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MARION ZIMMER BRADLEY STREGHE GUERRIERE (Sword and Sorceress XI, 1994) INDICE Introduzione di Marion Zimmer Bradley Il RICHIAMO DEI CAVALLI SELVAGGI di Bunnie Bessell Il PEGNO di Lynn Michals Il CANTO DELLO SPIRITO di Diana L. Paxson ESAME FINALE di Jessica R. Lerbs L'ORSO DI STRATMOOR di Charley Pearson SNOOT BRONTOLONE di Vaughn Heppner STORIE di Javonna L. Anderson Il FESTINO DELLE LARVE di Jo Clayton I CAVALIERI DELLA LUNA di Lynne Armstrong-Jones AL LADRO! di Mary Catelli LA GUARIGIONE di Hannah Blair LA SORGENTE DELLE VERGINI di Cynthia McQuillin Il RIFUGIO di Judith Kobylecky Il SALVATORE di Tom Gallier SFORTUNA E MALEDIZIONI di Jessie Eaker L'ENIGMA DELLA SIGNORA di Karen Luk UNA LAMA ARRUGGINITA di Dave Smeds IMMAGINI D'AMORE di Larry Tritten UN DESTINO PEGGIORE DELLA MORTE di Diann Partridge GIOCO DI POTERE di Sandra Morrese LA STREGA DELLA PALUDE di Sarah Evans Il MOSTRO DAGLI OCCHI VERDI di Vicki Kirchhoff FUOCO DI NEVE di D. Lopes Heald ANTICA GUERRIERA di Stephanie Shaver EREDITÀ BARBARICA di Lawrence Schimel NEBBIA di Laura J. Underwood GUARITRICE MUSICALE di Tammi Labrecque NON È TUTTO ORO... di Kathy Ann Trueman SOGNI AVVELENATI di Deborah Wheeler Il MOSTRO DELLA NOTTE di Cynthia Ward Il REGALO di Rochelle Uhlenkott
LA BARA DI CRISTALLO di Kristine Sprunger ANELLO DI STREGA di Mildred Perkins Introduzione Marion Zimmer Bradley Per questo undicesimo volume dell'antologia ho fatto molta fatica a trovare la giusta serie di racconti. E non per mancanza di buone storie, ma perché, al contrario, avevo l'imbarazzo della scelta. Anche dopo aver scartato i racconti composti da ragazzine di dieci armi che, non possedendo una macchina per scrivere, inviano testi scritti a mano - che non potrei utilizzare nemmeno se fossero da premio Nebula, cosa che, per metterla nel modo più gentile possibile, di solito non sono - e buttato via senza leggere gli sforzi letterari a interlinea singola redatti da persone che avrebbero dovuto essere consapevoli di star scrivendo sciocchezze, e letto a fatica tutte le storie riguardanti personaggi definiti «streghe» ma che, per le magie che si vedono, potrebbero tranquillamente essere idraulici o falegnami... d'accordo, sto di nuovo sproloquiando. Ma, se non posso brontolare nelle mie introduzioni alle raccolte di racconti scelti da me, dove potrei farlo? Una piccola sfuriata solleva lo spirito, e poi anche i dilettanti dovrebbero avere almeno una vaga idea del mondo professionale in cui stanno cercando di entrare: Mi sognerei forse di cantare al Metropolitan o di dirigere la Filarmonica senza aver mai preso lezioni di vocalizzi o senza possedere orecchio per la musica? No di certo! Perché allora un aspirante scrittore dovrebbe credere di poter fare a meno di studiare la grammatica? Eppure è così. Alcuni seguaci della New Age, con più indulgenza che cervello, insistono ad affermare che tutti hanno talento e che l'unica cosa che serve è l'occasione di liberare la propria creatività! Può essere che sia così... in una terapia psicologica. Ma non nelle mie antologie, per favore! Non posso non pensare a quanto mi sono piaciute anche alcune storie che adesso, al termine della selezione, mi vedo costretta a rifiutare. Ho scoperto con stupore e delusione che molti editor - o dovrei dire quasi tutti? - non condividono la mia gioia davanti alla pila di racconti e romanzi non richiesti. Dove io vedo tutto quel grande talento non ancora plasmato quelle voci giovani, originali, sconosciute - alcuni miei colleghi scorgono solo rozzi tentativi che non porteranno mai a nulla di buono.
Parecchi dei manoscritti che vengono inviati sono davvero pessimi. Ma a volte capita di trovare una perla in mezzo a tutte quelle ostriche. Io ne trovo sempre, ed è per questo che vale la pena cercare. Mentre molti editor riescono a pensare solamente a tutti i rospi che devono baciare, io mi concentro sulle rare perle. O sui principi, a seconda della metafora che preferite. Ed è questo che s'intende parlando del senso del meraviglioso. Gli editor migliori non lo perdono mai, e così io non mi lascio scappare neppure un'ostrica, per quanto bagnata e maleodorante sia. Magari la perla è proprio li. E, se non c'è in questa, chissà che non si trovi nella prossima. Chi può dirlo? Potrebbe essere la vostra. MZB Bunnie Bessell Il RICHIAMO DEI CAVALLI SELVAGGI Bunnie Bessell è una di quei giovani scrittori che considero con orgoglio «una di noi», dato che il primo racconto l'ha venduto a me, per il Marion Zimmer Bradley's Fantasy Magazine. Una delle mie gioie maggiori consiste nello scoprire nuovi autori che poi faranno dell'hobby della scrittura una vera professione; così avrò qualcosa da leggere quando qualche altro scrittore della mia generazione verrà invitato alla grande Convention della Fantascienza nell'aldilà. Chissà quanti miei contemporanei ci troverò! Di sé, Bunnie Bessell afferma di raccontare favole da sempre. Da bambina credeva che dentro di lei vivessero delle piccole creature, che uscivano la notte per raccontare le loro avventure alle sue due sorelle mentre si rannicchiavano sotto le coperte. In realtà è così che hanno cominciato tutti gli scrittori di narrativa che conosco. Nonostante tutte le chiacchiere New Age circa il liberare la propria creatività, abbiamo iniziato tutti preferendo una qualche variante del «Facciamo finta che:» a qualunque altro gioco. E un'altra cosa che Bunnie scrive nella sua biografici mi suona talmente familiare che potrebbe riferirsi alla mia adolescenza. Era «il tipo di ragazzina che continuava a giocare a far finta mentre le altre scoprivano i ragazzi». Io, per esempio, ero quella che a mezzogiorno si nascondeva in biblioteca mentre le compagne della mia età venivano radunate in
massa e portate in palestra per l'inserimento sociale obbligatorio, e cioè: ballo coi ragazzi] Forse è proprio per questo che le scuole hanno tanti problemi: troppa enfasi sulle attività sociali e troppo poca sulla lettura. A costo di essere considerata reazionaria, suggerirei agli istituti scolastici di riportare l'attenzione sulla cultura degli alunni invece di enfatizzare «l'inserimento sociale» a tal punto che poi le ragazze lasciano gli studi per sposarsi quando sono ancora delle vere ignoranti. Bunnie dice pure che proprio come me - ha scritto il suo primo libro in terza media e che si trattava di un giallo fantascientifico. «Adesso abita nell'angolo più buio sotto il mio letto. Non ne abbiamo tutti uno sotto il letto?» Be', no; a volte li tiriamo fuori quando siamo sulla quarantina e li riscriviamo, trovandoli poi in lizza per un premio letterario! A me è successo! Magari accadrà anche a voi. Se è interessante come questo racconto su un clan di streghe cavallerizze, potrebbe succedere. Bunnie aggiunge che colleziona giocattoli a molla e, non avendo figli, ha deciso di diventare «la migliore zia del mondo». Al momento ha l'onore di viziare e coccolare undici nipoti, tra maschi e femmine, con cui si diverte pazzamente. Un punto a favore dell'essere zie: i nipoti mai - o quantomeno assai di rado - ti svegliano alle tre di notte per un cambio di pannolino o un biberon. In questo modo, si ha molto più tempo per dormire e... inventare trame interessanti. È sulla quarantina, vive ad Arlington, nel Texas, ed è una «abbracciatrice provetta». Che possa continuare a lungo con gli abbracci e la scrittura. Ci volle tutto il coraggio di Marlee per entrare nel cerchio del falò. Non guardò da nessuna parte, non volendo incontrare lo sguardo delle dorme del Clan, ma tenne gli occhi fissi davanti a sé. Quando entrò nel cerchio, il brusio della conversazione s'interruppe. Dall'altra parte del fuoco, Hesta si alzò e Marlee andò a fermarsi proprio dinanzi a lei. Alla vista della donna più anziana il suo cuore ebbe uno spasmo. Da quando la madre di Marlee era morta, molti anni prima, Hesta era stata per lei una seconda madre. Un tempo avrebbe fatto un passo avanti per abbracciarla, ma da dodici mesi aveva perso quel diritto. Alle spalle di Marlee giunse Sabrine, che la scostò e si mise accanto a Hesta. «Dille di andarsene», ingiunse, indicando Marlee. «Ha fatto abbastanza danni.» Temendo che Hesta la scacciasse, Marlee si affrettò a levarsi il mantello
e a inginocchiarsi di fronte al fuoco. Indossava solo una corta tunica di pelle non conciata. «Io, Marlee, figlia di Quebacc, nipote di Iris, bisnipote di Leemay, chiedo di servire il Clan dei Cavalli.» A quelle parole udì dei mormorii stupiti, ma continuò a recitare con cura l'appello rituale di una novizia che desiderava entrare a far parte delle Richiamanti. «In questa Notte del Richiamo, sfiorerò la mente di puledre e puledri, di giumente e stalloni. Condividerò il loro pensiero e li condurrò via in p... pace.» Su quell'ultima parola ebbe un'incertezza. «Ordinerò loro di vivere in mezzo al Popolo, di servire il Clan e di essere tutt'uno con esso. Faccio questo affinché il Popolo e il Branco possano crescere e prosperare. Richiamerò i Cavalli Selvaggi dal Grande Branco e li renderò docili.» Poi chinò il capo. «Richiamerò per il Clan dei Cavalli, se questa Capoclan lo consente.» Attese, sapendo di non dover alzare lo sguardo finché Hesta non avesse annunciato la propria decisione. Si era inginocchiata a quel modo anche cinque anni prima, da vera novizia allora. Al suo fianco c'era Juliane; erano entrambe giovani e piene di eccitazione. Nessuna delle due dubitava che sarebbero state ammesse nel gruppo delle Richiamanti: provenivano da famiglie in cui la magia del Richiamo era forte. Erano state accettate in fretta e avevano festeggiato con gioia il primo Richiamo. Quella notte, però, Marlee sapeva di stare compiendo un azzardo disperato. Tornando a essere una novizia, cambiava il modo in cui Hesta doveva considerare la sua richiesta. La Capoclan non poteva tenere conto dell'esperienza di Marlee, nemmeno dell'ultimo anno, e doveva valutare soltanto il possibile beneficio che avrebbe potuto apportare al Clan. Il suo stratagemma obbligava Hesta a mettere da parte i sentimenti personali e a considerare le necessità di tutto il Popolo. E le necessità del Clan erano grandi: gli ultimi anni non erano stati positivi per la sua gente. In quello appena trascorso, a causa della fuga sfrenata - che proprio Marlee aveva causato - dal Branco non era stato richiamato nessun cavallo; e, senza cavalli, non avevano nulla con cui barattare provviste e riparo per l'inverno. Avevano passato i lunghi e aspri mesi in tende collocate nelle pianure aperte; molti, tra i più giovani e i più anziani, erano morti di fame o malattia. Nessuno era tanto sciocco da pensare che sarebbero potuti sopravvivere a un altro inverno del genere. I cavalli dovevano essere richiamati dal
Branco, e anche in gran numero. Quindi, era necessaria ogni possibile Richiamante. «Non puoi prenderla in considerazione!» protestò Sabrine. «Non dopo ciò che ha fatto.» «La fuga sfrenata è stata un incidente», intervenne Jamine. «Abbiamo intenzione di punire Marlee per tutta la vita a causa di un incidente?» Jamine era stata una delle poche a cercare di consolare Marlee dopo la fuga sfrenata. Tuttavia lei aveva respinto le attenzioni della donna, e si era isolata da tutti. Viveva all'interno del Clan, ma non lasciava che qualcuno le toccasse il cuore. Non poteva perdonarsi per ciò che era accaduto; di certo non avrebbe accettato il perdono di nessuno. «Si è fatta prendere dal panico», ricordò Sabrine a Hesta. «Ha perso il controllo e fatto sparpagliare il Branco. Sono morte in quattordici.» A quelle parole Marlee trasalì. Quattordici vite perse; tutto a causa sua. E un'altra dozzina di persone ferite, alcune invalide per sempre. Per un attimo, il senso di colpa la sopraffece. Non aveva il diritto di essere lì. Poi si riprese e raddrizzò le spalle. Sì, aveva fatto uno sbaglio. Aveva perso il controllo e ne accettava la responsabilità. Ma non era stata l'unica; qualcun altro aveva avuto un ruolo nella fuga sfrenata, anche se lei era l'unica a saperlo. E quella notte Marlee doveva andare col Clan. Doveva individuare l'altra donna e fermarla prima che accadesse di nuovo. Andando contro la consuetudine, Marlee alzò la testa e incrociò lo sguardo di Hesta dall'altra parte del falò. Negli occhi della Capoclan non lesse la minima emozione. «Marlee è una Richiamante di esperienza», riprese Jamine. «Ha attirato molti cavalli dal Grande Branco.» Con stupore di Marlee, dalle donne che la circondavano salirono mormorii di consenso. Vide lo sguardo di Hesta guizzare, come a valutare ognuna delle presenti. Si fermò su Sabrine. Sabrine era tra le Richiamanti più anziane e di maggiore esperienza. Richiamava cavalli dal Branco con regolarità, e cercava di fare in modo che nessuno lo dimenticasse. Anche se poteva essere sgradevole, Marlee sapeva che la sua opinione aveva grande peso. «Guarda cosa ha fatto a mia figlia. E alla tua», disse con asprezza Sabrine. «Ha ucciso Juliane. Lascerai che uccida di nuovo?» A quelle parole Marlee vide Hesta sobbalzare, e seppe di aver perso. Non le avrebbe dato un'altra possibilità. Una parte di lei sapeva di non me-
ritarsela. Il pensiero di Juliane le offuscava la mente; lottò contro il dolore che le cresceva dentro. Erano state amiche del cuore sin dall'infanzia. Juliane, così divertente e vivace, era l'opposto della più lenta e riflessiva Marlee; la quale non avrebbe mai neanche potuto immaginare una vita senza Juliane. E adesso il ricordo più intenso che aveva della sua amica era quel corpo straziato dopo la fuga sfrenata. Niente avrebbe potuto cancellare quell'immagine. «E chi sarebbe la sua guida?» riprese Sabrine, la voce tesa per la rabbia. «Nessuno agirebbe mai da Vista per una come lei.» Marlee vide un lampo di preoccupazione attraversare il volto di Hesta. Una Richiamante e la sua Vista lavoravano a contatto molto stretto; la sicurezza di entrambe dipendeva dalla loro rapidità di reazione. Era stata Juliane la Vista di Marlee, e lei sapeva che Hesta era riluttante a chiedere a qualcun altro di prendere quel posto. «Non mi serve una Vista», replicò Marlee. «Richiamerò un animale e lo farò coricare a margine del Branco.» Richiamanti più timide a volte scivolavano nella mente di un cavallo e lo mettevano a dormire finché il Branco non se n'era andato. In situazioni normali, Marlee non avrebbe mai accettato di far addormentare un cavallo. Si sarebbe sentita insultata se qualcuno avesse insinuato che non aveva il talento per renderlo docile e richiamarlo tranquillamente al suo fianco. Per quello che aveva intenzione di fare, però, non le serviva né desiderava avere attorno qualcuno che le facesse da guida. «Sarò io la sua Vista!» Una ragazza di qualche estate più vecchia di Marlee si fece avanti tra le donne riunite. Quando vide di chi si trattava, Marlee trattenne il fiato. Un silenzio imbarazzato scese sul Clan mentre la ragazza si dirigeva verso di lei. Camminava piano, trascinando la gamba destra in un'andatura goffa, il piede storpiato durante la fuga sfrenata dell'anno prima. Fermandosi davanti a Marlee, sollevò le mani coi palmi in alto. «Io, Dana, figlia di Sabrine, nipote di Lilla, bisnipote di Camarre, sarò la Vista di Marlee. Se lei mi accetta.» Marlee esitava. Faceva fatica persino a guardare Dana. Non era sicura di poterle camminare al fianco nelle pianure, tantomeno di poter dividere con lei ciò che una Richiamante e la sua Vista dovevano condividere. Lo sguardo di Dana non tremò incrociando quello di Marlee. «Le mie mani non sono storpie», disse sottovoce, perché solo Marlee potesse senti-
