solamente. E s’incamminò: «Sia quel che sia». Di là – intanto – avevano messo in mezzo mio zio Temistocle e i figli suoi: «E valtri? Possibile che voi non vi siate accorti di qualcosa?». «Mì an so nìnte», «Mì an so nìnte». «Ma come non sai niente?» strillava zio Adelchi con la voce aguzza al fratello più grande: «Tu dovevi controllarla! Tu eri il garante dei Peruzzi, noi te l’avevamo affidata». «A mì? E perché non te la sei tenuta tu, qua con voi, che era questa la sua casa e il suo podere? Perché l’avete mandata via e scaricata a me?» «Còssa c’éntrelo questo, còssa c’éntrelo!?» strillava come un ossesso mio zio Adelchi col sangue agli occhi. E subito zio Adrasto e la moglie Nazzarena appresso a lui: «Còssa c’éntrelo? È stata lei a voler venire a tutti i costi là, noi glielo avevamo detto in ogni modo di restare qui, non è vero Zelinda?» e si rivolgevano a lei, la moglie di zio Iseo.
«Ah, mì an so nìnte» faceva zia Zelinda. Lei era amica e quasi sorella dell’Armida però – lei capisce – era ospite lì da loro, si sentiva in carità. E zio Temistocle, col sangue agli occhi anche lui oramai – ma ancora freddo, calmo e controllato – disse a mio zio Adelchi: «Tì te sì furbo Adelchi, ma stà aténto che mì non son fesso». «Ma quale furbo?», fece mio zio Adrasto: «Lui dice solo le cose giuste». «Tasi tì!» lo minacciò zio Temistocle tutto rosso. Intanto era arrivata l’Armida, tra la zia Santapace che ancora piangeva e la zia Clelia che invece aveva lo sguardo duro di chi va a combattere, di chi va a difendere suo figlio e il figlio di suo figlio: «Venì avanti Peruzzi, che mì son qua». «Putanaaa!» cominciarono allora a strillare le mie zie, specie la Bìssola: «Bruta putana tròia maiala». Le api – «Vù, vù» – scappavano da tutte le parti verso le arnie loro: «Si salvi chi può. Adda passa’ ‘a nuttata, zz… zz…». Mia nonna come l’ha avuta tra le mani l’ha sgrullata due o tre volte per le braccia e tutto il corpo – mia zia Zelinda aveva fatto intanto un mucchio solo dei ragazzini suoi con quelli dell’Armida e cominciato a portarseli dietro le api verso il Canale, con Adria e Onesto però, i più grandi, che volevano restare e che piangevano, «Mè mama, mè mama», e zia Zelinda che li spingeva a forza: «Vegnè con mì, vegnè con mì!» – poi mia nonna l’ha lasciata e le ha dato uno schiaffone forte in faccia, e l’Armida ferma immobile, e mia nonna ha detto: «Chi xè sta? Chi xè stà, bruta putana?». E lei zitta. «Chi xè stà?» E lei zitta ancora. «Chi xè stàààà…!» «Nessuno.»
«Come, nessuno?» è insorto il coro delle cognate e dei cognati. «Deve essere stato qualche figlio del Temistocle, confessa!» hanno detto a una voce zia Bìssola e zio Adelchi. «Lasciate stare i mè fiòi!» ha detto come una bestia zio Temistocle, impugnando dal tavolo uno dei coltellacci del maiale: «Prendetevela con me! Diglielo Armida che son stà mì! Mi son stà» – «L’è stà lù, l’è stà lù!» faceva di rimando la moglie, mia zia Clelia: «Diglielo anche tu Armida che l’è stà lù», e lei invece faceva segno di no – «Son stà mì e basta» faceva zio Temistocle a brutto muso e con il coltello in mano, «lasciate stare i mè fiòi o fàsso una strage», col coltello sotto la pancia di zio Adelchi, oramai, e con il sangue agli occhi. «No, non sono stati i tuoi figli» ha convenuto zio Adelchi. Poi si è rivolto di nuovo all’Armida: «Chi xè stà alora?». «Pericle. L’è fiòi del Pericle.» «Làsia star me fradèo, putana!» ha strillato zia Bìssola: «T’è venuto in sogno, a metterti incinta?». «E a tì? A tì quanti ne son venuti in sogno?» «Ma l’è stà lààà!» – in Altitalia – «Cosa vuoi paragonarti a me e mio fratello? Tu non sai neanche leggere e scrivere, mì son Peruzzi, cara!» e le è saltata addosso, zia Bìssola, tentando anche lei di schiaffeggiarla, strillando a più non posso: «Bruta putana tròia». «Basta con le màn!» ha urlato allora l’Armida pigliando pure lei, però, un coltellaccio dal tavolo – «Mai mettersi a discutere coi cortèi in tavola» diceva di fianco mio nonno – «dite quello che volete ma a parole, basta con le màn» guardando proprio fisso anche mia nonna, «che se no la fàsso mì una strage.» Mia nonna ha fatto un gesto ed immediatamente è calato il silenzio. Poi le ha detto con la voce bassa: «Dicci solo di chi è questo figlio». «Son stà mì, son stà mì, l’è mè fiòlo» rifaceva zio Temistocle.
«Tasi!» gli ha intimato mia nonna: «Di chi è il figlio?». Allora l’Armida ci ha pensato bene bene e poi ha ridetto decisa e rassegnata: «El fiòlo l’è del Pericle, lo giuro su tutti i santi…». «Tasi sacrìlega» e mia nonna s’è fatta un segno di croce: «Làsia star mè fiòlo e tuti i santi!». «…‘o ghémo fato» ha continuato con lo stesso tono di voce l’Armida, «lo abbiamo fatto come fanno le api, insieme a tutti gli altri suoi fratelli, quella notte che lù ‘l gà copà il prete de Comacchio» e parlava – mi deve credere – seria seria. «Lo giuro su tutti i santi» diceva. «Tì te sì mata» ha detto mia nonna rifacendosi il segno della croce: «Mata e maiala! E prega anche tu il Signore come me, da oggi e per sempre, che Pericle sia davvero morto, maladéta mì, e che non torni mai più… Perché se al torna…». E mia nonna – che fino alla sera prima, alla novena al Borgo, aveva come sempre pregato: «Signore, fa’ tornare a casa il mio Pericle» – dalla sera stessa e poi per sempre per tutta la vita, ha pregato: «Signore, non star farlo tornare mai più, dàghe pace di là». La sentenza però era pronunciata. Bando assoluto. Mia nonna mandò subito il carretto da zio Temistocle a prendere le robe dell’Armida e dei suoi figli. Se la fece portare sotto il suo controllo – «Poteva anche pensarci prima» dicevano tra di loro zia Clelia e zia Zelinda: «Quando i buoi son scapà…» – al podere 517 dei Peruzzi: «Noi siamo gente cristiana e quindi resti qua fin che sgravi, ma dopo via! Tì e il tuo bastardo. Via per sempre dagli occhi dei Peruzzi» disse mia nonna. E l’Armida zitta e immobile. «Gli altri figli però rimangono qua» – e l’Armida si sbiancò – «I fiòi xè roba d’i Peruzzi» e così fecero e glieli tolsero tutti. Solo Menego – il piccolo – le lasciarono, ma solo perché si mise in mezzo zia Santapace ad implorarla: «Non potete levarle anche il piccolo, mamma. Il piccolo lasciateglielo». Ma gli altri glieli tolsero tutti e li dispersero uno ad uno per ogni famiglia dei Peruzzi.
