RAYMOND CHANDLER ADDIO, MIA AMATA (Farewell, My Lovely, 1940) CAPITOLO I Mi trovavo nei pressi di uno di quei casamenti ...
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RAYMOND CHANDLER ADDIO, MIA AMATA (Farewell, My Lovely, 1940) CAPITOLO I Mi trovavo nei pressi di uno di quei casamenti della Central Avenue non ancora completamente invasi dai negri. Ero appena uscito da un negozietto di barbiere dove, secondo un'agenzia, avrebbe dovuto trovarsi un certo Dimitrios Aleidis, lavorante barbiere. La moglie di Dimitrios Aleidis aveva dichiarato d'essere disposta a spendere qualche soldo perché lui tornasse a casa. Non lo trovai mai. Del resto dalla signora Aleidis non ebbi mai un quattrino. La giornata aveva un tepore di fine marzo. Me ne stavo sulla soglia del negozio di barbiere e guardavo l'insegna al neon del Florian, un locale al secondo piano, mezzo trattoria e mezzo bisca. Anche un altro guardava quell'insegna. Fissava, anzi, quelle finestre polverose, con l'espressione estatica degli emigranti miserabili che arrivano in America e vedono per la prima volta la Statua della Libertà. Era un uomo grande e grosso, non più alto tuttavia di un metro e novantacinque e non più largo di un barile di birra. Si trovava a due o tre metri di distanza da me. Le braccia gli ciondolavano inerti sui fianchi e un sigaro gli fumava fra le dita enormi, ormai dimenticato. Negri smilzi e tranquilli passavano su e giù per la strada e gli gettavano occhiate rapide e furtive. Egli meritava d'esser guardato: portava un cappello floscio felpato, giacca grigia sportiva con bianche palle da golf invece di bottoni, camicia scura, cravatta gialla, calzoni di flanella grigia e scarpe di coccodrillo con decorazioni bianche sulla punta. Dal taschino della giacca zampillava un fazzoletto, giallo vivo come la cravatta. Nel nastro del cappello erano infilate un paio di piume colorate, di cui non si sentiva alcun bisogno. Anche nella Central Avenue, che non è certo la strada più tranquilla del mondo in fatto di vestiti, quell'uomo aveva un'aria fuori posto come una tarantola su un abito bianco da sposa. Era pallido e aveva bisogno di radersi. Sembrava uno che avesse sempre avuto bisogno di radersi. I capelli neri erano ricci; e le spesse sopracciglia quasi si univano sopra il largo naso mentre le orecchie erano troppo piccole e delicate, per una persona di quelle dimensioni. Gli occhi lucidi pare-
vano quasi sul punto di versar lacrime, come spesso capita agli occhi grigi. L'uomo se ne stava lì immobile come una statua. Dopo un po' sorrise. Lentamente si spostò sul marciapiede e raggiunse la porta automatica della scala che portava al secondo piano. L'apri, dette un'occhiata priva d'espressione alla strada, da una parte e dall'altra, ed entrò. Se fosse stato più piccolo, o vestito in modo più modesto, avrei potuto anche pensare che entrasse a fare qualche pasticcio. Ma mica potevo pensarlo, con quel vestito, quel cappello, e quella corporatura. La porta tornò indietro da sola, oscillò, si fermò quasi. Prima di essersi fermata del tutto, tornò ad aprirsi, con violenza, verso l'esterno. Qualcosa volò sul marciapiede atterrando in mezzo alla strada fra due automobili ferme. Cadde sulle mani e sulle ginocchia, facendo un rumore stridulo, come un topo che squittisce in trappola. Si alzò lentamente, ricuperò il cappello e riguadagnò il marciapiede. Era un negro giovane e magro, dalle spalle strette. Portava un vestito viola e un garofano all'occhiello. Aveva i capelli neri lisci. Rimase a bocca aperta, lagnandosi per qualche minuto. La gente lo guardò senza troppo interesse. Allora lui traballando si calcò in testa il cappello, e si allontanò lentamente sotto il muro, camminando sui piedi piatti. Il silenzio ritornò. Il via-vai riprese normale. Io mi accostai a quella porta per osservarla. Ora era immobile. Non era cosa che mi riguardasse. Tuttavia aprii la porta e guardai dentro. Una mano sulla quale avrei potuto sedermi uscì dalla penombra, mi afferrò una spalla e me la strizzò come un limone. Poi mi trascinò dentro la porta e mi sollevò per farmi salire un gradino. La grande faccia mi guardò. Una voce bassa e dolce mi disse con calma: «Pieno di negri, qui dentro. Buono a sapersi, no?». C'erano buio e calma. Dall'alto giungeva un vago rumore di umanità; ma noi eravamo soli sulle scale. Il gigante mi fissò con solennità e continuò a rovinarmi la spalla con la mano. «Uno scarafaggio» disse. «L'ho sbattuto fuori. Hai visto come l'ho sbattuto fuori?». Lasciò andare la mia spalla. L'osso non sembrava rotto, ma io avevo tutto il braccio indolenzito. «È un posto così», feci io massaggiandomi la spalla. «Come ti aspettavi che fosse?». «Oh, non parlare così», rispose con dolcezza l'uomo, col tono di una tigre sazia. «Qui lavorava Velma, la piccola Velma».
Di nuovo mi afferrò la spalla. Tentai di sottrarmi, ma lui fu lesto come un gatto. Riprese a strizzare i miei muscoli con dita di ferro. «Già» fece. «La piccola Velma. Non la vedo da otto anni. Tu dici che questo è un locale di negri?». Io gemetti di sì. Il gigante mi fece salire altri due scalini. Cercai di divincolarmi e di muovere un po' le mani. Non avevo la rivoltella. Per andare in cerca di Dimitrios Aleidis non m'era sembrato che servisse. A che mi sarebbe servita ora se l'avessi avuta? Il gigante era capace di portarmela via e mangiarsela. «Va' un po' a vedere tu stesso», dissi, sforzandomi di mascherare il tono di agonia della mia voce. Di nuovo mi lasciò andare. Mi guardò con una specie di tristezza negli occhi grigi. «Io sono di buon umore», rispose. «Mica voglio litigare con nessuno. Saliamo su insieme e magari beviamo un bicchiere». «Non te lo daranno. Ti ho già detto che è un posto per gente di colore». «Sono otto anni che non vedo Velma», fece con quella sua voce bassa e triste. «Otto lunghi anni che le ho detto ciao. Da sei anni non mi scrive. Avrà avuto le sue ragioni. Lavorava qui. Bellissima era. Saliamo su insieme?». «Va bene», gridai. «Salgo. Salgo. Soltanto piantala di portarmi e lasciami camminare. Sono grande, so camminare, vado al gabinetto da solo, eccetera. Capito?». «La piccola Velma lavorava qui», disse lui dolcemente. Non mi ascoltava. Salimmo su. Mi lasciò camminare da solo. Avevo la spalla che mi faceva male e tutto il collo sudato. CAPITOLO II In cima alla scala c'era un'altra porta automatica. L'omone la spalancò coi pollici ed entrammo. Era una stanza lunga e stretta, non troppo pulita, né luminosa né allegra. In un angolo un gruppo di negri chiacchierava e cantava dentro il cono di luce che sovrastava un tavolo da gioco. Lungo la parete di destra c'era il banco del bar. Pochi avventori, uomini e donne, tutti negri. Il canto al tavolo da gioco s'interruppe e la lampada in quell'angolo si
spense. Ci fu un silenzio improvviso, pesante come una barca piena d'acqua. Alcuni occhi ci fissarono, occhi color castagna, piazzati su facce che andavano dal grigio al nero assoluto. Alcune teste si voltarono lentamente, gli occhi di quelle teste luccicarono, ci fissarono, nel silenzio mortale e straniero di un'altra razza. A un'estremità del bar stava appoggiato un negro robusto, dal collo di toro, con elastici rosa attorno alle maniche della camicia e un paio di bretelle bianche e rosa che gli s'incrociavano sulla schiena larga e robusta. Era un bullo, si vedeva subito. Posò lentamente il piede che teneva sollevato, si voltò pian piano a fissarci, divaricando con calma le gambe e passandosi la grossa lingua sulle labbra. Aveva una faccia devastata, che pareva fosse stata colpita dagli oggetti più diversi. Era appiattita e gonfia, rivoltata e rinsecchita, piena di cicatrici e ricordi vari. Era una faccia che non aveva da temere nulla. Le avevano già fatto tutto quello che si può immaginare. I capelli corti e crespi avevano una sfumatura grigia. Una delle orecchie era senza lobo. Era un negro robusto e ben piantato. Aveva gambe forti e leggermente arcuate, cosa insolita in un negro. Mosse ancora la lingua, sorrise, poi mosse il corpo. Si avvicinò a noi con una guardia sciolta da lottatore. Il gigante lo attese in silenzio. Il negro con gli elastici rosa al braccio posò una grossa mano scura sul petto dell'omone. Grande com'era, essa sembrava una morsa. Il gigante non si mosse. Il bullo sorrise in modo compito. «Niente bianchi, fratello. Solo gente di colore. Spiacente». Il gigante mosse gli occhietti grigi e tristi. Osservò la stanza. Le guance gli diventarono un po' rosse. «Tana di scarafaggi», disse con collera, sottovoce. Poi alzò la voce. «Velma dov'è?» chiese al bullo. Il bullo non rise subito. Osservò il vestito del gigante, la camicia scura e la cravatta gialla, la giacca grigia sportiva con le palle da golf. Mosse il capo con tutta calma e studiò tutto questo da diversi angoli. Poi guardò, in basso, verso le scarpe di coccodrillo. In ultimo ridacchiò. Sembrava divertito. A me dispiacque un po' per lui. Di nuovo parlò, con voce dolce. «Velma, dici? Chi Velma? Niente Velma qui, fratello bianco. Niente ragazze e niente di niente. Capito, bianco?». «Velma lavorava qui», confermò il gigante. Parlava come in sogno, come se fosse a passeggio da solo in un bosco, occupato a cogliere margheritine. Io tirai fuori il fazzoletto e di nuovo mi asciugai dietro il collo. Il bullo all'improvviso scoppiò a ridere. «Sicuro», disse, e gettò una ra-
pida occhiata al suo pubblico dietro le spalle. «Come no», aggiunse. «Velma lavorava qui. Ma non lavora più qui, Velma. È andata in pensione. Ah, ah», rise. «Levami questa mano merdosa dalla mia camicia», disse il gigante. Il bullo corrugò la fronte. Non era abituato a sentirsi parlare così. Tolse dalla camicia la mano e la chiuse in un pugno che aveva le dimensioni e il colore di una noce di cocco. Aveva il suo mestiere e la reputazione della sua durezza di bullo da difendere, il suo prestigio da salvare di fronte agli altri. Doveva tener conto di queste cose. Ne tenne conto per un secondo e commise uno sbaglio. Tirò un pugno forte, veloce, con uno scatto improvviso dell'avambraccio colpì il gigante alla mascella. Tutta la stanza trattenne il fiato. Era un buon colpo. La spalla e tutto il corpo seguirono il pugno. C'era un bel po' di peso in quel colpo, e l'uomo che l'aveva tirato dimostrava un certo allenamento. Il gigante non spostò la testa di un centimetro. Non cercò di schivare il colpo. Lo incassò, si scrollò lievemente, emise un grugnito tranquillo e afferrò il bullo alla gola. Il bullo tentò di colpirlo con una ginocchiata all'inguine. Il gigante lo sollevò in aria e divaricò le gambe, piantando solidamente quelle scarpe incredibili sul pavimento di linoleum. Obbligò il bullo a voltarsi e infilò la mano destra nella sua cintura. La cintura si spezzò come la stringa di una scarpa. Il gigante appoggiò la mano enorme alla Schiena del bullo e spinse. Lo proiettò, mentre ancora barcollava e dimenava le braccia, dall'altra parte della stanza. Tre uomini fecero un salto per togliersi di mezzo. Il bullo crollò insieme a un tavolo, finendo contro la parete con uno schianto che si dovette sentire fino a Denver. Dimenò le gambe, poi rimase immobile. «C'è della gente», dichiarò il gigante, «la quale sbaglia quando crede che è il momento di fare i bulli». Si rivolse a me. «Vieni», disse. «Beviamo qualcosa». Ci avvicinammo al bar. Gli avventori, prima uno, poi due, poi tutti, diventarono ombre tranquille che scivolano silenziose sul pavimento e fuori della porta. Silenziose come ombre sull'erba. Non lasciavano nemmeno che la porta si chiudesse da sé. Ci appoggiammo al banco del bar. «Whisky liscio», disse il gigante. «Tu che prendi?» chiese. «Liscio anch'io», dissi. Prendemmo due lisci. Il gigante guardò impassibile il suo whisky nel grande bicchiere dal fon-
do piatto. Fissò con solennità il barista, un negro in giacca bianca, che aveva una faccia preoccupata e si agitava come se i piedi gli facessero male. «Sai dov'è Velma, tu?» chiese. «Velma chi, signore?», il barista gemette. «Mai vista qui ultimamente. Proprio mai vista, signore». «Da quanto tempo sei qui?», il gigante domandò. «Ecco», disse il barista. Posò il tovagliolo e corrugando la fronte cominciò a contare sulle dita. «Saranno dieci mesi, mi pare. Sarà un anno. Sarà...». «Deciditi», disse il gigante. Il barista ebbe un singulto e il suo pomo d'Adamo vagò sperduto come un pulcino senza testa. «Da quanto tempo questa stiva è diventata una tana di scarafaggi?» chiese il gigante. «Come, signore?». Il gigante strinse il pugno e il bicchiere di whisky scomparve quasi interamente tra le sue dita. «Cinque anni almeno», intervenni. «Questo qui non sa niente di una ragazza bianca di nome Velma. Nessuno ne sa un bel niente qui». Il gigante mi guardò come se io spuntassi fuori in quel momento. Il whisky liscio non sembrava averlo messo di umore migliore. «Chi diavolo ti ha detto di ficcare il naso?» chiese. Io sorrisi. Mi sforzai di cacciar fuori un sorriso caldo, cordiale. «Sono l'amico che è venuto qui con te. Ti ricordi?». Lui mi rispose con una smorfia senza significato. «Whisky liscio», ordinò al barista. «E pulisciti il naso». Il barista si dette da fare facendo roteare il bianco degli occhi. Io mi appoggiai al bar con la schiena e guardai la stanza. Ora era vuota, c'eravamo solo il barista, il gigante, io e il bullo abbattuto accanto alla parete. Il bullo si muoveva, lentamente, con dolore e con sforzo. Strisciava accanto alla parete come una mosca con un'ala sola. Si muoveva dietro i tavoli, con aria stanca e avvilita. Era un uomo che all'improvviso era diventato vecchio e aveva perduto tutte le illusioni. Io lo guardavo muoversi. Il barista versò altri due whisky lisci. Mi voltai di nuovo verso il bar. Il gigante dette un'occhiata distratta al bullo che strisciava e poi non gli badò più. «Qui non c'è rimasto più niente», si lamentò. «C'era un palcoscenico con l'orchestra e c'erano delle camerette simpatiche dove uno si poteva divertire. Velma cantava. Aveva i capelli rossi. Bellissima era. Bella come le mu-
tande col pizzo, capisci. Eravamo sul punto di sposarci quando presero in trappola me». Io bevvi il secondo liscio. Cominciavo ad averne abbastanza di quell'avventura. «Che trappola?» chiesi. «Dove pensi che sono stato in questi otto anni di cui ti ho parlato?». «A caccia di farfalle», dissi. Il gigante si puntò sul petto il dito indice che sembrava una banana. «Al fresco sono stato. Mi chiamo Malloy. Moose Malloy. Il colpo della banca di Great Bend. Quarantamila. Un "a solo". Mica male, no?». «E adesso pensi di spenderli?». Mi dette una brusca occhiata. Dietro di noi ci fu un rumore. Il bullo si era rialzato in piedi e si agitava un po'. Teneva la mano sulla maniglia di una porticina dietro il tavolo da gioco. Aprì la porta e quasi cadde fuori. La porta si chiuse con un colpo. Si sentì scattare un catenaccio. «Dove si va di là?» chiese Moose Malloy. Gli occhi del barista rotearono e con difficoltà riuscirono a mettersi a fuoco sulla porta dalla quale era appena uscito il bullo. «Quello... quello è l'ufficio del signor Montgomery. Lui è il padrone. Ha il suo ufficio lì dietro», disse. «Lui magari lo sa», mormorò il gigante. Bevve il suo whisky d'un sorso. «Sarà meglio se non fa lo spiritoso. Altri due lisci». Attraversò lentamente la stanza, con passo tranquillo, noncurante. Le sue enormi spalle nascosero la porta. Era chiusa. Il gigante la scosse e un pezzo di legno si staccò e cadde di fianco. Egli entrò e chiuse la porta dietro di sé. Ci fu silenzio. Io guardai il barista, il barista guardò me. I suoi occhi divennero pensierosi. Pulì il banco, sospirò, e abbassò il braccio destro. Io tesi la mano e glielo afferrai. Era un braccio magro, fragile. Tenendolo fermo gli sorrisi. «Che cos'hai lì, bello?». Lui si passò la lingua fra le labbra. Si appoggiò al mio braccio e non rispose. La sua faccia lucida diventava sempre più grigia. «Quello lì è cattivo», avvisai io. «È capace di fare sul serio. Bere gli fa quest'effetto. Sta cercando una ragazza di sua conoscenza. Questo posto era una casa per bianchi. Capito?». Il barista si passò di nuovo la lingua fra le labbra. «È stato via molto tempo», aggiunsi, «Otto anni. È strano che lui non si renda conto come son lunghi otto anni. Io avrei pensato che gli dovessero
sembrare una vita intera. Lui crede che la gente qui deve sapere dov'è la sua ragazza. Capito?». Il barista disse lentamente: «Credevo che voi foste con lui». «Non ho potuto evitarlo. Mi ha fatto una domanda e mi ha trascinato su. Ma non ho voglia di farmi trascinare in altri posti. Su, bello: che cosa hai lì?». «Ho un mitra», rispose il barista. «È contro la legge», mormorai io. «Ascolta, bello. Tu e io siamo insieme. Hai altro?». «Ho una pistola», disse il barista. «In una scatola da sigari. Lasciatemi andare il braccio». «Bene», dissi io. «Ora spostati un po'. Di più. Di fianco. Non è il momento di tirar fuori l'artiglieria». «Lo dite voi», replicò il barista con una smorfia e si appoggiò con tutto il suo stanco peso al mio braccio. «Lo dite voi», ripeté. S'interruppe. Gli rotearono gli occhi e scrollò la testa. Si udì un rumore sordo alle nostre spalle, oltre la porta che era dietro il tavolo da gioco. Poteva essere una porta sbattuta. Ma io non pensai che fosse questo. Neanche il barista lo pensò. Il barista diventò un pezzo di ghiaccio. La sua bocca fu presa da un tremito. Rimasi in ascolto. Nessun altro rumore. In fretta mi diressi verso la estremità del bar. Ero stato in ascolto troppo a lungo. La porta si aprì con uno scatto e uscì Moose Malloy. Avanzò a grandi passi e si fermò, a gambe divaricate, con una smorfia pallida sul volto. Una Colt militare calibro 10 sembrava un giocattolo in mano a lui. «Cercate di non farvela nelle mutande», disse pacatamente. «Mettete le manine sul bar». Il barista e io obbedimmo. Moose Malloy rastrellò la stanza con un'occhiata. Sul suo volto c'era una smorfia dura, fissa. Fece scivolare i piedi e si mosse silenzioso per la stanza. Aveva l'aria di un uomo capace di scassinare una banca con una mano sola. Anche vestito in quel modo. Venne al bar. «In alto, negro», ordinò. Il negro spinse le mani in aria, molto in alto. Il gigante venne dietro le mie spalle e mi tastò accuratamente con la mano sinistra. Sentivo sul collo il suo fiato caldo. Poi si allontanò. «Neanche il signor Montgomery sapeva dove fosse Velma», spiegò. «Voleva dirmelo... con questa». Picchiò con la sua dura mano sulla rivoltella. Io mi voltai lentamente e lo guardai. «Già», disse lui. «Così mi cono-
sci. Mica mi dimenticherai facilmente. Puoi dire agli altri che non bisogna perder la testa e fare imprudenze». Agitò la rivoltella. «Bene, addio, stupidi. Devo prendere un taxi». Si avviò verso le scale. «Non hai pagato le consumazioni», dissi io. Egli si fermò e mi scrutò. «Magari hai lì qualcosa», rispose. «Ma non voglio cavartela fuori». Si mosse, dirigendosi verso la porta automatica; i suoi passi sembrarono lontani mentre scendeva le scale. Il barista crollò. Io saltai dietro il banco e lo spinsi da parte. In una scansia sotto un tovagliolo c'era una pistola mitragliatrice. Accanto c'era una scatola da sigari. Nella scatola si trovava una rivoltella automatica cal. 9. Le presi tutte e due. Il barista si schiacciò contro le file di bicchieri dietro il bar. Uscii da dietro il bar, attraversai la stanza, arrivai alla porta che era dietro il tavolo da gioco. Oltre l'uscio c'era un corridoio a forma di L quasi buio. Il bullo giaceva disteso al suolo privo di sensi, con un coltello in mano. Mi chinai, presi il coltello e lo gettai da un finestrino. Il bullo respirava affannosamente e la sua mano era flaccida. Lo scavalcai, andai avanti e aprii una porta sulla quale in vernice nera era scritto «Ufficio». C'era una piccola scrivania scheggiata davanti a una finestra quasi tutta coperta di tavole di legno. Nella sedia dietro la scrivania stava ritto il torace di un uomo. La sedia aveva un alto schienale che arrivava al collo di lui. La testa era piegata sulla spalliera, di modo che il naso era in direzione delle tavole che coprivano la finestra. Piegata, dico, come un fazzoletto o una cerniera. Alla destra dell'uomo c'era un cassetto della scrivania aperto. Dentro, si vedeva un giornale con una macchia d'olio al centro. La rivoltella doveva esser venuta di lì. Probabilmente in quel momento gli era sembrata una buona idea, ma la posizione della testa del signor Montgomery provava che era stata un'idea sbagliata. C'era un telefono sulla scrivania. Posai la mitragliatrice e chiusi a chiave la porta prima di chiamare la polizia. Mi sentivo così più sicuro e il signor Montgomery non sembrava preoccuparsi della cosa. Quando i ragazzi della polizia salirono le scale, il bullo e il barista erano scomparsi e io ero rimasto padrone del posto. CAPITOLO III
Il caso fu affidato a un tale di nome Nulty, un tipo triste e malinconico con una mascella prominente e delle lunghe mani gialle. Egli le teneva quasi sempre sulle ginocchia quando parlava con me. Era un tenente assegnato alla Divisione della 77a Strada. Parlavamo in una piccola stanza con due scrivanie una di fronte all'altra, e spazio sufficiente per passare tra le due scrivanie, purché non si muovessero che due persone alla volta. Il pavimento era coperto di linoleum scuro sporco e l'aria era piena dell'odore di vecchie cicche di sigaro. Nulty aveva la camicia rammendata e le maniche della giacca ripiegate internamente ai polsi. Sembrava povero abbastanza da essere onesto, ma non aveva l'aria di uno che potesse farsela con Moose Malloy. Accese mezzo sigaro e gettò il cerino sul pavimento, dove già molti altri lo attendevano. La sua voce disse amaramente: «Scarafaggi. Un'altra uccisione di scarafaggi. Ecco che cosa mi capita dopo diciotto anni di servizio. Niente taglia e niente stampa. Nemmeno due righe di cronaca». Io non dissi niente. Lui prese il mio biglietto da visita, lo lesse di nuovo e poi lo buttò via. «Philip Marlowe. Investigatore privato. Così siete anche voi uno di quelli, eh? Cristo, eppure sembrate abbastanza in gamba. Che cosa avete fatto in tutto quel tempo?». «Tutto quale tempo?». «Tutto il tempo durante il quale Malloy torceva il collo del suo negro». «Oh, quello accadde in un'altra stanza. Malloy non mi aveva avvertito che voleva rompere il collo a qualcuno». «Sfottete», disse Nulty con amarezza. «Avanti, sfottete pure. Lo fanno tutti. Che c'è di nuovo? Povero vecchio Nulty. Andiamo a trovare Nulty e a sfotterlo un po'. Serve sempre per farcisi due risate, il vecchio Nulty». «Non sfotto», risposi. «Fu così che successe: in un'altra stanza». «Oh, sicuro», disse Nulty attraverso un ventaglio di fumo stantio. «E poi, io sono stato là a vedere, no? Dite: ma voi girate senza canna del tutto?». «Non ne porto in quel genere di faccende». «Faccende di che genere?». «Cercavo un barbiere che è fuggito di casa abbandonando la moglie. Lei pensa che si possa persuaderlo a tornare a casa». «Negro?».
«No, greco». «Bene», fece Nulty, e sputò nel cestino della carta straccia. «Benissimo. E l'omone come l'avete conosciuto?». «Ve l'ho già detto. Mi trovavo lì per caso. Lui scaraventò un negro fuori dalla porta del Florian e io ficcai dentro la testa per vedere che succedeva. Allora lui mi fece salire su». «Vi minacciò a mano armata?». «No, non aveva l'arma in quel momento. O almeno non la mostrò. La rivoltella la tolse a Montgomery, probabilmente. No, mi prese e mi portò di sopra, semplicemente. Si vede che alle volte piaccio». «Non saprei», Nulty disse. «Ma sembra che sia piuttosto facile portarvi di sopra». «Benissimo», replicai. «Perché poi discutere? L'ho visto io quel tipo, e non voi. Poteva portare me o voi come un orologio da polso. Non sapevo che lui avesse ucciso qualcuno, finché non se ne fu andato. Avevo sentito lo sparo, ma pensai che qualcuno avesse sparato a Malloy e che Malloy gli avesse portato via la rivoltella, chiunque fosse stato». «Come potete pensare a una cosa simile?» chiese Nulty con tono quasi suadente. «Si servì di una rivoltella, credo, per scassinare quella banca. O no?». «Pensate ai vestiti che aveva indosso. Non si trovava lì per uccidere qualcuno. Non ci si va vestiti in quel modo. Lui andava a cercare quella ragazza di nome Velma, che era stata la sua amica prima che lo pizzicassero per il colpo della banca. Lei lavorava lì al Florian o comunque si chiamasse quel posto quando era ancora una casa per bianchi. Lo pizzicarono lì. Vedrete che vi riuscirà di acciuffarlo». «Come no», Nulty disse. «Con quella corporatura e quei vestiti. Facilissimo». «Può darsi che abbia un altro vestito», osservai. «E un'auto, un nascondiglio, del denaro, degli amici. Ma lo prenderete». Nulty sputò di nuovo nel cestino. «Lo prenderò», disse, «quando metterò i denti per la terza volta. Sapete quanti si occupano di questa faccenda? Uno solo. Dite: e sapete perché? Niente stampa. Una volta ci furono cinque negri che si fecero fuori le budella a vicenda nella 84a Est. Uno era già freddo. C'era sangue sui mobili, sulle pareti, sangue persino sul soffitto. Io scendo giù e trovo uno che lavora al Chronicle, un informatore. Egli usciva dal portone e stava per salire sulla sua macchina. Ci fa una smorfia e dice: "Uff, scarafaggi". Sale in macchina e se ne va. Non entra nemmeno
nella casa». «Forse non gl'interessava», feci io. «Ma dovete sempre stare attento a come li trattate. Altrimenti sono capaci di montarvi una grana. E allora la stampa si occuperebbe certamente di voi». «E non mi affiderebbero più nemmeno un caso, vero?» rispose Nulty. Il telefono squillò sulla sua scrivania. Egli prese la comunicazione, ascoltò, sorrise con un'espressione di pena. Riappese e scrisse un appunto sul taccuino. C'era un debole bagliore nel suo sguardo, come una luce lontana in fondo a un corridoio buio. «L'hanno trovato», disse. «Era l'archivio. Hanno le impronte, le foto e tutto il resto. Cristo, è sempre qualcosa». Lesse nel taccuino. «Cristo, che uomo. Un metro e novanta, centotrenta chili, senza la cravatta. Che ragazzo, Cristo. Bene, che vada al diavolo. Ora han dato la notizia alla radio. Non c'è che aspettare», gettò il sigaro nella sputacchiera. «Cercate la ragazza», consigliai. «Velma. Malloy la cercherà. È cominciata di lì la storia. Perciò cercate Velma». «Cercatela voi», disse Nulty. «Sono vent'anni che io non entro in una casa di piacere». Io mi alzai. «Va bene», dissi. E mi avviai verso la porta. «Un momento», Nulty disse. «Scherzavo. Non avete troppe cose da fare. No?». Rigirai una sigaretta fra le dita e lo guardai restando accanto alla porta. «Voglio dire, voi avete il tempo di dare un'occbiata in giro per questa gentildonna. È una buona idea che avete avuto. Potreste cavarne fuori qualcosa. E intanto lavorereste sotto vetro». «E che ci guadagno?». Nulty aprì con tristezza le mani gialle. Il suo sorriso aveva la grazia di una trappola rotta per sorci. «Avete già avuto dei pasticci con noi. Non ditemi di no. A me hanno detto di sì. La prossima volta non vi farà male avere un amico». «Ma che utile devo averne?». «Sentite», Nulty insistette. «Io sono un tipo tranquillo. Ma chiunque in questo dipartimento può farvi avere un sacco di grane». «Devo farlo per amore», chiesi, «o mi pagate qualcosa in denaro?». «Niente denaro», Nulty rispose, e arricciò il naso triste e giallognolo. «Ma io non dimenticherei. Mai». Guardai l'orologio. «Bene», replicai. «Vuol dire che se mi viene qualche idea, ve la cedo. E quando prendete il tizio, ve lo identifico io. Dopo pran-
zo, naturalmente». Ci stringemmo la mano e io uscii nel corridoio color fango, discesi le scale, raggiunsi la mia automobile in strada. Erano passate due ore dal momento in cui Moose Malloy aveva lasciato il Florian con la Colt in pugno. Feci colazione in una rosticceria, comprai mezzo litro di whisky, poi mi diressi in macchina a est, verso la Central Avenue, e a nord, rientrando nella Central Avenue. La spinta che sentivo era imprecisa come le ondate di calore che danzavano sui marciapiedi. La cosa mi riguardava soltanto per curiosità. Ma, a rigore, da un mese ero praticamente senza lavoro. Anche un lavoro gratis significava cambiare. CAPITOLO IV Il Florian naturalmente era chiuso. Un tale in borghese, dall'aria assai poco misteriosa, se ne stava a leggere il giornale in un'automobile ferma lì davanti. Non si capiva perché si prendessero quella pena. Nessuno lì sapeva niente, di Moose Malloy. Il bullo e il barista non s'erano più trovati. Nessuno di tutto il vicinato sapeva niente di loro. Passai lentamente con la mia automobile e mi fermai all'angolo, osservando un albergo di negri che faceva parte dello stesso isolato del Florian. Si chiamava Hotel Sans Souci. Io scesi dalla macchina ed entrai nell'albergo. Due file di ruvide e vuote seggiole di legno erano allineate di fronte ai lati di una striscia di tappeto fatto di fibra. In fondo, nella penombra, c'era un banco e dietro il banco un uomo calvo teneva gli occhi socchiusi con le mani scure pacificamente intrecciate sul piano del banco. Dormiva o pareva dormire. Portava una cravatta a farfalla che aveva l'aria di essere stata annodata verso il 1880. La pietra verde che ornava la spilla sulla cravatta era poco più piccola di una mela. Il grosso mento era chinato sulla cravatta; le mani erano pacifiche, pulite e ben curate, con mezze lune grigie in mezzo al rosso delle unghie. Accanto a lui c'era una targa di metallo su cui era scritto: «Questo albergo è sotto la protezione della Società Agenzie Internazionali». Quando quell'uomo pacifico aprì un occhio pensieroso e mi guardò, io indicai la targa. «Sono dell'R.P.A.», dissi, «in ispezione. Avete pasticci qui?». L'R.P.A. è il Reparto Protezione Alberghi, ossia un settore di una grande agenzia che si occupa dei clienti che danno assegni a vuoto e di quelli che se ne vanno dalla scala di servizio senza pagare il conto, lasciando valigie
usate piene di mattoni. «I pasticci, fratello», rispose l'impiegato con una voce sonora, «ce li sbrighiamo da noi». Abbassò un po' la voce e chiese: «Come avete detto che è il vostro nome?». «Marlowe. Philip Marlowe». «Bel nome, fratello. Pulito e allegro. Sembrate anche di buon umore. Vi trovo molto bene». Abbassò di nuovo la voce. «Ma non siete dell'R.P.A. Non è mai venuto nessun ispettore dell'R.P.A. in tanti anni». Indicò languidamente la targa. «Quella l'ho comprata usata, fratello, solo per figura». «Bene», risposi. Mi chinai sul banco e mi misi a giocherellare con una moneta da mezzo dollaro sul legno grezzo del banco. «Sentito», continuai, «quello che è successo stamattina al Florian?». «Sentito e dimenticato, fratello». Ma i suoi occhi fissavano il bagliore che mandava la moneta. «Fatto fuori il padrone», io dissi. «Un tale di nome Montgomery. Gli hanno tirato il collo». «Il Signore accolga l'anima sua, fratello». La voce si abbassò di nuovo. «Polizia?». «Investigatore privato. In missione segreta. Riconosco un uomo che sa tenere il segreto quando ne incontro uno». Lui mi studiò, poi chiuse gli occhi e meditò. Li riaprì con cautela e guardò la moneta. Non riusciva a non guardarla. «Chi è stato?» chiese. «Chi ha fatto fuori Sam?». «Un brutto tipo uscito di prigione; si è arrabbiato perché quella non era una casa per bianchi. Pare che lo sia stata, prima. Ve ne ricordate voi?». Lui non rispose. La moneta dopo aver girato come una trottola cadde con un rumore secco e rimase immobile. «Decidete», dissi. «Vi leggo un capitolo della Bibbia o vi offro da bere. Scegliete voi». «Fratello, a me piace leggere la Bibbia nel raccoglimento della mia famigliola». I suoi occhi luccicavano e mi fissavano. «Magari avete appena pranzato», insinuai. «Il pranzo», egli disse, «è sempre una cosa cui un uomo della mia indole e della mia condizione sociale ambisce di fare a meno». La voce si abbassò. «Passate da questa parte del banco». Io feci il giro, tirai fuori la bottiglia di whisky e la posai sullo scaffale. Poi tornai dov'ero prima. L'uomo esaminò la bottiglia e sembrò soddisfatto.
«Con questo mica comprate niente, fratello», precisò. «Ma è un piacere bere un sorso in vostra compagnia». Aprì la bottiglia, posò due bicchieri sul banco e li riempì fino all'orlo. Ne sollevò uno, lo annusò scrupolosamente, poi se lo portò alla bocca e se lo versò in gola, tenendo il mignolo sollevato. Sentì il sapore, ci pensò un po' sopra, poi fece segno di sì e disse: «Viene dalla bottiglia giusta, fratello. In che modo posso esservi utile? Non c'è nessuno qui intorno che io non chiami per nome. Sissignore, questo liquore è una simpatica compagnia». Tornò a riempire il bicchiere. Gli dissi quello che era successo al Florian e perché. Egli mi guardò con solennità e scosse la testa calva. «Era un bel posticino tranquillo quello di Sam», disse. «Da un mese lì dentro non avevano accoltellato nessuno». «Quando il Florian era una casa per bianchi sette o otto anni fa, come si chiamava?». «Le insegne elettriche costano care, fratello». Io annuii. «Avevo già pensato che doveva avere lo stesso nome. Malloy avrebbe detto qualcosa, se il nome fosse stato cambiato. Ma il proprietario come si chiamava?». «Mi sorprendete un poco, fratello. Il nome di quel povero peccatore era Florian. Mike Florian». «E che è successo di Mike Florian?». Il negro aprì le mani e allargò le braccia. La voce divenne sonora e triste. «Morì. Fu chiamato dal Signore. Nel '34, o forse fu nel '35. Non so con precisione. Una vita perduta, e un caso di reni che non funzionavano. L'infelice peccatore cadde come un agnello sgozzato, fratello, ma lassù lo attendeva l'infinita misericordia». La voce riprese un tono normale. «Perché poi, chi lo sa». «E chi ha lasciato? Versatevi ancora da bere». Il negro tappò decisamente la bottiglia e la allontanò da sé. «Due sono abbastanza, fratello, prima di sera. Vi ringrazio. I vostri metodi di approccio sono molto lusinghieri per la dignità personale. Lasciò una vedova. Si chiamava Jessie». «E che è successo di costei?». «È lo scopo della conoscenza, fratello, poter giungere a porre molti quesiti. Io non ne so niente. Cercate nell'elenco telefonico». C'era una cabina in fondo alla sala. Io vi entrai e tenni aperta la porta in modo da avere un po' di luce. Cercai nell'elenco slabbrato, assicurato al muro con una catenella. Non c'era nessun Florian. Poi tornai al banco.
«Non c'è niente», dissi. Il negro si chinò di malavoglia, sollevò sul banco una guida cittadina e la spinse dalla mia parte. Chiuse gli occhi. Cominciava a seccarsi. Nel libro figurava una Jessie Florian, vedova. Abitava al 1644, West 54th Place. Mi chiesi come avessi adoperato il cervello in tutta la mia vita. Scrissi l'indirizzo su un pezzo di carta e respinsi attraverso il piano del banco la guida. Il negro la rimise a posto dove l'aveva presa, mi strinse la mano, poi piegò le braccia e intrecciò le dita sul banco nella stessa esatta positura di quando io ero entrato. (ìli si chiusero lentamente gli occhi e parve addormentarsi. Per lui l'incidente era chiuso. Dalla porta mi voltai a dargli uno sguardo. Aveva gli occhi chiusi e respirava in modo tranquillo e regolare, emettendo un piccolo soffio dagli angoli delle labbra ad ogni espirazione. La testa calva luccicava. Uscii dall'Hotel Sans Souci e attraversata la strada raggiunsi la mia automobile. Pareva troppo facile. Tutto pareva veramente troppo facile. CAPITOLO V 1644, West 54th Place, era una casa scura e vecchia con un giardino incolto davanti. Una vasta zona sgombra circondava quella che sembrava una palma. Sotto il portico c'era una sedia a dondolo solitaria. Una fila di panni gialli e mezzo lavati penzolava ad asciugare nel cortiletto laterale. Io proseguii fino all'angolo dell'isolato, parcheggiai la macchina e tornai indietro a piedi. Il campanello non funzionava. Così bussai sull'intelaiatura di legno della porta a vetri. Ci fu un rumore lento di passi, la porta si aprì e io mi trovai a fissare nella penombra una donna grassa che si soffiò il naso mentre apriva l'uscio. La sua faccia era grigia e paffuta. Aveva capelli stopposi di quel colore impreciso che non è né bruno né biondo, che non è vivo abbastanza per esser rosso, né sufficientemente pulito da esser grigio. Il suo corpo era grosso in un informe accappatoio di flanella che aveva da molte lune perduto ogni disegno e ogni colore. I piedi erano grandi e vistosi in un paio di ciabatte da uomo di cuoio scuro. Chiesi: «La signora Florian? La signora Jessie Florian?». «Ah», fece la voce uscendo dalla gola di lei come un malato che si alza dal letto. «Siete voi la signora Florian il cui marito gestiva tempo fa un locate di
pubblico divertimento in Central Avenue? Mike Florian?». La donna si accomodò una ciocca di capelli dietro una delle grosse orecchie. Brillò uno sguardo di sorpresa nei suoi occhi. La voce pesante e tremante chiese: «Che cosa? Sì, sono io in persona. Sono cinque anni che Mike se n'è andato. Chi avete detto che siete?». La porta era ancora aperta soltanto a metà e fermata con la catena. «Sono un detective», dissi. «Ho bisogno di certe informazioni». Lei mi fissò per un intero terribile minuto. Poi con uno sforzo tolse la catena e si fece da parte. «Passate allora», rispose. «Non ho ancora fatto a tempo a mettermi in ordine. Polizia, eh?». Io entrai e chiusi la porta col catenaccio alle mie spalle. A sinistra dell'uscio, in fondo alla stanza, ronzava una grossa radio. Era l'unico mobile dignitoso che ci fosse in quel posto. Sembrava esser nuovissima. Tutto il resto era roba vecchia: poltroncine impagliate e sporche, una sedia a dondolo che faceva il paio con quella sotto il portico, un arco rettangolare che dava nella sala da pranzo, dove si trovavano una tavola tutta macchiata e la porta della cucina, coperta dalle impronte delle dita sporche. C'erano anche un paio di lampade con paralumi che un tempo dovevano metter in risalto i loro disegni fantasia e ora avevano l'allegria di vecchie peripatetiche. La donna si sedette sulla sedia a dondolo, si sfilò le pantofole e mi piantò gli occhi in viso. Io volsi lo sguardo verso la radio e mi sedetti sull'orlo di una scrivania. Lei vide che guardavo la radio. Un buonumore forzato affiorò nella voce di lei. «È l'unica compagnia che ho», disse. Poi fece un risolino. «Mike non ne avrà fatta una delle sue? Non viene a trovarmi spesso la polizia». Il suo risolino aveva un leggero timbro da alcolizzata. Io, appoggiandomi indietro, sentii una cosa dura. La presi ed era una bottiglia di gin da un quarto. La donna ebbe un altro risolino. «Scherzavo», disse. «Ma spero davvero che dove si trova possa incontrar delle bionde a buon mercato. Quaggiù non ne ha mai avute abbastanza». «Pensavo piuttosto a una rossa», dissi io. «Credo che anche qualche rossa gli andasse a genio». Il suo sguardo, mi sembrò, non era più tanto indeciso. «Non ricordo. Una rossa speciale?». «Sì. Una ragazza di nome Velma. Il cognome che portava non lo conosco, so soltanto che non era quello vero. Sto cercando di rintracciarla per
conto dei suoi parenti. Il vostro locale in Central Avenue adesso è un locale per gente di colore, per quanto non gli abbiano cambiato nome. Naturalmente quelli lì non l'hanno mai sentita nominare. Così ho pensato di rivolgermi a voi». «Hanno aspettato parecchio i suoi parenti a occuparsene... a cercare di rintracciarla», disse pensierosa la donna. «Ci sono dei soldi di mezzo. Non molti. Credo che debbano trovare lei per poter avere quei soldi. E il denaro rinfresca la memoria». «Anche l'alcool», la donna precisò. «Fa un bel caldo oggi. No? Comunque avevate detto che eravate un poliziotto». I suoi occhi erano astuti, la faccia attenta. I piedi nelle pantofole da uomo non si mossero. Io scossi la bottiglia del gin e vidi che era vuota. La misi da parte e presi dalla tasca posteriore la bottiglia di whisky che io e il portiere negro dell'albergo avevamo tappato poco prima. La posai sul ginocchio. La donna mi fissò con uno sguardo incredulo. Poi il suo volto prese un'espressione sospettosa. «Mica siete un poliziotto», disse piano. «Mai si è visto un poliziotto comprare quella roba. A che gioco giochiamo, signorino?». Si soffiò di nuovo il naso con uno dei fazzoletti più sporchi che io avessi mai visto. Gli occhi erano fissi sulla bottiglia. Si svolse una lotta fra la diffidenza e la sete, e la sete ne uscì vittoriosa. Succede sempre così. «Quella Velma era un'artista, una cantante. Non la conoscevate? Penso che non siate andato spesso in quel posto». Gli occhi verdemare fissavano la bottiglia. Fra le labbra compariva la lingua tutta impastata. «Giovanotto, quella è roba da bere», la donna sospirò. «Non mi frega niente chi siate e chi non siate. Però stateci attento un po'. Non è mica il momento di versar per terra niente». Si alzò, uscì dalla stanza e ritornò con due grossi bicchieri sporchi. «Non c'è altro. Solo quello che avete portato voi», annunziò. Io ne versai nel suo bicchiere una quantità che a me sarebbe bastata per tagliarmi le gambe. Lei l'afferrò avidamente e l'ingoiò come si fosse trattato di una pasticca di aspirina. Poi guardò la bottiglia. Io gliene versai un altro bicchiere e un po' meno per me. Lei prese il bicchiere e tornò alla sedia a dondolo. Aveva già due occhiaie nere. «Giovanotto, questa roba dentro di me finisce nel modo migliore», sentenziò sedendosi. «Di che stavamo parlando?». «Di una ragazza dai capelli rossi di nome Velma che lavorava nel vostro
locale in Central Avenue». «Già». Vuotò il secondo bicchiere. Io mi avvicinai tenendo sollevata la bottiglia. Lei tese il bicchiere. «Già», ripeté. «Chi avete detto che siete?». Tirai fuori un biglietto da visita e glielo detti. Lei lo lesse muovendo le labbra, lo gettò sul tavolo e vi posò sopra il bicchiere. «Poliziotto privato, così. Non l'avevate detto questo, signorino». Mi minacciò con un dito e un'aria di rimprovero scherzoso. «Ma il vostro whisky ad ogni modo vuol dire che in questo siete una persona per bene. Alla salute dei delinquenti». Si versò un altro bicchiere e lo vuotò. Io mi sedetti rigirando una sigaretta fra le dita e attesi. Quella donna o sapeva qualcosa o no. Se sapeva qualcosa, o me lo diceva o no. Era semplicissimo. «Una gran bella rossa», disse lei, con voce lenta e spessa. «Sicuro, me la ricordo. Cantava e ballava. Aveva gran belle gambe e le mostrava con generosità. Se ne andò in qualche posto. Come posso saperlo io che cosa fanno delle vagabonde come lei?». «Non ho mai pensato che doveste saperlo», risposi. «Soltanto era naturale venirlo a chiedere a voi, signora Florian. Servitevi pure del whisky. Posso andare a prenderne dell'altro quando vogliamo». «Voi non avete bevuto», disse improvvisamente lei. Io misi la mano intorno al bicchiere e bevvi lentamente per dare a vedere che ce ne fosse più di quanto ce n'era in realtà. «Dove sono i suoi parenti?» chiese all'improvviso la donna. «Che importanza ha?». «Benissimo», disse con una smorfia. «I poliziotti sono tutti uguali. Va benissimo, bello mio. Per me uno che mi offre da bere è un amico». Prese la bottiglia e si versò il bicchiere numero quattro. «Non dovrei darvi confidenza. Ma quando uno è simpatico a me, non c'è niente da fare». Ingoiò. Era in gamba come un lavandino. «Restate lì», disse. «Mi è venuta un'idea». Si alzò dalla sedia a dondolo, sbuffò, stette per perdere l'accappatoio e se lo raggiustò sulla pancia. Mi guardò con freddezza. «Niente curiosare», disse. Uscì di nuovo dalla stanza, chiudendo la porta con una spalla. La sentii camminare incespicando nell'altra stanza. Sul muro esterno battevano le rampicanti secche mosse dal vento. La corda, sulla quale erano stesi ad asciugare i panni, gemeva. La grande radio, nuova e bellissima, mormorava dal suo angolo suoni di danza e d'amo-
re con un tono basso e ritmato che sembrava la voce di un negro. Poi dall'altra stanza vennero parecchi rumori. Una sedia cadde in terra, il cassetto di un mobile fu aperto con troppa violenza e batté sul pavimento. Si udivano calpestio, tramestio e borbottio. Poi si sentì lo scatto di una serratura e il coperchio di un baule stridette sollevandosi. Ancora tramestio. Un vassoio cadde a terra. Io mi alzai dalla scrivania dov'ero seduto, entrai nella sala da pranzo e da questa in un breve corridoio. Dalla soglia di una porta che era aperta, guardai. La donna era davanti al baule aperto, rovistava e arraffava tutto il contenuto, gettando i capelli indietro con rabbia. Era più ubriaca di quel che pensasse. Si chinò poggiandosi sul baule tossendo e sospirando affannosamente. Poi si inginocchiò, mettendosi a frugare, con tutte e due le mani. Le mani uscirono dal baule reggendo a malapena una cosa. Era un grosso pacco legato con un nastro rosa. Lentamente la donna slegò il nastro. Tolse dal pacco una busta e la ficcò in una sacca laterale del baule. Poi tornò a legare il pacco, con dita incerte. Tornai per la via donde ero arrivato e mi sedetti di nuovo sulla scrivania. Respirando affannosamente la donna entrò nella stanza e dalla soglia della porta agitò trionfalmente il pacco legato col nastro rosa. Mi fece un ghigno, gettando l'involto quasi ai miei piedi. Tornò alla sedia a dondolo e riafferrò il whisky. Io raccolsi il pacco dal pavimento e slegai il nastro rosa sbiadito. «Guardatele voi», disse la donna. «Sono foto. Pose per i giornali. Quelle vagabonde non finivano mai sul giornale, a meno che non avessero grane con la polizia. È tutta gente di quel locale. Sono le uniche cose che mi abbia lasciato quel fetente di mio marito: queste foto e i suoi vestiti vecchi». Sfogliai il pacco delle lucide fotografie di uomini e donne in pose professionali. Le facce degli uomini erano aguzze e volpine; essi erano in abito da sera o in costume da pagliacci. Ballerini e comici di basso rango. Pochi di loro avevano qualche speranza di passare a ovest di Main Street. Erano di quelli che s'incontrano nei locali di varietà, un po' ripuliti, oppure negli spettacoli di «burlesque» da quatti o soldi, triviali e luridi fin dove la legge lo consente ed ogni tanto un po' di più, così da arrivare all'arresto e al processo, che fa sempre una certa pubblicità; poi ritornavano in quei loro spettacoli a fare smorfie e ad essere sadicamente sudici e repellenti, come una puzza di sudore accumulato. Le donne avevano belle gambe e mettevano in mostra le proprie curve più di quanto avrebbe fatto piacere a Will Hays. Ma le loro facce erano logore e consunte come la giacca da ufficio
di un archivista. Bionde, more, grandi occhi da mucca con uno sguardo ottuso da contadine. Occhi piccoli e penetranti, pieni di avidità birichina. C'erano due o tre facce che erano palesemente viziose. Due o tre potevano avere i capelli rossi. Dalle foto non si vedeva. Io le guardai distrattamente, senza interesse, e legai di nuovo il nastro. «Non posso conoscerne nessuna», dichiarai. «Che cosa devo guardarle a fare?». La donna sbirciò la bottiglia che stava tentando di reggere con la mano malferma. «Non cercavate Velma?». «È una di queste?». Sul volto di lei comparve un'espressione astuta, che evidentemente non dovette trovarsi a suo agio perché scomparve subito. «Non avete avuto una sua fotografia... dai suoi?». «No». Questo fatto la preoccupò. Non c'è ragazza che non abbia una fotografia, magari con le vestine corte e il cerchio in mano. Io avrei dovuto averla. «Cominciate a non piacermi di nuovo», disse la donna con tono tranquillo. Mi alzai col bicchiere in mano, mi avvicinai e lo posai accanto a lei sul tavolo. «Versatemi da bere», chiesi, «prima che abbiate finito la bottiglia». Lei prese il bicchiere e io mi voltai passando in fretta nella stanza da pranzo, poi nel corridoio, infine nella stanza da letto in disordine dov'era il baule aperto. Dietro di me sentii un grido. Ficcai direttamente la mano nella sacca laterale del baule, trovai la busta e la presi in fretta. Lei si era alzata, quando tornai di là, ma aveva fatto soltanto due o tre passi. Nei suoi occhi c'era uno strano bagliore. Un bagliore omicida. «Sedetevi», io le ordinai decisamente. «Mica avete a che fare questa volta con un povero ingenuo come Moose Malloy». Era un colpo sparato più o meno al buio, e non colpì niente. Lei sbatté le palpebre e sembrò voler sollevare il naso col labbro superiore. Comparvero dei denti sporchi in una smorfia da coniglio. «Moose?» ansimò. «Che cosa ha fatto?». «È fuori», risposi. «È uscito di prigione. Gira con una rivoltella calibro 10 in mano. Ha ammazzato un negro stamattina in Central Avenue perché non gli diceva dov'è Velma. Ora sta cercando chi lo ha fatto cadere in trappola otto anni fa». La faccia della donna divenne pallida. Si portò la bottiglia alle labbra e
bevve. Un po' di whisky le colò sul mento. «E la polizia intanto cerca lui», disse e rise. «Uh, la polizia!». Era una cara vecchietta. Mi piaceva la sua compagnia e mi divertivo molto a ubriacarla per i miei sordidi scopi. Ero proprio in gamba. Mi sentii orgoglioso di me. Col mio mestiere se ne vedono di tutti i colori, ma quella volta cominciavo a provare il mal di stomaco. Aprii la busta che avevo in mano e ne tirai fuori una foto. Era come le altre ma diversa, molto più carina. La ragazza portava un costume da Pierrot dalla cintola in su. Sotto il cappello bianco a cono, con una palla nera in cima, i capelli avevano una tinta che poteva anche essere rossa. La faccia era di profilo, ma l'occhio che si vedeva sembrava aVere un certa gaiezza. Non dico che fosse un viso carino e non sciupato, non m'intendo molto di facce. Tuttavia era graziosa. La gente aveva rispettato quel viso, rispettato, per quanto l'ambiente lo permettesse. Pure era una faccia molto comune e la sua bellezza era d'ordinaria amministrazione. Di visi come quello se ne incontrano una dozzina su un marciapiede di città a mezzogiorno. Dalla cintola in giù la foto ritraeva solo gambe ed erano gambe, in verità, molto belle. Una dedica si leggeva nell'angolo in basso a destra: «Tua per sempre. Velma Valento». Mostrai la foto alla Florian, tenendola a una certa distanza. Lei tentò di afferrarla ma non ci riuscì. «Perché la nascondevate?» chiesi. Lei non rispose, si limitò a respirare affannosamente. Io rimisi la foto nella busta e misi la busta in tasca. «Perché?» chiesi di nuovo. «Che cos'ha di diverso dalle altre? Dov'è?». «È morta», disse la donna. «Era una brava figliola ma è morta. Tutto qui, poliziotto». Le sopracciglia scure e folte si alzarono e si abbassarono. La mano si aprì, la bottiglia del whisky cadde sul pavimento e cominciò a gorgogliare. Io mi chinai per raccoglierla. La donna tentò di darmi un calcio in faccia. Mi tirai indietro. «Non mi avete detto ancora perché la nascondevate», dissi alla donna. «Quando è morta? In che modo?». «Sono una povera vecchia malata», grugnì la donna. «Vattene via, figlio di puttana». La guardai senza dir niente e senza avere niente di speciale da dire. Dopo un attimo feci un passo avanti e misi la bottiglia, ora quasi vuota, sul ta-
volo accanto alla donna. Lei fissava il tappeto. La radio suonava in modo piacevole nel suo angolo. Fuori passò un'automobile. Una mosca ronzò contro la finestra. Dopo un certo tempo la donna mosse le labbra e pronunciò una serie di parole sconnesse, prive di senso. Poi rise rovesciando indietro il capo; con la mano destra afferrò la bottiglia, che le tintinnò fra i denti mentre lei beveva. Quando la bottiglia fu vuota la scosse, poi la gettò contro di me. Andò a finire in un angolo, rotolando sul tappeto e picchiando con un colpo sordo contro lo zoccolo della parete. La donna mi sbirciò di nuovo, poi chiuse gli occhi e si mise a russare. Io presi il cappello dalla scrivania, andai alla porta e l'aprii. La radio nell'angolo suonava ancora, nella sedia a dondolo la donna russava tranquilla. Le detti un'occhiata prima di chiudere la porta. La chiusi, poi l'aprii subito di nuovo e guardai. La donna teneva gli occhi chiusi ma mi parve di scorgere un bagliore fra le palpebre. Discesi gli scalini e per il sentiero maltenuto raggiunsi la strada. Nella casa vicina la tendina di una finestra era tirata da parte e una faccia magra se ne stava dietro il vetro a curiosare. Era la faccia di una vecchia che aveva i capelli bianchi e un naso a punta. La Vecchia Nasona che spia le mosse dei vicini. Ce n'è sempre una in qualsiasi quartiere. Io le feci un cenno di saluto con la mano. La cortina della finestra ricadde. Risalito in macchina tornai alla Divisione della 77a Strada e salii nel piccolo buco maleodorante che era l'ufficio di Nulty, al secondo piano. CAPITOLO VI Pareva che Nulty non si fosse neanche mosso. Era seduto al suo posto con lo stesso atteggiamento di amara sopportazione. Ma nel portacenere si notavano altre due cicche di sigaro e sul pavimento si erano ammucchiati altri fiammiferi spenti. Io mi sedetti alla scrivania vuota. Nulty prese una foto che teneva capovolta davanti a sé e me la porse. Era una scheda dell'archivio criminale, con foto di fronte e di profilo, impronte digitali e connotati a tergo. Era proprio di Malloy. «È lui», dissi, e restituii la foto. «Abbiamo avuto un cablo dall'Oregon», disse Nulty. «Tutti sono avver-
titi. Le cose vanno un po' meglio. Lo abbiamo individuato. Un conducente di autobus ha riferito di aver portato un passeggero di quelle dimensioni, che pare fosse lui. Andrà in uno dei rifugi di quelle parti. Ci sono un sacco di quelle case che nessuno prende in affitto. Andrà in uno di quei posti e allora sarà imbottigliato. Voi che avete fatto?». «Aveva un cappello fantasia e palle da golf invece di bottoni sulla giacca?». Nulty corrugò la fronte e incrociò le mani sulle ginocchia. «No, aveva un vestito blu. O forse grigio». «Sicuro che non fosse un sarong?». «Come? Ah, buona questa. Ricordatemi di ridere fuori servizio». Dissi: «Quello non era Malloy. Non aveva bisogno di prendere un autobus. Era pieno di soldi. Ricordatevi che vestiti aveva indosso. Mica potevano essere stati comprati fatti. Dovevano essere su misura». «Sfottete, sfottete», Nulty si accigliò. «Voi che avete fatto?» «Quello che avreste dovuto fare voi. Quel posto, il Florian, si chiamava così anche quando era una trappola per bianchi. Ho parlato con un negro che fa il portiere in un albergo vicino. L'insegna luminosa costava cara, perciò i negri hanno continuato a usare la stessa. L'uomo si chiamava Mike Florian. È morto da qualche anno, ma c'è ancora la vedova Abita al 1644, West 54th Place. Si chiama Jessie Florian. Non c'è nell'elenco telefonico, ma c'è nella guida di città». «E che cosa dovrei fare? Darle un appuntamento?» Nulty chiese. «L'ho già fatto io per voi. Mi sono portato mezzo litro di whisky. È una incantevole signora di mezza età, con una faccia che sembra un mucchio di fango e se si è lavata i capelli dalla fine della prima guerra mondiale sono disposto a mangiarmi la gomma di ricambio, con il cerchione e tutto». «Piantatela con le spiritosaggini», Nulty disse. «Ho chiesto di Velma alla signora Florian. Vi ricordate, signor Nulty, di quella Velma dai capelli rossi che Malloy cercava? Non vi annoio, signor Nulty?». «Che vi prende?». «Niente. La signora Florian ha detto di non ricordare Velma. La sua è una casa molto miserabile, tranne una radio nuova che può valere settanta o ottanta dollari». «Non mi avete ancora spiegato perché dovrei mettermi a gridare per la meraviglia». «La signora Florian, ovvero la mia cara Jessie, mi ha detto che suo mari-
to le ha lasciato in eredità soltanto i vestiti vecchi e un pacco di foto della gente che lavorava nel loro locale di tanto in tanto. Io le ho dato da bere ed è un tipo che sarebbe capace di mettervi al tappeto per portarvi via una bottiglia. Dopo il terzo o quarto bicchiere lei è andata nella sua modesta stanza da letto dove si è messa a buttar per aria tutto finché ha tirato fuori da un baule il pacco delle foto. Io la guardavo senza che lei lo sapesse e l'ho vista mentre ne toglieva una dal pacco e la nascondeva. Così, dopo un po' sono andato di là e l'ho presa». Misi la mano in tasca e deposi sulla scrivania di Nulty la ragazza in costume da Pierrot. Nulty prese la foto e la guardò arricciando le labbra. «Bel pezzo», disse. «Un bel pezzo sul serio. Tempo fa ci avrei fatto volentieri qualcosa anch'io. Ah, ah! Velma Valento, eh? E che è successo di questa bambola?». «La signora Florian dice che è morta. Ma questo non spiega perché lei ha nascosto la foto». «Sicuro, non capisco. Perché l'ha nascosta?». «Non me lo ha detto. Infine, quando l'ho informata che Malloy è fuori, mi è sembrato che lei mi prendesse in antipatia. Il che sembrerebbe incredibile. Vero?». «Avanti», fece Nulty. «È tutto qui. Vi ho raccontato i fatti e vi ho dato tutto quel che ho trovato. Ora non ho altro da dire che possa aiutarvi. Fate voi qualcosa». «Per far che? È sempre un ammazzamento di scarafaggi. Aspettate che prendiamo Malloy. Diavolo, sono otto anni che non vede la sua ragazza, a meno che lei non sia andata a trovarlo in carcere». «Benissimo», risposi io. «Ma non dimenticatevi che lui la sta cercando ed è un tipo capace di far sul serio. E ancora: andò dentro per la faccenda della banca. Questo vuol dire che c'era una taglia. Chi la incassò?». «Non so. Potrei informarmi. Perché?». «Qualcuno gli fece la spia. Magari lui sa chi fu. Questa potrebbe essere un'altra occupazione per lui in questi giorni». Mi alzai. «Bene, arrivederci e buona fortuna». «Ve ne andate già?». Mi avviai verso la porta. «Devo andare a casa a fare il bagno, i gargarismi e il manicure». «Vi sentite poco bene?». «Solo sporco», risposi. «Mi sento molto sporco». «Be', che fretta c'è? Sedetevi un momento». Si sdraiò indietro infilando i
pollici nel taschino del panciotto, gesto che gli dette ancora più l'aria del poliziotto senza peraltro accrescere la sua potenza magnetica. «Non c'è fretta», io dissi. «Non ce n'è nessuna. Io non posso fare altro. A quel che pare questa Velina è morta, se la signora Florian dice la verità. E, al momento, non ho nessuna ragione per credere che dica una bugia. Questo è tutto quello che mi interessava». «Già», disse Nulty con tono sospettoso per la forza dell'abitudine. «Per di più voi avete avvistato Moose Malloy. Perciò io me ne andrò a casa e mi preoccuperò di trovare da guadagnarmi da vivere». «Malloy potrebbe sfuggirci», osservò Nulty. «Ogni tanto ce la fanno a sfuggire. Anche se sono importanti». Il suo sguardo aveva un'espressione diffidente, ammesso che avesse un'espressione. «Quanto vi ha dato?». «Che cosa?». «Quanto vi ha dato questa donna per tacere?». «Tacere che cosa?». «Tacere tutto quello che non mi state dicendo». Tolse i pollici dal panciotto e li congiunse davanti allo stomaco. Sorrise. «Oh, al diavolo!» dissi io. Uscii dall'ufficio lasciandolo a bocca aperta. Appena uscito e fatti pochi passi tornai indietro, aprii pian piano la porta e guardai. Nulty era seduto nella stessa posizione, teneva i pollici uniti davanti allo stomaco. Ma non sorrideva più. Pareva preoccupato. Aveva sempre la bocca aperta. Non si mosse e non alzò lo sguardo. Non capii se si era accorto di me o no. Chiusi di nuovo la porta e me ne andai. CAPITOLO VII Quell'anno sul calendario c'era Rembrandt, un autoritratto in una riproduzione imperfetta, per colpa di una tricromia mediocre. Rembrandt teneva la tavolozza col pollice sporco di colore e aveva indosso un camice che nemmeno era troppo pulito. L'altra mano reggeva in aria un pennello, come se fosse disposto a eseguire un lavoretto se qualcuno lo pagava. Il volto era vecchio e rugoso, pieno di disgusto per la vita e per le conseguenze del bere. Tuttavia aveva un'aria cordiale che mi piaceva e gli occhi brillavano come gocce di rugiada. Lo guardavo sulla parete di fronte, dalla scrivania del mio ufficio, verso le quattro e mezzo, quando suonò il telefono e io sentii una voce fredda e arrogante che pareva avesse un alto concetto di sé. Io risposi, e la voce
strascicò: «Parlo con Philip Marlowe, investigatore privato?». «Esatto». «Sì, intendete dire. Mi siete stato raccomandato come un uomo che sa tenere la bocca chiusa quando occorre. Avrei piacere che veniste a casa mia questa sera alle sette. Discuteremo la questione. Io mi chiamo Lindsay Marriott e abito al 4212 Cabrillo Street, Montemar Vista. Sapete dov'è?». «So dov'è Montemar Vista, signor Marriott». «Sì? Benissimo. Cabrillo Street è un po' difficile da trovare. Le strade quaggiù sono una rete di curve molto interessanti ma intricate. Vi suggerirei di fare a piedi le scale del caffè d'angolo. Se fate così, Cabrillo Street è la terza che si trova e la mia casa è l'unica. Alle sette, allora?». «Di che genere è l'incarico, signor Marriott?». «Preferirei non discuterne per telefono». «Non potreste darmene almeno un'idea? Montemar Vista è una bella distanza». «Sarò lieto di rimborsarvi le spese, se non ci metteremo d'accordo. Avete delle riserve da fare circa il genere dell'incarico?». «No, purché sia nei limiti del lecito». La voce si fece addirittura di ghiaccio. «Non vi avrei certamente interpellato, se così stato non fosse». Bel tipo di intellettuale. Molto abile nell'usare il congiuntivo. Mi sentivo prudere le mani, ma il mio conto in banca era da tempo esausto. Mi sforzai di mettere molto miele nella voce e dissi: «Vi ringrazio di avermi chiamato, signor Marriott. Verrò». Egli agganciò e questo fu tutto. Mi sembrò che il signor Rembrandt dal calendario mi facesse una smorfia. Presi la bottiglia da un cassetto della scrivania e bevvi un sorso. La smorfia scomparve subito dal volto del signor Rembrandt. Una striscia di sole scivolò lungo l'orlo della scrivania e cadde senza rumore sul tappeto. Semafori si accendevano e si spegnevano sul boulevard, passavano tram suburbani con fragore; nell'ufficio dell'avvocato oltre la parete sottile picchiettava una macchina da scrivere. Io avevo appena riempito e acceso la pipa quando il telefono squillò di nuovo. Era Nulty questa volta. Aveva la voce piena di patate arrosto. «Sì, ammetto di non averci fatto una gran bella figura», disse quando fu sicuro di parlare con me. «L'ho mancato. Malloy è andato a casa della gentildonna Florian».