re. Quando l'altra ragazza trasalì, aggiunse con maggiore dolcezza: «E neppure la mia mente». Marlee vide qualcosa nei suoi occhi: un'angoscia che riconobbe. In quell'ultimo anno, lei poteva avere sofferto per il disprezzo del Clan, ma Dana ne aveva sopportato la pietà. Guardò verso la madre di Dana. Il viso di Sabrine era teso. Ci volle un secondo perché Marlee si accorgesse che Sabrine fissava Dana, non lei. Era evidente che la vedeva solo come un'inutile invalida. Ma come poteva una madre essere tanto insensibile verso il proprio figlio? Riportando lo sguardo su Dana, Marlee si rese conto che la ragazza era consapevole dei sentimenti della madre. Dana non era una grande Richiamante, e più di una volta Marlee aveva sentito Sabrine che la rimproverava, quando tornava a mani vuote da una battuta di Richiamo. All'interno del Clan il prestigio era determinato dal numero di cavalli che si era in grado di richiamare dal Branco. Una donna che ogni anno portasse un cavallo era considerata degna del Clan. Chi ne portava due, o anche di più, si guadagnava una reputazione migliore. Quelle che non ne portavano nessuno non meritavano onore. Alla fine, venivano mandate a vivere tra le tende degli uomini. Le possibilità che la zoppa Dana riuscisse a condurre al Clan un cavallo erano davvero minime. E Marlee vide che l'orgogliosa Sabrine non poteva accettare un simile fallimento da sua figlia. Mentre osservava la ragazza più anziana, in Marlee si fece strada un'altra certezza. Dana non sarebbe mai più riuscita a partecipare a un Richiamo, se non avesse fatto coppia con lei. Nessun'altra avrebbe preso con sé una storpia. «Accetto Dana come mia Vista», dichiarò. «È ridicolo», sbottò Sabrine. «Dana riuscirebbe solo a farsi di nuovo male. Che aiuto potrebbe mai dare?» Hesta si accigliò alle dure parole di Sabrine. Rimase in silenzio per parecchi minuti, e Marlee si era ormai convinta che la decisione sarebbe stata negativa. Alla fine, Hesta annunciò: «Marlee, figlia di Quebacc, Dana, figlia di Sabrine, questa Capoclan accetta i vostri servigi come Richiamante e Vista per il Clan dei Cavalli». Marlee si alzò, barcollando, quasi incredula che Hesta avesse dato la sua approvazione. Fissò speranzosa la donna più anziana, implorando anche il perdono. Ma Hesta mantenne un'aria severa. «Sei una novizia», l'ammonì. «Ri-
chiamerai un unico cavallo dal fianco esterno del Branco, dove sarà meno probabile influire sull'intera mandria. Se il cavallo che richiamerai ti causasse problemi, lo lascerai andare.» Marlee annuì, pur sapendo benissimo che si trattava di regole cui non avrebbe potuto obbedire. L'intero Clan si mise a parlare, ma Marlee non avrebbe saputo dire se la maggior parte approvasse o disapprovasse la decisione di Hesta. Intimando il silenzio con un gesto, Hesta dichiarò: «Dobbiamo andare». Un istante dopo, il Clan era in movimento. Un gruppo di giovani donne si fece avanti con ceste piene di escrementi di cavallo essiccati. Richiamanti e Viste tesero il mantello alle ragazze, poi si cosparsero corpo e tunica di letame sbriciolato. Mentre aspettava il suo turno, Marlee contò le Richiamanti. Soltanto venticinque. L'anno prima erano almeno quaranta. Fu sopraffatta dal dubbio. Doveva davvero affrontare il Branco? E se fosse accaduto di nuovo? Se avesse provocato un'altra fuga sfrenata? Aveva già causato un tale danno! Sul serio si meritava un'altra occasione? Dana le sfiorò la spalla e le tese un cesto. Prese una manciata di letame e lo strofinò sulla spalla e sul braccio di Marlee. «Sei una brava Richiamante», le disse per rincuorarla. Marlee scosse il capo, non sapendo se fosse ancora vero. «Il Clan ha bisogno di te», aggiunse Dana con maggiore fermezza. Scrutò negli occhi di Marlee. «Saremo una buona squadra, tu e io. Vedrai.» Marlee guardò l'altra ragazza, e comprese che era impaurita proprio quanto lei. Per un attimo dubitò della forza di Dana e si chiese anche come mai non erano mai state amiche. Ma la risposta giunse immediata: fino all'anno precedente la sua amica era stata Juliane. Non gliene erano servite altre. Raccolse una manciata di letame e, storcendo il naso per l'odore, aiutò Dana a spargerselo addosso. Quando furono pronte, presero posto dietro Hesta, Jamine e le altre Richiamanti. In silenzio, le donne lasciarono il fuoco dell'accampamento e si diressero oltre il pascolo. La luna piena gettava sulla pianura una vivida luce bianca. Marlee percepiva l'acuirsi dei sensi mentre sì muoveva nell'erba alta. Era la prima luna piena della Stagione di Crescita e l'unica notte dell'anno in cui si radunava il Grande Branco. L'unica notte dell'anno in cui i cavalli potevano
essere richiamati. Ricordi di Juliane le si affollavano attorno a ogni passo. L'anno prima avevano camminato insieme in quel luogo, mano nella mano, bisbigliando l'una all'altra, soffocando risatine di eccitazione. Possibile che fosse trascorso soltanto un anno? Avevano un piano: quell'anno intendevano richiamare tre cavalli. Sarebbe stata una bella prodezza per una coppia tanto giovane. Se ci fossero riuscite... E ce l'avevano quasi fatta. I primi due cavalli erano stati individuati e vincolati con facilità. Il terzo, un puledro di un anno, si era dimostrato nervoso e furbo. Marlee era praticamente esausta quando era riuscita a renderlo docile a sufficienza da iniziare a vincolarlo. Juliane le aveva stretto la mano a mo' d'incoraggiamento, e con un respiro profondo Marlee aveva cominciato l'incantesimo. Ma, proprio in quel momento, la mente di un'altra Richiamante aveva sfiorato la sua. Il contatto non preoccupava Marlee. A volte capitava che, vagando tra il Branco, le Richiamanti s'incontrassero. Ritirati, aveva avvertito con gentilezza in modo da non mettere paura al puledro. Questo cavallo è attribuito. Con sua grande sorpresa, l'altra Richiamante non aveva indietreggiato. Al contrario, aveva iniziato a lanciare sul puledro un incantesimo di legatura. Questo è mio, aveva sostenuto con maggiore fermezza, spingendo la mente contro quella dell'altra. Che però era più fresca della sua, non affaticata dall'estenuante sforzo necessario a rendere docile un cavallo. Di chiunque si trattasse, doveva essere una Richiamante debole, o semplicemente una scansafatiche. Stava cercando di rubare il cavallo di Marlee dopo che tutto il lavoro impegnativo era già stato fatto. Marlee sapeva di non voler cedere. Quando un cavallo veniva vincolato, la percezione della sua mente cambiava in modo radicale. Anche se Marlee aveva speso immense energie nel domare l'animale, non sarebbe più riuscita a riconoscerlo se l'altra donna l'avesse legato a sé. Aveva cercato d'identificarla, ma non era riuscita a riconoscerne l'essenza. Vattene, aveva detto brusca. Ma ancora quella insisteva. Era difficile a credersi. Marlee aveva udito racconti di Richiamanti che si sottraevano i cavalli a vicenda, ma accadeva quando erano Clan diversi a contendersi lo stesso Branco. Non si rubava a una compagna. La seconda Richiamante aveva continuato a tessere il suo incantesimo, e
Marlee sentiva che il puledro le veniva strappato. Disperata, aveva usato tutta la sua magia, lottando per riconquistare il puledro. L'animale sbuffava per il conflitto in atto nella sua mente; Marlee riusciva a percepire la sua paura che aumentava. E, tuttavia, si era rifiutata di cedere: quel cavallo era suo. Aveva spinto con più forza, cercando di scacciare l'altra donna dalla testa del cavallo. D'un tratto, il puledro si era allontanato di scatto da entrambe, impennandosi e scalciando nell'aria. Marlee allora aveva fatto la cosa peggiore che potesse fare una Richiamante. Aveva aperto gli occhi. All'istante, non solo il puledro ma anche gli altri due cavalli legati a lei avevano visto attraverso i suoi occhi umani, oltre che attraverso i propri. Era stato il terrore totale. Imbizzarriti, avevano preso a nitrire di paura; l'intero Branco, centinaia di cavalli, si era dato a una fuga sfrenata. Marlee si era gettata a terra, rotolando in un avvallamento e coprendosi la testa con le braccia. I cavalli correvano proprio sopra di lei, colpendola ripetutamente con zolle e terriccio. C'era voluta un'eternità prima che il rombo degli zoccoli si affievolisse. Poi, Marlee era uscita dalla buca. Juliane era distesa qualche metro più in là, il corpo contorto e sformato. Gridando, Marlee era crollata al suolo e aveva abbracciato l'amica: «No, Juliane, no. Ti prego, no». Cullandola, piangeva senza più controllo. Tutto attorno a lei altre gridavano per il dolore e la perdita. Infine aveva alzato lo sguardo e trovato Hesta in ginocchio lì accanto. «Ho aperto gli occhi», aveva confessato. «È colpa mia. Io ho ucciso Juliane.» Aveva visto lo sguardo di Hesta passare dall'incredulità alla rabbia e poi all'odio. La donna più anziana aveva sollevato Juliane per portarla via, senza mai voltarsi. Marlee inciampò, sopraffatta dal ricordo di quella notte. Dana le prese il braccio per non lasciarla cadere, e lei si divincolò. Lanciò un'occhiata verso l'altra ragazza che le afferrò la mano, obbligandola a fermarsi. «L'anno scorso, prima della fuga sfrenata, qualcuno aveva cercato di rubarti il cavallo, non è vero?» le chiese sottovoce. «Tu?» «No. Non io.» Dana scosse rapida il capo. «Ma l'anno precedente, qualcuno mi ha rubato il cavallo. E lo stesso è accaduto l'anno ancora prima.»
«Cosa?» «È arrivata un'altra Richiamante e ha preso i cavalli che avevo domato, prima che li potessi vincolare.» «Per due volte?» chiese Marlee. Dana annuì. «Perché non l'hai detto a qualcuno? Hesta...» «Non mi avrebbero creduto», replicò Dana. Marlee stava per controbattere: ma certo che qualcuno le avrebbe creduto! Poi si fermò, considerando la situazione. E lei, Marlee, le avrebbe creduto? Dopo tutto Dana non era mai stata una grande Richiamante. Se all'improvviso avesse affermato che qualcuno le rubava i cavalli, le avrebbero creduto? No. Non sarebbe stato ritenuto plausibile. «E perché tu non l'hai detto a qualcuno?» chiese Dana di rimando. Marlee distolse lo sguardo. Perché non l'aveva fatto? All'inizio, era stato per il dolore. Per parecchie settimane non aveva quasi parlato con nessuno. Era così istupidita dal senso di colpa e dalla perdita di Juliane che non riusciva a pensare ad altro. Poi, aveva anche sperato che la seconda Richiamante si sarebbe fatta avanti ammettendo il proprio coinvolgimento nella tragedia. Quando si era resa conto che l'altra non avrebbe confessato, era troppo tardi. Era passato troppo tempo. «Non avrebbero creduto neanche a me.» «Io sì», ribatté Dana. Abbassò lo sguardo, il viso rosso d'imbarazzo. «Io... io non avevo la forza per impedirle di rubarmi i cavalli. Non sapevo come oppormi.» «Io mi sono opposta», replicò Marlee mentre in gola le si formava un grosso nodo. «E Juliane è morta.» Rimasero in piedi, l'una accanto all'altra, senza sapere come lenire il reciproco dolore. Poi Dana fece un cenno col capo in direzione delle Richiamanti che le stavano lasciando indietro, e ripresero il cammino. «Che cos'hai intenzione di fare?» chiese Dana. «Trovare l'altra Richiamante!» «Come?» «Non ne sono sicura», rispose Marlee. «Tu sai di chi si trattava? L'hai riconosciuta?» Dana scosse il capo. «Penso che se riuscissi a sfiorarle di nuovo la mente potrei capire chi è», spiegò Marlee. «E fermarla?» domandò Dana.
«Sì.» Almeno, sperava di poterlo fare. Per diversi minuti Dana non disse nulla. Poi sussurrò: «Quindi quest'anno non richiamerai nessun cavallo?» «No», ribatté Marlee, e lesse il disappunto negli occhi dell'altra ragazza. Si allontanò da lei. Alla fine, le Richiamanti si fermarono su un crinale. Sotto di loro, il Grande Branco brucava nella vallata. Marlee abbassò lo sguardo e a quella vista le mancò il respiro. Centinaia di cavalli: bai e lupini, bigi e pezzati, giumente coi puledrini al fianco e giovani esemplari, maschi e femmine, che amoreggiavano in libertà. Gli animali erano così tanti che il Branco si estendeva fino a dove l'occhio poteva guardare. Brucavano tranquilli l'erba verde, i mantelli splendenti nella luce della luna, per nulla preoccupati dalle donne silenziose e immobili che stavano sul crinale. Subito, Marlee desiderò ardentemente di trovarsi in mezzo ai cavalli. Di accarezzarne il muso morbido e passare le dita tra la folta criniera. Voleva far scivolare le mani attorno a un collo possente, montare su un'ampia groppa e lanciare l'animale al galoppo. Correre col suono degli zoccoli che rimbombava nelle orecchie e col cuore che batteva allo stesso ritmo. Sentì Dana avvicinarsi e, quando lanciò un'occhiata al suo fianco, lesse lo stesso desiderio sul viso dell'altra ragazza. Si scambiarono un sorriso, poi guardarono verso Hesta. La Capoclan sollevò la mano e indicò che il Richiamo poteva avere inizio. Facendo scivolare la mano in quella della compagna, Dana le tambureggiò sul palmo nel codice usato dalle Richiamanti e le chiese: «Come farai a cercarla?» Marlee si strinse nelle spalle. «Mi limiterò a inserirmi nella mente del maggior numero possibile di cavalli, sperando di trovarla», tambureggiò di rimando. Si squadrarono un istante, consapevoli che come piano non valeva molto. «Ce la puoi fare», segnalò Dana, incoraggiante. Con un cenno d'intesa, Marlee chiuse gli occhi e rese più profonda la respirazione; si lasciò cadere gradualmente nella trance. Mentre attorno a lei scendeva l'oscurità, perse la percezione di chi era e dove si trovava. I suoi piedi non toccavano più il terreno, la sua mano non era più stretta attorno a quella di Dana.
Quando nulla esistette più, fece appello alla magia. Trasse l'essenza dalla terra umida e fertile, dai verdi steli d'erba; sul viso la fresca brezza e il tocco delicato dei raggi di luna. Riunì tutto insieme e divenne parte di quel tutto. Per un istante, fu ogni cosa e niente. Si lasciò trasportare. Il potere si accumulò dentro di lei e la vibrante forza vitale del Branco l'attirò a sé. Si fece avanti, fondendosi col primo cavallo che incontrò: un giovane stallone. Avvertì i muscoli delle spalle dell'animale incresparsi sotto la pelle. Il cavallo si muoveva con forza e grazia. Collo inarcato e coda alta, aggirava il fianco della mandria; desiderava le giumente, ma non era abbastanza coraggioso da sfidare il capobranco. Marlee condivideva la sua frustrazione. L'animale scalciò, sollevando le zampe posteriori, e si allontanò attraversando la valle a grandi falcate; correva per l'assoluta necessità di essere semplicemente in movimento. Quando Dana accarezzò il palmo di Marlee, facendola tornare in sé, lei faticò a staccarsi dallo stallone. Riluttante, incominciò la ricerca, spostandosi nella mente di una giumenta più anziana. C'era già un'altra Richiamante che legava a sé la cavalla. Ritirati, le disse subito l'altra donna, e Marlee lo fece. Non era quella la mente che aveva incontrato l'anno prima. Si spostò ancora, scivolando di cavallo in cavallo, senza tentare di domarli né di richiamarli; si limitava a entrare in contatto, per poi passare oltre. In modo del tutto imprevisto, penetrò nella mente di un animale che conosceva già. Lei e Juliane avevano richiamato quella giumenta quattro anni prima, quando era a malapena svezzata. Le due ragazze l'avevano addestrata, e tenuta per due anni. Quando infine era giunto il momento, non avevano avuto il cuore di barattarla. Avevano preferito invece reinserirla nel Branco come fattrice. Marlee non riusciva a credere di averla ritrovata. Canto del Vento? La giumenta reagì all'istante; sollevò la testa e si guardò attorno, come si aspettasse di vederla. No, non sono qui. Almeno, non fisicamente. Percepiva la gioia di Canto del Vento nell'averla incontrata di nuovo. Si fuse con la mente della cavalla. Qualcosa colpì al fianco Marlee, che estese la consapevolezza fino a sfiorare una puledrina. Hai una figlia. Al tocco della ragazza, la cavallina sbuffò, puntando in avanti le piccole orecchie. Marlee la tranquillizzò. È una vera gemma. E potremo proprio chiamarla così, Gemma.