Come dice, scusi? che non lo potevano fare? E certo che non lo potevano fare – questo lo so pure io -a termini di legge. Ma ci sarebbe voluto un avvocato. E quante cose poi nel mondo – non parliamo dell’Italia! -che a termini di legge non si potrebbero fare, eppure chi ha il potere le fa? All’Armida comunque oramai mancava solo la lettera scarlatta sulla fronte. Non poteva più uscire o andare al borgo. Né a novene né a messe la domenica e neanche a Natale. Chiusa in casa se arrivava qualcuno. Non si doveva proprio vedere. E come la incrociavano – specie le femmine – subito di sbieco facevano: «Putana». Se al borgo invece qualcuno per caso chiedeva: «Gàla sgravà la vaca?», a noi Peruzzi nemmeno ci passava per la testa che intendessero la Venezia pezzata bianca e nera che aspettava anche lei un vitello, subito pensavamo che ce l’avessero con l’Armida. E il senso di vergogna ci riempiva tutti quanti: «Bruta spòrca maiala». Solo mio nonno, quando la incrociava da solo per casa, le diceva dolce: «Tosa». Solo lui e zia Santapace. Lei – l’Armida – camminava da sola per i campi con il suo pancione e le api dietro. Anche i figli cominciavano già a tenerseli loro e a non lasciarli andare con lei. «Ma che hai fatto, mama, che hai fatto!» le piangeva allora addosso, abbracciata, la Adria. «Perdoname fiòla, perdoname» faceva l’Armida. Un giorno che zia Santapace dalla finestra del piano di sopra l’ha vista giù di sotto nell’aia, ferma davanti al pozzo che quel giorno per caso era scoperto, ha detto alla madre, mia nonna, che era lì in camera con lei: «Mama! Ma non è che quella si butta nel pozzo?». «Magari fiòla!» ha detto mia nonna: «Èla e ‘l só bastardo!». E pregava: «Signore, Signore, fa che non torni più mio figlio, se no qua chissà che succede». E invece intanto è successo che il 22 gennaio 1944 gli alleati angloamericani sono sbarcati ad Anzio. Si ricorda la canzone? «Angelita! Volevamo chiamarti
Angelita /Sbarcammo ad Anzio una notte /e quattro conchiglie ripiene di sabbia /stringeva una piccola mano./Angelita! Ti saresti chiamata Angelita».
Be’, quelli non ci volevano per niente chiamare Angeliti. Non erano venuti qui per questo. Io adesso non è che voglia dire niente – ci mancherebbe altro – quelli avevano tutte le loro buone ragioni, eravamo stati noi ad andargli a rompere le scatole per primi a casa loro, se il mondo era tutto a fuoco e fiamme, la colpa era solo nostra; nostra e dei nostri alleati germaniconipponici. Però, le ripeto, quelli non sono sbarcati ad Anzio per chiamarci Angeliti, ma per spaccarci ben bene le ossa. E questo è un fatto storico. Accertato. Il 12 gennaio era cominciata la prima grande battaglia di Montecassino. Andò avanti ferocissimamente per tutto un mese ma non ci fu niente da fare. Gli alleati si dovettero fermare lì sotto – sotto l’abbazia – fino al 19 maggio 1944. Gli ci vollero quattro mesi di battaglie – con 32 mila morti loro e 11 mila tedeschi – per potersi spostare da Cassino. Cassino era il caposaldo della Gustav, la linea difensiva che dal mar Tirreno, dalla foce del Garigliano, tagliava tutta l’Italia – dividendola in due – fino al Sangro sul mare Adriatico. Da una parte il regno del Sud – con il governo diciamo legittimo del re – nell’Italia oramai conquistata dai nuovi alleati ex nemici angloamericani, che tentavano in ogni modo di proseguire l’avanzata e conquistarla tutta. Dall’altra i tedeschi – e il governo diciamo fantoccio della Rsi, la repubblica fascista del Nord – che tentavano in ogni modo di contrastarli. Ora se lei guarda sulla carta geografica, vede subito che questa linea Gustav passava tutta quanta in mezzo alle montagne. Se la immagini con i bunker e le fortificazioni. L’unico punto per passare con le armate e i mezzi corazzati degli angloamericani, era proprio la valle che sta sotto Cassino e su cui oggi scorrono la Tav e l’Autostrada del Sole. Questa valle era però dominata dal Montecassino su cui sta l’abbazia. Non si passava proprio. Come t’affacciavi
da lontano, i tedeschi ti pigliavano in fronte anche a sassate – “vantaggio strategico”, si chiama – e difatti, per passare, ci vollero quattro mesi e 43 mila morti. Loro – gli angloamericani – non è che non avessero pensato anche a una soluzione di ripiego. «Facciamo uno sbarco in forze nella piana pontina» dissero, «tra il Circeo e Terracina, poi dritto con i carri armati per tutto l’Agro fino a Cori-Giulianello, e a Valmontone pigliamo da dietro i tedeschi di Cassino». Solo, però, che erano venuti a saperlo i servizi segreti dell’ammiraglio Canaris – anche se non è che ci volesse proprio un ammiraglio, pure io e lei, guardando una carta lo capiamo – e così i tedeschi hanno chiamato i tecnici dell’Opera e del Consorzio di bonifica nostri: «Camerati, qui bisogna riallagare un po’ d’Agro Pontino». «Jawohl» abbiamo detto noi, che dovevamo dire? È la prima regola che insegnano a scuola – e mica solo von Clausewitz, proprio pure Tito Livio – al nemico che avanza, tu devi far trovare terra bruciata, non gli devi lasciare niente che gli possa tornare utile, devi ammazzare e sotterrare pure le tue vacche se proprio non riesci a portartele dietro, mica le puoi lasciare a lui. Lei pensi invece che c’è qualche storico che dice: «Eeeeh! Ma hanno riallagato i campi!». E allora? Secondo lei li lasciavamo sbarcare così, come piaceva a loro? Noi andammo e bloccammo tutte le idrovore. Non è vero che furono i tedeschi a sabotarle o farle saltare con il tritolo. Tutte fesserie. I tedeschi non toccarono niente, neanche una porta o una vite. Fummo noi – i nostri tecnici – a fermare le pompe idrovore e ad asportarne i componenti essenziali e metterli da parte. Riallagammo i nostri campi – li facemmo ritornare palude – per non far sbarcare e passare il nemico. Questa è la nostra storia. Sui Lepini invece, come lei sa, i marocchini nostri resistettero ai tedeschi, e non solo con la resistenza passiva. La principessa Caetani intanto – finito il tempo del caffellatte ai coloni e del fascio femminile – dava ospitalità agli
agenti dell’Oss, che dall’alto del suo castello sulla montagna di Sermoneta osservavano i movimenti nella piana e trasmettevano le coordinate ai bombardieri del nemico. Ma ci furono anche atti di sabotaggio e conflitti a fuoco. Solo sul versante nostro – per non parlare di quello ciociaro – a Sezze e Sermoneta operarono due piccoli gruppi partigiani, il gruppo Zaccheo e quello Ficacci, che oltre ai sabotaggi ingaggiarono scontri a fuoco con morti e feriti. Piccole cose certo, non grandi battaglie e schieramenti; ma i marocchini nostri dei monti Lepini resistettero ai tedeschi, e questa è verità di fatto storico. Noi invece – noi coloni cispadani dell’Agro Pontino – resistemmo agli inglesi e agli americani. «Ognuno gà le só razón.» Che le posso fare? In ogni caso gli alleati non potevano più sbarcare a nord e prendere alle spalle – tra due fuochi – Cassino. O almeno così pensavano i tedeschi: «Mica i carri armati possono attraversare i laghi o le paludi, e neanche saranno così scemi da andare a sbarcare ad Anzio, con tutta quella strada che c’è fino a Cassino.
No,
no,
non
sbarcano
più»
hanno
pensato
i
tedeschi.
«Concentriamoci su Cassino.» Ora però – come le ho detto – Cassino era proprio una brutta rogna e quando il 12 gennaio 1944 è iniziata la prima battaglia, subito gli angloamericani si sono detti pure loro: «Maladéti i Zorzi Vila, qua i xè dolori». Allora Churchill ha fatto: «Sai che c’è? Lontano quanto ti pare, io sbarco ad Anzio, così in ogni caso gli butto in mezzo ai piedi un bel gatto selvatico ai tedeschi, che gli scombussola le retrovie, e loro, per corrergli appresso, debbono per forza sguarnire Cassino mentre il gatto mio punta, da una parte, su Valmontone alle spalle loro, e dall’altra, per Aprilia-Campo-leone, arriva a Roma e addio Gustav. Li voglio vedere sti tedeschi» si fregava le mani tutto contento Churchill, «col mio gatto selvatico tra i piedi». Così – tra uno che diceva «Tanto non sbarcano» e l’altro che invece: «Mo’ sbarco» – quando è stato il 22 gennaio 1944 e gli alleati sono sbarcati ad Anzio, non c’era nessuno ad aspettarli, non c’erano quasi truppe o un carro
armato tedesco in zona. In tutto l’Agro Pontino villeggiavano due soli battaglioni di reduci dalla Gustav, dislocati lungo tutti i poderi della fascia costiera per un turno di riposo. Al mare d’inverno. Ma un migliaio d’uomini in tutto. O poco più. Quelli invece – gli angloamericani – erano cinquantamila con cinquemila automezzi.