Strinsi il ricevitore quasi da spezzarlo. Sentii freddo al labbro inferiore. «Avanti. Credevo che foste sulle sue tracce». «Quello era un altro», disse Nulty. «Non era Malloy. Abbiamo avuto una telefonata da una vecchia ficcanaso. Due persone sono state a trovare la Florian. Il primo ha fermato la macchina dall'altra parte della strada e pareva si muovesse con cautela. Ha guardato in giro prima di entrare. Uno e settantacinque, capelli scuri, corporatura media. È uscito tranquillamente». «E aveva il fiato che gli puzzava di whisky», dissi io. «Certo. Quello eravate voi. No? Bene. Il secondo era Malloy. Tipo vestito in modo sgargiante, grosso come una casa. È arrivato in macchina anche lui, ma la donna a distanza non ha potuto leggere la targa. Circa un'ora dopo che eravate andato via voi, dice lei. È entrato subito ed è stato dentro soltanto cinque minuti. Prima di risalire in macchina ha tirato fuori una grossa pistola e ha tolto la sicura. Questo è quel che ha visto la vecchia. Per questo ha chiamato la polizia. Però non ha sentito spari nella casa». «Dev'essere rimasta delusa», dissi. «Spiritoso. Ricordatemi di ridere fuori servizio. Ma anche la vecchia ha mancato il colpo. La squadra va lì subito e nessuno risponde quando bussano, così entrano dentro, perché la porta non è chiusa. Non c'è nessun morto sul pavimento. E non c'è nessuno in casa. La gentildonna Florian se l'è svignata. Così quelli vanno alla porta vicina e lo dicono alla vecchia e lei ci rimane malissimo perché non ha visto la Florian uscire. Così tornano indietro e fanno rapporto. Un'ora o un'ora e mezzo dopo la vecchia telefona ancora e dice che la signora Florian è tornata a casa. Passano la comunicazione a me e io le domando che c'è di speciale in questo e lei mi chiude il telefono in faccia». Nulty fece una pausa per riprender fiato ed attese i miei commenti. Io non avevo nessun commento da fare. Dopo un poco, ricominciò a borbottare. «Così, che ne dite voi?». «Niente. È probabile che Malloy vada lì, naturalmente. Dovrebbe conoscere molto bene la signora Florian. Naturalmente, non si fermerà a lungo in quel posto. Potrebbe temere che la polizia si fosse informata sul conto della signora Florian». «Quel che penso anch'io», disse con calma Nulty. «Forse dovrei andare a trovarla e cercar di sapere dov'era andata». «È una buona idea», dissi io, «purché riusciate a trovare qualcuno che vi
faccia alzare dalla sedia». «Sempre spiritoso. Ad ogni modo ormai non ha più importanza. Credo che non lo farò». «Benissimo», risposi. «Prendiamola pure così». «Tanto», disse Nulty, «Malloy non ci sfugge. Stavolta siamo davvero sulle sue tracce. Lo abbiamo trovato a Girard che andava verso nord, su una macchina d'affitto. Ha fatto benzina là e il ragazzo del posto di rifornimento lo ha riconosciuto in base alla descrizione che noi abbiamo radiotrasmesso. Ha detto che coincide ma che evidentemente Malloy ha cambiato d'abito, perché è vestito di scuro. Abbiamo avvertito tutta la contea e tutto lo Stato. Se va a nord lo fermiamo alla barriera Ventura, se gira per la Ridge Route deve fermarsi a Castaic per pagare il pedaggio. Se non si ferma, quelli telefonano e fanno bloccare la strada. Non vogliamo né sparatorie né inseguimenti, se possiamo evitarli. Va bene così?». «Va benissimo», risposi, «se davvero quello è Malloy e se fa proprio quello che voi vi aspettate da lui e non altro». Nulty si schiarì la gola accuratamente. «Già. E voi... che fate?». «Niente. Perché dovrei fare qualcosa?». «Eravate già arrivato a un buon punto con quella gentildonna Florian. Magari lei potrebbe avere qualche buona idea». «Per saperlo vi occorre solo una bottiglia piena». «Voi l'avete già curata molto bene. Meriterebbe che le dedicaste ancora un po' di tempo». «Credevo che spettasse alla polizia». «Sicuro. Però l'idea della ragazza è stata vostra». «Ma sembra fuori causa. Se la Florian non dice bugie». «Le donne dicono sempre bugie. Lo fanno per abitudine», osservò Nulty cupo. «Non avete molto da fare, vero?». «Ho un lavoro. Ho avuto l'incarico dopo aver lasciato voi. Un lavoro per il quale mi pagano. Mi dispiace». «Volete togliervi di mezzo, eh?». «Non dico questo. Dico che devo lavorare per guadagnarmi da vivere». «Benissimo, benissimo. Se la prendete a questo modo, benissimo». «Non la prendo in nessun modo», urlai quasi. «Soltanto non ho tempo da buttar via per voi o per qualunque altro poliziotto». «Benissimo, arrabbiatevi pure», disse Nulty. E agganciò. Io rimisi a posto il telefono e bevvi un altro sorso dalla bottiglia. Poco dopo uscii a comprare un giornale della sera. In una cosa almeno,
Nulty aveva avuto ragione. L'assassinio di Montgomery non aveva nemmeno due righe di cronaca. Lasciai l'ufficio in tempo per cenare presto. CAPITOLO VIII Arrivai a Montemar Vista all'imbrunire. C'era ancora un bel luccichio sulla superficie dell'acqua e la risacca si perdeva in lunghe strisce curve. Alcuni pellicani in formazione come apparecchi da bombardamento sfioravano la cresta bianca delle onde. Uno yacht solitario si dirigeva verso il porto di Bay City. In fondo all'immenso sconfinato deserto del Pacifico v'era un bagliore rosso-grigiastro. Montemar Vista era un gruppo di una dozzina di case di forma e dimensioni diverse, attaccate sul pendìo di una montagna come se ve le avessero appuntate con degli spilli; sembrava che sarebbe bastato un soffio un po' forte per farle ruzzolare giù, fra le cabine della spiaggia. Salendo dalla spiaggia, la strada passava sotto un grande arco di cemento, che era un cavalcavia per i pedoni. Da uno dei lati dell'arco una rampa di scale anche in cemento con una ringhiera di ferro cromato si lanciava dritta come un fuso su per la montagna. Sotto l'arco vidi il caffè del quale aveva parlato il mio cliente. Era un bel posticino, ben illuminato e dall'aria accogliente. Ma i tavolini di ferro con le tovagliette di tela non avevano avventori; soltanto una donna abbronzata, in pantaloni, era lì seduta, mentre fumava e contemplava con aria assorta il mare. Aveva davanti a sé una bottiglia di birra. Un fox-terrier si stava servendo di una delle seggiole di ferro come di un lampione. La donna sgridò distrattamente il cane mentre io mi accostavo e osservavo il marciapiede del caffè allo scopo di utilizzarne lo spazio destinato al parcheggio. Ripassai sotto l'arco e m'incamminai per le scale. Per gli appassionati di alpinismo sarebbe stata una bella passeggiata. Fino a Cabrillo Street erano duecentottanta scalini, cosparsi di sabbia portata dal vento. La ringhiera, fredda e umida, rassomigliava alla pancia di un rospo. Quando arrivai in cima il luccichio era scomparso dall'acqua e un gabbiano, con una zampa spezzata, si beava alla brezza marina. Mi sedetti sull'ultimo scalino, freddo e umido, mi tolsi la sabbia dalle scarpe e aspettai che il battito del mio polso scendesse verso i cento colpi. Quando ebbi ripreso a respirare più o meno normalmente mi rimisi in ordine la camicia e m'incamminai verso la casa illuminata che era l'unica in quel posto.
Una bella casetta con una scala esterna a chiocciola sul davanti si lasciava illuminare da una specie di fanale da carrozza messo sotto il portico. Il garage era seminterrato, da una parte. Attraverso il garage, dalla saracinesca alzata, la luce del portico batteva obliqua su un'auto che sembrava una corazzata, enorme e nera, con le rifiniture cromate, una coda di coyote legata alla vittoria alata sul tappo del radiatore e le iniziali istoriate al posto della marca. Era una automobile con guida a destra e aveva l'aria di essere costata più della casa. Salii la scaletta a chiocciola, cercai un campanello e mi servii del battente che aveva la forma di una testa di tigre. I colpi si spensero lontani nella nebbia della sera. Non sentii passi nella casa. Sulla schiena la camicia sudata era come una lastra di ghiaccio. La porta si aprì silenziosamente e io vidi un uomo alto e biondo, che indossava un vestito bianco di flanella e portava al collo un fazzoletto di seta viola. All'occhiello aveva un fiordaliso; i suoi occhi azzurro pallido sbiadivano al paragone. Il fazzoletto viola era abbastanza aperto da mostrare che l'uomo non portava cravatta e possedeva un collo forte, di un bruno delicato, simile al collo di una donna robusta. Aveva i lineamenti leggermente grossolani ma belli. Era qualche centimetro più alto di me. La capigliatura bionda aveva tre onde regolari, naturali o artificiali che fossero, le quali mi fecero pensare agli scalini e mi dettero perciò una sensazione spiacevole. Non mi sarebbero comunque piaciute in nessun caso. A parte tutto questo, quell'uomo aveva l'aspetto solito di un tipo che porta un vestito di flanella bianca con un fazzoletto viola al collo e un fiordaliso all'occhiello. Si schiarì un po' la gola e guardò il mare che scompariva nel buio alle mie spalle. Poi la sua voce fredda e schizzinosa disse: «Che desiderate?». «Le sette», dissi io. «In punto». «Ah, già. Vediamo, voi vi chiamate...» si interruppe e corrugò la fronte a mo' di sforzo mnemonico. L'effetto fu falso come lo stato di servizio di un'auto usata. Io lo lasciai affaticarsi per un minuto, poi dissi: «Philip Marlowe. Come oggi pomeriggio». Egli mi dette un'occhiata pensierosa, come se questo non gli andasse. Poi fece un passo indietro e disse con freddezza: «Benissimo. Entrate, Marlowe. Il mio cameriere questa sera non è in casa». Spalancò la porta con la punta di un dito, come se avesse paura di sporcarsi. Entrai e sentii un profumo. Egli chiuse la porta. Dall'ingresso passammo
in una specie di terrazzino che occupava internamente per tre lati una grande stanza da soggiorno uso studio. La quarta parete era occupata da un grande caminetto e da due porte. Nel caminetto scoppiettava un fuoco. Il terrazzino aveva una ringhiera di metallo ed era occupato da scaffali di libri e sculture di metallo su piedistalli. Scendemmo tre scalini e ci trovammo nella stanza da soggiorno propriamente detta. Il tappeto mi faceva il solletico alle caviglie. C'era un pianoforte a coda, chiuso. In un angolo un grande vaso d'argento sovrastava una striscia di velluto color pesca. Nel vaso c'era una sola rosa gialla. Intorno molti bei mobili, molti cuscini sul pavimento, con fiocchi dorati e senza. In un angolo in penombra, un grande divano coperto di damasco rassomigliava a un'alcova da palcoscenico. Era una bellissima stanza, per chi ce la facesse a sopportarla; una di quelle stanze dove la gente se ne sta seduta con le gambe incrociate a bere assenzio filtrato con lo zucchero in zollette, a parlare forte con voci artefatte e qualche volta a strillare quasi; una camera dove si poteva fare tutto meno che lavorare. Il signor Lindsay Marriott si sistemò nell'arco del grande pianoforte, si chinò ad annusare la rosa gialla, poi aprì un portasigarette smaltato e accese una lunga sigaretta scura col bocchino d'oro. Io mi sedetti su una poltrona rosa, augurandomi di non lasciarvi il segno. Accesi una Camel, cacciai il fumo dal naso e guardai un pezzo di metallo lucido che era su un piedistallo. Aveva una curvatura piena e liscia, con una stretta spaccatura in mezzo a due sporgenze ai lati. Osservai quella roba. Marriott notò che io guardavo. «È un pezzo interessante», disse con tono svagato. «L'ho preso proprio l'altro giorno. È "Lo spirito dell'alba" di Asta Dial». «Credevo che fossero due foruncoli su un'altra cosa», dissi io. Il signor Líndsay Marriott fece una smorfia come se avesse inghiottito una mosca. Si riprese con un certo sforzo. «Siete un umorista d'eccezione», disse. «Non d'eccezione», risposi. «Senza complessi, questo sì». «Bene», replicò lui con freddezza. «Benissimo. Non ne dubito. Il motivo per il quale desideravo vedervi è, in effetti, cosa di assai lieve entità. Tale quasi da non valer la pena che vi facessi venire sin qua. Questa notte ho un appuntamento con un paio di persone alle quali consegnerò del denaro. Ho pensato che poteva essermi utile avere con me qualcuno. Voi portate la pistola?». «Alle volte sì», dissi. Guardai la fossetta nel suo mento largo e carnoso.
C'era da perderci dentro una moneta da due soldi. «Non desidero che la portiate. Niente di quel genere. Questa è una semplice operazione d'affari». «Di solito non ammazzo nessuno», dissi io. «Si tratta di ricatto?». Egli corrugò la fronte. «No, certo», disse. «Io non ho l'abitudine di fornire materia per ricatti a nessuno». «Succede anche alla gente per bene», io dissi. «Direi anzi che succede specialmente alla gente per bene». Egli fece un cenno con la sigaretta. Aveva un'ombra pensierosa negli occhi color acqua marina, ma le labbra sorridevano. Era il sorriso che accompagna un nodo scorsoio di seta. Espirò altro fumo e gettò indietro il capo. Questo gesto mise meglio in risalto le linee forti del suo collo. Gli occhi si abbassarono lentamente e studiarono me. «Incontrerò queste due persone, con tutta probabilità, in un luogo molto solitario. Non so ancora dove. Aspetto una telefonata con i particolari. Devo tenermi pronto per uscire subito. Non sarà troppo lontano di qui. Questi sono gli accordi». «È molto tempo che siete in ballo con questa storia?». «Tre o quattro giorni». «Avete preso in considerazione un po' tardi la questione della guardia del corpo». Egli rifletté su questo. Scrollò dalla sigaretta un po' di cenere scura. «È vero. Mi è stato un po' difficile decidermi. Sarebbe meglio che io andassi solo, benché non si sia parlato per nulla del fatto che io portassi qualcuno con me o no. Ma d'altra parte io non sono quel che si dice un eroe». «Vi conoscono di vista, naturalmente?». «Non potrei dirlo con certezza. Io porterò una grossa somma di denaro e non è denaro mio. Agisco per un amico, e non mi sentirei naturalmente giustificato se me lo lasciassi portar via». Io gettai la sigaretta, mi appoggiai indietro sulla poltrona rosa e intrecciai le dita. «Quanto denaro?» dissi. «E perché?». «Veramente...». Era un sorriso disinvolto, adesso, ma non mi piaceva lo stesso. «Non posso dirlo». «Volete che vi accompagni per tenervi il cappello?». La mano ebbe uno scatto e un po' di cenere cadde sul polsino bianco. Egli la scrollò e guardò il punto dove essa si era posata. «Temo che i vostri modi non mi piacciano», disse, con voce tagliente.
«Altri si sono già lamentati», risposi. «Ma non serve. Parliamo un po' di questa faccenda Voi volete una guardia del corpo, ma non deve avere la pistola. Chiedete un aiuto, ma quest'aiuto non deve sapere che cosa deve fare. Pretendete che io rischi la pelle senza sapere perché né per chi. Quanto offrite per tutto questo?». «Non mi ero preoccupato, in verità, di pensare a questo», disse. Aveva le guance di color rosso cupo. «Allora, vorreste decidervi a preoccuparvene?». Egli si inchinò con garbo e mi sorrise mostrandomi i denti. «Vi sarebbe gradito un bel pugno in faccia?». Io risposi al sorriso e mi misi il cappello. Attraversando il tappeto, mi diressi all'uscita, ma senza fretta. La sua voce risuonò di nuovo alle mie spalle. «Vi offro cento dollari per poche ore del vostro tempo. Se non vi basta, ditelo. Non c'è nessun rischio. Certi gioielli sono stati rubati a un mio amico in un'aggressione, e io li devo ricomprare. Sedetevi e non siate così permaloso». Tornai alla poltrona rosa e mi sedetti di nuovo. «Benissimo», dissi. «Ascoltiamo». Ci fissammo per una decina di secondi. «Avete mai sentito parlare della giada Fei Tsui?» chiese lui lentamente, accendendo un'altra delle sue sigarette scure. «No». «È l'unica qualità veramente di valore. Le altre valgono fino a un certo punto per il materiale, ma principalmente per la lavorazione. La Fei Tsui, invece, vale per se stessa. Tutti i giacimenti conosciuti sono esauriti da centinaia di anni. Una amica mia ha una collana di sessanta grani di circa sei carati ciascuno, finemente lavorati. Vale ottanta o novantamila dollari. Il governo cinese ne possiede una poco più grande, valutata centoventicinquemila. La collana di questa mia amica è stata rubata poche sere or sono. Ero presente anch'io, ma non potei far nulla. Avevo accompagnato la signora ad una festa e poi al Trocadero e stavamo tornando di là a casa sua. Una automobile ci sfiorò il parafango anteriore sinistro e si fermò, credetti io, per chiedere scusa. Invece si trattava di una vera e propria rapina, condotta molto bene e velocemente. Erano in tre o quattro uomini. Io ne vidi in verità soltanto due, ma sono sicuro che ce n'era un altro al volante dell'auto e mi parve di scorgerne un quarto al finestrino posteriore. Tolsero alla mia amica la collana di giada, insieme con due anelli e un braccialetto. Quello che sembrava il capo osservò gli oggetti senza mostrare nessuna
fretta, alla luce di una lampadina tascabile. Poi ci restituì uno degli anelli e disse che questo ci avrebbe fatto capire con che gente avevamo a che fare. Ci consigliò anche di aspettare una telefonata prima di chiamare la polizia o la compagnia di assicurazioni. Noi obbedimmo a queste istruzioni. Sono cose che succedono spesso, d'altronde. O si tiene la cosa per sé e si paga il riscatto, oppure non si rivedono mai più i gioielli. Quando sono assicurati uno può non preoccuparsene, ma quando sono pezzi rari val meglio pagare il riscatto». Annuii. «E questa collana di giada», dissi, «non è una cosa che si trova tutti i giorni». Egli fece scivolare un dito sulla superficie lucida del pianoforte, con un'espressione sognante, come se toccare cose lisce gli desse piacere. «Proprio così», confermò. «È insostituibile. Non avrebbe dovuto portarla quella sera. Ma è una donna irriflessiva. Gli altri oggetti erano di valore ma comuni». «E quanto dovete pagare?» chiesi. «Ottomila dollari. È scandalosamente poco. Ma se è vero che la mia amica potrebbe difficilmente procurarsi un'altra collana uguale, è pur vero che questi banditi non riuscirebbero facilmente a piazzare questa. Probabilmente la conoscono tutti i commercianti del ramo, in tutto il paese». «Ha un nome questa vostra amica?» «Preferirei non farlo, per ora». «Come sono gli accordi presi?». Mi fissò con quei suoi occhi pallidi. Mi parve un po' spaventato, ma non lo conoscevo bene. Poteva essere un tranello. La sua mano che reggeva la sigaretta non riusciva a star ferma. «Abbiamo contrattato telefonicamente per diversi giorni, per mio tramite. È tutto concordato, meno soltanto l'ora e il luogo dell'incontro. Dev'essere questa notte. In questo momento io attendo una telefonata che me lo dirà. Non sarà lontano di qui, hanno precisato, e io devo tenermi pronto per uscire subito. Credo che sia perché non possa far disporre nessuna imboscata dalla polizia». «È contrassegnato il denaro? Suppongo infatti che si tratti di denaro». «In contanti, si capisce. Biglietti da venti dollari. No, perché dovrebbe essere contrassegnato?». «Si può farlo in modo che ci voglia la luce nera per accorgersene. Questo mica per altro, ma perché la polizia ci tiene a scoprire queste bande, se appena le si dà un po' d'aiuto. Pensano che una parte di quel denaro possa
andare in tasca a qualcuno di loro, a titolo di premio». Egli corrugò pensieroso la fronte. «Temo di non sapere che cos'è la luce nera», disse. «Ultravioletta», dissi io. «Fa brillare al buio certi inchiostri metallici. Posso provvedere io, se volete». «Temo che ormai non ci sia più tempo», egli disse bruscamente. «Questa è una delle cose che m'impensieriscono». «Perché?». «Perché mi avete chiamato oggi pomeriggio. Perché avete scelto me. Chi vi ha parlato di me?». Egli rise. La sua risata voleva essere più giovanile di quel che fosse in realtà. «Bene, fatto sta che devo confessarvi di avere scelto il vostro nome a caso nell'elenco del telefono. Vi ho detto che prima m'ero ripromesso di non portare nessuno con me. Poi, oggi pomeriggio, ho cominciato a pensare diversamente». Accesi un'altra sigaretta e osservai i muscoli della sua gola. «Allora, qual è il programma?» dissi. Egli allargò le mani. «Andare dove mi dicono, consegnare il pacco del denaro e riavere la collana di giada». «Ohibò». «Pare che vi piaccia molto quel modo di esprimervi». «Quale modo di esprimermi?». «Ohibò». «Io dove sarò? Sul sedile posteriore?». «Penso di sì. È una grossa auto. Potete facilmente nascondervi dietro». «Ascoltate», dissi lentamente. «Voi volete uscire, con me nascosto nell'auto, per una destinazione che vi sarà comunicata chissà quando stanotte. Avrete con voi ottomila dollari in contanti e dovreste con questa somma ricomprare una collana di giada che vale dieci o dodici volte tanto. Quel che vi daranno, sempre ammesso che vi diano qualcosa, sarà un pacchetto che non vi permetteranno di aprire. È probabile che si limiteranno a prendere il denaro e lo andranno a contare altrove e, se proprio sono di cuore generoso, vi spediranno la collana per posta. Non c'è niente da fare per impedire che vi facciano il bidone. Certo non c'è proprio niente che io possa impedire. Questa è gente specializzata e decisa. Sono capaci di darvi anche un bel colpo in testa, non fortissimo, ma tanto da farvi restare lì mentre se ne vanno per i fatti loro». «Bene, io temo realmente che accada qualcosa di simile», egli disse
sbattendo le palpebre. «È per questo forse che ho voluto qualcuno con me». «Vi piantarono una lampadina in faccia quando vi dettero il mani in alto?». Egli scosse il capo, facendo cenno di no. «Non vuol dire. Da allora possono avere avuto decine di occasioni di vedervi. Probabilmente sapevano tutto su di voi anche prima. Questi colpi sono preparati. Prendono tutte le misure del caso. È come quando il dentista prende la misura del dente prima di fare l'otturazione d'oro. Voi uscite spesso con questa signora?». «Ecco... non di rado», egli disse gelido. «Sposata?». «Sentite», scattò. «Se lasciassimo completamente fuori della cosa la signora?». «Benissimo», dissi. «Ma più ne so, meno tazze rischio di rompere. Dovrei tirarmi fuori da questo incarico, signor Marriott, dovrei davvero. Se i ragazzi hanno voglia di stare al gioco, non vi servo io. E se non stanno al gioco e hanno voglia di farvi il bidone, mica posso farci niente io». «Desidero solo la vostra compagnia», egli disse in fretta. Io scrollai le spalle. «Benissimo. Però guido io la macchina e tengo io il pacco. Dietro vi nascondete voi. Siamo suppergiù della stessa statura. Se ci fossero discussioni, diciamo la verità. Non abbiamo niente da perdere per questo». «No», disse lui. E si morse le labbra. «Prendo cento dollari per non far niente. Se ci saranno delle grane, spettano a me». Egli corrugò la fronte e scosse il capo. Dopo qualche attimo, tuttavia, si schiarì lentamente in volto e sorrise. «Va bene», concluse. «Non mi pare poi molto importante. Saremo insieme. Gradite bere qualcosa?». «Ohibò, grazie», dissi. «E potreste portarmi i cento verdoni. Mi fa sempre piacere toccare il denaro». Egli si allontanò come un ballerino, col corpo quasi immobile dalla cintola in su. Mentre stava per uscire, suonò il telefono, che era in una specie di alcova laterale. Non era la telefonata che aspettavamo. Egli aveva un tono troppo affettuoso. Sempre camminando come un ballerino, ritornò con una bottiglia di
Martell Cinque Stelle e cinque bei bigliettoni da venti dollari. Insomma era una buona serata... fin lì, almeno. CAPITOLO IX La casa era molto tranquilla. Da lontano giungeva un rumore che poteva essere tanto la risacca quanto un'auto sulla strada o il vento fra gli alberi. Naturalmente era il mare, che si frangeva sotto di noi. Io, seduto, ascoltavo e mi abbandonavo a lunghi e complicati pensieri. In un'ora e mezzo il telefono suonò quattro volte. La chiamata importante venne otto minuti dopo le dieci. Marriott parlò brevemente, a voce bassa, riappese il ricevitore senza far rumore e restò in piedi con l'aria di chi impone silenzio ai presenti. Aveva i muscoli del volto tirati. Si era cambiato vestito e si era messo in scuro. Passeggiò in silenzio per la stanza e si versò un bicchiere. Lo tenne un attimo controluce con una specie di sorriso imbarazzato, poi gettò indietro la testa per tracannarlo d'un fiato. «Tutto a posto. Siamo pronti, Marlowe?». «È tutta la sera che sono pronto. Dove si va?». «In un posto che si chiama Purissima Canyon». «Mai sentito». «Prenderò la carta». Andò a prendere una carta topografica e la spiegò. Mentre si chinava sulla pianta la luce fece brillare i suoi capelli d'ottone. Egli indicò un punto col dito. Il posto era uno dei moltissimi canyon che si trovavano da quelle parti, lungo la strada a nord di Bay City. Ebbi una vaga idea dell'ubicazione, ma non di più. A quanto pareva il posto si trovava in fondo a una certa strada chiamata Camino de la Costa. «Saranno non più di dodici minuti di qua», disse Marriott. «Sarà meglio andare. In venti minuti dobbiamo farcela». Egli mi porse un soprabito di colore chiaro che faceva di me un bellissimo bersaglio. Mi andava benissimo. Tenni il mio cappello. Sotto l'ascella avevo la pistola, ma non gliel'avevo detto. Mentre io infilavo il soprabito, egli continuò a parlare con voce nervosa facendo ballare fra le mani la grossa busta azzurra che conteneva le ottomila svanziche. «In fondo a Purissima Canyon c'è una specie di spiazzo, mi hanno detto. È separato dalla strada da uno steccato bianco, ma noi possiamo penetrarvi. Di là parte una stradina buia che porta in una gola. Noi dobbiamo aspettare lì a luci spente. Non ci sono case nelle vicinanze».
«Noi?». «Io, si capisce. In teoria». Mi porse la busta azzurra e io l'aprii guardando che cosa conteneva. Era proprio denaro, in bei biglietti di banca. Non lo contai. Rimisi l'elastico e infilai il plico nella tasca interna del soprabito. Me lo sentii premere contro le costole. Ci avviammo per uscire, Marriott spense tutte le luci. Aprì la porta con cautela e scrutò la nebbia. Uscimmo, scendemmo in strada per la scala a chiocciola ed entrammo nel garage. C'era parecchia nebbia, come sempre la notte da quelle parti. Dovetti far andare per un po' il tergicristallo. La grossa auto correva da sé, io tenevo il volante per salvare le apparenze. Per due minuti scendemmo lungo il fianco della montagna disegnando degli otto, poi sbucammo davanti al marciapiede del caffè. Capii allora perché Marriott mi avesse detto di salire a piedi le scale. Con l'auto su per quelle stradine tortuose non me la sarei mai cavata da solo. Sull'autostrada le luci delle macchine formavano un raggio quasi continuo in entrambe le direzioni. C'erano grosse trebbiatrici che arrancavano cigolando verso nord, tutte ornate di festoni e di lampioncini verdi e gialli. Tre minuti dopo voltammo verso l'interno, dietro una casa cantoniera. Proseguimmo lungo il fianco della collina. Ora la strada era tranquilla. Tutto era solitudine, dal mare giungeva il profumo delle alghe, da terra quello della salvia. Qua e là appariva isolata da tutto una finestra gialla, come un arancio perduto. Passavano auto, innaffiando il selciato di luce bianca e gelida, poi si allontanavano di nuovo nel buio. Folate di nebbia coprivano le stelle in cielo. Marriott si sporse avanti, dal sedile posteriore, e disse: «Quelle luci a destra sono il Belvedere Beach Club. Il prossimo canyon è Las Pulgas e, quello dopo, Purissima. Voltiamo a destra in cima alla seconda salita». Parlava con voce bassa e turbata. Io annuii e continuai a guidare. «Tenete giù la testa», gli dissi. «Possiamo essere sorvegliati. Queste macchine sono noiose come mosche. Magari i ragazzi possono non gradire che voi abbiate un fratello gemello». Ci incontrammo in una gola all'estremità di un canyon. Proseguimmo sul terreno battuto, ora in salita, ora in discesa. Infine la voce di Marriott mi disse all'orecchio: «La prima strada a destra. Dov'è la casa con la torretta quadrata. Voltate
lì». «Ma l'avete scelto insieme questo posto?». «Non proprio», fece Marriott, con una risatina secca. «Senonché a me succede di conoscer molto bene questi luoghi». Voltai la macchina a destra dietro l'angolo di una casa che aveva una torre quadrata coperta in cima di tegole rotonde. I fanali illuminarono per un attimo una targa stradale che diceva: Camino de la Costa. Ci trovammo in una strada piuttosto larga, costeggiata da un impianto di lampioni non portato a termine e da marciapiedi coperti di erbacce. Doveva essere il sogno fallito di qualche costruttore. A3 di là dei marciapiedi erbosi si sentivano frinire i grilli e gracidare le rane-toro. L'auto di Marriott era silenziosa. Incontrammo una casa, poi altre due, poi non ce ne furono più. Una o due finestre erano ancora illuminate, ma pareva che la gente da quelle parti andasse a letto con le galline. Poi la strada lastricata finì bruscamente in un sentiero di terra battuta, dura come il cemento d'inverno. Questo sentiero si restringeva e discendeva per la collina fra pareti di cespugli. A destra brillavano nell'aria le luci del Belvedere Beach Club. Lontano si scorgeva un bagliore di acqua mossa. La notte era piena del profumo aspro della salvia. Poi uno steccato bianco si parò in mezzo alla strada e Marriott mi parlò di nuovo all'orecchio. «Non credo che si possa passare», disse. «Mi pare che lo spazio non basti». Io spensi il motore e i fanali, rimasi lì in ascolto. Nulla. Riaccesi i fanali e scesi dalla macchina. I grilli smisero di frinire. Per un po' il silenzio fu talmente assoluto che si sentiva il rumore delle ruote sull'autostrada, a un miglio di distanza. Poi, una alla volta, le cicale ricominciarono, finché riempirono di nuovo il silenzio della notte. «State lì. Faccio un giro per vedere», mormorai rivolto all'interno dell'auto. Toccai la fondina della pistola sotto la giacca e mi spinsi avanti. Lo spazio fra lo steccato e i cespugli non era maggiore di quanto appariva guardando dall'auto. Qualcuno aveva spezzato un po' dei cespugli e c'erano in terra tracce di pneumatici. Probabilmente ragazzi venuti lì a far l'amore nelle notti di caldo. Oltrepassai lo steccato. La strada faceva una curva e scendeva. Giù nel buio si udiva un rumore impreciso di mare. E sull'autostrada si scorgevano i fanali delle auto. Proseguii. La strada finiva in una specie di radura interamente circondata di cespugli. Era vuota. Pareva che l'unica via d'accesso fosse quella dalla quale ero giunto io. Rimasi in silen-
zio e in ascolto. Passò lentamente un minuto dopo l'altro, ma io continuai ad attendere qualche rumore nuovo. Non ce ne fu nessuno. Pareva proprio che quel posto fosse tutto per me. Guardai dalla parte del Belvedere illuminato. Dalle finestre più alte, con un buon cannocchiale, si sarebbe potuto probabilmente tener d'occhio molto bene il posto dov'ero io. Era facile vedere un'auto arrivare e andarsene, vedere chi scendeva, se era uno solo o in più. Da una stanza buia, di notte, con un buon cannocchiale, si possono distinguere le cose molto meglio di quanto si crederebbe. Mi voltai per risalire la collina. Da un cespuglio un grillo frinì con tale violenza che mi fece fare un salto. Ripassai la curva e lo steccato bianco. Nulla ancora. L'auto nera si distingueva appena, lucida su uno sfondo grigio che non era né buio né luce. Io mi accostai e misi un piede sul predellino. «Sembra una prova», dissi sottovoce, tanto che potesse udirmi Marriott dal sedile posteriore. «Soltanto per vedere se obbediamo agli ordini». Ci fu un movimento impreciso dentro l'auto, ma egli non rispose. Io mi rimisi a cercare fra i cespugli. Chiunque fosse, per me fu un bel colpo in testa. In seguito pensai che forse avevo sentito il sibilo del manganello mentre scendeva. Sono le cose che si pensano sempre... dopo. CAPITOLO X «Quattro minuti», disse la voce. «Cinque, forse sei. Devono aver fatto piano e in fretta. Lui non deve aver lanciato nemmeno un grido». Aprii gli occhi e fissai una stella lontana. Ero sdraiato sul dorso. Mi sentivo male. La voce disse: «Forse anche più. Forse otto minuti. Dovevano essere nel cespuglio, proprio dove si è fermata la macchina. L'altro si dev'essere certamente spaventato. Gli avranno piantato una luce in faccia e lui sarà svenuto per la fifa, il finocchio!». Ci fu silenzio. Mi alzai in ginocchio. Il dolore mi trapassò dalla nuca alle caviglie. «Poi uno di loro è entrato nell'auto e ha aspettato che tu tornassi», disse la voce. «Anche gli altri si sono nascosti. Dovevano aver immaginato che quello avrebbe avuto paura di venire da solo. Oppure la sua voce li aveva
insospettiti quando gli avevano parlato per telefono». Io cercai di tenermi in equilibrio, con le mani a terra. Ascoltavo. «Sicuro, dev'essere andata così», disse la voce. Era la mia voce. Stavo parlando fra me. Cercai di afferrare la situazione. «Taci, subcosciente», dissi. E smisi di parlare fra me. Lontano il ronzìo dei motori, vicino grilli e l'interminabile e-e-e delle rane. Quei rumori mi erano diventati antipatici. Alzai da terra una mano e dopo aver cercato di pulirla dal fango la passai nell'interno del soprabito. Bel lavoro, per cento dollari. La mano mi andò alla tasca interna del soprabito. La busta azzurra non c'era, naturalmente. Le dita frugarono allora la tasca della mia giacca. Il portafoglio c'era ancora. Mi chiesi se c'erano ancora i cento dollari. Probabilmente no. Sentii un peso contro le costole a sinistra. Era la pistola nella fondina. Bel gesto, questo. Mi avevano lasciato la rivoltella. Un gesto apprezzabile, come chiudere gli occhi a uno. dopo averlo accoltellato, per esempio. Mi tastai la nuca. Avevo ancora il cappello. Me lo tolsi, non senza fatica, e mi tastai il cranio. Quel mio buon vecchio cranio: in fondo gli ero affezionato, era tanto tempo che lo avevo. Ora era morbido, gonfio, un po' troppo intenerito in quel punto. La manganellata era stata leggera. Il cappello era servito molto. La testa mi funzionava ancora. Potevo servirmene ancora per un anno, almeno. Posai a terra la mano destra e sollevai la sinistra, torcendo il polso finché riuscii a vedere l'orologio. Il quadrante fosforescente segnava le 10.56. La telefonata era venuta alle 10.8. Marriott aveva parlato per due minuti circa. Altri quattro li avevamo impiegati per uscire di casa. Il tempo passa lentamente quando si sta facendo qualcosa sul serio. Intendo dire, si possono fare moltissimi movimenti in pochi minuti. È questo poi che voglio dire? E che me ne importa della mia opinione? Gente migliore di me ha avuto meno opinioni di me. Bene, quello che voglio dire è questo: saranno state le 10.15, mettiamo. Il posto era a dodici minuti. Fa le 10.27. Io scendo, passeggio fra i cespugli, perdo al massimo otto minuti prima di tornare per farmi sistemare la testa. Sono le 10.35. Datemi un minuto per cadere e battere la faccia per terra. Sono caduto con il viso in giù perché ho il mento graffiato. Mi fa male, quindi è graffiato. Non lo vedo e non ne ho bisogno. È il mento mio e lo so io se è graffiato o no. Bene, concludiamo. Un momento, silenzio, lasciatemi pensare. A proposito, come si fa a pensare? L'orologio segnava le 10.56. Questo voleva dire che ero rimasto privo di sensi per venti minuti.
Venti minuti di sonno. Avevano usato un bel sonnifero. In venti minuti avevo mandato in malora un lavoro e perduto ottomila dollari. E con questo? In venti minuti si può affondare una corazzata, si possono abbattere tre o quattro aeroplani, eseguire due condanne a morte. Si può morire, ci si può sposare, esser licenziati e trovare un altro impiego, farsi cavare un dente e farsi togliere le tonsille. In venti minuti possiamo anche riuscire ad alzarci dal letto la mattina e ottenere un bicchier d'acqua al bar di un locale notturno... ma questo non sempre. Venti minuti di sonno. È molto. Specialmente di notte, col freddo, all'aperto. Mi sentii rabbrividire. Ero sempre in ginocchio. Il profumo della salvia cominciava a darmi fastidio. Da questa pianta succhiano il miele le api selvatiche. Mi si contrasse lo stomaco. Strinsi i denti e riuscii a ricacciare la contrazione in gola. Avevo sulla fronte gocce di sudore freddo, e rabbrividivo. Mi alzai prima su un piede, poi su tutti e due. Mi eressi, barcollando un po'. Avevo l'impressione di avere una gamba di meno. Mi voltai lentamente. L'auto era scomparsa. La strada battuta si stendeva deserta verso il punto dove finiva il Camino de la Costa. A sinistra spuntava dal buio lo steccato dipinto di bianco. Oltre la bassa muraglia di cespugli, quel bagliore pallido in cielo dovevano essere le luci di Bay City. Più vicino, a destra, brillavano le luci del Belvedere. Mi portai dov'era prima la macchina e sganciata dal taschino una lampadina a forma di penna stilografica la puntai verso terra. Il suolo era d'argilla rossa, che è durissima col tempo secco, ma quella sera c'era nebbia, e l'umidità aveva reso più distinte, sul terreno, le tracce dell'auto rimasta in quel luogo. Vidi, quasi indistinto, il segno dei pesanti pneumatici Vogue. Vi diressi sopra la luce, chinandomi, e il dolore mi fece quasi scoppiare la testa. Mi misi a seguire le tracce. Il segno dei pneumatici andava avanti per due o tre metri, poi piegava a sinistra. Ma non tornava indietro. Passava nello spazio libero a sinistra dello steccato bianco. Qui si perdeva. Passai lo steccato e proiettai la luce sui cespugli. Alcuni rami erano spezzati di fresco. Proseguii, discendendo la strada in curva. Il terreno qui era anche più molle. Ritrovai il segno dei grossi pneumatici. Continuai, passai la curva, e giunsi alla radura recinta dai cespugli. La vettura era proprio lì, con le rifiniture cromate che luccicavano persino al buio e il catarifrangente rosso della targa posteriore che biillò rispondendo alla luce della mia lampadina tascabile. Era là, silenziosa, a lumi spenti, con tutte le portiere chiuse. Mi avvicinai lentamente, stringendo ad
ogni passo i denti per il dolore. Aprii una delle portiere e diressi il raggio nell'interno sul sedile posteriore. Vuoto. Anche quello anteriore era vuoto. Il motore era spento. La chiave era infilata nell'interruttore dell'avviamento. Non c'erano vetri rotti, né sangue, né cadaveri. Era tutto a posto e in ordine. Chiusi la portiera e feci lentamente il giro della macchina, cercando una traccia ma senza trovarne alcuna. Allora un rumore mi fece agghiacciare. Oltre la parete di cespugli ronzava un motore. Feci un salto da parte non più lungo di mezzo metro. Misi in tasca la lampadina e tastai la rivoltella. Allora i raggi di due fanali puntarono verso il cielo, poi si riabbassarono. Doveva essere il motore di una piccola auto. Faceva quel rumore caratteristico di quando c'è umidità nell'aria. Le luci si abbassarono ancora, avvicinandosi. Un'auto scendeva la curva della strada battuta. Arrivò a due terzi del percorso e si fermò. Si udì lo scatto di una lampadina tascabile, la luce uscì di fianco e frugò per un momento, si fermò. Poi l'auto si rimise in moto, scendendo la collina. Io tolsi la rivoltella di tasca e mi rannicchiai dietro l'automobile di Marriott. Una vetturetta che non aveva niente di speciale, né per la forma né per il colore, entrò nella radura e girò in modo da illuminare da un capo all'altro con i propri fanali l'auto di Marriott. Io abbassai in fretta la testa. Le luci passarono sopra di me come una spada. Il motore si spense. Si spensero anche i fanali. Silenzio. Poi si aprì la portiera e un piede leggero toccò terra. Ancora silenzio. Erano silenziose anche le cicale. Un raggio di luce spazzò il suolo a pochi centimetri dal terreno, parallelamente ad esso. Io non ebbi modo di far sparire in fretta i miei piedi. Il raggio si fermò sulle mie caviglie. Silenzio. Poi il raggio si alzò e illuminò di nuovo la parte superiore della macchina. Ci fu una risata. Era la risata di una ragazza. Bizzarra, aspra, come il suono mandato dalla corda di un mandolino. Il raggio bianco comparve di nuovo sotto la macchina e si fermò sui miei piedi. La voce disse, per nulla stridula: «Benissimo. Voi, uscite fuori di lì con le mani in alto. Siete allo scoperto». Io non mi mossi. La luce ebbe un tremito, come se la mano che reggeva la lampadina si scuotesse. Di nuovo il raggio frugò la carrozzeria dell'auto e di nuovo la voce si rivolse a me: «Ascoltate, sconosciuto. Ho in mano un'automatica a dieci colpi. Miro bene. Tutti e due i vostri piedi sono vulnerabili. Che aspettate?».
«Mettetela via, o ve la tolgo di mano con un colpo solo», scattai. La mia voce pareva di uno che si dibattesse in un pollaio. «Coraggioso il signore», disse la ragazza. Ci fu ín quella voce un tremito molto simpatico. Poi si fece dura di nuovo. «Uscite? Conto fino a tre. Qui ci sono dodici bei cilindri tutti per voi. Anche sedici. Ma poi i piedi vi faranno male. E le ossa delle caviglie ci mettono anni e anni per ritornare a posto e qualche volta non ci riescono del tutto...». Io mi raddrizzai lentamente e fissai il raggio di luce. «Anch'io quando ho paura parlo molto», dissi. «Non... non fate un altro passo avanti! Chi siete?». Io girai intorno all'auto dirigendomi verso di lei. Quando fui a un metro e mezzo dalla snella figurina che si intravedeva dietro la luce, mi fermai. Il raggio restò fisso su di me. «Restate lì», intimò con rabbia la ragazza dopo che io mi fui fermato. «Chi siete?». «Vediamo la vostra rivoltella», dissi io. Lei la tese avanti in luce, puntandola contro il mio stomaco. Era una rivoltella piccola, sembrava un'automatica Colt da taschino. «Quella roba?» dissi io. «Che giocattolo. Non contiene nemmeno dieci colpi. Ne tiene sei. È una rivoltellina per farfalle. Di solito si usa per dar la caccia alle farfalle. Vergognatevi di aver detto una bugia simile, sapendo che era una bugia». «Siete pazzo?». «Pazzo io? Non so. Ho avuto una manganellata in testa da un rapinatore. Può darsi che sia un po' incitrullito». «Quella è... è la vostra automobile?». «No». «Chi siete?». «Che cosa vi siete fermata a guardare con la lampadina?». «Ah, così invece di rispondere fate domande. Bene, guardavo quell'uomo». «Un uomo che ha i capelli biondi ondulati?». «Non li ha», lei disse con calma. «Li aveva, direi». Questo fu un colpo per me. Chissà perché non me l'aspettavo. «Non l'ho visto», dissi mogio: «Sono sceso per quella strada seguendo con la lampadina il segno dei pneumatici. È ferito gravemente?». Feci un altro passo verso di lei. La piccola rivoltella mi prese di mira e il raggio di luce rimase immobile.
«State buono», disse la ragazza. «Buono. Il vostro amico è morto». Non dissi nulla per un attimo. Poi proposi: «Bene, andiamo a vederlo». «State lì senza muovervi e ditemi chi siete e che cosa è successo». La voce era ferma. Quella ragazza non aveva paura. Faceva sul serio. «Sono Marlowe. Philip Marlowe. Investigatore privato». «Davvero? Provatemelo». «Tiro fuori il portafoglio». «Non scherziamo. Lasciate le mani dove sono. Vedremo la prova a suo tempo. Che storia avete da raccontare?». «Quell'uomo potrebbe non essere morto». «È più che morto. Ha il cervello schizzato fuori. Avanti con la vostra storia, signore. E presto!». «Ripeto: può darsi che quello non sia morto. Andiamo a dargli un'occhiata». Feci un passo avanti. «Se vi muovete sparo», lei scattò. Io misi avanti l'altro piede. La luce ebbe un sussulto. Pensai che la ragazza avesse fatto un passo indietro. «State rischiando parecchio, signore», disse con calma. «Va bene, andate avanti voi che io vi seguo. Avete l'aria di star poco bene. Se non fosse stato per questo...». «Mi avreste sparato addosso, lo so. Il fatto è che ho preso una manganellata. Mi fa sempre venire le occhiaie». «Siete molto spiritoso... come un inserviente dell'obitorio», lei gemette quasi. Io voltai le spalle alla luce, che immediatamente brillò sul terreno davanti a me. Passai accanto alla vetturetta, che era piccola e comune, carina e lucida nel bagliore nebbioso delle stelle. Salii lungo la strada battuta, oltre la curva. I passi della ragazza mi seguivano e la luce della lampadina mi guidava. Non sentivo altro rumore che quello dei nostri passi e il respiro della ragazza. Il mio respiro non lo sentivo. CAPITOLO XI A metà della salita, guardando a destra, scorsi i piedi. La ragazza vi puntò la luce. Allora lo vidi tutto. Avrei dovuto già vederlo quand'ero sceso per quella strada, ma m'era sfuggito, chinato com'ero a cercare di decifrare le tracce dei pneumatici con un raggio di luce di pochissimi centimetri quadrati.
«Datemi la lampadina», dissi, tendendo la mano. Lei me la passò senza dire una parola. Io misi un ginocchio a terra. Sentii, attraverso la stoffa, la terra fredda e umida. Marriott era disteso a terra, sul dorso, ai piedi di un cespuglio, in quella posizione da fagotto di panni che ha sempre lo stesso significato. La faccia era una faccia che mi pareva di non aver mai visto prima. I capelli, quelle magnifiche onde bionde, erano sporchi di sangue e di una materia grigia densa, simile a fango primordiale. La ragazza dietro di me respirò forte ma non disse nulla. Io puntai la luce sulla faccia di Marriott. L'avevano massacrato. Una delle mani si tendeva in un gesto congelato, con le dita contratte. Il soprabito era piegato sotto il capo, come se lui cadendo si fosse preoccupato di sollevarlo per non sciuparlo. All'angolo della bocca spiccava una macchia nera come olio lubrificante. «Tenete la luce su di lui», dissi ridando la lampadina alla ragazza. «Se non vi fa star male». Lei prese la lampadina e la resse, senza parlare ma senza tremare, come un vecchio poliziotto incallito. Io tirai fuori di nuovo la mia lampadina piccolissima e cominciai a frugare nelle tasche, cercando di non muovere il cadavere. «Non dovreste», disse lei severamente. «Non dovreste toccarlo fino all'arrivo della polizia». «Sicuro, non dovrei», dissi. «Dovrei aspettare la squadra e poi la prima squadra dovrebbe aspettare la seconda squadra specializzata e questa il giudice istruttore e i fotografi che abbiano fatto le foto e quelli che gli abbiano preso le impronte digitali. Sapete quanto occorre per tutto questo? Un paio d'ore». «Bene», disse lei. «Può darsi che non abbiate torto. Sembrate uno che non può mai aver torto. Dovevano odiarlo molto per massacrargli la testa così». «Può anche non trattarsi di un fatto personale», grugnii. «C'è gente a cui piace rompere le teste, tanto per romperle». «Da come stanno le cose, non direi», disse lei. Continuai a perquisire il cadavere. In una delle tasche dei calzoni aveva pochi spiccioli di argento e di rame, nell'altra un portachiavi di cuoio e un temperino. In quella posteriore c'erano un portafogli con contanti, alcune polizze d'assicurazione, la patente di guida e un paio di ricevute. Nella giacca trovai una scatola di cerini, una matita d'oro automatica, e due faz-
zoletti di batista bianchi e leggeri come polvere di neve e, inoltre, il portasigarette smaltato dal quale gli avevo visto prendere le sigarette col bocchino d'oro. Erano sigarette sudamericane, di Montevideo. Nell'altra tasca interna c'era un altro portasigarette che non avevo visto prima. Era fatto di seta ricamata con un drago da ciascuna parte, la stoffa era tesa sopra un astuccio imitazione tartaruga, tanto sottile da sembrare quasi inesistente. Lo aprii e vidi che conteneva, fermate dalla striscia di elastico, tre sigarette lunghissime, di tipo russo. Ne presi una fra le dita. Erano vecchie, secche e un po' vuote. Avevano un bocchino molto sottile. «Lui fumava le altre», dissi alla ragazza dietro di me. «Queste doveva tenerle per qualche amica. Era un tipo che doveva avere un sacco di amiche». La ragazza si era chinata, ora me la sentivo respirare sul collo. «Ma non lo conoscevate?» domandò. «Mai visto prima di stasera», precisai. «Mi aveva assunto come guardia del corpo». «Che bella guardia del corpo», commentò la ragazza. Io non risposi. «Scusate», lei mormorò quasi. «Io non so come sono andate le cose, naturalmente. Sarà marijuana quella? Posso dare un'occhiata?». Le diedi il portasigarette ricamato. «Conoscevo uno che fumava marijuana», disse la ragazza. «Dopo tre cocktails e tre di quelle, ci voleva una bella fatica per farlo scendere dai lampadari». «Tenete ferma la luce», ammonii. Una pausa. Un fruscio. Poi lei parlò di nuovo. «Scusate», disse. Mi ridette il portasigarette e io lo rimisi nella tasca del morto. Questo era tutto, a quel che pareva. L'unica cosa palese era che non l'avevano derubato. Mi rialzai e tirai fuori il mio portafoglio. C'erano ancora i cinque biglietti da venti dollari. «Gente di gran classe», dissi. «Si sono presi solo la cifra grossa». La lampadina frugava per terra. Io rimisi in tasca il portafoglio e la mia tascabile, poi all'improvviso afferrai la rivoltella che la ragazza teneva nella stessa mano della lampadina. Lei lasciò cadere la lampadina ma io m'impossessai della rivoltella. La ragazza fece un passo indietro, io mi chinai e raccolsi la lampadina. Gliela puntai in volto per un attimo, poi la spensi.