S'interruppe. Cosa stava facendo? Dava un nome a quella puledrina... Ma non poteva richiamare Canto del Vento e neppure sua figlia. Con ogni probabilità non le avrebbe più riviste. Doveva rimettersi a fare ciò per cui era lì. Abbiate cura di voi, splendide creature. E, mentre si ritirava, poteva ancora percepire Canto del Vento che si guardava attorno, cercandola. Spostandosi, scivolò dentro e fuori una mente dopo l'altra, senza mai trovare Richiamanti. Si fermò una volta, quando toccò la mente di una vecchia cavalla. La personalità dell'animale era così piacevole che Marlee non poté limitarsi a passarle accanto. Quando finalmente procedette oltre, rimpianse la propria debolezza. Il cuore le batteva forte e le ginocchia cominciavano a tremare. Aveva quasi esaurito l'energia. Dana le passò un braccio attorno alla vita, offrendole sostegno. Immediatamente Marlee si raddrizzò, non volendo pesare sulla ragazza storpia. «Appoggiati a me», le segnalò Dana. Ma Marlee non riusciva a persuadersi a contare sull'altra ragazza. Mantenendosi più dritta che poteva, inviò di nuovo la sua consapevolezza all'esterno, toccando decine di menti senza alcun risultato. Il tempo pareva allungarsi a dismisura, e Marlee cominciò a temere che la ricerca sarebbe stata infruttuosa. Venne attratta dalla mente di un altro cavallo, un giovane puledro, talmente vivace da strapparle un sorriso. Per un momento si fuse con lui, gustandone l'essenza; quando lo fece, l'animale sbuffò. Quello sarebbe stato pestifero da addestrare, ma ne sarebbe valsa la pena. Per un attimo fu tentata di legare a sé il puledro. Poi sentì il rapido tambureggiare di Dana sulla mano. «Cosa stai facendo?» «Che vuoi dire?» «Pensavo che non stessi richiamando», segnò Dana. «Si sono avvicinate due cavalle. Ti hanno annusato e...» «Come?» chiese Marlee. «Due cavalle, si sono...» ricominciò a segnare Dana. «Una aveva una puledrina?» domandò Marlee. «Sì.» Marlee non capiva. Non aveva richiamato. Almeno, non in modo intenzionale. Eppure in qualche maniera l'aveva fatto. Quelle dovevano essere
Canto del Vento e l'altra giumenta che si era fermata ad accarezzare. Provò un'ondata di eccitazione: aveva richiamato e vincolato, senza neppure averne l'intenzione. Marlee dovette sforzarsi di non scoppiare a ridere, e in qualche modo sentì che anche Dana soffocava una risata di gioia. Un'altra mente si accostò a quella di Marlee, che s'irrigidì. Il puledro che aveva appena sfiorato era impaurito, quasi frenetico. Marlee aveva già avuto un assaggio di quel tipo di panico; due Richiamanti si battevano per conquistare la mente del giovane cavallo. Il cuore di Marlee martellava per la paura. Canto del Vento, la sua puledrina e l'altra giumenta erano già legate a lei. Se avesse cercato di fermare lo scontro, si sarebbero spaventate anche loro. Per di più, era quasi sfinita; riusciva a malapena a reggersi in piedi. Cosa poteva fare? Doveva spezzare il legame con gli animali che aveva richiamato. O indebolirlo. Le venne un'idea, e la mise in pratica senza pensarci due volte. Attirò la mente delle cavalle che aveva richiamato; le radunò, le accarezzò e coccolò, legandole ancora più strette. Poi visualizzò mentalmente Dana. Mostrò alle cavalle una ragazza magra, coi capelli corti e con un piede zoppo. La fece apparire come un luogo sicuro, dove avrebbero trovato cibo e riparo; una persona che avrebbe dato una grattatina ai punti che prudevano e procurato prelibatezze come carote e alfa alfa. Presentò Dana come tutto ciò che era buono e rassicurante e protettivo; poi, con la stessa perizia con cui le aveva legate a sé, le vincolò a lei. «Cosa succede?» le tambureggiò Dana sulla mano. «Adesso strofinano il muso contro di me?» «Non te lo posso spiegare», replicò Marlee. «Le ho legate a te. Abbine cura.» «Marlee?» «Fallo e basta.» Marlee percepì che Dana reagiva in modo automatico. Sapeva che la ragazza più grande non poteva usare una trance completa per trattenere i cavalli; avrebbe dovuto utilizzare quella leggera, che s'impiegava durante l'addestramento. Marlee si augurava di averle spianato la strada, presentandola alle cavalle; sperava che quanto aveva fatto fosse sufficiente, ma non poteva aspettare di esserne certa. Quando percepì che Dana si apriva all'esterno, avvolgendo le giumente, si ritrasse. Una volta messa la giusta distanza tra sé e i cavalli che aveva richiama-
to, si protese verso il puledro spaventato. Scivolò nella mente del cavallo, e fu circondata dal caos. Per un attimo condivise quel terrore. Voleva scappare via; correre veloce e lontano. Si riscosse. L'animale era quasi accecato dalla paura. Due menti si combattevano rabbiose per possederlo. Marlee riusciva a stento a separare le Richiamanti da quell'intrico di paura. Ritiratevi! ordinò in tono energico. No! replicarono entrambe. Per un attimo Marlee si sentì persa. E Branco si darà alla fuga sfrenata, avvertì, sperando che il rischio le avrebbe fatte indietreggiare. Per un istante pensò che non avesse funzionato. Poi, all'improvviso, una delle menti era scomparsa. Era rimasta sola con l'altra Richiamante. Ed era la mente che aveva incontrato l'anno prima! Chi sei? chiese. L'altra non rispose. Cominciò invece, quasi con indifferenza, a legare il cavallo ancora agitato. Come osi? gridò Marlee. La Richiamante non le badò. Marlee si rese conto che, se non fosse riuscita a far parlare l'altra donna, non avrebbe avuto modo d'identificarla. E non sarebbe riuscita a fermarla. Inutile essere andata lì quella notte; per quanto tentasse con tutte le forze, avrebbe fallito. In lei divamparono rabbia e frustrazione; e subito quei sentimenti si riversarono nella mente del cavallo. All'improvviso il puledro aveva ricominciato a dibattersi, quasi frenetico. Marlee si bloccò. Non di nuovo! Un altro accesso di panico, un'altra fuga incontrollata; il Clan sarebbe stato colto impreparato. Marlee fu sopraffatta dalle proprie paure: non riusciva a pensare, non riusciva a muoversi. Disperata, si afferrò alla mano di Dana. Calma, calma. Il tono sereno con cui Dana rendeva docili i cavalli raggiunse anche Marlee. La pacata forza dell'altra ragazza le diede l'incoraggiamento di cui aveva bisogno. Sì, calma, convenne. Fece un respiro profondo. Aveva detto a Hesta che avrebbe fatto coricare un cavallo, ed era giunto il momento di mantenere la parola. Focalizzò le energie. Calmo, disse al puledro. Sta' tranquillo, pic-
colino. Nessuno ti farà del male. La paura del cavallo diminuì leggermente. Rimise in gioco tutto il suo potere. Non prestò attenzione all'altra Richiamante, concentrandosi solo sul cavallo. Sta' fermo. Sei al sicuro. Marlee visualizzò un ampio pascolo con dolci colline; evocò i caldi raggi del sole e una lieve brezza. Il puledro cominciò a respirare meglio. Stava funzionando. Marlee aggiunse bella erba verde alla visione e fece credere al cavallo di avere lo stomaco pieno. La testa dell'animale cominciò a piegarsi. A margine della propria mente, Marlee si accorse con sorpresa che anche l'altra Richiamante iniziava a sentirsi stanca, assonnata come il puledro. Non aveva mai pensato di poter raggiungere la mente di una persona passando attraverso quella di un cavallo. A quel punto raddoppiò gli sforzi, espandendo la portata, includendo in modo deliberato l'altra Richiamante. Hai sonno. È stata una giornata lunga. Sdraiati. Sdraiati sull'erba e riposa. Il cavallo si piegò sulle ginocchia, quindi con un nitrito rotolò sul fianco. La mente della Richiamante lo seguì, intrappolata dentro l'animale, profondamente addormentata. Per un breve istante, Marlee restò inebetita da ciò che aveva ottenuto. «Dobbiamo lasciare il Branco», segnalò Dana. «Subito! Una Richiamante è a terra!» «Chi?» chiese Marlee. «Sabrine. Rimarrà Yvonne con lei», aggiunse in fretta Dana. «Hesta manderà degli aiuti più tardi.» Di colpo, Marlee sentì Dana irrigidirsi. «Era Sabrine, vero?» Senza aspettare la risposta di Marlee, la ragazza cercò di liberare la mano a strattoni. «È sempre stata lei, per tutti questi anni.» Marlee non la lasciò andare. Non sapeva cosa dirle, come confortarla, ma non avrebbe permesso che scappasse via. «Avrei dovuto saperlo», tambureggiò brusca Dana contro il palmo di Marlee. «Sabrine ha sempre voluto essere la migliore di tutte. Ma stava invecchiando. Stava perdendo la capacità di richiamare. Perciò rubava la forza delle altre!» Marlee percepiva un miscuglio di emozioni attraversare la ragazza: incredulità, rabbia, dolore. «A Sabrine non importava di fare del male, non guardava in faccia nes-
suno.» Dana strinse la mano di Marlee. «Non le importava di nessuno.» Neppure di sua figlia. Lei non lo disse, ma Marlee sapeva che erano quelle le parole che stava pensando. «Non sapeva che eri tu», le segnalò con dolcezza. Per un attimo, Dana continuò a essere tesa, la mano stretta in quella di Marlee. Poi si rilassò un poco. «Non mi metterò a piangere. Non per Sabrine.» Fece un respiro profondo. «Cosa le succederà?» Esitante, Marlee rispose: «Adesso lo dirò a Hesta. E se mi crede...» «Ti crederà!» «Allora Sabrine andrà davanti al Consiglio del Clan per essere giudicata. È probabile che venga bandita. Di sicuro non richiamerà mai più.» Dana restò in silenzio per qualche minuto poi tambureggiò: «È giusto così». Fece un altro respiro e diede una lieve stretta a Marlee. «Riprendi il controllo dei tuoi cavalli. Dobbiamo portarli via dal Branco», le comunicò, decisa. All'inizio Marlee non era sicura di riuscirci. Si sentiva i piedi di piombo e la mente annebbiata. Le ci volle uno sforzo immenso anche solo per individuare la mente degli animali. In un modo o nell'altro li radunò, li rassicurò a uno a uno e ordinò loro di seguirla. Con grande stupore, trovò la mente di Dana ancora leggermente collegata alla sua. «Andiamo», fece Dana, cominciando a guidarla. Procedeva lenta, adeguando il passo a quello vacillante di Marlee. La stanchezza tradì la giovane Richiamante, che inciampò e quasi cadde sulle ginocchia sul terreno irregolare. Dana fu rapidissima ad afferrarla, scivolandole sotto il braccio per rimetterla in piedi. Marlee cercò di divincolarsi, di recuperare da sola l'equilibrio. «Fidati di me», le sussurrò veemente Dana. «Sono la tua Vista.» Per un secondo, Marlee oppose resistenza, poi si lasciò andare; magari, finalmente, poteva consentire a qualcuno di aiutarla. Dana era più forte di quanto avesse pensato. Non aveva nessun problema a sopportare il peso di Marlee, la quale si stupì della facilità con cui si adattava all'andatura zoppicante dell'altra ragazza. Mentre si allontanavano dal Branco, Marlee notò che le cavalle le seguivano senza esitazione. Dopo tutto, ricordò, non erano legate soltanto a lei, ma anche a Dana. E quel legame non si sarebbe mai spezzato. Lynn Michals
Il PEGNO Lynn Michals afferma di abitare a Baltimora con due parrocchetti azzurri e una persona «importante» che sta per trasferirsi a Washington, mentre lei trasloca nel North Carolina per insegnare alla Wake Foresi University; praticamente «dietro l'angolo», a guardare come vanno al giorno d'oggi i rapporti caratterizzati dal pendolarismo. Ha trascorso gli ultimi sei anni dedicandosi all'attività accademica a Baltimora e, a causa della recessione, ha passato parecchio tempo in cerca di lavoro, arrivando al punto di valutare l'idea di trasferirsi in Australia. Afferma che la cosa migliore dei mondi immaginari è la facilità con cui si possono portare con sé; qualunque altra cosa fosse stata costretta a lasciare a Baltimora, poteva sempre impacchettare tutti i suoi universi fantastici senza pagare un centesimo per il peso in più. Non so se a Lynn e ai suoi parrocchetti, per non parlare dell'altra persona importante, piacerebbe l'Australia - in fondo, non è da lì che vengono i parrocchetti? - ma è un paese piuttosto lontano, e sono molto alte le tariffe postali sui manoscritti, che Lynn pare avere in gran quantità. Dopo aver scelto questo racconto, l'annotazione che ho scritto come promemoria per l'introduzione era «molto commovente». Dice che passerà l'estate in una celletta senza finestre, per finire la tesi. A volte ho la sensazione di essere l'unica persona al mondo senza un titolo post-laurea; persino la mia segretaria ha un master in informatica, cosa che risulta estremamente utile quando il computer mi pianta in asso o io faccio qualche stupidaggine e mi perdo una mezza giornata di lavoro. «Non funzionerà mai!» dichiarò Fel, con la fredda sicurezza di una veggente di professione. «Per prima cosa non siete addestrate in modo adeguato e, secondariamente, non riuscirete ad andare sino in fondo. Cos'è Ori per voi, da rischiare la vita e la sanità mentale per salvarla?» «Senti, strega, se dopo tre mesi in casa della Guardiana non la conosci ancora...» iniziò Per, la Maestra d'arme, poi mandò giù la rabbia e riprese: «Bambina, tu adesso appartieni alla tenuta di Ash, che ci piaccia oppure no. Fai parte della famiglia; perciò Guardiana Ismail non lascerà morire la tua amica. E se, per farlo, la Guardiana dovrà andare all'inferno e tornare io andrò con lei». «Tenterò col tuo piano, Maestra d'arme», disse Fel, con un barlume di speranza negli occhi gelidi.
Quella speranza quasi scomparve quando Fel incontrò il ragazzino che doveva sorvegliare il suo corpo mentre lei ne era al di fuori. Per e Sa Ismail sembravano fidarsi di Nil, ma loro avevano trascorso l'anno precedente urlando grida di guerra, facendo a pezzi razziatori e predoni per difendere le genti di Ash ogniqualvolta i negoziati di pace coi confinanti fallivano. Fresca com'era degli insegnamenti delle discipline arcane dell'Ordine di Para, Fel era decisamente meno abituata di loro a lasciare la propria vita appesa a un filo. Il tredicenne Nil aggrottò le sopracciglia per la concentrazione, entrando in contatto coi tre corpi che sarebbero rimasti con lui nella polverosa stanza degli archivi mentre le loro abitanti si libravano verso le terre dell'ombra. Sa Ismail assunse la posizione del Tessitore; Fel fu sorpresa e rassicurata dalla sua abilità. La Guardiana aveva gli occhi come la notte, la pelle come oro, e una forza naturale che sfidava qualunque accenno di sorriso. Estese un filo di fiducia tra sé e Per, quindi si allungò verso la mente brillante e disciplinata di Fel, inserendola nella sua rete. Ed ecco fatto. Le tre si ritrovarono mano nella mano nelle terre dell'ombra, la forma del loro spirito libera dal mascheramento del corpo. La Maestra d'arme aveva le sembianze di una profuga giovane e magra, con lo sguardo furtivo di un gatto: la bambina disperata e pericolosa che continuava a essere nei suoi incubi. Sa Ismail era se stessa, con l'aspetto che avrebbe avuto entro dieci o vent'anni, segnata dalle battaglie e dall'immensa fatica di far superare carestie e incendi alla sua gente. Fel era una novizia dalla veste bianca, radiosa e impaziente. Senza una parola, le tre s'incamminarono per gli spazi grigi, dirigendosi verso la prima delle muraglie che circondavano il cuore della terra dell'ombra, dove una giovane donna giaceva morente. Per sottrarre un'anima dal cuore avido di quel mondo, dovevano rischiare di essere divorate loro stesse e trattenute lì per sempre da ciò che più temevano: le ombre erano sempre affamate. Attraversarono incendi e inondazioni, superarono fiumi di vetro frantumato e montagne di roccia bollente; alla fine giunsero davanti a una porta di legno, dall'aspetto ordinario, collocata in una parete di pietra grigia che si estendeva all'infinito. «Qualunque cosa mi succeda, voi continuate. Ricordatevi che dovete salvare Ori, in modo che lei possa salvare tutti noi», ordinò Sa Ismail, avvicinandosi alla porta come un lottatore deciso a farla finita una volta per tutte con una battaglia impari.
«Idiota», sbottò Per, spingendola da parte e bussando all'uscio. «Pensi davvero che potrei stare a guardare mentre il morto ti assale? Abbi almeno la decenza di lasciare che prenda me per prima.» La porta si aprì, mostrando un signore ben vestito; c'era un buco nero nel punto in cui ci sarebbe dovuta essere la faccia. Per aveva dimenticato il viso, ma ricordava quelle mani lisce; mani che l'avevano tenuta ferma, costringendo il suo corpo infantile a sopportare un mondo fatto di dolore. «Come osi farti chiamare 'Maestra d'arme'?» domandò una voce gelida. «La Guardiana ha preso il tuo giuramento come uno scherzo, marmocchia che non sei altro.» La protesta di Sa Ismail risuonò come un grido di guerra, ma Per aveva già pugnalato il gentiluomo al cuore; erano avvinghiati, pallidi come ombre e immobili come la morte. Fel afferrò la Guardiana e le impedì di avvicinarsi alla sua amica, sapendo che chiunque avesse toccato Per sarebbe stato avvolto nell'ombra del suo dolore. Sa Ismail corse con Fel fino alla seconda muraglia, piangendo; caricarono i leviatani e le sfingi che bloccavano la strada, i grifoni e i basilischi che strisciavano verso di loro, sibilando morte e disperazione. In lontananza, al di là del muro, scorgevano torri e merlature indistinte: la parte superiore di un grigio fantasma della città di Para. Sa Ismail estrasse la spada e avanzò a colpi di lama attraverso le mostruosità che si affollavano attorno alla porta della seconda muraglia, su cui poi batté con l'impugnatura del coltello. «Che tu sia dannato! Prendi me questa volta, e me soltanto!» strillò. Ed ecco davanti a loro una donna di mezza età, disarmata, il sangue che zampillava da uno squarcio nella camicia di semplice lino. «Figlia, hai forse tradito la mia fiducia? Stai cercando di far pace con quel lerciume che mi ha ucciso?» chiese. Sa Ismail emise un silenzioso grido di dolore e lasciò cadere le armi; si gettò tra le braccia morte di sua madre, raggelandosi nell'abbraccio di quell'ombra. Fel si rimise a correre, verso lo spettro dell'imponente casa che una volta conosceva così bene. Volò attraverso corridoi di pietra - al tempo stesso familiari e sconosciuti - privi delle novizie, dei maghi e dei veggenti che li avevano animati nell'altro mondo. Al piano più alto trovò Ori. Non la Ori che aveva visto l'ultima volta, una diciassettenne dagli occhi immensi; ma come sarebbe stata in futuro,
se fosse vissuta abbastanza da diventare ciò per cui era nata: Arcimaga. Era come una lama di spada, o il fuoco al centro di una stella: alta, orgogliosa e assolutamente immobile. «Questo è ciò che non potevi tollerare che accadesse. Ciò che non mi avresti permesso di diventare», disse Ori. «Ma non ho potuto fermarti», protestò Fel. «Quando la nostra Tessitrice disse che ti stavo trattenendo, ho abbandonato Para. Sono andata fino agli estremi confini di Imlay, mi sono ritirata in quelle Province Orientali dimenticate da Dio! Ho iniziato una nuova vita da sola.» «Te ne sei andata arrabbiata, e ti sei lasciata alle spalle il cuore», l'accusò Ori. «Ho portato il peso del tuo pegno, troppo giovane per sapermene liberare. E, quando si è fatto troppo pesante da sopportare, mi sono sdraiata e sono morta, proprio quando la mia vita era a un punto di svolta.» «No, me lo riprenderò, ti lascerò continuare!» gridò Fel. «Sicuramente siamo ancora in tempo. Ascoltami, Ori, io non volevo che mi dimenticassi, ma neppure volevo farti del male. Sono stata un'idiota, e me ne dispiace.» Ori sorrise. Tese mani che Fel non poteva sfiorare, reggendo un dono che lei non poteva vedere. «Riprenditi il tuo cuore, tesoro. Ti lascio libera di amare la tua nuova vita, così come tu hai lasciato libera me di essere ciò che devo essere», disse. «Ma chi sono quelle altre, che stanno soffrendo là fuori?» «La mia famiglia», replicò Fel, trovando la parola giusta senza doverci pensare. «Mi hanno portato qui perché potessi ritrovarti; adesso ci serve il tuo aiuto per tornare indietro.» Ori sorrise di nuovo, e il bastone che stringeva in mano splendeva come un raggio di fuoco blu; era l'unica cosa solida, reale, in quel mondo d'ombra. Il tredicenne Nil scoppiò in lacrime quando i tre corpi che erano rimasti seduti, del tutto immobili, mentre il sole calava e la luna sorgeva, presero finalmente a muoversi; la vita si riaffacciò nel loro sguardo. «Ho fatto del mio meglio; vi ho fatto respirare. Ma poi tu, zia Sa Ismail, ti sei irrigidita come fossi morta; e anche la Maestra d'arme stava svanendo, e io non riuscivo a trovarvi», gridò Nil, esausto e sconvolto. «Non riuscivo a riportarvi indietro, finché non è venuta la signora ad aiutarmi, la signora tutta di fuoco. Era proprio qui. Dov'è andata?» «È tornata a casa presso l'Ordine di Para, il luogo cui appartiene», rispose Fel. Si voltò a guardare Sa Ismail e Per, con gli occhi che le brillavano per il