E
trentadue
chilometri
di
navi
-trecentosettantaquattro
imbarcazioni dall’Astura a Tor San Lorenzo – che scaricavano a rotta di collo soldati su soldati, carri armati e cannonate. Erano una marea su quella spiaggia, affastellati uno sull’altro. E tutti a pensare «Chissà che succede adesso», a partire dal generale americano che comandava l’operazione Shingle, com’era chiamato lo sbarco. Lui – il maggior generale John P. Lucas – aveva passato i dolori sia in Sicilia, sia a Salerno e sul Garigliano. Ne aveva visti morire già troppi dei suoi, sotto il fuoco di sbarramento dei tedeschi: «Chissà quanti saranno stavolta! Chissà quello che ci toccherà passare anche qua». Mai gli sarebbe passato per la testa, che arrivati qui non ci fosse nessuno ad accoglierli: «Ma che sei scemo? Ma chissà dove si sono nascosti; quelli so’ tedeschi, so’ più furbi e maligni delle volpi». E allora sono andati piano piano. Gatton gattoni, tastando con la mano. E appena sentivano un colpo di fucile: «Hai visto? Che t’avevo detto io? Ci stavano ad aspettare». E via con l’artiglieria – fermi lì immobili – nella speranza che dopo quel finimondo di cannoni, i tedeschi se ne andassero e li lasciassero passare. Invece no. Cessato il fuoco dell’artiglieria loro, bastava: «Pam!», un’altra schioppettata da quest’altra parte. E quelli di nuovo: «Hai visto sti cazzo di tedeschi? Sei buono tu a passare qui». E riparti con tutta la grancassa, fermi immobili lungo la spiaggia. Dalla parte nostra – come le ho detto – c’erano mille soldati soli. E i coloni dell’Agro Pontino.
I primi mezzi angloamericani erano approdati nella notte tra il 21 e il 22 gennaio 1944 sulla Riviera Zanardelli tra Anzio e Nettuno. Poi – via via – lungo tutta la costa tra Tor San Lorenzo e Torre Astura sbarcarono nelle prime ventiquattro ore gli oltre trentacinquemila della prima ondata. Per almeno trenta ore se non più – quando cominciarono a schierarsi i reparti tedeschi fatti affluire in fretta e furia da Cassino e dal resto d’Italia – c’erano solo loro, armati, in Agro Pontino. Potevano fare man bassa, se avessero voluto. Quel povero generale Lucas dev’essersi mangiato i gomiti fino all’ultimo suo giorno. C’è una leggenda che dice – ma secondo alcuni storici non è leggenda, è verità – che una camionetta inglese, appena sbarcata, abbia preso la Nettunense e via diretta a tutta velocità. Man mano che andavano avanti, non trovavano nessuno. «Che facciamo?» chiedeva quello che guidava. «‘Ndémo avanti un altro fià» rispondevano gli altri. Lei capirà, erano giovani di vent’anni e a buon bisogno prima di sbarcare, ancora sulla nave, li avevano riempiti di whisky, cognac e benzedrine come si fa in tutti gli eserciti del mondo. E allora vai diritto. Hanno fatto tutta la Nettunense fino a Aprilia e non c’era un crucco a pagarlo oro. Avanti per Campoleone. Pure lì niente. Dritto per Ciampino e il Quarto Miglio e finalmente a Roma senza trovare – le ripeto – l’ombra d’un tedesco. Non ci credevano neanche loro e solo quando sono stati a piazza San Giovanni, sotto gli archi delle mura aureliane, hanno fatto marcia indietro e sono tornati ad Anzio: «Ahò, non c’è nessuno là». Io adesso non lo so se gli hanno creduto o meno. Oppure se gli hanno creduto ma hanno rimandato qualcun altro a controllare, e magari per quel qualcun altro la musica era stata diversa. Certo quei pochi mille tedeschi in a villeggiatura qua – il 71° battaglione e gli esploratori della 29 divisione Panzer in turno di riposo da Cassino – si sono dati subito da fare. Correvano di qua e di là con tre o quattro cannoncini semoventi in tutto, e ogni tanto si
fermavano a sparare. Non è che pigliassero la mira però. Si fermavano e sparavano due o tre colpi a casaccio, poi rimontava no sul camion e via; altri due chilometri e si rifermavano a sparare – avanti e indietro – e si rispostavano di corsa per far credere a quelli di là, che chissà quanti cannoni c’erano di qua. E quelli ci hanno creduto. Adesso però bisogna pure dire che non è vero quello che scrissero invece i giornali della Rsi. Fu solo propaganda. Se lei difatti va a vedere la copertina della “Domenica del Corriere” del 13 febbraio 1944 che abbiamo ancora a casa – al podere 517 dei Peruzzi – lei trova scritto sotto la bella tavola a colori di Achille Beltrame: “Sulla piana pontina, gruppi di rurali romagnoli armati di moschetti e di fucili da caccia difendono a fianco dei soldati germanici la terra redenta dal proprio lavoro: asserragliati nelle case coloniche, essi aprono il fuoco su pattuglie esploranti angloamericane” e c’è il disegno proprio dei nostri poderi e di questi coloni che
sparano. Ecco, questo è falso. Non è assolutamente vero. È propaganda. Hanno messo i romagnoli perché erano paesani del Duce. Ma a sparare insieme ai tedeschi invece c’eravamo noi, i Peruzzi e tutti gli altri coloni veneti friulani e ferraresi dell’Agro Pontino, altro che solo i romagnoli. I cispadani venetopontini, caro lei. Chi altri se no? Quando i cannoni navali angloamericani avevano cominciato a vomitare fuoco e fiamme alle due di notte, in Agro Pontino ci eravamo svegliati subito tutti quanti, e vedendo e sentendo che quel fuoco veniva dal mare, non è che ci volesse un ragioniere per capire che qualcuno stesse sbarcando. Mio zio Adelchi s’era svegliato di botto dentro la casa della Previdenza sociale che aveva avuto in affitto a Littoria. S’è affacciato alla finestra e ha detto: «Porca putana». Poi però s’è messo la divisa – quello sempre vigile era – s’è allacciato il cinturone con la pistola ed è andato al comando, in comune. Lì ci ha trovato gli altri e subito – «Tu qua! Tu là!» – qualcuno è andato in giro per Littoria a controllare i rifugi o che tra la gente impaurita non succedesse niente, qualcun altro come lui ed un collega sono montati sulle moto Gilera,
passati per la caserma della milizia a prendere qualche moschetto e partiti verso i borghi e il mare a vedere cosa succedesse. Poi si sono messi a fare avanti e indietro con queste moto loro, insieme ai tedeschi coi cannoncini volanti. Quando è stato verso mattina che già si vedevano i chiarori – cinque e mezza o sei – erano verso Borgo Piave e in lontananza hanno visto venirgli incontro dal Canale Mussolini una jeep americana che procedeva piano piano in mezzo a una pattuglia di fanti. Butta le moto per terra e comincia a sparare con le pistole. Quegli altri si buttano per terra anche loro e sparano pure loro. Mio zio comincia a strillare: «Manzón! Manzon! Manzon!». «Còssa ghe xè, Adelchi» hanno risposto riconoscendo la voce – anche se impauriti per la situazione – da dentro il podere dei Manzón. «Vegnì a sparare, fiòi de can, che questi vi levano i poderi anche a voi.» E allora – «Porca putana, il podér!» – i Manzón sono usciti fuori anche loro e poi pure i Rivaletto del podere di fronte ed anche gli altri. E chi coi due o tre moschetti della milizia, chi coi fucili da caccia che s’erano nascosti loro su in solaio – perché i tedeschi dopo l’8 settembre avevano proibito ogni arma ai civili – «Pàm, pam, pam!» di qua e di là dell’E-42 oggi Pontina, contro gli americani. A sentire questa gragnuola, sono tornati indietro pure gli esploratori tedeschi con il cannoncino, anche se non fecero in tempo ad arrivare che già quelli via a marcia indietro, inversione con la camionetta e di nuovo di corsa verso il Canale: «Qui c’è resistenza! C’è resistenza!» avranno detto dentro le loro radio. Pure dall’altra parte però – verso Aprilia-Pomezia – andò così, perché quasi alla stessa ora del 22 mattina si presentarono tre o quattro camionette inglesi proprio sotto il podere di mia zia Bìssola e del Lanzidei. La strada – l’E-42 oggi Pontina, allora in costruzione, solo il macadam – sta in basso, un po’ incassata. Di qua e di là della strada – in alto, sui due poggetti che uno di fronte all’altro la incassano – ci sono i poderi di mio zio Lanzidei da una parte