«Era inutile che vi prendeste tanta pena», commentò la ragazza, infilandosi le mani nelle tasche di una lunga giacca dalle spalle spioventi. «Mica penso che l'abbiate ucciso voi». Mi piaceva quel suo tono tranquillo e freddo di voce. Nervi a posto, anche. Restammo nel buio, uno di fronte all'altro, senza dir nulla per qualche tempo. Vedevo i cespugli e le luci nel cielo. Le accesi la lampadina in faccia. Lei chiuse gli occhi. Era una faccia piccola, semplice, forte, con grandi occhi. Una faccia con delle ossa sotto la pelle, bella come un violino di valore. Proprio una bella faccia. Simpatica. «Avete i capelli rossi», dissi. «E l'aria di essere irlandese». «E mi chiamo Riordan. Bene, e con questo? Tirate via quella luce. Non sono rossi, sono castani». Abbassai la luce. «Il nome com'è?». «Anne. E non chiamatemi Annie». «Che fate da queste parti?». «Certe volte la sera faccio una passeggiata in macchina. Così, a zonzo. Sono orfana e sola al mondo. Conosco tutta questa zona come un libro. Ero in macchina e mi è successo di vedere una luce che andava su e giù in fondo a questa gola. Mi pareva che facesse un po' freddo per trattarsi di innamorati. E poi quelli fanno senza luce, no?». «Non me ne intendo. Vi piace rischiare parecchio, Miss Riordan». «Mi pare d'aver detto poco fa la stessa cosa a voi. Avevo una rivoltella e non avevo paura. Mica era contro la legge venire a vedere». «Ohibò», dissi. «Contro la legge dell'istinto di conservazione, sì. Comunque non è questa per me la sera di far lo spiritoso. Immagino che avrete il porto d'armi», dissi tendendole la rivoltella dalla parte del calcio. Lei la prese e se la ficcò in tasca. «Vi meraviglia la curiosità della gente?» domandò. «Io scrivo. Articoli per i giornali». «Rendono bene?». «Pochissimo, purtroppo. Che cercavate nelle tasche... di quello?». «Niente di preciso. Fare il ficcanaso è il mio mestiere. Avevamo ottomila dollari per ricomprare dei gioielli rubati a una signora. Ci hanno fatto il bidone. Perché hanno ucciso lui, non lo capisco. Non mi era sembrato un tipo capace di fare grande resistenza. E non ho sentito nessun rumore. Io ero giù in fondo alla gola quando hanno fatto fuori lui. Dovevamo scendere in macchina, ma pareva che non ci fosse spazio sufficiente per far passa-
re la macchina senza graffiarla tutta. Allora io sono sceso a piedi, e dev'essere stato mentre ero lì sotto che hanno sistemato lui. Poi uno di loro è entrato nella macchina e mi ha dato una manganellata in testa. Naturalmente io pensavo che lui non si fosse mosso dalla macchina, è chiaro». «Non sembrate poi tanto stupido», disse lei. «C'era fin dal principio qualcosa che non andava in questa faccenda. Io lo sentivo. Ma avevo bisogno di guadagnare. Adesso devo andare a cavarmela con la polizia. Potete accompagnarmi a Montemar Vista? Ho lasciato lì la mia macchina. Ci abitava costui». «Certo. Ma non dovrebbe restare qui uno? Potete prendere la mia macchina. Oppure vado io a chiamare la polizia». Guardai il quadrante del mio orologio. Le lancette fosforescenti segnavano quasi mezzanotte. «No», decisi. «Perché no?». «Non so perché no. Ma è no. Me la cavo da solo». Lei non disse niente. Scendemmo di nuovo e prendemmo posto nella vetturetta. Lei la mise in moto e fece la manovra senza accendere i fanali, risalì la pendenza e passò lo steccato. Parecchio più in là accese i fanali. Io avevo mal di testa. Non dicemmo una parola prima di arrivare alle case e alia strada asfaltata. Allora lei disse: «Avreste bisogno di bere qualcosa. Volete venire a bere qualcosa a casa mia? Di là potete telefonare alla polizia. Tanto devono sempre venire da Los Angeles. Qui c'è soltanto una caserma di pompieri». «Continuate lungo la costa. Ve l'ho detto che me la cavo da solo». «Ma perché? Mica io ho paura della polizia. E la mia testimonianza potrebbe esservi di aiuto». «Non voglio aiuto. Voglio riflettere. Voglio starmene da solo per un po'». «E va bene», concesse lei. Fece un rumore strano in gola e svoltò sul boulevard. Arrivammo alla cantoniera e girammo a nord, raggiungemmo Montemar Vista e il marciapiede del caffè. Il caffè era illuminato come un piroscafo di gran lusso. Scesi dalla macchina e mi fermai con la mano sulla maniglia. Tolsi dal portafoglio un biglietto da visita e glielo diedi. «Può darsi che un giorno o l'altro vi occorra qualcosa», dissi. «Allora fatemelo sapere. Ma non chiamatemi se si tratta di lavoro di cervello». Lei prese il biglietto da visita e lentamente disse: «Mi potete rintracciare
nell'elenco telefonico di Bay City, 25a Strada. Venite a trovarmi e portatemi una medaglia al merito per aver saputo badare agli affari miei. Mi pare che siate ancora un po' stordito da quel colpo in testa». Voltò la macchina, vidi il fanalino di coda sparire veloce nel buio. Passai sotto l'arco e al parcheggio ritrovai la mia macchina. Ero stato ripreso da un tremito. Non mi sentivo del tutto a posto quando entrai alla stazione di polizia di Los Angeles Ovest, venti minuti dopo, infreddolito come un ranocchie e verde come il retro di un dollaro nuovo. CAPITOLO XII Un'ora e mezzo dopo, il cadavere era stato portato via, la zona perlustrata, e io avevo raccontato la mia storia tre o quattro volte. Eravamo in quattro, seduti nella stanza del capitano, alla stazione di polizia di Los Angeles Ovest. Tutto il caseggiato era tranquillo e silenzioso, c'era soltanto un ubriaco che in una cella continuava a lanciare l'urlo dei cacciatori di bisonti australiani, in attesa di essere portato giù in città per farsi giudicare dalla corte all'alba. Una luce bianca e accecante dentro una campana di vetro illuminava il tavolo sul quale erano disposti gli oggetti provenienti dalle tasche di Lindsay Marriott, cose che ora sembravano morte e abbandonate come il loro proprietario. L'uomo al tavolo di fronte a me si chiamava Randall ed era del Reparto Omicidi della Centrale di Los Angeles. Era un tipo magro e modesto, di una cinquantina d'anni, con i capelli grigi, lo sguardo freddo e un atteggiamento riservato. Portava una cravatta rosso scuro a pallini neri. Quei pallini mi ballavano davanti agli occhi. Dietro di lui, oltre il cono di luce, due grossi individui dall'espressione bovina stavano in atteggiamento di guardie del corpo, fissando ciascuno di loro una delle mie orecchie. Io rigirai fra le dita una sigaretta, l'accesi. Il sapore mi dispiacque. Rimasi seduto, a guardare la sigaretta consumarmisi fra le dita. Mi pareva di avere ottant'anni, e mi sentivo diventare più vecchio di minuto in minuto. Randall disse freddamente: «Questa storia più la racconti meno convince. Quel Marriott era in trattative da molti giorni, senza dubbio, per quel riscatto. E soltanto poche ore prima dell'incontro decisivo, telefona a un estraneo e lo assume perché gli faccia da guardia del corpo». «Non proprio guardia del corpo», dissi. «Non gli avevo nemmeno detto che avevo la rivoltella. Mi assunse solo perché gli tenessi compagnia». «Come ti conosceva?».
«Prima disse per mezzo di un amico comune. Poi che aveva trovato il mio nome sull'elenco». Randall frugò delicatamente fra le cose che aveva sul tavolo e prese un biglietto bianco con l'aria di chi tocca qualcosa di non troppo pulito. Lo spinse sul tavolo. «Aveva il tuo biglietto da visita», commentò. Io guardai il biglietto. Era uscito da quel portafoglio, insieme a molte altre carte che io non avevo badato a esaminare laggiù nel Purissima Canyon. Era proprio uno dei miei biglietti da visita. Pareva un po' sporco, per un tipo come Marriott. Aveva una macchia rotonda di unto da una parte. «Certo», risposi. «Io di questi ne distribuisco sempre che posso e dove capita». «Marriott ti ha lasciato portare il denaro», disse Randall. «Ottomila dollari. Era un tipo che si fidava». Io soffiai verso il soffitto il fumo della sigaretta. La luce mi faceva male agli occhi. La nuca mi doleva. «Non ho gli ottomila dollari, mi spiace». «No. Non saresti qui se avessi tu il denaro. O saresti venuto lo stesso?». Sul volto gli comparve una smorfia allegra, ma era forzata. «Farei molte cose per ottomila dollari», replicai. «Ma se volessi ammazzare qualcuno con un manganello mi basterebbe colpirlo al massimo due volte, alla nuca». Randall fece un lieve cenno d'assenso. Uno dei poliziotti alle sue spalle sputò nel cestino della carta straccia. «Questa è una delle cose più strane», mormorò Randall. «Sembra un lavoro fatto da dilettanti, ma naturalmente può essere stato fatto apposta in modo che sembrasse fatto da dilettanti. Il denaro non era di Marriott, vero?». «Non saprei. Io ho avuto quest'impressione, ma si è trattato soltanto di un'impressione. Lui non mi ha detto chi era la signora in questione». «Non sappiamo niente di Marriott, finora», Randall scandì lentamente. «Ritengo possibile che volesse rubare lui quegli ottomila dollari». «Come?», mi sorpresi. Dovetti anche mostrarmi abbastanza sorpreso. Randall non mutò espressione. «Lo hai contato il denaro?». «No, naturalmente. Lui mi ha dato il pacco. Conteneva il denaro e aveva l'aria di essere un bel po'. Perché doveva volerlo rubare a me quando lo aveva già lui prima che io entrassi in scena?».
Randall guardò il soffitto e scrollò le spalle. «Torna un po' indietro» disse. «Qualcuno aveva bloccato Marriott con una signora portando via a lei la collana di giada e offrendo poi di restituirla per una somma che appare piuttosto modesta in confronto al valore del gioiello. Il pagamento doveva sbrigarlo Marriott. Lui pensava di andare da solo e non sappiamo se gli altri pretendessero questo o comunque se se ne occupassero. Di solito in questi casi sono molto prudenti. Ma Marriott evidentemente decise, per ragioni sue, che gli conveniva portarsi dietro te. Tutti e due vi immaginavate di avere a che fare con una banda organizzata e vi aspettavate che quella gente si comportasse secondo le regole del mestiere. Marriott aveva paura. Questo è spiegabile. Voleva che qualcuno gli tenesse compagnia. Questo qualcuno dovevi essere tu. Ma tu sei un estraneo, uno sconosciuto, un nome su un biglietto da visita datogli da qualcuno che lui dice essere un amico comune. Allora all'ultimo momento Marriott decide di far portare a te il denaro e di starsene lui nascosto nell'auto. Tu dici che è stata un'idea tua, ma magari lui sperava che tu gliela suggerissi, e se tu non gliel'avessi suggerita se la sarebbe fatta venir lui». «Sulle prime l'idea non gli piacque», dissi io. Randall scosse di nuovo le spalle. «Ha finto che l'idea non gli piacesse... ma ha accettato. Così alla fine arriva la telefonata e voi andate al posto che lui dice. Tutto questo viene da Marriott. Niente che tu sappia da fonti tue. Quando arrivate lì, sembra che non ci sia nessuno. Dovreste scendere nella gola, ma sembra che non ci sia spazio sufficiente per la macchina. Ed effettivamente non ce n'era, perché la macchina è tutta graffiata sul fianco sinistro. Così tu scendi a piedi, non vedi e non senti niente, giri per qualche minuto, torni alla macchina e allora qualcuno ti dà una manganellata in testa. Ora, supponi che Marriott volesse quel denaro lasciando te nei pasticci. Non era esattamente questo il modo in cui avrebbe dovuto comportarsi?». «È una ipotesi brillante», risposi. «Marriott ha manganellato me, si è preso il denaro, poi si è pentito di quel che aveva fatto e si è spaccato da solo la testa, dopo aver seppellito il denaro sotto un cespuglio». Randall mi gettò un'occhiata severa. «Aveva un complice, si capisce. Tutti e due dovevate esser messi k. o., e il complice doveva squagliarsela col denaro. Solo che il complice ha fatto il bidone a Marriott e lo ha ammazzato. Te non aveva bisogno di ammazzarti perché tu non lo conoscevi». Io lo guardai con ammirazione e depositai la cicca della sigaretta su un
vassoio di legno che ai suoi tempi doveva avere avuto un fondo di cristallo. «Corrisponde ai fatti. A quelli che sappiamo», Randall disse con calma. «Non è più stupida di altre ipotesi che possiamo fare in questo momento». «Va bene tutto, meno una cosa», dissi. «Che cioè io sono stato manganellato dall'interno dell'automobile. Avrei dovuto pensare che fosse stato Marriott a colpirmi. Il resto non cambia. Ma adesso non posso più sospettarlo, ora che è stato ammazzato». «Questo è il fatto che va meglio degli altri», Randall ribatté. «Tu non avevi detto a Marriott che avevi la rivoltella, ma lui poteva aver visto la sporgenza sotto l'ascella o perlomeno sospettare che tu l'avessi. In questo caso doveva colpirti mentre non temevi niente. E tu non avresti mai supposto di essere colpito dall'interno della macchina». «Benissimo», dissi. «Avete vinto voi. È una buona ipotesi, sempre supponendo che il denaro non fosse di Marriott e che lui volesse rubarlo e che avesse un complice. Così il suo piano era che tutti e due ci svegliassimo coi bernoccoli in testa e col denaro sparito: io avrei dovuto poi dire "scusate tanto" e me ne sarei dovuto andare a casa, dimenticando tutto. È così, in conclusione? Voglio dire: è così che lui si aspettava la conclusione? Doveva essersi fatto un bel concetto di me, vero?». Randall fece un sorriso molto asciutto. «Non va molto neppure a me. Ho cercato soltanto di orientarmi. Quest'ipotesi corrisponde ai fatti, per quello che ne sappiamo... il che non è molto, per ora». «Non ne sappiamo nemmeno abbastanza per metterci a fare ipotesi di fantasia», risposi. «Perché non far conto che lui dicesse la verità e che abbia magari riconosciuto uno dei rapinatori?». «Non hai detto che non hai sentito né un grido, né un rumore qualsiasi di colluttazione?». «Certo. Ma possono averlo afferrato un attimo alla gola. O può darsi che lui si sia spaventato talmente da non avere avuto nemmeno la forza di gridare quando gli sono saltati addosso. Facciamo conto che fossero nascosti nei cespugli e che abbiano visto me scendere giù a piedi. Io mi sono allontanato parecchio, lo sapete. Una buona trentina di metri. Loro si avvicinano alla macchina e vedono Marriott. Uno gli pianta una rivoltella in faccia e lo fa uscire di lì, con tutta calma. Poi lo manganellano. Ma da qualcosa che dice, o da come li guarda, loro capiscono che ha riconosciuto qualcuno». «Al buio?».
«Sì. Qualcosa del genere. Ci sono delle voci che vi rimangono in mente. La gente si riconosce anche al buio». Randall scosse la testa. «Se questa era una banda organizzata di ladri di gioielli, non avrebbero ucciso nessuno senza esservi costretti». Si interruppe all'improvviso con un lampo negli occhi. Strinse le labbra. Gli era venuta un'idea. «Bidone», disse. «È un'idea», replicai. «C'è un'altra cosa», interruppe lui. «Come sei arrivato qui?». «Con la mia macchina». «Dov'era la tua macchina?». «A Montemar Vista, nel parcheggio vicino al caffè». Egli mi guardò con aria pensosa. I due poliziotti dietro di lui mi squadrarono con sospetto. L'ubriaco nella cella tentò un gorgheggio ma gli mancò la voce; questo fatto lo scoraggiò, e si mise a piangere. «Sono tornato a piedi all'autostrada», dissi. «Ho fermato una macchina. Era una macchina guidata da una ragazza sola. Lei si è fermata e mi ha dato un passaggio». «Che ragazza», disse Randall. «Di notte, sola, su una strada deserta, e si è fermata». «Sì, se ne trovano. Non ho potuto sapere chi fosse ma pareva carina». Li guardai, sapendo che non mi credevano, e chiedendomi perché stessi mentendo. «Era una vetturetta», aggiunsi. «Non ho guardato il numero della targa». «Hai sentito, non ha guardato il numero della targa», disse uno dei poliziotti, e sputò di nuovo nel cestino della carta straccia. Randall si chinò avanti e mi scrutò con attenzione. «Se stai tacendo qualcosa con l'idea di lavorarci tu sopra e farti un po' di pubblicità, io al tuo posto lascerei perdere, Marlowe. Ci sono dei punti nel tuo racconto che non mi vanno. Aspetterò che la notte ti porti consiglio. Domani probabilmente ti chiederò una dichiarazione sotto giuramento. Intanto lascia che ti dia un piccolo avvertimento. Qui si tratta di un omicidio, ovvero di una faccenda che riguarda la polizia, e noi non vogliamo il tuo aiuto, neanche se ne valesse la pena. Da te vogliamo soltanto delle informazioni. Chiaro?». «Sicuro. Ora posso andare a casa? Non mi sento troppo bene». «Puoi andare». I suoi occhi erano di ghiaccio. Mi alzai e mi avviai verso la porta in un silenzio mortale. Avevo fatto
quattro passi quando Randall si schiarì la gola e disse con noncuranza: «Ah, un'altra cosa. Hai fatto caso a che tipo di sigarette Marriott fumasse?». Io mi voltai. «Sì», risposi. «Scure. Sudamericane, in un portasigarette smaltato». Randall si chinò ed estrasse dalla roba ammucchiata sul tavolo il portasigarette di seta ricamata. «Mai visto questo?». «Certo. Lo stavo proprio guardando un momento fa». «Mai visto prima, durante la sera?». «Mi pare di sì», dissi. «Da qualche parte. Perché?». «Non hai frugato il cadavere?». «Bene. Sì, gli ho guardato nelle tasche. Quello era in una tasca. È stata una semplice curiosità professionale. Ma non ho smosso nulla. Dopotutto era mio cliente». Randall prese con due mani il portasigarette ricamato e l'aprì. Guardò nell'interno. Era vuoto. Le tre sigarette erano scomparse. Io mi morsi le labbra e feci uno sforzo per conservare sul volto l'espressione stanca e annoiata. Non era facile. «L'hai visto fumare sigarette prese di qui?». «No». Randall annuì freddamente. «È vuoto, come vedi. Eppure lo aveva in tasca. C'è un po' di polvere dentro. La farò esaminare al microscopio. Non ne sono sicuro, ma credo che sia marijuana». Io dissi: «Se ne avesse avute, credo che ne avrebbe fumato un paio stasera. Aveva bisogno di qualcosa che lo tirasse un po' su». Randall chiuse con cura il portasigarette e lo ripose. «Non c'è altro», disse. «E pensaci bene».. Io uscii. Fuori la nebbia se n'era andata e le stelle brillavano come stelle artificiali d'argento su un cielo di velluto nero. Io guidai a tutta velocità verso casa. Avevo un bisogno terribile di bere qualcosa e i bar erano tutti chiusi. CAPITOLO XIII Mi alzai alle nove, bevvi tre tazze di caffè forte, mi feci degli impacchi ghiacciati alla nuca e lessi i due giornali del mattino che erano stati infilati sotto la porta d'ingresso. C'era una notizia di poche righe su Moose Mal-
loy, in seconda pagina, ma Nulty non era nominato. Non c'era niente su Lindsay Marriott, a meno che l'avessero messo nella cronaca mondana. Mi vestii, sorbii due uova da bere, bevvi la quarta tazza di caffè e mi guardai nello specchio. Avevo ancora un po' di occhiaie. Stavo aprendo la porta quando squillò il telefono. Era Nulty. Sembrava agitato. «Marlowe?». «Sì. L'avete preso?». «Certo che l'abbiamo preso», fece una pausa per sghignazzare. «Alla barriera Ventura, come vi avevo detto. È stato un divertimento. Una specie di gigante, andava a Frisco a vedere la fiera. Aveva sul sedile accanto a lui quattro bottiglie vuote e beveva da una quinta mentre guidava, a cento all'ora buoni. Tutto quel che avevamo noi per affrontarlo erano due poliziotti con le rivoltelle e i manganelli». Fece una pausa, e io formulai mentalmente un paio di battute ironiche, ma nessuna mi parve divertente in quel momento. Nulty continuò: «Così lui si è divertito con gli agenti e quando questi si sono sentiti stanchi abbastanza per mettersi a dormire, lui si è appoggiato alla loro auto, ha buttato la radio nel fossato, poi ha tirato fuori una sesta bottiglia e si è messo a dormire anche lui. Dopo un po' i ragazzi si sono ripresi e hanno cominciato a manganellargli la testa per una decina di minuti prima che lui se ne accorgesse. Quando ha cominciato a seccarsi gli hanno messo le manette. È stato facile. Adesso lo abbiamo qui al fresco, per guida di automobile in stato di ubriachezza, aggressione ad agenti di polizia nell'esercizio delle loro funzioni, tentativo di sfuggire all'arresto, danni dolosamente arrecati a oggetti di proprietà statale, molestie e parcheggio sull'autostrada. Divertente, no?». «E in conclusione?» chiesi. «Non mi avrete raccontato tutto questo solo per raccontarmelo». «Non era lui», ruggì Nulty. «Questo qui si chiama Stoyanoffsky, abita a Hemet, e tornava da San Jack dov'era stato a lavorare per un tunnel. Ha moglie e quattro figli. Sapeste come si è arrabbiata la moglie. Voi che avete fatto per quel Malloy?». «Niente. Ho il mal di testa». «Appena vi capita di avere un po' di tempo libero...». «Non credo che mi capiterà», dissi. «Ad ogni modo grazie. Quando saranno pubblicate le notizie di queste indagini sulla morte del negro?». «Che ve ne importa?» scattò Nulty, e riappese.
Presi la macchina, arrivai al Boulevard Hollywood, parcheggiai dietro la casa e salii al mio piano. Aprii la porta della piccola anticamera che non chiudevo mai a chiave, per il caso che venisse un cliente e che questo cliente avesse voglia di aspettare. Miss Anne Riordan alzò gli occhi da una rivista illustrata e mi sorrise. Portava un vestito a giacca color tabacco e sotto un maglione accollato. I capelli alla luce del giorno erano veramente castani. Sopra quei capelli, aveva un cappello con una cupola grande come un bicchiere da whisky e una falda in cui si sarebbe potuta involtare la biancheria di tutta la settimana per la lavandaia. Portava quel cappello con un'inclinazione di circa quarantacinque gradi, cosicché l'orlo della falda le sfiorava la spalla. Nonostante questo, le stava bene. O forse proprio per questo. Poteva avere ventotto anni. Aveva la fronte un po' stretta, più alta di quanto è prescritto per esser belle. Il naso era piccolo, impertinente, il labbro superiore un po' troppo lungo, la bocca un po' troppo larga. Aveva occhi grigio-azzurri con sfumature dorate; un bel sorriso. Doveva aver dormito bene. Era una bella faccia la sua, uno di quei visi che riescono simpatici. «Non sapevo quale fosse il vostro orario d'ufficio», disse. «Così ho aspettato. Vedo che oggi la vostra segretaria non c'è». «Non ho segretaria», risposi. Entrai e aprii la porta interna, che era chiusa a chiave. «Passiamo nella mia stanza», dissi. «È qui che io ricevo e penso». Lei mi passò davanti con un vago profumo di legno di sandalo e si fermò a guardare i cinque registratori verdi, il tappeto logoro color ruggine, i mobili polverosi e le tendine non troppo pulite alla finestra. «Mi pare che abbiate bisogno di qualcuno che risponda al telefono», disse. «E che ogni tanto mandiate le tendine dalla lavandaia». «Le metterò fuori il primo giorno che piove. Sedetevi», proseguii. «Sì, è vero, forse così rischio di perdere qualche cliente di poco conto. E di fare qualche sgambata di meno, spendendo soldi inutilmente». «Capisco», disse lei con compunzione. Posò la borsa sull'angolo della copertura di cristallo del tavolo. Si chinò a prendere una delle mie sigarette. Io per accendergliela mi bruciai le dita con un fiammifero di carta. Lei soffiò un ventaglio di fumo e attraverso di esso mi sorrise. Bei denti, un po' grandi. «Probabilmente non vi aspettavate di rivedermi così presto. Come sta la vostra testa?».
«Maluccio. No, non me l'aspettavo». «Com'è andata con la polizia?». «Secondo il loro solito». «Vi faccio perdere tempo?». «No». «Pure non ho l'impressione che vi faccia molto piacere vedermi». Riempii la pipa e l'accesi con cura. Lei mi guardò con aria d'approvazione. I fumatori di pipa sono persone serie. Ma le si preparavano delusioni sul conto mio. «Ho cercato di lasciare voi fuori dalla faccenda», dissi. «Non so nemmeno bene perché. Ad ogni modo ora la cosa non mi riguarda più. Me la son vista brutta stanotte finché non sono riuscito a venirmene a casa e a mettermi a letto con una buona bottiglia. Adesso è cosa che riguarda la polizia: sono stato avvertito di non metterci becco». «Mi avete lasciato fuori dalla faccenda», disse lei con calma, «perché non vi pareva probabile che la polizia credesse al fatto che soltanto una curiosità senza scopo mi avesse condotta in quel posto ieri sera. Avrebbero sospettato qualche motivo segreto e mi avrebbero martellato di domande fino a ridurmi uno straccio». «Come sapevate che io invece non la pensavo così?». «So come sono i poliziotti», disse con aria noncurante. Girò per l'ufficio un'occhiata pigra ma penetrante. «Vi trovate proprio bene qui? Voglio dire: finanziariamente. Cioè: fate molti quattrini... con questi mobili?». Io grugnii. «Oppure dovrei badare agli affari miei e non fare domande impertinenti?». «Vi riuscirebbe, se vi ci provaste?». «Adesso siamo in due. Dite: perché avete voluto coprirmi? È stato perché ho i capelli rossicci e una figura piacevole?». Io non dissi nulla. «Allora vediamo», aggiunse lei allegramente. «Vi interesserebbe sapere a chi apparteneva quella collana di giada?». Mi accorsi di irrigidire il volto. Pensai con un certo sforzo ma non riuscivo a ricordare bene. Poi all'improvviso, ricordai, con certezza, che non le avevo detto nemmeno una parola su una collana di giada. «Non molto». Poi chiesi: «Perché?». «Perché io lo so». «Ohibò», dissi.
«Che fate quando siete meno taciturno, muovete gli alluci?». «Bene», replicai. «Siete venuta qui per dirmelo. Ditemelo». Gli occhi azzurri si spalancarono e per un attimo ebbi l'impressione di scorgervi una lacrima. Si prese fra i denti il labbro superiore e rimase un momento così, fissando la scrivania. Poi scosse le spalle, lasciò andare il labbro e mi sorrise con candore. «Lo so», disse, «sono una ragazza un po' troppo curiosa e impertinente. Ma c'è un motivo atavico. Mio padre faceva il poliziotto. Si chiamava Cliff Riordan e fu capo della polizia a Bay City per sette anni. Credo che sia per questo». «Mi sembra di ricordare», dissi. «Che ne è stato di lui?». «Fu dimesso. Questo fatto gli spezzò il cuore. Una banda di biscazzieri capeggiata da un tale Laird Brunette fece eleggere un suo sindaco. Così a papà assegnarono l'ufficio "visti", che a Bay City ha l'importanza di un francobollo usato. Perciò papà tirò avanti per un paio d'anni e poi morì. La mamma morì subito dopo di lui. Sono due anni che io sono sola». «Mi dispiace», dissi. Lei depose la cicca. La cicca non aveva traccia di rossetto. «L'unico motivo per cui vi disturbo è che per me è facile mettermi in contatto con la polizia. Credo che avrei dovuto dirvelo ieri sera. Così stamattina ho chiesto a chi fosse stato affidato il caso e sono andata a trovarlo. Sulle prime era un po' in collera con voi». «Va benissimo così», risposi. «Neanche se gli avessi detto tutta la verità su ogni punto mi avrebbe creduto. Tutto quel che farà sarà di mangiarmi un pezzo di orecchio». Lei sembrò a disagio. Io mi alzai e aprii la finestra. Il rumore del traffico, giungendo dalla strada a ondate, dava la nausea. Mi sentivo male. Aprii il cassetto della scrivania, tirai fuori la bottiglia dell'ufficio e mi versai da bere. Miss Riordan mi guardò con un'aria di disapprovazione. Non ero più una persona seria, per lei. Non disse niente, però. Io bevvi, rimisi a posto la bottiglia e tornai a sedermi. «Non me ne avete offerto», disse freddamente. «Scusate», dissi. «Non sono nemmeno le undici ancora. Non mi sembravate il tipo». Lei strizzò un po' gli occhi agli angoli. «È un complimento?» chiese. «Per il mio temperamento, sì». Lei ci pensò su. Dovette trovare che non voleva dir niente. Trovai an-
ch'io che non voleva dir niente, quando ci pensai su. Ma dopo aver bevuto mi sentivo un po' meglio. Si chinò e tolse con un guanto, lentamente, un po' di polvere dal cristallo del tavolo. «Non avreste bisogno di un'assistente? Neanche se vi costasse solo una parola gentile di quando in quando?». «No». Lei fece segno di sì. «Me l'aspettavo», disse. «Sarà meglio che vi dia l'informazione e me ne vada». Io non risposi. Accesi di nuovo la pipa. È un gesto che vi fa apparire pensosi quando non sapete a che pensare. «Prima di tutto, ho riflettuto che una collana di giada come quella doveva essere un pezzo da museo e doveva essere ben conosciuta», lei disse. Io tenni il fiammifero in aria, acceso, finché la fiamma mi scottò le dita. Poi lo spensi con un soffio e lo gettai nel portacenere. «Io non vi avevo mai parlato di una collana di giada». «Voi no», disse lei. «Ma il tenente Randall sì». «Dovrebbero cucirgli la bocca». «Conosceva mio padre. E gli ho promesso che non l'avrei detto a nessuno». «Lo state dicendo a me». «Voi lo sapevate già, stupido». La mano le si alzò all'improvviso come se lei stesse per tapparsi la bocca, poi restò a mezz'aria e ricadde lentamente, mentre gli occhi le si spalancavano. Era una bella mossa, ma io ne sapevo più di lei. «Vero che lo sapevate?» lei chiese a voce bassa. «Credevo che si trattasse di diamanti. Un braccialetto, un paio di orecchini, un pendaglio, tre anelli, uno dei quali con smeraldi». «Non scherzate», disse lei. «E non parlate così in fretta». «Giada di Fei Tsui», precisai. «Molto rara. Grani lavorati di circa sei carati ciascuno, in numero di sessanta. Valore ottantamila dollari». «Avete degli occhi scuri così simpatici», disse lei. «E volete fare il cattivo». «Su: a chi appartiene e come l'avete saputo?». «L'ho saputo in un modo molto semplice. Ho pensato che il primo gioielliere della città probabilmente lo sapesse, così sono andata a chiederglielo. Gli ho detto di essere una scrittrice e di voler fare un articolo sulla giada preziosa... Sapete il sistema». «E lui», dissi io, «ha creduto ai vostri capelli rossi e alla vostra figurina
graziosa». Lei arrossì fino alle tempie. «Comunque, me lo ha detto. Appartiene ad una ricca signora che abita a Bay City, in una villa sul Canyon. La signora Merwin Lockridge Grayle. Il marito è un finanziere o qualcosa di simile, straordinariamente ricco, si calcola una ventina di milioni di dollari. Era proprietario di una stazione radio a Beverly Hills, la KDFK, e la signora Grayle era impiegata lì. Lui l'ha sposata cinque anni fa. Lei è un'affascinante bionda. Il signor Grayle è più vecchio di lei, soffre di fegato, sta a casa e prende la camomilla mentre la signora Grayle va in giro a divertirsi». «Ma com'è informato, quel gioielliere», dissi io. «Stupido, mica me le ha dette lui tutte queste cose. Il resto l'ho saputo da Giddy Gertie Arbogast». Riaprii il cassetto e tirai fuori di nuovo la bottiglia dell'ufficio. «Non vorrete mica diventare uno di quei poliziotti ubriaconi?» chiese lei preoccupata. «E perché no? Questi risolvono sempre i loro casi e senza neanche affannarsi mai. Andate avanti». «Giddie Gerty è il cronista mondano del Chronicle. Lo conosco da molti anni. Pesa ottanta chili e porta i baffetti alla Hitler. Mi ha messo a disposizione il suo archivio sui Grayle. Guardate». Frugò nella borsa e ne estrasse una fotografia che posò sul tavolo. Era una bionda. Una bionda da far fare i salti mortali a un vescovo. Portava un abito da passeggio che sembrava bianco e nero, e un cappello in tinta. Aveva un'aria un po' altezzosa, ma non troppo. Insomma, sapete come uno è portato, delle volte, a pensare a certe cose... be', lei era così. Poteva avere una trentina d'anni. Mi versai in fretta da bere e mi scottai la gola ingerendo una lunga sorsata. «Mettete via quella roba», dissi, «o non rispondo di me». «Ma è per voi che l'ho portata», rispose. «Vi farebbe piacere conoscerla?». Io guardai di nuovo la foto. Poi la nascosi sotto la cartella sul tavolo. «Facciamo stasera alle undici?» proposi. «Sentite, signor Marlowe, non divertiamoci con le battute. Le ho telefonato io. Lei vi riceverà. Per ragioni di lavoro». «Può essere un modo di far conoscenza». Lei fece un gesto impaziente, perciò io smisi di scherzare e concentrai sulla mia fronte tutte le migliori rughe delle grandi occasioni.
«Perché mi riceve?». «Per la collana, naturalmente. È stato così. Io le ho telefonato e naturalmente ho dovuto penare parecchio prima di poter parlare con lei, ma alla fine ci sono riuscita. Allora le ho raccontato la stessa storia che avevo raccontato a quel bravo gioielliere, ma stavolta non ha attaccato. Lei pareva non fidarsi. Ha detto di parlare di queste cose con la sua segretaria, ma io sono riuscita a trattenerla al telefono e le ho chiesto se era vero che aveva una collana di giada Fei Tsui. Dopo un poco lei finalmente ha detto di sì. Io le ho domandato se potevo vederla. Perché? ha detto lei. Io ho parlato di nuovo dell'articolo da scrivere ma non l'ho convinta. La sentivo che sbadigliava e cercava di interrompere la conversazione. Allora le ho detto che lavoravo per conto di Philip Marlowe. E lei ha detto: "E chi se ne frega?" Proprio così». «Incredibile. Ma oggigiorno tutte le signore della buona società parlano in quel modo. Come delle donne di strada». «Chissà», disse dolcemente Anne Riordan, «forse sono davvero delle donne di strada. Io le ho chiesto se ha un telefono diretto e lei mi ha chiesto perché m'impicciavo degli affari suoi. Ma la cosa più strana è che non mi ha attaccato il ricevitore in faccia». «Pensava alla giada e non sapeva a che cosa voleste arrivare voi. Magari aveva già parlato con Randall». Miss Riordan scosse la testa. «No. A Randall ho telefonato dopo e lui non sapeva a chi appartenesse la collana. È rimasto meravigliato che io fossi riuscita a scoprirlo». «Ci farà l'abitudine», dissi io. «E poi?». «Poi ho detto alla signora Grayle: "Vi andrebbe di riaverla, eh?". Proprio così. Non potevo fare diversamente. Dovevo dirle qualcosa che la turbasse. È servito, infatti. Lei mi ha dato subito un altro numero. Io l'ho chiamata lì e le ho detto che volevo vederla. Lei si è meravigliata. Perciò ho dovuto raccontare tutto. Non le ha fatto piacere. Ma si stava già chiedendo perché mai Marriott non si facesse vivo. Stava forse per pensare che lui fosse fuggito col denaro o qualcosa di simile. Così ho un appuntamento con lei alle due. Le parlerò di voi e le dirò come siete bravo e per bene e come sareste capace di farle riavere la collana, se c'è qualche possibilità di farlo, eccetera. Lei è già ben disposta». Io non dissi nulla. Mi limitai a guardarla. Lei sembrò offesa. «Che c'è?» disse. «Non ho agito bene?». «Volete mettervi in testa», dissi, «che questa è una faccenda che riguar-
da la polizia e che io sono stato ammonito di non metterci il becco?». «La signora Grayle non ha tutto il diritto di affidarsi nelle vostre mani, se vuole?». «Nelle mie mani a che scopo?». Lei agitò nervosamente la borsa. «Oh, santo cielo», disse. «Una donna come quella... così bella e così importante... ma non capite?...». Si interruppe mordendosi le labbra. «Che tipo era quel Marriott?». «L'avevo appena conosciuto. Mi è sembrato un mezzo pederasta. Non mi andava molto giù». «Era un uomo di quelli che piacciono alle donne?». «A certe donne sì. Ad altre darebbe la nausea». «Allora poteva piacere alla signora Grayle. Lei andava con lui». «È probabile che vada con un centinaio di uomini. Ormai ci sono poche possibilità di riavere la collana». «Perché?». Mi alzai, attraversai la stanza e detti un colpo forte sulla parete con la palma della mano. La macchina da scrivere che ticchettava dall'altra parte della parete si fermò per un momento, poi ricominciò. Dalla finestra guardai nel vicolo fra il mio palazzo e quello di fronte. Dal basso saliva un profumo di caffè tanto forte e resistente che ci si sarebbe potuto costruire una casa sopra. Tornai alla scrivania, rimisi nel cassetto la bottiglia del whisky, chiusi il cassetto e mi sedetti di nuovo. Per l'ottava o la nona volta riaccesi la pipa e osservai con attenzione, oltre il piano di cristallo impolverato della scrivania, la faccina seria e onesta di Miss Riordan. «Ascoltate, Anne», dissi. «Ammazzare Marriott è stato un errore madornale. Una banda di rapinatori come questa non farebbe mai cose del genere. Qualche imbecille che s'erano portati dietro come armigero ha perso forse la testa. Marriott avrà fatto una mossa falsa e l'imbecille lo ha fatto fuori prima che potessero impedirglielo. Qui c'è di mezzo una banda organizzata, con una rete d'informazioni sui gioielli e sui movimenti delle donne che li portano. Chiedono riscatti modesti e sono disposti a stare al gioco. Ma c'è di mezzo ora anche un omicidio che non c'entrava per niente. La mia idea è che, chiunque sia stato, ormai è in fondo al Pacifico da molte ore, con dei pesi alle caviglie. I casi sono due: o la giada è andata con lui, oppure, se hanno un'idea del suo valore autentico, l'hanno nascosta in qualche posto da cui non si arrischieranno a tirarla fuori per molto, molto tempo, forse per anni e anni. Oppure, se si tratta di una banda importante, può darsi che la giada ricompaia dall'altra parte del globo. Gli ottomila
dollari che avevano chiesto sembrano un po' pochini, se ne sapevano il valore vero. Ma certo è difficile rivenderla. E io sono sicuro di una cosa: non avevano intenzione di ammazzare nessuno». Anne Riordan mi ascoltava con la bocca semiaperta e un'espressione rapita sul volto, come se stesse guardando il Dalai Lama. Chiuse lentamente la bocca e fece un cenno di assenso. «Siete bravissimo», disse dolcemente. «Ma siete pazzo». Si alzò prendendo la borsa. «Andrete da lei o no?» disse. «Randall non può impedirmelo... se è lei che mi chiama». «Benissimo. Vado a trovare un altro cronista mondano per avere dell'altro materiale sui Grayle. Sulla vita amorosa di lei, per esempio. Avrà una sua vita amorosa, vi pare?». Il volto incorniciato dai capelli castani aveva ora un'espressione triste. «E chi non ha una vita amorosa?» scherzai io. «Io», precisò lei. «Mai avuta. Veramente». Io feci in tempo a tapparmi la bocca con una mano. Lei mi dette un'occhiata brusca e si avviò verso la porta. «Avete dimenticato una cosa», dissi io. Lei si fermò voltandosi. «Che cosa?» domandò. Guardò la scrivania. «Lo sapete che cosa». Lei tornò verso la scrivania e si rivolse a me con impazienza. «Ma perché avrebbero ammazzato l'uomo che ha fatto fuori Marriott, secondo voi, se loro in genere non ammazzano?». «Perché quello era un tipo che si sarebbe fatto prendere una volta o l'altra e che per farlo cantare... sarebbe bastato non dargli la sua droga». «Come fate a esser sicuro che l'assassino prendesse la droga?». «Non ne sono affatto sicuro. L'ho detto per dire. Molti imbecilli lo fanno». «Ah», lei si raddrizzò e sorrise. «Volete parlare di queste», disse. Ficcò in fretta la mano nella borsa ed estrasse un involtino di carta velina. Io lo presi, tolsi l'elastico con cura e aprii la carta velina. Su di essa apparvero tre lunghe sigarette di tipo russo col bocchino sottile. Io guardai lei senza dire niente. «Lo so che non avrei dovuto prenderle», rispose lei quasi senza fiato. «Avevo capito che erano drogate. Prima le facevano con le cartine bianche ma adesso le mettono in circolazione così. Ne ho viste parecchie. Ho pensato che era un peccato se trovavano quel poveretto morto con delle siga-
rette alia marijuana in tasca». «Avreste dovuto prendere anche l'astuccio», dissi io tranquillamente. «C'era della polvere. E siccome era vuoto, il fatto era sospetto». «Non ho potuto: c'eravate voi. Volevo quasi tornare lì; ma poi non ho avuto il coraggio. Vi ho messo in un pasticcio?». «No», mentii. «Perché poi?». «Mi fa piacere», fece lei. «Perché non le avete buttate via?». Lei ci pensò un momento. Aveva al fianco la grossa borsa e la larghissima falda di quell'assurdo cappello le nascondeva un occhio. «Forse perché sono figlia di un poliziotto. Non si buttano via le prove». Aveva sul volto un sorriso timido e colpevole, ed era arrossita. Io scrollai le spalle. «Bene...», disse lei. La parola rimase sospesa in aria come il fumo in una stanza. Le sue labbra rimasero aperte dopo averla pronunziata. Io lasciai che restasse in aria. Lei diventò anche più rossa. «Mi dispiace terribilmente. Non avrei dovuto farlo». Io ignorai anche questo. Lei raggiunse in fretta la porta e uscì. CAPITOLO XIV Toccai con la punta del dito una delle lunghe sigarette, poi le disposi tutte e tre una accanto all'altra in fila. Mi dimenai sulla seggiola. Non si buttano vie le prove. Dunque erano prove. Prove di che? Provavano soltanto che un tale fumava ogni tanto una sigaretta drogata, e quest'uomo per di più aveva l'aria di non restare insensibile a nessuna cosa che avesse un tono esotico. D'altra parte c'è un'infinità di gente che fuma la marijuana, persino suonatori d'orchestra, studentelli e ragazzine per bene che hanno già oltrepassato il periodo degli esperimenti. È l'hascisc americano. Una pianta capace di crescere dovunque. La sua coltivazione è proibita. Il che non conta tanto in un paese grande come gli Stati Uniti d'America. Io me ne stetti seduto, tirando dalla pipa; ascoltavo il ticchettio della macchina da scrivere nell'ufficio vicino, il rumore ritmato dei semafori sul Boulevard Hollywood, la primavera che frusciava nell'aria come un involto di carta trasportato dal vento sul marciapiede. Le sigarette erano belle, grosse e lunghe, come quelle russe. La marijuana è una foglia dura; viene dall'India. Hascisc americano. Ma guarda che
cappelli si mettono in testa le donne. Avevo mal di testa. Che sciocchezze. Estrassi il temperino e aprii la lama piccola e aguzza, quella con la quale non pulivo la pipa. Presi una delle sigarette. Era quel che avrebbe fatto un tecnico della polizia. Aprirne una e esaminare quella roba al microscopio, tanto per incominciare. Poteva esserci qualcosa. Non era molto probabile, ma in fin dei conti lo stipendio alla fin del mese per qualcosa glielo davano. Ne aprii dunque una incidendola nel senso della lunghezza. Il bocchino era duro da aprire. Ci voleva altro per impressionarmi. Tagliai anche il bocchino. Quando faccio le cose io, non scherzo. Dal bocchino uscirono i pezzetti di un cartoncino arrotolato, sul quale era stampato qualcosa. Io mi rizzai a sedere e cercai di rimettere in ordine i pezzetti sulla scrivania, ma mi sfuggivano fra le mani. Afferrai un'altra sigaretta e frugai dentro il bocchino. Mi misi al lavoro con la lama del temperino in un modo diverso da prima. Incisi la sigaretta all'inizio del bocchino. La cartina era leggera. Mozzai così il bocchino, poi lo incisi per il lungo, appena appena. Si aprì e sotto c'era un altro cartoncino, arrotolato e questa volta intatto. Soddisfattissimo lo srotolai. Era un biglietto da visita. Avorio pallidissimo, quasi bianco. C'erano stampate delle parole in carattere molto fine e nell'angolo in basso a sinistra un numero telefonico. Nell'angolo in basso a destra si leggeva: «Solo per appuntamento». Nel mezzo, un po' più in grande ma non troppo: «Jules Amthor». Sotto, più in piccolo: «Medico della psiche». Presi la terza sigaretta. Questa volta, con difficoltà lievemente maggiore, riuscii a estrarre il cartoncino senza rompere niente. Era come l'altro. Lo rimisi a posto dov'era. Guardai l'orologio, posai la pipa nel vassoio, poi dovetti tornare a guardare l'orologio per vedere che ora era. Involtai le due sigarette tagliate e i pezzetti del primo cartoncino in un pezzo della carta velina. La sigaretta intatta col cartoncino intero l'avvolsi nell'altro pezzo di carta velina. Chiusi a chiave i due involtini nella scrivania. Osservai il biglietto da visita. Jules Amthor, medico della psiche, solo per appuntamento, telefono e niente indirizzo. Tre cartoncini così, arrotolati in tre sigarette drogate, il tutto in un portasigarette di seta cinese o giapponese coi draghi ricamati intorno ad un'ossatura imitazione tartaruga; un oggetto che poteva costare da un massimo di trentacinque dollari a un minimo di settantacinque cents, in uno di quei negozi orientali, Uei Fuei
Sing, o Long Sing Tung, in uno di quei posti, dove c'è un giapponese tanto gentile che vi parla sibilando e si fa allegre risate quando voi gli dite che l'incenso «Luna d'Arabia» ha lo stesso odore delle ragazze della pensione di Sadie a Frisco. E tutto questo in tasca a un uomo indiscutibilmente morto, il quale aveva un altro portasigarette veramente di valore con sigarette che egli in effetti fumava. Doveva essersene dimenticato. Era una cosa priva di senso. Magari non era affatto suo. Magari l'aveva trovato nell'atrio di un albergo. Poi se l'era dimenticato in tasca. Jules Amthor, medico della psiche. Squillò il telefono. Io risposi distrattamente. La voce aveva il gelo e la durezza della voce di un poliziotto sicuro di sé. Era Randall. Randall non faceva sproloqui, apparteneva alla categoria dei «gelidi». «Così non sapevi chi era quella ragazza di ieri sera, eh? Lei ti ha dato un passaggio e tu eri arrivato a piedi fin là, eh? Belle bugie dici, Marlowe». «Può darsi che abbiate una figlia e che non vi faccia piacere vedere i fotografi saltar fuori dai cespugli a scattarle lampi in faccia». «Mi hai detto una bugia». «È stato un vero piacere». Egli rimase un attimo in silenzio, come se riflettesse. «Lasceremo perdere, per questa volta», disse. «L'ho vista io. È venuta a raccontarmi la storia. Per combinazione è figlia di un uomo che conoscevo e rispettavo». «Lei vi ha raccontato qualcosa», dissi io, «e voi avete raccontato altre cose a lei». «Le ho detto pochissimo», Randall disse con freddezza. «E c'è una ragione. È per la stessa ragione che ti ho telefonato. Queste indagini devono svolgersi segretamente. Abbiamo l'occasione di sgominare questa banda e ce la faremo». «Dunque stamattina è una banda. Benissimo». «Ad ogni modo, era proprio marijuana quella polvere in quel portasigarette coi draghi. Sei sicuro di non avergli visto fumare sigarette prese di lì?». «Sicurissimo. In mia presenza ha fumato solo le altre. Ma non è stato in mia presenza sempre». «Capisco. Bene, questo è tutto. Ricorda quello che ti ho detto stanotte. Non fare sforzi di fantasia per questa faccenda. L'unica cosa che vogliamo da te è che tu stia zitto. Altrimenti...». Fece una pausa. Io sbadigliai nel ricevitore.
«Ho sentito», scattò Randall. «Forse tu credi che io non sia in grado di fare sul serio. Invece è così. Al primo passo falso che fai ti metto sottochiave come testimone sospetto». «Volete dire che i giornali non devono saper niente?». «Sapranno del delitto. Ma non appureranno che cosa c'è dietro». «E neanche voi lo sapete», dissi io. «Ti ho avvertito già due volte», disse Randall. «La terza è di troppo». «Mi pare che facciate molte chiacchiere», io dissi, «per essere uno che ha le carte in mano». Mi attaccò il ricevitore in faccia. Benissimo, andasse pure all'inferno e se la sbrigasse da solo. Passeggiai un po' su e giù per l'ufficio per calmarmi, mi offrii un bicchierino, poi guardai di nuovo l'orologio senza vedere che ora era e tornai a sedermi alla scrivania. Jules Amthor, medico della psiche. Visite solo per appuntamento. Uno che se gli date tempo e denaro vi trova il rimedio per qualunque cosa, dalle corna della moglie a un'invasione di cavallette. Doveva essere un esperto in faccende d'amore frustrato, donne che dormono sole e stanno male per questo, ragazze e ragazzi fuggiti di casa senza dare notizie; doveva dar consigli se vendere subito le proprietà immobiliari o conservarle fino all'anno prossimo, rispondere se una certa attività potesse danneggiare presso un pubblico o far sembrare più versatili. Certo anche gli uomini si rivolgevano a lui, grandi uomini che ruggivano come leoni nel loro ufficio e che sotto i panni erano dei tremebondi conigli. Ma soprattutto donne: grasse col mal di cuore, magre con i bollori, vecchie piene di sogni, ragazze che sospettavano di avere il complesso di Elettra, donne di ogni forma, dimensione ed età, ma con una cosa sola in comune: i soldi. Niente martedì all'ospedale, per il signor Amthor. Telefonare. Ricche puttane capaci magari di non saldare il conto del lattaio erano pronte a pagare su due piedi somme favolose al signor Amthor. Una specie di ciarlatano, un artista dell'impostura, un tipo il cui biglietto da visita era arrotolato in una sigaretta drogata, trovata addosso a un morto. La cosa si metteva bene. Presi il telefono e chiamai il numero che era sul biglietto da visita. CAPITOLO XV
Rispose una voce di donna, aspra, dall'accento straniero. «Pronto», disse. «Posso parlare col signor Amthor?». «No, mi dispiace. Amthor non parla al telefono. Io sono la segretaria. Posso prendere la comunicazione io?». «Com'è il vostro indirizzo? Voglio parlare con lui». «Si tratta di una consultazione professionale? Amthor ne sarà lieto. Ma è molto occupato. Quando vorreste vederlo?». «Subito. Oggi stesso». «Non è possibile», disse la voce. «Forse la settimana prossima. Ora guarderò l'agenda». «Sentite», dissi, «lasciate stare l'agenda. Avete la matita?». «Certamente, ho la matita, ma...». «Scrivete. Mi chiamo Philip Marlowe. L'indirizzo è 615 Cahuenga Building, Hollywood. Telefono Glenview 7537». Aspettai. «Sì, signor Marlowe. Ho scritto». «Voglio vedere il signor Amthor per conto di un certo Marriott». Dissi le iniziali. «È molto urgente. È questione di vita o di morte. Devo vederlo subito, capito?». «Parlate in modo strano», disse la voce. «No», precisai, «sto benissimo. Parlo sempre così. Piuttosto si tratta di una faccenda strana. Il signor Amthor certamente vorrà ricevermi. Sono un investigatore privato. Ma non mi rivolgerò alla polizia prima di avere parlato con lui». «Ah», rispose la voce fredda come un pranzo in latteria. «Siete della polizia o no?». «Sentite», aggiunsi. «Sono della polizia e no. Sono un investigatore privato. Confidenziale. Riservato. Segreto. Ma è urgente lo stesso. Mi richiamate, sì? Avete il mio numero telefonico, no?». «Sì. Ho il numero. Sta poco bene il signor Marriott?». «Be', non è molto su», dissi. «Dunque lo conoscete?». «No. Avete detto che è questione di vita o di morte. Amthor guarisce molte persone...». «Questa è la volta che ha fatto cilecca», dissi. «Aspetto una telefonata». Riappesi e presi la bottiglia da ufficio. Passarono dieci minuti. Squillò il telefono. La voce disse: «Amthor vi attende alle sei». «Così va bene. Com'è l'indirizzo?». «Manderà una macchina».
«Ho la mia macchina. Datemi l'indirizzo». «Manderà una macchina», disse freddamente la voce. Sentii lo scatto del ricevitore riappeso. Di nuovo guardai l'orologio. Non era altro che ora di pranzo. Avevo lo stomaco in fiamme per l'ultimo bicchiere. Non avevo nessuna fame. Accesi una sigaretta. Aveva un sapore di piombo. Feci un cenno di saluto al signor Rembrandt, presi il cappello e uscii. Ero quasi arrivato all'ascensore quando il pensiero mi colpì. Mi colpì senza motivo e senza scopo, come un mattone che cade. Mi fermai appoggiandomi con le spalle alla parete di marmo del corridoio, mi girai il cappello in testa e scoppiai a ridere. Una ragazza che dall'ascensore tornava al suo ufficio mi gettò una di quelle occhiate che dovrebbero farvi alla spina dorsale l'effetto di una smagliatura in una calza di seta. Le feci un cenno con la mano, tornai di corsa nel mio ufficio e afferrai il telefono. Chiamai un tale di mia conoscenza che era impiegato all'ufficio registrazioni di una banca. «Puoi rintracciare la situazione di un immobile avendo solo l'indirizzo?». «Certo. Com'è?». «1644 West 54th Place. Vorrei sapere com'è la situazione giuridica e bancaria del titolo di proprietà». «Sarà meglio che ti richiami, che numero hai?». Richiamò due o tre minuti dopo. «Prendi la matita», disse. «È il lotto ottavo dell'isolato undici del prolungamento Caraday al tratto di Maplewood numero quattro. L'intestataria, sottoposta ad alcuni gravami, è Jessie Pierce Florian, vedova». «Sì. Quali gravami?». «Tasse varie, due obbligazioni decennali di contributo miglioramento stradale, un'obbligazione pure decennale per riparazioni alle grondaie, tutte regolari, e poi un'ipoteca di primo grado per 2600 dollari». «Vuoi dire una di quelle faccende per cui ti possono vendere la casa in dieci minuti?». «Non proprio così in fretta, ma sempre molto più in fretta di quando ci sono di mezzo delle rate d'ammortamento. Non c'è niente di strano, meno la cifra. È alta, per quel rione. A meno che non si tratti di una casa nuova». «È una casa molto vecchia e in pessime condizioni», dissi io. «Credo che non valga più di 1500 dollari». «Allora è davvero strano. L'ipoteca è stata fatta quattro anni fa». «Benissimo, chi è il creditore? Una società?».
«No. Un privato. Che si chiama Lindsay Marriott. Va bene?». Non ricordo che cosa dissi né come lo ringraziai. Probabilmente dissi qualcosa che poteva essere scambiato per una frase. Rimasi seduto, immobile, a fissare la parete. Improvvisamente mi sentii lo stomaco a posto. Avevo fame. Scesi giù in rosticceria a far colazione e presi la macchina dal parcheggio. Mi diressi a sud e poi a est, verso West 54th Place. Questa volta non portavo whisky. CAPITOLO XVI Il posto aveva lo stesso aspetto del giorno prima. La strada era quasi vuota, c'erano soltanto un carrozzone del ghiaccio, due Ford ferme e, alla cantonata, un vortice di polvere sollevato dal vento. lo fermai la macchina parecchio più in là del numero 1644 e osservai le case che vedevo da una parte e dall'altra. Tornai indietro a piedi e guardai la palma e il pezzo di giardino incolto. La casa sembrava vuota, benché probabilmente non dovesse esser proprio così. Aveva solo l'aspetto di una casa disabitata. La sedia a dondolo solitaria sotto il portico era nello stesso punto preciso del giorno prima. Sul marciapiedi c'era un foglio di carta gettato via. Io lo raccolsi e, mentre lo spiegavo sul ginocchio per vedere di che si trattasse, scorsi una tendina che si sollevava alla finestra della casa accanto. Era di nuovo la Vecchia Nasona. Mi tirai il cappello sugli occhi. Un naso a punta si appiattì quasi contro il vetro della hnestra. Sopra il naso c'erano dei capelli bianchi e un paio di occhi. Feci qualche passo e quegli occhi mi fissarono con maggiore intensità. Allora mi diressi verso quella casa, salii gli scalini di legno e suonai il campanello. La porta si aprì di scatto come se ci fosse stata una molla. La donna era alta, con un'aria da vecchio uccello e un muso da coniglio. Da vicino i suoi occhi erano fissi e penetranti, come luci riflesse in un'acqua tranquilla. Io mi tolsi il cappello. «Siete voi la signora che ha telefonato alla polizia in merito alla signora Florian?». Mi squadrò freddamente e non dovette sfuggirle niente di me, probabilmente nemmeno il mio neo dietro l'orecchio destro. «Non vi dico di no, giovanotto, e non vi dico di sì. Chi siete?». «Sono un poliziotto». «Per l'amor del cielo. E perché non me l'avete detto subito? Che ha fatto
ora quella donna? Non ho visto niente ma non ho staccato gli occhi di là neanche un minuto. Ho mandato Henry a far la spesa. Non si è sentito nemmeno un rumore». Tolse la catena e mi fece entrare. Nell'anticamera c'era un odore di vernice per mobili. I mobili scuri della stanza dovevano essere stati di stile, una volta. Roba con pannelli scolpiti e ghirlande sugli spigoli. Entrammo in una stanza dove c'erano fodere di merletto di cotone appuntate con degli spilli su ogni cosa. «Dite: ma non vi ho già visto?» domandò la vecchia all'improvviso con un'intonazione di sospetto nella voce. «Certo che vi ho visto. Siete quello che...». «Esatto», dissi. «E sono anche un poliziotto. Chi è Henry?». «È il ragazzino negro che mi fa le commissioni. Così, che cosa volete, giovanotto?». Si accarezzò con le mani il grembiule bianco e rosso e mi guardò. Batté la dentiera un paio di volte, per abitudine. «Sono venuti qui i funzionari ieri, dopo essere stati a casa della signora Florian?». «Che funzionari?». «I funzionari di polizia. In divisa», spiegai con pazienza. «Sì, sono venuti qui un momento. Non sapevano niente e non avevano niente da dire». «Descrivetemi l'uomo. Quel tipo grosso con la rivoltella, per cui avete telefonato alla polizia». Lei me lo descrisse con molti particolari. Era proprio Malloy. «Che auto aveva?». «Una automobile piccola. Riusciva appena a entrarci dentro». «Questo è tutto quello che sapete dirmi? Quell'uomo è un assassino!». Le mancò il fiato, ma gli occhi ebbero un'espressione di gioia. «Per amor del cielo, vorrei sapervi dire di più, giovanotto. Ma non m'intendo troppo di automobili. Un delitto, eh? Non ci si può mai sentire al sicuro, in questa città. Quando arrivai io, ventidue anni or sono, non si usava quasi chiudere le porte a chiave. Adesso ci sono i banditi e i poliziotti corrotti e gli uomini politici che si fanno la lotta fra loro a colpi di mitra, mi hanno detto. È un vero scandalo, ecco cos'è, giovanotto». «Già. Che cosa sapete della signora Florian?». La vecchia storse la bocca. «Non è una buona vicina. Tiene la radio aperta fino a tardi la notte. Canta. Non parla mai con nessuno». Si chinò un po' verso di me. «Non posso esserne sicura, ma secondo me beve».