riacquistato calore. «Ori ha trovato la strada per tornare a casa», ripeté Fel. «E, se voi due mi volete ancora, anch'io ho trovato la mia.» Diana L. Paxson Il CANTO DELLO SPIRITO Diana Paxson abita a Berkeley, un miglio da casa mia, il che le rende facile consegnare i manoscritti per queste antologie. Con molta modestia, quando parla del proprio lavoro afferma che era «incluso nel contratto matrimoniale». Ha sposato mio fratello Don e, dopo aver scoperto che entrambi i miei fratelli, Don e Paul - per non parlare di me -, avevano venduto romanzi e racconti, deve aver deciso che se potevamo farlo noi poteva riuscirci chiunque. Anche se in realtà non è così semplice. Circa il novanta per cento dei manoscritti che ricevo da sconosciuti sono opere uniche: dopo il primo rifiuto, gli autori spariscono da qualche parte e di loro non si sa più nulla. Ma, se non sopportano il caldo, che ci stanno a fare in cucina? Il rifiuto è la prima esperienza di ogni scrittore; se non hanno la grinta per tenere duro, farebbero meglio a mettersi a lavorare a maglia, se proprio vogliono avere un hobby. Dopo aver fatto mostra della necessaria combinazione di sensibilità e pelle da elefante, che con ogni probabilità è l'unica caratteristica indispensabile per sopravvivere ai rifiuti che inevitabilmente si ricevono, Diana è diventata una dei pochi scrittori che io personalmente trovo sempre molto piacevole da leggere. Le sue storie di «Shanna» sono apparse in quasi tutti i precedenti dieci volumi di questa antologia; e non sono di certo l'unica cui piacciono. Uno dei suoi romanzi, The White Raven, che narra del mito di Artù, ha ottenuto la pubblicazione in edizione rilegata, ed è stato tra i pochi Vibri per cui ero desiderosa di scrivere un commento per la quarta di copertina. Avete idea di quanti siano ogni anno i libri su quell'argomento per i quali mi chiedono un commento per la quarta? Più di recente, ha lavorato a due trilogie: Wodan's Children e, insieme con Adrienne Martine-Barnes, Chronicle of Fiorai MacCumhal. Se non avete ancora letto gli altri romanzi di Diana, cercateli in libreria: ne vale la pena. Sono talmente belli che, quando ho deciso di scrivere la storia menzio-
nata alla fine delle Nebbie di Avalon - riguardo alla Britannia al tempo dei romani e alla sacerdotessa druida Eilan -, ho chiesto a Diana di collaborare con me. Per questioni di marketing, la Viking ha stabilito che col mio nome soltanto il libro avrebbe venduto di più - non so bene perché -, ma qui tra amici, per così dire, sono felice di riconoscere a Diana il ben documentato aiuto e il notevole apporto. Provate un po' a cercare Le querce di Albion. Diana è stata insegnante d'inglese agli stranieri ed è madre di due ragazzi ormai grandi che, come i miei, erano piccolini quando ha cominciato a scrivere. Il maggiore, Ian, frequenta il college, e il minore, Robin, avendo dei problemi, vive in una comunità per disabili. Il tempo, come capisco meglio ogni anno, vola. Sembra che molti di quei ragazzi dovrebbero ancora al massimo gattonare, e invece sono già al college. Suppongo sia così che ci si rende conto di stare invecchiando, o almeno del fatto che il tempo continua a passare. Le mucche avevano risalito il versante nord della collina che sovrastava la fattoria, dove resisteva ancora un po' di neve e cresceva l'erba più saporita. Dal prato sopra il campo di orzo, Bera riusciva a udire il campanaccio della mucca capomandria. Staccò a forza lo sguardo dall'imbarcazione che bordeggiava lenta sulle fredde acque del fiordo e fissò i pendii di granito che vi si riflettevano. Il suo pensiero però era ancora con la nave. Doveva essere quella che stavano aspettando, quella che trasportava a Bjornhall la veggente affinché dicesse loro se Steinbjorn Sweinsson, il capo della comunità, era ancora in vita. Ma, qualunque cosa accadesse, Bera doveva riportare a casa le mucche. Lasciò scivolare fuori il suo spirito con un sospiro, mentre osservava le vette costellate di pini. Attorno a lei il tempo rallentò, e in quell'immobilità divenne più facile vedere la punta di un corno e scure sagome irsute muoversi sullo sfondo degli alberi. Per un istante percepì se stessa e il bestiame e la terra e il cielo come un tutt'uno, poi con un sobbalzo tornò al normale stato di coscienza. Sarebbe stato faticoso arrampicarsi fino a raggiungere le bestie, e aveva già scarpinato dal cortile alla collina anche troppe volte. Ma, dato che l'unica cosa per cui veniva lodata era l'abilità nel canto, fece un profondo respiro, inclinò la testa all'indietro e lasciò che la gola si aprisse alle aspre armonie prive di parole dell'antico richiamo per gli armenti. Il suono, dall'intonazione giusta per attraversare fiordi e montagne, salì
incantevole nell'immobile aria azzurra, e l'animo di Bera andò con quel canto. «Venite a me, e avrete acqua fresca da bere», diceva il messaggio. «Venite a casa e libererò dal latte le vostre mammelle dolenti. Venite a me, venite a me...» Le mucche l'udirono. Bera s'interruppe, in ascolto, mentre gli animali riscendevano con pacata lentezza. Ma perché non vi spicciate? pensò impaziente, spostando di nuovo lo sguardo in basso verso gli edifici dal fitto tetto di paglia della fattoria, che si annidavano su un tratto di terreno pianeggiante al di sopra del fiordo. Le vele a righe tremarono un poco mentre l'imbarcazione girava per raggiungere l'attracco. Non costringetemi a venire a prendervi! Le vacche da latte, che venivano tenute nel cortile recintato anche in estate, erano state affidate a Bera praticamente da quando aveva iniziato a camminare; ma a volte erano testarde come se i troll avessero gettato su di loro un incantesimo. E di sicuro quel giorno era una di quelle volte! Poi la discesa ricominciò, più rumorosa; la vecchia Orecchie rosse, la mucca capobranco, avanzò decisa e prudente tra i pini striminziti e prese a seguire il sentiero. Bera udiva delle grida provenire dal basso. La nave era stata fatta arenare, e presto avrebbero accompagnato a riva la veggente e i suoi compagni. Si chiamava Groa, la Vcelva, e viaggiava per tutto il paese, scrutando il passato e il futuro della gente con magico seidh. Un tempo, di persone come lei ce n'erano tante, assistite da gruppi di giovani e fanciulle; ma, da quando i re avevano cominciato a costringere la popolazione a seguire il Cristo Bianco, erano diminuite di numero. Tuttavia, quando la gente era messa a dura prova da gravi preoccupazioni, sfidava ancora la proibizione reale per consultarle. Ma Bjornhall era solo un paesino; non c'era mai stato motivo di far arrivare una veggente. Non importa che io sia là a dare il benvenuto alla Vcelva, si disse Bera, ricacciando indietro le lacrime. In ogni caso non mi sarei neanche potuta avvicinare abbastanza da vederla. Arin farà gli onori di casa come se fosse già il padrone, e Thorhild la condurrà alla grande sala. Non c'è bisogno di me. Se ci fosse stato suo padre, sarebbe stato diverso. Si era sempre dimostrato gentile verso la bambina dai capelli scuri che era nata dall'amore con la sua prigioniera irlandese. Ma Thorhild aveva fatto capire con estrema chiarezza quanto reputasse inutile la presenza in casa della figlia bastarda di suo marito. Se mio padre non torna, mi faranno sposare il primo che offre in cambio qualche mucca o mi dichiareranno non-libera e mi venderanno come fossi
una schiava? Thorhild, la sua matrigna, poteva farlo. Era passato un anno e mezzo da quando Steinbjorn Sweinsson e il suo figlio maggiore erano scesi navigando lungo il fiordo per una spedizione di saccheggio, e non si avevano più avuto notizie; nessuno che potesse dire se erano prigionieri in qualche terra straniera o stessero banchettando con Ran sul fondo del mare. Oh, padre mio, dove sei? gridò nell'animo. Mi hai abbandonato? Ma, se i suoi parenti avessero saputo dove si trovava Steinbjorn, non avrebbero convocato la Vcelva alla fattoria. Quando finalmente Bera ebbe fatto scendere le mucche dalla montagna e terminato di mungerle, il lungo crepuscolo della primavera cominciava a svanire. Uscì dalla stalla coi secchielli del latte appesi al bilanciere che portava sulle spalle e nel cortile trovò un ronzante brusio simile a quello di un alveare. «Dov'è la veggente?» chiese allo schiavo Finn. «Dentro, vicino al focolare, con la donna che canta inni sacri per il suo viaggio.» Finn aggiunse un altro pezzo di legno al suo carico e lo sollevò. «La visione seidh verrà fatta stasera?» «Oh, no», replicò l'uomo. «La Vcelva dice che prima deve restare qui una notte, per presentarsi agli spiriti. E deve cenare col cuore di ogni tipo di animale che abbiamo. La Signora non era molto contenta quando l'ha saputo.» Fece un sorriso acido, e Bera annuì. Senza la generosità di Steinbjorn a equilibrare le cose, Thorhild era il tipo che avrebbe messo da parte la luce del sole, come recitava il detto, se fosse riuscita a trovare un contenitore abbastanza grande. «Ma Arin dice che deve avere tutto ciò che chiede!» continuò Finn, e Bera assentì di nuovo. In famiglia il suo fratellastro si comportava da padrone, come fosse già sicuro della propria eredità. Ma non osava sembrare troppo ansioso di dichiarare esplicitamente che suo padre e il suo fratello maggiore non sarebbero più tornati. «Eccoti qui, sgualdrina scansafatiche che non sei altro!» La stridula voce di Thorhild la strappò ai suoi pensieri. «Porta quel latte in latteria prima che inacidisca!» Bera cominciò a muoversi, ma non abbastanza in fretta da evitare il colpetto dell'estremità di una corda contro la parte posteriore delle gambe. Vecchia, è la tua lingua che lo farà inacidire, pensò mentre si faceva largo in mezzo al trambusto. Quando entrò nella fresca oscurità della latteria e appoggiò il carico, riusciva ancora a udire Thorhild che rimproverava
Finn. Quando Bera, dopo aver terminato il lavoro, rientrò in casa, la loro ospite era già nascosta dietro la tenda che schermava il letto in fondo alla sala. Haki, il servitore dai capelli fulvi della veggente, era ancora sveglio, e stava ridendo con alcuni uomini vicino al focolare; ma cos'avrebbe potuto chiedergli? È vero che la Vcelva può evocare le tempeste? È vero che può assumere forma di giumenta, di foca o di civetta? Non poteva che rispondere di sì. Se non avessero creduto che quella donna fosse in grado di compiere meraviglie, non l'avrebbero fatta arrivare fin lì. Per vederla, Bera avrebbe dovuto aspettare fino al giorno successivo. In realtà, non fu proprio il giorno dopo che le due s'incontrarono. Bera si era alzata in quell'ora immobile che precede l'albeggiare, per recarsi alla latrina. Mentre rientrava vide che l'abbeveratoio dei cavalli aveva acquisito un'ombra gibbosa e si fermò di colpo, le dita che tremolavano in un segno di difesa. Anche se la figura era immobile, ne percepiva il potere, simile alla forza che sentiva nella roccia-troll accanto al ruscello. «Pensi di bandirmi? Il tuo padrone non ti ringrazierebbe, dopo tutta la pena che si è preso per portarmi qui...» La voce non era potente, ma sembrava portare con sé il sospiro di un vento lontano. Bera batté le palpebre. «Arin è mio fratello... il mio fratellastro...» disse stupidamente, comprendendo che ciò che aveva percepito era la magia della veggente. Le ricordò l'atmosfera che a volte aleggiava attorno a Thorhild, anche se in quella donna si trattava di un alone luminoso. Era l'hamr della Vcelva, la sua forma spirituale. Batté di nuovo gli occhi, intravedendo per un istante non una donna ma una grande civetta grigia. «Perdonami per averti disturbato.» Bera sapeva che sarebbe dovuta rientrare, ma il cuore le batteva troppo furiosamente. Un'opportunità come quella non si sarebbe ripresentata. «Non riuscivi a dormire? Se vuoi posso scaldarti un po' di latte...» «Nei luoghi che non conosco non dormo mai più di qualche ora. Sono uscita apposta per tracciare i segni dell'alba.» «Il sole sorge là.» Bera indicò dall'altra parte del fiordo. «Proprio accanto al dirupo dove i troll...» S'interruppe di colpo. «Dove dimorano le genti-troll?» La voce della veggente celava un sorriso. «Non ne dubito. Ma tu come fai a saperlo?» «Io non...» bisbigliò Bera. «Non li vede nessun altro. Ma, quand'ero pic-
cola, a volte scorgevo delle luci laggiù. Non raccontare a Thorhild che te l'ho detto, ti prego!» «Perché, hai paura che non ti crederebbe?» domandò la veggente. No, ho paura che lo farebbe, pensava Bera. Aveva imparato presto che la moglie di suo padre, con la sua conoscenza delle erbe e le piccole stregonerie, non voleva rivali per quanto riguardava il potere. La madre di Bera veniva dall'Irlanda, ed era molto bella; la gente della fattoria le attribuiva grandi capacità magiche. Lei si era chiesta spesso se fosse stato vero, o se, più semplicemente, una bella donna che cantava in una lingua straniera mentre sì pettinava vicino al fuoco dovesse per forza essere ritenuta un'abile strega. Se così era, né la magia né l'amore di Steinbjorn l'avevano salvata dalla malattia logorante che le aveva tolto la vita. Ammesso che di malattia si fosse trattato. La gente raccontava anche storie su Thorhild... Bera rabbrividì al ricordo, e alzò lo sguardo verso il dirupo. Le mancò il respiro, perché il cielo là dietro si era illuminato, e all'improvviso le rocce erano contornate d'oro. Per un istante sembrò che una trama di venature luminose si fosse diffusa sulla parete della scogliera, e le parve di scorgere una porta. Poi il sole salì sopra il crinale e, abbagliata, Bera distolse lo sguardo. Ma da qualche parte lì vicino udì un canto sommesso. La Vcelva stava pregando, chinandosi in omaggio al sole nascente. Mentre la veggente si rialzava, Bera poté udire la gente muoversi all'interno della grande sala; dalla stalla, invece, proveniva un muggito triste. Con un sospiro fece per voltarsi. «Aspetta!» La donna più anziana tese la mano. Il suo viso era ancora ombreggiato dallo scialle, ma Bera colse le tracce di una bellezza consumata dal tempo, così come la pietra viene levigata dall'acqua. «Come ti chiami?» «Mi chiamano Bera», rispose. «Adesso però devo andare. Le mucche...» «Eri tu, allora, figlia dell'Orso di Pietra, che cantavi il richiamo che ho udito dal fiordo? Bambina, hai proprio una bella voce.» «Lo pensava anche mio padre...» Bera si tirò lo scialle sopra la testa per nascondere le lacrime, e corse verso la stalla. Quel giorno fu un giorno strano. Il vento era calato, come se il mondo stesse trattenendo il respiro in attesa di ciò che avrebbe portato la notte. Accanto al boschetto di betulle che dava sull'acqua, gli uomini stavano creando una piattaforma seidh legando insieme giovani arbusti. Il rumore
delle asce risuonava distintamente nell'aria immobile. La Vcelva si aggirava per la fattoria, avvolta nel suo mantello blu, appoggiandosi a un bastone con rune intagliate e intarsi di giaietto, ambra e cristallo di rocca che brillavano al sole. A mezzogiorno si recò al tumulo dove erano seppelliti i genitori di Steinbjorn e vi si sdraiò sopra, come fosse in ascolto. Quel giorno Bera tenne il bestiame nel prato vicino alla casa, stupita che Thorhild non le ordinasse di allontanarsi. Ma col passare delle ore fu chiaro che la padrona di Bjornhall aveva altre preoccupazioni. Lavorando nella capanna del formaggio, Bera udì voci concitate all'esterno e capì che la sua matrigna e il suo fratellastro stavano litigando. «Stupido! Non vedi che è una donna di potere? Sei stato pazzo a portarla qui!» «Dobbiamo sapere», fu la replica di Arin. «Davvero? A me sembrava che ce la cavassimo bene anche così. A ogni luna che passa, la gente si abitua sempre di più all'idea che qui il padrone sia tu.» «Ma se mio padre tornasse all'improvviso?» «Non lo farà.» La voce di Thorhild si abbassò di colpo, e Bera tese l'orecchio per ascoltare. «Ma allora perché hai paura di ciò che può dire la veggente?» La risposta della donna fu un mormorio indistinto e, quando Arin parlò di nuovo, a Bera parve che la sua voce celasse la paura. «Fa' quello che vuoi, allora. Non posso impedirtelo...» Udì scricchiolare la ghiaia quando il giovane si allontanò, e si rannicchiò dietro le zangole nel caso Thorhild avesse dato un'occhiata all'interno. Non molto tempo dopo, la matrigna la chiamò perché portasse un boccale di birra alla veggente, ma il servitore Haki rise e le disse di risparmiarsi il disturbo, perché Groa non avrebbe preso altro che acqua di fonte sino a quando non avesse compiuto la magia. A Bera parve che, nell'udire quelle parole, il viso di Thorhild, sempre rubicondo, diventasse ancora più rosso; ma dopo un momento la rabbia sembrò essere passata e la donna le ingiunse di portare quella birra alla cantante della Vcelva, che stava raccontando dei suoi viaggi insieme con la veggente alle donne intente a filare all'ombra della sporgenza rocciosa all'esterno della sala. Dopo di che, Thorhild aveva pronti altri incarichi per lei. Solo al calare del sole Bera capì che Arin non l'aveva avuta vinta con sua madre nella discussione. Infatti, quando tornò dalla mungitura serale, le venne riferito che la cantante non aveva fatto che vomitare tutto il pomeriggio, fino quasi
a non riuscire più nemmeno a parlare. Di certo quella sera non avrebbe intonato nessun inno spirituale, ammesso che fosse mai riuscita di nuovo a cantare. «Una cosa terribile. E dopo aver fatto tanta strada!» disse Thorhild, infilandosi una ciocca ribelle di capelli grigi sotto il copricapo. «Ma wyrd, la runa bianca, ha parlato, e noi dovremo aspettare per comprendere il volere degli dei.» Scosse il capo con aria triste, e le sue donne mormorarono in segno di solidarietà. Arin però aveva aggrottato le sopracciglia, e Bera, ricordando ciò che aveva ascoltato di nascosto, comprese all'improvviso che Thorhild non era affatto dispiaciuta. Che avesse avvelenato la donna? Era possibile, e a Bera sembrò che Arin lo sapesse. «No!» La bassa voce di Groa impose il silenzio. In quel momento i lineamenti che erano parsi gentili sembravano intagliati nella pietra. «Gli spiriti desiderano parlare. Si stanno già radunando. C'è un'altra persona qui col potere di cantare quegli inni, se vorrà aiutarmi. Bera, sei disposta a imparare la salmodia che mi consente di volare?» Bera sentì fisicamente l'occhiata velenosa di Thorhild come se la donna l'avesse colpita, e indietreggiò trasalendo. «Quella ragazza è una stupida», disse ad alta voce Thorhild. «Non ti sarà di nessun aiuto.» «Non lo credo. Credo sia solo impaurita. Bera, figlia dell'Orso di Pietra, ascoltami.» La veggente le sollevò il mento in modo che non avesse alternative e dovesse per forza guardare quegli occhi limpidi. Era come cadere in un pozzo. «Tu sei la figlia d'un guerriero. Intendi tradire il tuo sangue e riconoscerti schiava?» «Io sono una donna libera!» Bera raddrizzò la schiena. «E allora provalo: aiuta tuo padre aiutando me!» «Non possiamo aspettare che la tua assistente si riprenda?» chiese, dolorosamente consapevole dello sguardo di Thorhild. Groa continuava a fissarla e, mentre il silenzio si faceva più profondo, a Bera venne in mente che, se avessero aspettato, Thorhild avrebbe trovato il modo di completare l'opera e la cantante sarebbe morta. «È oggi che gli auspici sono propizi...» disse Groa con tono sommesso. «Molto bene. Ma sono le vacche e non gli spiriti che si presenteranno al suo canto», commentò Thorhild con un improvviso scoppio di risa. «E sei tu che ti renderai ridicola insistendo a usare lei. Io non le proibirò certo di tentare.»