e dei suoi dirimpettai romagnoli dall’altra, che si chiamano Maltoni come la madre del Duce e sostenevano di essere proprio parenti suoi. «Ah, nantri séimo parenti del Rosón» gli diceva mia zia Bìssola per non restare indietro. Comunque loro di qua e noi di là, come sono spuntate da in fondo la strada queste tre o quattro camionette: «Pàm! Pam!» via col fuoco di fucileria. Noi dall’alto, gli inglesi in basso. Presi d’infilata. Una camionetta ha sbandato ed è finita nel fosso. Le altre bloccate e giù tutti in mezzo ai campi. «Via da ‘a me tèra, fora dal mè podèr!» strillava mia zia Bìssola e «Pàm! Pàm!», sparava stesa per terra al riparo d’una scolina. «Fatemi sparare a me, mamma, che ho più mira!» le faceva il figlio più grande. «Tasi ch’at cópo anca a tì!» faceva lei: «Tasi e passa ‘e munisión, maladéto». Mio zio Lanzidei e suo padre – il vecchio Lanzidei antifascista e nettunese, però, se permette, padrone oramai d’un podere – con due elmetti del ‘15-18 in testa. Tra noi e i romagnoli è stato fuoco a volontà. Vantaggio strategico. Manco ai film western si vede una cosa così. E dopo un quarto d’ora e più, quelli hanno alzato uno straccio bianco, si sono caricati i feriti – mia zia strillava: «Sparémo, sparémo»; «Statte zitta, vaffanculo» le diceva mio zio Lanzidei, «mo’ te sparo a te» – e girate le camionette sono corsi ad Anzio a riferire pure loro: «Di là non si passa». Andò così lo sbarco di Anzio nelle sue prime ventiquattro o trenta ore. Poi il giorno dopo arrivò in forze l’alleato germanico – ma anche qualche reparto della Rsi – e fu mestiere loro, dei soldati. Noi più di quello non facemmo qualche colpo le ripeto, rumore e nulla più – ma non fummo gli unici tra i coloni. E aggiunti ai colpi di cannone e alle raffiche di mitragliatrice – che andavano sparando ogni tanto di qua e di là i mille tedeschi nostri in vacanza – a queglialtri siamo riusciti a fargli credere per più di trenta ore, fino appunto a che non è arrivato l’esercito vero, che chissà quale esercito avessero di fronte. È la paura loro che ha ingigantito i rumori nostri. E quando alla fine si
sono accorti che eravamo invece solo mille tedeschi e noi coloni – contro trentacinquemila dei loro – oramai era troppo tardi, le forze dell’Asse s’erano schierate. L’offensiva loro bloccata. La testa di ponte chiusa e compressa tra il fronte sul Canale Mussolini a sud, e il Fosso Moietta a nord, fino alla sua foce di Tor San Lorenzo. Chiusi lì per quattro mesi – impantanati in più di cinquantamila – quando nelle prime trenta ore, se solo avessero voluto, avrebbero potuto dilagare a piacimento fino a Roma e Cassino. Churchill dovette andare davanti alla Camera dei Comuni a dire: «Comunque sia, abbiamo distolto forze loro da Cassino. Però è vero, ero convinto di avere lanciato un gatto selvatico ad Anzio, che sconvolgesse il campo dei tedeschi, e invece ci ritroviamo lì, come una balena arenata sulla spiaggia». Fermati da mille tedeschi e dai coloni dell’Agro Pontino. Come dice, scusi? che questa cosa sui libri di storia non c’è? che tutti gli storici scrivono solo dei tedeschi ad Anzio, e non dei coloni dell’Agro Pontino? Ah, lo so pure io che c’è scritto così, ma che le posso fare? Mica è colpa mia se chi ha compilato le storie s’è basato solo sugli archivi militari. Lì evidentemente i nomi nostri non ce li poteva trovare. Lei permette che fa più scena – e meno imbarazzo – scrivere nei rapporti: “ferocissimi tedeschi”, che “quattro coloni straccioni”? E poi abbia pazienza, ma lei vuole che quella notte
del 22 gennaio 1944 – ma anche nelle ore successive, con il panico che li deve avere presi – quelli si siano messi a prendere il nome e cognome di ognuno che per caso gli sparasse addosso? «I tedeschi!» facevano, e tornavano indietro. Cosa vuole adesso da me, se invece insieme ai tedeschi c’eravamo pure noi? Le debbo dire di no, per farla stare contento? Faccia come le pare. Però sta scritto sulla “Domenica del Corriere” e – se permette – sta scritto nella memoria dei Peruzzi e dei coloni venetopontini come noi. A me l’hanno raccontata i miei zii. Ma mi creda, l’hanno raccontata pure sottovoce, poiché dopo la guerra – quando finalmente ci hanno liberato e
abbiamo visto che il diavolo non era così brutto come ce lo avevano raccontato, poiché non solo non ci hanno tolto i poderi ma ci hanno pure aiutato coi viveri e il Ddt – non stava neanche tanto bene che noi andassimo in giro a raccontare queste cose. «I tedeschi» dicevamo pure noi: «Hanno fatto tutto i tedeschi». Solo mia zia Bìssola – quando dopo la liberazione tornò la democrazia e mio zio Lanzidei si riscrisse pure lui come mio zio Dolfin al Partito socialista – una volta che ad Aprilia fecero una delle prime riunioni celebrative della Resistenza, a un certo punto disse: «Anca nantri aghémo fato ‘a resisténsa». Subito mio zio Lanzidei la prese per un braccio e la tirava giù per farla risedere sulla sedia: «Zitta! Statti zitta!». E lei invece si scrollava e gli diceva ancora più forte, davanti a tutti: «Ma diglielo! Diglielo anche tu che anche noi abbiamo fatto la resistenza». E poi rivolta all’intero uditorio: «El mè omo quà», e faceva segno con il dito verso lui che si nascondeva, «mè marìo qua, el gà sparà a ripetisión contro i mericàn»; che invece erano inglesi, oltre tutto. «Be’, compagna» fece l’oratore che veniva da Roma, «non è proprio questa la resistenza che celebriamo oggi, noi celebriamo la Resistenza contro il nazifascismo.» «Ma non la stia a dir monàde» fece mia zia: «Mi meraviglio di lei che la gà studià. Noi abbiamo sparato. Contro i todeschi, contro i mericàn, che casso de diferènsa la fà? Sempre resisténsa xè!» insisteva ancora mentre mio zio Lanzidei la trascinava via, facendo intanto segno agli amici e compagni suoi con la mano chiusa e il pollice aperto che ciucciava su e giù vicino alla bocca – senza però farsi vedere da lei – come a voler dire «Abbiate pazienza, ha bevuto». Così stanno i fatti le ho detto, così me li hanno raccontati e così glieli racconto. Poi se ci vuole credere ci crede, e se no faccia come le pare, le direbbero mia zia Bìssola e mio zio Adelchi.
Quando è stato il 7 di febbraio però – di quel 1944 – a noi i tedeschi ci hanno fatto sfollare. Gli alleati s’erano presentati sul Canale la mattina dello sbarco, il 22 gennaio. Un caccia americano a Borgo Podgora aveva appena finito di mitragliare la corriera che da Cisterna andava verso Littoria – la gente s’era messa in viaggio come se niente fosse, per andare a lavorare – che subito arrivarono altri aerei più grossi, e un nugolo di paracadute si vide calare sul Canale Mussolini, subito dopo l’ultima curva della Parallela Sinistra. Era il 504° paracadutisti americano. Atterrarono sia di là del Canale che di qua, sul boschetto d’eucalypti in fondo al podere dei Mambrin. I Mambrin e i loro vicinanti si misero subito a sparare – insieme ai tedeschi che arrivavano dal Borgo – contro i primi paracadutisti che uscivano dal boschetto. Quelli dietrofront e via nell’alveo del Canale – al di là dell’argine – ad attestarsi lì, e quando sono arrivati mio nonno e zio Temistocle con tutta la Parallela e gli schioppi da caccia loro, era già finito tutto. Ma lì poi sono rimasti – come lei sa – per quattro mesi gli americani. Dietro l’argine nostro – dentro e al di là del Canale Mussolini – fermi nella sacca della testa di ponte. Ci rimasero fino al 23 maggio, quando gli alleati – ossia gli angloamericani – dopo Cassino scattarono all’offensiva anche qui e liberarono il 25 Pontinia, Littoria e Cisterna, dopo avere superato ogni nostra difesa. Poi dilagarono. E ricongiunti con le forze che provenivano da Cassino, liberarono anche Aprilia e Velletri e il 4 giugno entrarono in Roma “alla testa delle loro truppe vittoriose”. Era il 1944 le ripeto, e il Canale Mussolini era stato la linea del fronte – guerra di trincea per quattro mesi – con gli americani dentro l’alveo e dall’altra parte del Canale, e tedeschi ed italiani Rsi da questa. Dal 22 gennaio al 25 di maggio. Lei pensi il sangue che deve essere scorso sul Canale Mussolini. Lungo la savanella, sopra le briglie, intorno agli argini. E gli scontri di pattuglie sui campi e le scoline nostre. Trentamila perdite tra tutte e due le parti, sul fronte di Anzio-Nettuno. Giovani di vent’anni, venuti da tutto il mondo per morire qui. E anche loro, le mamme li piangono ancora.