«Riceve molte visite?». «Nessuna. Mai». «Voi certo lo sapreste, signora...». «Signora Morrison. Certo, per amor del cielo. Che altro ho da fare io oltre a guardare dalla finestra?». «Dev'essere un divertimento. È molto tempo che la signora Florian abita qui?». «Una decina d'anni, credo. Aveva un marito. Secondo me era un poco di buono. Morì». Fece una pausa e rifletté. «Credo che morisse di morte naturale», aggiunse. «Non ho mai sentito dire il contrario». «Le lasciò del denaro?». I suoi occhi divennero ostili. «Voi avete bevuto», disse freddamente la donna. «Vengo dall'essermi fatto strappare un dente. Mi ha dato qualcosa da bere il dentista». «Non mi va», dichiarò. «È robaccia», dissi io. «Va bene soltanto come medicina». «Non mi va», ribadì lei. «Neanche come medicina». «Credo che abbiate ragione», dissi. «Le lasciò dei soldi il marito?». «Non saprei». Ora la vecchia stringeva le labbra. Avevo perso terreno. «È venuto nessuno dopo la polizia?». «Non ho visto». «Molto bene, signora Morrison. Non vi disturberò oltre. Siete stata molto cortese e preziosa». Uscii dalla stanza e aprii la porta di strada. Lei mi seguì, si schiarì la gola e batté la dentiera un paio di volte. «Che numero dovrei chiamare?» disse in tono meno sostenuto. «Università 4-5000. Chiedete del tenente Nulty. Di che vive la signora Florian? Di beneficenza?». «In questo rione la gente non vive di beneficenza», disse lei con freddezza. «Immagino che quel mobile fosse l'ammirazione di Sioux Falls, un tempo», dissi scorgendo un credenzone lavorato che si trovava nell'anticamera perché la stanza da pranzo era troppo piccola. Era curvo alle estremità, aveva gambe sottili e lavorate e sui davanti c'era dipinto un cesto di frutta. «Mason City», disse lei piano. «Sì, signore, avevamo una bella casa a quei tempi, io e il mio George. Ma son cose passate». Aprii la porta, uscii e la ringraziai di nuovo. Lei ora sorrideva. Era un
sorriso penetrante come il suo sguardo: «Ogni mese riceve una raccomandata», disse all'improvviso. Io mi voltai e attesi. Lei si chinò verso di me. «Io vedo il postino bussare alla sua porta per farle firmare la ricevuta. Al primo di ogni mese. Lei si veste ed esce. Non rincasa fino a tardi. Canta tutta la notte. Certe volte avrei potuto chiamare la polizia tanto chiasso faceva». Io le presi il braccio. «Di persone come voi, ce n'è una su centomila, signora Morrison», dissi. Mi misi il cappello, facendo un cenno di saluto, e me ne andai. A mezza strada mi ricordai di una cosa e mi voltai. La vecchia era ancora sulla porta. Ritornai agli scalini. «Domani è il primo», dissi. «È il primo di aprile. Cercate di assicurarvi se riceve la raccomandata o no. D'accordo, signora Morrison?». Gli occhi le brillarono. Scoppiò in una risata stridula da vecchia. «Primo d'aprile», disse. «Può darsi che non arrivi. Pesce d'aprile». La lasciai che rideva. Sembrava una capra col singhiozzo. CAPITOLO XVII Nessuno rispose quando suonai il campanello e bussai alla porta vicina. Io riprovai. La porta non era chiusa a chiave. Entrai. Niente era cambiato, nemmeno l'odore di gin. Non c'erano cadaveri sul pavimento. Un bicchiere sporco era sul tavolo accanto alla sedia dove era stata il giorno prima la signora Florian. La radio era spenta. Trovai la bottiglia vuota che conoscevo in compagnia di un'altra, pure vuota. Chiamai. Nessuna risposta. Poi mi parve di udire un sospiro prolungato che assomigliava a un lamento. Passai sotto l'arcata e m'inoltrai nel corridoio. La porta della stanza da letto era semiaperta. Il suono lamentoso proveniva di là. Ficcai dentro la testa e guardai. La signora Florian era a letto. Stava distesa supina, con una coperta di cotone tirata su fino al mento. La frangia della coperta l'aveva quasi in bocca. La lunga faccia gialla appariva cadaverica. I capelli sudici erano sparsi sul cuscino. Gli occhi si aprirono lentamente e mi fissarono senza espressione. La stanza era piena di un odore nauseante, di sonno, liquore e panni sporchi. Una sveglia da sessantanove cents ticchettava sul cassettone. Il tic-tac era così forte che faceva tremare le pareti. Sopra la sveglia uno specchio rifletteva un'immagine deformata del volto della donna. Il
baule dal quale lei aveva preso le foto era ancora aperto. Io dissi: «Buon giorno, signora Florian. State bene?». Lei mosse lentamente le labbra, le strinse, poi estrasse la lingua, le inumidì, mosse la mascella. Uscì da quella bocca una voce simile al disco di un vecchio fonografo. Gli occhi mostravano ora di avermi riconosciuto, ma senza nessun piacere. «L'avete preso?». «Moose Malloy?». «Sì». «Non ancora ma spero presto». Lei chiuse gli occhi e poi li aprì di scatto come se volesse liberarli da un velo che li copriva. «Dovreste chiudervi a chiave in casa», dissi io. «Lui potrebbe tornare». «Secondo voi, io ho paura di Moose Malloy?». «Ieri avevate l'aria di sì, quando ve ne ho parlato». Lei ci pensò. Pensare la stancava. «Avete da bere?». «No», risposi, «oggi non ne ho portato, signora Florian. Sono un po' in bolletta». «Il gin costa poco. E va benissimo». «Potrei andarlo a comprare, più tardi. Così non avete paura di Malloy?». «Perché dovrei aver paura di lui?». «Benissimo, non avete paura di lui. E allora di che avete paura?». Un lampo comparve per un attimo negli occhi di lei, poi sfumò. «In malora», disse. «Voi poliziotti mi fate venire il mal di pancia». Io non risposi. Mi appoggiai allo stipite della porta, misi in bocca una sigaretta e cercai di farle toccare il naso con la punta, muovendola solo con le labbra. Era più difficile di quel che sembrava. «La polizia», disse lei lentamente, come se parlasse fra sé, «mica lo prenderà mai. Lui è in gamba, ha i soldi, ha tanti amici. State sprecando il vostro tempo, poliziotto». «È il nostro mestiere», dissi. «E poi era quasi legittima difesa. Dove può essere?». Lei sghignazzò e si asciugò la bocca con la coperta. «Vasellina», disse. «Adesso cercate di usare la vasellina. Bravo, poliziotto. Credono di potercela fare, con la vasellina». «A me Malloy è simpatico», dissi. Gli occhi sembrarono interessarsi. «Lo conoscevate?». «Ero con lui ieri, quando ha ammazzato quel negro in Central Avenue».
Lei spalancò la bocca e rise dimenando la testa, senza far più rumore di quanto se ne fa spezzando una pagnotta. Le spuntarono lacrime negli occhi e le scorsero sulle guance. «Grande e grosso così», dissi io, «con dei punti deboli, però. Ci teneva un bel po' a quella Velma». Gli occhi di lei si velarono. «Prima pareva che fossero i genitori a cercarla», disse piano. «La cercano, sicuro. Ma lei è morta, voi mi avete detto. Perciò niente da fare. Dove è morta?». «A Dalhart, nel Texas. Prese un raffreddore che le passò ai polmoni e così morì». «C'eravate anche voi?». «No. Me l'hanno detto». «Chi ve l'ha detto?». «Un tale. Non ricordo il nome. Se bevessi qualcosa, magari ci riuscirei». «Ancora una cosa», dissi io, «poi può darsi che vada a comprare il gin. Mi sono informato sulla proprietà di questa casa, non so bene perché». Lei era rigida sotto le coperte, come un fantoccio di legno. Anche le palpebre erano immobili sopra l'iride contratta degli occhi. Non respirava quasi. «C'è un'ipoteca un po' forte», dissi, «tenendo conto dello scarso valore della casa. È intestata ad un certo Lindsay Marriott». Sbatté le palpebre, ma nient'altro di lei si mosse. Mi fissò. «Ero al suo servizio», disse alla fine. «Facevo la cameriera nella sua famiglia. Lui si prende un po' cura di me». Mi tolsi di bocca la sigaretta non accesa, la guardai senza uno scopo, la rimisi in bocca. «Ieri pomeriggio, poche ore dopo che io ero venuto qui, il signor Marriott mi ha telefonato in ufficio e mi ha offerto un lavoro». «Che lavoro?». Ora la sua voce aveva un tono incerto. Io scrollai le spalle. «Non posso dirvelo. Cosa riservata. Sono andato a casa sua ieri sera». «Bel figlio di puttana siete», disse lei con violenza e mosse una mano sotto le coperte. Io la guardai senza dir niente. «Bel poliziotto», lei ghignò. Io passai una mano sullo stipite della porta. Pareva unto. Toccarlo mi bastava per sentire il bisogno di fare il bagno.
«È tutto qui», dissi. «Solo mi domandavo come mai. Può darsi che sia solo una coincidenza. Aveva l'aria però che ci fosse qualcosa sotto». «Bel poliziotto siete», ripeté lei. «Bene», dissi io. «Arrivederci, signora Florian. Comunque non credo che riceverete una raccomandata domani mattina». Lei gettò da parte le coperte e si levò di scatto con gli occhi fiammeggianti. Qualcosa luccicava nella sua mano destra. Era una piccola rivoltella. Era vecchia e malandata, ma pareva ancora in grado di funzionare. «Avanti», disse. «Dite tutto». Guardai la rivoltella e la rivoltella guardò me. Senza molta fermezza. La mano già tremava, ma gli occhi fiammeggiavano ancora. La saliva colava dagli angoli della sua bocca. «Potremmo metterci d'accordo, voi ed io», dissi. La rivoltella si abbassò insieme alla mascella della donna. Io ero a pochi centimetri dalla porta. Mentre la rivoltella si abbassava io infilai l'uscio. «E ripensateci», gridai dietro di me. Non si udì nemmeno un suono. Attraversai in fretta la sala da pranzo e l'anticamera e uscii dalla casa. Provavo, camminando, una strana sensazione alla schiena. Avevo i muscoli contratti. Non accadde nulla. Uscii nella strada, raggiunsi la macchina, me ne andai. Era l'ultimo giorno di marzo, ma faceva un caldo da estate. In macchina mi veniva voglia di togliermi la giacca. Arrivai alla Stazione di Polizia della 77a Strada. Dentro trovai un tenente in divisa che studiava il registro. Gli chiesi se Nulty era di sopra. Lui disse che credeva di sì e se io ero un amico suo. Risposi di sì. Lui mi lasciò andar su; salii le scale vecchie e sporche, percorsi il corridoio e bussai alla porta. Mi rispose la sua voce e io entrai. Nulty si stuzzicava i denti, standosene seduto su una sedia e coi piedi su un'altra. Osservava il pollice della propria mano destra, tenendoselo davanti agli occhi a braccio teso. A me pareva che quel pollice fosse perfettamente normale, ma Nulty era buio in viso, come se secondo lui ci fosse in quel pollice qualcosa che non andava. Lo abbassò, portandoselo sulla coscia, mise i piedi a terra e invece del pollice guardò me. Indossava un vestito grigio scuro. Sul tavolo un mozzicone masticato di sigaro aspettava il suo turno, non appena Nulty avesse terminato le operazioni con lo stuzzicadenti.
Io rivoltai la copertura di feltro che era sulla sedia dove lui aveva posato i piedi. Le fettucce non erano allacciate. Mi sedetti e presi una sigaretta. «E allora?» disse Nulty, e guardò lo stuzzicadenti come per decidere se era abbastanza masticato. «Buone notizie?» chiesi. «Di Malloy? Non me ne occupo più». «Chi se ne occupa?». «Nessuno. Del resto adesso è bloccato. Abbiamo fatto trasmettere le sue notizie dappertutto per telescrivente. Vero è che a quest'ora sarà già in Messico». «Poi non ha fatto niente di male, ha solo ammazzato un negro», dissi io. «Una specie di marachella, insomma». «A voi interessa ancora? Non vi eravate messo a lavorare?». I suoi occhi pallidi scrutavano la mia faccia. «Ieri sera ho avuto un incarico; ma è durato poco. Avete ancora quella foto in costume da Pierrot?». Nulty frugò nella cartella sul tavolo e la tirò fuori. Era sempre graziosa. Guardai la faccia. «Questa sarebbe mia; se non vi occorre per la pratica, la terrei volentieri io». «Dovrebbe stare nella pratica, infatti», rispose Nulty. «Ma me n'ero dimenticato. Va bene, non fatevela vedere. La pratica l'ho già inoltrata». Misi la foto nella tasca interna della giacca e mi alzai. «Bene, non c'è altro», dissi, con tono un po' troppo soddisfatto. «Mi puzza un po'», sentenziò Nulty. Io guardai il mezzo sigaro sulla scrivania. Nulty seguì il mio sguardo, gettò via lo stuzzicadenti e prese la cicca. «C'è ancora qualcosa che mi puzza», ripeté Nulty. «È una traccia molto vaga. Se prendesse consistenza non mi dimenticherò di voi». «Le cose vanno male. Ho bisogno di un colpo, amico». «Uno che lavora sodo come voi se lo meriterebbe». Nulty sfregò il fiammifero sul pollice, apparve compiaciuto del fatto che si accendesse subito e cominciò ad aspirare fumo dal sigaro. «Sto ridendo, sapete», disse con aria triste, mentre io uscivo dalla stanza. Il corridoio era silenzioso, e così tutto l'edificio. Scesi in strada, risalii in macchina e tornai a Hollywood. Mentre mettevo piede in ufficio squillò il telefono. Io mi chinai sul tavo-
lo e dissi: «Sì?». «Parlo col signor Philip Marlowe?». «Sì, qui Marlowe». «Qui è la casa della signora Merwin Lockridge Grayle. La signora Grayle vorrebbe vedervi appena vi è possibile». «Dove?». «L'indirizzo è 962 Aster Drive, Bay City. Posso dire che giungerete entro un'ora?». «Voi siete il signor Grayle?». «Ma no, signore. Sono il maggiordomo». «Fate conto che io stia già bussando alla vostra porta», dissi. CAPITOLO XVIII Era vicino all'oceano, l'oceano si sentiva nell'aria, ma il mare di lì non si scorgeva. Aster Drive faceva una bella curva in quel punto. Le case dell'entroterra erano simpatiche casette e nulla più, ma quelle dalla parte del canyon erano grandi residenze silenziose, con quattro metri di muro intorno e cancelli di ferro battuto. Dentro, chi riusciva a entrarci avrebbe trovato un sole speciale, molto clemente, preparato e condizionato apposta per gli appartenenti alle classi ricche. Sul cancello semiaperto stava un tale in giacca azzurra, stivali neri lucidissimi e pantaloni sgargianti. Era un tipo bruno, con tanto di spalle e i capelli lucidi come i suoi stivali. La visiera del berretto rigido gli faceva ombra sugli occhi. Aveva una sigaretta all'angolo della bocca. Teneva la testa un po' inclinata, come per non farsi andare il fumo nel naso. Una mano era coperta da un guanto nero, l'altra era nuda. Al dito medio aveva un grosso anello. Non c'era numero, ma doveva essere quello il 962. Fermai la macchina e glielo chiesi. Lui ci mise molto tempo a rispondermi. Prima dovette squadrare attentamente me e l'automobile. Si avvicinò lasciando ciondolare con noncuranza sul fianco la mano non guantata. Era quel tipo di noncuranza che vuol farsi notare. Si fermò a meno di un metro dall'automobile e mi squadrò di nuovo. «Cerco casa Grayle». «È questa. Non c'è nessuno». «Mi aspettano». Egli fece un cenno affermativo col capo. Gli occhi gli brillarono come
acqua. «Nome?». «Philip Marlowe». «Aspettate». Senza fretta tornò al cancello e aprì uno sportello di ferro che era sistemato in uno dei grossi pilastri. Dentro, c'era un telefono. L'uomo parlò brevemente, richiuse lo sportello e tornò da me. «Avete un documento d'identità?». Gli mostrai la licenza di circolazione sul parabrezza. «Questo non prova niente», disse lui. «Come faccio io a sapere se è la vostra automobile o no?». Tolsi la chiave dell'accensione, aprii la portiera e uscii dalla macchina. Mi trovai così proprio di fronte a lui, a una trentina di centimetri. «Sentite», dissi, «posso parlare col maggiordomo da quel telefono e lui riconoscerà la mia voce. Basterà questo per farmi passare o dovrete portarmi a cavalcioni voi?». «Io eseguo gli ordini», precisò lui. «Non crediate che io...». Non finì la frase e sorrise. «Bravo», dissi io e gli battei una mano sulla spalla. «Dove avete fatto il corso d'istruzione? A Dartmouth o a Dannemora?». «Cristo», disse lui. «Perché non me l'avete detto subito che eravate un poliziotto?». Ci sorridemmo a vicenda. Lui mi fece un cenno con la mano e io passai il cancello. Le due pareti del corridoio curvo di siepi alte e ben tenute, d'un verde molto scuro, isolavano completamente la strada e la casa. Oltre un cancello verde vidi un giardiniere giapponese al lavoro in un prato. Stava cogliendo una pianta dalla grande distesa vellutata e la osservava con una smorfia tutta giapponese. Poi l'alta siepe mi tolse di nuovo la visuale per una trentina di metri. Infine il viale terminò in un ampio piazzale, su cui si trovava ferma una mezza dozzina di automobili. Una era una vetturetta. C'erano un paio di Buick ultimo modello, da acquistarle ad occhi chiusi, una limousine nera, con le decorazioni nichelate e le ruote enormi; un'altra di modello sportivo aveva la cappotta abbassata. Di lì un tratto breve e largo pavimentato in cemento conduceva all'ingresso laterale della casa. A sinistra, oltre lo spiazzo del posteggio, c'era un giardino con una fontana a ciascuno dei quattro angoli. Il giardino si trovava più in basso del piazzale, come in un fossato. Un cancello di ferro battuto con un amorino alato nel mezzo sbarrava l'ingresso. C'erano statue a mezzo busto su colonnine e un sedile di pietra con due aquile scolpite ai lati. Più in là un por-
ticato di rose conduceva a una casa che sembrava un altare, fiancheggiato da siepi ma in modo incompleto, tanto da lasciare al sole la possibilità di tracciare un arabesco sui gradini dell'altare. Più in fondo a sinistra si presentava un pezzo di giardino selvaggio, non molto esteso, con una meridiana in un angolo e un muro in fondo, costruito in modo da sembrare un rudere. E poi molti fiori. Potevano essere un milione, i fiori. La casa in fondo non era gran che. Era più piccola di Buckingham Palace, piuttosto grigia e smorta per essere in California, e probabilmente aveva meno finestre del Chrysler Building. Io mi accostai all'ingresso, premetti il campanello e una suoneria nascosta chissà dove improvvisò un concerto simile a quello delle campane di una chiesa. Un uomo con una giacca a righe aprì la porta, s'inchinò, prese il mio cappello e per quel giorno scomparve. Dietro di lui nella penombra un tale con i pantaloni grigi a righe, dalle pieghe taglienti come coltelli, giacca nera, colletto bianco, cravatta grigia a righe accennò un inchino spostando di pochi centimetri la testa e disse: «Il signor Marlowe? Da questa parte, prego». Percorremmo un salone silenzioso, dove non si sentiva volare una mosca. C'erano tappeti orientali sul pavimento e affreschi sulle pareti. Svoltammo un angolo e trovammo un altro salone. Da un finestrone a vetri si scorgeva una distesa d'acqua azzurra e io mi ricordai con improvvisa sorpresa che eravamo a pochi passi dall'Oceano Pacifico e che quella casa si trovava sulla costa di un canyon. Il maggiordomo raggiunse una porta, l'apri facendo udire un rumore di voci, si fece da parte e io passai. Era una bella stanza, con grandi finestre e invitanti poltrone di cuoio grasso disposte intorno a un caminetto di fronte al quale, sul pavimento lucidissimo benché non sdrucciolevole, si stendeva un tappeto sottile come seta e antico come la zia di Esopo. Un mazzo di fiori faceva bella mostra in un angolo, un altro su un tavolino, le pareti erano tappezzate di pergamena dipinta in modo uniforme, c'erano spazio, comodità, ricercatezza, antico e moderno insieme, e tre persone sedute che si erano fatte improvvisamente silenziose e mi fissavano mentre io attraversavo la stanza dirigendomi verso di loro. Una di loro era Anne Riordan, tale e quale l'avevo vista l'ultima volta, con in più un bicchiere pieno di un liquido giallo in mano. Un'altra delle tre persone era un uomo magro dal volto triste con un mento pietrificato, gli occhi infossati e un colorito giallastro e malaticcio. Doveva avere ses-
sant'anni buoni. Anzi, sessant'anni cattivi. Aveva un vestito scuro, un garofano rosso e un'aria di sottomissione. La terza era la bionda. Era vestita per uscire, in blu verdastro pallido. Non feci troppo caso al vestito. Erano vestiti creati apposta per lei e lei sapeva certo da chi lasciarseli fare. Il risultato era di farla apparire molto giovane e di far sembrare lapislazzuli i suoi occhi azzurri. I suoi capelli avevano l'oro dei ritratti antichi. Era truccata abbastanza ma non troppo. Aveva un insieme di curve e di forme che non potevano essere artefatte. L'abito era piuttosto semplice, e lei portava soltanto una spilla di diamanti alla gola. Le mani non erano piccole ma erano ben fatte, e le unghie avevano un colore bizzarro, erano quasi verdi. Questa persona stava dedicando a me uno dei suoi sorrisi. Mi guardava come se il sorriso le venisse spontaneo, tuttavia lo sguardo era fisso, pensoso, attento. La bocca era sensuale. «Siete stato carino a venire», disse. «Vi presento mio marito. Tesoro, offri da bere al signor Marlowe». Il signor Grayle mi strinse la mano. Era una mano fredda e un po' umida. Gli occhi avevano un'espressione triste. Preparò uno Scotch e soda e me lo offrì. Poi si sedette in un angolo e rimase in silenzio. Io bevvi una metà del mio bicchiere e indirizzai un sorriso a Miss Riordan. Lei mi guardò con un'espressione distratta, come se stesse pensando ad altro. «Credete che vi sarà possibile fare qualcosa per noi?» chiese lentamente la bionda, fissando il proprio bicchiere. «Se riusciste, sareste molto carino, mi fareste veramente un regalo. Però la perdita che abbiamo subito non è poi questo gran che, rispetto all'idea di avere a che fare ancora con banditi e altra gente terribile». «In verità io non posso ancora dir nulla», risposi. «Oh, spero che vi sia possibile». Mi regalò un sorriso che io accettai e intascai con piacere. Bevvi l'altra metà del mio bicchiere. Cominciavo a sentirmi a mio agio. La signora Grayle suonò un campanello che era nel bracciolo della poltrona. Comparve un cameriere. Lei indicò appena il vassoio. Il cameriere si guardò intorno e versò da bere per due. Miss Riordan si stava ancora gingillando col bicchiere di prima e a quel che sembrava il signor Grayle non beveva. Il cameriere uscì. La signora Grayle e io levammo i nostri bicchieri. La signora Grayle incrociò le gambe, con una certa noncuranza.
«Non so se sarò in grado di far qualcosa», dissi io. «Ho i miei dubbi. Come stanno i fatti?». «Sono certa che sarete in grado», replicò lei con un altro sorriso. «Fino a che punto si è confidato con voi quel Lin Marriott?». Dette un'occhiata di fianco a Miss Riordan. Anne non se ne accorse. Era seduta immobile e guardava dall'altra parte. La signora Grayle fissò il marito. «Non ti annoierà tutto questo, tesoro?» disse. Il signor Grayle si alzò e si disse lieto di avermi conosciuto, aggiungendo che andava a riposare un po'. Non si sentiva troppo bene. Sperava che io lo avrei scusato. Era tanto compito che io avrei voluto trasportarlo di peso fuori della stanza per dimostrargli la mia viva comprensione. Se ne andò. Chiuse la porta piano, come se avesse paura di svegliare qualcuno. La signora Grayle guardò la porta per un attimo, poi ricollocò il sorriso sul proprio volto e si rivolse a me. «La signorina Riordan naturalmente è persona di vostra completa fiducia», disse. «Di nessuno ho fiducia completa, signora Grayle. Miss Riordan sa quel che c'è da sapere di questa faccenda». «Oh, certo». La signora Grayle bevve dapprima lentamente, poi vuotò d'un sorso il bicchiere e lo mise da parte. «Oh, in malora con tanti complimenti», scattò. «Andiamo al fatto e mettiamoci d'accordo. Voi avete un'aria molto per bene per il genere di lavoro che fate». «È un lavoro non troppo carino», dissi io, «Non dicevo questo. Se non sono indiscreta: rende molti quattrini?». «Quattrini pochi. E noie molte. Ma ci si può anche divertire. E c'è sempre la speranza che capiti un caso importante». «Come può uno mettersi a fare il poliziotto privato? Mi scusate se vi faccio qualche domanda, vero? E spingete qui quel tavolino, grazie. Così posso prender da bere». Io mi alzai e spinsi accanto a lei attraverso il pavimento lucido il tavolino col grande vassoio d'argento. Lei riempì altri due bicchieri. Io avevo ancora metà del mio secondo. «La maggior parte di noi siamo ex-poliziotti», dissi io. «Io, per esempio. Fui licenziato». Lei sorrise cordialmente. «Non per scarso rendimento, sono sicura». «No, perché rispondevo ai superiori. Avete avuto altre telefonate?». «Ecco...». Guardò Anne Riordan. Attese. Era uno sguardo che diceva
molte cose. Anne Riordan si alzò. Andò a deporre sul vassoio il proprio bicchiere ancora intatto. «Se per caso ne restate senza, c'è anche questo...» disse. «E grazie di quel che mi avete detto, signora Grayle. Non lo pubblicherò, avete la mia parola». «Santo cielo, non vorrete già andarvene», disse con un sorriso la signora Grayle. Anne Riordan si prese fra i denti il labbro superiore e rimase un attimo così, come incerta se mordere e sputare o aspettare ancora un po'. «Mi dispiace, devo andare. Non sono alle dipendenze del signor Marlowe, sapete. È solo un amico. Arrivederci, signora Grayle». La bionda le sorrise. «Spero che tornerete presto. Quando volete». Dette due colpi di campanello. Questo fece arrivare il maggiordomo, il quale tenne aperta la porta. Miss Riordan uscì in fretta e la porta si chiuse. La signora Grayle fissò per un po' la porta chiusa con un lieve sorriso. «Meglio così. No?» disse dopo un intervallo di silenzio. Io assentii. «Forse vi chiederete come mai sa tante cose se è soltanto un'amica», dissi io. «È una ragazza curiosa. Certe cose le ha trovate da sola, come chi eravate voi e di chi era la collana di giada. Altre cose son successe per caso. Lei capitò in quel posto la sera che Marriott fu ammazzato. Era a zonzo in macchina. Vide una luce e venne lì». «Oh», la signora Grayle alzò in fretta il bicchiere e fece una smorfia. «Che cosa tremenda, a pensarci. Povero Lin. Era più che altro un seccatore. La maggior parte degli amici che si hanno sono dei seccatori. Ma morire in quel modo è stato tremendo». Rabbrividì. Gli occhi le diventarono grandi e scuri. «Così, quanto a Miss Riordan niente paura. Non farà chiacchiere. Il padre è stato capo della polizia qui per molto tempo», dissi io. «Me lo ha detto. Ma voi non bevete». «Questo per me si chiama bere». «Dovremmo andar d'accordo noi due. Lin vi ha... il signor Marriott vi aveva detto come si svolse la rapina?». «In un punto fra qui e il Trocadero. Non precisò. Tre o quattro persone». Lei annuì con la testa splendente d'oro. «Sì. Sapete che fu anche un po' divertente quella rapina. Mi restituirono uno degli anelli, e uno di valore, per di più». «Me lo disse».
«E poi io non porto quasi mai la collana di giada. Dopotutto è un pezzo da museo, come non ce ne son molti probabilmente in tutto il mondo, una qualità molto rara di giada. Bene, miravano proprio a quella. Io pensai che l'avrebbero creduta di poco valore, vi pare?». «Sapevano che in questo caso voi non l'avreste portata. Chi era a conoscenza del suo valore?». Lei ci pensò. Era piacevole guardarla mentre pensava. Aveva sempre le gambe incrociate, sempre con molta noncuranza. «Tanta gente, credo». «Ma sapevano che l'avreste messa quella sera? Chi poteva saperlo?». Lei scosse le spalle. Io cercai di tenere gli occhi a posto. «La mia cameriera. Ma ha avuto centinaia di occasioni. E io mi fido di lei...». «Perché?». «Non so. Io mi fido di certa gente. Di voi mi fido». «Avevate fiducia in Marriott?». La sua faccia s'irrigidì un po'. Lo sguardo si fece più attento. «In certe cose no. In altre sì. Ci sono delle gradazioni. Aveva un modo molto simpatico di parlare, freddo, quasi cinico, e tuttavia non indisponente. Arrotondava bene le parole». «Allora, oltre alla cameriera. Lo chauffeur?». Lei scosse il capo, no. «Guidava Lin quella sera, con la sua auto. Credo che George non ci fosse nemmeno. Non era giovedì?». «Io non c'ero. Marriott quando mi parlò disse che il fatto era accaduto quattro o cinque giorni prima. Giovedì sarebbe stato una settimana esatta prima della notte scorsa». «Eppure era giovedì». Prese il mio bicchiere e nel prenderlo mi sfiorò le dita. Fu un contatto piacevole. «George ha la sera libera il giovedì. È l'abitudine, capite». Versò una buona dose di scotch nel mio bicchiere e vi schizzò la soda. È quel tipo di bibita che si pensa di poter continuare indefinitamente a bere; l'unico effetto che fa è di farvi sentire più a vostro agio. Lei si servì in modo uguale. «Lin vi disse il mio nome?» chiese lei piano, guardandomi con attenzione. «Si fece uno scrupolo di non dirlo». «Allora probabilmente vi ingannò sul tempo. Vediamo un po'. Cameriera e chauffeur fuori causa». «Per me, non sono fuori causa del tutto».
«Bene, facciamo conto così», disse lei. «Poi c'è Newton, il maggiordomo. Può avermela vista al collo, quella sera. Ma essa pendeva piuttosto in basso, e avevo un collo alto di volpe bianca. No, non credo che l'abbia vista». «Dovevate essere un sogno», dissi. «Non siete un po' brillo, per caso?». «È stato detto invece che bevo troppo poco. O no?». Lei arrovesciò indietro la testa e scoppiò a ridere. Ho conosciuto soltanto due donne al mondo che potessero fare una cosa simile restando bellissime. Lei era una delle due. «Bene per Newton», dissi io. «Non mi sembra il tipo da mettersi in questi pasticci. È solo una supposizione. E il cameriere?». Lei ci pensò, si sforzò di ricordare. Infine scosse la testa. «Non mi vide». «Vi fu chiesto da qualcuno di portare la collana?». Il suo sguardo si fece immediatamente più attento. Era sulla difensiva. «Vi salta mica in mente di sfottere, vero?», domandò. Prese il mio bicchiere per riempirlo di nuovo. Io lasciai fare, benché ormai mi mancasse pochissimo per partire. Osservai la linea adorabile del suo collo. Riempiti i bicchieri, mentre li sollevavamo, io dissi: «Sentiamo il racconto dei fatti per filo e per segno e poi vi dirò qualcosa io. Descrivetemi quella serata». Lei guardò l'orologio al polso, scoprendo per far questo quasi completamente il braccio. «Io veramente dovrei...». «Lasciatelo aspettare». A questa battuta i suoi occhi ebbero un lampo. Mi piacevano in quel modo. «Ci sono dei casi», disse, «in cui la franchezza, quando è un po' troppa, guasta». «Non è il nostro caso», risposi io. «Descrivetemi quella serata. Oppure fatemi buttar fuori. Una cosa o l'altra. Decidete». «Sarebbe meglio che vi sedeste vicino a me». «Ci pensavo già da un po'», feci io. «E precisamente da quando avete incrociato le gambe». Lei si tirò giù la gonna. «Quest'accidente che non sta a posto», disse. «A momenti mi va su fino al collo». Io mi sedetti accanto a lei sul divano di cuoio. «Voi siete uno che va per le spicce?» chiese lei con tutta calma. Io non risposi.
«Vi succede spesso?» mi chiese con uno sguardo obliquo. «Oh, no. Sono un monaco tibetano, a tempo perso». «Ma il tempo non lo perdete». «Concentriamoci», replicai. «Vediamo di dedicare quel che rimane dei nostri cervelli, o perlomeno del mio, all'esame del problema principale. Quanto mi pagate?». «Ah, è questo il problema principale? Credevo che fosse quello di farmi riavere la collana. O almeno tentare». «Devo agire a modo mio. E il modo mio è questo». Bevvi un lungo sorso e per poco non mi trovai a testa in giù. Trassi un largo respiro. «E devo indagare su un omicidio», dissi. «Questo non c'entra. Voglio dire, riguarda la polizia. No?». «Sì, senonché quel poveretto mi dette cento svanziche perché badassi a lui e io non l'ho fatto. Mi sento colpevole. Mi viene voglia di piangere. Devo piangere?». «Bevete». Mi versò altro scotch nel bicchiere. A lei pareva non facesse più effetto di quanto può fare effetto l'acqua a una diga idroelettrica. «Dov'eravamo rimasti?» chiesi io, sforzandomi di reggere il bicchiere in modo che il liquido restasse possibilmente nell'interno. «No la cameriera, no lo chauffeur, no il maggiordomo, no il cameriere. Tra poco diremo che siamo stati noi. Come si svolse la rapina? La vostra versione può contenere qualche particolare che Marriott non mi ha detto». Lei si chinò avanti, appoggiò il mento sulla mano e si fece seria. «Andammo a un ricevimento a Brentwood Heights. Poi Lin propose di recarci al Troc a bere qualcosa e ballare un po'. Ci andammo. Stavano riparando la strada di Sunset, che perciò era tutta polverosa. Lin passò allora per Santa Monica, facendo un giro; così incontrammo un alberghetto che si chiama Indio; chissà perché feci caso al nome. Dall'altra parte della strada c'era una birreria, con un'automobile ferma davanti». «Soltanto un'auto di fronte a una birreria?». «Una, sì. È un locale molto scadente. Quella macchina si mise in moto e incominciò a seguirci e naturalmente io non mi preoccupai. Non c'era ragione. Prima di arrivare dove la strada di Santa Monica sfocia nel Boulevard Arguello, Lin disse: "Giriamo di qua", e svoltò in un viale privato. Allora all'improvviso una macchina ci passò accanto, ci tagliò la strada e si fermò facendo stridere i freni. Ne scese un uomo in soprabito e sciarpa, con un cappello tirato giù sugli occhi, e venne dalla nostra parte come per chiederci scusa. Era una sciarpa bianca che mi colpì. Fu questo tutto quello
che vidi di lui, oltre il fatto che era alto e magro. Appena si fu avvicinato... e mi sono ricordata poi che non si mise mai nella luce dei nostri fanali...». «Naturale. A nessuno piace stare nella luce dei fanali. Bevete. Ora tocca a me...». Lei si chinava verso di me, con le belle sopracciglia, non disegnate ma autentiche, corrugate in atteggiamento pensoso. Io riempii due bicchieri. Lei continuò: «Appena vicino si tirò su la sciarpa in faccia e una rivoltella brillò, puntata su di noi. "Mani in alto", disse l'uomo. "Se starete buoni, non succederà niente di male". Allora un altro individuo si accostò, dall'altra parte dell'automobile». «E tutto questo a Beverly Hills», dissi io. «Con la migliore polizia della California, un agente ogni dieci metri!». Lei scrollò le spalle. «Pure è successo. Mi chiesero i gioielli e la borsetta. Fu l'uomo con la sciarpa. Quello dalla mia parte non parlò mai. Io gli detti, tramite Lin, quel che chiedeva, e l'uomo mi restituì la borsetta e un anello. Disse di non rivolgerci subito alla polizia e alla compagnia d'assicurazione, perché ciò avrebbe complicato tutto. Poi aggiunse che essi avrebbero potuto benissimo mettersi d'accordo con la compagnia d'assicurazione ma preferivano lavorare senza intermediari. Pareva che non avesse nessuna fretta, e dimostrava una certa educazione». «Poteva essere Eddie il Gagà», mormorai io, «se non l'avessero pizzicato proprio poco tempo fa a Chicago». Lei alzò le spalle. Bevemmo. Lei continuò: «Poi se ne andarono e noi tornammo a casa; dissi a Lin di star tranquillo. Il giorno dopo ricevetti una telefonata. Ho due telefoni, uno con tutte le derivazioni e uno diretto nella mia stanza da letto. La telefonata fu a quest'apparecchio. Naturalmente il numero sull'elenco non c'è». Assentii. «Il numero si può comprare per pochi dollari. Si fa sempre così. C'è della gente del cinema che deve farsi cambiare numero ogni mese». Continuammo a bere. «Quello che mi telefonò lo invitai a rivolgersi a Lin, che avrebbe trattato per me. Dissi che se non fossero stati irragionevoli ci saremmo messi d'accordo. Lui rispose che andava bene, e da quel momento, secondo me, presero tempo soltanto per sorvegliarci un po'. Poi, come sapete anche voi, ci mettemmo d'accordo per ottomila dollari, eccetera». «Potreste riconoscerne qualcuno?». «No, certamente».
«Randall sa tutto?». «Certamente. Dobbiamo continuare a parlare di questo? In fondo mi annoia». Mi rivolse di nuovo il sorriso incantevole. «Fece dei commenti Marriott?». «Può essere. Non ricordo». Sbadigliò. Io rimasi seduto col bicchiere vuoto in mano. Lei me lo tolse e fece per riempirmelo di nuovo. Io presi il bicchiere con la sinistra e con la destra le afferrai il braccio. Era liscio, morbido, caldo, piacevole. Bei muscoli, anche. Era una donna in carne e ossa, non un fiore di carta. «Credo che avesse una sua idea», disse. «Ma non disse niente». «Chiunque può avere una sua idea», dissi io. Lei voltò lentamente la testa dalla mia parte e mi guardò. Poi disse: «Non vi basta ancora?». «Da quanto tempo lo conoscevate?». «Da anni. Faceva l'annunziatore alla stazione radio di cui era proprietario mio marito. La KFDK. Fu lì che lo conobbi. Fu lì che conobbi anche mio marito». «Lo sapevo. Ma Marriott viveva come se fosse pieno di quattrini. Non moltissimi, ma tanti da non avere preoccupazioni». «Gli capitò una buona occasione e lasciò il lavoro alla radio». «A voi risulta che avesse quattrini, o lo diceva lui?». Lei alzò le spalle e insinuò una mano fra le mie. «Il denaro non era molto, o poteva essere finito in fretta», dissi dandole una buona stretta alla mano. «Vi chiedeva qualche prestito?». «Siete un po' all'antica voi, eh?» disse lei guardando la sua mano fra le mie. «Sto lavorando», dissi. «Il vostro scotch è così buono che non mi fa perder la testa. Oh, non dovete credere però che io debba esser ubriaco per...». «Sicuro», lei sottrasse la mano dalle mie e l'accarezzò con l'altra. «Dovete saper stringere... a tempo perso. Lin Marriott era un ricattatore di gran classe, naturalmente. È chiaro. Si faceva mantenere dalle donne». «Aveva qualcosa contro di voi?». «Dovrei dirvelo?». «Può darsi che non sia prudente». Lei rise. «Comunque ve lo dico. Una volta a casa sua bevvi un po' troppo e partii. Mi succede di rado. Lui mi fece delle foto. Molto spinte, capite». «Che sporcaccione», dissi io. «Non si potrebbero vedere quelle foto?».
Lei mi afferrò il polso. Disse piano: «Come ti chiami?». «Phil. E tu?». «Helen. Baciami». Lei mi cadde in grembo. Io mi piegai su di lei e attaccai a sbaciucchiarle la faccia. Lei batteva le palpebre e mi dava baci sulle guance. Quando arrivai alla bocca la trovai semiaperta, bollente, la lingua fra i denti era un serpente sottile. Si aprì la porta, e nella stanza entrò tranquillo e pacifico il signor Grayle. Io tenevo la bionda fra le braccia, non avevo nessuna possibilità di muovermi. Alzai gli occhi e lo guardai. Sentii di diventar gelato come i piedi di un cadavere. La bionda fra le mie braccia non si mosse. Non chiuse nemmeno la bocca. Aveva sul volto un'espressione fra sognante e ironica. Il signor Grayle si schiarì lievemente la voce, disse: «Chiedo scusa», e uscì tranquillamente dalla stanza. Nel suo sguardo c'era una tristezza infinita. Io respinsi la bionda e mi alzai. Estrassi il fazzoletto e mi pulii la faccia. Lei restò dove l'avevo lasciata, distesa sul divano, la pelle generosamente in mostra sopra la giarrettiera. «Chi era?» chiese. «Era il signor Grayle». «Non farci caso». Mi allontanai da lei e tornai alla poltrona dove mi ero seduto appena entrato nella stanza. Un attimo dopo, lei si levò a sedere e mi guardò fisso. «Non fa niente», disse. «Lui capisce queste cose. Che diavolo dovrebbe pretendere?». «Affari suoi», dissi io. «Bene, ti dico io che non fa niente. Non basta? Lui è ammalato. Che diavolo...». «Non esagerare adesso», dissi. «Non mi piacciono le donne che esagerano». Lei aprì la borsetta, prese un fazzolettino e si pulì le labbra. Poi si guardò nello specchietto. «Forse hai ragione», disse. «Troppo scotch, ecco cos'è. Allora a stasera al Belvedere Club. Alle dieci». Non mi guardava. Respirava con affanno. «È un bel posto?».
«Il proprietario è Laird Brunette. Lo conosco molto bene». «Va bene», dissi. Ero ancora tutto gelato. Mi sentivo spregevole, come se avessi rubato dei soldi di tasca a un povero. Lei estrasse il rossetto e si ritoccò appena le labbra, poi mi osservò con la coda dell'occhio. Posò lo specchio. Lo presi io e mi guardai. Mi detti da fare col fazzoletto, poi mi alzai per restituirle lo specchio. Lei era arrovesciata indietro, metteva in mostra la gola, mi faceva gli occhi dolci. «Che c'è?» chiese. «Niente. Allora, stasera al Belvedere. E non metterti troppo chic. Io il massimo che ho è uno smoking scuro. Al bar?». Lei fece segno di sì, sempre con quello sguardo assorto. Attraversai la stanza e uscii, senza voltarmi. Il cameriere mi venne incontro nel salone e mi porse il cappello, con un'espressione da sfinge. CAPITOLO XIX M'incamminai per il viale, mi tuffai nell'ombra delle alte siepi e arrivai al cancello. Ora c'era un altro guardiano, in borghese. Mi lasciò uscire con un cenno del capo. Suonò un clacson. La vetturetta di Miss Riordan era ferma dietro la mia automobile. Io mi avvicinai. Lei mi dette un'occhiata fredda e ironica. Era seduta e teneva le mani inguantate e sottili sul volante. Sorrise. «Ho aspettato», dichiarò. «Mi pare che non fosse affar mio. Che ve ne pare di lei?». «Dev'essere una che ci sa fare». «Avete proprio bisogno di parlare sempre così?» chiese lei, arrossendo violentemente, indispettita. «Certe volte non posso soffrire gli uomini: vecchi, giovani, giocatori di calcio e tenori d'opera, miliardari e bellimbusti che fanno i gigolò, e quella specie di seccatori che fanno... gli investigatori privati». Io risposi con una smorfia triste. «Lo so che parlo un po' bruscamente. Ma oggigiorno usa così. Chi vi ha detto che quello era un gigolò?». «Chi?». «Non fingete di non capire: Marriott». «Oh, dicevo per dire. Non volevo essere maligna. Quanto a voi, credo che potrete accertarvi quanto prima se lei ci sa fare o no, senza troppa fatica. Ma c'è una cosa di cui potete esser certo: siete l'ultimo arrivato».
La larga strada si stendeva pacifica al sole. Un camioncino lucido si fermò silenziosamente davanti a una casa poco più in là. Sulla carrozzeria stava scritto: «Servizio Bambini, Bay City». Anne Riordan mi fissò con gli occhi grigio-azzurri, preoccupati e bui. Premette contro i denti il labbro superiore troppo lungo. Emise un lieve sospiro. «Magari volete raccomandarmi di pensare agli affari miei», disse. «E di non farmi venire le idee prima che vengano a voi. Ma io pensavo di potervi essere un po' d'aiuto». «Non ho bisogno di aiuto. E la polizia non vuole che io collabori. Per la signora Grayle nemmeno posso far nulla. Lei ha un dato: una birreria davanti alla quale era ferma la macchina che poi li ha seguiti. Ma a che serve? Questo è un colpo di gran classe. Doveva esserci qualcuno nella banda capace di riconoscere la giada Fei Tsui soltanto a vederla». «Sempre che non fosse d'accordo lui». «C'è anche questo», dissi io, estraendo una sigaretta dal pacchetto. «E comunque per me non c'è niente da fare. Non ho nemmeno una traccia». «Nemmeno la psiche?». La guardai senza scompormi. «La psiche?», chiesi. «Santo cielo», mormorò lei. «E io che vi credevo un poliziotto». «C'è una specie di cortina in questa faccenda, che non si vuole sia sollevata», replicai. «Io devo stare attento a quel che faccio. Questo Grayle ha un fottio di soldi. La legge in questo paese è dalla parte di chi può spendere. Guardate in che modo buffo si sta comportando la polizia. Niente taglia, niente notizie ai giornali, nessuna occasione offerta al solito povero diavolo di dare un'informazione da nulla, che si rivela poi fondamentale. Soltanto silenzio su tutta la linea e avviso a me di tenermi fuori della faccenda. Non mi piace questa storia». «Vi siete tolto quasi tutto il rossetto», disse Anne Riordan, «Vi ho detto: psiche. Bene, arrivederci. Comunque, è stato un vero piacere fare la vostra conoscenza... da un certo punto di vista». Tirò l'avviamento, ingranò la marcia e scomparve in una nuvola di polvere. La guardai allontanarsi. Quando fu scomparsa detti un'occhiata alla strada e vidi l'uomo-balia del Servizio Bambini uscire dalla casa. Indossava una divisa così bianca, stirata e smagliante che io mi sentivo pulito soltanto a guardarla. Aveva in mano una scatola. Salì nel camioncino e partì. Pensai che fosse venuto apposta a cambiar le mutandine a un bambino.
Salii nella mia macchina e, prima di partire, guardai l'orologio. Erano quasi le cinque. Lo scotch, come fa lo scotch quando è buono, mi tenne compagnia fino a Hollywood. Io mi lasciai andare, deciso a prenderla come veniva. «Ecco una bella ragazzina», dissi a voce alta nella macchina, «per chi s'interessa alle belle ragazzine». Nessuno replicò. «Ma io no», precisai. Anche stavolta nessuno disse niente. «Alle dieci al Club Belvedere», aggiunsi. Qualcuno rispose: «Che schifo». Doveva essere la mia voce. Erano le sei meno un quarto quando arrivai in ufficio. Tutto il palazzo era molto tranquillo. La macchina da scrivere oltre la parete taceva. Io accesi la pipa e mi sedetti ad aspettare. CAPITOLO XX L'indiano mandava cattivo odore. La puzza giunse, attraversando tutta l'anticamera, quando lui bussò e io aprii la porta dell'ufficio per vedere chi fosse. Se ne stava immobile nel corridoio come una statua di bronzo. Era un tipo di grossa corporatura, dalla cintola in su. Portava un vestito scuro. La giacca era troppo stretta alle spalle, i pantaloni probabilmente gli andavano un po' piccoli sotto le ascelle. Il cappello era la metà della misura che ci voleva per lui. Il colletto della camicia somigliava a un collare da cavallo, anche per il colore scuro indefinibile. Sopra la giacca abbottonata penzolava una cravatta nera, legata con un nodo della grandezza di un pisello. Intorno alla gola nuda e imponente, sopra il colletto sporco, portava un pezzo di nastro nero, come le vecchie signore. Aveva una grande faccia piatta e un naso a ponte che sembrava la prua di una corazzata. Occhi senza ciglia, guance flosce e cadenti, spalle da fabbro ferraio e gambe corte e apparentemente goffe, come quelle di uno scimpanzé. Dovevo accorgermi in seguito che erano soltanto corte. Ripulito un po' e vestito con una tunica bianca avrebbe potuto assomigliare a un antico romano piuttosto male in arnese. La sua puzza era quella dell'uomo primitivo, legato alla terra. Non era il cattivo odore sporco della gente di città. «Venire», disse. «Voi venire subito». Io indietreggiai tornando nell'ufficio e gli feci un cenno col dito. Lui mi seguì producendo lo stesso rumore di una mosca che passeggia sul muro.
Mi sedetti alla scrivania, feci fare un mezzo giro, con aria molto importante, alla poltrona girevole e gli indicai la sedia del cliente dall'altra parte del tavolo. L'indiano non si sedette. I suoi occhi neri avevano un'espressione ostile. «Venire dove?» chiesi. «Io Second Planting. Io indiano di Hollywood». «Accomodatevi, signor Planting». Lui grugnì e dilatò le narici. «Mio nome Second Planting. Non signor Planting». «In che posso esservi utile?». Egli intonò con voce sonora: «Dice venire subito. Gran padre bianco dice venire subito. Dice io portare voi in carrozza di fuoco...». «Ehi», esclamai. «Non serve questa roba. Mica io sono un ragazzino che vuol vedere la danza dei serpenti». «Fesserie», disse l'indiano. Sogghignammo insieme per un attimo. Lui sogghignava meglio di me. Si tolse il cappello e passò il dito nell'interno, mettendo in mostra la striscia di cuoio unta e bisunta. Prese una bustina di carta velina che era infilata lì dentro e la gettò sul tavolo. La indicò, con un'unghia ben masticata. I capelli lisci recavano un segno circolare tutto in giro, quasi sul cocuzzolo, fatto dal cappello troppo stretto. Aprii la bustina e vi trovai un biglietto da visita, che non fu una novità per me. Ce n'erano tre come quello nel bocchino delle tre sigarette di tipo russo. Giocherellai con la pipa, fissai l'indiano e tentai di irritarlo col mio sguardo. L'indiano si dimostrò irritabile quanto un muro di mattoni. «Bene, che vuole?». «Vuole voi venire. Venire subito. In carrozza di fuoco...». «Fesserie», dissi io. L'indiano apprezzò la parola. Mi strizzò l'occhio con solennità e sogghignò quasi. «Gli costerà cento dollari di anticipo», dissi cercando di prendere un tono come se si trattasse di quattro soldi. «Uh?» fece l'indiano. «Cento dollari», dissi io. «Io niente dollari, io niente venire. Capito?». Cominciai a contare con le dita. «Uh, uomo importante», disse l'indiano e sogghignò. Frugò di nuovo nella striscia interna del cappello e ne trasse un altro in-
voltino di carta velina. Lo mise sulla scrivania. Io lo svolsi. Conteneva un biglietto da cento dollari nuovo fiammante. L'indiano si rimise il cappello in testa senza sistemare prima la striscia interna di cuoio. Questo lo fece apparire appena un po' più ridicolo. Io fissavo a bocca aperta il biglietto da cento dollari. «Evviva la psiche», dissi a voce alta. «Uno che legge così il pensiero mi fa paura». «Mica aspettare tutto giorno», disse l'indiano, in tono polemico. Aprii il cassetto, presi la Colt 9 automatica, modello Super Match. Non l'avevo portata andando a far visita alla signora Grayle. Mi tolsi la giacca, infilai le cinghie della fondina, misi la rivoltella a posto e indossai di nuovo la giacca. Questo fece all'indiano la stessa impressione che se mi fossi grattato il collo. «Giù macchina», disse. «Giù grande macchina». «Non mi piacciono più le grandi macchine», risposi. «Io giù mia macchina». «Voi venire mia macchina», disse minaccioso l'indiano. «Io venire tua macchina», dissi io. Chiusi la scrivania, chiusi la porta dell'ufficio, e uscii lasciando aperta come al solito la porta dell'anticamera. Prendemmo l'ascensore per scendere. L'indiano puzzava. Se ne accorse anche il ragazzo dell'ascensore. CAPITOLO XXI La macchina era una Sedan sette posti, Packard ultimo modello. Al volante c'era un autista bruno dall'aria straniera, con una faccia che pareva una scultura in legno. L'interno era tappezzato di ciniglia grigia imbottita. L'indiano mi collocò dietro. Seduto lì da solo mi parve di essere un cadavere di riguardo, trasportato senza bara da un becchino di buon gusto. L'indiano si sedette accanto all'autista e la macchina partì, benché il semaforo segnasse rosso. Un poliziotto lanciò un debole «Ehi», come se pensasse ad altro e si voltò subito dopo ad allacciarsi una scarpa. Ci dirigemmo a ovest, prendemmo la strada di Sunset e procedemmo veloci e silenziosi. L'indiano sedeva immobile, accanto all'autista. Ogni tanto una zaffata della sua persona giungeva alla mie narici. L'autista sembrava addormentato, ma oltrepassava le macchine più veloci come se fossero sta-
te inchiodate a terra. Dopo quel primo, tutti i semafori mettevano il verde per lui. A certi automobilisti capita. Lui era uno di quelli. Non trovava mai un segnale rosso. Passammo davanti ai vecchi negozi con le insegne dai nomi famosi, le vetrine piene di merletti ricamati e di antichità, i club notturni scintillanti dalla clientela celebre e dalle non meno celebri sale da gioco. Passammo a lato di costruzioni di stile georgiano-coloniale, ora giù di moda, passammo oltre edifici moderni dentro i quali commercianti in carne umana di Hollywood parlano solo di denaro, e un grande ristorante che non faceva affari, benché le commesse avessero le camicette di seta, i gonnellini corti, e nient'altro indosso dalle cosce agli stivaletti di pelle lucida. Dopo tutto questo oltrepassammo il grande arco splendente di Beverly Hills e tutte le luci del sud, tutti i colori dell'iride in una serata senza nebbia. Fiancheggiammo le case ombrose sulle colline. Ci lasciammo alle spalle tutta Beverly Hills, e proseguimmo per il boulevard tortuoso ai piedi della collina, nell'improvvisa foschia che il vento freddo portava dal mare. Il pomeriggio era stato caldo, ma ora il calore se n'era andato. Sfrecciammo oltre una serie interminabile di case illuminate, non troppo vicine alla strada. Scendemmo a lambire un vasto campo di polo che aveva accanto un altro campo non meno vasto per l'allenamento. Ci arrampicammo in cima a una collina e salimmo per una strada liscia di cemento che costeggiava giardini d'aranci, capriccio di qualche riccone, perché questa non è una terra per aranceti, poi a poco a poco le luci delle case dei milionari scomparvero, la strada cominciò a restringersi. Eravamo a Stillwood Heights. L'odore della salvia giunse da un canyon e mi fece pensare ad un uomo morto e ad una notte senza luna. Case dall'architettura lambiccata erano posate come bassorilievi sul fianco della collina. Poi non c'erano più case, ma soltanto le colline tozze sormontate da qualche stella, il nastro di cemento della strada e un pendio scosceso da una parte sopra una foresta di querce, dove si può sentire certe volte il grido delle quaglie se ci si ferma e si rimane tranquilli ad aspettare. Dall'altra parte della strada la terra era grezza e argillosa, e su di essa crescevano pochi fiori ostinati simili a bambini terribili che non vogliono andare a letto. Poi la strada piegò con un angolo molto acuto, i pneumatici dell'auto rastrellarono i sassi e l'auto s'inoltrò un po' meno silenziosamente lungo un viale fiancheggiato da geranii selvatici. In cima a questo, appena illuminato, solitario come la casa del guardiano di un faro, si trovava un nido d'a-
quile, una casa angolosa di vetro e mattoni, semplice e moderna, non del tutto brutta, insomma un posto adatto a un medico della psiche. Nessuno avrebbe potuto sentire un grido. L'automobile girò dietro la casa e una luce si accese sopra una porta nera nel muro. L'indiano grugnì scendendo dalla macchina e aprì la portiera posteriore. L'autista accese una sigaretta con una macchinetta elettrica e un odore di tabacco forte arrivò alle mie narici, piacevole nell'aria della sera. Scesi. Ci accostammo alla porta nera. Questa si aprì da sé, lentamente, quasi minacciosamente. Dietro l'uscio un corridoio stretto conduceva dentro la casa. Dalle mattonelle di vetro dei muri trapelava luce. L'indiano grugnì: «Voi entrare, grande capo». «Dopo di voi, signor Planting». Egli mi precedette accigliato. La porta si chiuse alle nostre spalle, silenziosamente e misteriosamente come s'era aperta. In fondo allo stretto corridoio c'introducemmo in un piccolo ascensore. L'indiano chiuse l'uscio e premette un bottone. L'odore dell'indiano che mi aveva deliziato prima era una pallida ombra lunare al confronto di quello che mi deliziava adesso. L'ascensore si fermò, la porta si aprì. C'era luce. Io uscii dall'ascensore e mi trovai nell'interno di una torretta dove il giorno tentava ancora di farsi ricordare. Tutto in giro c'erano finestre. Lontano si frangeva il mare. L'oscurità s'impadroniva lentamente delle colline. Le pareti, tra le finestre, erano dipinte. Il pavimento era coperto da tappeti con i colori tenui dei tappeti persiani antichi, c'era una scrivania che sembrava fatta con legno scolpito rubato da qualche chiesa antica. Dalla scrivania mi sorrise una donna. Era un sorriso avvizzito e secco, che doveva andare in polvere a toccarlo. La donna aveva i capelli lucidi pettinati lisci e una faccia di tipo asiatico, scura, magra, devastata. Alle orecchie aveva pietre colorate e alle dita anelli pesanti, fra cui una pietra lunare, e uno smeraldo incastonato in una montatura d'argento avrebbe potuto anche essere uno smeraldo autentico ma aveva invece un'aria inspiegabilmente fasulla. Le mani di quella donna erano secche, scure, non giovani e non adatte agli anelli. Parlò. La voce la conoscevo. «Ah, il signor Marlowe. Benvenuto. Amthor sarà molto lieto». Io posai sulla scrivania il biglietto da cento dollari che mi aveva dato l'indiano. Mi guardai alle spalle. L'indiano era ridisceso con l'ascensore. «Mi dispiace. È stato un pensiero gentile ma non posso accettare». «Amthor, vuole... affidarvi un lavoro. No?». Lei sorrise di nuovo. Le sue
labbra si muovevano come carta velina. «Devo sapere prima di che si tratta». Lei assentì e si alzò lentamente dalla scrivania. Mi passò accanto, con un vestito che le aderiva al corpo come le squame di una sirena. Aveva una bella figura, per uno cui le donne di dimensioni doppie del normale, dalla cintola in giù, possano piacere. «Vi faccio strada», disse. Premette un bottone sulla parete e una porta si aprì senza rumore. Attraverso l'uscio veniva un bagliore latteo. Io prima di entrare guardai di nuovo il sorriso della donna. Era un sorriso più antico dell'Egitto, ora. La porta si chiuse silenziosa alle mie spalle. Nella stanza non c'era nessuno. Era una camera ottagonale, tappezzata di velluto nero dal pavimento al soffitto. Il soffitto era lontano e nero, poteva essere anch'esso di velluto. Nel mezzo di un tappeto scuro e opaco come carbone si trovava un tavolo ottagonale bianco, sul quale potevano trovar posto al massimo due paia di gomiti. Al centro di esso c'era un globo di un bianco lattiginoso. Era da questo che veniva la luce. Non si capiva bene come. Ai lati del tavolo si trovavano due sgabelli bianchi ottagonali, dello stesso stile. Accanto a una parete c'era un altro di quegli sgabelli. Non si scorgevano finestre. La stanza non aveva niente altro. Sulle pareti nemmeno la più piccola fessura. Se c'erano altre porte, non si vedevano. Mi voltai a guardare quella da cui ero entrato. Non c'era più nemmeno quella. Rimasi in piedi forse una quindicina di secondi, con l'impressione di essere osservato. Doveva esserci uno spioncino da qualche parte, ma non riuscivo a scoprirlo. Smisi di cercarlo. Ascoltai il rumore del mio respiro. La stanza era tanto silenziosa che sentivo il respiro passarmi attraverso il naso, frusciando come fra piccole cortine. Allora una porta invisibile in fondo alla stanza si aprì, entrò un uomo e l'uscio si richiuse dietro di lui. L'uomo a testa bassa si avvicinò al tavolo, si sedette su uno degli sgabelli e fece un lieve cenno con una delle mani più belle che io abbia mai visto. «Sedete, prego. Non fumate e non agitatevi. Cercate di abbandonarvi completamente. In che cosa posso esservi utile?». Io mi sedetti, mi misi una sigaretta in bocca e la rigirai fra le labbra senza accenderla. Lo guardai. Era magro, alto, dritto come una canna. Aveva i capelli bianchi più belli che io abbia mai visto. Potevano benissimo essere di seta. La sua pelle era fresca come un petalo di rosa. Poteva avere trenta-
cinque anni come sessantacinque. Era senza età. I capelli erano pettinati indietro, e il profilo del volto superava in perfezione quello di Barrymore. Aveva le sopracciglia di un nero carbone, come le pareti, il pavimento, il soffitto. Gli occhi erano profondi, anche troppo. Di quella profondità comune agli occhi dei sonnambuli. Ricordavano un pozzo di cui avevo letto una volta. Si trattava di un pozzo che esisteva da novecento anni, in un antico castello. Ci si buttava dentro un sasso e si aspettava. Si restava in ascolto e poi, quando si era sul punto di farsi una risata e andar via, giungeva alle orecchie dalla sua profondità il suono di un piccolo tonfo, così lieve, così lontano da sembrare addirittura inverosimile. Così era la profondità di quegli occhi. Inoltre essi non avevano né espressione, né anima; occhi che potevano senza commuoversi guardare dei leoni sbranare un uomo, o un uomo al palo con le palpebre tagliate urlare sotto il solleone. Indossava un doppio-petto nero che doveva essere stato tagliato da un artista. Osservò distrattamente le mie dita. «Non agitatevi, prego», disse. «Potrebbe interrompere le onde e disturbare il mio raccoglimento». «Mi spiacerebbe» risposi, «rompervi le onde». Egli fece il sorriso più impercettibile del mondo. «Spero che non siate venuto qui a fare lo spiritoso». «Mi pare che dimentichiate il motivo della mia visita. Comunque, ho restituito alla vostra segretaria quel biglietto da cento. Sono venuto, come potete immaginare, per quelle sigarette. Sigarette lunghe e sottili alla marijuana. Col vostro biglietto da visita arrotolato nel bocchino». «Volete sapere come è successo?». «Sì. Forse dovrei pagare io a voi i cento dollari». «Non occorre. La risposta è semplice. Ci sono delle cose che io non so. Una è questa». Per un attimo fui sul punto di credergli. La sua faccia era liscia come l'ala di un angelo. «Allora perché mandarmi cento dollari, un indiano che puzza, e un'automobile? Intanto, era indispensabile che l'indiano puzzasse? Se è alle vostre dipendenze, non potreste ottenere che faccia un bagno?». «È un medium naturale. Sono rarissimi, come i diamanti. E, come i diamanti, li si trova spesso in luoghi poco puliti. Voi, da quel che capisco, siete un investigatore privato?». «Sì».