Bera sentì lo stomaco diventare di ghiaccio e, anche se Thorhild continuava a sorridere, non si sentì per niente tranquilla. Quando le portarono della minestra, appena prima che il rito avesse inizio, riuscì a gettarla nella paglia senza che nessuno vedesse. Scesero al boschetto di betulle proprio al calare del crepuscolo, in quello strano momento che non è ancora buio ma nemmeno più giorno. Le torce ardevano pallide contro il cielo che scuriva, e Bera, la mente ancora piena delle insolite armonie del canto degli spiriti, faceva fatica a concentrarsi sugli uomini che le portavano. C'erano tutti gli abitanti della fattoria e quei vicini che erano riusciti ad arrivare. Forse era per la luce delle torce, ma le loro sagome parevano distorte. Un momento le sembrava che lo schiavo, Finn, si muovesse con la timida grazia di un cerbiatto; il successivo avrebbe detto che Arin fosse diventato un bue, condotto da una capra che indossava la veste cremisi di Thorhild. Haki camminava davanti alla veggente, rapido e cauto come una volpe, ma Groa non le sembrava più una civetta, piuttosto qualcosa di più nobile. Indossava un mantello con cappuccio di cavallino nero, e a Bera pareva che nei suoi movimenti ci fosse parte della potenza di una giumenta. E allora, io cosa sono? si domandò. Ma la risposta era ovvia: coi folti capelli scuri e ricciuti e col fisico robusto, era un piccolo orso bruno. La piattaforma seidh era posta davanti a una fila di betulle bianche; i pali, privi di corteccia, risplendevano debolmente alla luce delle torce. Sul sedile avevano collocato un cuscino di piuma d'oca e addobbato lo schienale con delle pelli; davanti avevano sistemato una panca. Su un lato avevano addirittura costruito un altare di pietre ammucchiate. Quando Haki aiutò la sua padrona a salire, il sedile scricchiolò; tutti erano in silenzio. Bera poteva vedere il volto di quelli che stavano in prima fila, attenti e curiosi, ma gli altri erano solo ombre. Ci sarebbe potuta essere qualunque cosa laggiù. Si chiese se anche il resto dei presenti percepiva la crescente tensione. Sotto l'ombra del cappuccio, gli occhi di Groa scintillavano; le ossa e gli ornamenti d'argento che l'adornavano brillavano e tremolavano alla fioca luce, mentre voltava il capo per guardare le persone in cerchio. «Siamo fuori del cortile ora», disse a bassa voce. «Nella dimora di poteri più antichi. Chiediamo il loro aiuto e il favore dei sacri dei. Chiediamo la benedizione di Odino Padre di Tutti, che vaga tra i mondi, di Lady Freya, che ha portato l'arte del seidh agli Aesir, e di Nornir che conosce il destino
degli uomini. Versate il sangue sulle pietre; possano esse concederci libero passaggio tra i mondi.» In silenzio, Arin avanzò lento e versò sopra le pietre il sangue che aveva fatto conservare dopo l'uccisione degli animali, la sera precedente. Nella penombra pareva nero; mentre affondava nel terreno, Bera percepì attorno a sé un cambiamento. Sorpresa, alzò lo sguardo verso la Vcelva, che le sorrise. «È sicuro, verranno», disse con tono sommesso la donna. «Sono più desiderosi di sfiorare il mondo degli uomini di quanto tu possa pensare.» «Gli spiriti della terra o i morti?» domandò Bera. «Non importa. Dopo un po', diventano la stessa cosa.» Fece un profondo respiro e si tirò il velo sul viso. «Ho un viaggio da compiere. Canta per me, figlia mia. Conducimi sulla giusta via con la tua voce!» La bocca arida, Bera deglutì, desiderando all'improvviso di essersi portata un otre d'acqua del ruscello. Ma il richiamo che le aveva insegnato Groa non era poi tanto diverso da quelli che usava per le mucche. Se fosse riuscita a fingere con se stessa di essere sull'altura, in cerca di una giovenca smarrita... Sì! Riusciva a sentire la musica. Bera si alzò in piedi, chiuse gli occhi e lasciò che salisse dentro di lei, che salisse e scendesse secondo aspre armonie per finire col tipico respiro spezzato che lasciò la propria eco sospesa nell'aria che scuriva. E così come a volte percepiva la mandria avvicinarsi, anche senza vederla, seppe che qualcosa era in ascolto: una presenza che si faceva sempre più forte. Al di sopra del suo canto poteva udire la respirazione della veggente diventare irregolare, e il rumore di uno sbadiglio. E poi, nel silenzio tra un respiro e l'altro, udì la voce della Vcelva mormorare un lunghissimo elenco di nomi strani. Bera si zittì, quindi si lasciò cadere ai piedi dell'alto seggio. «Io, chiamato Haki, evoco la veggente», disse il servitore. La sua voce divenne un sussurro in modo che soltanto Bera potesse udire il nome segreto di Groa. «Margerd, puoi sentirmi? In quali profondità del buio stai vagando? Puoi dirci ciò che vedi ora?» «Il cancello si spalanca, gli spiriti si radunano.» La voce della veggente era aspra e cavernosa, come venisse da molto lontano. «Rapidi giungono, perché forte era il canto. Perché mi avete svegliato dal mio sonno?» Haki fece segno ad Arin di avvicinarsi. «Parla, figlio di Steinbjorn. Cosa vorresti sapere?»
«Vorrei sapere di mio padre», rispose Arin. «Due stagioni fa ha portato la sua nave Serpe dell'onda lungo il fiordo, insieme con mio fratello maggiore e con venti ottimi guerrieri ai remi. Quando non è tornato dopo il raccolto abbiamo pensato trascorresse l'inverno presso qualche re. Ma un secondo inverno è passato senza notizie. Dicci, Saggia, puoi vederlo? Risiede nell'infernale regno di Hella o in terre di viventi?» La veggente inarcò la schiena all'indietro. Bera sentì i pali tremare mentre la donna si contorceva, mormorando. Poi le parole si fecero distinte. «Neracriniera, Neracriniera, dai prati di Hella vieni correndo. Acchiappatopi, plana qui su ali silenziose... Vocemarina, dalle onde io ti chiamo.» La struttura scricchiolò mentre Groa oscillava, e Bera alzò lo sguardo preoccupata, temendo potesse cadere. Haki allungò una mano per tenere fermo l'alto schienale del sedile, ma non toccò la donna che lo occupava. Poi la veggente si fermò, immobile, e l'istante successivo Bera alzò di nuovo lo sguardo sorpresa, certa di avere udito lo sbuffare di un pony. Il velo fluttuava al ritmo del respiro di Groa. Era stata lei a emettere quel suono? Di nuovo un nitrito, e poi, con grande chiarezza, Bera udì rumore di zoccoli e il grido di una civetta. Da molto distante, le parve, udì l'urlo di una foca. Finn lo schiavo sobbalzò e si guardò attorno come un altro paio di persone, ma Arin e Thorhild osservavano la veggente, accigliati. Loro non lo sentono! pensò Bera. È lo spirito di un destriero quello che sta chiamando! Il martellare degli zoccoli rallentò mentre la voce della Vcelva diventava una cantilena sommessa. «Eccoti giunta, Neracriniera, a te il mio grazie per essere venuta. Lasciami salire ora, tu che lontano vai, perché abbiamo da percorrere una lunga strada. Devi trasportarmi rapida come Sleipnir portava il Supremo, finché non avremo raggiunto il nostro scopo!» Una volta di più, Bera udì il nitrito del cavallo; poi la veggente sembrò rilassarsi. «Canta!» disse Haki. «Canta l'inno del viaggio adesso, con tutta la forza che hai!» Bera trattenne il respiro, temendo per un attimo di aver dimenticato la melodia. Poi le giunse la musica. «Alvar, vattar, tomtar, fate levare in volo la veggente! «Nissen, duergar, troll, fate apparire la visione alla veggente!» Bera cantava con grande energia e, nello slancio del canto, salì in volo anche lei. Groa aveva detto che non doveva seguirla, ma non riuscì a evitarlo. Sentiva i muscoli della giumenta in azione sotto di lei, il soffio del
vento tra i capelli. «Da Bjornhall io salgo, nel cielo sto volando!» disse la veggente quasi salmodiando. «Da Halogaland e dal regno del re nordico io vado al di là del mare. Ora posso vedere la grande isola degli angli; cerco Jorvik dove comanda Jarl Erik, ma Steinbjorn non è tra i suoi guerrieri. Giungo alle Orcadì, dove uomini stanno tirando a riva delle imbarcazioni, per calafatare e prepararle a riprendere il mare. Ma non vedo la Serpe dell'onda.» La voce della donna si abbassò fino a diventare un borbottio. «Al di sopra del mare devo viaggiare, dove banchi di ghiaccio galleggiante pascolano nella pastura di Aegir...» Mentre Groa parlava, a Bera sembrava di sentire sulle guance gli spruzzi del mare, e di avere i capelli ingarbugliati da un vento gelido. «Vedo balene che si dilettano sotto i ghiacci. Vedo le alture ventose dell'Islanda e la gente che là vive. Ma non vedo Steinbjorn.» Adesso la sua voce era un sussurro. Di quando in quando Bera coglieva nomi di luoghi, che però non conosceva. Infine la veggente si raddrizzò e sospirò. «Non riesco a trovare Steinbjorn o suo figlio Griot in nessuna parte di Midgard.» Per un momento non ci fu altro suono che il suo respiro. Era buio ormai, e la luce delle torce trasformava le pieghe del mantello della veggente in un aspro rilievo che si stagliava contro le ombre nere. «Allora è morto?» chiese Ann, avvampando. L'euforia di Bera scomparve di colpo. Morto! Si rese conto di aver continuato a sperare. Ma se la Vcelva non era stata in grado di trovare suo padre in tutta la Terra di Mezzo, doveva proprio essere morto. «Neracriniera, Neracriniera», mormorava Groa. «Ora dobbiamo prendere la strada che conduce sotto le radici dell'Albero del Mondo fino alla terra dove cresce la verde cicuta... Fammi attraversare il fiume di sangue, e le acque color del piombo dove si scontrano le spade spezzate e le punte di lancia, attraverso Myrkwood e Ironwood, dove vagano i selvaggi warg.» Bera trattenne il fiato perché, mentre la veggente parlava, lei vedeva ogni cosa. Se volare sopra Midgard era pericoloso, compiere il viaggio fino agli inferi senza protezione era esattamente ciò che la veggente le aveva proibito di fare. Haki e la cantante erano stati addestrati a resistere al richiamo, ma Bera non riusciva a trattenersi, e non osava distrarre Groa. Aiutatemi! chiamò gli spiriti che percepiva roteare attorno a loro. Faccio appello allo spirito che protegge la mia anima! Per un attimo la confusione fu schiacciante. Poi udì, con estrema chiarezza, il grugnito di un orso alle sue spalle. Un delicato calore l'avvolse, e si rilassò come un cucciolo
tra le zampe della madre. Per la prima volta da quando avevano cominciato, Bera fu in grado di fare qualcosa di più che reagire alle necessità del momento. Era consapevole del rapido viaggio della veggente verso le profondità; allo stesso tempo percepiva gli spiriti del bosco e dell'acqua che si libravano attorno e, più indistinto, il groviglio di emozioni delle persone che attendevano le parole della donna. Haki era una forza incrollabile al suo fianco. Poco distante poteva percepire Arin, indeciso come un torello che non sa che sentiero prendere per attraversare una palude. E, accanto a lui - indietreggiò, e sentì il potere che la tratteneva rafforzarsi -, Thorhild non era più una capra, ma un essere marino dalla pelliccia ruvida e dalle zanne taglienti. Ma era l'ostilità che irradiava da quella figura grottesca che aveva fatto trasalire Bera. Thorhild non voleva che la veggente riuscisse nell'intento! «Giù, ancora più giù devo viaggiare, scendendo a spirale nelle profondità sotto l'Albero», giunse aspro il sussurro della veggente. «La fanciulla di Etin si alza per sbarrarmi la strada, ma ho le parole di potere per superarla. L'ultimo e più grande fiume ruggisce sotto di me. Neracriniera, conducimi oltre il ponte scintillante. Veloce, mio destriero, avanza senza paura!» A ogni parola pronunciata dalla veggente, Bera sentiva crescere la malevolenza della sua matrigna. «Il cancello si spalanca. All'interno vedo oscurità. Mi attrae, mi attrae... gli spiriti si stanno radunando. Pronunciate ora il nome di coloro che state cercando!» gridò Groa. «Steinbjorn Sweinsson e Griot, mio fratello.» La voce di Arin tremava. «Ugga e Ulf», disse una donna. La maggior parte dell'equipaggio di Steinbjorn proveniva dal vicinato. «Thorvald il Grosso!» «Hildir Haraldsson!» continuarono. Mentre l'oscurità si faceva più fitta, Bera si strinse alla forza-Orso che aveva alle spalle. Adesso i nomi sembravano giungere da molto lontano, ma da quelle ombre emergevano delle figure. Riusciva a vederli, quei brav'uomini che si erano chinati sui remi della Serpe dell'onda, radunarsi ai Cancelli dell'inferno. All'improvviso un tremito scosse l'alto seggio. Dalle labbra della veggente uscì un suono aspro, come se stesse tentando di parlare; ma, quando si trasformò in parole, fu con la voce di un giovane uomo. «Alto è il salone dove siedo con Swein e i miei padri. Chi mi distoglie dai miei festeggiamenti quaggiù?»
Arin restò senza fiato, e Bera si sforzò di riconoscere il volto della figura che le stava davanti. «È un trucco», disse sottovoce Thorhild, ma suo figlio la ignorò. «Griot! Sei tu? Sei morto, allora, fratello mio?» «Naufragato sulle rocce di una riva sconosciuta...» fu la risposta. «Lunga fu la strada e buio il tragitto fino a questo porto sicuro. I miei compagni sono con me. Invitano i loro congiunti a smettere di piangere, perché il loro dolore li tormenta.» Di colpo Bera si sentì gelare. Quella era senza dubbio la voce di Griot, e i lineamenti che intravedeva nel buio avevano un'aria familiare. «Come siete arrivati lì?» gridò una donna. Bera pensò fosse la moglie di Thorvald. «Si è trattato di una disgrazia, o siete stati attaccati da qualche nemico?» «Abbiamo combattuto contro una burrasca», continuò la voce di Griot, attraverso le labbra di Groa. «Dalle onde che ci sballottavano è giunto un essere in forma di femmina di tricheco. Si muoveva dritto verso la nave e, quando ci ha toccato, di colpo il vento ci ha spinto sulle rocce e il mare ha cominciato a irrompere nello scafo!» «Questa è follia», commentò di nuovo Thorhild. «Un'astuta invenzione!» «Chi era la strega?» chiese a gran voce il padre di Ulf. «Dicci il suo nome!» «Tutto questo è andato troppo oltre!» urlò Thorhild. Con un passo si parò davanti al figlio e alzò le braccia, salmodiando. Mentre si faceva piccola per la paura, Bera percepì un'ondata di odio. Dal sedile sopra di lei venne un grido. «Acchiappatopi, difendimi!» Bera non poteva dire se avesse percepito quel richiamo col corpo, o con lo spirito. Vide una grande civetta grigia staccarsi maestosa dal cancello scuro, e Thorhild schivare qualcosa d'invisibile che le passava accanto. Poi la donna si raddrizzò, gridando, e Bera vide la sagoma di un tricheco che si espandeva attorno a lei come foschia e faceva ondeggiare le lunghe zanne gialle per colpire l'alto seggio. La civetta scese di nuovo in planata con un acuto grido di guerra. Nessun altro poteva vedere la battaglia, ma ormai la maggior parte dei presenti udiva gli stridii. Spostavano lo sguardo nell'oscurità, in modo concitato, disegnando frenetici segni di protezione. Il tricheco attaccò ancora, la sagoma distorta in qualcosa di mostruoso; mentre quel potere oscuro saliva verso l'alto seggio, Bera percepì la pro-
pria consapevolezza fondersi in quella dell'Orso dietro di lei. Si alzò in piedi, braccia tese e dita ricurve come artigli, scossa da un ringhio profondo che non sembrava suo. Per un attimo intimidì il tricheco, ma la forza maligna che esplodeva verso di lei andava al di là della più terribile immaginazione; non essendo addestrata, il suo legame con l'Orso cominciò a indebolirsi. Ma l'aveva mantenuto abbastanza a lungo. Un attimo dopo un'altra figura le apparve accanto: un volto terrificante con zanne che brillavano dalle fauci spalancate, in equilibrio su un agile collo rivestito di scaglie lucenti. La testa di drago della Serpe dell'onda avanzava oscillando verso Thorhild, animata dallo spirito degli uomini che erano morti quando la nave era affondata. Il tricheco scomparve in un battito di ciglia; adesso era Thorhild che, con gli occhi fuori dalle orbite, fissava l'apparizione. Era Thorhild che gridava. «Tu mi hai ucciso, madre mia...» disse la voce di Griot dalle labbra di Groa. «È su di te che scenderà la mia maledizione!» «Non può essere vero!» urlò Arin. «Se sono morti tutti, dov'è mio padre? Questo dev'essere un troll che ci vuole imbrogliare. Veggente, evoca lo spirito di Steinbjorn, e mostraci se conferma questa storia!» Lentamente l'immagine del drago cominciò a dissolversi. Bera rientrò di colpo nel suo corpo e vide che la veggente si era accasciata sul seggio. Thorhild invece era accovacciata a terra, suo figlio che le torreggiava accanto, mentre gli altri guardavano. «Acchiappatopi, Acchiappatopi, possono i tuoi occhi acuti trovarlo?» bisbigliò la Vcelva. Si contorse, voltando la testa da una parte e dall'altra, poi sospirò. «Negli inferi la vista della civetta rintraccia gli spiriti, ma Steinbjorn non è tra loro.» «Allora sei un'imbrogliona», sbottò Thorhild, mettendosi a sedere. Il fazzoletto da testa era scivolato via e le ciocche grigie stavano ritte in un ammasso aggrovigliato, che metteva paura quasi quanto l'essere visto da Bera. «Non l'hai trovato nella Terra di Mezzo e non l'hai trovato fra i morti. Veggente, la tua vista è difettosa, e pagherai care le accuse che mi hai fatto!» «Neracriniera, Acchiappatopi, perché mi avete abbandonato?» bisbigliò la Vcelva. Si raddrizzò un poco, girando la testa come fosse in ascolto; poi, sorprendentemente, cominciò a ridere. «Vengo dall'oscurità e i cancelli degli inferi si chiudono con fragore alle mie spalle», mormorò Groa. «Neracriniera mi conduce rapida di regno in
regno. Emergo dalle radici dell'Albero del Mondo; fino alla Terra di Mezzo mi conduce. Mi porta...» - la voce si fece indistinta; poi, all'improvviso, un violento sobbalzo - «... a casa!» Haki l'afferrò, toccandole le spalle e mormorando il suo nome; sollevò l'otre per l'acqua e glielo accostò alle labbra. Dopo qualche istante la veggente sospirò e spinse all'indietro il velo. «Allora... adesso ammetti la tua sconfitta?» disse in malo modo Thorhild. Groa si voltò a guardarla, e Bera riuscì a vedere che sorrideva. «Nelle profondità ho cercato, oltre i verdi campi degli uomini e le onde salate», replicò con voce stanca. «In un solo luogo ho mancato la ricerca dello scomparso, e da là ora lo evoco. Fatti avanti, Steinbjorn Sweinsson, e smentisci coloro che ti vorrebbero distruggere!» Per un attimo, nessuno si mosse. Poi all'estremità della folla qualcosa si agitò, e una figura cenciosa raggiunse zoppicando la zona illuminata. Arin sgranò gli occhi, e quel poco colorito che restava a Thorhild scomparve. «Sei tu la malvagia», disse la figura, con voce aspra, fissando Thorhild dall'alto in basso. «Sei tu l'ingannatrice. Tu hai fatto montare la burrasca, e hai inviato quell'essere a trascinarci sul fondo. Mio figlio è morto, e con lui tutti i miei coraggiosi uomini. Soltanto io ho raggiunto vivo la riva, sopravvivendo solo per amor di vendetta.» «Cosa sta dicendo?» mormorava la folla. «Suo figlio e suo marito? Anche se è una strega, come dicono, perché l'ha fatto?» «Odiavi Griot perché si era opposto ai tuoi intrighi?» domandò Steinbjorn. «Hai agito contro di me in modo da poter governare qui, insieme con questa vipera che puoi piegare al tuo volere?» «No...» Arin stava scuotendo il capo, gli occhi immensi per l'orrore. «Non poteva... non avrei... non sapevo!» Il padre non gli badò. Afferrò la moglie per una spalla e la sollevò di peso, scuotendola. «Non è forse così, donna? Dillo, e potrei anche mostrare pietà! Non è forse così?» Con uno scrollone improvviso, Thorhild si liberò dalla stretta, e lo affrontò. «Ti avevo avvertito!» gli sbraitò contro. «Quando hai portato nel tuo letto quella strega irlandese, hai fatto di me il tuo nemico. Due figli vivi ti avevo partorito, più il bambino che è morto; e, dopo che è arrivata lei, non mi hai più toccato. Uccidimi, vecchio, se hai il coraggio, e i miei fratelli finiranno quello che la mia stregoneria ha cominciato.» Disgustato, l'uomo distolse lo sguardo. «Vattene! Io ti ripudio. Vaga per