A noi però i tedeschi – come le ho detto – il 7 di febbraio ci avevano fatto sfollare. Non potevamo stare più lì. Oramai la linea difensiva era salda, la testa di ponte nemica bloccata sul Canale. I reparti germanici e della Rsi – ben consolidati da questa parte – si alternavano regolarmente sulla linea del fuoco. Venivano, sparavano, uccidevano, morivano e poi si davano il cambio, per brevi turni di riposo. Il podere nostro – si può dire – non era più in piedi. Bucato da tutte le parti. Il tetto a nudo, senza più tegole. Porte e finestre divelte. Noi eravamo d’impaccio. Pericolo per noi e per loro. E ci hanno mandato via. Mio nonno non voleva. Insisteva. Voleva restare lì. Gli hanno detto: «Ma no, danke kamerad, grazie mille, adesso ci siamo qui noi per combattere» perché lui – per farsi vedere utile – fino all’ultimo giorno è rimasto lì con loro, dietro il prìvy, col moschetto in mano. Anzi, a un certo punto gli avevano dato pure un mitra – «Come funsiónelo sto casso de coso?» faceva girandolo da tutte le parti – e lui gli ha detto: «Ma quale combattere, kamerad? Questa xè ‘a mè tèra, ‘l mè podèr, io non me ne voglio andare». «Raus, raus! Sfollare sfollare» gli hanno detto allora con le cattive, quando hanno capito che con le buone non capiva. Abbiamo preparato un carretto e con l’ultimo musso rimasto – il più delle bestie se n’era andato mangiato soprattutto dai tedeschi – siamo partiti di notte in direzione di Cori, verso la montagna: «Lì i miei parenti ci aiuteranno» aveva detto zia Nazzarena. Sopra il carro abbiamo steso dei lenzuoli bianchi con una croce rossa disegnata con la vernice, per far capire che eravamo civili. Ma siamo partiti di notte, perché non ci fidavamo ugualmente. Due giorni prima ai Mambrin che stavano sfollando, gli americani – con tutto il telo bianco – gli avevano sparato addosso dal Canale. Nessuno si fidava più di nessuno, dopo che dalla parte nostra – sulla Parallela – s’era mosso un carro trainato da buoi con il suo bel telo bianco e la croce rossa sopra, come un trasporto di feriti per le retrovie. Ma all’improvviso s’era alzato il vento, il telo forse era fissato male, ha preso il
volo e sopra il carro – al posto dei feriti – c’era un pezzo d’artiglieria che i tedeschi cercavano di spostare. Gli americani s’erano messi a sparare e da quella volta – telo o non telo – qualunque cosa si movesse, loro sparavano e basta. E hanno sparato pure sui Mambrin. Noi Peruzzi allora siamo partiti di notte, sulla Parallela in direzione dell’Appia. A un certo punto però la strada era interrotta. Non ci hanno fatto passare. La gendarmeria dei tedeschi: «Nein, nein». Vai per i campi verso il Canale. Eravamo quasi all’Appia, oramai, quando il cane – il cane da caccia del mio povero zio Pericle, che si chiamava Gina perché era femmina ed era bianca e nera a macchie e stava camminando scodinzolante a una trentina di metri avanti a noi – «Bèm!» è saltato per aria. Una mina. Eravamo in un campo minato. Tutti fermi immobili. «Còssa fémo adesso?» Mio nonno voleva aspettare giorno: «Così ci si vede meglio». «Sì, ma acsì ne vedarà anca i mericàn» ha detto mia nonna e via: «… Maladéti i Zorzi Vila». E così – con la buona grazia di Dio – riuscimmo a passare anche il campo minato e poi per di là dell’Appia fino a Doganella e verso Cori, dove i parenti di mia zia Nazzarena ci sistemarono su in montagna, sopra il paese, alle falde di monte Lupone, dentro un bosco di lecci. Era una grotta le ho detto, con una capanna di legno davanti. Un ricovero di pecore e pastori. Noi siamo rimasti lì per quattro mesi. E c’erano anche tanti altri coloni come noi, sulla montagna nostra. A vivere di stenti – di bacche e di radici perfino – e della carità dei marocchini. Se non era per loro, noi non ce l’avremmo fatta. Venivano, dicevano: «Cispadaaa’!» e portavano qualcosa. Intanto a noi era nato il bambino – come le ho già spiegato – e mia nonna però non l’aveva scacciata subito l’Armida: «Siamo cristiani t’ho detto, tu e il tuo bastardo potete restare qui, finché non finisce la guerra e torniamo giù. Poi fora dai piè, via da i mè òci par sempre». «Grassie, mama.»
«Non star più a ciamàrme mama!» «Come volete, obbedirò.» Poi col tempo – anche se tanto tempo per l’ozio non c’era, perché si stava sempre in giro per il bosco e la montagna, anche con tutto il freddo di febbraio-marzo, a cercare qualcosa da mangiare: funghi erbe ortiche cicorie da bollire -a furia di stare lì, mia nonna non poteva, volendo o non volendo, non abituarsi anche a questo bambino bastardo. Quando pensava all’Armida, mia nonna continuava a dire solo: «Vaca!», ma questo bambino davvero, mi deve credere, strillava o piangeva solo se aveva fame. Se no non piangeva mai. Non faceva che strilletti di gioia e risi e sorrisi a chiunque lo pigliasse, e soprattutto alle api che – «Zz zz… zz zz… zz zz» – gli stavano sempre intorno a cercare di farlo ridere e raccontargli storie, camminandogli sopra le manine ed il viso. Alla fine anche mia nonna s’è messa a rispondere ai suoi sorrisi. E gli si è affezionata. Dopo però – alla fine – il 19 maggio siamo dovuti fuggire in fretta e furia da Cori, poiché per tutti i sentieri dei monti s’era propagata la voce degli stupri dei marocchini veri, quelli proprio del Marocco e dell’Algeria. Erano venuti al seguito delle truppe francesi, a giocarsi prima la pelle loro sul Montecassino, e poi la pelle dei poveri marocchini nostri – e soprattutto delle marocchine – della valle del Liri e dei monti che circondano l’Agro Pontino. Duemila donne tra gli otto e gli ottantacinque anni d’età accertate dai francesi stessi – anche se le voci o le denunce parlarono di sessantamila – e ottocento uomini stuprati pure loro e perfino un prete, ed altri ottocento assassinati perché volevano difendere le loro donne o si rifiutavano di assistere agli stupri. «Tali e quali a nantri in Affrica» diceva poi mio zio Adelchi: «Quello che dai, ti viene reso». Scappammo allora anche noi da Cori in fretta e furia – «Se aghémo da morir, meglio morire a casa nostra» – perché le voci dicevano che i marocchini veri, montagna per montagna, stessero arrivando qui. Via di corsa
allora – «Prima ch’i riva» – lungo il crinale verso Norma e verso il nostro Agro Pontino, in cui ancora c’erano i tedeschi a battagliare con gli americani. Arrivammo sulla rupe di Norma – a Norba, in mezzo ai resti e alle rovine dell’antica città latina – nella notte tra il 23 e il 24 maggio, ancora col carretto e con il musso nostro che il povero mio nonno s’era difeso con le unghie e con i denti per tutti i quattro mesi dello sfollamento. Dormiva con un occhio solo la notte, per paura che mia nonna o chiunque altro glielo potesse ammazzare. C’era fame. «Magnémo ‘l musso» diceva ogni giorno mia nonna. «Ma tu sei matta! Mangiatevi a me piuttosto, ma non il musso.» Restammo lì sopra – nascosti tra le grotte e le macerie dei vecchi templi – tutto il 24 e la notte successiva, mentre dal piano salivano i rumori dei combattimenti: le raffiche di mitragliatrice, i colpi di cannone, i carri armati, le bombe a mano. La mattina del 25 maggio 1944 – «‘Ndémo a casa, ‘ndémo a casa» diceva mia nonna, «prima che arrìva i marochìn», e questa volta intendeva anche lei i marocchini veri del Marocco e non i nostri, che s’erano levati il pane dalla bocca per darlo a noi – la mattina del 25 maggio ci siamo affacciati al ciglio della rupe, sulle mura dell’antica Norba, e sotto di noi si vedeva l’intera piana nostra dell’Agro Pontino. Littoria e il mare là in fondo, la fascia dei laghi di Sabaudia e di Fogliano, il Circeo lì di lato a sinistra, i campi allagati per dodicimila ettari, rimpaludati dai tedeschi tra Pontinia e Terracina, e poi la piana, con ancora colpi e fumi d’incendi e scoppi qua e là, ma dritto davanti a noi, piccolo piccolo, il campanile ancora in piedi di Borgo Podgora e di fianco, come un colpo al cuore, dalla parte di Cisterna, il solco netto e preciso del Canale Mussolini nostro e il nastro d’argento dell’acqua che luceva tutto ai riflessi del sole. «Andémo a casa» ha detto mia nonna, e abbiamo cominciato a discendere il crinale.