«Secondo me siete uno stupido. Avete tutta l'aria dello stupido e fate un lavoro stupido. Siete poi venuto qui per una stupida ragione». «Ho capito», dissi. «Sono uno stupido». «Non ritengo necessario trattenervi oltre». «C'è un equivoco», dissi. «Non siete voi che trattenete me, sono io che trattengo voi. Voglio sapere perché quei biglietti da visita si trovavano in quelle sigarette». Lui fece la più impercettibile scrollata di spalle che io avessi mai visto. «Chiunque può procurarsi un mio biglietto da visita. Io non distribuisco sigarette alla marijuana agli amici. La vostra domanda è sempre stupida». «Vediamo se quest'altra è più intelligente. Le sigarette erano in un portasigarette imitazione cinese o giapponese. Mai visto niente di simile?». «No, che io sappia». «Posso aiutarvi. Il portasigarette era in tasca a un certo Lindsay Marriott. Mai sentito nominare?». Egli ci pensò. «Sì. L'ho avuto in cura una volta per una forma di timidezza che lo assaliva davanti all'obbiettivo fotografico. Lui ci teneva a farsi fare delle foto. Ma fu tempo sprecato. Le foto non volevano saperne di lui». «Immagino», dissi. «Avrà voluto farsi fotografare come Isadora Duncan. Ma ho ancora la domanda più importante da fare. Perché mi avete mandato quel biglietto da cento?». «Caro signor Marlowe», spiegò con freddezza. «Io non sono uno sciocco ed esercito una professione molto delicata. Sono un empirico. Ovvero faccio cose che i dottori, stretti nella loro piccola e pavida associazione, non riescono a fare. Io mi trovo spesso in. pericolo, per colpa di gente come voi, Marlowe. E desidero poter valutare il pericolo prima di affrontarlo». «Trascurabile nel mio caso, vero?». «Pressoché inesistente», egli disse con tono cortese, e fece un lieve movimento con la mano. I miei occhi furono attirati dalle sue dita. Egli le posò lentamente sul tavolo bianco e abbassò gli occhi ad osservarle. Poi li rialzò di nuovo, sempre più profondi, e incrociò le braccia. «Quanto voi mi dite...». «Sento la puzza», esclamai. «Non ci pensavo più». Voltai il capo a sinistra. Sul terzo sgabello bianco, sullo sfondo di velluto nero, stava seduto l'indiano. Indossava sopra gli altri abiti una specie di camice bianco. Era seduto immobile; con gli occhi chiusi, la testa un po' reclina, come se dormisse da
un'oretta. La faccia scura era piena di ombre. Io guardai di nuovo Amthor. Egli sorrideva impercettibilmente. «Immagino che questo faccia batter le dentiere ai clienti», chiesi. «E che fa quando c'è gente che paga davvero? Si siede sulle vostre ginocchia e canta canzonette?». Egli fece un gesto d'impazienza. «Andiamo al sodo, prego». «Iera sera Marriott mi ha noleggiato perché l'accompagnassi a fare una passeggiata, durante la quale si doveva consegnare del denaro a certa gente. Io ho avuto una manganellata in testa. Quando sono rinvenuto, Marriott era stato assassinato». Il volto di Amthor non si scompose minimamente. Egli non si mise né a strillare, né a scappare, naturalmente. Tuttavia, per lui, la reazione che ebbe fu notevole. Mosse le braccia, incrociandole nell'altro senso. La bocca prese un'espressione grave. Rimase seduto immobile, con l'aria di un leone di pietra. «Le sigarette sono state trovate addosso a lui», spiegai. Egli mi osservò freddamente. «Ma non dalla polizia, direi. Dato che la polizia non si è fatta viva qui». «Esatto». «Quei cento dollari», egli disse con molta calma, «forse erano pochi». «Dipende da quello che intendete comprare». «Avete con voi le sigarette?». «Ne ho una. Ma non provano nulla. Come voi avete detto, chiunque può procurarsi i vostri biglietti da visita. Io mi chiedo solo come saranno andate a finire lì. Voi avete qualche idea in proposito?». «Conoscevate bene il signor Marriott?» egli chiese calmissimo. «Per nulla. Ma mi sono fatto delle idee sul conto suo. Era molto facile, del resto. Bastava vederlo una volta». Amthor tamburellò con le dita sul tavolo. L'indiano dormiva sempre, col grosso mento reclinato sul petto, le pesanti palpebre chiuse. «Ad ogni modo», chiesi, «avete mai conosciuto una signora Grayle, una signora molto ricca che abita a Bay City?». Egli annuì. «Sì», disse, «le ho curato i centri nervosi della parola. Aveva un lieve difetto». «Avete fatto un buon lavoro», dissi. «Adesso parla come me». Questo non riuscì a divertirlo. Tamburellò di nuovo sul tavolo. Io ascoltai, non mi piaceva quel tamburellío. Pareva un codice convenzionale. Egli smise, incrociò di nuovo le braccia, portò indietro il busto.
«Quello che mi piace in questa faccenda», dissi, «è che tutti conoscono tutti. Anche la signora Grayle conosceva il signor Marriott». «Come l'avete saputo?» egli chiese lentamente. Non risposi. «Dovrete parlare di quelle sigarette alla polizia». Io alzai le spalle. «Voi vi state chiedendo certamente perché non vi ho ancora fatto buttar fuori», disse Amthor garbatamente. «Second Planting potrebbe spezzarvi il collo come un fuscello. In fondo anch'io mi sto chiedendo la stessa cosa. Voi dovete avere una vostra idea. Ricatti io non ne pago. Non serve... e ho molti amici. Ma vi sono naturalmente certe persone che sarebbero liete di mettermi in cattiva luce. Psichiatri, specialisti del sesso, neurologi, ometti odiosi che hanno martelletti di gomma e scaffali pieni di tutta la letteratura delle aberrazioni. E, naturalmente, sono tutti dottori. Mentre io sono un empirico. Qual è la vostra idea?». Cercai di abbassare gli occhi, ma non mi fu possibile. Mi passai la lingua sulle labbra. Egli alzò le spalle. «Non posso farci nulla se non volete dirmela. Dovrò riflettere un poco su questa faccenda. Forse voi siete più intelligente di quanto mi sembrasse. Intanto...». Posò entrambe le mani sulla sfera dalla luce lattea. «La mia idea è che Marriott fosse un ricattatore di donne», dissi, «e anche una pedina di una banda di rapinatori. Ma chi gli diceva a quali donne doveva star dietro... in modo da portarsi a conoscenza dei loro movimenti, farsi loro intimo, fare all'amore con loro, farle caricare di gioielli e portarle a spasso e infine attaccarsi a un telefono e dire agli amici dove dovevano agire?». «Questo», disse Amthor, «sarebbe il ritratto che voi tracciate di me e Marriott insieme. Sono lievemente disgustato». Io mi chinai avanti, in modo che il mio volto fosse a una spanna dal suo. «Voi ci siete dentro. Mettetela come volete, ci siete sempre dentro. E non si tratta soltanto dei biglietti da visita, Amthor. Quelli, come avete detto voi, chiunque poteva procurarseli. Non si tratta della marijuana. Voi non vi mettereste in un giro tanto modesto, con le possibilità che avete. Ma sul retro di ogni cartoncino c'è uno spazio bianco. E sugli spazi bianchi, e persino sulla parte stampata, c'è scritto qualcosa con inchiostro invisibile». Egli sorrise debolmente, ma io feci appena in tempo a scorgere quel sorriso, perché le sue mani si mossero sul globo latteo e la luce si spense.
CAPITOLO XXII Gettai indietro lo sgabello, mi alzai in piedi e cercai di afferrare la rivoltella nella fondina sotto l'ascella. Ma non ci riuscii. Avevo la giacca abbottonata e fui troppo lento. Sarei stato troppo lento in qualsiasi caso, posto che ci fosse stata una sparatoria. Sentii un fruscio e un odore. Nel buio assoluto l'indiano mi afferrò da dietro e mi inchiodò i fianchi con le sue braccia. Cominciò a sollevarmi. Avrei potuto sempre tirar fuori la rivoltella e sventagliare colpi alla cieca, ma ero molto lontano dai miei amici. Non sembrava affatto conveniente. Lasciai la rivoltella e gli afferrai i polsi. Erano unti, difficili da tener stretti. L'indiano respirava gutturalmente e mi mise giù con uno schianto che mi fece quasi scoppiare la testa. Ora era lui a tenermi per i polsi, invece di essere io a tener lui. Me li piegò in fretta dietro le spalle e un ginocchio che sembrava un cuneo di pietra mi premette la schiena. Mi costrinse a piegarmi. Io non sono uno che si spezza ma non si piega. Sono uno che si piega. E l'indiano mi piegò. Tentai di gridare, senza motivo. Il fiato mi si fermò in gola e non uscì. L'indiano mi gettò da una parte e mi strinse con le gambe a forbice, mentre cadevo. Mi teneva prigioniero. Le sue mani mi arrivarono al collo. Certe volte la notte mi sveglio e mi pare di sentire ancora l'odore di quell'indiano, e di quelle mani. Sento il respiro mancarmi e quelle dita che affondano nel mio collo. Allora mi alzo, bevo qualcosa e accendo la radio. Ero quasi andato del tutto, quando la luce si riaccese, rosso sangue, a causa del sangue che avevo negli occhi. Una faccia mi fluttuò davanti e una mano mi toccò delicatamente, ma le altre mani rimasero sulla mia gola. Una voce mormorò: «Lascialo respirare un po'». Le dita si allentarono. Io riuscii a divincolarmi. Qualcosa che luccicava mi colpì alla mascella. La voce disse: «Fallo alzare in piedi». L'indiano mi mise in piedi. Mi appoggiò contro il muro, tenendomi stretto per i polsi. «Che dilettante», esclamò la voce. La cosa lucente e dura mi colpì di nuovo in faccia. Una mano mi frugò il portafoglio e tutte le tasche. La sigaretta nella carta velina saltò fuori e fu tolta dall'involto. Scomparve nella nebbia davanti
a me. «Erano tre le sigarette?» chiese gentilmente la voce, mentre l'oggetto lucente mi colpiva di nuovo. «Tre», io ansimai. «E dove sono le altre?». «Nella mia scrivania... in ufficio». La cosa lucente mi colpì di nuovo. «Probabilmente è una bugia, ma possiamo accertarcene». La voce disse: «Stringilo un po'». Le dita di ferro mi penetrarono nel collo. Avevo l'indiano addosso, il suo odore addosso, sentivo i muscoli tesi del suo addome. Gli afferrai un dito e tentai di torcerlo. La voce disse con calma: «Sorprendente. Sta imparando». Di nuovo la cosa scintillante tagliò l'aria. Si abbatté sulla mia mascella, o meglio su quella che era stata una volta la mia mascella. «Lascialo. È domato, ormai». Le enormi braccia si allontanarono, io feci un passo avanti e mi fermai. Amthor era di fronte a me con un sorriso lieve, quasi distratto, sulle labbra. La sua mano bella e delicata reggeva la mia rivoltella. Questa era puntata contro il mio stomaco. «Potrei darti una lezione», disse con la sua voce calma. «Ma a che scopo? Un piccolo individuo sudicio in un piccolo mondo sudicio. Se anche t'insegnassi qualche piccola cosa, resteresti quello che sei. Non è vero?». Fece un bellissimo sorriso. Io tirai un pugno a quel sorriso con tutta la forza che mi restava. Non c'era poi tanto male. Egli fece una giravolta e gli uscì sangue da tutte e due le narici. Poi si riprese, si rimise eretto, e puntò di nuovo la rivoltella contro di me. «Siediti, ragazzino», disse calmo. «Ho delle visite in arrivo. Mi fa piacere che tu mi abbia colpito. Servirà molto». Io raggiunsi lo sgabello bianco, mi sedetti e posai la testa sul tavolo bianco accanto alla sfera lattiginosa che ora di nuovo splendeva. La luce mi affascinava. Era bella quella luce, morbida, calma. Dietro di me, intorno a me, non c'era altro che silenzio. Credo che mi addormentai così, con la faccia insanguinata sul tavolo, e un bellissimo diavolo alto e magro che mi stava di fronte con la mia rivoltella in mano e il sorriso sulle labbra. CAPITOLO XXIII
«Su», disse il grosso. «Adesso basta nanna». Aprii gli occhi, mi levai a sedere. «Nell'altra stanza, bello». Mi alzai, ancora come in sogno. Uscimmo dalla porta. Vidi poi dov'eravamo: eravamo nel vestibolo con le finestre intorno. Fuori adesso era buio fitto. Alla scrivania era seduta la donna con gli anelli falsi. Accanto a lei c'era un uomo. «Siediti, bello». Mi spinse a sedere. Era una bella sedia, comoda benché rigida; però io non ero in grado di apprezzarla. La donna alla scrivania leggeva forte qualcosa da un taccuino. L'ascoltava un ometto anziano dai baffetti grigi. Amthor era in piedi davanti a una finestra, voltando le spalle alla stanza. Guardava l'orizzonte tranquillo sull'oceano, lontano oltre le luci della costa, al di là del mondo. Sembrava che gli piacesse. Si voltò a guardarmi un attimo; io vidi che s'era ripulito la faccia dal sangue ma che il suo naso, tuttavia, era molto diverso da quello che avevo conosciuto prima: pareva che fosse divenuto il doppio. Allora, pur con la bocca conciata in quel modo, feci una smorfia divertita. «Sei allegro, bello?». Guardai l'oggetto che produceva quel suono e che si trovava di fronte a me, ora, dopo avermi aiutato ad arrivare dove mi trovavo: era un colosso di circa novanta chili, coi denti macchiati e una voce da imbonitore di circo. Era robusto, agile, mangiava certamente bistecche al sangue. Nessuno avrebbe potuto pensare di fargliela. Era il tipo di poliziotto che la sera, prima di andare a letto, sputa sul manganello invece di dire le preghiere. Ma aveva occhi ironici. Mi stava di fronte a gambe larghe, tenendo in mano il mio portafoglio aperto e graffiando il cuoio con l'unghia del pollice, come se ci prendesse gusto a sciupare le cose. Piccole cose, le uniche che avesse ora da sciupare. Ma sciupare le facce doveva piacergli anche di più. «Così sei venuto dalla città, eh? Venuto apposta dalla città a tentare un ricattino, eh?». Aveva il cappello sulla nuca. I capelli erano scuri e brizzolati, la fronte sudata. Gli occhi ironici erano pieni di vene rosse. Mi sentivo la gola come fosse stata stretta in un tubo. Me la toccai. Quell'indiano aveva le dita che sembravano arnesi d'acciaio.
La donna bruna smise di leggere e chiuse il taccuino. L'ometto attempato coi baffetti grigi fece cenno che andava bene e si portò accanto a quello che stava parlando con me. «Poliziotti siete?» chiesi io, sfregandomi il mento. «Tu che dici? Che siamo secondo te?». Questo era spirito da poliziotto. Il piccolo guardava con un occhio solo. Doveva essere guercio. «Non di Los Angeles», dissi io guardandolo. «Quell'occhio a Los Angeles andrebbe in pensione». Il grosso mi tese il portafoglio. Io vi guardai dentro. C'era ancora tutto il denaro. Tutti i documenti. C'era tutto quel che doveva esserci. Ne fui meravigliato. «Dicci qualcosa, bello», disse il grosso. «Qualcosa in modo che possiamo dimostrarti di volerti bene». «Ridatemi la mia rivoltella». Egli si chinò un po' avanti e ci pensò. Mi accorgevo che ci pensava. Doveva costargli molta fatica. «Ah, vuoi la rivoltella, bello?» disse. Guardò di fianco l'altro coi baffi. «Vuole la rivoltella», ripeté. Guardò di nuovo me. «E si può sapere perché vuoi la rivoltella, bello?» chiese. «Voglio sparare a un indiano», risposi. «Ah, vuoi sparare a un indiano», disse lui. «Sì, a un indiano», confermai. Lui guardò di nuovo quello coi baffi. «È un bel tipo questo qui», precisò. «Vuole sparare a un indiano». «Senti, Hemingway», esclamai. «Piantala di ripetere tutto quello che dico io». «Secondo me è pazzo», sentenziò il grosso. «Mi chiama Hemingway. Secondo te è pazzo?». Quello coi baffi masticò un sigaro e non rispose. L'uomo bellissimo alla finestra si voltò lentamente e disse con calma: «Secondo me può darsi che sia un po' squilibrato». «Non vedo nessuna ragione perché costui debba chiamarsi Hemingway», disse il grosso. «Mica io mi chiamo Hemingway». Il piccolo interruppe: «La rivoltella non l'ho vista». Tutti e due guardarono Amthor. Amthor rispose: «È di là. Ce l'ho io. Ve la darò, signor Blane».
Il grosso chinò il torace verso di me e, piegando un po' le ginocchia, mi respirò in faccia. «Perché mi hai chiamato Hemingway, bello?» insistette. «Ci sono delle signore», dissi io. Egli si rialzò. «Ah, sì?» esclamò. Guardò quello coi baffi. Quello coi baffi fece segno di sì, poi si voltò e attraversò la stanza. La porta scorrevole si aprì. Lui uscì seguito da Amthor. Ci fu silenzio. La donna bruna abbassò lo sguardo sulla scrivania e corrugò la fronte. Il grosso osservò attentamente il mio sopracciglio destro e scosse il capo, soprappensiero. Si riaprì la porta e ricomparve l'uomo coi baffi. Prese da qualche parte il cappello e me lo porse. Si tolse di tasca la mia rivoltella e mi porse anche questa. Dal peso mi accorsi che era vuota. Me la infilai nella fondina e mi alzai. Il grosso sollecitò: «Andiamo, bello. Fuori di qui. Può darsi che un po' d'aria fresca ti faccia bene». «Benissimo, signor Hemingway», dissi io. «Ci rifà», disse il grosso con voce triste. «Lo senti che ci rifà. Mi chiama Hemingway con la scusa che ci sono delle signore. Che ne dici tu se gli do un pedatone in quel posto?». Il piccolo coi baffi disse: «Sbrighiamoci». Il grosso mi prese per un braccio e arrivammo al piccolo ascensore. L'ascensore salì. Noi c'introducemmo nell'interno. CAPITOLO XXIV Giunti in basso lasciammo l'ascensore, percorremmo lo stretto corridoio e uscimmo dalla porta nera. Fuori l'aria era limpida e pungente, eravamo in alto abbastanza da trovarci al di sopra della cortina di nebbia che giungeva dall'oceano. Io respirai a pieni polmoni. Il grosso mi teneva sempre per un braccio. C'era una macchina ferma, una Sedan nera, senza targhe della polizia. Il grosso aprì la portiera e disse: «Non è un'automobile degna di te, bello. Ma vorrai scusarci. Un po' d'aria fresca ti farà bene. Ti pare? Diccelo. Non vogliamo far niente che non ti faccia piacere, bello». «Dov'è l'indiano?». Egli scosse lievemente il capo e mi spinse nell'automobile. Io presi posto sul sedile accanto al volante. «Sicuro, l'indiano», replicò il grosso. «Tu vuoi sparargli, ma dovrai invece tirargli addosso con l'arco e le frecce. È
questa la regola. Lo abbiamo messo sul sedile posteriore». Io guardai il sedile posteriore. Era vuoto. «Accidenti, non c'è più», disse il grosso. «Si vede che ce l'hanno fregato. Non si può più lasciare un momento una cosa senza chiuder la macchina, che subito te la fregano». «Sbrighiamoci», interruppe l'uomo coi baffi, prendendo posto sul sedile posteriore. Hemingway girò dall'altra parte e piazzò il grosso torace contro la ruota del volante. Mise in moto la macchina. Sterzò, scendemmo per il viale fiancheggiato dai geranii selvatici. Un vento freddo saliva dal mare. Le stelle erano lontanissime. I miei compagni non parlavano. Arrivammo in fondo al viale, svoltammo sulla strada di cemento a mezza costa, scendemmo senza fretta. «Com'è che sei senza macchina, bello?». «Mi ha mandato a prendere Amthor». «Come sarebbe a dire, bello?». «Doveva aver voglia di vedermi». «È uno in gamba», disse Hemingway. «Capisce le cose». Sputò fuori dall'auto, prese elegantemente una curva e continuò la discesa. «Ha detto che tu gli hai telefonato per ricattarlo. Allora lui ha pensato che è meglio vedere con chi si deve avere a che fare. Così ha mandato la macchina». «Tanto più che sapeva che avrebbe mandato a chiamare dei poliziotti di sua conoscenza e che a me non sarebbe occorsa la mia macchina per tornare a casa», replicai io. «Benissimo, Hemingway». «Daccapo. Benissimo. Sotto il tavolo c'era un dittafono e la sua segretaria ha registrato tutto; poi quando siamo arrivati ha letto quello che aveva scritto al signor Blane qui presente». Mi voltai a guardare il signor Blane. Fumava pacifico, come se fosse in pantofole. Non mi guardò nemmeno. «Ha letto un bell'accidente», dissi. «Sarà stato un insieme di frasi che avevano preparato per un'occasione del genere». «Magari ci faresti il piacere di dirci perché volevi vedere questo tale», chiese Hemingway cortesemente. «Cioè mi dovrebbe convenire finché mi resta qualche pezzo di faccia, è così?». «Oh, mica poi siamo così cattivi», esclamò lui con un ampio gesto. «Hemingway, tu Amthor lo conosci bene, vero?». «Lo deve conoscere il signor Blane. Io eseguo i suoi ordini». «Chi è questo signor Blane?».
«È quel signore che sta dietro». «E oltre a star dietro che altro fa?». «Ma Gesù, lo sanno tutti chi è il signor Blane». «Benissimo», acconsentii, sentendomi all'improvviso molto stanco. Ci fu ancora silenzio, poi curve e nastri di cemento, e ancora buio e ancora dolore. «Adesso che siamo fra amici e non ci sono signore posso dirti che me ne frego se sei andato in quel posto, ma piuttosto c'è questa storia di Hemingway che mi ha dato fastidio». «È uno scherzo», dissi io. «Una vecchia battuta». «Ma chi è insomma questo Hemingway?». «Uno che continua a ripetere sempre le stesse cose finché comincia a pensare che qualcosa sotto ci dev'essere». «Dev'essere un sistema che richiede un fottìo di tempo», mormorò il grosso. «Per essere un investigatore privato hai una bella fantasia. I denti li hai ancora tutti?». «Con qualche vuoto soltanto». «Puoi considerarti fortunato». L'uomo seduto dietro interloquì: «Così vai bene. Volta a destra alla prossima». «Bene». Hemingway voltò imboccando una stradina stretta e sporca che correva lungo il fianco della montagna. La percorremmo per un buon miglio. L'odore della salvia si faceva sempre più prepotente. «Qui», disse l'uomo seduto dietro. Hemingway fermò la macchina e mise il freno a mano. Si chinò dalla mia parte e aprì la portiera. «Bene, piacere di aver fatto la tua conoscenza. Ma non farti rivedere più. Per lo meno non capitarmi più tra i piedi sul lavoro. Fuori». «E io torno a casa a piedi di qui?». L'uomo seduto dietro disse: «Sbrighiamoci». «Sicuro, vai a casa a piedi di qui, bello. Non ti va?». «Certo, avrò il tempo di riflettere su alcune cose. Per esempio voi non siete poliziotti di Los Angeles. Ma uno di voi è poliziotto, e forse siete poliziotti tutti e due. Direi che siete poliziotti di Bay City. Mi sto chiedendo come mai siete fuori del vostro territorio». «Non sarà un po' difficile provarlo, bello?». «Buonanotte, signor Hemingway».
Egli non rispose. Neanche l'altro disse nulla. Io feci per uscire dalla macchina, misi il piede sul predellino e mi sporsi fuori, ancora un po' intontito com'ero. L'uomo seduto dietro fece un movimento improvviso che io intuii più che vedere. Un abisso di oscurità si aprì ai miei piedi ed era molto più profondo della notte più nera. Feci il tuffo in quell'abisso senza fondo. CAPITOLO XXV La stanza era piena di fumo. Il fumo era sospeso nell'aria in strisce sottili, che formavano una specie di cortina. C'erano due finestre sul muro di fondo che sembravano aperte. Era una camera che non avevo mai visto. C'erano sbarre alle finestre. Io ero vuoto, incapace di pensare. Mi pareva di aver dormito un anno. Il fumo mi dava fastidio. Sdraiato supino cercai di pensare. Dopo parecchio tempo trassi un grosso respiro che mi fece dolere i polmoni. «Al fuoco!» gridai. Poi scoppiai a ridere. Non capivo che cosa ci trovassi da ridere. Però continuai a ridere. Ridevo, standomene disteso supino. Non sembrava nemmeno una risata. Forse ero impazzito. Bastò quel grido. Si udì un calpestìo di passi fuori della stanza, il rumore di una chiave nella serratura, e la porta si aprì. Entrò un uomo il quale chiuse l'uscio alle proprie spalle. Entrò facendo una specie di salto di fianco, e si portò la mano destra alla cintola. Era un uomo basso e grasso, con una giacca bianca. I suoi occhi avevano un'espressione bizzarra, opaca, piatta. Agli angoli di quegli occhi c'erano escrescenze di pelle grigia. Girai la testa sul cuscino duro e sbadigliai. «Non far caso a quel grido, Jack», dissi. «Mi è scappato». L'uomo rimase lì, accigliato, con la mano destra che vagava sempre dalle parti della cintola. Faccia maligna, verdastra, occhi opachi, pelle grigia, e un naso che sembrava un guscio. «Magari vuoi un altro po' di camicia di forza», disse. «Sto bene, Jack. Sto benissimo. Ho fatto una lunga dormita e credo di aver sognato. Dove sono?». «Sei dove meriti». «Ha l'aria di un bel posto; bella gente, simpatica. Bell'ambientino. Forse
è meglio che ci faccia sopra un'altra dormitina». «Sarà certamente meglio», approvò lui. Uscì. La porta si chiuse e la serratura scattò. Il rumore dei passi svanì nel nulla. Il fumo era ancora sospeso in mezzo alla stanza, da una parte all'altra. Come una cortina. Non si dissolveva, non si agitava, non si muoveva, niente. C'era una corrente d'aria nella stanza, io la sentivo sul viso. Ma il fumo non reagiva alla corrente. Era una ragnatela grigia tessuta da migliaia di ragni. Mi chiesi come avrebbero potuto fare a lavorare tutti insieme. Pigiama di cotonina. Come negli ospedali pubblici. Senza risvolti, senza un punto più del minimo indispensabile. Tessuto grezzo, ruvido. La gola mi doleva. Cominciai a ricordare qualcosa. Mi toccai i muscoli del collo. Mi facevano ancora male. Dopotutto, era un indiano qualsiasi. Benissimo, signor Hemingway. Volete fare il poliziotto? Si guadagna bene. Nove lezioni per corrispondenza. Pensiamo noi al diploma. Per cinquanta cents vi mandiamo anche la cornice. La gola mi faceva male ma le dita che la toccavano non sentivano niente. Avrebbero potuto benissimo essere un grappolo di banane, invece di dita. Le guardai. Non avevano perduto la classica forma. Niente di speciale. Dita d'ordinaria amministrazione. Dovevano essere arrivate col diploma, la licenza e la cornice. Era notte. Il mondo fuori delle finestre era tutto nero. Un catino di porcellana pendeva dal soffitto, appeso a tre catene di ottone. Dentro c'era la luce. L'orlo era decorato con dischi di due colori, uno azzurro e uno arancione. Guardai quei dischi. Ero stufo del fumo. Mentre guardavo fisso, i dischi azzurri e arancione cominciarono ad aprirsi come tanti piccoli oblò e ne spuntarono fuori delle teste. Erano teste minuscole ma vive, teste simili a quelle delle bambole, piccolissime ma vive. C'era un uomo con un berretto da marinaio e un naso da Johnny Walker; c'era una bionda vistosa con un cappello più vistoso ancora, c'era un tipo smilzo con una brutta cravatta a farfalla. Costui pareva un cameriere. Apri le labbra e disse: «La bistecca la volete grande o media, signore?». Io chiusi gli occhi, serrando bene le palpebre. Quando li riaprii, c'era soltanto un comune catino di porcellana sospeso a tre catenelle d'ottone. Ma il fumo restava ancora immobile nell'aria smossa. Afferrai un lembo del ruvido lenzuolo e mi asciugai il sudore dal volto. Usai le dita intorpidite che la scuola per corrispondenza mi aveva inviato dopo le nove lezioni, pagamento anticipato, e... Ma dovevo essere pazzo.
Completamente pazzo. Mi sedetti sul letto e dopo un po' riuscii a toccare coi piedi il pavimento. Erano nudi, li sentivo pieni di spilli e di aghi. La cassa in fondo, signora. Gli spilli di misura grande nel piede destro, prego. La signora è servita. I piedi cominciavano a toccare il pavimento. Mi alzai in piedi. Ero troppo alto. Crollai a terra, respirando affannosamente, mi aggrappai alla spalliera, e una voce che sembrava venire da sotto il letto prese a dire: «Il signore è servito... il signore è servito... il signore è servito...». Feci qualche passo, barcollando come un ubriaco. Su un tavolino di smalto fra le due finestre sbarrate c'era una bottiglia di whisky. Aveva un'aria simpatica e cordiale. Pareva piena almeno a metà. Mi diressi da quella parte. Però, nonostante tutto, ce n'è tanta di gente simpatica al mondo. Uno può arrabbiarsi a leggere i giornali, prendere a calci negli stinchi il vicino al cinematografo o sentirsi comunque nauseato e stanco, schifare gli uomini politici, va bene; ma persone simpatiche al mondo ce ne sono sempre tante. Per esempio il tizio che aveva lasciato quella bottiglia di whisky in quel posto. Doveva avere un cuore grosso come uno dei fianchi di Mae West. L'afferrai con tutte e due le mani intorpidite e la sollevai alla bocca. Feci la stessa fatica che se avessi dovuto alzare una delle due metà del ponte di San Francisco. Bevvi una lunga sorsata. Rimisi giù la bottiglia con estrema attenzione. Tentai di leccarmi le gocce sul mento. Il whisky aveva un sapore curioso. Mentre mi rendevo conto che aveva un sapore curioso, vidi un lavabo in un angolo. Ce la feci appena a raggiungerlo. Vomitai. Passò del tempo: fu un'agonia; una nausea interminabile mi prese, mentre vacillavo aggrappandomi al lavabo e mandando animalesche implorazioni di aiuto. Poi tutto passò. Vacillando, ritornai al letto, mi distesi di nuovo supino, rimanendo sdraiato a guardare il fumo. Forse non esisteva. Magari era soltanto qualcosa che avevo negli occhi io. Poi, all'improvviso, non ci fu più fumo e la luce del lampadario di porcellana splendette dal soffitto in tutta la stanza. Mi levai a sedere di nuovo. Appoggiata alla parete dov'era la porta vidi una grossa sedia di legno. Oltre l'uscio dal quale era uscito l'uomo con la giacca bianca, ce n'era un altro. Si trattava forse di un armadio a muro. Potevano esserci dentro i miei vestiti. Il pavimento era coperto di linoleum a
scacchi grigi e verdi. Le pareti sembravano bianche. Era una stanza pulita e in ordine. Stavo seduto su un lettino di ferro da ospedale, stretto e più basso del solito. Suppergiù all'altezza dove potevano trovarsi i polsi e le caviglie di un uomo, c'erano attaccate delle strisce di cuoio con fibbie in fondo. Era una bella stanza... e più bello doveva essere andarsene di lì. Mi doleva tutto il corpo, mi facevano male la testa, la gola, il braccio. Di quest'ultimo non ricordavo niente. Mi tirai su la manica del pigiama di cotonina e guardai stupito il mio braccio che era coperto di punture di spillo dal gomito alla spalla. Intorno a ogni puntura c'era una macchia chiara, della grandezza di un'unghia. Drogato. Mi avevano riempito di droga per tenermi buono. Magari scopolamina, per farmi parlare. Me ne era stata data troppa tutt'insieme. Ora mi faceva venire quasi le convulsioni. A certi fa quest'effetto, ad altri no. Dipende da come si è fatti. Questo spiegava il fumo, le piccole teste spuntate dal lampadario del soffitto e le voci e le fantasticherie, le strisce di cuoio e le sbarre alle finestre, le mani torpide e i piedi che non si sentivano. Il whisky avrebbe certo dovuto completare la cura. Lo avevano lasciato lì apposta perché non mi mancasse niente. Mi alzai e quasi urtai col torace nella parete di fronte. Questo mi fece restare disteso per un po' a respirare piano e a riflettere. Sentivo piccole gocce di sudore formarmisi sulla fronte e scivolarmi poi lungo il naso fino alla bocca. Le leccavo con la lingua come un idiota. Di nuovo mi levai a sedere. Piantai i piedi sul pavimento, mi alzai in piedi. «Benissimo, signor Marlowe», dissi a denti stretti. «Sei un tipo in gamba. Uno e ottanta di altezza, settanta chili nudo con barba fatta. Muscoli forti e muso duro. Ti puoi rimettere in sesto. Hai preso due manganellate in testa, sei stato mezzo strozzato e ti hanno picchiato allegramente sul muso con la canna di una rivoltella. Sei stato riempito di droga fino a diventare matto come una pecora impazzita. Ma che cos'è tutto questo? Ordinaria amministrazione. Vediamo adesso se sai fare qualcosa di veramente difficile: infilarti, per esempio, i pantaloni». Mi distesi di nuovo sul letto. Passò altro tempo, non so quanto. Non avevo orologio. Ad ogni modo quello era un tempo che non si misurava con gli orologi. Mi levai a sedere. Ora si cominciava a esagerare. Mi alzai in piedi e feci
per camminare. Muovermi non era uno scherzo. Il cuore balzava come un gatto impazzito. Era meglio sdraiarsi di nuovo, dormire e prendersela comoda ancora per un po'. Sei conciato male, bello. Benissimo, signor Hemingway, d'accordo, non ce la faccio. Non ce la farei a buttar giù un vaso di fiori. Non riuscirei a spezzare un'unghia. Macché. Stavo camminando. Ce la facevo. Ero in gamba. Stavo uscendo di lì. Poi mi sdraiai di nuovo sul letto. La quarta volta andò meglio. Attraversai due volte la stanza, avanti e indietro. Andai al lavandino, lo risciacquai, e bevvi un po' d'acqua nel cavo della mano. Aspettai un po', poi ne bevvi ancora. Andava meglio. Camminai. Continuai a camminare. Un passo dopo l'altro. Andai su e giù per un'ora e mezzo. Poi le ginocchia mi tremarono ma la testa mi si era schiarita. Bevvi altra acqua, moltissima acqua. Urlai quasi nel lavandino, mentre bevevo. Tornai al letto. Era un bel letto. Era fatto di petali di rosa. Era il più bel letto del mondo. Dovevano esserselo fatto dare da Carole Lombard. Per lei forse era troppo soffice. Valeva la pena di rinunciare a tutto quel che ancora mi restava da vivere, per rimanere sdraiato lì altri due minuti. Un bel letto morbido, una dolce dormita, dovevo chiudere dolcemente gli occhi, respirare piano, al buio, e riposare... Ripresi a camminare. Prima fecero le Piramidi, e quando ne furono stufi le disfecero; con le pietre ricavarono il cemento per la diga di Boulder; dopo aver costruito la diga di Boulder portarono l'acqua nel sud solatìo e tracciarono un fiume... Io camminavo. Che mi fregava di tutto il resto... Smisi di muovermi. Ora ero pronto a parlare con qualcuno. CAPITOLO XXVI L'armadio era chiuso, la sedia troppo pesante per me. Alzai le lenzuola e spinsi da parte il materasso. C'era una rete metallica fermata alle due estremità da sbarre di metallo lunghe mezzo metro circa. Mi misi all'opera. Fu il lavoro più duro che io avessi mai fatto. Dieci minuti dopo avevo due dita sanguinanti e una sbarra di metallo. La feci roteare. Era pesante e ben equilibrata. Quando ebbi concluso quella fatica, vidi la bottiglia del whisky che avrebbe potuto servire benissimo allo scopo, ma io me n'ero dimenticato.
Bevvi ancora un po' d'acqua. Mi riposai, seduto sulla rete metallica. Poi mi accostai alla porta, e, mettendo la bocca al buco della serratura, gridai: «Al fuoco! Al fuoco! Al fuoco!». Fu un'attesa breve e piacevole. L'uomo arrivò di corsa; la chiave girò nella serratura. L'uscio si spalancò. Io ero appiattito contro la parete, dalla parte verso cui la porta si apriva. L'uomo questa volta brandiva un manganello, un bell'arnese lungo una spanna e coperto di strisce di cuoio scuro. I suoi occhi corsero al letto disfatto, poi cominciarono a frugare nella stanza. Io scoppiai a ridere e lo colpii. Gli posai la sbarra di ferro sulla testa e lui ruzzolò avanti. Lo seguii e lo raggiunsi, mentre era già in ginocchio. Lo colpii due volte. Lui emise un lamento; gli tolsi il manganello di mano. Lui gemette. Gli misi il piede contro la faccia. Mi feci male al piede. Lui non mi comunicò se la faccia gli doleva o no. Si stava lamentando ancora quando gli detti un'altra manganellata in testa. Presi la chiave dall'esterno della porta, chiusi dall'interno e frugai l'uomo. Aveva molte chiavi indosso. Una apriva l'armadio. Lì c'erano i miei vestiti appesi. Dal portafoglio il denaro era scomparso. Tornai all'uomo dalla giacca bianca. Aveva in tasca un po' troppo denaro, per quel che doveva fare. Ne presi quanto ne avevo prima, poi lo caricai sul letto, gli fissai con le cinghie polsi e caviglie e gli ficcai un buon metro di lenzuolo in bocca. Aveva il naso ammaccato. Aspettai finché fui sicuro che ce la facesse a respirare. Mi dispiaceva per lui. Un poveretto che lavorava duramente per non perdere il posto e per prendere la paga a fine settimana. Magari aveva moglie e figli. Che tristezza. E per cavarsela aveva solo un manganello. Non era una bella cosa. Misi il whisky drogato vicino a lui; l'avrebbe potuto prendere, se non avesse avuto le mani legate. Gli detti una manata sulla spalla. Per poco non mi venne da piangere per lui. C'erano tutti i miei vestiti, persino la fondina con la rivoltella dentro, ma i proiettili mancavano. Mi vestii con le dita impacciate, ancora intorpidite, sbadigliando. L'uomo sul letto riposava. Lo lasciai lì chiudendo la porta a chiave. Fuori mi trovai in un corridoio largo e silenzioso, con tre porte chiuse. Nessun rumore veniva da quegli usci. Un tappeto color vino correva nel mezzo del corridoio; su di esso i passi si smorzavano; c'era silenzio in tutto
il resto della casa. Passai per un salone che finiva in una grande scala all'antica, di quercia chiara. La scala scendeva con una elegante curva nel salone sottostante, che era chiuso in fondo da due vetrate colorate. Sul pavimento c'erano pesanti tappeti. Una striscia di luce trapelava da una porta, ma non si udiva nessun rumore. Era una casa all'antica, come se ne costruivano una volta e non se ne costruiscono più, ora. Probabilmente si trovava in una via tranquilla, con un rosaio di fianco e tanti fiori davanti. Graziosa, fresca, quieta, sotto il bel sole della California. Stavo per cominciare a scendere per quella scala quando sentii un uomo tossire. Mi voltai e vidi che c'era una porta semiaperta all'altra estremità del corridoio. In punta di piedi percorsi la striscia di tappeto. Aspettai, vicinissimo alla porta semiaperta, senza entrare. Un raggio di luce era ai miei piedi, sul tappeto. L'uomo tossì di nuovo. Era una tosse profonda, che veniva dal profondo di un petto. Faceva un rumore pacifico, tranquillo. Non era affar mio. L'affar mio consisteva solo nel cercar di uscire di là. Ma qualsiasi uomo che in quella casa potesse tener la porta aperta mi interessava. Doveva essere un tipo importante, uno da fargli tanto di cappello. M'insinuai un po' nel raggio di luce. Sentii il fruscio di un giornale. Vedevo parte di una stanza. Questa era perfettamente ammobiliata. C'erano un tavolo scuro, sul quale stavano un cappello e alcuni giornali e riviste, poi finestre con tendine ricamate e un bel tappeto. Le molle di un letto cigolarono pesantemente. Doveva essere un tipo grosso, com'era grossa la tosse. Con la punta di un dito aprii la porta di qualche centimetro. Non accadde nulla. Con lentezza incredibile avvicinai la testa. Vidi la stanza, il letto, l'uomo sul letto, un portacenere traboccante di cicche, una dozzina di giornali sparpagliati sul letto. Uno dei giornali era tenuto da un paio di grosse mani davanti a una faccia di notevoli dimensioni. Vedevo i capelli spuntare dietro il giornale. Ricci, bruni, quasi neri, foltissimi, Una striscia di fronte bianca si scorgeva. Il giornale si spostò un po', io non respirai: l'uomo sul letto non alzò lo sguardo. L'uomo aveva bisogno di radersi. Sembrava uno che avesse sempre avuto bisogno di radersi. L'avevo già visto, laggiù in Central Avenue, in quel locale negro che si chiamava Florian. Allora indossava un abito sgargiante, con palle da golf sulla giacca; aveva un bicchiere di whisky in mano: impugnava una rivoltella che pareva un giocattolo e passava tranquillamente attraverso una porta sfondata. Avevo visto un certo lavoretto fatto da lui; uno di quei lavori che quando son fatti son fatti.
Egli tossì di nuovo, mosse la schiena sul letto, sbadigliò e tese la mano per prendere un pacchetto di sigarette dal comodino. Una sigaretta gli arrivò in bocca. Una fiamma si accese all'estremità del suo pollice. Il fumo gli uscì dal naso. «Ah», esclamò. Il giornale si alzò di nuovo davanti al suo volto. Lo lasciai lì e mi allontanai nel corridoio. Il signor Moose Malloy sembrava in buone mani. Tornai alla scala. Scesi. Una voce mormorava dietro la porta semichiusa. Io attesi che rispondesse un'altra voce. Niente. Era una conversazione telefonica. Mi avvicinai alla porta e tesi l'orecchio. Era una voce bassa, quasi un borbottìo. Non si capiva neanche una parola. Infine si udì uno scatto metallico. Dopo questo rumore, silenzio. Era il momento di tagliar la corda, ma io spalancai la porta ed entrai tranquillamente. CAPITOLO XXVII Era un ufficio, né piccolo né grande, dall'aria piuttosto austera, con una libreria a vetri, piena di grossi volumi e un armadio da pronto soccorso alla parete. Questo era smaltato di bianco, col vetro davanti, e dentro molti aghi ipodermici e siringhe. Al centro della stanza si notava una scrivania, larga e liscia, con una cartella da tavolo, un tagliacarte, un calamaio, un registro per gli appuntamenti e poche altre cose, tra cui il gomito di un uomo che se ne stava seduto a meditare, col volto fra le mani. Tra le dita gialle vedevo i capelli color della sabbia scura umida, erano tanto lisci che parevano dipinti sulla testa. Feci tre passi. I suoi occhi dovettero guardare oltre la scrivania e vedere i miei piedi. Alzò la testa e mi fissò. Occhi infossati, smorti, in un volto che sembrava di pergamena. Disgiunse le mani, si appoggiò indietro, mi guardò senza la minima espressione. Egli aprì le braccia in un gesto che poteva essere di sconforto e, quando le posò di nuovo, una di quelle era molto vicina all'angolo della scrivania. Feci altri due passi avanti e gli mostrai il manganello. L'indice e il medio continuarono a spostarsi verso l'angolo della scrivania. «Il campanello non serve», dissi io. «Il vostro amico l'ho messo già a nanna». Gli occhi dell'uomo parvero velati dal sonno. «Siete stato molto male. Molto, molto male. Non posso ancora consigliarvi di alzarvi e di uscire».
«Qua la mano destra», dissi. E la colpii col manganello. La mano si rinchiuse in se stessa come un serpente ferito. Girai dietro la scrivania, sorridendo, benché non ci fosse nessun motivo di sorridere. Aveva naturalmente una rivoltella nel cassetto. Hanno sempre un'arma da fuoco in qualche posto e riescono sempre troppo tardi ad afferrarla, quando ci riescono. La presi. Era una calibro 9, di serie, non buona come la mia, ma potevo usare le munizioni. Pareva che nel cassetto non ce ne fossero. Tirai fuori il caricatore. L'uomo fece un movimento incerto, con la testa triste e abbassata. «Può darsi che abbiate un altro campanello sotto il tappeto», insinuai. «E magari suona direttamente nell'ufficio del Capo della Polizia. Non fatelo funzionare. Per un'ora ancora io sarò molto cattivo. Chiunque entra da quella porta, entra dritto nella cassa da morto». «Non c'è nessun campanello sotto il tappeto», egli disse. La sua voce aveva un lievissimo accento straniero. Presi il suo caricatore e lo sostituii al mio vuoto. Feci uscire il proiettile che era in canna e posai la sua rivoltella. Misi la pallottola in canna nella mia e passai di nuovo dall'altra parte del tavolo. La porta aveva un catenaccio. Io indietreggiai, la chiusi, cercai di sentire lo scatto del catenaccio. Poi tornai alla scrivania e mi sedetti. Dovetti chiamare a raccolta le ultime risorse di forze che possedevo. «Whisky», dissi. L'uomo cominciò a fare un movimento con la mano. «Whisky», ripetei. L'uomo si avvicinò all'armadietto dei medicinali e ne tolse una bottiglia schiacciata che aveva un'etichetta verde. Prese anche un bicchiere. «Due bicchieri», dissi io. «Ho già assaggiato una volta il vostro whisky. E a momenti mi faceva andare a sbattere a casa del diavolo». Egli prese due bicchieri piccoli, ruppe il sigillo della bottiglia, riempì i bicchieri. «Prima voi», dissi. Egli fece un debole sorriso e alzò uno dei bicchieri. «Alla vostra salute, signore, a quel tanto di salute che ancora vi resta». Bevve. Bevvi anch'io. Presi la bottiglia e me la piazzai accanto, aspettando che il caldo mi arrivasse al cuore. Il cuore ricominciò a battere e me lo sentii di nuovo in petto, anziché appeso alla stringa della scarpa. «Ho avuto un incubo», raccontai. «Un incubo sciocco. Ho sognato di essere stato legato a un letto, riempito di droghe e chiuso a chiave in una
stanza con le sbarre alle finestre. Ero molto debole. Mi sono addormentato. Non mi hanno dato da mangiare. Stavo male. Mi hanno dato una manganellata e trasportato in un posto dove mi hanno conciato in questo modo. Si sono presi un sacco di disturbo. Non merito mica tanto riguardo». L'uomo non rispose e mi guardò. C'era un interrogativo, lontano, in fondo ai suoi occhi. Pareva che egli si chiedesse quanto tempo ancora io sarei rimasto vivo. «Mi sono svegliato e la stanza era piena di fumo», dissi. «Era solo un'allucinazione, un'irritazione del nervo ottico, o qualche cosa di simile. Invece di serpentelli rosa vedevo fumo. Allora ho urlato e un tizio con una giacca bianca mi ha messo sotto il naso un manganello. Ho dovuto attendere parecchio tempo, prima di poterglielo portar via. Gli ho preso anche le chiavi, il mio vestito e il mio denaro che aveva in tasca lui. Così eccomi qui. Guarito completamente. Che osservazione avete fatto?». «Non ho osservato niente», rispose lui. «Pure avete alcune cose da osservare», precisai. «Questa per esempio». Soppesai lievemente il manganello. «È una cosa molto convincente. Ho dovuto chiederla in prestito ad un amico». «Vi prego di darmelo subito», egli chiese con un sorriso veramente amabile. Sorrideva come il boia quando entra nella cella del condannato la mattina dell'esecuzione: amichevolmente, paternamente, e in maniera guardinga al tempo stesso. Un sorriso che, se vi fosse possibile sopravvivere, finireste per trovare, con l'andar del tempo, simpatico. Lasciai cadere il manganello nella sua mano sinistra. «Ora la rivoltella, per favore», egli chiese con dolcezza. «Siete stato molto male, signor Marlowe. Credo che dovrò insistere perché torniate a letto». Lo fissai. «Sono il dottor Sonderborg», spiegò lui. «E non voglio pazzie». Posò il manganello sulla scrivania davanti a sé. Il suo sorriso era quello di un pesce congelato. Le lunghe dita si muovevano come farfalle moribonde. «La rivoltella, per cortesia», ripeté piano. «Vi consiglio chiaramente...». «Che ora è, carceriere?». Mi guardò un po' sorpreso: avevo al polso l'orologio ma si era fermato. «È quasi mezzanotte. Perché?». «Di che giorno?». «Ma è domenica, signore. Naturalmente».
Mi chinai sulla scrivania e tenni la rivoltella tanto vicina a lui che egli avrebbe potuto tentare di afferrarla. «Sono più di quarantott'ore. Niente di strano che stessi male in quel modo. Chi mi ha portato qui?». Egli mi fissò e la sua mano cominciò a gironzolare di nuovo dalle parti dell'arma. In fondo, era divertente. «Non fatemi diventare cattivo», esclamai. «Non costringetemi a smettere con le buone maniere. Ditemi chi mi ha portato qui». Lui trovò il coraggio di gettarsi sulla rivoltella, ma quella cambiò speditamente di posto. Io tornai a sedermi comodamente e posai la rivoltella in grembo. Lui diventò rosso, afferrò la bottiglia del whisky e si versò un bicchiere. Lo ingoiò in fretta. Emise un sospiro; poi ebbe un brivido. Non gli piaceva il sapore del whisky. A nessuno di quelli che prendono droghe piace bere. «Verrete arrestato subito, se uscite di qui», egli disse seccamente. «Siete stato affidato a noi in consegna da rappresentanti della legge...». «Mica i rappresentanti della legge possono fare una cosa simile». Questo lo turbò. La sua faccia gialla apparve preoccupata. «Fuori, sputate tutto», ordinai. «Chi mi ha portato qui, come e perché? Stasera ho un umore piuttosto feroce, sapete. Ho voglia di fare una danza selvaggia. Sento il richiamo della foresta. È una settimana che non ammazzo nessuno. Parlate, dottore». «Siete avvelenato dal narcotico», notò lui con freddezza. «Stavate per morire. Vi ho dovuto dare tre volte la morfina. Facevate resistenza, urlavate, si è dovuto immobilizzarvi». Le parole gli uscivano così in fretta dalla bocca da accavallarsi. «Se lasciate il mio ospedale in queste condizioni, andate incontro a complicazioni, sicuramente». «Avete detto che siete un dottore? Un medico?». «Certamente. Sono il dottor Sonderborg, ve l'ho già detto». «Voi non siete avvelenato dal narcotico, dottore. Voi siete semplicemente in coma. Riprovateci e cercate di riuscirci. Mi basta saper soltanto le cose più importanti. Avanti: chi mi ha messo nella vostra ridicola casa?». «Ma...». «Ma, niente ma con me. O vi faccio affogare in una botte di vino. Vorrei anch'io una botte di vino di Malmsey, dentro la quale tuffarmi e annegare. Questo è Shakespeare. Anche lui se ne intendeva. Avanti, prendiamo ancora un po' di medicina». Presi anche il suo, e riempii due bicchieri. «Avanti, Boris Karloff».
«È stata la polizia a mettervi qui». «Quale polizia?». «La polizia di Bay City, naturalmente», rispose lui. Le dita gialle e irrequiete si torcevano sul bicchiere. «Qui siamo a Bay City». «Ah. E aveva un nome questa polizia?». «Un certo sergente Galbraith, mi pare. Non erano poliziotti in perlustrazione regolare. Lui e un altro poliziotto vi trovarono davanti alla casa privo di sensi la sera di venerdì. Vi portarono dentro loro perché qui era già chiuso. Pensai che foste un vizioso che avesse esagerato. Ma può darsi che mi sia sbagliato». «È una buona storia. Non potrei dimostrare che è falsa. Ma perché trattenermi qui?». Egli allargò le mani irrequiete. «Vi ho detto e ripetuto che eravate malato e che lo siete ancora. Che cosa pretendereste che io facessi?». «Allora vi devo del denaro». Egli alzò le spalle. «Naturalmente. Duecento dollari». Spinsi un po' indietro la mia sedia. «Buon prezzo», commentai. «Cercate di prenderveli, se siete capace». «Se uscite», egli disse bruscamente, «sarete arrestato subito». Mi chinai verso di lui e gli soffiai sui volto: «Me ne vado, ma questo non è tutto, Boris Karloff. Apri quella cassaforte nel muro». Egli si alzò con uno scatto. «Questa storia è durata troppo», esclamò. «Non volete aprirla?». «Certamente no». «È una rivoltella che ho in mano». Egli sorrise, appena appena, amaramente. «La cassaforte è bella e grossa», aggiunsi. «È anche nuova. E questa è una bella rivoltella. Non volete aprirla?». Niente cambiò sul suo volto. «Diavolo», dissi io, «quando si ha una rivoltella in mano la gente dovrebbe fare quello che gli si dice di fare. Com'è che il sistema non funziona?». Egli sorrise. C'era in quel sorriso una soddisfazione sadica. Io vacillavo. Stavo per avere un collasso. Mi appoggiai alla scrivania ed egli attese, con le labbra semiaperte. Rimasi lì appoggiato un momento, fissandolo negli occhi. Poi gli feci una smorfia. Il sorriso si afflosciò sul suo volto come uno straccio bagnato.