le strade o torna dalla tua famiglia, se credi che i tuoi parenti vogliano ancora avere a che fare con te una volta che si sarà sparsa la voce di quanto è accaduto stasera.» Thorhild sputò ai piedi del marito e si voltò verso le persone che erano state suoi servitori e vicini, ma anche loro si ritrassero. Quando vide che nessuno avrebbe preso le sue parti, cominciò a lanciare maledizioni, un borbottio alto e stridulo che fece accapponare la pelle, finché due servi non arrivarono a trascinarla via. «E anche tu...» Steinbjorn aggredì il figlio minore, che continuava a scuotere il capo in una protesta silenziosa. «La tua vista mi dà il voltastomaco!» «Padre...» Bera si alzò in piedi, appoggiandosi ai pali. «Piccolina!» L'uomo la guardò, e adesso il suo viso era quello del padre che ricordava. «Mio tesoro! Vieni qui.» Tese le braccia e lei gli corse incontro, stringendolo con tutta la forza che aveva, come fosse un fantasma che poteva sparire in qualsiasi momento. Era solo l'ombra della forte solidità che ricordava; poteva sentirgli le ossa. «Ah, il mio orsacchiotto, la mia dolcezza», le disse commosso. «Sei l'unico vero figlio che ho. Ti troverò un buon marito che diventi il mio erede e la smetteremo con tutte queste stregonerie.» Lo sguardo di Bera si spostò dal padre alla Vcelva. Erano accadute troppe cose e troppo in fretta. Non era più sicura di se stessa né di lui. «È questo che pensi?» chiese Groa, guardandoli dall'alto in basso con compatimento. «Vecchio, da ciò che è successo questa notte non hai imparato niente, oltre a come ti ha tradito tua moglie? Il tuo cucciolo d'orso ha più magia nella punta del mignolo di quanta ne abbia Thorhild in tutto il corpo. Lascia che venga con me.» L'uomo scosse il capo. «Che razza di vita sarebbe, fuggendo la disapprovazione del re? Meglio che stia qui e dimentichi ciò che ha visto.» Bera chiuse gli occhi. Avrebbe potuto dimenticare quel combattimento, e l'alto volo dello spirito? Avrebbe potuto dimenticare la musica? «Se non viene addestrata, il potere le avvelenerà l'anima come ha fatto con Thorhild. Se resta con me, invece, Bera diventerà una Vcelva; e una davvero magnifica, te lo prometto!» «Dunque, figlia?» chiese Steinbjorn. «Hai ascoltato le offerte: una vita da vagabonda, o ricchezza e posizione sociale, qui con me!» Bera guardò il padre, poi Groa, quindi di nuovo suo padre. C'era stato un tempo, forse addirittura la mattina precedente, in cui non avrebbe potuto
sognare niente di meglio che rimanere per sempre amata e al sicuro tra le braccia di suo padre. Ma sotto lo stormire delle betulle udiva qualcos'altro, quasi un canto, e sapeva che da quel momento in poi quella musica non l'avrebbe mai abbandonata. «Concedi ad Arin il tuo perdono», disse a bassa voce. «Ha fatto solo ciò che la donna gli diceva di fare. Quanto a me...» Deglutì e si sforzò d'incrociare lo sguardo dell'uomo. «La veggente ha detto la verità. Nemmeno io, come Thorhild, posso più rimanere qui dopo quanto è successo oggi. Perdonami.» «Il mio orsetto adorato», bisbigliò Steinbjorn, tirandola a sé, e la ragazza sapeva che stava piangendo. «Sei tu che devi perdonare me!» Bera lo teneva stretto, ma aveva già la percezione del suo animo che si allontanava da lui. Il canto degli spiriti si faceva più forte. Come la sua voce aveva attirato il bestiame dalla montagna, ecco che ora quel canto risvegliava la sua consapevolezza, richiamandola verso casa. Jessica R. Lerbs ESAME FINALE Questo racconto è una divertente variante sul tema del genio, e dei relativi tre desideri. È un altro di quegli argomenti su cui ricevo almeno una nuova versione all'anno, quindi sono molto critica nell'accettarli. Jessica è una diciottenne, frequenta l'ultimo anno di liceo e anche alcuni corsi di primo livello all'università locale. Abita a Brooklyn Center, nel Minnesota, e lavora da Burger King, ma se ne andrà presto per iscriversi al college di Bryn Mawr, dove ha intenzione di laurearsi in francese e relazioni internazionali. Le piace leggere, scrivere, giocare a tennis, cavalcare e tirare con l'arco, e sta lavorando a un romanzo. Dice che questo racconto non è stato il primo inviato a un editore, «neppure il decimo, in verità; tuttavia, adesso credo con tutto il cuore che la perseveranza venga ripagata». Molto vero. Strano che dovesse ridursi tutto al tremolare della fiamma di una candela. Sono decisamente nella media per la mia razza: capelli neri, occhi castani, pelle dorata. Mi chiamo Djil. E sono un genio. Quasi. Sapete, come per qualunque altro mestiere, noi geni dobbiamo studiare e
passare degli esami per essere dichiarati pronti ad andare in giro a esaudire i desideri di chiunque conosca il nostro segreto. Ovviamente, non sono tanto sciocco da mettere per iscritto il mio; uno dei miei stimati parenti è stato così sfortunato da ritrovarsi col suo segreto reso noto a tutto il mondo da parte di un padrone irresponsabile di nome Aladino, e ha dovuto chiedere il pensionamento anticipato. Per tradizione, il nostro compito è scovare quei mortali considerati «buoni» per consenso popolare e vedere, prima di tutto, se sono abbastanza intelligenti da poter diventare nostri padroni; e poi se sono abbastanza saggi da formulare i loro desideri in modo da ottenere ciò che davvero vogliono. Il nostro lavoro consiste nel rendere la cosa il più difficile possibile. Al termine dei miei trecento anni di addestramento, mi sono presentato all'insegnante esaminatore. Con un sorriso incoraggiante, che metteva in mostra il suo dente d'oro, ha dichiarato: «Dato il fine di questa prova, io sono il tuo padrone. È tuo dovere concedermi tre desideri. Sei pronto?» Ho annuito, fissando nervoso il cerchio d'oro che portava all'orecchio sinistro. Quindi, con la dovuta arroganza, ha sentenziato: «Voglio avere il mondo nelle mie mani!» Era facile! Ho sorriso, poi ho battuto le mani gridando: «Accordato!» Gli avevo fatto apparire in mano un bel mappamondo. Ha arricciato le labbra; sapevo che gli altri due non sarebbero stati altrettanto semplici. Quindi ha detto: «Voglio sapere cos'hanno in comune un corvo e una scrivania». Era complicato, ma ho evitato con cura di accigliarmi. Sembrava che dovessi dargli una risposta diretta. Be', può succedere, soprattutto con gli studiosi, o almeno così mi avevano detto i miei istruttori. Per la seconda volta ho battuto le mani e gridato: «Accordato! Un corvo e una scrivania hanno in comune le penne». La sua bocca era imbronciata, in segno di approvazione. Poi, con un gesto della mano, ha fatto apparire in mezzo a noi una candela accesa. Mi ha detto: «Voglio che tu spenga questa fiamma senza strumenti, senza soffiarci sopra e senza toccarla». Difficile, eh? E così eccomi qua a fluttuare, desiderando di avere delle ginocchia su cui appoggiare i gomiti. Invece, incrocio le braccia, assumendo l'aria più saputa che mi riesce, e fisso la candela. E se non facessi altro che usare la magia? No, anche quello è uno stru-
mento. E se volassi avanti e indietro per creare un vento? Ma sarebbe come soffiare. Fisso la cera che cola, rovinando la liscia parte esterna della candela, e percepisco la disapprovazione del mio insegnante. Non bisogna metterci troppo; è pessimo per la reputazione. Poi ho un'idea, che mi colpisce come una tempesta di sabbia, e sorrido. Aveva detto solo di non toccare la fiamma! Con delicatezza, faccio in modo che la cera liquefatta in cima alla candela sciolga i margini. La piccola pozza di cera sale lentamente fino a coprire del tutto lo stoppino. E la fiamma si spegne. Per la terza volta eseguo il battito di mani obbligatorio, grido e m'inchino con umiltà, dicendo: «La fiamma è spenta, Padrone». Il suo sorriso è la cosa più dolce che abbia mai visto. Finalmente sono un vero genio! Voi, amici miei, che avete letto la mia storia, fareste meglio a cominciare a elaborare i vostri desideri, potrei venirvi a trovare molto presto... Charley Pearson L'ORSO DI STRATMOOR Charley Pearson ha già venduto racconti per queste antologie, e mi ha ricordato che ci siamo anche incontrati, insieme con un «fantastiliardo» di altre persone, alla Convention di Darkover della East Coast. Trovo divertente il fatto di aver pensato che il suo nome corrispondesse a una donna, quando è risaputo che il modo in cui è scritto il mio fa spesso credere che io sia un uomo. Una volta, in una libreria, un cliente ha detto al proprietario di sapere che Marion Bradley era un uomo. A quel punto il libraio ha replicato: «Lo riferirò alla signora; di certo ai suoi figli interesserà saperlo». Charley ha venduto un racconto a Towers of Darkover e ha lavorato a novelle brevi e a «frizzi e lazzi in rima». Afferma con decisione di non scrivere poesie: «Quello che faccio io ha metrica solida, rima ferrea ed è divertente, cosa che ritengo lo escluda dal genere». Non per me, Charley. Io preferisco una poesia con entrambe le caratteristiche, e credo che uno dei migliori autori in questo campo sia W.S. Gilbert, che gli snob non reputano affatto un poeta. Considerando quello che al giorno d'oggi è definito «poesia», direi che gli fanno un complimento. Questo racconto riguarda una spadaccina diventata cantastorie per
bambini. E sul manoscritto ho aggiunto qualcos'altro che adesso non riesco a decifrare... forse «ricorda la trasformazione»? No, ecco... ho scritto «iniziazione», che ha molto più senso. Charley è stato in Marina per vent'anni, lavorando come ingegnere nucleare; chissà, potrebbe esserci all'orizzonte un romanzo di fantascienza «hard». In fondo, anche Hal Clement ha fatto così, ed era una lettura molto interessante. Lo stesso vale per il compianto signor Asimov, ma lui ha scritto un po' di tutto; e, a dire il vero, io apprezzo di più i suoi testi non di fantascienza, come peraltro mi succede coi libri di Poul Anderson. I gusti sono gusti. Non che la fantascienza hard non mi piaccia, semplicemente non ho la capacità di scriverne molta. Adesso che posso permettermi il lusso di scegliere cosa scrivere, poi, non ne scrivo proprio più. «E così il regno dell'Orso di Stratmoor giunse alla fine. Non avrebbe più fracassato fienili e case né rubato bestiame e bambini. Elrork divenne Elrork l'Audace, sposò la nipote del Duca, e vivono ancora felici e contenti in quella dimora.» Tyrensis indicò la collina appena dietro il villaggio di Stratmoor. Il suo giovane pubblico si voltò e rimase a bocca spalancata, impressionato, anche se doveva avere ascoltato quella storia un'infinità di volte dai Narratori locali e da quelli viaggianti come lei. Tyrensis sorrise. Un pubblico felice era un regalo. È sempre un grandissimo cambiamento rispetto allo spavento iniziale davanti alla benda colorata che portava sull'occhio e alla mancanza della mano sinistra. I giovani non avevano idea dei pericoli della vita. «Ma chi aveva lottato per primo contro l'orso?» chiese una bambina. Tyrensis inarcò un sopracciglio. «Che vuoi dire?» «Ha detto che l'orso era ferito. Zoppicava, e riusciva a stento a usare un artiglio. Non avrebbe potuto fare tutte le cose che dicono, se fosse stato ferito. Qualcuno doveva avere lottato con lui prima che arrivasse Elrork.» Tyrensis sbatté le palpebre e appoggiò la schiena. Tutti i bambini la guardavano, gli occhi che imploravano un'altra storia. «Be', non so darti una risposta precisa; nessuno l'aveva mai chiesto. Hai sicuramente ragione, ma nei racconti non se ne fa parola», rispose, massaggiandosi la guancia e alzando lo sguardo verso l'antica dimora. «Non c'era nessun altro!» sbottò il più elegante tra tutti i bambini. Si alzò e si spazzolò le ginocchia. «Elrork ha ucciso l'orso, e non c'è altro da dire», aggiunse. Poi si voltò e si allontanò a grandi passi.
Tyrensis si accigliò e riprese a guardare i bambini rimasti. «Il suo migliore amico è il nipote di Elrork», spiegò la stessa ragazzina che aveva fatto la domanda. «E suo padre va al Consiglio. Non fa che ripeterlo.» «Suo padre?» «No», rise la bambina. «Bartron. Crede di essere migliore di noi.» Tyrensis sorrise. «Capisco. E tu come ti chiami?» La bambina si alzò e accennò a una riverenza con la sporca sottoveste marrone. «Annaria.» Si lasciò ricadere di peso. Tyrensis sogghignò. «E voi potete chiamarmi Tyrensis, se i vostri genitori consentono tale familiarità.» «Non gliene importa», replicò Annaria. «Non glielo diciamo.» Due degli altri ridacchiarono. «Ma cos'era successo all'orso?» Tyrensis lanciò un'occhiata in direzione degli alberi tra cui era scomparso Bartron. «Magari potrei fare qualche indagine, oppure leggere le acque», disse dopo qualche istante. Guardò di nuovo Annaria. «Sì, così dovrebbe andare. Tornate domani. No, dopodomani.» I bambini brontolarono. «Oh, d'accordo. Domani, allora. Vuol dire che se non avrò ancora una risposta vi rimanderò a casa. Va bene?» I bambini annuirono, saltarono in piedi e si sparpagliarono in direzione del paese. Tyrensis rise tra sé. Raccolse le verdure e il pane che i genitori avevano dato ai figli per lei, per ripagarla dell'intrattenimento. Avrebbe mangiato bene quella sera, e forse anche l'indomani. Ma doveva una storia ai bambini. Il sorriso svanì. Una storia. Una mai raccontata prima. Guardò di nuovo verso la dimora di Elrork, poi salì i due gradini che portavano al suo polveroso carro coperto e chiuse la malandata porta di legno. Un'ora prima del crepuscolo Tyrensis lasciò il carro, con indosso la migliore veste di lino che possedeva. Fece una smorfia; avrebbe potuto impressionare l'ultima delle servette della grande casa, ma niente di più. Fissò le colonne in lontananza, chiedendosi quanti anni fossero passati. La brezza della sera trasportava l'odore di foglie bruciate; un refolo le mandò i lunghi capelli grigi dietro le spalle. Accarezzò un ricciolo ribelle, poi sfiorò la cicatrice che aveva sulla guancia. No, non si sarebbe ricordato di lei. Un'idea sciocca. Ma era passato così tanto tempo, magari Elrork sarebbe stato felice di raccontarle ciò che sapeva. Magari sarebbe stato felice di
rendere noto al mondo come aveva sconfitto l'orso. Fece un bel respiro, attraversò il paese, e sali a fatica la collina. Quando bussò alla porta di Elrork, il servitore non la fece entrare. Non aveva motivo di disturbare il padrone. Una misera Narratrice viaggiante che va a chiedere di un fatto vecchio quarant'anni? Che assurdità! Il servitore sbatté la porta; lei si allontanò. Una voce rauca mugghiò dietro l'angolo della casa e un bambino rise. Tyrensis si morse il labbro, quindi seguì quei suoni. Ed eccolo lì, a giocare col suo nipotino. Almeno, così pensava: con abiti così lussuosi indosso, il bambino era certamente un parente, e Annaria aveva detto che l'Eroe aveva un nipote.. Elrork... era invecchiato bene, e sembrava ancora in forma. «Buona sera», disse avvicinandosi. Con una rapida giravolta Elrork posò a terra il bambino e si voltò ad affrontarla. Dopo un attimo si rilassò. «Che cosa vuole?» Anche Tyrensis si rilassò. Negli occhi dell'uomo neppure un barlume a indicare che l'avesse riconosciuta. Benissimo. In fondo, l'aveva incontrato soltanto una volta, e non era certo il tipo da attirare l'attenzione di un uomo simile. Anche se lei, allora, qualche sogno l'aveva fatto, sciocca che non era altro. Non ci volle molto a sciogliergli la lingua. C'era un bambino su cui fare colpo ed Elrork pareva felice di parlare della sua antica impresa con l'Orso di Stratmoor. Ma il suo resoconto fu ancora più scarno della versione scritta che la Narratrice teneva nel carro. Pareva non ricordarsi nemmeno che l'orso fosse ferito. Aveva fatto tutto da solo, grazie ad abilità e coraggio. Il bambino beveva ogni parola, e forse proprio la sua presenza distorceva i ricordi di Elrork. Tyrensis riusciva benissimo a capirlo. Cercò comunque di carpirgli qualcosa. «Ma, quando l'ha trovato, l'orso non zoppicava? Non c'era qualcuno...» «No! No di certo! Dove ha sentito simili calunnie?!» «Io...» «Se ne vada!» Alzò il pugno e avanzò verso di lei. «Non permetto si dicano bugie del genere sulla mia terra!» Tyrensis sollevò la gonna e si precipitò giù dalla collina. Sembrava che, se non fosse stato presente il nipote, l'uomo avrebbe anche potuto colpirla col frustino. Tornò al carro e si guardò alle spalle; se non altro non le aveva mandato dietro nessuno per scacciarla dal paese. Rimase alzata fino a tardi, seduta accanto al fuoco, a pensare. Elrork non poteva aver dimenticato quel che era successo; altrimenti non avrebbe rea-
gito con tanta violenza. Ma ciò voleva dire che aveva tradito il proprio onore, mentito per una maggiore gloria. Perché? Aveva ucciso l'orso. Si era guadagnato quello che possedeva. Perché negare di essere stato aiutato da qualcuno? Cercò di ricordare come era stato Elrork da giovane, tanti anni prima. Così sicuro di sé... be', no; presuntuoso, piuttosto. Ma un uomo superiore... o forse soltanto arrogante. E bello. Oh, sì, proprio bello. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Scosse il capo. Aveva portato con sé quel ricordo da quando aveva diciannove anni? Non riusciva a crederci. Ma nient'altro aveva senso. Aveva avuto in mente soltanto la gloria, e la propria immortalità, e finali perfetti. E adesso raccontava storie. E alcuni di quelli che l'ascoltavano venivano ispirati dalle sue parole e se ne andavano in giro a farsi ammazzare. Forse non era affatto migliore di Elrork. E cosa avrebbe detto ai bambini? Dovevano avere già sentito che l'orso era malamente ferito quando Elrork si era imbattuto in lui. Quanto a lei, la verità la conosceva bene; era praticamente l'unica a conoscerla. Ma voleva proprio svelarla, dopo aver mantenuto il segreto così a lungo? Si alzò per dar da mangiare al cavallo, vecchio e stanco; fu tentata di attaccarlo al carro e partire. Non si sarebbe inventata niente solo per accontentare i suoi giovani ascoltatori. Avrebbe significato violare il Codice dei Narratori. Avrebbe raccontato loro la verità o neppure aperto bocca. E, tuttavia, come poteva affermare di conoscere la storia? Perché avrebbero dovuto crederle? Sospirò e salì sul carro. Magari avrebbe potuto rifiutarsi di aggiungere qualcosa. Ma sapeva che non sarebbe andata così. Elrork aveva goduto di quarant'anni di fama, ed era ora di mettere in chiaro le cose. In piedi al centro del carro, fissò il letto. Quindi si sedette sul pavimento appoggiandosi a una parete dura. E, nonostante le sue migliori intenzioni, si addormentò. Si svegliò sentendosi eccitata. Quel giorno non avrebbe potuto fare niente di sbagliato; in ogni caso, sarebbe stata raccontata una storia. E magari stavolta il suo pubblico non sarebbe stato invaso da insensati sogni di avventura. Si stiracchiò, per riprendersi dalla stupida posizione in cui si era addormentata, e si dedicò alle faccende domestiche con l'energia di una donna con un terzo della sua età. Prima che potesse pensarci ancora, qualcuno bussò alla porta.