C’era ancora il «Barbarigo» a combattere, il battaglione Barbarigo della X Mas che fu l’ultimo a lasciare l’Agro Pontino coi marò – tutti ragazzetti, anche delle parti nostre, tutti volontari – che man mano indietreggiavano lungo la fascia del pendio, dai piedi del monte al crinale, correndo acquattati da un ulivo all’altro, da un fico d’India a una roccia sporgente, e poi voltandosi a sparare contro le fanterie americane, che tra un ulivo e l’altro, anche loro avanzavano acquattate. Erano l’ultima retroguardia che copriva la ritirata dei reparti germanici verso Roma. Anche dall’altra parte come lei sa – a nord dell’Agro Pontino, oltre Aprilia e Pomezia – furono i paracadutisti del Nembo e della Folgore la retroguardia che ingaggiò “l’ultima difesa di Roma”. A colpi di bombe a mano – tra le vallate e i pianori di Castel di Decima – si buttarono anche loro come i miei zii in Africa ad assalire i carri armati che avanzavano, aprirgli lo sportello e scagliare la bomba. Tanti ci riuscirono. Tanti altri – e ancor di più – restarono lì; e anche queste mamme li piangono. Poi i carri dilagarono e non ci fu più niente da fare. Noi scendemmo dalla montagna di Norma però, e a un certo punto – fermi per una sosta su un ciglione, in attesa che giù di sotto, a un centinaio di metri, le pattuglie dei marò nostri del Barbarigo e quelle degli americani che si schioppettavano tra loro decidessero di spostarsi un altro po’ verso Cisterna e lasciarci passare – mia nonna si voltò verso il bambino, che in braccio alla madre faceva dei versetti giocando con le api. E disse all’Armida: «Ci ho ripensato. Quando sarà un po’ cresciuto, verrà anche lui da noi. Tu no. Tu sei fuori dai Peruzzi». L’Armida s’è sentita gelare l’anima: «Anca questo i me vói levàr, sti bruti serpi?». Ma nello stesso tempo s’è sentita anche felice per il bimbo, riaccolto ed accettato nella sua famiglia. «Mama» ha detto allora – chiamandola per l’ultima volta «mama», mentre mia nonna si voltava ad ascoltarla scura -«Mama gò sbalià e lo pagherò per
sempre, ma ve lo giuro, credetemi, è figlio di Pericle, lo abbiamo fatto come le api, insieme a tutti gli altri, a Codigoro!» «Ma tu sei matta! Non ci crederò mai a questa storia fin che non vedo i mussi ch’i vola», e proprio in quel preciso istante un colpo vagante – non so se del Barbarigo o degli americani – colpì in piena testa il musso di mio nonno che stramazzò a terra. E mentre mio nonno si buttava in terra anche lui ad abbracciarlo per il collo e tentare invano di richiamarlo in vita – «El mè musso, el mè musso, el nemico me gà copà ‘l musso» – l’anima del musso nostro volava in cielo. Come che Dio volle però, scendemmo dal monte di Norma, e insieme a noi scendevano coi carri, i sacchi di biancheria sulle spalle e i figli in braccio, tutti gli altri coloni come noi, sfollati in quei mesi sulle montagne lepine ospitali. Il secondo nostro esodo. E fummo di nuovo Pilgrim Fathers nel piano, con la benedizione questa volta dei marocchini nostri: «Andate, cispadà». I tedeschi avevano ormai lasciato Cisterna. Anche il Barbarigo s’era ricongiunto a loro e ripartito. Giusto o sbagliato, era finita. Eravamo stati liberati. Noi ci eravamo difesi fino all’ultimo – ripeto – perché questo non avvenisse. Ma oramai era andata. «Viva i liberatori!», che peraltro subito ci portarono il ben di Dio da mangiare, roba che non vedevamo da chissà quando. Mia zia Santapace che adesso stava col Benassi a Littoria in casa con zio Adelchi – e che già due giorni prima, appena s’era saputo che i tedeschi avevano lasciato Terracina e che il nemico veniva su di gran carriera anche da sud, s’era sbarrata in casa a strillare «Oddìo arìva i mericàn, chissà che ci fanno a noi femmine con tutti quei negri» e aveva rifatto il filo a tutti i coltellacci per ammazzare le bambine e poi sé stessa, prima appunto che arrivassero i negri – quando s’è affacciata dalla finestra e ha visto i camion degli inglesi che scaricavano sacchi di farina bianca bianca, e tutta la gente intorno a far man bassa, e la farina che volava per aria e tutti ridevano e
strillavano per la contentezza e ridevano pure gli inglesi, allora è scesa pure zia Santapace con le bambine, e s’è messa a strillare anche lei: «Viva i mericàn, viva i mericàn», pure se erano inglesi. «Viva la farina! maladéti i Zorzi Vila!» Così siamo tornati a casa – girando qua e là insieme a tutti gli altri coloni e facendo le serpentine tra i vari campi col filo spinato e il cartello pietoso degli ultimi tedeschi o repubblichini: “Achtung minen”, “Campo minato” – fino al nostro podere 517 dei Peruzzi sul Canale Mussolini. Erano rimasti in piedi solo i muri maestri. Il tetto della casa e della stalla crollati. Crollato tutto l’Agro Pontino Redento, si può dire. Aprilia rasa al suolo fino all’ultima pietra – costruita neanche sette anni prima, un gioiello d’architettura le ripeto, e gli architetti erano pure ebrei, i figli morti a Mauthausen – e rasi al suolo quasi tutti i poderi dell’Agro Pontino. I campi allagati. Tutta la costa minata. Rimpaludati gli stagni della fascia costiera. Le zanzare anofeli che impazzavano e che con tutta l’astinenza che avevano dovuto subire prima – in quella decina d’anni della prima bonifica – adesso pinciavano a rotta di collo in tutti questi acquitrini, e la malaria riprese più forte di prima e la gente moriva come mosche. Ci salvarono gli americani, che con gli stessi aerei con cui ci avevano bombardato, irrorarono tutto l’Agro Pontino e anche la piana di Fondi con il Ddt. Una mano santa il Ddt, dia retta a me: sia benedetto sempre chi lo ha inventato, maladéti i verdi e i Zorzi Vila. E ci portarono pure la penicillina, non lo stia a scordare. Certo anche la libertà e la democrazia, chi le dice niente? Noi li ringraziamo anche per questo ma – se permette – almeno noi Peruzzi tanta libertà e democrazia non le avevamo mai viste neanche prima del fascismo, anzi, è col fascismo che qualcuno ci è stato a sentire, se no chi vuole che ci ascoltasse a noi? Con questo non discuto però: grazie agli americani per la libertà e la democrazia. Ma grazie soprattutto – se permette – del benessere. Quello sì non lo avevamo mai visto. Solo fame s’era vista fino a allora.