Gli comparvero gocce di sudore sulla fronte. «Addio», dissi. «Vi abbandono a mani più sporche delle mie». Indietreggiai fino alla porta, l'aprii e uscii. La porta di strada non era chiusa a chiave. C'era un porticato, il giardino era pieno del profumo dei fiori, poi uno steccato di pali e un cancello. La casa era d'angolo. La notte era fredda, umida e senza luna. La targa sull'angolo portava scritto Descanso Street. C'erano case illuminate nelle vicinanze. Tesi l'orecchio per sentire le sirene della polizia. Non udii nessun rumore. L'altra targa era quella della 23a Strada. M'inoltrai per la ventitreesima. All'819 abitava Anne Riordan. Camminavo già da un po' quando mi accorsi di avere ancora la rivoltella in mano. E non sentivo sirene della polizia. Andai avanti. L'aria fresca mi faceva bene, ma l'effetto del whisky mi stava sbollendo, facendomi star male. C'era una luce accesa al numero 819. Di fronte alla casa notai dei cespugli di rose. Prima di spingere il campanello, tesi l'orecchio. Ancora niente sirene. Suonai e, poco dopo, una voce si fece udire da uno di quegli apparecchi elettrici che sono fatti per parlar fuori, tenendo la porta chiusa. «Chi è?». «Marlowe». Forse lei trattenne il fiato, ma forse fu soltanto l'apparecchio elettrico, chiudendosi, a far quel rumore. La porta si spalancò e comparve Anne Riordan in vestaglia verde pallido. Mi guardò, sbarrò gli occhi e sembrò spaventarsi. Il suo volto illuminato dal lampione del portico era impallidito improvvisamente. «Dio mio», gemette. «Sembrate lo spettro del padre di Amleto!». CAPITOLO XXVIII Nel salotto c'erano un tappeto a disegni, poltroncine bianche e rosa, un caminetto di marmo nero con gli alari di ferro e d'ottone, alti scaffali per i libri, incassati nella parete, e tendine color crema alla finestra. Non c'era niente di femminile in quella stanza, eccezion fatta per uno specchio della grandezza di una persona, davanti al quale si trovava un bel tratto di pavimento sgombro. Io m'ero seduto, quasi sdraiato su di una soffice poltrona, posando i piedi su uno sgabello. Avevo preso due tazze di caffè nero, poi da bere, poi due uova à la coque, con fette di pane abbrustolito, poi altro caffè con del co-
gnac. Tutta questa roba l'avevo consumata nella sala da pranzo; però non ricordavo più come questa fosse fatta, perché era già passato troppo tempo. Mi sentivo molto meglio. Riprendevo forma, non ero più ubriaco, il mio stomaco era come un giocatore di baseball che puntava dritto sull'ultima base. Anne Riordan, seduta di fronte, era china su di me, col mento appoggiato alla mano, gli occhi scuri e cerchiati d'ombra, sotto l'aureola dei capelli rossicci o castani che fossero. Nei capelli teneva infilata una matita. Pareva preoccupata. Le avevo detto parecchio, ma non tutto. In particolare, non le avevo detto nulla di Moose Malloy. «Credevo che vi foste ubriacato», spiegò lei. «Già prima che arrivaste pensavo che vi foste ubriacato, e che foste andato con la bionda. Non sapevo che cosa pensare». «Non vi sarete fatto tutto questo con gli articoli, credo», dissi io guardandomi in giro. «Neanche se vi pagassero non solo quello che scrivete ma anche tutto quello che pensate». «E neanche se l'è fatto mio padre rubando alla polizia», disse lei. «Come quel grassone che è capo della polizia adesso». «In fondo non è affar mio», dissi. «Avevamo dei terreni a Del Rey», precisò lei. «Terreni tutti sabbiosi che non rendevano niente. Poi si scoprì che erano petroliferi». Io assentii e bevvi dal bel bicchiere di cristallo che avevo in mano. Bere mi riscaldava. «Uno potrebbe stabilirsi qui», dissi. «Tutto pronto, tutto per bene». «Purché fosse il tipo adatto», replicò lei, «e purché qualcun altro lo volesse». «C'è un guaio», risposi. «Manca il maggiordomo». Lei arrossì. «Ma voi no», esclamò. «Voi siete pronto a farvi piuttosto manganellare in testa e sforacchiare il braccio a furia d'iniezioni e massacrare la faccia come un pallone da calcio. E Dio sa se vi è bastato». Non risposi. Ero troppo stanco. «Almeno», disse lei, «avete avuto abbastanza cervello da guardare nel bocchino di quelle sigarette. Da come parlavate l'altro giorno credevo che non ve ne foste nemmeno accorto». «Quei biglietti da visita non significano niente». Lei mi dette un'occhiata strana. «E avete il coraggio di dir questo dopo che quell'uomo vi ha fatto picchiare da un paio di poliziotti venduti e vi ha sottoposto a due giorni di cure per insegnarvi a badare agli affari vostri? È
tanto chiaro che lo vedrebbe un cieco». «Che cosa è chiaro?». «Che questo medico della psiche fa parte di una grossa banda. Prende le informazioni, prepara tutto, e poi decide quando e dove gli altri devono agire». «Vi pare?» chiesi. Lei mi fissò. Io vuotai il bicchiere e ripresi l'espressione stanca. Lei mostrò di non accorgersene. «Certo che mi pare», replicò. «E pare anche a voi». «A me sembra che la cosa sia un po' complicata». Il suo sorriso era ironico e irritato al tempo stesso. «Scusate, avevo dimenticato che siete un investigatore. Deve essere tutto più complicato per voi. Non è così? Un caso semplice è una specie di vergogna. No?». «È più complicato di quanto crediate». «Benissimo. Dite, allora. Vi ascolto». «Niente, a me pare così. Posso avere un altro bicchiere?». Lei si alzò. «Sapete, una volta o l'altra dovreste assaggiare l'acqua, solo per penitenza». Si avvicinò e prese il mio bicchiere. «Questo è l'ultimo, siamo intesi». Uscì dalla stanza; in qualche posto si udì il tintinnìo dei dadi di ghiaccio; io chiusi gli occhi ascoltando quei piccoli rumori senza importanza. Non era stato intelligente venire qui. Se ne sapevano sul mio conto quanto io sospettavo, potevano capitare qui a dare un'occhiata. Sarebbe stato un bel pasticcio. Lei tornò col bicchiere, le sue dita gelate per aver toccato il ghiaccio sfiorarono le mie, io le trattenni per un attimo e poi le lasciai andare così come si abbandona un sogno, lentamente, quando ci si sveglia col sole in faccia dopo essere stati in una valle incantata. Lei arrossì, tornò alla sua poltrona e si sedette, dandosi molto da fare per sistemarvisi bene. Accese una sigaretta e mi guardò bere. «Amthor è un tipo senza scrupoli», dissi io. «Ma non mi pare che possa essere il cervello di una banda di rapinatori di lusso. Può darsi che mi sbagli. Ma se lo fosse, e se lui avesse pensato che io potevo avere qualche prova contro di lui, non credo che sarei uscito vivo da quell'ospedale. Però è un uomo che deve temere certe cose. Non diventò cattivo finché io non mi misi a farneticare di inchiostro invisibile». Lei mi guardò con attenzione. «C'era davvero scritto qualcosa?». Feci una smorfia. «Se c'era, io non l'ho letto».
«È un posto strano per nascondervi dei pareri su una persona. Non vi pare? Nel bocchino delle sigarette... Fate il caso che nessuno le avesse mai trovate». «Secondo me il punto è che Marriott temeva qualcosa e se qualcosa gli fosse accaduto sapeva che i biglietti da visita sarebbero stati certamente trovati. La polizia avrebbe frugato per bene tutte le sue tasche. Ecco anche che cosa non capisco. Se Amthor fosse un delinquente, non avrebbe lasciato nessun indizio alla polizia». «Volete dire, nel caso che l'abbia ammazzato Amthor, o l'abbia fatto ammazzare? Ma quel che Marriott sapeva di Amthor potrebbe non avere un legame diretto col delitto». Rovesciai indietro la testa sulla spalliera della poltrona e finii di bere, con l'aria di riflettere su quello che lei aveva detto. Feci un cenno affermativo. «La rapina dei gioielli ha rapporto col delitto. E noi stiamo supponendo che Amthor abbia rapporti con i rapinatori». Lei mi guardò con intenzione. «Dovete star molto male», disse. «Non vorreste andare a letto?». «Qui?». Lei arrossì fino alla radice dei capelli. Protese avanti il mento. «Appunto. Non sono una bambina. A chi devo render conto?». Io deposi il bicchiere e mi alzai. «Uno dei miei rarissimi momenti di delicatezza si sta impossessando di me», dissi. «Volete accompagnarmi in macchina fino a un posteggio di taxi, se non siete troppo stanca?». «Che bestia siete», mormorò lei irritata. «Vi hanno massacrato mezzo e riempito di chissà quante droghe e io penso che tutto quel che vi occorre sia una notte di sonno per alzarvi poi fresco e leggero e rimettervi a fare l'impavido investigatore». «Veramente pensavo di alzarmi un po' tardi domattina». «Dovreste essere all'ospedale, imbecille!». Ebbi un sussulto. «Sentite», dissi. «Non ho le idee troppo chiare stanotte e non mi pare che dovrei fermarmi qui troppo a lungo. Io non ho nessuna prova contro quella gente, ma a quanto pare io a loro sono abbastanza antipatico. Qualunque cosa dicessi, mi troverei di fronte alla legge, e la legge in questo paese sembra piuttosto male in arnese». «È un paese per bene», disse lei scattando. «Non dovete giudicare...». «Sicuro, è un paese per bene. Come Chicago è una città per bene. Potete abitare a Chicago per molto tempo senza mai vedere un fucile mitragliato-
re. Certo che è un paese per bene. Probabilmente non è meno per bene di Los Angeles. Ma di una città si può comprare solo un pezzo. Invece, un paesetto di queste dimensioni lo si può comprare tutto intero, imballato in una scatola col nastro e il fiocco. Questa è la differenza. Ed è per questo che voglio andarmene via». Lei si alzò avvicinandomisi. «Ora andate a dormire. Subito. Qui. Ho un'altra stanza da letto. Potete prenderla voi e...». «Mi promettete di chiudere a chiave la porta della vostra?». Lei arrossì e si morse le labbra. «Certe volte sembrate il padrone del mondo», disse. «E certe volte il peggior seccatore che abbia mai avuto alle calcagna». «D'altra parte volete accompagnarmi dove posso trovare un taxi?». «State qui», ripeté lei. «Non state bene, siete malato». «Non sono malato al punto da non poter pensare con la mia testa», dissi sgarbatamente. Lei uscì dalla stanza tanto in fretta da volare quasi sopra i due scalini che dal salotto conducevano nel vestibolo. Tornò con una giacca di flanella sul vestito e senza cappello, coi capelli rossicci che parevano infuriati come l'espressione del suo volto. Spalancò una porta laterale, uscì, si sentirono i suoi passi sul viale. Si udì il rumore della saracinesca del garage che veniva tirata su. La portiera di un'automobile si aprì e si richiuse. Il motore si avviò e la luce dei fanali illuminò la porta aperta del salotto. Io presi il cappello da una sedia, spensi un paio di luci e vidi che la porta del salotto aveva una serratura Yale. Mi voltai un momento a guardare la stanza prima di uscire e chiudere la porta. Era una bella camera, sarebbe stato bello starci in pantofole. Chiusi la porta. La vetturetta mi arrivò davanti e io girai dall'altra parte per salirvi. Mi accompagnò fino a casa, in collera, con le labbra serrate. Guidava come una furia. Quando fui davanti a casa mia lei disse buonanotte con una voce ghiacciata, girò la macchina in mezzo alla strada e scomparve prima che riuscissi a estrarre di tasca le chiavi. Chiudevano il portone alle undici. Aprii, attraversai l'atrio polveroso, arrivai all'ascensore. Salii al mio piano. C'era una luce opaca. Bottiglie del latte davanti alle porte di servizio. Ero di nuovo a casa mia, in un mondo che riposava, innocuo come un gatto addormentato. Aprii la porta del mio appartamento e ne sentii l'odore; rimasi fermo contro lo stipite della porta, prima di accendere la luce. Era un odore casa-
lingo, di polvere e di tabacco, di un mondo dove la gente vive e continuerà a vivere. Mi spogliai e andai a letto. Ebbi incubi tutta la notte, che mi fecero spesso svegliare in un bagno di sudore. Ma al mattino ero di nuovo una persona normale. CAPITOLO XXIX Sedevo in pigiama sul fianco del letto, pensando di alzarmi ma senza essermi ancora deciso. Non mi sentivo molto bene ma non stavo nemmeno male quanto avrei dovuto. Mi doleva la testa, me la sentivo enorme, bollente. Avevo la gola secca e una sensazione poco piacevole alla mascella. Ma tante volte ero stato anche peggio. Era una mattina grigia, con la nebbia alta, non faceva ancora caldo ma l'aria sembrava riscaldarsi. Mi alzai di scatto e mi portai le mani alla bocca dello stomaco, indolenzita per tutto il vomito della sera prima. L'unico punto del corpo che non mi dolesse era il piede sinistro. Perciò mi toccò sbatterlo contro lo spigolo del letto. Stavo ancora bestemmiando quando sentii dei colpi alla porta. Era la bussata tipica delle persone importanti, che spesso vi fanno venire la voglia di aprire appena un po', dire quattro improperi e richiudere di nuovo. Aprii. Era il tenente Randall, con un abito di gabardine scuro, un cappello di feltro leggero in capo, inappuntabile, perfetto e solenne, con uno sguardo ironico sul volto. Randall spinse lievemente l'uscio e io mi feci da parte. Egli entrò e si guardò intorno. «Ti cerco da due giorni», disse senza fissarmi. I suoi occhi osservavano la stanza. «Sono stato male». Passeggiò per la stanza, col cappello sottobraccio ora, le mani in tasca, i capelli grigi lucidi. Non era molto robusto per essere un poliziotto. Si tolse lentamente la mano di tasca e la posò su un pacco di giornali. «Non qui», disse. «In un ospedale». «Che ospedale?». «Un ospedale per appestati». Egli fece una mossa come se gli avessi dato uno schiaffo. Sotto la pelle gli comparve un colore cupo. «Un po' presto stamattina, per far lo spiritoso. Non credi?».
Non risposi. Accesi una sigaretta. Tirai una lunga boccata e mi sedetti di nuovo sul letto, in fretta. «E come li curano quelli che sono una peste come te?». «Sono stato malato e non ho preso il caffè stamattina. Non potete pretendere che io sia molto spiritoso». «Ti avevo detto di non occuparti di quest'affare». «Non siete il Padreterno e non siete nemmeno Gesù Cristo». Tirai un'altra boccata dalla sigaretta. Sentii ancora un po' di fastidio dentro, ma andava già meglio. «Ti meraviglieresti se capissi quanti guai posso farti passare». «È probabile». «Sai perché non l'ho fatto finora?». «Sì». «Perché?». Si chinava verso di me, come un cane da caccia, con quello sguardo di sasso negli occhi che quelli acquistano tutti, prima o poi. «Perché non siete riuscito a trovarmi». Egli si tirò indietro e girò sulle calcagna. La sua faccia si rischiarò un poco. «Credevo che volessi dire un'altra cosa», disse. «E se la dicevi ti sistemavo io per le feste». «Venti milioni di dollari non vi farebbero impressione, ma potete sempre ricevere degli ordini da eseguire». Egli emise un sospiro con la bocca semiaperta. Con grande lentezza estrasse di tasca un pacchetto di sigarette e strappò l'involucro. Gli tremavano un po' le dita. Si mise in bocca una sigaretta e si avvicinò alla mia scrivania per prendere un fiammifero. Accese la sigaretta, depose il cerino nel portacenere anziché gettarlo per terra, e aspirò. «Ti ho dato un consiglio per telefono l'altro giorno» disse. «Giovedì». «Venerdì». «Sì, venerdì. Non è servito. Capisco perché. Ma io non sapevo allora che tu nascondevi delle prove. Non facevo che consigliarti una linea di condotta che mi pareva facesse al caso». «Che prove?». Egli mi guardò in silenzio. «Volete un caffè?» chiesi. «Forse vi renderebbe più trattabile». «No». «Io sì, invece». Mi alzai per dirigermi in cucina. «Siediti», scattò Randall. «Non ho ancora finito».
Io non mi fermai e andai in cucina, riempii d'acqua la caffettiera e la misi sulla stufa. Bevvi un sorso d'acqua fredda dal rubinetto, poi un altro. Tornai con un bicchiere in mano e mi fermai sulla soglia a guardare Randall. Non si era mosso. Il velo del fumo sembrava quasi solido, da una parte. Randall fissava il pavimento. «Che c'era di male ad andare dalla signora Grayle quando lei mi ha mandato a chiamare?» chiesi. «Non parlavo di questo». «Ora no, ma prima sì». «Non ti ha mandato a chiamare lei». Alzò gli occhi che avevano ancora quello sguardo di sasso. Le guance erano sempre di una tinta cupa. «Le hai fatto violenza, hai accennato allo scandalo e praticamente l'hai ricattata in modo da costringerla a farti lavorare». «Che ridere. Per quel che mi ricordo ÌQ, non abbiamo nemmeno parlato di lavoro. Non mi pareva che ci fosse niente nella sua storia. Voglio dire, niente per i miei denti. Nessun punto da cui partire. E naturalmente io immaginai che l'avesse già raccontata a voi». «È vero. La birreria di Santa Monica è un nascondiglio di malviventi. Ma questo non vuol dir niente. Non ho trovato nulla. Anche l'albergo di fronte mi puzza. Ma niente di quel che cerchiamo noi. Solo imbecilli da poco». «Vi ha detto lei che io mi sono imposto?». Egli abbassò un poco gli occhi. «No», rispose. Io sorrisi. «Un caffè?». «No». Tornai in cucina, feci il caffè, aspettai che filtrasse. Randall questa volta mi seguì e si piazzò sotto la porta. «Questa banda di rapinatori lavora à Hollywood e dintorni da una decina d'anni, per quel che ne so io», disse. «Questa volta hanno esagerato. Hanno ammazzato un uomo. Credo di capire perché». «Bene, se sono banditi e se voi li prendete, sarà la prima volta da quando abito qui che un delitto commesso da una banda viene punito. E potrei citarvene almeno una dozzina». «È gentile questo da parte tua, Marlowe». «Correggetemi se sbaglio». «Il guaio è», disse lui seccato, «che non ti sbagli affatto». «Certo. Caffè?». «Se prendo un caffè, sei disposto a discutere con correttezza, da uomo a
uomo, senza spiritosaggini?». «Mi ci proverò. Non vi prometto però di scodellare tutte le mie idee». «Non ne ho bisogno», replicò Randall in tono acido. «È bello il vestito che avete addosso». Di nuovo gli si oscurò il volto. «È un vestito da ventisette dollari e cinquanta», disse. «Gesù, siete un poliziotto permaloso», commentai tornando alla stufa. «Ha un buon odore. Come lo fai?». Io versai. «All'italiana», dissi. «Senza fondi di caffè». Presi lo zucchero dall'armadio e la panna dal frigorifero. Ci sedemmo al tavolo da cucina, uno di fronte all'altro. «Che cos'è quello scherzo, di essere stato all'ospedale?». «Non è uno scherzo. Mi sono trovato un po' nei pasticci... laggiù a Bay City. Mi hanno messo dentro. Non in prigione. In un ospedale dove mi hanno curato a forza di stupefacenti». I suoi occhi si fecero lontani. «Bay City, eh? Ti piace il difficile, Marlowe». «Non è che mi piaccia il difficile. Mi capita. Ma niente di simile m'era mai successo prima. Sono stato manganellato due volte, la seconda volta da un poliziotto, o perlomeno da uno che aveva tutta l'aria di un poliziotto e diceva di esserlo. Sono stato picchiato con la mia rivoltella e strangolato quasi da un indiano. Mi hanno buttato in quest'ospedale di cocainomani e sono stato tenuto lì, probabilmente legato al letto, la maggior parte del tempo. E non posso provare niente, se non che effettivamente ho una bella collezione di lividi in tutto il corpo e di cicatrici di iniezioni sul braccio». Egli fissava lo spigolo del tavolo. «Laggiù a Bay City», disse lentamente. «Sembra il titolo di una canzone», commentai. «Che facevi da quelle parti?». «Non ci sono andato. Sono stati i poliziotti a portarmi al di là del confine. Io ero andato a far visita a un tale a Stillwood Heights. È nel territorio di Los Angeles». «Un tale di nome Jules Amthor», egli precisò con calma. «Perché hai nascosto quelle sigarette?». Fissai l'interno della mia tazza, pensando a quella piccola stupida. «Era strano che lui, Marriott, avesse quel portasigarette in più. Con le sigarette drogate dentro. Pare che a Bay City le facciano con la forma delle sigarette russe, con tanto di bocchini sottili, stemma dei Romanoff e tutto il resto».
Mi tese la tazza vuota e io la riempii. I suoi occhi scrutavano il mio volto punto per punto, ruga per ruga, come la lente d'ingrandimento di Sherlock Holmes. «Avresti dovuto dirmelo», disse con amarezza. Bevve e si asciugò le labbra con una di quelle cose con la frangia che nelle case ammobiliate vi danno come tovaglioli. «Ma non le hai rubate tu. La ragazza me lo ha detto». «Ah, benissimo», replicai. «Così non si può fare più niente in questo paese. Fanno tutto le donne». «Tu le piaci», precisò Randall, compito e un po' triste come un funzionario del F.B.I. al cinema. «Il suo vecchio era il poliziotto più in gamba che sia mai stato licenziato. Tu piaci a quella ragazza». «È una brava ragazza. Ma non è il mio tipo». «Non ti piacciono le brave ragazze?». Stava fumando un'altra sigaretta. Con la mano si faceva ventaglio contro il fumo. «Mi piacciono le ragazze splendide e vistose, ciniche e cariche di peccati». «Sono quelle che mandano all'ospedale», Randall disse con indifferenza. «Sicuro», risposi. «E dove sono stato io?». Randall fece il primo sorriso della giornata. Se ne concedeva quattro al giorno, credo. «Non mi stai dicendo gran che», disse. «Vi farò un'ipotesi, ma è probabile che voi mi abbiate già preceduto. Questo Marriott faceva il ricattatore di donne, perché così mi ha detto la signora Grayle. Ma faceva anche altro. Era una pedina di una banda di rapinatori di gioielli. La pedina di lusso, per la buona società, in altre parole quello che coltivava le vittime e le preparava per il sacrificio. Per esempio, la rapina di giovedì l'altro. Puzza. Se non avesse guidato la macchina Marriott, o se non avesse portato la signora Grayle al Troc o se non avesse fatto quella strada per tornare, passando davanti alla birreria, la rapina non avrebbe potuto aver luogo». «La macchina poteva benissimo guidarla l'autista», disse Randall con aria riflessiva. «Ma non avrebbe cambiato gran che. Gli autisti non si fanno riempire la faccia di piombo dai rapinatori... per i novanta dollari che prendono al mese. Però non potevano fare molti colpi con Marriott solo in compagnia di donne, altrimenti la cosa si sarebbe risaputa». «Il punto principale della faccenda è che nessuno deve saperne niente», dissi io. «Proprio per questo gli oggetti vengono restituiti a buon mercato».
Randall scosse la testa. «Devi cercare qualcosa di meglio per interessarmi. Le donne parlano di tutto. Si sarebbe subito saputa la storia che questo Marriott era un uomo trabocchetto». «Probabilmente è stato così. Per questo lo hanno fatto fuori». Randall mi fissò. Col cucchiaino stava rimescolando l'aria nella tazza vuota. Io mi chinai per prenderla e lui spinse da parte la caffettiera. «Vai avanti con la tua ipotesi», chiese. «Si erano serviti di lui. Ormai la sua utilità era esaurita. Era già venuto il momento che si poteva parlare un po' di lui, come dicevate voi. Ma da quei giri non ci si può tirar fuori, non si ha il tempo. Così l'ultima rapina fu per lui veramente l'ultima. Vedete, chiesero veramente molto poco per la giada, in confronto al valore reale. E Marriott tenne i contatti. Ma egli aveva paura. All'ultimo momento pensò che era meglio non andare solo; escogitò un piccolo stratagemma, in modo che, se gli fosse accaduto qualcosa, si trovasse su di lui di che poterlo indiziare come un uomo senza scrupoli e intelligente abbastanza da saper capeggiare la banda, e in posizione tale d'essere in grado di procurarsi informazioni sulle signore ricche. Era uno stratagemma puerile, però ha funzionato». Randall scosse il capo. «Una banda lo avrebbe perquisito, magari avrebbero anche buttato il cadavere in mare». «No. Vogliono che il lavoro sembri fatto da un dilettante. Loro desiderano continuare i loro affari. Probabilmente hanno già sostituito Marriott con un'altra pedina che avevano pronta». Randall continuò a scuotere il capo: «L'uomo indicato da quelle sigarette non è il tipo. Ha già una fonte notevole di guadagno per conto suo. Ho fatto un'indagine. Tu che ne pensi di lui?». Il suo sguardo era un po' troppo espressivo. Un po' troppo. Io dissi: «Sembrava avercela molto con me. Dopo tutto i suoi guadagni con la scienza psichica sono cosa passeggera. Non può durare molto tempo nello stesso posto. Diventa di moda, e tutti vanno da lui. Dopo un po' la moda passa, o non ci va più nessuno e gli affari vanno a rotoli. Questo se lui fa quel mestiere e basta. Come i divi del cinema. Dategli cinque anni di tempo, se ce la fa a reggere tanto. Ma dategli un paio di modi di servirsi delle informazioni di quelle donne e farà strage». «Me ne occuperò più attentamente», Randall disse, sempre con lo sguardo inespressivo. «Ma per adesso m'interessa di più Marriott. Risaliamo un po' indietro. A quando tu l'hai conosciuto». «Mi telefonò. Trovò il mio nome sull'elenco telefonico. Almeno così
disse». «Aveva il tuo biglietto da visita». Io lo guardai sorpreso. «Sicuro», dissi, «me ne ero dimenticato». «Ti sei mai chiesto perché trovò proprio il tuo nome? E fingiamo di credere alla faccenda della tua poca memoria». Lo fissai di sopra la tazza di caffè. Cominciava a piacermi. C'era veramente la stoffa in lui. «Era a questo che volevate arrivare?» dissi. Lui annuì. «Il resto, capisci, eran chiacchiere». Mi sorrise in modo compito e attese. Io versai dell'altro caffè. Randall si chinò di fianco, osservò di striscio la superficie bianca del tavolo. «C'è un po' di polvere», notò con aria distratta. Poi si raddrizzò fissandomi negli occhi. «Forse avrei dovuto arrivarci in modo diverso», disse. «Per esempio, mi pare che la tua ipotesi su Marriott possa essere esatta. Ci sono ventitremila dollari nella sua cassetta di sicurezza, che, ad ogni modo, abbiamo molto penato per trovare. Ci sono dei buoni di credito e un contratto d'ipoteca su un immobile a West 54th Place». Egli sollevò un cucchiaino e batté lievemente sull'orlo del piattino. Sorrise. «Ti interessa?» chiese cortesemente. «Il numero è 1644». «Sì», dissi io impacciato. «Ah, c'erano anche molti bei gioielli nella cassetta di sicurezza di Marriott, bella roba. Ma non credo che li avesse rubati. Crédo che glieli avessero dati volontariamente. Questo va bene per te. Aveva paura di venderli, a causa di certe associazioni d'idee che gli venivano in mente». Io assentii. «Li sentiva come rubati», dissi. «Sicuro. Ora quel contratto di ipoteca sulle prime non mi interessò, ma sai come succede. Il mestiere del poliziotto è fatto così. Riceviamo tutti i rapporti sugli omicidi e sulle persone disperse dai diversi distretti. Dovremmo leggerli lo stesso giorno. È una norma, come quella che non si può perquisire una casa senza mandato o frugare un tale senza ragionevole motivo per vedere se ha la pistola. Ma le norme si trasgrediscono. Non è colpa nostra. Così io non avevo letto certi rapporti fino a stamattina. Poi ne ho letto qualcuno sull'assassinio di un negro, giovedì scorso, in Central Avenue. Esso è stato compiuto da un pericoloso ex-galeotto di nome Moose Malloy. E c'era un testimone oculare. Al diavolo, chi era il testimone se non tu?». Sorrise pacatamente. Era il suo terzo sorriso. «Va bene?».
«Ascolto». «Questo è successo soltanto stamattina, capisci. Allora ho guardato il nome del tipo che firmava il rapporto e lo conoscevo, Nulty. Così ho capito che l'indagine non poteva non essere un fiasco. Nulty è un tipo che... sei mai stato a Crestline?». «Sì». «Bene, a Crestline c'è un posto dove un sacco di vecchie carrozzerie d'automobile sono state trasformate in capanne. Anch'io ho una capanna, laggiù, che però non è fatta con una carrozzeria. Le automobili sono state portate lì sui camion e sono, naturalmente, senza ruote. Ecco, Nulty è il tipo che sarebbe adatto a fare il frenatore su una di quelle carrozzerie senza ruote». «Non è carino», dissi. «Nei confronti di un collega». «Dunque, ho chiamato Nulty e lui ha borbottato, si è guardato in giro, ha sputato un paio di volte in terra e infine ha detto che tu avevi un'idea a proposito di una ragazza di nome Velma, mi pare, di cui Malloy una volta era stato innamorato e che eri andato dalla vedova del tizio, proprietario del locale dov'era avvenuto il delitto al tempo in cui era una casa per bianchi, e dove a quell'epoca lavoravano tanto Malloy quanto la ragazza. L'indirizzo di questa donna era 1644 West 54th Place, il posto cioè su cui aveva l'ipoteca Marriott». «Sì?». «Così ho pensato che come coincidenze per stamattina potevo accontentarmi», proseguì Randall. «Ed eccomi qui. Fino a questo punto mi pare di essermi comportato abbastanza bene». «Il guaio è», dissi, «che sulle prime la cosa sembra più importante di quanto è in realtà. Quella Velma è morta, a quanto dice la signora Florian. Ho la sua foto». Andai di là, feci per mettere la mano nella tasca del soprabito; già mi pareva di trovarla vuota. Invece non avevano preso le foto. Le portai in cucina e gettai l'immagine in costume da Pierrot di fronte a Randall. Randall la guardò attentamente. «Mai vista», disse. «E l'altra?». «È una foto della signora Grayle. L'ha avuta Anne Riordan da un giornale». Randall la guardò e fece un cenno di approvazione col capo. «Per venti milioni la sposerei», disse. «C'è qualcos'altro che dovrei dirvi», affermai. «Stanotte ero ammattito al
punto che mi ero fatto l'idea di tornar laggiù a cavarmela da solo. Quell'ospedale è all'angolo di Descanso con la Ventitreesima. È diretto da un tale che si chiama Sonderborg e dice di essere un dottore. Ho visto lì Moose Malloy stanotte. In una stanza». Randall rimase immobile, fissandomi. «Ne sei sicuro?». «Non lo si può confondere con un altro. È un colosso, enorme. Non ho mai visto nessuno che gli assomigli». Randall, sempre seduto, mi fissava immobile. Poi, molto lentamente, si alzò. «Andiamo a far visita a questa Florian». «E per Malloy?». Randall tornò a sedersi. «Raccontami tutto, per filo e per segno». Io gli dissi tutto. Egli ascoltò senza mai togliermi gli occhi di dosso. Non sbatteva nemmeno le palpebre. Respirava con la bocca semiaperta. Il corpo era immobile. Le dita tamburellavano leggere sull'orlo del tavolo. Quando ebbi finito, domandò: «Questo dottor Sonderborg, che aria ha?». «L'aria di uno che commercia in stupefacenti e che ne prende anche lui, certamente». Lo descrissi a Randall meglio che potei. Randall con calma andò nell'altra stanza e si sedette al telefono. Compose il numero del suo ufficio e parlò a lungo, con calma. Poi tornò. Io avevo appena finito di preparare dell'altro caffè, un paio di uova sode e due fette di pane abbrustolito e imburrato. Mi sedetti a mangiare. Randall si sedette di fronte a me e posò il mento sulla mano. «Ho fatto andar là uno della sezione per la lotta contro gli stupefacenti. Andrà con una falsa denuncia e cercherà di vedere quanto potrà, tanto da farsi un'idea del posto. Malloy non lo troverà. Malloy è uscito di là dieci minuti dopo di te stanotte. È una delle poche cose su cui si può scommettere». «Perché non vi siete rivolto alla polizia di Bay City?» chiesi, divertito. Randall non rispose. Quando lo guardai era rosso in faccia e sembrava a disagio. «Per essere un poliziotto», dissi, «siete la persona più suscettibile che io abbia mai conosciuto». «Spicciati a mangiare. Dobbiamo andare». «Devo fare la doccia, radermi e vestirmi». «E non puoi venire in pigiama?» chiese Randall con tono acido. «Così quel paese è tutto venduto?».
«È il paese di Laird Brunette. Dicono che abbia speso trentamila dollari per far eleggere il sindaco». «È il proprietario del Belvedere Club?». «Sì, possiede anche due navi-bisca». «Ma è nella nostra contea», precisai. Egli si guardò le unghie pulite e lucide. «Ci fermeremo al tuo ufficio a prendere quelle due sigarette», disse. «Se ci sono ancora». Fece schioccare le dita. «Se mi dai le chiavi, posso andare io mentre tu ti vesti e ti fai la barba». «Meglio che andiamo insieme», risposi. «Può esserci posta». Egli fece cenno di sì e, poco dopo, si sedette accendendo un'altra sigaretta. Mi feci la barba, mi vestii, e partimmo con la macchina di Randall. C'era posta, ma niente che valesse la pena di leggere. Le due sigarette a pezzi nel cassetto non erano state toccate. L'ufficio non aveva l'aria di essere stato frugato. Randall prese le due sigarette, annusò il tabacco, se le mise in tasca. «Lui ha avuto da te uno dei cartoncini», disse. «Non poteva esserci niente scritto a tergo, così degli altri non s'è preoccupato. Credo che questo Amthor non abbia troppa paura. Pensava solo che tu volessi tentare un colpo. Andiamo». CAPITOLO XXX La Vecchia Nasona sporse un palmo di naso dalla porta, annusò come se sentisse odore di violette in fiore, gettò un'occhiata indagatrice da una parte e dall'altra della strada, infine fece segno di sì col capo. Randall e io ci togliemmo il cappello. In quel rione un gesto simile vi sollevava probabilmente all'altezza di Rodolfo Valentino. La donna parve ricordarsi di me. «Buongiorno, signora Morrison», feci io. «Possiamo entrare un momento? Vi presento il tenente Randall, del comando di polizia». «Santo cielo, sono tutta sottosopra. Ho tanta di quella roba da stirare», rispose lei. «Non vi facciamo perdere troppo tempo». Lei si fece da parte e noi entrammo nel vestibolo dov'era quel mobile di Mason City o qualcosa di simile, e passammo nella stanza da soggiorno con le tendine ricamate alle finestre. Lei chiuse con cautela la porta, come si fosse trattato di una fragile sfoglia di pastafrolla. Questa mattina aveva un grembiale bianco e blu. Gli occhi erano sempre
penetranti, il mento non era diventato più lungo. Si piazzò davanti a me, mi fissò e disse: «Mica l'ha avuta». Io assunsi un'aria d'intesa. Feci un cenno affermativo col capo a Randall, e Randall mi rispose con un cenno simile. Si accostò a una delle finestre e osservò il fianco della casa della signora Florian. Tornò da noi, col cappello sotto braccio, distinto come un visconte francese in una recita filodrammatica. «Mica l'ha avuta», ripetei. «Certo che no. Sabato era il primo d'aprile. Ah, ah!». Lei s'interruppe e stava già per asciugarsi gli occhi col grembiale quando si ricordò che era un grembiale di gomma. Questo la infastidì un po'. «Quando il postino è passato e non è andato da lei, lei gli è corsa dietro e l'ha chiamato. Lui ha fatto segno di no con la testa ed è andato via. Lei è tornata dentro. Ha sbattuto la porta tanto da farmi pensare che si sarebbe rotta qualche finestra. Come una matta». «Lo credo», ammisi. La Vecchia Nasona disse bruscamente a Randall: «Fatemi vedere chi siete, giovanotto. Questo signore l'altro giorno puzzava di whisky. Non mi fido troppo di lui». Randall tirò fuori di tasca una piastra di metallo smaltato e gliela mostrò. «Sembrerebbe proprio della polizia», lei ammise. «Bene, domenica non è successo niente di speciale. Lei è uscita ed è tornata con due bottiglie quadrate». «Gin», dissi io. «Capito tutto. La gente per bene non beve gin». «La gente per bene non beve per niente», precisò la vecchia. «Già», replicai. «Viene il lunedì, che sarebbe oggi, e passa di nuovo il postino. E questa volta lei è più arrabbiata che mai». «Che immaginazione avete, giovanotto. Non siete nemmeno capace di aspettare che gli altri aprano bocca». «Chiedo scusa, signora Morrison. Siccome si tratta per noi di cosa molto importante...». «Questo giovanotto invece non fa nessuna fatica a tenere la bocca chiusa». «È sposato», interruppi. «C'è abituato». La faccia della vecchia assunse un colore violetto che mi ricordò in modo spiacevole la cianosi. «Uscite prima che chiami la polizia!» la vecchia gridò.
«Avete proprio davanti a voi un funzionario di polizia», disse seccamente Randall. «Non correte nessun pericolo». «Questo è giusto», ammise lei. Il colore violetto cominciò a svanire dal suo volto. «Ma costui non mi va per niente». «Non siete la sola, signora. La signora Florian non ha ricevuto la raccomandata neanche oggi. È così?». «Così», disse lei, con voce brusca e secca. Il suo sguardo si fece sfuggente. Cominciò a parlare in fretta, troppo in fretta. «C'è stata gente ieri sera in quella casa. Io ero andata al cinema. Ero appena rincasata quando una macchina è partita dalla porta vicina. Veloce e a lumi spenti. Non ho visto la targa». Mi dette un'occhiata obliqua, con quello sguardo sfuggente. Mi chiesi perché mai fosse sfuggente. Mi avvicinai alla finestra e sollevai la tendina ricamata. Un tale con una divisa azzurra veniva da quella parte. L'uomo portava una grossa borsa di cuoio a tracolla e un berretto con la visiera. Mi voltai verso la vecchia, facendo una smorfia. «Belle bugie dite». «Non sei gentile», disse Randall. «Guardate dalla finestra», risposi a Randall. Randall seguì il mio consiglio e il volto gli si irrigidì. Continuò a guardare la signora Morrison, aspettando un rumore caratteristico, che venne un attimo dopo. Era il rumore di qualche cosa gettata nella cassetta della posta. Dei passi si allontanarono e attraversarono la strada. Randall tornò alla finestra. Il postino non si fermò alla casa della signora Florian. Continuò tranquillamente il suo cammino. Randall voltò il capo e chiese con perfetta cortesia: «Quante volte al giorno arriva la posta, in questo rione, signora Morrison?». La vecchia tentò di affrontare la situazione. «Una volta la mattina», disse, «e una volta il pomeriggio». I suoi occhi vagarono di qua e di là. Il muso da coniglio le tremò. Le mani stringevano l'orlo di gomma del grembiale bianco e blu. «Quella della mattina è arrivata adesso», disse Randall come assorto. «Le raccomandate le porta il postino con l'altra posta?». «Gliele ha sempre portate un postino venuto apposta», la voce della vecchia esitò. «Ah. Ma sabato lei è uscita e ha parlato al postino quando lui non si è fermato a casa sua. E non ci avevate mai detto che venisse un postino ap-
posta». Era bello vedere Randall al lavoro... su qualcun altro. La bocca della vecchia si spalancò e i suoi denti avevano quel simpatico luccichio che deriva loro dall'essere tenuti tutta la notte in un bicchiere d'acqua. All'improvviso essa gettò uno strillo, si coprì la faccia col grembiale e uscì di corsa dalla stanza. Randall guardò la porta da cui era uscita la vecchia. Sorrise. Era un sorriso un po' stanco. «Benissimo», dissi. «La prossima volta però la parte del cattivo la fate voi. Non mi piace fare il cattivo con le signore. Neanche quando dicono le bugie». Randall continuò a sorridere. «Sempre la stessa storia», alzò le spalle. «Questo è il mestiere del poliziotto. Lei aveva iniziato con dei fatti, perché li aveva. Ma poi non c'erano più fatti, o non sembravano abbastanza interessanti. Così lei ha cominciato a fare un piccolo sforzo di fantasia». Si voltò e uscimmo nel vestibolo. Un debole rumore di singhiozzi ci giunse dall'altra stanza. Per un uomo paziente e buono, da lungo tempo sepolto, quei singhiozzi erano stati sempre, probabilmente, l'arma della sconfitta finale. Per me erano solo i singhiozzi di una vecchia, ma non c'era niente di che sentirsi soddisfatti, ad ogni modo. Uscimmo tranquillamente da quella casa, chiudemmo piano la porta. Randall si mise il cappello e trasse un sospiro. Poi alzò le spalle allargando le braccia. Dalla casa giungeva ancora un debole rumore di singhiozzi. Il postino era due case più in giù. «È il mestiere del poliziotto», disse Randall a mezza voce, e storse la bocca. Ci dirigemmo alla casa vicina. La Florian non aveva nemmeno ritirato il bucato. Era ancora appeso, asciutto e giallastro, sul fil di ferro nel cortiletto. Salimmo gli scalini e suonammo il campanello. Nessuna risposta. Bussammo con le nocche sulla porta. Nessuno apri. «Non era chiuso a chiave l'altra volta», dissi. Randall provò a spingere la porta. Questa volta era chiusa a chiave. Percorremmo il portico e girammo dietro la casa, dalla parte opposta di quella della Vecchia Nasona. La porta di dietro era chiusa con un catenaccio. Randall bussò. Non accadde nulla. Egli ridiscese gli scalini di legno quasi completamente stinto e per un sentiero coperto d'erbacce si accostò a una rimessa di legno. La porta cigolò. La rimessa era praticamente vuota. Qualche vecchio mobile buono forse nemmeno per la stufa, arnesi da giar-
diniere, vecchi barattoli in quantità, scatole di cartone. Ai due lati della porta, in ciascuno degli angoli del muro, un bel ragno nero se ne stava appiattato in mezzo alla sua ragnatela. Randall raccolse un pezzo di legno e ammazzò con aria distratta i due ragni. Chiuse di nuovo la rimessa, tornò alla porta d'ingresso sul davanti dalla casa. Nessuno rispose alle sue scampanellate. Randall tornò lentamente dov'ero io. «L'uscio di dietro cederà più facilmente», disse. «La vecchia vicina non può darci fastidio. Ormai ha già detto troppe bugie». Risalì gli scalini stinti, con una lama di temperino staccò il catenaccio. Entrammo così in una specie di vestibolo. Il posto era pieno di barattoli e molti dei barattoli erano pieni di mosche. «Gesù, che modo di vivere», disse Randall. La porta che dal vestibolo conduceva nella casa era chiusa con un altro catenaccio. «Questo mi dà da pensare», dissi. «Forse se l'è svignata. Non avrebbe mai chiuso in questo modo, è troppo pigra». «Il tuo cappello è più vecchio del mio», disse Randall. Guardava il riquadro di vetro della porta. «Dammelo per rompere il vetro. O dobbiamo agire più radicalmente?». «Si può dargli un calcio. Chi ci bada da queste parti?». «Bene, allora». Fece un passo indietro e dette un calcio alla serratura con la gamba parallela al suolo. Si sentì uno schianto metallico e la porta si spostò di pochi centimetri. L'aprimmo, sollevammo da terra un pezzo di ferro che aveva fatto parte del catenaccio e lo disponemmo su una mensola accanto a nove bottiglie vuote di gin. Ronzavano mosche contro le finestre chiuse della cucina. Il luogo aveva un cattivo odore. Randall si fermò in mezzo alla stanza, osservando attentamente tutto. Poi attraversò una porta senza toccarla che con la punta del piede, tenendola scostata in modo da non sfiorarla nemmeno passando. Il salotto era come lo ricordavo. La radio era spenta. «Bella radio», disse Randall. «Deve esser costata parecchio. Se è stata pagata. Ecco qualcosa». Si chinò piegando un ginocchio e guardò sul tappeto. Poi si portò di fianco alla radio e spostò col piede un filo staccato. Comparve la spina all'estremità del filo. Randall si chinò a osservare le manopole sul quadrante.
«Sicuro», disse. «Bella radio. Non restano le impronte digitali sopra un filo, vero?». «Provate ad attaccare la spina, vediamo se è accesa». Randall si chinò e infilò la spina nella presa di corrente. La luce si accese subito. Restammo in attesa. Ci fu un ronzio, poi all'improvviso un volume molto forte di suono cominciò a riversarsi dall'altoparlante. Randall staccò di nuovo la spina. Il suono s'interruppe di scatto. Il poliziotto sollevò gli occhi, che apparivano pieni di luce. Passammo in fretta nella stanza da letto. La signora Jessie Pierce Florian era distesa diagonalmente, con un abito di cotone gualcito indosso, la testa vicina ai piedi del letto. Lo spigolo della spalliera era sporco di una materia scura che pareva rispondere ai gusti delle mosche. Era morta già da parecchio tempo. Randall non la toccò. La guardò a lungo, poi fissò me scoprendo i denti con un ghigno da lupo. «Cervello schizzato fuori», precisò. «Sembra il tema dominante di quest'affare. Stavolta però è stato fatto solo con le mani. Ma che paio di mani, Gesù. Guarda i segni delle dita sul collo». «Guardateli voi», dissi. Mi voltai dall'altra parte. «Povero vecchio Nulty», dissi. «Ormai non si tratta più soltanto di una strage di scarafaggi». CAPITOLO XXXI Un insetto nero, lucido, con la testa rosa e macchie anche rosa sul dorso, strisciava lentamente sulla superficie lustra della scrivania di Randall e agitava le antenne, come per saggiare l'aria prima di spiccare il salto. Strisciava barcollando un po', come una donna troppo carica di fagotti. Un poliziotto sconosciuto era seduto ad un'altra scrivania e parlava nel microfono a tromba di un apparecchio telefonico molto antiquato, la sua voce sembrava un mormorio sotto un tunnel. Parlava con gli occhi quasi chiusi, teneva sul tavolo di fronte a sé una mano grande e scarna, con una sigaretta fra l'indice e il medio. L'insetto raggiunse l'estremità della scrivania di Randall e proseguì decisamente nel vuoto. Cadde a terra sul dorso, agitò per un po' in aria le zampette sottili, poi si finse morto. Nessuno si occupò di lui, perciò l'insetto poté agitare di nuovo le zampette e rimettersi dritto. Si diresse lentamente verso un angolo, senza una direzione precisa. La radio della polizia stava trasmettendo un comunicato su una rapina
compiuta a San Pedro. Il rapinatore era un uomo di mezza età, con un abito grigio scuro e un cappello grigio. Era stato visto correre verso la 44a Strada e infilarsi fra due case. «Accostarlo con cautela», diceva la voce. «L'individuo è armato di rivoltella calibro 32 e ha rapinato poco fa il proprietario di un ristorante greco al numero 3966 di South San Pedro». Un piccolo scatto, la voce dell'annunciatore scomparve e ne subentrò un altro che cominciò a leggere un elenco di auto rubate, con voce monotona e ripetendo ogni cosa due volte. La porta si aprì ed entrò Randall con alcuni fogli di carta tipo protocollo in mano. Attraversò deciso la stanza, si sedette alla scrivania di fronte e spinse verso di me alcuni fogli. «Firma quattro copie», chiese. Io firmai. L'insetto rosa raggiunse un angolo della stanza e mise fuori le antenne come se progettasse un salto. Pareva un po' avvilito. Si spostò lungo lo zoccolo della parete verso un altro angolo della stanza. Io accesi una sigaretta e il poliziotto che stava parlando al telefono a un tratto interruppe la comunicazione e uscì dalla stanza. Randall si appoggiò indietro, con la stessa espressione di sempre, fredda, pacata, pronta a divenire gentile o insolente a seconda che le circostanze lo richiedessero. «Ora ti dirò alcune cose», disse, «al solo scopo di non far scoppiare altri temporali dentro la tua testa. Così non avrai più bisogno di girare in lungo e in largo tutta la zona. E speriamo che ti decida a lasciar perdere questa faccenda». Aspettai che parlasse. «Non ci sono impronte sulla radio. Per spegnerla è stata staccata la spina, ma probabilmente il volume di voce l'aveva alzato lei. Agli ubriachi piace la radio forte. D'altra parte se uno va coi guanti a commettere un omicidio e alza la radio per coprire gli spari o qualcosa di simile, può anche abbassarla nella stessa maniera. Ma in questo caso non è andata così. Il collo di quella donna è spezzato. Era morta prima che il tizio si mettesse a massacrarla. Ora, perché le avrà massacrato la testa in quel modo?». «Ascolto voi». Randall corrugò la fronte. «Probabilmente non sapeva di averle spezzato il collo. Ce l'aveva con lei», disse. «È una deduzione». Sorrise lievemente. Io soffiai un po' di fumo e lo spazzai via con la mano. «Ora, perché ce l'aveva con lei? C'era una grossa taglia quando lui fu
preso al Florian dopo il colpo alla banca dell'Oregon. Fu incassata da una canzonettista che ora è morta, ma i Florian dovettero avere una parte di quei soldi. Malloy aveva forse qualche sospetto o ne era addirittura sicuro. In ogni modo, avrà cercato di farselo dire da lei». Assentii. Era il minimo che potessi fare. Randall continuò. «L'afferrò per il collo e le dita non lo tradirono. Se lo prendiamo, potremo provare che è stato lui grazie all'impronta che hanno lasciato le dita. Il dottore dice che dev'essere avvenuto ieri sera presto. Non sappiamo finora che Malloy sia stato visto nei pressi di quella casa, ieri sera. Ma pare proprio che si debba trattare di lui». «Sì», dissi. «Malloy senza dubbio. Probabilmente però non l'ha fatto apposta a ucciderla. È soltanto troppo forte». «Non gli servirà molto, questo», disse cupo Randall. «Certo no. Dico solo che Malloy non mi è sembrato il tipo dell'assassino. Uccide se non ha scampo, ma non per piacere o per guadagno. E soprattutto non uccide donne». «È importante questo?» Randall chiese. «Lo saprete voi quello che è importante e quello che non lo è. Mica lo so io». Randall mi fissò durante il tempo in cui la radio trasmise un altro comunicato sulla rapina di San Pedro. Il rapinatore era stato arrestato. Si seppe in seguito che era un ragazzo messicano di quattordici anni armato di rivoltella a acqua. A tutta gloria dei testimoni oculari. Randall aspettò che la trasmissione terminasse, poi riprese: «Stamattina ci siamo comportati da buoni amici. Cerchiamo di continuare. Tu va' a casa e prenditi un bel riposo. Sembri piuttosto esaurito. Lascia a me e alla polizia il compito di cavarcela in quest'affare Marriott, scovare questo Moose Malloy, eccetera». «Ho avuto dei soldi per l'affare Marriott», dissi. «È un incarico che mi è capitato, senza che lo cercassi io. La signora Grayle è mia cliente. Che cosa vorreste che facessi? Che smettessi di lavorare e mi ritirassi in pensione a viver di grasso?». Randall mi fissò di nuovo. «Ti capisco. Sono un uomo anch'io. Vi danno queste licenze, e non si può pensare che ve le diano soltanto per farvele mettere in cornice sulla parete dell'ufficio. D'altra parte, qualunque capitano in servizio può fregarvi». «Non con i Grayle dietro». Egli ci pensò. Gli dispiaceva ammettere che potessi avere anche solo un
cinquanta per cento di ragione. Corrugò la fronte e tamburellò con le dita sul tavolo. «Così ci siamo capiti», disse dopo un certo silenzio. «Se ti metti in quest'affare, avrai delle grane. Possono essere grane da cui per questa volta riesci a cavartela. Non so. Ma a poco a poco ti farai tali inimicizie nella zona da non poter quasi lavorare più». «Ogni investigatore privato si trova di fronte a questa situazione, ogni giorno», risposi. «A meno che si occupi solo di divorzi». «Non puoi fare gli omicidi». «L'avete detto, finalmente. Mi aspettavo che lo diceste. Si capisce, io non penso di poter fare quello che una importante polizia non riesce a fare. Se ho qualche piccola idea per conto mio, bene, resta quella che è: cioè piccola e per conto mio». Egli si chinò lentamente sulla scrivania. Le sue dita sottili tamburellarono, come le rampicanti secche sul muro di casa della signora Florian. I suoi capelli grigi erano lisci e lucidi. Gli occhi impassibili erano fissi nei miei. «Andiamo avanti», disse, «con quel che stavamo dicendo. Amthor è partito per un viaggio. La moglie, nonché segretaria, non sa o non vuol dire per dove. Anche l'indiano è scomparso. Vuoi firmare una denuncia contro quella gente?». «No. Non riuscirei a sostenerla». Egli sembrò sollevato. «La moglie dice di non averti mai sentito nominare. E quanto a quei due poliziotti di Bay City, se sono effettivamente tali, sono fuori del mio campo d'azione. Io preferirei non complicare le cose più di quanto lo sono già. Di una cosa sola mi sento sicuro: Amthor non ha avuto niente a che fare con la morte di Marriott. Quelle sigarette col suo biglietto da visita sono state soltanto una coincidenza». «E il dottor Sonderborg?». Randall allargò le braccia. «Tutti scomparsi. Agenti specializzati nella caccia agli stupefacenti sono stati sul posto, senza prender nessun contatto con Bay City. La casa è chiusa e vuota. Naturalmente sono entrati. Avevano tentato di fare scomparire ogni traccia, ma ne sono rimaste ugualmente molte. Ci vorrà almeno una settimana di lavoro. Attualmente si stanno occupando di una cassaforte a muro, che può contenere droghe o altro. La mia idea è che Sonderborg deve avere qualche mandato di cattura a suo carico, per aborto, medicazione di ferite d'arma da fuoco, somministrazione illecita di stupefacenti, o qualcosa di simile. Se riusciamo a procedere at-
traverso il tribunale federale, saremo molto facilitati». «Disse di essere medico», precisai. Randall scosse le spalle. «Può essere nell'albo perché non sono mai riusciti a metterlo in galera. C'è un tale a Palm Spring, che esercita la professione di medico pur essendo stato denunziato come contrabbandiere di stupefacenti cinque anni fa a Hollywood. Era colpevole come il diavolo. Ma ha avuto delle buone protezioni e se l'è cavata. Altro che ti preoccupa?». «Che sapete di Brunette?». «È un biscazziere. Fa un sacco di soldi. Come niente fosse». «Bene», dissi, e feci per alzarmi. «Vi ringrazio. Ma tutto questo non ci avvicina di un passo alla banda di rapinatori che ha ucciso Marriott». «Non posso dirti tutto, Marlowe». «Non lo pretendo. Ad ogni modo, Jessie Florian mi aveva detto, la seconda volta che andai a farle visita, d'essere stata, tempo fa, a servizio come cameriera in casa della famiglia Marriott. Per questo lui le mandava del denaro. Risulta questo?». «Sì. Ci sono delle lettere nella sua cassetta di sicurezza in banca. Lettere in cui lei lo ringrazia dicendo la stessa cosa». Sembrò sul punto di perdere la calma. «E adesso», disse, «vuoi per amor di Dio andartene a casa e pensare agli affari tuoi?». «Che pensiero gentile tener così da conto quelle lettere. No?». Egli alzò gli occhi sfiorandomi con un'occhiata la sommità della testa. Poi abbassò le palpebre in modo da coprire l'iride. Mi guardò così per dieci secondi. Poi sorrise. Ricorreva spesso ai sorrisi, quel giorno. Dava fondo alla provvista di tutta la settimana. «Ho una mezza idea in proposito», disse. «È bizzarra, ma è così bizzarra la natura umana. Marriott, a causa del suo modo di vivere, conduceva una esistenza pericolosa. Era minacciato. Tutti gli imbroglioni sono giocatori d'azzardo, e tutti i giocatori d'azzardo sono superstiziosi. Secondo me questa Jessie Florian doveva essere il portafortuna di Marriott. Finché si sarebbe preso cura di lei, niente di male gli sarebbe accaduto». Io mi voltai a guardare l'insetto rosa. Aveva esaminato due angoli della stanza e ora sconsolato si dirigeva verso un terzo. Io mi avvicinai, lo raccolsi col fazzoletto e lo portai sulla scrivania. «Guardate», dissi. «Questa stanza è al diciottesimo piano. Questo piccolo insetto fa tutta la strada da terra fin quassù per trovare un amico. Me. Dunque è il mio portafortuna». Rinchiusi attentamente l'insetto fra le pie-
ghe del fazzoletto e misi il fazzoletto in tasca. Randall teneva gli occhi quasi chiusi. Mosse le labbra, ma non disse nulla. «Chissà per chi funzionava da portafortuna Marriott», insinuai io. «Non per te, ragazzo», disse. Non era una voce, quella. Era veleno. «Forse nemmeno per voi», risposi io. La mia voce era soltanto una voce. Uscii dalla stanza e chiusi la porta. Scesi in ascensore, uscii dal portone di Spring Street, passeggiai davanti al portico del Municipio e sceso qualche scalino mi accostai alle aiuole fiorite. Deposi gentilmente l'insetto dietro un cespuglio. Mi chiesi, tornando a casa in taxi, quanto tempo avrebbe impiegato quell'insetto a ritornare all'Ufficio Omicidi. Lasciai la macchina davanti al garage dietro casa mia, feci colazione a Hollywood prima di ripartire alla volta di Bay City. Era un bel pomeriggio fresco, la spiaggia era piena di sole. Lasciai il Boulevard Arguello e mi diressi per la Ventitreesima verso il Municipio. CAPITOLO XXXII Il palazzo del Municipio aveva un aspetto modesto per un paese ricco come quello. Alcuni vagabondi se ne stavano seduti indisturbati in fila sul parapetto che impediva all'aiuola, occupata principalmente da erbe selvatiche, di straripare nella strada. Era un palazzetto di tre piani con una torretta sul tetto. Nella torretta c'era ancora la campana, ricordo probabilmente del buon tempo antico, quando esisteva la brigata dei pompieri volontari, formata dai paesani. Sulla porta c'era un assembramento di frequentatori abituali di uffici pubblici, di quelli che aspettano sempre che qualcosa succeda per poter intervenire. Avevano tutti la pancetta, lo sguardo attento, i vestiti in ordine. Mi concessero alcuni centimetri di spazio per passare. Dentro c'era un lungo atrio il cui pavimento era stato lucidato parecchi anni prima. Una targa di legno indicava l'Ufficio Informazioni della polizia. Un tale in divisa sonnecchiava sopra una poltroncina, davanti a un banco di legno grezzo. Un altro in borghese senza giacca sollevò gli occhi dal giornale, lanciò uno sputo a tre metri di distanza e disse che l'ufficio del capo era al piano di sopra in fondo. Il piano superiore era un po' più pulito e un po' meglio illuminato, ma questo non significa che fosse né pulito né luminoso. Su una porta dalla parte dell'oceano, quasi in fondo al corridoio, si leggeva «John Wax, Capo
della Polizia, Avanti». Dentro c'erano una balaustra di legno e un tale in divisa che stava scrivendo a macchina con tre dita. Costui prese il mio biglietto da visita, sbadigliò, disse che sarebbe andato a vedere, infine si trascinò con sforzo oltre una porta di mogano sulla quale stava scritto «John Wax, Capo della Polizia. Farsi annunziare». Tornò e aprì il cancelletto nella balaustra per farmi passare. Entrai e richiusi alle mie spalle la porta dell'ufficio del Capo. Era una stanza ampia, fresca, con finestre su tre pareti. Una scrivania di legno scuro era piazzata in fondo alla stanza come quella di Mussolini, in modo che si dovesse attraversare per raggiungerla una distesa di tappeto azzurro, ed essere allo stesso tempo bene osservati. M'incamminai verso la scrivania. Su di essa una targa nichelata recava «John Wax, Capo della Polizia». Giudicai che mi sarei ricordato quel nome. Guardai l'uomo dietro lo scrittoio. Era un peso massimo, tarchiato, con capelli cortissimi e un cranio rosato che si scorgeva attraverso i capelli. Occhi piccoli, avidi, dalle grosse palpebre, irrequieti come mosche. Portava un vestito di flanella nocciola, camicia e cravatta color caffè, anello di diamanti, spilla con diamanti alla cravatta e il fazzoletto che gli usciva un po' più dei tre centimetri prescritti dal taschino. Una delle sue grosse mani reggeva il mio biglietto da visita. Lo lesse, lo girò e guardò il retro, che era bianco, poi rilesse la parte davanti, posò il biglietto sul tavolo e vi mise sopra un fermacarte che raffigurava una scimmia di bronzo, come per esser sicuro di non perderlo. Mi tese una palma rosea. Quando gliela restituii, mi indicò una sedia. «Sedetevi, prego, signor Marlowe. Vedo che in fondo siete quasi un collega. Che cosa posso fare per voi?». «Una grana, Capo. Voi potete sistemare tutto in un momento, se volete». «Una grana?», chiese lui con calma. Si girò sulla sedia, accavallò le grosse gambe e fissò pensieroso una delle finestre. Vidi così calze di seta ricamate a mano e stivaletti di pelle rossiccia molto fine. Calcolando quel che vedevo, e senza contare il portafoglio, doveva avere addosso cinquecento dollari. Pensai che doveva aver sposato una donna ricca. «Di grane», disse con tono pacato, «in questo piccolo paese ne ignoriamo quasi l'esistenza, signor Marlowe. Il nostro paese è piccolo, ma molto pulito. Io guardo dalla mia finestra a ovest e vedo l'Oceano Pacifico. Che
cosa c'è di più pulito, non vi pare?». Non menzionò le due navi-bisca ancorate sui banchi di sabbia appena fuori del limite di tre miglia. E non lo feci neanch'io. «Giusto, Capo», dissi. Egli portò un po' avanti il torace. «Guardo dalla finestra a nord, e vedo il traffico del Boulevard Arguello e le incantevoli colline della California. Guardo dalla finestra a sud, e vedo il più bell'approdo di panfili del mondo. Non ho finestre a est, ma se le avessi vedrei delle casette meravigliose, da far venire l'acquolina in bocca. No, signore, le grane sono una cosa con la quale abbiamo assai poco da fare, in questo paese». «Bene, adesso ve ne porto una io. Almeno una parte. Avete alle vostre dipendenze un certo Galbraith, un sergente in borghese?». «Credo di sì», egli disse distogliendo lo sguardo dal mio. «Perché vi interessa?». «Avete alle vostre dipendenze un uomo così e così?». Gli descrissi l'altro, quello piccolo, basso, coi baffi, che mi aveva colpito col manganello. «Va in giro con il Galbraith. Lo chiamavano signor Blane, ma aveva l'aria di portare un nome falso». «Al contrario», disse il Capo con tutta la rigidità di cui può esser capace un uomo grasso. «È il capo dei miei ispettori. È il capitano Blane». «Potrei vedere queste due persone nel vostro ufficio?». Egli prese il mio biglietto da visita e lo lesse di nuovo. Lo posò. Fece un cenno con la mano scintillante. «Non senza un motivo migliore di quelli che mi avete fornito finora», disse cortesemente. «Mi ci proverò, Capo. Conoscete per caso un certo Jules Amthor? Si fa passare per medico della psiche. Abita in cima a una collina a Stillwood Heights». «No. E Stillwood Heights non è nel mio territorio», disse il Capo. Ora il suo sguardo era quello di uno che sta pensando ad altro. «È appunto questa la cosa più strana», replicai. «Vedete, io sono andato a far visita a questo Amthor per una faccenda che riguarda un mio cliente. Il signor Amthor si è fatto l'idea che io volessi ricattarlo. Probabilmente la gente che è nel suo giro d'affari deve farsi spesso idee del genere. Aveva un indiano come guardia del corpo. Io non sono riuscito a tenere a bada l'indiano, così lui ha tenuto fermo me, e Amthor mi ha picchiato con la mia rivoltella. Poi ha mandato a chiamare un paio di poliziotti. Combinazione, erano Galbraith e il signor Blane. La cosa vi interessa?». Wax picchiò lievemente le palme delle mani sul tavolo. Chiuse quasi del
tutto gli occhi. Una luce fredda gli lampeggiava fra le palpebre, si proiettava su di me. Sedeva immobile, come in ascolto. Poi riaprì gli occhi e sorrise. «E che cosa è avvenuto in seguito?» chiese, compito come un cameriere dello Stork Club. «Mi hanno preso e portato via in macchina, buttato fuori sul fianco di una collina e picchiato in testa con un manganello». Egli assentì, come se quanto io avevo detto fosse la cosa più naturale del mondo. «Tutto questo è accaduto a Stillwood Heights», disse con voce pacata. «Sì». «Sapete che cosa siete voi secondo me?». Si chinò un po' avanti, quanto la pancia glielo permetteva. «Un bugiardo», dissi io. «Quella è la porta», egli disse, indicandola col mignolo. Io non mi mossi. Continuai a guardarlo. Quando lui cominciava a seccarsi e stava già per suonare il campanello, dissi: «Cerchiamo di non commettere insieme lo stesso errore. Voi credete che io sia un piccolo investigatore privato che vorrebbe farsi valere dieci volte più di quel che vale e tenterebbe di fare una denuncia a carico di un funzionario di polizia, denuncia che, se anche rispondesse a verità, il funzionario in questione riuscirebbe tranquillamente a dimostrare infondata. Niente affatto. Io non sporgo nessuna lagnanza. Desidero soltanto vedermela io con Amthor e desidero avere l'aiuto del vostro Galbraith. Non occorrerà disturbare il signor Blane, basterà Galbraith. E non sono venuto qui senza appoggi. Dietro di me ci sono persone molto importanti». «Dietro a che distanza?» chiese il Capo ridacchiando. «A che distanza è 962 Aster Drive, dove abita il signor Merwin Lockridge Grayle?». La sua faccia cambiò talmente espressione che sembrava ci fosse ora un'altra persona seduta in quella poltrona. «Combinazione, la signora Grayle è mia cliente», dissi io. «Chiudete la porta a chiave», disse il Capo. «Voi siete molto più giovane di me. Chiudete la porta. Potremo accordarci da buoni amici. Sembrate un ragazzo per bene, Marlowe». Io mi alzai e chiusi la porta. Quando fui tornato alla scrivania, percorrendo il tappeto azzurro, trovai che il Capo aveva tirato fuori una bella bottiglia con due bicchieri. Gettò sulla scrivania dei semi di cardamomo, e
riempì i bicchieri. Bevemmo. Egli aprì alcuni semi di cardamomo e li masticammo in silenzio, fissandoci negli occhi. «Buono», disse lui. Riempì di nuovo i bicchieri. Ora toccò a me aprire i semi di cardamomo. Egli spazzò con la mano dalla scrivania i loro gusci, gettandoli sul pavimento. Sorrise e si appoggiò indietro. «Dunque, vediamo», disse. «L'incarico che svolgete per conto della signora Grayle ha a che fare con Amthor?». «C'è una relazione. Sarà meglio però che vi accertiate che non dico bugie». «Subito», disse lui, e prese il telefono. Estrasse un taccuino dal panciotto e cercò un numero. «Finanziatori elettorali», disse, strizzando l'occhio. «Il Sindaco ci tiene sempre a usare delle gentilezze in questi casi. Eccolo». Ripose il taccuino e compose il numero. Incontrò col maggiordomo le stesse difficoltà che avevo incontrato io. Finalmente riuscì a parlare con lei. Gli vennero le orecchie rosse. Lei dovette trattarlo in modo piuttosto brusco. «Vuole parlare con voi», disse lui, passandomi il ricevitore attraverso l'ampia scrivania. «Parla Phil», dissi io, strizzando l'occhio con intenzione al Capo. Ci fu una risata provocante. «Che fai con quel vecchio ciccione?». «C'è da bere». «E con lui devi bere?». «Per il momento sì. Affari. Dicevo, ci sono novità? Sai che voglio dire?». «No. Ti rendi conto, amico, che mi hai fatto aspettare un'ora l'altra sera? Mica ti avrò fatto l'impressione di una ragazza che sopporta di queste cose, spero». «Ho avuto delle grane. Che ne diresti di stasera?». «Vediamo. Stasera è... Che giorno è della settimana?». «Sarà meglio che ti telefoni prima», dissi. «Potrei non potere. Oggi è venerdì». «Bugiardo». Di nuovo quella risata. «È lunedì. Stesso posto, stessa ora. E niente scherzi, stavolta». «Sarà meglio che ti telefoni prima». «Sarà meglio che tu venga». «Non posso esserne sicuro. Lasciami telefonare prima». «Fai il difficile, eh? Capisco. Forse sono una stupida a occuparmi di te». «Direi anch'io».