I bambini erano già lì. Il cuore le batté più forte, e disse ai piccoli di aspettarla fuori. Afferrò il telaio della porta, lo sguardo che vagava per il carro. All'improvviso vide la ciotola di legno sul tavolo da cucina, nell'angolo. Sospirò di sollievo. Ma certo: una lettura delle acque. Come aveva potuto essere tanto distratta? Prese la ciotola, ne rovesciò fuori alcuni pezzi di carota, e diede una passata col grembiule. Reggendola pomposamente davanti a sé uscì dal carro. Vide la bambina che il giorno precedente le aveva chiesto la nuova storia. «Armarla, corri al pozzo a riempire questa bacinella», le disse, tendendole il contenitore di legno. «Perché funzioni, l'acqua dev'essere limpida e fresca di fonte.» La bambina parve onorata e corse via con la ciotola. Tyrensis dovette soffocare una risata vedendo che tentava furtivamente di pulirla, prima di riempirla d'acqua. La Narratrice riuscì a restare seduta con serena dignità, ignorando gli altri bambini, finché la ciotola non le fu posta davanti. «Non vi spingete», disse. I bambini continuarono a fare a gara per riuscire a vedere la bacinella mentre Tyrensis chinava il capo sopra di essa. «Devo avere silenzio.» Infine si calmarono, trovando tutti e nove un posto da cui potevano scorgere l'acqua. Bartron, il bambino ricco, non era con loro; non c'era da stupirsi. Tyrensis osservò la superficie scintillante senza dire niente, finché i bambini annoiati non cominciarono a sbuffare. «L'acqua dev'essere assolutamente immobile», ammonì, sollevandosi e stiracchiandosi. I bambini colsero il suggerimento e si allontanarono un po'. Infine l'acqua si fece calma, e Tyrensis si chinò di nuovo. Non avrebbe potuto avere un pubblico più attento. Si riunirono tutti accanto a lei. Da una borsetta che portava in vita estrasse delle foglie secche, che sbriciolò attorno alla ciotola, due, tre volte, formando cerchi sempre più ampi. Ciò li avrebbe tenuti indietro; non avrebbero osato disturbare il suo disegno. Fece un respiro profondo e fissò l'acqua. Nuvole e alberi autunnali quasi spogli tessevano sulla superficie un arabesco che mutava lentamente. «Si sta formando!» Tyrensis si avvicinò ancora di più, facendo ondeggiare la mano destra secondo una danza complessa; si teneva in equilibrio appoggiandosi sul moncherino della sinistra. «Qualcuno di voi riesce a vederlo?» «Io...» Tyrensis alzò lo sguardo. Era uno dei maschietti; ma il bambino abbassò
gli occhi, scosse la testa e arrossì. Nessuno degli altri affermò di vedere qualcosa di più che riflessi. Molto bene; odiava i bugiardi. Riprese a fissare la ciotola e allontanò ogni pensiero dalla mente. Il silenzio durò ancora un attimo. Poi cominciò. «Vedo un guerriero. O meglio, vedo stivali di cuoio, e il fodero di una spada, e un... «Grande dea, è una donna! Ha un arco con la freccia incoccata, e sta cercando, seguendo... ah, sì. Escrementi d'orso. Fumano ancora. E adesso un'impronta. Grandissima. Non ha mani piccole, ma non riesce ad allargarle abbastanza da coprire le tracce. «Prosegue ancora. Che idiota! Non può sperare di fermare quell'orso, anche se ha avvelenato la punta delle frecce. E da sola! A meno che... no. Da sola. Ma che... «Attenta! Cosa sto dicendo, non può... più avanti i rami si muovono, al di là di un ruscello che non ha visto. Sta guardando verso il monte, è uscita dagli alberi, scivola sulla riva fangosa, si riprende e guarda verso valle, lei... «... l'ha sentito! Si volta per tornare indietro e l'orso balza nel fiumiciattolo, e poi dritto verso di lei che tende l'arco e... lo colpisce, ma solo alla coscia, e quello grida e le si precipita contro sulla riva e lei estrae la spada e la fa roteare, e schizza via e poi scivola e la bestia la sbatte nell'acqua ma lei si rialza di nuovo e rotea l'arma e... lo colpisce! Libera la lama con uno strattone e l'animale si gira bruscamente e lei perde la presa e quello... oh, dea, le ha preso il braccio, sta masticando... le sfregia il viso, ma lei continua a lottare, ha un pugnale nell'altra mano e lo colpisce ancora e ancora e una zampa penzola zoppa, e l'orso la lascia andare e si ritira e lei colpisce con la spada e quello se ne va e lei si volta e barcolla, no, l'orso la segue ancora e la raggiunge, ma cade e le lacera il polpaccio e... lei se ne è andata, traballando nel sottobosco, e l'orso ne ha avuto abbastanza e zoppica via, leccandosi le ferite, e lei...» Tyrensis rabbrividì e chiuse gli occhi. «Lei cosa?» chiese Annaria. «L'ha inseguito di nuovo?» Gli occhi di Tyrensis si aprirono di scatto. «Ma sei matta?!» Tornò a guardare la bacinella, poi l'allontanò con un colpo, schizzando d'acqua i bambini. Strinse il pugno e si alzò, il viso rivolto alla dimora sulla collina. «La lettura delle acque non dice altro. Suppongo sia morta per le ferite. Di sicuro non se ne è più sentito parlare.»
Il silenzio durò solo un istante. Due dei maschietti cominciarono a fare la lotta. «Io sono l'orso», disse uno. E l'altro ribatté: «Io sono Elrork!» A quel punto Annaria - chi altri? - saltò in mezzo ai due. «Io sono la dama guerriera!» proclamò. «E combatterò contro di voi!» «Smettetela!» Tyrensis si strinse la testa, fissando i bambini. «Ma non avete ascoltato?» gridò. «Non riuscite proprio a capire?» La guardarono perplessi. Lei scosse il capo. «Oh, andatevene a casa.» Corsero via, a giocare e ad aiutare i genitori. Tyrensis fece un gran sospiro. Cosa ci si poteva aspettare da loro? Erano bambini. Prese la ciotola e rientrò nel carro. Restò seduta a lungo, ripensando alla storia che aveva raccontato. Poi andò a una cassapanca nell'angolo, sollevò il coperchio e allungò la mano verso il fondo, sotto strati di vestiti. Estrasse un fodero e, con dolcezza, liberò la spada spezzata. L'impugnatura era fatta per due mani, e l'appoggiò sul moncherino, dove avrebbe dovuto esserci la sinistra. Quindi la ripose, e fece scivolare le dita lungo la cicatrice sotto l'occhio mancante. Era troppo tardi per la gloria. E non ce n'era nel perdere una battaglia. Se Elrork aveva deciso di credere che la cacciatrice che aveva ingaggiato se n'era andata con la paga, senza aver fatto nulla per indebolire l'orso prima che lui gli sparasse contro, pazienza. Ma sarebbe stato bello raffreddare alcune di quelle giovani teste calde prima che crescessero e andassero in giro a farsi ammazzare. Tyrensis sbuffò. Non poteva cambiare i giovani. Però magari... poteva almeno provare. Fece scivolare di nuovo la spada nel fodero e la ripose sul fondo della cassapanca; poi andò al tavolo da cucina, afferrò una testa di lattuga, la tenne ferma col moncone e cominciò a tagliarla. Quando ebbe finito, la mise nella ciotola. Sorrise ripensando al viso dei bambini, che fissavano una banalissima ciotola di legno. In realtà era molto più utile per l'insalata che per scrutare le acque. Vaughn Heppner SNOOT BRONTOLONE Se c'è una cosa che apprezzo più del fantasy tolkieniano, è l'umorismo. Il giusto genere di umorismo, s'intende; devo ammettere di preferire George Bernard Shaw alle normali sitcom, ma è risaputo che posso sbelli-
carmi dalle risate davanti a qualcosa di veramente divertente. C'è una storia in Adventures in Time and Space, intitolata «Alamagoosa», cui non riesco a pensare senza restare priva di fiato dal troppo ridere. Quando ho cercato di leggerla ad alta voce al mio corso di scrittura presso la Urban School, con mia grande vergogna non ho fatto che ridacchiare. Eric Frank Russell? John Taine? Una volta, riferendomi all'arte di scrivere, ho detto alla mia classe di fantascienza: «Ragazzi, è per questo che vi state facendo scoppiare il cervello; perché un giorno la gente dica: 'Mi ricordo una storia bellissima, ma non riesco a ricordare chi l'ha scritta'». Ah, l'immortalità! Se là fuori c'è chi se ne ricorda, fatemelo sapere. Qualcuno si è fregato la mia copia, cosa che dovrebbe essere considerata un reato da pena capitale. «Colui che ruba la mia borsa ruba sciocchezze; ma colui che mi prende i libri migliori...» già, l'ha detto proprio Shakespeare, pensate un po'! Comunque, quando ho letto questo racconto, sono diventata letteralmente afona dal troppo ridere, e questo è senza dubbio il sistema migliore per farsi acquistare da me un'opera letteraria. Ma il mio senso dell'umorismo è quantomeno imprevedibile; rimando spesso al mittente alcune storie che nelle intenzioni dell'autore dovevano essere divertenti con un bigliettino e una domanda: «Avrebbe dovuto far ridere?» Ma questo è soltanto uno dei rischi del mestiere. Ricordate? Se non si sopporta il caldo, perché stare in cucina? Il primo colpo le fece saltar via la spada. Il secondo mandò la pesante lama troll a sbattere contro il suo elmo. Razoress, un'amazzone della prima fila, lasciò cadere con un grugnito il vessillo della regina e crollò sulla fredda distesa erbosa. Gocce di pioggia le schizzavano il viso mentre perdeva e riprendeva conoscenza. Il rumore della battaglia si affievolì. All'improvviso un piede artigliato di troll piombò a pochi centimetri dai suoi occhi. Udì un riso soffocato gracchiante, profondo. Ma il piede si sollevò e sparì alla vista prima che lei potesse muoversi. Poi, un attimo prima di perdere la lotta per restare cosciente, percepì i tentacoli di un gelo artico e vide che sul campo di battaglia stava scendendo la nebbia. Quella strana nebbia fu l'ultima cosa che vide mentre scivolava in uno stato di torpore... «... ah, sbarbatello! Puoi anche smetterla di ostentare davanti a me la tua vista d'aquila. Guarda! Un'amazzone.»
Dopo un po', Razoress si rese vagamente conto della presenza di una voce, una voce acuta, pomposa. Udì qualcosa scattare, poi sentì dei piccoli oggetti cadere rumorosamente vicino alla sua testa. «Oh, oh! E questo cos'è?» Quando non giunse risposta, si udì come un fruscio d'indumenti. «Avvicinati, sciocco pigraccio. È fuori combattimento. Non lo vedi, tontolone buono a nulla?» «Cos'è?» La nuova voce era ancora più acuta della precedente e pareva annoiata. «Il vessillo della regina, sbarbatello. Immagino che valga il suo peso in oro.» Il vessillo... stavano parlando dell'insegna della regina, e lei ne era responsabile! Razoress si sforzò di aprire gli occhi ma riuscì solo a farsi venire un gran mal di testa. Le parve che la sua mano si muovesse, ma non ne era certa. Qualcuno strillò. Ci furono altri schiocchi. Razoress sentì qualcosa contro il petto e udì dei colpi sordi più lontano. «Sua sapienza, lo tiene ancora stretto.» «Cosa?» «Il vessillo, sua sapienza. L'umana lo tiene ancora stretto.» «Liberalo usando una leva, stupido tontolone! Devo pensare io ogni passo che fai?» «Vuol dire, toccarle la carne?» Si udì un forte rumore, come se qualcuno stesse sbuffando. «No di certo. A meno che tu non voglia rischiare l'infezione.» Infezione? Di cosa stavano parlando? Perché toccandole le dita si sarebbe rischiata un'infezione? Non era un'appestata. Quando era più giovane aveva avuto gli orecchioni, ma erano durati meno di un anno; l'aveva curata un esperto di sifilide. E, poi, non indossava forse i guanti? Ah, no... se li era tolti qualche istante prima del combattimento. Un incantesimo aveva fatto sì che ogni oggetto di metallo risultasse di colpo troppo bollente per poterlo sfiorare. Erano state costrette tutte a liberarsi dell'armatura, a meno che fosse in cuoio, e ad avvolgere ogni pomo metallico in pesante lana di pecora. Razoress ricordava di essersi avvolta il capo con un'imbottitura, in modo da poter comunque indossare il robusto elmo. Dopo di che i troll avevano attaccato. Cercò di alzarsi, o almeno di aprire gli occhi. L'emicrania continuava a martellarle la testa. Una volta di più, fallì nel tentativo. Avevano ripreso a parlare, quindi ascoltò.
«Idiota, cosa stai facendo?» «Ha detto di non toccarla.» «Sì, sì, l'ho detto. È vero. Ma vedo che adesso ti sei avvolto le mani col telo del tempio. Dove sono i tuoi guanti da ladruncolo?» Ci fu un mormorio di risposta. «Parla ad alta voce, tontolone. Non riesco a sentirti.» «Ho detto che li ho dimenticati.» «Manici di scopa e calderoni di strega! Li hai dimenticati?» «Mi dispiace, suo onore.» «Così siamo passati a 'suo onore' adesso, eh?» Ci fu un rumore di sputo. «Finiscila e metti via il tuo telo del tempio. Dovrò fare da me.» Cominciò a brontolare e a produrre suoni come di chi stia rovistando. Il vessillo, si disse Razoress. Porteranno via il vessillo della regina. Senza dubbio per ostentarlo dentro qualche tana o fortezza. Ma perché non l'avevano preso i troll? Loro ne conoscevano l'importanza. La sua perdita avrebbe gettato un'ombra gravissima sul regno della regina. «Sta' indietro adesso, e guarda un maestro di ladruncoleria al lavoro.» Nella testa di Razoress l'emicrania infuriava. Aveva la lingua gonfia, e l'interno della bocca pareva foderato di pelle di squalo. Udì il delicato avvicinarsi, la sensazione vellutata del tessuto contro le dita. Ci fu un grugnito bisbigliato quando un suo dito venne staccato a forza dall'asta di legno. Il fiato del ladruncolo aveva l'odore dei pini. «Queste dita sono rigide come canne di palude», si lamentò sommessamente la voce acuta. «Be', non importa. Il ragazzo sta aspettando.» Razoress si concentrò. Un'ondata di orgoglio e di senso di responsabilità crebbe dentro di lei. Spalancò gli occhi e, digrignando i denti, ruotò in alto l'altro braccio; afferrò qualcosa che urlava... Sollevò la testa per vedere cos'aveva acchiappato, e quasi si lasciò scappare lo snoot panciuto e vestito di verde. Aveva grasse guance rosee, un lungo naso rosso in punta e un buffo cappello alto e appuntito, simile a quello degli elfi. L'essere non era più alto del suo ginocchio. La stretta di Razoress aumentò attorno al minuscolo braccio dello snoot. Si mise a sedere con un gemito; il mondo le girava così tanto davanti agli occhi che quasi ripiombò al suolo. Le nuvole erano sparite ed erano comparse le stelle; faceva freddo. Cominciò a tremare, ma il paesaggio buio smise di roteare e il capogiro l'abbandonò. Rimase, comunque, con un terribile mal di testa. «Lasciami, o sarò costretto a compiere una delle magie più terribili»,
minacciò lo snoot con sussiego. Razoress lo fissò: al fianco portava una borsa di pelle ricoperta di strisce di legno colorato, e aveva scarpe fatte di corteccia. Indossava davvero un paio di guanti di velluto; quelli che usava per rubacchiare, senza dubbio. La donna si guardò attorno, scrutando la collinetta erbosa. L'altro snoot non si vedeva da nessuna parte. «Lasciami, ho detto! La mia pazienza si sta esaurendo.» Si concentrò su di lui, lottando contro la nausea che l'aveva colta all'improvviso. Lo snoot strinse gli occhietti neri. La studiò con attenzione. «Non stai bene», sentenziò infine. «Ti prego, consentimi di darti una dose di snootmedicina. Poi ti sentirai molto meglio.» Gli strinse forte il braccio. «Stavi cercando di rubare il vessillo della regina.» Lui rise disinvolto e fece un gesto sdegnoso con l'altro braccio. «Mi giudichi male. In realtà avevo visto che eri gelata e speravo di poter accendere un fuoco per rimetterti in salute. Il vessillo lo volevo soltanto spostare perché il calore non lo rovinasse. Meglio non correre rischi con certe cose; dentro di esse risiedono strane forze.» Razoress cercò di resistere all'emicrania, chiedendosi se la medicina avrebbe potuto essere utile. No, no. Mai fidarsi di uno snoot. Lo sanno tutti. «Un fuoco?» replicò. Lui annuì con forza, gli occhi scuri che non abbandonavano mai il suo viso. «Gli snoot non sono noti per la generosità, e neppure per la gentilezza», affermò lei. «Ah, tu ci giudichi per le parole di gente malvagia. Una disgrazia, ecco cos'è! Ma temo che, a causa del tuo grossolano e volgare errore, sarò costretto ad andarmene. Devo quindi insistere che tu mi lasci il braccio.» «Allora potresti davvero accendere un fuoco per farmi riscaldare?» Lo snoot annuì, la faccia attraversata da quello che lui considerava di certo un sorriso onesto. E invece lo faceva somigliare ancora di più a un'astuta vecchia volpe e a un bugiardo di prima categoria. «Dov'è l'altro?» gli chiese. Lui si guardò attorno. «L'altro cosa?» domandò a sua volta. «L'altro snoot. L'ho sentito.» «Il tontolone?» Razoress annuì, stupita che ammettesse che ce ne fosse stato un altro.