Era tutto distrutto però, quando siamo tornati. I campi nostri incolti e coi buchi e i crateri delle bombe. Cadaveri ancora in giro. Tutte le scoline interrate, i fossi, i canali. Le strade impraticabili. Il macadam per aria. I ponti crollati. Il Canale Mussolini pure lui non le dico: tutte le pietre delle briglie e della savanella centrale di magra saltate per aria; gli argini divelti o minati; l’alveo interrato, che come faceva una goccia d’acqua dal cielo, oramai esondava e allagava i campi. Anche Cisterna rasa al suolo, e Littoria quasi tutta per terra, coi palazzi sventrati e la torre del palazzo «M» dissolta nell’aria. Toccò rifondarla da capo. Toccò rifondare e bonificare di nuovo tutto l’Agro Pontino. Non erano bastate – evidentemente – tutte le monete gettate sia dal più umile manovale o carpentiere, sia da Cencelli, Rossoni e il Duce, dentro gli scavi delle fondamenta. Non era bastato per un adynaton simile. Ci voleva il sangue. Il sangue di tutta questa gente venuta prima dal Veneto, dall’Emilia e dal Friuli, e poi da tutte le parti del mondo – dall’India, dalla Nuova Zelanda, dagli Usa, dall’Inghilterra, dalla Francia e pure dal Marocco e dall’Algeria, oltre che dalle montagne nostre qua intorno, a morire nell’alveo e sugli argini del Canale Mussolini – per ricominciare da capo, rimboccarsi le maniche, riscavare il Canale, prosciugare di nuovo gli stagni e le paludi, ricostruire Littoria e tutte le città e i poderi, le strade, le stalle e tutto quanto, e questa volta in pace e libertà, si spera per sempre. Così è ripartito il nostro Agro Pontino, così è diventato davvero il Giardino Terrestre, la Terra Promessa, la nostra nazione venetopontina. Come dice scusi? Io? Io che le debbo dire, io? Lei si ricorda per caso di quella volta che le ho raccontato di quando partimmo per lo sfollamento, cioè la notte del 7 febbraio 1944 che i tedeschi ci fecero sfollare sopra un carretto con il telo bianco dal nostro podere 517 Peruzzi, Canale Mussolini? Sì? E si ricorda anche che a un certo punto le ho detto che siamo capitati in mezzo a un campo minato e il cane da caccia di
mio zio Pericle -la povera Gina bianca e nera – saltò per aria su una mina antiuomo? Be’, noi stavamo fermi immobili in un campo minato quella volta, e lei sa come funziona in questi casi in tutte le parti del mondo, quando una famiglia o un gruppo, un clan, una tribù come la nostra si ritrova all’improvviso dentro un campo minato e non può né tornare indietro ne provare a svicolare di lato, ma solo farsi il segno della croce e andare avanti, costi quello che costi, solo avanti, non c’è altra soluzione? Be’, in questi casi sono i vecchi a dover andare avanti per primi, prima i vecchi e poi man mano – man mano che saltano per aria e che segnano però la strada per poter uscire – man mano si fanno avanti gli uomini e poi le donne ancora fertili, ed infine i bambini. Questa è la regola umana, la sopravvivenza del gruppo e della specie. Prima i vecchi e poi man mano tutti gli altri. Allora mio nonno – quando il cane Gina è saltato per aria e mia nonna ha detto: «Còssa fémo?» – mio nonno ha provato a dire «Aspettiamo che faccia giorno», perché così, pensava lui, poteva pure essere che riusciva a vederla qualche mina, e riusciva a scansarla, senza mettere i piedi proprio a casaccio nella fanga. Ma quando lei ha detto «Sì, ma acsì ne vede anca i mericàn», mio nonno s’è messo l’anima in pace: «Ma sì, ma cosa vuoi che sia un’ora in più o un giorno in meno?». S’è acceso il sigaro, ha aspirato una bella boccata e s’è fatto avanti. Mia nonna lo ha bloccato con il braccio. Il braccio duro e rigido davanti al petto. Proprio di traverso tra il petto e lo stomaco di mio nonno. Lui ha provato a scansarglielo e a spingere, per poter andare avanti in quella che era – come ben sapeva – la sua strada. Lei invece ancora rigida col braccio. E quando lui e tutti gli altri hanno fatto la faccia come per dire «Ma che ti sta succedendo?», mia nonna gli ha intimato: «No, non tì!».
«E chi allora?» hanno pensato gli altri, ma nessuno ha detto niente. Tutti fermi zitti immobili con il panico addosso senza capire nessuno a chi dovesse davvero toccare per primo. Mia nonna ferma ed implacabile. In silenzio. Poi chi doveva capire ha capito. È stato un attimo. L’Armida s’è tolta dal collo il piccolo Menego e lo ha dato a mia zia Santapace che già allungava piangente le braccia per prenderlo. «Corazo Armida, coraggio!» faceva un eucalyptus là in fondo, dalla scolina di confine del campo. E l’Armida è andata fino al carretto – il carretto stava in fondo alla fila con il musso, dietro a tutti – s’è presa un’arnia, ha detto alle sue api: «Andémo» e in mezzo a tutti i Peruzzi che le facevano largo s’è fatta avanti. «Andè, appi!» e via sulle mine. «Vùùùùùh… vùùùùùh… vùùùùùh…» facevano le api sulla terra bagnata.
Annusavano di qua e di là. Con le zampette e i pungiglioni tentavano di smuovere le zollette. «Vììììììhu! Vììììììhu! Vìììììhu!» facevano ogni volta che sentivano qualcosa di strano. Allora l’Armida si fermava e voltava per dove dicevano loro. Intanto – da un sacchetto di farina che teneva sul pancione, e che le aveva dato mia nonna senza neanche dirle una parola, prima che lei s’addentrasse tra le mine – lasciava cadere per terra un filo bianco di farina per indicare la strada a quelli dietro, che la seguivano man mano a una trentina di metri. «Ma non può andare più svelta?» diceva qualche mia zia. L’Armida sudava sudava. Le api: «Vùh, vùh, vùh». Qualche volta: «Vìu, vìu, vìu». A zig zag. A un certo punto si sono ritrovate – lei e le api – sotto la pianta d’eucalyptus a due passi dal fosso di confine. A est, da dietro la catena dei monti Lepini in direzione di Sezze, già salivano sull’Agro Pontino le luci e i chiarori dell’aurora. L’Armida s’è sentita una fitta alla pancia e le si sono rotte le acque. Una cascata. Sentiva tutto caldo, tra le gambe bagnate e le api che le volavano intorno: «Vòòòòh, vòòòòh, vòòòòh».
Allora l’Armida s’è accucciata vicino all’eucalyptus -«Tranquìla Armida, tranquilla!» faceva lui – e sono nato io. Con tutta la placenta. E così che sono venuto al mondo in un campo minato. E subito le api mi sono state addosso – raccontava mia madre – mentre lei tentava di riprendere le forze poggiata alla pianta. Coi denti ha strappato il cordone ombelicale. Io ho fatto «Uèh» per terra, solo «Uèh» per tirare il primo respiro, senza più piangere oltre. Ero ricoperto da un manto nero nero – diceva mia madre – nero nero e giallo di tutte le api che mi camminavano addosso e mi ripulivano della placenta. «Cosa fa quella là?» dicevano le mie zie spazientite, mentre mia madre mi prendeva in braccio pulito e le api impazzite facevano: «Vèèèhzzzt! Vèèèhzzzt!» e io ridevo ridevo. È così che sono nato. In un campo minato. E proprio come Rossella O’Hara, mia madre s’alzò e disse: «Grassie, appi! Domàn xè un altro giorno» e si rincamminò con me in braccio e le sue api intorno a guidare verso la salvezza la famiglia dei Peruzzi. Come dice scusi? che io sarei quindi, secondo lei, il figlio di mio cugino Paride? Lei è matto. Allora non ha capito niente. Come diceva sempre mia madre, io sono il figlio di Pericle e m’hanno concepito insieme a tutti i miei fratelli e sorelle – come le nostre api e come il suo dio Krishna e Satyabhàmà – la notte che mio padre ammazzò il povero prete di Comacchio. Fine del filò. Firmato don Pericle Peruzzi, parroco in Agro Pontino. Ci rivediamo al prossimo, se Dio ci dà salute. Amen.
Ringraziamenti Sono stati determinanti gli apporti e i contributi di Massimiliano Lanzidei, Federica Manzon e Mario de Laurentiis. Un grazie particolare a Dino Del Giudice, Stefano Cardinali e Pablo Echaurren. Ma anche ad Agostino Attanasio, Cesare Bruni, Mario Busatto, Roberto Cerisano, Filippo Cosignani, Piermario De Dominicis, Giulio Ferroni, Ajmone Finestra, Leopoldo Gamberale, Maria Lina La China, Stefano e Luciano Lanna, Graziano Lanzidei, Daniele Lembo, Lorenzo Magnarelli, Giuseppe Mancini, Francesco Moriconi, Stefano Pagliaroli, Vito Perugini, Gian Luca Podestà, Miro Renzaglia, Adalciso Rossi, Luca Serianni, Piergiacomo Sottoriva, Manlio Tonazzi, Marcello Trabucco e tutti quelli che magari ho dimenticato ma, come loro, sono stati ugualmente solleciti e disponibili davanti ad ogni mia rottura di scatole. Nota filologica
Il dialetto veneto-pontino che si parla in Canale Mussolini non è più, naturalmente, quello di Goldoni né – tanto meno – quello che si parla in Veneto oggi. Quando, per esempio, ci incontriamo con le mie cugine che sono rimaste lassù, qualche volta facciamo fatica a capirci. Il nostro è un impasto di rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano eccetera – contaminato da influenze laziali – privo di strutturazione grammaticale fissa, con le vocali ora aperte ora chiuse e le desinenze che cambiano da podere a podere e da situazione a situazione, anche spesso nello stesso parlante. Questo è però l’impasto che ho imparato da mia madre, e che probabilmente ho contaminato a mia volta nel corso degli anni.