«Come?». «Io non sono ricco, ma pago alla mia maniera. E si tratta di una maniera più faticosa di quel che puoi pensare». «Accidenti a te. Se non vieni...». «Ti ho detto che ti telefono». Lei sospirò. «Voi uomini siete tutti uguali». «E anche voi donne... dalla decima in poi». Lei mi mandò un accidente e agganciò. Al Capo gli occhi sporgevano dalla testa tanto che sembravano uscirgli dalle orbite. Riempì i bicchieri con mano tremante e mi porse il mio. «Allora è così», ammise pensieroso. «Il marito non ci fa caso», dissi io. «Perciò non fateci caso neanche voi». Sembrava a disagio, mentre beveva. Aprì i semi di cardamomo molto lentamente, con aria pensierosa. Bevemmo guardandoci negli occhi. Di malavoglia il Capo ripose fuori di vista bottiglia e bicchieri, e parlò nel microfono che aveva sulla scrivania. «Fate venire Galbraith da me, se è in ufficio. Se non c'è, cercatemelo». Io mi alzai, aprii la serratura della porta, tornai a sedermi. Non attendemmo molto. Bussarono, il Capo disse di entrare, ed entrò Hemingway. Si avanzò fino alla scrivania e si fermò davanti a noi, guardando il Capo con un'espressione umile. «Vi presento il signor Philip Marlowe»,. disse intelligentemente il Capo. «Poliziotto privato di Los Angeles». Hemingway si volse a guardarmi. Se mi aveva già visto prima, nulla sulla sua faccia lo dimostrò. Mi tese la mano e io gli tesi la mia. Poi egli guardò di nuovo il Capo. «Il signor Marlowe mi ha fatto uno strano racconto», disse il Capo, con un'aria sorniona da Cardinale Richelieu. «Su un certo Amthor che possiede una casa a Stillwood Heights. È uno che legge nel cristallo, o qualcosa di simile. Pare che il signor Marlowe sia andato a fargli visita e che voi e Blane vi trovaste lì per caso. Sembra che ci sia stata una discussione. Ho dimenticato i particolari». Guardò fuori della finestra con l'aria di uno che dimentica i particolari. «Dev'esserci un errore», disse Hemingway. «Non ho mai visto quest'uomo». «Un errore c'è stato, certamente», disse il Capo con un'aria distratta. «Poco importante, ma pur sempre un errore. Il signor Marlowe ritiene che si tratti di una cosa da nulla».
Hemingway mi guardò di nuovo. La sua faccia pareva sempre di pietra. «In realtà non è nemmeno l'errore che gli interessa», continuò il Capo, sempre come in sogno. «Gli interessa andare a far visita a questo Amthor che abita a Stillwood Heights. Vorrebbe essere accompagnato da qualcuno. Io ho pensato a voi. Pare che il signor Amthor tenga un indiano a fargli da guardia del corpo e il signor Marlowe è incline a dubitare delle proprie capacità di cavarsela da solo. Credete di poter scovare dove abita questo Amthor?». «Sì», disse Hemingway. «Ma Stillwood Heights è al di là del confine. Si tratta di fare un favore personale a un vostro amico?». «Mettetela così», disse il Capo, osservandosi il pollice della mano sinistra. «Naturalmente non intendiamo far nulla che non sia pienamente legale». «Sì», Hemingway disse. «Cioè, no», tossì. «Quando andiamo?». Il Capo mi guardò con benevolenza. «Per me subito», dissi io. «Se va bene al signor Galbraith». «Io faccio quello che mi si dice di fare», disse Hemingway. Il Capo lo guardò, scrutandolo dalla testa ai piedi. Lo pettinò, lo spazzolò con gli occhi. «Come sta il capitano Blane?» chiese. «Male. Appendicite», disse Hemingway. «Acuta». Il Capo scosse la testa con tristezza. Poi si afferrò ai braccioli della poltrona e riuscì a mettersi in piedi. Tese attraverso la scrivania la mano rosea. «Galbraith si occuperà di voi, Marlowe. Potete essere tranquillo». «Siete stato veramente molto gentile, Capo», dissi. «Non so davvero come potrò ringraziarvi». «Per carità, niente ringraziamenti. Sono sempre lieto di far cosa gentile all'amico di un amico, ci intendiamo». Mi strizzò l'occhio. Hemingway considerò attentamente quella strizzata d'occhio ma non espresse la propria opinione in merito. Uscimmo, le frasi cortesi del Capo mi accompagnarono quasi fuori dell'ufficio. La porta si chiuse alle nostre spalle. Hemingway dette prima un'occhiata al corridoio, poi un'altra a me. «Te lo sei cucinato bene quello lì, bimbo», disse. «Devi aver avuto qualcosa in mano, ma a noi non ne parlasti». CAPITOLO XXXIII L'auto scivolò lentamente fra le case per una strada tranquilla. Alberi di
pepe s'incontravano ai margini formando una specie di galleria verde. Il sole occhieggiava fra i rami e le foglie sottili. Una targa alla cantonata indicava che quella era la 18a Strada. Hemingway guidava e io sedevo accanto a lui. Guidava lentamente, con un'aria pensosa sul volto. «Che gli hai detto?» chiese, decidendosi finalmente. «Gli ho detto che tu e Blane veniste là, mi portaste via e mi gettaste fuori della macchina dopo avermi manganellato in testa. Non gli ho detto il resto». «Non gli hai detto di Descanso Street, eh?». «No». «Perché no?». «Ho pensato che avrei potuto contare di più sulla tua collaborazione, se non gliel'avessi detto». «È stata un'idea. Davvero vuoi andare a Stillwood Heights o era un pretesto soltanto?». «Pretesto. Quello che voglio veramente è che tu mi dica perché sono stato portato in quella strana casa e perché non volevano lasciarmi andar via». Hemingway ci pensò. Pensava tanto intensamente che i muscoli della faccia gli formavano piccoli nodi sotto la pelle grigia. «È stato quel Blane», disse. «Io non volevo mica che ti desse quel colpo in testa. Non volevo nemmeno farti tornare a casa a piedi. Era solo una gentilezza che dovevamo fare a quel tale, perché combinazione siamo in buoni rapporti con lui e cerchiamo di aiutarlo a liberarsi dai seccatori. È straordinario quanta gente va a seccarlo». «Sorprendente», aggiunsi io. Egli si voltò a guardarmi. I suoi occhi grigi erano pezzi di ghiaccio. Poi di nuovo fissò lo sguardo oltre il parabrezza polveroso e si rimise a pensare. «A quei vecchi poliziotti succede di farsi prendere dalla smania di usare il manganello», notò. «Sentono il bisogno, semplicemente, di dare una manganellata su qualche testa. Cristo, io mi spaventai forte. Tu crollasti come un sacco di cemento. Gliene dissi abbastanza a Blane. Poi ti abbiamo portato da Sonderborg perché era il posto più vicino e lui è una brava persona che poteva prendersi cura di te». «Amthor sa che mi avete portato lì?». «Ma no. Fu un'idea nostra». «Dato che Sonderborg è una brava persona e poteva prendersi cura di
me, e senza rischio, non v'era nessuna possibilità che quel tizio appoggiasse una denunzia mia, se io avessi voluto farla. Non dico che una denunzia possa servire gran che, in questo simpatico paesetto». «Diventi cattivo adesso?» Hemingway chiese pensieroso. «Ma no», risposi. «Io no, e, per una volta nella tua vita, neanche tu. Perché il tuo posto è appeso a un filo. Tu hai guardato negli occhi il Capo e te ne sei accorto. Non sono mica venuto senza credenziali». «Benissimo», ammise Hemingway, e sputò fuori del finestrino. «Io poi non ci tengo a fare il cattivo, tranne quando è proprio indispensabile. C'è altro?». «Blane sta davvero male?». Hemingway fece un cenno affermativo, ma non riuscì a mostrarsi addolorato. «Sicuro che sta male. Gli è venuto mal di pancia l'altro ieri e si è aggravato prima che potessero togliergli l'appendice. Ha delle probabilità di cavarsela, ma non troppe». «Certo sarebbe un peccato perderlo», commentai io. «Un tipo come lui è prezioso in qualsiasi organismo di polizia». Hemingway incassò, e sputò fuori del finestrino. «Benissimo, hai altre domande da fare?», chiese. «Mi hai detto perché mi avete portato da Sonderborg. Non mi hai detto perché lui mi ha tenuto quarantott'ore chiuso a chiave riempiendomi di droghe». Hemingway frenò delicatamente, accanto al marciapiede. Posò le grosse mani in basso sul volante, unendo i pollici. «Non saprei proprio», disse con voce lontana. «Io avevo addosso i documenti, la licenza di investigatore, chiavi, denaro, un paio di fotografie. Se lui non vi avesse conosciuto bene, poteva pensare che il colpo in testa fosse solo un trucco per entrare da lui a dare un'occhiata. Ma immagino che deve conoscervi molto bene. Perciò non capisco». «Continua a non capire, bello. È più conveniente». «Sarà», dissi. «Ma non è soddisfacente». «Hai parlato di questo alla polizia di Los Angeles?». «Di questo che?». «Di queste riflessioni su Sonderborg». «Non esattamente». «Questo non vuol dire né sì né no». «Non sono poi un tipo così importante», precisai. «La polizia di Los
Angeles può venir qui quando ne ha voglia, senza bisogno di me. Gli uomini dello sceriffo, e quelli del settore stupefacenti. Al settore stupefacenti ho un amico. Una volta lavoravo lì. Si chiama Bernie Ohls. È a capo dell'ufficio». «Gliene hai parlato?». «No. È un mese che non lo vedo». «Pensi di parlargliene?». «No, se può complicare il mio lavoro». «Un'indagine privata?». «Sì». «Benissimo, che cosa vuoi?». «Qual è il vero giro di Sonderborg?». Hemingway tolse le mani dal volante e sputò fuori del finestrino. «È una bella strada, questa. No? Belle case, bei giardini, bel clima. Tu hai sentito parlare spesso di poliziotti venduti, eh?». «Qualche volta», dissi. «Bene, quanti poliziotti hai trovato che abitano in una strada almeno come questa, con le aiuole e i fiori? Io ne conosco quattro o cinque, e sono tutti nei reparti del buoncostume. Tutto il miele se lo succhiano loro. I poliziotti come me abitano in case di legno mezzo cadenti, dall'altra parte del paese. Vuoi vedere dove abito io?». «Che cosa proverebbe?». «Ascolta bello», disse il grosso uomo con serietà. «I poliziotti mica si vendono per denaro. Non sempre almeno, e non tanto spesso. Son presi nell'ingranaggio. Arrivano a dover fare quello che gli dicono di fare e basta. E quel tipo che se ne sta seduto in quell'ufficio d'angolo, con quel bel vestito e quell'alito che gli puzza di whisky e che secondo lui, masticando tutti quei semi, dovrebbe avere un profumo di violette, non è neanche lui a dare gli ordini. Capisci?». «Che tipo è il sindaco?». «Che tipo è un sindaco, dappertutto? È un uomo politico. Credi che sia lui a dare gli ordini? Fesserie. Sai qual è la cosa più importante in questo paese?». «Troppo capitale accentrato, mi hanno detto». «Uno non può restare onesto anche se vuole», disse Hemingway. «Ecco come stanno le cose in questo paese. Se lo fa, gli levano i calzoni di dosso. O stai al gioco o non mangi. Alcuni scemi pensano che tutto quanto ci vuole siano novantamila uomini del F.B.I. con i collctti inamidati e le bor-
se di cuoio sottobraccio. Fesserie. Fossero tanti, farebbero come facciamo noi e basta. Sai che ne penso io? Penso che questo mondo sarebbe tutto da rifare. Creare una specie di Riarmo Morale. R.M., riarmo morale. Sarebbe qualcosa». «Se deve funzionare come Bay City, meglio una aspirina», dissi. «Non fare tanto lo spiritoso», disse con calma Hemingway. «Tu puoi non crederci, ma sarebbe qualcosa. Io sono un poliziotto qualunque. Ricevo degli ordini. Ho moglie e due figlie e faccio quello che i pezzi grossi dicono di fare. Blane potrebbe dirti di più. Io non so niente». «È certo he Blane ha proprio l'appendicite? E che non si è tirato un colpo di rivoltella allo stomaco per finta?». «Non essere così», Hemingway si lamentò. «Sforzati di pensar bene della gente». «Di Blane?». «È un uomo anche lui, come tutti noi», disse Hemingway. «È peccatore ma è uomo». «Qual è il giro di Sonderborg?». «Te lo stavo appunto dicendo. Può darsi che mi sbagli. Però mi sembravi un tipo capace di afferrare una buona idea». «Vuol dire che non sai neanche tu», dissi. Hemingway estrasse il fazzoletto e si asciugò il volto. «Ragazzo, mi spiace ammetterlo», disse. «Ma dovresti capire che se io e Blane avessimo saputo che Sonderborg faceva degli affari poco puliti, o non ti avremmo portato lì o non ne saresti mai uscito con le tue gambe. Dico affari realmente poco puliti. Mica roba come predire la fortuna alle vecchie signore con un globo di cristallo». «Non so se mi si volesse far uscire di là con le mie gambe», dissi. «C'è una droga che si chiama scopolamina, siero della verità, che qualche volta fa parlare la gente senza che questa se ne accorga. Non è di effetto sicuro, ma certe volte funziona, come l'ipnotismo. Secondo me me l'hanno data, in quel posto, per vedere che cosa sapevo. Ma soltanto in tre modi Sonderborg poteva pensare che io sapessi qualcosa di interessante. Poteva averlo informato Amthor, o Moose Malloy gli aveva detto che ero andato a far visita a Jessie Florian, oppure lui poteva pensare che portarmi lì era un trucco della polizia». Hemingway mi guardò con tristezza: «Non riesco nemmeno a seguirti», disse. «Chi diavolo è questo Moose Malloy?». «Una specie di gigante che ha ucciso un uomo in Central Avenue pochi
giorni fa. È stato trasmesso il suo nome per telescrivente, se leggi i comunicati». «E allora?». «E allora Sonderborg lo teneva nascosto. L'ho visto là dentro, che leggeva un giornale, la notte che me la sono svignata». «Come hai fatto a uscire? Non eri chiuso a chiave?». «Ho picchiato il guardiano con una sbarra del letto. M'è andata bene». «Il gigante ti ha visto?». «No». Hemingway mise in moto la macchina, facendo marcia indietro dal marciapiede. Sul volto aveva una smorfia. «Cerchiamo di riepilogare», disse. «Dunque questo Sonderborg nascondeva persone ricercate. Purché avessero soldi, si capisce. Il suo era un posto perfetto per questo genere di cose. Roba che rende, per di più». L'auto partì e svoltò la cantonata. «E io credevo che vendesse sigarette drogate», disse con aria amareggiata. «Protetto, naturalmente. Ma quelli sono solo affari da poco». «Mai sentito delle riffe? Anche quelli sono affari da poco. Ma solo se li prendi in considerazione isolati». Hemingway prese una curva brusca e scosse gravemente il capo. «Giusto. E i bigliardini e i giuochi di bocce e le sale delle corse, per esempio. Ma metti tutto insieme e dànno il controllo in mano a una persona sola, e comincia a esserci un senso». «Che persona?». Si fece di nuovo di sasso. Teneva la bocca chiusa e mi accorsi che stringeva anche i denti. Eravamo sulla Descanso Street, diretti a est. Era una strada tranquilla, sul tardo pomeriggio. Quando ci avvicinammo verso la Ventitreesima, sembrò diventare un po' meno tranquilla. Due uomini stavano osservando una palma come se avessero l'intenzione di smuoverla. Una macchina era ferma presso la casa del dottor Sonderborg, ma non c'era nessuno dentro di essa. A poca distanza, un uomo era occupato da un tombino della fogna. La casa aveva, alla luce del giorno, un aspetto cordiale. Rose e begonie formavano una massa compatta e chiara sotto le finestre e le violette decoravano con una striscia colorata una acacia bianca in fiore. Una grossa rosa scarlatta stava sbocciando sopra un ventaglio di traliccio. La casa sembrava l'abitazione di una coppia di vecchi coniugi amanti del giardinaggio. Il sole del pomeriggio le dava un'aria tranquilla e, allo stesso tempo, minac-
ciosa. Hemingway passò lentamente con la macchina accanto alla casa e un lieve sorriso gli apparve agli angoli della bocca. Soffiò dal naso. Svoltò alla prima cantonata e premette l'acceleratore. Dopo tre caseggiati frenò e mi squadrò con un'occhiata. «Polizia di Los Angeles», disse. «Uno degli uomini accanto alla palma si chiama Donnelly. Lo conosco. Hanno circondato la casa. Così tu non l'hai detto al tuo amico di città, eh?». «Infatti». «Il Capo sarà molto contento», ghignò Hemingway. «Vengono qui e circondano un posto e non si fermano neanche a dire buongiorno». Io non dissi nulla. «Lo prendono questo Moose Malloy?». Io scossi la testa. «Finora no, per quanto ne so io». «Ma quanto ne sai?» egli mi chiese piano. «Non abbastanza. C'è qualcosa in comune fra Amthor e Sonderborg?». «No, che io sappia». «Chi è il padrone di questo paese?». Silenzio. «Ho sentito dire che un biscazziere di nome Laird Brunette ha speso trentamila dollari per far eleggere il sindaco. E che questo Brunette è il proprietario del Belvedere Club e delle due navi-bisca al largo». «Può darsi», disse cortesemente Hemingway. «Dove posso trovare Brunette?». «Perché lo chiedi a me?». «Dove andresti tu se ti cacciassero dal tuo nascondiglio in questo paese?». «Nel Messico». Io scoppiai a ridere. «Benissimo. Vuoi farmi un favore?». «Con piacere». «Riportami in paese». Egli rimise in moto la macchina e imboccò una bella strada ombreggiata che portava al mare. L'auto arrivò nella piazza del paese. Io scesi. «Vieni a trovarmi qualche volta», disse Hemingway. «Può darsi che mi metteranno a pulire le sputacchiere». Mi tese la grossa mano. «Senza rancore?». «Senza rancore», ripetei stringendogli la mano. Egli fece un largo sorriso. Mentre stavo già per allontanarmi, mi richia-
mò. Si guardò prudentemente intorno, poi mi accostò quasi la bocca all'orecchio. «Quelle navi-bisca non rientrano nella giurisdizione della città e dello Stato», disse. «Battono bandiera di Panama. Se stesse in me...» improvvisamente s'interruppe, e mi dette un'occhiata preoccupata. «Ho capito», dissi. «È la stessa idea che è venuta a me. Non so perché mi sono preso tanta pena a farla venire anche a te. Ma non servirebbe a niente, specialmente a un uomo solo». Egli fece un cenno d'approvazione e sorrise. «Senza rancore», disse. CAPITOLO XXXIV Rimasi disteso sul letto in un albergo del lungomare e attesi che si facesse scuro. Era una stanzetta, con un letto duro e un materasso poco più spesso della coperta di cotone che lo copriva. Proprio sotto di me c'era una molla rotta che mi penetrava in un fianco. Tuttavia restai lì sdraiato, lasciandomi tormentare da quella molla. Il riflesso di un'insegna rossa al neon illuminava il soffitto. Quando diventava rossa tutta la stanza sembrava tanto buia che veniva voglia d'andar fuori. All'aperto si udivano clacson di automobili e uno strascichío di passi proprio sotto la mia finestra. C'erano in aria il rumore e il mormorio di un incessante andirivieni. L'aria che entrava dalle persiane sconnesse portava un odore di fritto cattivo. Lontano una voce di quelle che paiono sempre lontane gridava: «Bei salamini, bei salamini fritti!». Si faceva più scuro. Io riflettevo; i pensieri mi si muovevano con una specie di timidezza nel cervello, come se ad osservarli ci fossero occhi ironici e cattivi. Pensavo a delle facce da morto che fissavano il cielo, con le bocche grondanti sangue. Pensavo a vecchie donne massacrate contro la spalliera dei loro letti sporchi. Pensavo a un uomo con dei meravigliosi capelli biondi, il quale aveva paura senza nemmeno sapere bene di che, ma era abbastanza intelligente per capire che qualcosa non andava e troppo inetto e stupido per capire che cosa non andasse. Pensavo a donne ricche e bellissime che non erano tanto schizzinose e a ragazze carine che vivevano sole e che pure ci stavano, ma in un modo diverso. Pensavo a poliziotti, poliziotti poco di buono che era facile ungere e che non erano poi marci del tutto, come Hemingway. Poliziotti grassi e ricchi, con voci da alta finanza, come il Capo Wax. Poliziotti in gamba e modesti che a furia d'essere in gamba e modesti, come Randall, non potevano più riuscire a fare un
lavoro decente in un modo decente. Pensavo a vecchi caproni come Nulty che avevano smesso persino di provarcisi. Pensavo a indiani e a medici della psiche e a spacciatori di stupefacenti. Pensavo a molte cose. Si faceva buio. La luce rossa del neon invadeva sempre più il soffitto. Mi levai a sedere sul letto, misi i piedi a terra e accarezzai la mia nuca. Mi alzai, mi accostai al lavabo nell'angolo e mi gettai dell'acqua fredda sulla faccia. Stavo un po' meglio, ma solo un po'. Avrei avuto bisogno di bere qualcosa. Avrei avuto bisogno, inoltre, di un'assicurazione sulla vita, di una bella vacanza e di una casa in campagna. Tutto quel che avevo, invece, erano un soprabito, un cappello e una rivoltella. Presi queste tre cose e uscii dalla stanza. Non c'era ascensore. Il corridoio puzzava e le scale avevano passamani polverosi. Scesi le scale, gettai la chiave sul banco del portiere e dissi che andavo via. Un impiegato con un foruncolo sulla palpebra sinistra fece un cenno col capo. Comparve un facchino messicano in livrea a prendere i miei bagagli. Non avevo valigie e allora lui, dato che era messicano, mi aprì la porta e mi fece ugualmente un sorriso gentile. Fuori, la stretta stradina formicolava di gente, in un'atmosfera fumosa. Di fronte, c'era un locale da ballo, pieno di gente. Dal negozio di un fotografo uscivano due marinai con ragazze, che dovevano essersi appena fatti fare la fotografia a cavallo di un cammello. La voce del venditore di salamini tagliava la foschia come un coltello. Un grande autobus azzurro luccicava in fondo alla stradina, dove le auto voltavano su una piattaforma girevole. Mi diressi da quella parte. Dopo un po', sentii un lieve odore di mare. Non forte, come se l'avessero conservato solo per ricordare alla gente che quel posto era stato un tempo una spiaggia aperta e pulita dove arrivavano e s'infrangevano le onde e soffiava il vento e non c'era solo l'odore di fritto e di gente sudata. Un'autopubblica elettrica arrivò sferragliando sul selciato. Vi salii e mi feci condurre fino al molo. Mi sedetti su una panchina in un posto fresco e tranquillo. Proprio ai miei piedi c'era un gran mucchio scuro di alghe. Fuori in mare, avevano acceso le luci sulle navi-bisca. Ripresi l'autopubblica, mi feci ricondurre fin quasi all'albergo. Se c'era qualcuno a pedinarmi, non lo notai. Non credevo che ci fosse. In quel paesetto non dovevano esserci delitti a sufficienza perché i poliziotti potessero imparare bene il mestiere del pedinatore. C'era ancora l'odore di fritto, ma si sentiva anche l'odore del mare.
L'uomo dei salamini gridava: «Bei salamini! Bei salamini caldi, gente!». Lo scovai ad una baracca-friggitoria dipinta di bianco, occupato a infilare salamini viennesi con una lunga forchetta. Faceva buoni affari benché non fosse ancora la stagione adatta. Dovetti aspettare un po' prima che restasse solo. «Come si chiama quella più fuori?» chiesi, indicandola con un cenno del capo. «Montecito». Mi dette un'occhiata di traverso. «È possibile, per uno che sia ragionevolmente fornito di quattrini, andare là a divertirsi?». «Divertirsi come?». Io feci una risatina piena di sottintesi. «Salamini», canticchiò lui, «bei salamini caldi, gente». Abbassò la voce. «Donne?» domandò. «Nix. Pensavo a una stanza con un bel venticello di mare, roba buona da mangiare e niente seccatori». Egli si allontanò. «Non vi sento», disse, e entrò in uno sgabuzzino. Servì altri clienti. Chissà perché stavo a perdere il tempo con lui. Arrivò una giovane coppia in calzoncini e comprò un paio di salamini. Si allontanarono, lui tenendo il braccio intorno alla vita di lei e mangiando ciascuno il salamino dell'altro. L'uomo si fece dalla mia parte e mi fissò. «Posso cantarvi una canzonetta, se volete. Questo è quel che posso fare per voi», disse. Fece una pausa. «Naturalmente si paga». «Quanto?». «Mezzo dollaro. Almeno». «Era un bel paese questo», dissi. «Sono d'accordo», rispose lui. «Ma insomma che volete?». «Chissà», replicai. Gettai un biglietto da un dollaro sul banco. «Mettetelo nel salvadanaio del bambino. E cantate la canzonetta, se ci tenete». L'uomo prese il biglietto, lo piegò dapprima per il verso della lunghezza, poi lo ripiegò più volte. Lo posò sul banco, prese la mira col dito medio contro il pollice e tirò. Il biglietto piegato mi colpi lieve al torace e cadde a terra senza rumore. Io mi chinai a raccoglierlo e in fretta mi voltai. Ma non c'era dietro di me nessuno che sembrasse un poliziotto. Mi appoggiai al banco e vi deposi di nuovo il dollaro. «A me i soldi si porgono», dissi, «mica si buttano. V'interessa?».
Lui prese il dollaro, lo spiegò, lo pulì sul proprio grembiule. Infine aprì il cassetto del registratore di cassa e vi gettò il biglietto. «Si dice che i soldi non puzzano», ammise. «Ma certe volte io non ne sono sicuro». Non replicai. Vennero altri clienti a farsi servire e se ne andarono. La sera si stava rapidamente rinfrescando. «Non ci proverei, con la Royal Crown», disse l'uomo dei salamini. «È roba per gentarella che non ha niente da perdere. Voi avete l'aria del poliziotto. Perciò io direi meglio l'altra. E con l'augurio che sappiate nuotare bene». Lo lasciai, chiedendomi perché m'ero rivolto per primo a lui. M'incamminai cercando di vedere se c'era qualcuno che camminava dietro di me in modo speciale. Poi cercai una trattoria che non puzzasse di fritto e ne trovai una con un'insegna rossa al neon e un bar dietro una tenda di canne. Un giovanotto molto grazioso con i capelli ossigenati suonava un pianoforte a coda toccando in modo voluttuoso i tasti e cantando una canzone intitolata «La scalinata delle stelle» con una voce a cui mancavano una metà degli scalini. Io ingollai un Martini secco e passai in fretta, oltre la tenda di canne, nella sala da pranzo. Il pranzo da ottantacinque cents aveva il sapore di un sacco postale in ritardo e mi fu servito da un cameriere il quale aveva l'aria di essere disposto a tramortirmi per venticinque cents, tagliarmi la gola per mezzo dollaro e gettarmi in mare, chiuso in un tubo di cemento, per un dollaro e mezzo, più le tasse sull'entrata e il servizio. CAPITOLO XXXV Per venticinque cents era una corsa lunga. Il taxi-scafo, una vecchia lancia ridipinta e munita di un parabrezza di vetro per tre quarti della lunghezza, scivolò tra i panfili ancorati e i grandi pilastri di pietra che erano all'estremità del molo. La risacca ci investì senza preavviso e fece ballare l'imbarcazione come un turacciolo. Ma s'era fatto presto sera, e c'era tanto posto per star male. Tutta la compagnia che avevo erano tre coppie e l'uomo che guidava l'imbarcazione, un individuo dall'aria decisa che sedeva tutto appoggiato sulla coscia sinistra, per il fatto che nella tasca posteriore di destra aveva una fondina di cuoio piuttosto voluminosa. Appena ci staccammo da riva, le tre coppie cominciarono a sbaciucchiarsi.
Mi voltai a guardare le luci di Bay City e mi sforzai di non gravare troppo su quello che avevo mangiato. Punti sparsi di luce si unirono trasformandosi in un monile di gioielli deposto sulla riva nella notte. Poi sbiadirono, e furono un debole bagliore giallo che appariva e spariva oltre le onde. L'onda era lunga e senza cresta, dalle proporzioni esattamente necessarie a farmi rallegrare di non avere innaffiato col whisky del bar quanto avevo mangiato. Il motoscafo saliva e scendeva le onde con una leggerezza sinistra, simile alla danza di un cobra. L'aria era fredda, c'era quell'umido che i marinai non riescono mai a togliersi dalle giunture. Le luci rosse al neon, che provenivano dalla Royal Crown, svanirono a sinistra sparendo fra la nebbia dei fantasmi marini grigi e sfuggenti, poi riapparvero vivide. Le demmo un'occhiata. Da lontano aveva un aspetto simpatico. Giungeva una musica lieve e sull'acqua la musica non può esser che piacevole. La scaletta di approdo della Royal Crown era illuminata come l'ingresso di un teatro. Poi tutto questo svanì nel buio, e dalla notte sbucò davanti ai nostri occhi un'altra nave più vecchia e più piccola. Era un piroscafo da carico rimodernato, con le fiancate coperte di salmastro e di ruggine, l'alberatura mozzata al livello del ponte e due tronconi d'albero maestro alti quanto bastava per l'antenna della radio. C'era luce anche sul Montecito e da esso si diffondeva musica sulla distesa del mare. Le coppie in amore smisero di azzannarsi a vicenda e guardarono la nave con delle risatine di gioia. Il motoscafo tracciò un'ampia curva, s'inchinò solo quanto bastava a dare ai passeggeri un brivido, e accostò alle alghe rampicanti della scaletta d'approdo. Il motore si fermò, dopo che il rumore degli ultimi scoppiettii si fu disperso nella nebbia. Il raggio pigro di un riflettore spazzò un cerchio di una cinquantina di metri dalla nave. Il conducente attraccò alla scaletta e un tale con un occhio guercio, che indossava una giacca azzurra con i bottoni lucenti, tese la mano alle ragazze per aiutarle a uscire dal motoscafo. Io fui buon ultimo. L'occhiata che il guercio mi lanciò mi fece capire molte cose sul suo conto. E più ancora me ne fece capire il gesto professionale con il quale mi tastò distrattamente il petto. «Nix», disse con tutta calma. «Nix». Aveva una vociona tranquilla. Fece un cenno col capo al conducente del motoscafo. Questi scavalcò una panca, girò un po' il timone e si arrampicò sulla scaletta. Si pose alle mie spalle. «Niente armi a bordo, amico. Mi spiace tanto per te», ammonì il guercio.
«La porto sempre in tasca», dissi. «Solo per questo ce l'ho. Ma posso consegnarla. Voglio vedere il signor Brunette per ragioni d'affari». Egli sembrò piuttosto divertito. «Mai sentito nominare», disse. «Vattene per la tua strada, bello». Il conducente del motoscafo mi afferrò un polso. «Voglio vedere Brunette», ripetei. La mia voce suonò stridula e incerta come quella di una vecchia signora. «Niente discussioni», ribadì il guercio. «Qui non siamo a Bay City, e nemmeno in California, e ci sono buoni motivi per sostenere che non siamo addirittura negli Stati Uniti. Squagliatela». «In barca», grugnì l'uomo del motoscafo dietro di me. «Ti devo venticinque cents. Andiamo». Tornai nella barca. Il guercio mi seguì con lo sguardo sorridendo silenziosamente e soddisfatto. Guardai quel sorriso finché non fu più né un sorriso né un volto ma solo una figura nera che si stagliava contro le luci. Lo fissai e mi venne voglia di mordere. Il ritorno sembrò più lungo. Non parlai col conducente e lui non mi rivolse la parola. Quando sbarcai mi tese un quarto di dollaro. «Sarà per un'altra sera», disse, «quando ci sarà più posto per farti ballare un po'». Una mezza dozzina di clienti che aspettava d'imbarcarsi mi guardò sentendo quelle parole. Io passai davanti a loro, uscii dalla porta della cabina d'imbarco e mi diressi verso gli scalini in fondo al molo. Un omaccione dal collo taurino e dai capelli rossi, che indossava una camicia sporca e un paio di pantaloni rattoppati e i resti di quello che era stato ai suoi tempi un giubbetto azzurro da marinaio, con il volto attraversato lateralmente da una benda nera, si alzò dalla ringhiera dov'era seduto e mi urtò. Io mi fermai. Era troppo grosso. Aveva almeno dieci centimetri e dodici chili di vantaggio su di me. Ma ormai si avvicinava il momento in cui avrei avuto voglia di piantare un pugno sui denti a qualcuno, anche se doveva costarmi un braccio ingessato. La luce era fioca e la nascondeva quasi. «Che succede, amico?» disse l'uomo con voce strascicata. «Non ti ci vogliono sulla nave del diavolo?». «Che ti frega?». «Poteva andarti peggio. La rivoltella si vede un po' troppo sotto la giacca così leggera». «Vuoi pensare ai fatti tuoi?».
«Cristo. Solo una curiosità. Non ti offendere». «Allora levati dai piedi». «Sicuro. Sono qui che mi riposo un po'». Sorrise stancamente. La sua voce era pacata, assorta, così dolce da stupire, in un uomo grande e grosso come lui. Mi fece pensare a un altro uomo grande e grosso dalla voce pacata, che m'era riuscito stranamente simpatico. «Hai sbagliato modo d'attaccar discorso», fece con tristezza. «Chiamami Red». «Levati dai piedi, Red. Succede a chiunque di fare degli sbagli. E io me ne sento uno salirmi su per la schiena». Egli si guardò intorno con aria preoccupata. Eravamo soli o pressappoco. «Tu vuoi andare sul Montecito? Ci si può riuscire. Se hai un motivo». Davanti a noi passò della gente allegra che salì sul motoscafo. Io aspettai che passassero. «Quanto costa questo motivo?». «Cinquanta dollari. Più dieci se mi sporchi di sangue la barca». Io mi avviai per andarmene, girandogli intorno. «Venticinque», disse lui con calma. «Quindici se torni con degli amici». «Amici non ne ho», risposi, e andai avanti. Lui non fece niente per fermarmi. Svoltai sulla pista di cemento dove vanno e vengono dei vagoncini elettrici, cigolando come le carriole dei bambini e lanciando brevi squilli di tromba capaci di spaventare le donne incinte. In fondo al primo pontile c'era un gioco di bocce illuminato, già pieno zeppo di gente. Entrai e rimasi appoggiato al muro, alle spalle dei giocatori. Non c'era posto a sedere. Guardai i numeri sull'indicatore elettrico, cercai di capire quali fra i giocatori erano i compari del proprietario e non ci riuscii. Dopo un po' feci per uscire. Una grossa forma azzurra che puzzava di tabacco mi comparve accanto. «Non hai quattrini o non vuoi spenderli?» mi chiese all'orecchio la voce gentile. Io lo guardai di nuovo. Aveva gli occhi di un colore che non s'incontra mai, di cui si legge solo nei libri. Occhi viola, quasi rossi. Occhi da ragazza, da bella ragazza. La pelle era liscia come seta. Appena un po' rossa, ma non era pelle che potesse abbronzarsi, era troppo delicata. L'uomo era più robusto di Hemingway e di parecchi anni più giovane. Non era grosso co-
me Moose Malloy, ma aveva l'aria d'essere ben piantato sulle gambe. I capelli avevano quella tinta di rosso che sembra oro. Ma, a parte gli occhi, aveva una faccia semplice da contadino, senza particolari tratti di bellezza. «Che mestiere fai?», chiese. «Informatore?». «Perché dovrei dirlo a te?». «Pensavo», disse lui. «Venticinque è troppo? Non vale la spesa?». «No». Egli sospirò. «Comunque non era un'idea seria. Là ti farebbero a pezzi». «Niente di strano. Tu che mestiere fai?». «Un dollaro qui, un dollaro là. Ero della polizia una volta. Mi hanno cacciato via». «E perché lo vieni a raccontare a me?». Egli sembrò stupito. «Ma è vero», disse. «Conosci un certo Brunette?». Egli sorrise appena. Uno dei giocatori mise tre bocce con un tiro. Andava forte. Un tale con un naso a becco, le guance infossate e un abito striminzito addosso si accostò a noi e si appoggiò con le spalle al muro senza guardarci. Red si chinò cortesemente verso di lui e chiese: «Ti serve niente, amico?». L'uomo dal naso a becco fece una smorfia e si allontanò. Red rispose con un'altra smorfia e appoggiò di nuovo la propria mole al muro. «Conoscevo un tale che poteva darle anche a te», dissi io. «Vorrei ce ne fossero», egli ammise con serietà. «Un uomo grande e grosso costa molto. Non ci sono le cose su misura per lui. Costa da nutrire, da vestire, e non può dormire coi piedi nel letto. Ecco com'è. Tu magari pensi che questo non è il posto buono per parlare. Invece lo è proprio. Qualunque poliziotto ci capita io lo conosco, e il resto della folla è occupata a guardare i numeri e basta. Io ho una barca a motore con la licenza per andar fuori. Ovvero posso trovarla. C'è un pontile senza lumi, in fondo al molo. So di un boccaporto del Montecito che posso aprire. Ogni tanto porto qualche carico. Sono in pochi sottocoperta». «Hanno un riflettore». «Ce la possiamo fare». Io estrassi il portafoglio, tirai fuori un biglietto da venti dollari e uno da cinque, li piegai per bene. Gli occhi rossi mi guardavano senza parere. «Solo andata?». Io annuii. «S'era detto quindici».
«È salito il prezzo». Una mano callosa ingoiò i due biglietti. Egli si allontanò in silenzio. Sparì nel buio uscendo dalla porta. Accanto a me apparve all'improvviso l'uomo dal naso a becco e disse tranquillamente: «Mi par di conoscere quel tale vestito da marinaio. È amico vostro? Credo di averlo già visto». Io mi staccai dal muro e mi allontanai senza rispondere. Uscii fuori e osservai una testa alta che si spostava da un palo della luce a un altro, una trentina di metri davanti a me. Dopo qualche minuto mi fermai in uno spazio fra due baracche. Comparve l'uomo dal naso a becco, con gli occhi fissi a terra. Mi portai al suo fianco. «Buona sera», dissi, «volete scommettere un quarto di dollaro che indovino quanto pesate?». Mi appoggiai addosso a lui. Sotto la giacca striminzita c'era una rivoltella. I suoi occhi mi fissarono senza emozione. «Volete che vi porti in guardina? Io ho l'incarico di star qui a far rispettare la legge e mantenere l'ordine». «E chi sta turbando l'ordine?». «Il vostro amico aveva un aspetto familiare». «Si capisce. È un poliziotto». «Al diavolo», disse sbuffando l'uomo dal naso a becco. «Ecco allora dove l'avevo visto. Buona notte». Si voltò e si allontanò com'era venuto. La testa alta era fuor di vista ora. Non mi preoccupava. Sapevo che per quel tipo non avevo da preoccuparmi. M'incamminai lentamente. CAPITOLO XXXVI Oltre i pali della luce, oltre il fracasso dei carrozzini elettrici, oltre l'odore di grasso e di fritto e gli strilli dei bambini e le urla della gente alle bocce, oltre tutto questo, c'era l'odore del mare e la striscia improvvisamente netta di spiaggia e la schiuma delle onde. Ora camminavo solo. I rumori si spegnevano alle mie spalle, le luci chiassose, fastidiose, si mutavano in un bagliore indistinto. Poi il profilo senza luce di un pontile si tese nel buio verso il mare. Doveva essere quello. M'incamminai su di esso. Red si alzò da una cassa dov'era seduto e mi rivolse la parola. «Bene», disse. «Vai alla scaletta. Io devo andare a prendere la barca e avviarla».
«Mi ha seguito un poliziotto. Quello del gioco delle bocce. Mi sono dovuto fermare a parlargli». «Olson, si chiama. È un brav'uomo. Solo che ogni tanto deve fermare qualcuno, per tenere alta la sua media di arresti. Vuole un po' strafare, no?». «Per Bay City non mi pare. Andiamo. Si leva il vento e non vorrei che sparisse la nebbia. Non è molta ma ci può servire». «È abbastanza per fregare il riflettore», disse Red. «Hanno i fucili mitragliatori sul ponte. Tu vai in fondo al pontile. Io vengo subito». Svanì nell'oscurità. Io mi inoltrai sulle tavole buie, scivolose. In fondo c'era una ringhiera male in arnese. In un angolo stava rannicchiata una coppia. Si allontanarono, lui imprecando. Per dicci minuti ascoltai il rumore dell'acqua contro i pali. Un uccello notturno strillò nell'oscurità, la visione di un'ala grigia mi passò davanti agli occhi e scomparve. In alto ronzava un aeroplano. In distanza un motore si mise a scoppiettare e a fare il rumore di una decina di autocarri. Poi il rumore si calmò, calò di tono, cessò del tutto. Passò qualche altro minuto. Io tornai alla scaletta e scesi con la prudenza di un gatto che si muove su un pavimento bagnato. Una forma nera uscì dal buio, scivolando sull'acqua. Una voce disse: «Fatto. Sali». Salii in barca e mi sedetti accanto a lui sotto la piccola tettoia. La barca scivolò via sull'acqua. Ora non c'era altro rumore che un ribollire rabbioso ai lati dello scafo. Ancora una volta le luci di Bay City brillarono lontane, al di là delle onde che andavano su e giù. Le luci vivaci della Royal Crown sfilarono nuovamente sul fianco, la nave sembrava pavoneggiarsi come una modella sulla passerella a una sfilata di moda. E ancora una volta la sagoma del Montecito emerse dalle onde nere del Pacifico e il raggio lento del riflettore spazzò le onde. «Ho paura», dissi io all'improvviso. «Ho una paura fottuta». Red spense il motore e lasciò che la barca andasse alla deriva, su e giù con le onde. Era come se la barca stesse ferma e le onde si muovessero sotto di noi. Red si voltò a fissarmi. «Ho paura della morte, ho paura della disperazione», dissi io. «Dell'acqua buia e delle facce degli annegati e dei teschi con le occhiaie vuote. Ho paura di morire, ho paura di finire nel nulla, e di non trovare un tale che si chiama Brunette». Red sghignazzò. «Stavo quasi per crederti», disse. «Ti piace chiacchierare, eh? Brunette può essere dovunque. Su una delle due navi, al suo club,
nell'est, a Reno, a casa sua in pantofole. È solo questo che cerchi?». «Cerco un tale che si chiama Malloy, un colosso bestiale uscito dal penitenziario dell'Oregon dopo aver fatto otto anni per la rapina di una banca. Era nascosto a Bay City». Glielo raccontai. Gli raccontai molto più di quanto volessi. Doveva essere colpa di quegli occhi. Alla fine lui ci pensò sopra e poi lentamente parlò. Quello che disse era impregnato di nebbia, come succede qualche volta ai baffi. Forse questo faceva sembrare le sue parole più sagge di quel che fossero, o forse no. «C'è una parte verosimile», disse, «e un'altra parte no. Certe cose direi di sì, certe altre no. Se questo Sonderborg aveva un nascondiglio per ricercati e vendeva droghe e mandava gente in giro a far la faccia feroce e a prelevare i gioielli delle signore facoltose, è logico che avesse dei contatti con le autorità locali, ma questo non significa che loro sapessero di tutte le sue attività, o che qualunque poliziotto in servizio sapesse delle relazioni che Sonderborg aveva. Magari lo sapeva Blane e non lo sapeva Hemingway, come lo chiami tu. Blane è un mascalzone, l'altro è un poliziotto qualunque, né buono né cattivo, né venduto né onesto, con un certo fegataccio e stupido abbastanza, come me, da pensare che fare il poliziotto sia un modo decoroso di guadagnarsi da vivere. Questo tale della psiche, poi, non c'entra. Si è comprato un sistema di protezione sul mercato migliore, Bay City, e se ne serve quando gli occorre. Non si può mai sapere bene che cosa faccia un tipo di quel genere, e perciò non si può sapere che cos'abbia sulla coscienza o di che abbia paura. Per esempio può essere un uomo anche lui e aver preso ogni tanto una cotta per una cliente. Quelle signore ricche si convincono più facilmente di bambole di carta. La mia idea sulla tua permanenza da Sonderborg è semplicemente che Blane sapeva che Sonderborg si sarebbe spaventato quando avrebbe scoperto chi eri — la storia che ti raccontò Sonderborg è probabilmente quella che avevano raccontato a lui, d'averti trovato cioè sperduto e stordito — e Blane sapeva che Sonderborg avrebbe avuto paura sia di farti fuori che di lasciarti andar via. Dopo un po' Blane sarebbe ricomparso a chiedergli conto di te. Questo è tutto. Può darsi che Blane sapesse anche di Malloy. Ma non credo che altri ne fossero stati informati». Io ascoltavo, osservando il riflettore frugare l'acqua e l'andirivieni dei motoscafi alla nostra destra. «So come la pensa questa gente», continuò Red. «Purtroppo i poliziotti non sono né stupidi né venduti, ma pensano che fare il questurino significhi essere qualcosa di più di quello che erano prima. Questo poteva essere
una volta, ma ora non più. Ci sono delle teste troppo intelligenti più in alto di loro. Questo ci fa pensare a Brunette. Brunette non è il padrone del paese. Non se ne occupa e non si prenderebbe una simile seccatura. Ha speso molti soldi per fare eleggere il sindaco, in modo che nessuno dia fastidio ai suoi motoscafi. Se volesse qualcosa di speciale, gliela darebbero subito. Tempo fa un suo amico, un avvocato, fu arrestato perché guidava l'automobile ubriaco, che è un reato. Brunette fece ridurre la denunzia ad eccesso di velocità. Per far questo cambiarono il rapporto, cosa che è pure un reato. Questo ti dà un'idea della faccenda. Il mestiere di Brunette è fare il biscazziere, e al giorno d'oggi tutti i giri sono collegati. Così può darsi che Brunette smerci droghe o prenda una percentuale dai suoi uomini ai quali permette di farlo. Può darsi che conoscesse Sonderborg e può darsi di no. Ma con le rapine di gioielli non c'entra. Pensa un po' alla fatica che quella gente ha fatto per ottomila dollari. È da ridere pensare che Brunette si metta in una faccenda simile». «Già», dissi. «È stato anche assassinato un uomo. Te ne ricordi?». «Neanche con questo c'entra. Non è stato lui né ad ammazzarlo né a farlo ammazzare. Se fosse stato Brunette, mica si sarebbe rinvenuto il cadavere. Non si sa mai che cosa si può trovare in tasca a un morto. E allora perché correre il rischio? Vedi un po' quante cose ti sto dicendo per venticinque dollari. Perché avrebbe dovuto occuparsi di una faccenda simile Brunette, con tutti i quattrini che ha?». «È tipo da far uccidere un uomo?». Red rifletté un momento. «Forse sì. Probabilmente l'ha già fatto. Ma non è un incosciente. Questi d'oggi sono banditi di tipo nuovo. Noi continuiamo a credere che siano come quelli del buon tempo antico, che facevano la faccia feroce. Alla radio dicono che sono gente spietata, la quale ammazza donne e bambini e implora pietà appena vede un poliziotto. Dovrebbero informarsi meglio prima di contare al pubblico tante balle. Soprattutto i pezzi grossi come Brunette mica si fanno strada ammazzando la gente. Si fanno strada col fegato e col cervello — e non hanno nemmeno il coraggio che hanno i poliziotti perché sono in tanti. Ma, soprattutto, sono uomini d'affari. Fanno tutto questo per intascar quattrini. Come qualsiasi uomo d'affari. Certe volte uno si comporta male. Allora lo fanno fuori. Ma ci pensano bene prima. Ma perché poi ti sto tenendo una conferenza?». «Un tipo come Brunette mica nasconderebbe Malloy», conclusi, «quando costui ha ucciso due persone». «No. A meno che ci fossero altre ragioni oltre i quattrini. Vuoi tornare a
riva?». «No». Red mosse le mani sul volante. La barca prese velocità. «Non credere che quei bastardi mi siano simpatici», disse. «Non li posso soffrire perché hanno del fegato». CAPITOLO XXXVII Il riflettore girevole era come un dito pallido, inanellato di nebbia, che frugava le onde a una trentina di metri dalla nave. Probabilmente lo faceva più per figura che per altro. Specialmente a quell'ora di sera. Chi avesse voluto svaligiare una di quelle navi-bisca avrebbe avuto bisogno di fare il colpo, in forze, non prima delle quattro di mattina, quando la folla fosse ridotta a pochi giocatori accaniti e l'equipaggio intontito dalla stanchezza. E anche così non era un buon sistema per far quattrini. Ci avevano provato una volta. Un motoscafo arrivò alla scaletta, sbarcò gente, tornò verso riva. Red tenne la barca appena fuori dalla luce del riflettore. Se l'avessero alzato solo di mezzo metro... ma non lo fecero. Il raggio di luce ci passò accanto e si allontanò. Noi c'insinuammo e velocemente ci portammo sotto la poppa. Ci accostammo alle fiancate con la prudenza di un poliziotto d'albergo che si accinge a sorprendere una coppia in una stanza. Le due porte di ferro di un boccaporto ci sovrastavano. Sembravano troppo in alto da giungervi, e troppo pesanti da aprire se le avessimo raggiunte. La nostra imbarcazione urtò la vecchia fiancata del Montecito e la risacca ci fece ballare il guscio sotto i piedi. Una grossa ombra si levò nella nebbia accanto a me e una corda incatramata scattò in aria, si agganciò. L'estremità cadde in acqua con un tonfo. Red la ripescò con un uncino e la legò a qualcosa sul motore. C'era abbastanza nebbia da far parere tutto irreale. L'aria umida era fredda come le ceneri dell'amore. Red si chinò verso di me e il suo respiro mi soffiò all'orecchio. «È troppo alto. Se viene un'ondata chissà dove arriva. Però dobbiamo salire per forza di qua». «Bene, e che aspettiamo?», chiesi io. Red mi fece mettere le mani sul volante, lo girò, e poi mi disse come dovevo tenere la barca. Sul fianco della nave c'era una scaletta di ferro, che seguiva la curva dello scafo e i cui pioli dovevano essere scivolosi come un palo della cuccagna.