Fonti Per una bibliografia dettagliata, vedi: A. Pennacchi, città del Duce,
Fascio e martello. Viaggio per le
Laterza 2008. A tutte le fonti -come sempre – si deve qualcosa,
ma il debito maggiore è verso: R. Mariani; L. Nuti e R. Martinelli; S. Ruinas; A. Bianchini. Le altre fonti: G. Accame; M. Accascina; G. Accasto; M. Alessandrini; R. Alessi; R. Almagià; P. Altobelli; C. Alvaro; A. Ammirati e A. Chendi; A.M. Angioni; F. Argentesi; U. Ascoli; A. Augello; M. Bandini; F. Barbagallo; P. Barbera; G. Barone; L. Benevolo; L.V. Bertarelli; S. Bertoldi; P. Bevilacqua, A. De Clementi e E. Franzina; P. Bevilacqua e M. Rossi-Doria; PG. Bisesti; A. Boeckh; L. Borto-lotti; G. Bortolotti; R. Bossaglia; G. Bove; W. Brina e G. Bottardi; F. Brunetti; G. Bruno e R. Lembo; P. Buchignani; P.V. Cannistraro; L. Capellini e P. Portoghesi; A. Caracciolo; P. Carbonara; L. Cardarelli e M. Ferrarese; C.F. Carli; M. Carta; P. Casini; M. Cassetti; F. Castagnoli; V. Castronovo; M. Caudana; A. Cederna; P. Cefaly; A. Celli; G. Cerina; F. Chabod; C. Ciammaruconi; E. Ciccozzi; G. Ciucci; G. Colacicco; R. Colapietra; A. Colonna; G. Compagno; G. Coniglio; G.P Consoli; E. Corvaglia e M. Scionti; V. Cotesta; F. Cresti; A. Cucciolla; P. Culotta, G. Gresleri e GÌ. Gresleri; A. Dalzini; S. Danesi e L. Patetta; L. D Antone; D. De Angelis; A. De Bernardi e S. Guarracino; R. De Felice; F. De Mei; F. D’Erme; V. D’Erme; C. De Seta; R. Del Bianco e S. Caputi; I. Delogu; L. Deluisa; A. di Crollalanza; L. Dufour; G. Ernesti; J. Evola; F. Faccioli e G.C. Martinoni; M. Fagiolo e M.L. Madonna; M. Ferrarese; A. Finestra; A. Folchi; K. Franchini e F. Iannella; M. Fuller; C.S. Galeazzi; E. Galli Della Loggia; O. Gaspari; E. Gentile; D. Ghirardo e K. Forster; D. Ghirardo; G. Giovannoni; A. Giuliano; A. Greco e S. Santuccio; E. Greco; G. Gresleri, P.G. Massaretti e S. Zagnoni; V. Grossi, M.I. Pasquali e R. Malizia; G.B. Guerri; F. Iannella; I. Insolera; G. Iuffrida; G.K. Koenig; M.L.
La China; D. Lajolo; L. Lanna e F. Rossi; A. Lepre; C. Lévi-Strauss; A. Lino; C. Lizzani; E. Lo Sardo; E. Ludwig; S. Lupo; D. Mack Smith; F. Marasti; L. Marelli; R. Martin; P. Massaretti; G. Massaro; G.L. Mattioli; N. Mazzocchi Alemanni; A.B. Menghini; A. Milano; P. Milza; A. Mioni; D. Mittner; P. Monelli;
G.L. Mosse; A. Muntoni; G. Muratore; D. Murray; S. Nannini; R. Nicolini e T. Mirabella; P. Nicoloso; C. Norberg-Schulz; D. Notari; V. Orsolini Cencelli; D. Ortensi; G. Pagano; M. Pallottini; A. Parisella; G. Parlato; G. Peghin e E. Zoagli; S. Peli; G. Pellegrini; A. Petacco; C. Petrucci; M. Piacentini; G. Piemontese; A. Pieroni; P. Pierotti; G. Pini e D. Susmel; G. Piscedda; G. Pisu; G.L. Podestà; M. Pompei; P. Portoghesi, F. Mangione e A. Soffitta; N. Prampolini; D. Prinzi; M.R. Protasi e E. Sonnino; F. Ramondino; V. Riccardi; L.L. Rimbotti; P. Riva; C. Romagnoli; M. Romano; C. Rossetti; V. Rossetti; E. Rossi, M. Rossi-Doria; E. Rossini e C. Vanzetti; G. Rotella; C. Ruini; G. Russo; J. Rykwert; G. Sbaraglia; E. Sereni; A. Serpieri; M. Serri; A. Sessa; S. Setta; P. Sica; E. Siciliano; P. Sommella; F.M. Snowden; P.G. Sottoriva; A. Spinosa; T. Stabile; M. Stampacchia; H. Stave Tvinnereim; Z. Sternhell; M. Stigliano; G. Tasciotti; G. Tassinari; M. Tieghi; U. Todaro; B. Tofani; P. Togliatti; E. Tognotti; M. Torelli e E. Greco; M. Trabucco; A. Treves; V. Ullo; C. Vallauri; P. Valente e C. Ansaloni; E. Valsecchi; A. Villanueva Paredes e J. Leal Maldonado; T. Vittorio; F. Vòchting; G. Volpe; T. Vorano; P. Zaccagnini; R. Zangrandi; B. Zevi. Più in particolare, però, sul parafascismo di Roosevelt e del New Deal, vedi anche: W. Schivelbusch,
Tre New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di
Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939,
Milano 2008.
Su Edmondo Rossoni: F. Cordova,
Uomini e volti del fascismo,
Roma 1980; A.
Pennacchi, Tresigallo, Vanti-Ferrara del compagno Rossoni, in “Limes”, n. 1-2,2004. Su Camillo Barany: G. Cecini, I soldati ebrei di Mussolini. I militari israeliti nel periodo fascista, Milano 2008; A. Pennacchi, Camillo Barany e il prefetto Ciacone, in “Limes”, n. 5,2009. Il bambino che cade dal treno, invece, è anche in: E. Franzina e A. Parisella, La Merica in Piscinara,
Abano Terme 1986; M. Tieghi,
racconti dei protagonisti,
Latina 1999.
Sabaudia. Storia viva di una città nei
Sulle operazioni belliche in Agro Pontino: P.G. Sottoriva, provincia di Littoria,
Latina 1985.
Igiorni della guerra in
Sulla condotta in guerra e gli eccidi ad opera di italiani: A. Del Boca, brava gente?,
Vicenza 2005; G. Rochat,
Le guerre italiane 1935-1943,
Italiani,
Torino 2005; M.
Dominioni, Lo sfascio dell’impero, Roma-Bari 2008. Le parole fatte pronunciare nel romanzo a Vittorio Mussolini non sono che citazioni tratte dal suo libro Voli sulle Ambe, del 1937 (vedi anche: A. Spinosa, I figli del Duce. Il destino di chiamarsi Mussolini,
Milano 1983).
Sui pomodori, infine: A. Pascale, Scienza e sentimento, Torino 2008. Le fonti orali dovrebbero essere in realtà un elenco sterminato, a partire da Tonino Gava e Filippo Muraglia, Tullio Cinto, Giorgio Girotto, Bruno del bar Mimi, Vittorio Salvini, Guido Chiurato, Gastone il barbiere, Giovanni Modena, Rolando e Carlo Spolon, Aldo Manajslovich, Mario “Palude” Ferrari, Giulio Vona, Vito Ponzio e tutti i parenti Pennacchi, Tosatti, Busatto-Di Biase e rami collaterali. E poi Guglielmo Bonfanti, Franco Bastonini, Nando Cappelletti, Nicola Caratelli, Francesco Celentano, Gianfranco Dal Ben, Mario Della Portella, Romolo Ferrazza, Giordano Luciani, Aldo Mannarelli, Sergio Missio, Domenico Melotto, Raffaello Papaverone, il sor Riziero del bar Poeta, Ugo Serarcangeli, Angelo Trivellato, Giorgio Zeppieri e chissà quanti altri che ora non ricordo. Grazie a tutti. Questo libro – nient’altro che metà del mio dovere, come direbbe mia madre – l’ho scritto anche per loro. Grazie infine per sempre a Mario Scotti, maestro che non c’è più. Ci rivediamo di là quand’è l’ora, Maestro mio, anche con te, insieme a mio fratello e a tutti gli altri.
Indice 9
I
137 II 269 III 457 Ringraziamenti 457 Nota filologica 458 Fonti