Salire di lì era un'impresa allettante quanto passeggiare sul cornicione di un palazzo di dieci piani. Red si afferrò, dopo essersi strofinato le mani sui calzoni per sporcarle con un po' di terriccio. Si innalzò senza rumore, quasi senza respirare, tenendo il corpo ad angolo retto per fare più forza. Il raggio del riflettore frugava ora molto più in là di noi. La luce si rifletteva sull'acqua e pareva dover illuminare la mia faccia interamente, ma non accadde nulla. Poi udii qualcosa cigolare sopra la mia testa. Un bagliore spettrale, giallo, comparve nella nebbia, poi svanì. Scorsi la sagoma di una delle portiere del boccaporto. Non doveva essere stato chiuso dall'interno. Mi chiesi come mai. Il bisbiglio fu solo un rumore, senza senso. Io lasciai il volante e cominciai a salire. Fu l'impresa più terribile che io abbia mai compiuto. Mi ritrovai esausto in una specie di stiva piena di casse, barili, rotoli di corda e mucchi di catene arrugginite. Negli angoli bui stridevano i topi. La luce gialla veniva da una porta in fondo. Red mi accostò le labbra all'orecchio. «Di qui si va nella sala delle caldaie. Ci sarà probabilmente un uomo solo. L'equipaggio fa un po' di tutto, inservienti nelle sale da gioco, camerieri, eccetera. Dalle caldaie ti farò vedere un tubo di aerazione che non ha inferriate. Va a finire sul ponte, dove è vietato l'ingresso. Ma sta poi a te... finché resti vivo». «Tu devi avere qualche parente a bordo», dissi. «Se ne sono viste di più belle. Tornerai presto?». «Credo che farò un bel tonfo dal ponte in acqua», risposi, ed estrassi il portafoglio. «E credo che questo sia da pagare a parte. Tieni. Prenditi cura del cadavere come se fosse cosa tua». «Non mi devi mica niente, amico». «Ti pago il ritorno, anche se non lo faccio. Prendi i soldi prima che io scoppi a piangere sulla tua spalla». «Ti serve aiuto?». «Mi servirebbe solo una lingua di ricambio perché la mia non me la sento più in bocca». «Metti via quei quattrini», disse Red. «Mi hai già pagato il ritorno. Mi pare che hai paura». Mi prese la mano. La sua era forte, calda, un po' appiccicosa. «Sicuro che hai paura», disse. «Ce la farò», replicai io. «In un modo o in un altro». Egli si allontanò con un'espressione strana sul volto, che al buio io non riuscii a decifrare. Lo seguii fra le casse e i barili, oltre la saracinesca alzata della porta, in un corridoio buio pieno di odore di nave. Da questo u-
scimmo su una piattaforma d'acciaio, unta d'olio, e scendemmo una scaletta sulla quale era difficile reggersi. Il sibilo lento dei bruciatori d'olid riempiva ora l'aria e copriva qualunque altro rumore. Ci dirigemmo verso quel sibilo attraverso montagne silenziose di ferro. Dietro un angolo scorgemmo un ometto un po' sudicio con una camicia di seta viola. Era seduto in una poltroncina di tubolari da ufficio, sotto una lampadina, e leggeva il giornale seguendo le parole con un dito. Portava sul naso un paio d'occhiali a stanghetta che dovevano essere stati di suo nonno. Red gli si avvicinò senza rumore. Con tono cortese disse: «Ciao, piccolo. Come sta la famiglia?». L'italiano aprì di scatto la bocca e si ficcò la mano dentro la camicia. Red lo colpì alla mascella, lo sostenne, poi lo depose garbatamente al suolo e cominciò a stracciare la camicia facendone delle strisce. «Questo gli farà più rabbia della batosta», disse. «Ma uno che sale su per un tubo d'aerazione fa molto rumore di sotto. Di sopra non sentiranno niente». Red legò e imbavagliò per bene l'italiano, piegò gli occhiali e li ripose in un posto sicuro. Ci accostammo al condotto d'aerazione che non aveva grata. Guardai su e vidi solo buio fitto. «Ciao», dissi. «Magari hai bisogno d'aiuto». Io mi scrollai come un cane bagnato. «Avrei bisogno di una compagnia di fucilieri da sbarco», risposi. «Ma o ce la faccio da solo o non ce la faccio, Ciao». «Quanto starai?». La voce sembrava preoccupata. «Un'ora, o anche meno». Red mi fissò e si morse le labbra. Poi fece un cenno d'approvazione. «Certe volte bisogna agire», disse. «Fatti vedere alle bocce, se hai tempo». Si allontanò con passo leggero. Fatti pochi metri si fermò e tornò indietro. «Quel boccaporto aperto», soggiunse. «Può darsi che abbia un valore. Puoi trattare». E se ne andò in fretta. CAPITOLO XXXVIII Dal tubo scendeva aria fredda. La salita sembrava lunghissima. Dopo tre minuti che mi parvero un'ora, misi fuori con cautela la testa dalla tromba sul ponte. Vicino scorsi scialuppe coperte di tela. Sentii delle voci mormo-
rare nel buio. Il raggio del riflettore girava lentamente. Veniva da un punto più in alto, probabilmente una piattaforma sopra uno dei due tronconi dell'albero maestro. Lassù doveva esserci anche qualcuno con un mitra, o magari una Browning piccola. Bel lavoro, comodo e tranquillo, ma inutile quando lasciavano così bene aperto quel boccaporto, Della musica lontana sembrava venire da una radio in sordina. Sopra il mio capo un fanale in cima all'albero e più in alto, attraverso la cortina di nebbia, qualche stella triste proiettavano la loro luce. Io uscii dalla tromba d'aerazione, tolsi la calibro 9 dalla fondina e la tenni sotto il braccio, coprendola con la manica della giacca. Feci tre passi e ascoltai. Nulla. Il mormorio s'era interrotto, ma non per riguardo a me. Lo udii di nuovo, fra due scialuppe di salvataggio. Dalla notte e dalla nebbia, misteriosamente come in questi casi accade, giunse tuttavia luce sufficiente per permettermi di scorgere nel buio un fucile mitragliatore piantato sopra un pesante treppiede e accanto ad esso due uomini che se ne stavano immobili, senza fumare. Il mitragliatore era puntato attraverso la balaustra verso il mare. Le voci degli uomini ripresero a mormorare, era un borbottio indistinto di cui non si capiva una parola. Rimasi troppo a lungo in ascolto di quel borbottìo. Dietro di me parlò distintamente un'altra voce. «Dolente, ma gli ospiti non sono ammessi su questo ponte». Io mi voltai senza troppa fretta, e guardai le sue mani. Erano vuote. Mi feci da parte con un cenno del capo e l'estremità di una scialuppa ci nascose. L'uomo mi seguì gentilmente, le sue scarpe non facevano rumore sulle tavole del ponte. «Temo di avere sbagliato strada», dissi. «Temo anch'io», disse lui. Aveva una voce giovanile. «Ma c'è una porta in fondo al corridoio, con un catenaccio. È un buon catenaccio. Prima c'era solo una scaletta aperta, con una catena attraverso e un cartello. Poi ci accorgemmo che chiunque poteva scavalcare la catena». Parlava molto, o per essere cortese o per prendere tempo. Non capivo. Dissi: «Avranno lasciato la porta aperta». La testa nell'ombra fece un cenno d'assenso. Era più bassa della mia. «Capite però come stanno le cose per noi. Se qualcuno ha lasciato la porta aperta, la cosa al capo non andrà molto a genio. Se non è stato così allora saremmo lieti di sapere come fate a trovarvi qui. Sono certo che afferrate il concetto». «È un concetto abbastanza semplice. Andiamo giù a parlare con lui».
«Siete qui in compagnia?». «In compagnia di gente molto simpatica». «Avreste dovuto restare con loro». «Sapete com'è: uno volta la testa un momento e subito c'è un altro che offre da bere alla donna». Egli fece un risolino. Poi sollevò lievemente il mento e lo riabbassò. Mi abbassai di scatto saltando di fianco e il sibilo del manganello fu una specie di sospiro nell'aria tranquilla. Eravamo arrivati al punto che qualsiasi manganello si metteva immediatamente in funzione appena comparivo io. Bene. Quello alto imprecò. Io dissi: «Avanti, fate pure gli eroi, adesso». Feci scattare sonoramente la sicura della rivoltella. Certe volte basta un gesto a non far crollare una casa. Quello alto si fermò impalato e vidi che il manganello gli pendeva dal polso. Quello col quale avevo parlato prima ci pensò sopra, senza fretta. «Non vi serve agire così», disse con serietà. «Non riuscirete a lasciare la nave». «Ci ho pensato. Ma ho pensato che non doveva importarvene poi tanto». Era sempre una scena assurda. «Che volete?» chiese l'uomo con calma. «Ho una rivoltella», dissi. «Ma non occorre che faccia sentire la sua voce. Voglio parlare con Brunette». «È andato a San Diego per affari». «Parlerò con chi lo sostituisce». «Siete un bel tipo», disse quello per bene. «Adesso andremo giù. Non vi darete più tante arie prima di uscire dalla porta». «Lo farò quando sarò sicuro di uscire da quella porta». Egli fece una risatina. «Torna al tuo posto, Slim. Ci penso io». Si mosse lentamente davanti a me. Quello alto sembrò sparire nel buio. «Seguitemi, allora». Ci muovemmo uno dietro l'altro sul ponte. Scendemmo per una scaletta ripida, la quale aveva strisce d'ottone sui gradini. In fondo c'era una porta pesante. Egli l'apri e osservò il catenaccio. Sorrise, fece un cenno d'assenso col capo, mi tenne aperti i battenti e io passai, mettendo in tasca la rivoltella. La porta si richiuse con uno scatto alle nostre spalle. Egli commentò: «Bella serata, finora». Davanti a noi c'era un arco dorato e oltre questo una sala da gioco, non
molto affollata. Aveva l'aspetto di una qualsiasi sala da gioco. In fondo alla sala era situato un piccolo bar con degli sgabelli. Nel mezzo una scala saliva e dall'alto scendeva una musica leggera. Sentii il rumore delle roulettes che giravano. Un uomo teneva banco di baccarat per un solo giocatore. Non c'era nella sala più di una sessantina di persone. Sul tavolo di baccarat si vedeva un mucchio di gettoni gialli con i quali si sarebbe potuto fondare una banca. Il giocatore era un signore anziano dai capelli bianchi che osservava l'uomo il quale teneva banco con un'espressione attenta e cortese, ma nulla di più. Due signori dall'aria pacifica, in giacca bianca, si fecero avanti verso di noi, passando sotto l'arco, senza guardare niente. C'era da prevederlo. Si avvicinarono. L'ometto che era con me li aspettava. Erano già al di qua dell'arco, quando negligentemente s'infilarono le mani in tasca, per cercare le sigarette, naturalmente. «Da questo momento faremo le cose in modo un po' più organizzato», disse l'ometto. «Vi dispiace?». «Voi siete Brunette», esclamai all'improvviso. Lui alzò le spalle. «Certo», ammise. «Non avete mica l'aria troppo feroce», notai. «Lo spero bene», rispose lui. I due uomini in giacca bianca mi si disposero cortesemente al fianco. «Di là», disse Brunette. «Potremo parlare con comodo». Aprì la porta e mi fece uscire sul ponte. Il luogo era una specie di cabina. Due lampade a muro si protendevano sopra una scrivania scura che non era di legno e poteva essere di materia plastica. In un angolo c'erano due armadietti di legno intarsiato. Uno era aperto e conteneva una mezza dozzina di album di dischi. Un grande radiogrammofono era in un altro angolo. C'erano un divano di cuoio rosso, un tappeto rosso, dei portacenere sul piedistallo, un piccolo scrigno con alcune sigarette, uno shaker, dei bicchieri e un piccolo bar nell'angolo opposto a quello degli armadietti. «Sedetevi», disse Brunette, e girò intorno alla scrivania. C'erano sullo scrittoio molte pratiche che avevano l'aria d'essere d'affari. Egli si sedette in una grande poltrona direttoriale e mi guardò. Poi si alzò di nuovo, si tolse la giacca e la cravatta e le gettò da una parte. Tornò a sedersi. Prese una penna e si stuzzicò con questa il lobo di un orecchio. Aveva un sorriso da gatto, ma a me i gatti piacciono. Non era né giovane né vecchio, né grasso né magro. Il lungo tempo tra-
scorso sull'oceano o nei suoi pressi gli aveva dato l'aspetto di una persona in buona salute. Aveva i capelli castani scuri naturalmente ondulati. La fronte era stretta e intelligente, i suoi occhi contenevano una cortese minaccia. Erano gialli. Aveva belle mani, non mani sciocche da ragazzino, ma ben curate. Il vestito a doppio petto doveva essere blu scurissimo, perché sembrava nero. Trovai che la perla sulla cravatta era un po' troppo grande; ma forse era invidia da parte mia. Egli mi fissò per parecchio tempo prima di dire: «Ha una rivoltella». Uno dei due bravi dalle belle maniere mi appoggiò contro la spina dorsale qualcosa che molto probabilmente non era una canna da pesca. Alcune mani mi frugarono, trovarono la rivoltella, cercarono se ce n'erano altre. «Altro?» chiese una voce. Brunette scosse il capo. «Per ora no». Uno dei due uomini fece scivolare la mia rivoltella sulla scrivania. Brunette posò la penna, prese un tagliacarte e con questo spinse delicatamente la rivoltella davanti a sé. «Bene», disse con calma, guardando oltre le mie spalle. «Devo spiegare che cosa desidero adesso?». Uno dei due uscì subito chiudendo la porta. L'altro se ne stava così immobile che era come se non ci fosse. Ci fu un lungo, piacevole silenzio, rotto solo dal brusìo di voci lontane e dal suono di una musica in sordina. «Bevete qualcosa?». «Grazie». Il gorilla preparò per due al bar. Non nascose i bicchieri, li piazzò sulla scrivania, sopra due piatti di vetro scuro. «Sigaretta?». «Grazie». «Le Egiziane vi piacciono?». «Certamente». Accendemmo. Bevemmo. Era ottimo Scotch. Il gorilla non bevve. «Quel che io vorrei...» cominciai. «Scusate, ma mi sembra d'importanza molto secondaria. Non vi pare?». La porta si aprì e rientrò l'altro. Con. lui c'era il guercio dalla giacca azzurra, che teneva la bocca atteggiata secondo le buone regole del banditismo. Mi dette un'occhiata e diventò bianco in faccia come un lenzuolo. «Da me mica è passato», disse in fretta, mordendosi le labbra. «Aveva una rivoltella», disse Brunette, spingendola col tagliacarte. «Questa. Me l'ha persino puntata contro!e costole o pressappoco, sul pon-
te». «Da me mica è passato, capo», disse il guercio. Brunette sollevò appena gli occhi gialli e mi fissò sorridendo. «E allora?» disse. «Sbattetelo via», dissi io. «Mettetelo a fare qualche altro lavoro». «Può confermarlo l'uomo del motoscafo», disse il guercio. «Sei stato sempre lì dalle cinque e mezzo?» chiese Brunette. «Ti sei allontanato mai?». «Mai un minuto, capo». «Non è una buona risposta. In un minuto può cadere un impero». «Mai un secondo, capo». «Ma se la lascia fare lo stesso», dissi io, e risi allegramente. Il guercio fece un passo avanti alla maniera dei pugilatori e il suo pugno quasi raggiunse la mia tempia. Si udì un colpo sordo. Il pugno parve dissolversi a mezz'aria. Il guercio cadde di fianco, si aggrappò a un angolo della scrivania, poi si rovesciò sul dorso. Era bello veder manganellare qualcun altro, tanto per cambiare. Brunette continuò a sorridermi. «Spero che non siate stato ingiusto con lui», disse. «C'è sempre la questione della porta chiusa col catenaccio». «Aperta per caso». «Non vi viene nessun'altra idea?». «Davanti a tanta gente?». «Allora parleremo da soli», disse Brunette guardando soltanto me. Il gorilla prese il guercio sotto le ascelle e lo trascinò attraverso la cabina. Il compare aprì una porta interna. Uscirono. L'uscio si chiuse. «Allora», chiese Brunette. «Chi siete e che cosa volete?». «Sono un investigatore privato e voglio parlare con un tale che si chiama Moose Malloy». «Dimostratemi che siete un investigatore privato». Glielo dimostrai. Lui gettò il mio portafoglio sulla scrivania. Le labbra secche per il vento continuavano a sorridere. «Sto facendo un'indagine su un assassinio», specificai. «L'assassinio di un certo Marriott a poca distanza dal vostro Club Belvedere, la sera di giovedì scorso. Questo assassinio sembra collegato con un altro, quello di una donna, commesso da Malloy, exgaleotto, scassinatore di banche e ricercato». Egli fece cenno di sì. «Non vi chiedo ancora come tutto questo riguardi
me. Penso che me lo direte. E se mi diceste come siete salito a bordo?». «Ve l'ho detto». «Non era vero», disse lui cortesemente. «Marlowe vi chiamate? Non era vero, Marlowe. Lo sapete benissimo. Quel ragazzo non dice bugie. Io scelgo con molta cura i miei uomini». «Voi siete il padrone di una parte di Bay City», precisai. «Non so come sia grande questa parte, ma è grande quel tanto che interessa a me. Un tale che si chiama Sonderborg ha a Bay City un posto dove nasconde gente. Oltre a nascondere ricercati dalla polizia, vende stupefacenti. Naturalmente non potrebbe far questo se non avesse delle relazioni. Io non credo che possa farlo senza di voi. Malloy era da lui. Se n'è andato. Malloy è alto due metri ed è difficile da nascondere. Ho pensato che potrebbe nascondersi facilmente su una nave-bisca». «Siete molto ingenuo», disse con calma Brunette. «Ammettendo il caso che io avessi voluto nasconderlo, perché avrei dovuto prendermi qui il rischio?». Bevve un sorso dal bicchiere. «Inoltre io mi occupo di altri affari. È già abbastanza difficile far funzionare senza complicazioni un buon servizio di motoscafi-taxi. Il mondo è pieno di posti dove un delinquente può nascondersi. Se ha quattrini. Non potreste farvi venire un'idea migliore?». «Potrei, ma non ne ho voglia». «Non posso far nulla per voi, allora. Così, come siete salito a bordo?». «Non ho voglia di dirvelo». «Temo che dovrò costringervi a dirmelo, Marlowe». I suoi denti brillarono alla luce delle lampade. «Sapete bene che mi è possibile». «Se ve lo dico, farete avere un'ambasciata a Malloy?». «Che ambasciata?». Presi il mio portafoglio dalla scrivania, estrassi un biglietto da visita e lo voltai dalla parte bianca. Rimisi in tasca il portafoglio e presi una matita. Scrissi cinque parole sul retro del biglietto e lo tesi attraverso la scrivania. Brunette lo prese e lesse quello che avevo scritto. «Non mi dice niente», disse. «A Malloy dirà qualcosa». Egli si appoggiò indietro. «Non vi capisco. Voi mettete a repentaglio la vostra tranquillità per venire qui a darmi un biglietto da fare avere a un delinquente che io non conosco nemmeno. È una cosa che non ha senso». «Non ha senso se voi non conoscete Malloy». «Perché non avete lasciato a riva la rivoltella e non siete venuto seguendo la via normale?».
«La prima volta me ne sono dimenticato. Poi ho capito che quel tipo in giacca azzurra non mi avrebbe mai lasciato salire. Poi ho incontrato uno che conosceva un'altra strada». I suoi occhi gialli si accesero di una luce nuova. Sorrise senza dir nulla. «Quest'altro non è una spìa ma solo uno che è stato sulla spiaggia con le orecchie bene aperte. Avete un boccaporto che non è sbarrato e un condotto d'aerazione dall'interno del quale è stata tolta la grata. C'è da abbattere un solo uomo per arrivare sul ponte. Dovreste fare l'appello dell'equipaggio, Brunette». Egli mosse le labbra piano. Guardò di nuovo il biglietto. «Non c'è a bordo nessuno che si chiami Malloy», ripeté. «Ma se avete detto la verità su quel boccaporto, vi pagherò il prezzo che chiedete». «Andate a guardare». Egli esaminò di nuovo il biglietto da visita. «Se posso fare avere l'ambasciata a Malloy, lo farò certamente. Chissà perché mi prendo tanta pena». «Andate a dare un'occhiata a quel boccaporto». Egli rimase seduto immobile per un momento, poi si chinò avanti e spinse la rivoltella verso di me attraverso la scrivania. «Quante cose faccio», scherzò, come se parlasse fra sé. «Compro i paesi, eleggo i sindaci, corrompo la polizia, traffico in stupefacenti, nascondo i ricercati, alleggerisco le vecchie quasi strangolate dai troppi gioielli. Quanto tempo dovrei avere». Fece una risata. «Quanto tempo per far tante cose!». Io presi la rivoltella e la riposi nella fondina sotto la giacca. Brunette si alzò: «Non vi ho promesso niente», disse, fissandomi. «Ma mi fido di voi». «Molto strano». «Avete rischiato molto per sapere ben poco». «Già». «Bene...», egli fece un gesto vago, poi mi tese la mano attraverso la scrivania. «Stringete la mano a un amico», disse. Ci stringemmo la mano. La sua era piccola, ferma, un po' calda. «Non volete dirmi come avete scoperto quel boccaporto?». «Non posso. Ma l'uomo che me lo ha detto non è una spia». «Potrei costringervi a dirmelo», disse, e subito scosse il capo. «No. Mi sono fidato una volta e voglio fidarmi ancora. Sedetevi e bevete un altro bicchiere».
Suonò il campanello. La porta si aprì e comparve uno dei due banditi gentiluomini. «Resta qui. Offrigli da bere, se vuole. Niente modi bruschi». L'uomo si sedette e mi sorrise con tutta calma. Brunette uscì in fretta dall'ufficio. Io fumai una sigaretta e finii il mio bicchiere. Il bandito gentiluomo me ne versò un altro. Vuotai anche questo e fumai un'altra sigaretta. Brunette tornò e andò a lavarsi le mani in un angolo, poi si sedette di nuovo allo scrittoio. Fece al gentiluomo un cenno col capo. Il gentiluomo uscì in silenzio. Gli occhi gialli mi osservarono. «Avete vinto, Marlowe. E dire che ho centosessantaquattro uomini d'equipaggio. Bene», alzò le spalle. «Potete tornare a riva col motoscafo. Nessuno vi darà fastidio. Quanto alla vostra ambasciata, ho qualche relazione. Me ne servirò. Buona notte. Probabilmente dovrei dirvi grazie. Per le informazioni». «Buonanotte», dissi io. Mi alzai e uscii. Alla scaletta c'era un uomo nuovo. Tornai a riva con un altro motoscafo. Mi diressi al gioco delle bocce e mi appoggiai al muro dietro la folla. Poco dopo arrivò Red e si appoggiò al muro accanto a me. «Andata bene, eh?» disse piano Red, fra le urla di quelli che chiamavano i numeri. «Grazie a te. Ha comprato l'informazione. Si è preoccupato». Red mi guardò e mi avvicinò ancora un po' le labbra all'orecchio. «Trovato il tuo uomo?». «No. Ma spero che Brunette avrà modo di fargli avere l'ambasciata». Red si voltò di nuovo e guardò i numeri. Sbadigliò e si staccò dal muro. Era entrato di nuovo l'uomo dal naso a becco. Red gli passò accanto dicendo: «Ohilà, Olson», e lo buttò quasi a terra con l'urtone distratto che gli dette passando. Olson lo guardò allontanarsi con antipatia e si aggiustò il cappello in testa. Poi sputò rabbiosamente in terra. Appena si fu allontanato io me ne andai e mi diressi al parcheggio dove avevo lasciato l'auto. Tornai a Hollywood, misi la macchina in garage e salii in casa. Mi tolsi le scarpe e camminai per casa solo con le calze, tastando il pavimento con le dita dei piedi. Di quando in quando me li sentivo ancora addormentati. Poi mi sedetti sul letto già pronto per la notte e cercai di calcolare quanto
tempo ci voleva. Non lo si poteva fare con precisione. Forse ci volevano ore o giorni per trovare Malloy. E poteva darsi che non lo si trovasse finché non l'avesse preso la polizia. Se mai l'avessero preso. Vivo. CAPITOLO XXXIX Erano le dieci circa quando chiamai il numero telefonico dei Grayle, a Bay City. Credevo che fosse ormai troppo tardi per trovarla ancora in casa, invece no. Mi feci strada fra una cameriera e il maggiordomo e finalmente sentii la voce di lei al microfono. Sembrava giuliva e ben disposta per la serata. «Avevo promesso di telefonarti», dissi. «È un po' tardi, ma ho avuto molto da fare». «Un altro bidone?». La sua voce si fece gelida. «Forse no. Il tuo autista è ancora in servizio a quest'ora?». «Sta in servizio finché glielo dico io». «Perché allora non passi a prendermi? Intanto io mi faccio bello e distinto». «Che carino», disse lei. «Devo pigliarti sul serio?». Amthor certamente le aveva fatto un bel lavoro ai centri nervosi della parola, ammesso che avessero mai avuto difetti. «Ti mostrerò il mio vaso cinese». «Uno solo? Non è una collezione di vasi cinesi, in questi casi?». «Ho una stanza sola». «Ah, così». Lei cambiò tono. «Senti, non farti mica pregare tanto, giovanotto. Sei un bel tipo, però, e non ci credere se ti dicono il contrario. Dammi di nuovo l'indirizzo». Glielo detti. «Il portone è chiuso», dissi. «Ma scenderò io a lasciare aperto il catenaccio». «Molto bene», rispose lei. «Così non dovrò portarmi dietro il grimaldello». Agganciò, lasciandomi con la curiosa sensazione di aver parlato a qualcuno che non esisteva. Scesi ad aprire il portone, poi feci una doccia, indossai il pigiama e mi distesi sul letto. Avrei dormito volentieri una settimana. Mi alzai con fatica e misi la catena alla porta, cosa che avevo dimenticato di fare. Poi andai in cucina e tirai fuori i bicchieri e una bottiglia di Scotch che avevo riservato per le grandi occasioni galanti.
Mi distesi di nuovo sul letto. «Bisogna pregare, adesso», dissi forte. «La preghiera è l'unica cosa che resta». Chiusi gli occhi. Le quattro pareti della stanza parevano contenere il ronzio di una nave, l'aria tranquilla sembrava impregnata di nebbia e di salmastro. Sentii l'odore dell'olio delle macchine, salii e salii su per un tubo d'aerazione. Salii sull'Himalaya e mi trovai in cima circondato da uomini coi fucili mitragliatori. Parlai con un ometto dagli occhi gialli, stranamente comprensivo, che era un bandito e forse peggio. Pensai al gigante coi capelli rossi e gli occhi viola, il quale era probabilmente la persona più per bene che avessi incontrato mai. Smisi di pensare. Alcune luci si muovevano dietro le mie palpebre chiuse. Ero perduto nello spazio. Ero un manganello d'oro che tornava da una inutile avventura; un pacco di cento dollari che scoppiava come dinamite; un insetto rosa che si arrampicava su per la facciata del Municipio. Ero addormentato. Mi svegliai con fatica, malvolentieri, e i miei occhi fissarono la luce della lampada che si rifletteva sul soffitto. Qualcosa si muoveva nella stanza. Era un movimento furtivo, lento, pesante. Ascoltai. Poi voltai lentamente la testa e scorsi Moose Malloy. Si muoveva nella penombra, senza rumore, come l'altra volta che l'avevo visto. La rivoltella che teneva in mano era lustra, imponente. Il cappello era gettato indietro sui capelli neri ricci. Soffiava col naso, come un cane da caccia sulla pista. Vide che aprivo gli occhi. Si accostò piano al letto e mi guardò. «Ho avuto il biglietto», disse. «Sono venuto, ma niente scherzi e niente polizia. Se è un tranello, siamo in due». Io mi girai un po' sul letto e lui frugò in fretta sotto i cuscini. Aveva il volto pallido, gli occhi profondi erano in un certo modo gentili. Questa volta indossava un soprabito. Gli andava strettissimo. Lo aveva scucito a una spalla, probabilmente appena lo aveva indossato. Doveva essere la misura più grande che fosse disponibile, ma tuttavia non era grande abbastanza per Moose Malloy. «Ci contavo che venissi», dissi io. «Nessun poliziotto sa niente. Volevo solo vederti». «Avanti», fece lui. Si accostò al tavolo e vi posò la rivoltella. Si tolse il soprabito e si sedette nella mia migliore poltrona. Questa scricchiolò, ma resistette. Si appoggiò lentamente indietro e dispose la rivoltella in modo da averla a portata della mano destra. Tolse di tasca un pacchetto di sigarette, l'apri e ne mise
una in bocca senza toccarla con le dita. Un fiammifero si accese sull'unghia del pollice. Un odore di fumo forte si diffuse per la stanza. «Stai male?» chiese. «Mi sto riposando. Ho avuto una giornata faticosa». «C'era la porta aperta. Aspetti qualcuno?». «Una donna». Lui mi fissò con sospetto. «Magari non viene», dissi. «Se viene, la faccio aspettare». «Che donna?». «Oh, una donna qualunque. Se viene, la mando via. Preferisco parlare con te». Un sorriso impercettibile gli comparve sulle labbra. Fumava la sigaretta con malavoglia, come se fosse troppo piccola da tenere fra le sue dita. «Come hai fatto a pensare che ero sul Montecito?» chiese. «È stato un poliziotto di Bay City. Ma è una storia troppo lunga e complicata». «La polizia di Bay City mi cerca?». «Ti preoccuperebbe la cosa?». Egli fece di nuovo quel lieve sorriso. Scosse appena il capo. «Hai ucciso una donna», dissi. «Jessie Florian. È stato un errore». Lui rifletté. Poi fece segno di sì. «Ma non parliamone», rispose con calma. «Ma è stato un guaio», confermai. «Io non ho paura di te. Tu non sei un assassino. Non l'hai fatto apposta a ucciderla. Da quell'altro — quello in Central Avenue — potevi anche cavartela. Ma non da questo: una donna picchiata con la testa sulla spalliera del letto, da farle schizzare il cervello in faccia». «Ti piace scherzare col fuoco, fratello», disse lui sempre calmo. «Ormai non ci faccio più caso», risposi. «Tu non l'hai fatto apposta a ucciderla. È così?». Gli occhi del gigante si muovevano irrequieti. La testa era china e attenta. «Sarebbe ora che ti rendessi conto della tua forza». «È troppo tardi», rispose lui. «Tu volevi che lei ti dicesse qualcosa», continuai. «L'hai afferrata per il collo e l'hai sbattuta. Lei era già morta quando hai cominciato a picchiarle la testa contro la spalliera del letto». Egli mi fissò.
«Io so cosa volevi ti dicesse», dissi. «Vai avanti». «C'era un poliziotto con me quando trovammo il cadavere. Ho dovuto stare attento». «Come attento?». «Molto attento. Fino a stasera». Egli mi fissò. «Ma come sapevi che ero sul Montecito?». Me l'aveva già chiesto. Sembrava esserselo dimenticato. «Non lo sapevo. Ma il modo più facile di tagliare la corda era per via d'acqua. Con l'attrezzatura che c'è a Bay City potevi arrivare facilmente su una di quelle navi-bisca. E di lì potevi andartene. Naturalmente, aiutato». «Laird Brunette è un tipo in gamba», disse lui con aria assente. «Così ho sentito dire. Mica l'ho visto mai». «Ti ha fatto avere lui l'ambasciata?». «Eh, poteva trovare tante vie per arrivare. Quando facciamo quello che dicevi nel biglietto? Ho pensato che fai sul serio. Se no, mica sarei venuto. Dove dobbiamo andare?». Spense la sigaretta e mi guardò. La sua ombra si proiettava sul muro. L'ombra di un gigante. Era così grosso che non sembrava nemmeno vero. «Come hai fatto a pensare che ero stato io a far fuori Jessie Florian?» chiese all'improvviso. «Le impronte delle dita sul collo. Il fatto che tu volevi sapere qualcosa da lei e che sei tanto forte da uccidere la gente senza volerlo». «Anche la polizia lo sa?». «Non lo so». «Che volevo io da lei?». «Pensavi che forse lei sapeva dov'era Velma». Lui assentì in silenzio e continuò a fissarmi. «Ma lei non lo sapeva», dissi, «Velma era troppo più importante di lei». Si udì bussare piano alla porta. Malloy si chinò un po' avanti e impugnò la rivoltella. Qualcuno tentò di aprire la maniglia. Malloy si alzò e rimase in ascolto. Guardò la porta, poi guardò me. Io mi levai a sedere sul letto, misi i piedi a terra, mi alzai. Andai alla porta. «Chi è?» chiesi accostando la bocca alla porta. La voce di lei era normalissima. «Apri, stupido». «Un secondo solo».
Guardai Malloy, che era accigliato. Mi avvicinai a lui e gli dissi a voce bassa: «Non c'è altro sistema. Vai nello spogliatoio dietro il letto e aspetta lì. La manderò via». Egli mi ascoltò e rifletté. La sua espressione era indecifrabile. Era un uomo il quale non aveva molto da perdere e non sapeva che cosa fosse la paura. Non era mai entrata, la paura, in quella struttura di colosso. Si alzò, prese il cappello e il soprabito, girò intorno al letto ed entrò nello spogliatoio. La porta si chiuse, ma non completamente. Mi guardai intorno per vedere se lasciava sue tracce. C'era solo una cicca di sigaretta che poteva esser stata fumata da chiunque. Andai alla porta e l'aprii. Malloy entrando aveva chiuso di nuovo il catenaccio. Lei apparve in piedi, con un mezzo sorriso, nel mantello da sera dal gran collo di volpi bianche di cui mi aveva parlato. I pendagli di smeraldi degli orecchini affondavano nella soffice pelliccia bianca. Le dita che stringevano la borsetta da sera erano lisce e belle. Quando mi vide, il sorriso sparì dal suo volto. Mi squadrò. Ora aveva uno sguardo gelido. «Così, dunque», disse con aria cupa. «Pigiama e vestaglia. Che stupida sono». Io mi feci da parte tenendole aperta la porta. «Non è così per niente. Mi stavo vestendo, è venuto a trovarmi un poliziotto. Se n'è appena andato». «Randall?». Io feci cenno di sì col capo. Una bugia con un cenno del capo è sempre una bugia, ma è meno grave. Lei esitò un momento, poi mi passò davanti lasciando una scia di profumo. Chiusi la porta. Lei attraversò lentamente la stanza, si fermò a guardare la parete di fronte, poi bruscamente si voltò. «Cerchiamo d'intenderci», disse. «Io non sono a questo punto. Mica mi interessa il romanzetto di andare in camera con qualcuno. C'è stato un periodo della mia vita in cui ho avuto anche troppa roba di questo genere. Adesso mi piacciono le cose fatte con un certo tono». «Bevi qualcosa prima di andar via?». Io ero sempre appoggiato alla porta, dall'altra parte della stanza. «Sto andando via?». «Mi hai dato l'impressione che non ti piaccia star qui». «Voglio chiarire un punto. E mi spiace di dover essere un po' volgare, ma ci vuole. Io non sono una puttana senza pretese. Io ci sto. Ma non al primo momento. Va bene, beviamo qualcosa».
Andai in cucina e preparai da bere per due, con mani che non erano troppo ferme. Portai i bicchieri di là e ne tesi uno a lei. Dallo spogliatoio non veniva nessun rumore, neanche un soffio. Lei prese il bicchiere, l'assaggiò, poi fissò la parete. «Non mi piace che gli uomini mi ricevano in pigiama», disse. «È una cosa buffa. Tu mi sei piaciuto. Mi sei piaciuto molto. Ma son capace di farla finita. L'ho fatta finita tante volte con cose del genere». Io annuii e bevvi. «La maggior parte degli uomini sono luride bestie», disse lei. «In definitiva il mondo è ben lurido, se vuoi saperlo». «Forse il denaro serve». «Si crede così, quando non lo si è sempre avuto. In realtà non fa che creare nuovi problemi». Sorrise in modo strano. «E ci si dimentica quant'erano complicati i problemi vecchi». Tolse dalla borsetta un portasigarette d'oro e io mi avvicinai porgendole un fiammifero. Lei soffiò una nuvola di fumo e l'osservò con gli occhi socchiusi. «Siediti vicino a me», disse all'improvviso. «Parliamo prima un po'». «Di che? Della collana?». «Dell'omicidio». Niente mutò sul suo volto. Soffiò un'altra nuvola di fumo, questa volta più lentamente. «È un argomento spiacevole. Dobbiamo proprio parlarne?». Io alzai le spalle. «Lin Marriott non era uno stinco di santo», lei disse. «Pure non mi fa piacere parlarne». Mi fissò con freddezza per un attimo, poi infilò la mano nella borsetta per prendere il fazzoletto. «Per me, non credo nemmeno che fosse la pedina di una banda di rapinatori», dissi io. «La polizia finge di crederlo, ma finge tante cose. Secondo me non era nemmeno un vero e proprio ricattatore. Buffo, vero?». «Sì?». La sua voce era adesso più che mai gelida. «Già», continuai io, vuotando il mio bicchiere. «Sei stata molto gentile a venire qui. Ma forse abbiamo sbagliato tono. Io non credo, per esempio, nemmeno che Marriott sia stato assassinato da una banda. Secondo me non andava in quel posto a riscattare una collana di giada. Secondo me nessuna collana di giada era stata mai rubata. Secondo me andò in quel posto per
essere assassinato, benché credesse di andare a collaborare a un omicidio. Ma Marriott come assassino valeva poco». Lei si chinò un po' avanti, verso di me, il suo sorriso si fece come di vetro. Poi, all'improvviso, cessò di essere bella. Prese l'aria di una donna che un secolo fa poteva essere pericolosa e vent'anni fa provocante, ma che al giorno d'oggi era appena un tipo Hollywood di seconda categoria. Non disse niente, ma con la mano destra tamburellava sulla cerniera della borsetta. «Un assassino da poco», dissi. «Come il Secondo Assassino di Shakespeare in quella scena del Riccardo III. Quello che ha degli scrupoli di coscienza, eppure vuole il denaro, e alla fine non fa quello che deve fare perché non riesce a decidersi. Assassini del genere sono molto pericolosi. Vanno tolti di mezzo. Certe volte con una manganellata». Lei sorrise. «E chi doveva uccidere, secondo te?». «Me». «È poco verosimile, che qualcuno ce l'avesse tanto con te. Hai detto anche che la mia collana di giada non è stata mai rubata. Hai qualche prova di tutto questo?». «Non ho detto di avere prove. Ho detto di aver pensato queste cose». «E allora perché siamo così stupidi da starne a parlare?». «Le prove», precisai, «sono sempre una cosa relativa. È un di più sulla bilancia delle probabilità. E l'importante è il modo in cui si trovano, le prove. C'era un motivo piuttosto debole per assassinare me — semplicemente che io stavo cercando di rintracciare una ex-canzonettista di un locale di Central Avenue proprio mentre un galeotto che si chiama Moose Malloy usciva di prigione e si metteva anche lui a cercarla. Poteva darsi che io aiutassi lui a trovarla. Certo doveva essere possibile trovarla, altrimenti non si sarebbe potuto convincere Marriott che io dovevo essere ucciso al più presto. E certo lui non si sarebbe convinto, se non fossero state così le cose. Ma c'era una ragione ben più importante per assassinare Marriott, un motivo che egli sottovalutò per vanità, per amore, per bramosia di denaro, o per un misto di tutte e tre le cose. Egli aveva paura, ma non per se stesso. Aveva paura del delitto cui partecipava e per il quale poteva andare in galera. Ma d'altra parte doveva farlo per mangiare. Così corse il rischio». Mi interruppi. Lei mi fece un cenno di approvazione col capo e disse. «Molto interessante. Se almeno si capisse di che stai parlando». «Ma si capisce», dissi io. Ci fissammo. Lei aveva di nuovo la mano destra nella borsetta. Io mi fi-
guravo che cosa stringesse quella mano. Però ancora non veniva fuori. Le cose vengono fuori una alla volta. «Smettiamola di giocare», continuai. «Siamo soli qui. Niente di quello che dice uno di noi può avere importanza per l'altro. Ci neutralizziamo a vicenda. Una ragazza che ha cominciato dal marciapiede diventa moglie di un miliardario. Dopo un po' una vecchia pezzente la riconosce — forse l'ha sentita cantare alla radio e ha riconosciuto la voce ed è andata a trovarla — e questa vecchia bisogna tenerla buona. La vecchia costa poco, perché non sa gran che. Ma l'uomo che tratta con la vecchia, che le fa avere i soldi ogni mese e che ha un'ipoteca sulla sua casa in modo da poterla gettare sul lastrico appena lei facesse i capricci — quest'uomo sa tutto. E costa molto. Non importa, finché nessun altro lo sa. Ma un giorno un brutto tipo che si chiama Moose Malloy esce di galera e si mette alla ricerca della sua ragazza di una volta. Infatti il bestione l'amava. E l'ama ancora. Questo è il lato comico, grottesco. A questo punto un poliziotto privato ficca anche lui il naso nella faccenda. Così l'anello più debole della catena, Marriott, cessa di essere un lusso. Diventa un pericolo. Lo possono trovare e tirarlo dalla loro parte. Lui è un tipo fatto così. È un tipo che al caldo si scioglie. Perciò, prima che potesse sciogliersi, è stato ucciso. Con un manganello. Da te». Tutto quel che fece lei fu tirar fuori dalla borsetta la mano che impugnava una pistola. E tutto quel che fece fu puntarmela addosso sorridendo. E tutto quel che feci io fu non far niente. Dallo spogliatoio però si avanzò Moose Malloy, con la Colt calibro 10 che sembrava sempre un giocattolo nella sua grossa mano pelosa. Non guardò neanche me. Guardò la signora Merwin Lockridge Grayle. Si chinò avanti, la sua bocca sorrise. Le parlò con dolcezza. «Mi pareva di conoscere la voce», disse. «Ho sentito questa voce per otto anni, la ricordavo bene. Però forse mi piacevi di più coi capelli rossi. Ciao bambina. È tanto tempo che non ti vedo». Lei puntò la pistola su di lui. «Vattene, figlio di puttana», disse. Lui si fermò e lasciò cadere a terra la rivoltella. Era a meno di un metro da lei. Ansimò. «Non ci avevo pensato», disse calmo. «Mi è venuto in mente solo adesso. Sei stata tu a consegnarmi alla polizia. Tu. Piccola Velma». Gettai un cuscino ma arrivai tardi. Lei gli sparò cinque colpi nello stomaco. I proiettili non fecero più rumore di alcune dita che s'infilano in un
guanto. Poi voltò la pistola e sparò contro di me, ma era vuota. Si gettò a terra per prendere la rivoltella di Malloy sul pavimento. Non sbagliai col secondo cuscino. Ero già dall'altra parte del letto e l'avevo respinta prima che se lo togliesse dalla faccia. Raccolsi la Colt e tornai dall'altra parte del letto. Lui era ancora in piedi, ma vacillava. Aveva la bocca aperta e le braccia gli penzolavano inerti. Si accasciò in ginocchio e cadde di fianco sul letto, a faccia in giù. Il suo respiro ansimante riempiva la stanza. Io avevo già afferrato il telefono prima che lei si muovesse. Aveva gli occhi di un grigio opaco, come l'acqua che sta per gelare. Si lanciò verso la porta e io non cercai di fermarla. Lasciò la porta aperta, così quando ebbi fatto la telefonata dovetti chiuderla. A lui girai un po' la testa sul letto, in modo che non gli mancasse l'aria. Era ancora vivo, ma con cinque palle in corpo neanche un Moose Malloy sopravvive a lungo. Tornai al telefono e chiamai Randall a casa sua. «Malloy è qui in casa mia. Con cinque palle in corpo che gli ha sparato la signora Grayle. Ho chiamato il Pronto Soccorso. Lei se n'è andata». «Così hai voluto fare lo spiritoso», fu tutto quel che disse lui, e riappese in fretta. Ritornai presso il letto. Malloy era adesso in ginocchio, tentava di rialzarsi, stringeva in una mano un grosso lembo del lenzuolo. Il volto grondava sudore. Le palpebre gli battevano e aveva neri i lobi delle orecchie. Era ancora in ginocchio a cercar di rialzarsi quando arrivò l'ambulanza. Ci vollero quattro uomini per metterlo sulla barella. «Può ancora cavarsela, se sono di calibro 8», disse prima di uscire il dottore dell'ambulanza. «Tutto dipende da quello che hanno colpito dentro. Ma una probabilità di cavarsela ce l'ha». «Non saprebbe che farsene», risposi io. Non se ne fece niente. Morì durante la notte. CAPITOLO XL «Avreste dovuto dare un pranzo», disse Anne Riordan. Mi guardava stando dall'altra parte del tappeto a disegni. «Argenteria splendente, cristalleria e tovaglie candide — ammesso che si usino ancora le tovaglie nei pranzi di gala — le donne coi più bei gioielli e gli uomini in cravatta bianca, i camerieri che girano discreti con le bottiglie di vino avvolte nei tovaglioli, i poliziotti a disagio nei vestiti da sera presi a nolo, e i tipi sospetti
che sorridono imbarazzati e non riescono a tener ferme le mani, e voi a capotavola che raccontate tutto a poco a poco, col vostro affascinante accento inglese fasullo alla maniera di Philo Vance». «Già», risposi io. «Che ne direste se io avessi qualcosa da tenere in mano mentre voi continuate a fare la spiritosa?». Anne Riordan andò in cucina, spezzò il ghiaccio, tornò con un paio di alti bicchieri e si sedette. «Dovete far spendere molto in liquori alle vostre amiche», disse bevendo un sorso. «E all'improvviso», feci io, «è svenuto il maggiordomo, quando l'ha sap to. Mica era stato lui a commettere il delitto. Ma è svenuto tanto per far qualcosa». Bevvi. «Non è così, in realtà», dissi. «Non è una storia né brillante né spiritosa. È soltanto una storia fosca e piena di sangue». «Così è scomparsa?». Annuii. «Finora. Non è neanche andata a casa. Doveva avere un piccolo nascondiglio dove cambiare d'abito e d'aspetto. Dopo tutto viveva in costante pericolo, come i marinai. Era sola quando venne da me. Senza autista. Venne con una automobile piccola e la lasciò a parecchi portoni di distanza dal mio». «La prenderanno... se ci si mettono sul serio». «Non siate così. C'è l'ispettore Wilde sulle sue tracce. Lo conosco, ho lavorato con lui. Ma anche se la prendono, e poi? Si trovano di fronte venti milioni di dollari, un volto affascinante e Lee Farrell oppure Rennenkamp. Sarà terribilmente difficile provare che ha ucciso Marriott. Tutto quel che hanno è un movente e la sua vita passata, se riescono a scoprirla. Probabilmente non deve avere precedenti giudiziari, o non avrebbe agito così». «E Malloy? Se me ne aveste parlato prima, avrei capito subito chi era lei. Ma voi come avete fatto a comprenderlo? Quelle due foto non sono della stessa donna». «No. Mi chiedo persino se la vecchia Florian sapesse che l'avevano imbrogliata. Sembrò sorpresa quando io le portai via di sotto il naso la foto di Velma, quella dietro la quale stava scritto Velma Valento. Ma forse lo sapeva. Poteva averla nascosta solo con l'idea di vendermela più tardi. Sapendo che era innocua, una qualsiasi foto di ragazza che Marriott aveva sostituito a quella autentica». «È una supposizione». «Dev'essere così. Proprio come quando Marriott mi telefonò e mi contò
tutta la filastrocca del riscatto da pagare per quei gioielli, dovette essere perché io ero andato dalla Florian a chiederle di Velma. E quando Marriott fu ucciso, dovette essere perché era l'anello debole della catena. La signora Florian non sapeva nemmeno che Velma era diventata la signora Merwin Lockridge Grayle. Non poteva saperlo. Si faceva pagare troppo poco. Grayle dice che andarono in Europa e lei si sposò col suo vero nome. Non dice né quando né dove. Non vuol dire qual è il vero nome di lei. Non vuol dire dov'è. Secondo me non lo sa, ma la polizia è convinta che lui lo sappia». «E perché non vuol dirlo?». Anne Riordan appoggiò il mento sulle dita intrecciate e mi guardò con occhi circondati d'ombra. «È tanto pazzo di lei che non gli importa sulle ginocchia di chi si siede». «Spero che le sia piaciuto sedersi sulle vostre», disse con acidità Anne Riordan. «Mi prendeva in giro. Aveva un po' paura di me. Non voleva uccidermi perché è un brutto affare uccidere uno che è una specie di poliziotto. Ma probabilmente si sarebbe decisa a farlo, così come avrebbe ucciso Jessie Florian, se Malloy non le avesse risparmiato il disturbo». «Dev'esser divertente essere presi in giro da bionde così fascinose», disse Anne Riordan. «Anche se è un po' rischioso. Come del resto credo che sia sempre, in questi casi». Non risposi. «Credo che non potranno farle niente per avere ucciso Malloy, perché lui aveva una rivoltella». «No, certo. Con gli appoggi che ha». Gli occhi pieni di pagliuzze d'oro mi fissarono con solennità. «Secondo voi l'ha fatto apposta a uccidere Malloy?». «Aveva paura di lui», risposi. «Lo aveva fatto arrestare otto anni fa. Lui l'aveva capito. Ma non le avrebbe fatto niente di male. Era sempre innamorato di lei. Sì, secondo me, lei era pronta a uccidere chiunque le fosse necessario uccidere. Doveva lottare molto, per resistere. Ma cose del genere non possono andare avanti a tempo indefinito. Tentò di spararmi in casa mia... ma la rivoltella era scarica. Avrebbe dovuto uccidermi quella notte che uccise Marriott». «Egli era innamorato di lei», disse a bassa voce Anne. «Voglio dire Malloy. Non gli importava che lei non gli avesse mai scritto da sei anni e non fosse andata a trovarlo in prigione. Non dava importanza al fatto che l'avesse fatto arrestare per incassare la taglia. Egli si comprò semplicemente dei bei vestiti nuovi e si mise a cercarla, per prima cosa, appena fuori. E lei
gli ha piantato cinque palle in corpo, come dicesse ciao come va. Lui per parte sua aveva ucciso due persone, ma era innamorato di lei. Che mondo!». Io vuotai il bicchiere e assunsi di nuovo l'espressione dell'uomo che ha sete. Lei finse di non accorgersene. Continuò: «Lei dovette dire a Grayle di dove veniva e lui non ci fece caso. Andò all'estero a sposarla con un altro nome, vendette la stazione radio e ruppe ogni contatto con chiunque potesse conoscerla; le dava tutto quello che il denaro può dare e lei gli dava... Che gli dava lei?». «È difficile dirlo». Scossi ostentatamente il ghiaccio nel bicchiere, ma non mi servì a ottenere niente. «Secondo me doveva nutrire una specie di orgoglio per il fatto di avere, benché vecchio, una moglie giovane, bella e fascinosa. L'amava. Ma che ne parliamo a fare? Non gl'importava niente con chi andava lei o che cosa era stata prima. Lui l'amava». «Come Moose Malloy», disse con calma Anne. «Andiamo a fare una passeggiata in auto», proposi. «Non mi avete detto niente di Brunette, né dei biglietti da visita che erano in quelle sigarette, né di Amthor e di Sonderborg, né della piccola chiave che vi ha aperto la strada verso la grande soluzione». «Avevo dato alla Florian uno dei miei biglietti da visita. Lei ci posò sopra un bicchiere sporco. Quel biglietto era in tasca a Marriott, con tanto d'impronta. Era una chiave, in qualche modo. Sospettando qualcosa era facile scoprire dei legami, come il fatto che Marriott aveva un'ipotecacatenaccio sulla casa della signora Florian per farla rigare dritto. Quanto a Amthor gli è andata male. Lo hanno preso in un albergo di New York e pare che sia un pregiudicato internazionale. Ci sono le sue impronte a Scotland Yard e anche a Parigi. Questi ragazzi della polizia sanno lavorare in fretta, quando ne hanno voglia. Randall secondo me ha tessuto la ragnatela per giorni e giorni e doveva aver paura che io ci entrassi in mezzo spezzando i fili. Ma Amthor non aveva niente a che fare con nessun omicidio. Né con Sonderborg. Non hanno trovato finora nemmeno Sonderborg. Pensano che sia un pregiudicato. Quanto a Brunette, non si può far niente contro uno come lui. Lo citeranno davanti al Grand Jury e lui rifiuterà di fare qualunque dichiarazione in base ai propri diritti. Non è un tipo che debba preoccuparsi della propria reputazione. Ma intanto qui a Bay City si sta svolgendo un bel mutamento. Il capo della polizia è stato dimesso e metà dei poliziotti sono stati passati alla polizia stradale, e una persona molto perbene, un tale Red Norgaard, che mi aveva aiutato a salire sul Montecito,
ha riavuto il posto. È il sindaco che sta facendo tutto questo, e si cambia le mutande due volte all'ora». «Che bisogno avete di esprimervi in questo modo?». «È un'immagine degna di Shakespeare. Andiamo a fare una passeggiata in macchina. Poi berremo qualcos'altro». «Potete finire il mio», disse Anne Riordan. Si alzò porgendomi il suo bicchiere quasi intatto. Mi rimase di fronte in piedi, con un'espressione strana, come di spavento, nello sguardo. «Siete fantastico», disse. «Così coraggioso, così risoluto, così disposto a lavorare per pochi quattrini. Tutti vi prendono a manganellate in testa, vi strangolano, vi spaccano la mascella e vi riempiono di morfina, ma voi continuate a tirar dritto come se niente fosse finché li avete fatti fuori tutti. Ma com'è che siete così straordinario?». «Avanti», io grugnii. «Dite tutto». Allora Anne Riordan disse con serietà: «Avrei voglia di essere baciata, accidenti a voi!». CAPITOLO XLI Ci vollero tre mesi per trovare Velma. Non volevano credere che Grayle non sapesse dov'era e che non l'avesse aiutata a fuggire. Perciò poliziotti e giornalisti di tutto il paese l'andarono a cercare in ogni posto dove i quattrini potevano nasconderla. Non erano invece per niente i quattrini a tenerla nascosta. E oltre tutto il suo nascondiglio sembrò logico e naturale a tutti, dopo essere stato scoperto. Una sera a Baltimora un poliziotto con un occhio fotografico raro come una zebra rosa entrò in un locale notturno, ascoltò l'orchestra, osservò una bruna fascinosa, dai capelli e dalle sopracciglia nerissime, che cantava, come si dice, con l'anima. Qualcosa di quel volto toccò una corda nella memoria del poliziotto e la corda si mise a vibrare. Il poliziotto andò al Comando, prese l'elenco dei ricercati e si mise a leggere le schede. Quando trovò quella che cercava la fissò a lungo. Poi si aggiustò il cappello in testa, tornò al locale notturno e parlò con l'impresario. Andarono insieme ai camerini; l'impresario bussò a una porta. Non era chiusa a chiave. Il poliziotto spinse da parte l'impresario e entrò. Dovette sentire odore di marijuana, perché lei la stava fumando. Ma non vi fece caso. Lei era seduta davanti a uno specchio a tre luci e si stava osservando la radice dei capelli e le sopracciglia. Erano le sue sopracciglia
vere. Il poliziotto attraversò la stanza sorridendo e le tese la scheda. Lei dovette fissare lo sguardo sulla scheda altrettanto a lungo quanto l'aveva fissato il poliziotto al Comando. C'era parecchio da pensare vedendo in che modo la fissava. Il poliziotto si sedette, accavallò le gambe, accese una sigaretta. Aveva un occhio fino, ma troppo specializzato. Non ne sapeva abbastanza di donne. Infine lei scoppiò a ridere e disse: «Siete in gamba, poliziotto. Lo sapevo di avere una voce che non si dimentica. Una volta ci fu chi mi riconobbe sentendomi alla radio. Ma sono due mesi che canto con quest'orchestra, e alla radio due volte alla settimana, e nessuno ci aveva pensato». «Io non avevo mai sentito la voce», disse il poliziotto e continuò a sorridere. Lei disse: «Immagino che potremo metterci d'accordo. Sapete benissimo che ce n'è per tutti, a saperci fare». «Non con me», disse il poliziotto. «Mi dispiace». «Andiamo, allora», disse lei. Prese la borsetta e il cappotto dall'attaccapanni. Si avvicinò a lui e gli porse il cappotto perché l'aiutasse ad infilarlo. Lui si alzò e le tenne il cappotto come un perfetto gentiluomo. Lei si voltò, estrasse la rivoltella dalla borsetta e gli sparò tre volte attraverso il cappotto che lui reggeva. Aveva ancora due colpi nella rivoltella quando sfondarono la porta. Li usò tutti e due, ma il secondo sparo dovette essere un riflesso. La raccolsero prima che cadesse a terra, la testa però già le pendeva come un cencio. «Il poliziotto ha vissuto fino al giorno dopo», disse Randall che mi faceva questo racconto. «Ha parlato finché ha potuto. È così che sappiamo come sono andate le cose. Non riesco a capire come possa essere stato così imprudente, a meno che fosse realmente propenso a mettersi un po' d'accordo con lei. Questo gli avrebbe naturalmente offuscato la mente. Ma mi rifiuto di pensare una cosa simile, naturalmente». Dissi che naturalmente mi rifiutavo anch'io. «Si è sparata dritto al cuore, due colpi», disse Randall. «Ho sentito gli esperti dire che non è possibile, eppure so che è vero. E vuoi sapere un'altra cosa?». «Che cosa?». «È stata stupida a uccidere quel poliziotto. Non saremmo mai riusciti a farla condannare, con la sua bellezza e le storie di persecuzione che i grandi avvocati avrebbero saputo montare. Una povera ragazza del varietà arriva ad essere la moglie di un uomo ricco e gli avvoltoi che la conoscevano
prima non la lasciano in pace. Roba del genere. Rennenkamp sarebbe stato capace di far venire al processo una dozzina di vecchie signore del "burlesque" a singhiozzare che loro l'avevano ricattata per anni, e in un modo che a loro non si sarebbe potuto far niente, ma i giurati si sarebbero convinti. Lei fu in gamba a scappare per conto suo senza far sapere niente a Grayle, ma sarebbe stata più in gamba se fosse tornata a casa quando l'hanno presa». «Ah, adesso ci credete che non aveva fatto saper niente a Grayle?» dissi. Lui annuì. Io dissi: «E secondo voi aveva qualche motivo preciso per comportarsi così?». Egli mi fissò. «Sentiamo», chiese. «Qualunque sia». «Lei era un'assassina», dissi io. «Ma anche Malloy era un assassino. Ma lui invece non era in definitiva uno zero assoluto, per lei. Forse quel poliziotto di Baltimora non era integerrimo come fa sembrare il rapporto. Forse lei ha visto una possibilità non di fuggire, che ormai era stanca di farsi dare la caccia, ma di fare un minimo di bene all'unico uomo che gliene avesse mai fatto». Randall mi fissò a bocca aperta, con uno sguardo poco convinto. «Accidenti, per questo mica c'era bisogno di ammazzare quel poliziotto», disse. «Non sto dicendo che fosse uno stinco di santa e neanche una ragazzina solo a metà per bene. Non si sarebbe uccisa finché non si fosse vista perduta. Ma quello che ha fatto, e il modo in cui l'ha fatto, le hanno risparmiato di tornare qui per il processo. Pensateci su. A chi avrebbe fatto più male il processo? Chi meno di chiunque altro avrebbe saputo affrontarlo? E vinto, perduto, o rinviato che fosse, chi avrebbe pagato il prezzo più caro per lo spettacolo? Un vecchio che l'aveva amata, senza saggezza, ma molto, troppo». Randall disse bruscamente: «Questo è sentimentale e romantico». «Certo. È sembrato anche a me mentre lo dicevo. Probabilmente è tutto sbagliato. Arrivederci, comunque. È più tornato quassù quel mio insetto rosa?». Lui non capì di che cosa parlavo. Scesi in strada e uscii sul marciapiede del Municipio. Era una giornata fresca e limpida. Si riusciva a vedere lontano, lontanissimo. Ma Velma era andata molto più lontano. FINE