Lo snoot sputò verso le scarpe di corteccia. «Senza dubbio sarà corso a casa, portandosi allegramente via i miei guadagni.» «I tuoi guadagni?» Lui si strinse nelle spalle, occhieggiando la mano che lo teneva stretto. Lei aggrottò le sopracciglia allentando la presa. Il mento le si piegò sul petto. Gli snoot erano saccheggiatori, come le gazze e gli sciacalli. Perlustravano i campi di battaglia alla fine dei combattimenti, in cerca di monete, ciondoli e altri oggetti di valore. Si diceva avessero dei gruzzoli personali, le cui dimensioni determinavano lo status sociale. Fece un profondo respiro e all'improvviso si ricordò che gli snoot erano più viscidi delle anguille. Alzò lo sguardo e vide che lo snoot aveva estratto un lungo ago. Gli strizzò il braccio più forte di prima. «Buttalo», gli ordinò. Lui si umettò le labbra. «Subito!» «Ahi!» si lamentò quello, lasciando cadere l'ago. «Piano, piano. Sono vecchio, ho le ossa fragili.» Razoress si guardò di nuovo attorno, controllando il campo di battaglia. Era seduta su una collina tondeggiante; un miglio a est iniziava la grande foresta di pini. Non si sarebbero mai aspettate che i troll arrivassero così a ovest... «Snoot, hai visto la battaglia?» Lui increspò le labbra e arricciò il lungo naso rosso. «Sì, l'ho vista», ammise infine. «Chi ha vinto?» gli chiese. Lui si sputò sui piedi e si strinse nelle spalle, accigliato. «Dimmelo, o per te si metterà male», gli ordinò, scuotendolo. «Sì, sì, maltratta l'innocuo piccolo snoot», brontolò quello. «Sbuffa e minaccia e strizza gli occhi. La gente alta è tutta uguale.» Razoress si sentì male. Non aveva poi tutti i torti. «Chi ha vinto? È tutto quello che ti chiedo.» Lui si massaggiò il naso, studiandola. «La verità, per favore. Non cercare di decidere cos'è che voglio sentirmi dire.» «L'idea non mi è mai passata per la testa. Insomma, io...» «Cos'è successo?» sbottò, scuotendolo di nuovo. Lui alzò l'altro braccio ed emise un suono strozzato. «Siamo stati imbrogliati, ecco cos'è successo.»
«Imbrogliati?» «Già, proprio cosi. Lo stregone ha lanciato l'incantesimo, e tu e le tue compagne vi siete levate l'armatura. Molto strano, molto strano. Gli snoot, però, erano felici, vedendo le vostre belle armature. Poi i troll hanno attaccato. Il combattimento è stato acceso. Cadeva una pioggia fredda, e lo stregone ha pronunciato parole ingarbugliate e ha tirato fuori una giara nera, stappandola. Dalla giara è uscita una nebbia nera che si è srotolata sul campo di battaglia. Quando la nebbia è rientrata nella giara, erano spariti tutti: i troll, le umane e il bottino.» Razoress sbatté più volte le palpebre. Uno stregone? Una giara nera? E una nebbia nera? Scosse il capo, cosa che servì solo a provocare un'esplosione di dolore. Trasalì, ma fece bene attenzione a mantenere la stretta sullo snoot. Infine, aprì gli occhi e gli chiese: «Hai detto che erano spariti. Con questo...» «Sì!» l'interruppe. «Scomparsi, belle armature e tutto il resto.» Sputò di nuovo sulle scarpe di corteccia. «Si è verificata un'enorme ingiustizia. Lo stregone ha depredato gli snoot.» «Cosa?» Poi comprese; gli avidi snoot avevano pensato solo a se stessi e al loro gruzzolo personale. Era ovvio, però, che fosse entrata in gioco la magia nera. Prima l'incantesimo che aveva reso incandescente il metallo, poi la nebbia scura proveniente dalla giara magica. In quella nebbia c'era forse qualcosa che aveva mangiato tutti? Rabbrividì. No, erano scomparsi anche i troll. Era evidente che i troll si erano alleati con uno stregone. Aggrottò la fronte. O magari era stato lo stregone a convincere i troll a marciare verso ovest. «Dimmi, snoot, che aspetto aveva lo stregone?» «Niente per niente», fu la replica. «Cosa?» Lui si raddrizzò il più possibile, tolse l'alto cappello da elfo, e s'inchinò più che poteva. «Snoot Brontolone, al tuo servizio», disse, ricalcandosi in testa il cappello. «E questo cosa sarebbe?» Lui piegò il capo all'indietro, il viso pieno di sorpresa. «Come, scusa? Non avevi richiesto i miei servigi?» «Eh?» «Desideri informazioni sullo stregone che ha sconfitto le amazzoni della regina. Per un piccolo compenso sarò felice di rendermi utile. Di certo questi sono affari della regina.»
Razoress rise. Aveva sentito parlare dell'arguzia degli snoot. Tutto vero. «Sentì, snoot...» S'interruppe, lanciandogli un'occhiata. Forse sarebbe stato meglio giocare seguendo le sue regole. Magari in quel modo avrebbe mentito un po' meno. «Hai detto che la nebbia nera si è portata via tutto...» cominciò. «Non esattamente. Ho detto che, una volta scomparsa la nebbia, erano scomparsi anche i troll, le amazzoni e il bottino.» «Ma non io e il vessillo, giusto?» Lui fece spallucce e mormorò: «Può darsi, può darsi». «Perché io non sono stata presa?» «Le complessità della magia sono varie e indefinite. Magari per via del fatto che eri addormentata. Ma stiamo andando troppo in fretta. Prima dobbiamo discutere il mio compenso.» «Nessun compenso, Brontolone. Hai cercato di derubarmi. Ora...» «Non è vero, non è vero. Te l'ho già detto.» «... ora sei tu che devi pagarti la libertà.» Da una collinetta erbosa, a un metro e mezzo di distanza, salì una risatina trillante e allegra. Brontolone si girò e agitò il pugno in direzione della risata. «Ti darò una gran sberla sulle orecchie per questo!» Razoress scosse la mano. «È importante. Ascoltami.» Lo snoot si voltò di nuovo e agitò il braccio libero verso di lei. «Parla. Parla. Di' quello che devi dire.» «Accetti il mio patto?» «Mi prendi per uno sbarbatello? Prima di tutto, quali sono i termini?» Lei sbatté le palpebre, cercando di concentrarsi. La nausea era tornata. «Termini? Sì, ecco i termini. Descrivimi lo stregone, dimmi come si chiama e dove abita e dove potrebbe trovarsi adesso.» Brontolone si accarezzava il mento, annuendo. «E quando questi fattori saranno stati elencati?» «Allora ti lascerò il braccio.» «D'accordo! Lo stregone ha l'aspetto di un maschio umano, vecchio e curvo, e indossa una veste nera col cappuccio. Nessuno ne ha visto il viso. Si chiama Nove Dita, perché così l'ha chiamato un troll e nove sono le dita che ha. Puoi stare certa che il suo vero nome è un segreto ben nascosto. Nove Dita vive nella Grotta dell'Ascolto. Domani sera potrebbe trovarsi alla radura di pietra. Adesso, lascia andare il mio braccio; ho soddisfatto le tue richieste.»
Razoress lo fissò. «La Grotta dell'Ascolto, dov'è?» «Questo non era nei termini,» «Dimmi almeno dov'è la radura di pietra.» Lui sollevò il mento e guardò da un'altra parte. «Me lo dici se ti do una moneta?» Nei suoi occhi parve apparire una luce. «D'oro o d'argento?» domandò. «Nessuna delle due. Di rame.» Lo snoot lanciò un'occhiata di sbieco alla mano di lei, quindi si strinse nelle spalle e annuì. «La radura di pietra è a due leghe nella foresta, a sud del ruscello che scorre sotto il ponte del teschio.» Razoress aveva una conoscenza piuttosto vaga della foresta di pini. Sapeva dov'era il ponte del teschio, perché ci aveva combattuto durante le Guerre Wurm. «Non puoi essere più preciso?» chiese. «Prendi la pista dei lupi una volta oltrepassato il ponte del teschio. Ti porterà alla radura di pietra.» «La pista dei lupi?» «È il sentiero che usa il branco della zona.» Razoress si chiese quanto fosse saggio, nelle sue attuali condizioni, utilizzare una pista di lupi. Ma quale scelta aveva? Proprio nessuna. Con un'alzata di spalle, si rovistò in tasca e ne trasse una moneta di rame, che tese a Brontolone. Lui l'afferrò, ne verificò l'autenticità con un morso, e se la fece scivolare nella borsa. I pezzi di legno colorato sbatacchiarono. «Se mi accompagni alla radura di pietra, te ne do una d'argento», propose Razoress. «Il braccio, se non ti dispiace.» Legata dalla promessa, finalmente gli lasciò libero il braccio. Lui rise di gioia e saltellò via, fuori della sua portata. «Così va meglio», commentò. «Allora, snoot, che mi dici di questa offerta?» Lui scosse il capo. In Razoress crebbe la disperazione. Se voleva scoprire cos'era successo alle sue compagne, doveva per forza trovare Nove Dita. Nessun altro aveva mai sentito parlare di quello stregone. Le serviva l'aiuto di Brontolone. «Ti pagherò bene», aggiunse. «Quanto bene?» Aveva di nuovo il fuoco nello sguardo. «Una moneta d'oro.» Lui sbuffò. «Soltanto una? Per accompagnarti dal potente stregone? Per andare forse verso la mia stessa morte? No, un'unica moneta d'oro è davve-
ro troppo poco.» «Facciamo due, allora. Questa è la mia ultima offerta.» «Fammele vedere. C'è un sacco di gente che offre cose che non ha.» Razoress tirò fuori due monete d'oro, strofinandole l'una contro l'altra. All'improvviso, a una trentina di centimetri da Brontolone, ecco apparire un altro snoot. «Lo faccio io», disse lo snoot più piccolo. «Tirami le monete.» Brontolone girò sui tacchi, emise un grido furibondo e balzò contro il suo compagno. Quello schizzò dove non poteva essere visto. Lentamente, Brontolone si girò di nuovo, annuendo tra sé. «Molto bene. Lo faccio. Lancia qui le monete, per favore.» Razoress gliene lanciò una. Lui la prese al volo, l'addentò, e la fece scivolare nella borsa. «Anche l'altra, per piacere.» Allungò la mano. Dietro di lui era riapparso lo snoot più piccolo. «No», replicò Razoress. «Solo quando sarò alla radura di pietra.» Brontolone s'incupì. «Io lavoro meglio quando c'è piena fiducia.» «Ho detto di no.» Lo snoot più piccolo rideva a crepapelle. Brontolone decise d'ignorarlo. «Molto bene, quando sarai pronta a metterti in cammino?» Se lo chiedeva anche lei. Piano piano, piegò le gambe e sollevò il vessillo. Poi, appoggiandosi all'asta, si tirò in piedi. Barcollò, stordita. «Stai male», commentò Brontolone. «Forse dovresti riposare.» «Più tardi», sussurrò Razoress. «Quando sarò nel bosco. Fammi strada.» Cominciò a far roteare l'asta, arrotolandoci attorno il vessillo. Quindi, seguendo Brontolone, e usando l'insegna come un bastone da passeggio gigante, si diresse verso la foresta. Il cammino era faticoso. Razoress, testa china, e dita strette attorno al vessillo, riusciva a malapena a mettere un piede davanti all'altro, incespicando di continuo. Sapeva che la miglior cura per un forte colpo alla testa erano parecchie settimane di riposo, ma prima doveva scoprire cos'era successo alle sue compagne. Aggrottò le sopracciglia. Come faceva Brontolone a sapere cos'aveva progettato Nove Dita? Ma era troppo stanca per chiederglielo. Più tardi, si fermarono, da qualche parte entro i margini della foresta, perché lei era quasi svenuta una volta di troppo. Rabbrividì accanto a un piccolo fuoco, un mantello pesante gettato sulle spalle; infine si scosse e si costrinse a mangiare qualche galletta. Brontolone la osservava, aggiungendo ramoscelli al fuoco.
«Devo dormire», mormorò Razoress. «Ho la testa troppo pesante per continuare.» «Saggia decisione, saggia decisione», convenne lui. «Sdraiati. Starò io di guardia ai tuoi averi.» Mosse le labbra screpolate in una sorta di sorriso. «Mi devi svegliare in tempo per domani sera, diciamo domani a mezzogiorno. E, Brontolone, meglio che tu sappia che ho maledetto i miei averi, nel caso qualcuno ci mettesse sopra le mani mentre dormo.» Lo snoot sbarrò gli occhi. «Una maledizione? No, no, affidali a me.» Razoress si sdraiò, strinse le braccia attorno alla propria borsa e al vessillo, si tirò il mantello sul petto, e precipitò in un sonno profondo. Aprì gli occhi quando le vennero spruzzate sul viso delle gocce d'acqua. Brontolone era in piedi accanto a lei, le mani bagnate. «È mezzogiorno», disse. Razoress si mise a sedere lentamente, guardandolo; poi controllò la borsa: c'era tutto. «Ti sei comportato bene, Brontolone. Quindi alla tua paga aggiungerò una moneta d'argento.» «Piuttosto evita di gettare altre maledizioni», replicò lo snoot. «Mi ha perseguitato per tutta la notte. Usciva cantando dalla tua borsa, invitandomi a rubare le monete. Non mi avevi detto di essere una maga.» Non lo era, ma forse in quel momento di delirio e disperazione aveva attinto a un potere che non sapeva di avere. O forse gli snoot erano più creduloni di quanto non dicessero i cantastorie. In ogni caso, anche se si sentiva solo leggermente meglio, mangiò qualche altra galletta e riprese il cammino. Il primo pomeriggio scivolò nell'imbrunire, e l'imbrunire si trasformò presto in notte. I grilli stridevano, i lupi ululavano alla luna, e un vento lugubre gemeva tra i pini. Alla luce delle stelle, Brontolone camminava con disinvoltura lungo la pista dei lupi, mentre Razoress usava l'insegna come bastone e trascinava un piede dopo l'altro. Grazie ai sensi acuti e vigili di Brontolone, avevano già superato senza problemi una pattuglia di troll e si erano allontanati dal sentiero per veder passare uno sbuffante mastodonte. «Aspetta», bisbigliò Razoress. Il sudore le inondava il viso magro mentre i lunghi capelli neri erano appiccicati al cranio. Sentiva la testa di piombo e i pensieri erano rallentati. Brontolone ritornò lesto da lei. «Perché fermarci? La radura di pietra si trova appena mezzo miglio oltre la prossima svolta.»
«E Nove Dita è lì?» «Certo.» Gli occhi marroni dell'amazzone si strinsero. «Come fai a saperlo?» Lui usò entrambe le mani per lisciarsi il completo verde. «Me l'hanno detto gli snoot. La foresta è piena di snoot. Sappiamo tutto ciò che vi succede.» «Non ho sentito nessuno snoot.» «Ovvio. Ma hai sentito i grilli cantare e i lupi ululare e il vento gemere tra gli alberi. È con questi trucchi e sotterfugi che comunichiamo tra noi.» «Sta mentendo», disse l'altro snoot, apparso all'improvviso dalla foresta. «Sono andato avanti in esplorazione e gli ho bisbigliato tutto mentre tenevi la testa bassa.» Il giovane snoot lanciò un'occhiataccia a Brontolone. «Rendi onore al merito, per piacere.» Brontolone si chinò a ispezionarsi le scarpe. All'improvviso Razoress si chiese se Brontolone non avesse fatto un patto con Nove Dita. Portò la mano sull'impugnatura del coltello. «Snoot, tu fai troppi imbrogli. Mi hai forse venduto allo stregone?» Il giovane snoot restò senza fiato. Brontolone la guardò con aria di totale stupore; poi la sua faccia tonda e cicciosa si contorse in un'espressione di disgusto. «Uno snoot che si fida di uno stregone? Bah! Devi reputarmi un sempliciotto. Non sono tanto sciocco. Non ci guadagna nessuno facendo un patto come quello, tranne lo stregone e i suoi poteri.» Razoress si meravigliò che fosse così infervorato. «Non lo sapevo. Ti prego di scusarmi.» Brontolone si voltò verso lo snoot più giovane e gli assestò una sberla sulle orecchie. «Che ci fai qui, sbarbatello? Ti ho dato ordine di sorvegliare il re dei troll.» «È arrivato. È arrivato.» «Il re dei troll?» chiese Razoress. Il giovane snoot fece un passo avanti. Anche lui indossava un completo verde e un cappello alto a punta, simile a quello degli elfi; ma era più magro di Brontolone. «Sì, sì. Parlano dello scambio, del patto e della giara. Nove Dita sostiene che le amazzoni sono tutte nella giara.» Razoress si accigliò. Il re dei troll... e lei era ridotta peggio di una vecchietta, debole nel fisico e nella mente. «Quanti troll ci sono?» domandò Brontolone. Il giovane snoot sollevò tre dita. «Spiegami perché hai così tanta paura degli stregoni», chiese pacata-
mente Razoress a Brontolone. Quello si sputò sui vestiti di corteccia. «Al pari delle vesciche di gargoyle, gli snoot sono rari. Si dice che gli stregoni ne apprezzino molto i piedi per usarli nelle pozioni per diventare invisibili.» Razoress scosse il capo incredula, poi si guardò attorno alla ricerca di qualcosa su cui sedersi. Individuò un vecchio ceppo. Mettendosi a sedere, prese un fazzoletto per detergersi il sudore dal viso, quindi guardò Brontolone. «Sei davvero pieno di sorprese. Adesso però ce l'ho io una sorpresa per te.» «Ah, sì?» «Mi serve il tuo aiuto per riuscire a prendere la giara nera.» Lui scoppiò a ridere, e lo stesso fece lo snoot più giovane. «No, no, stanami a sentire», riprese Razoress. «Hai appena detto che odi gli stregoni. E adesso capisco il perché. Cacciano i tuoi simili per utilizzare parti del vostro corpo come ingredienti per pozioni magiche. Un'abitudine disgustosa. Questa è la tua occasione per vendicarti.» «Vendicarsi è un'ottima cosa in linea di principio», replicò Brontolone dopo un attimo. «Ma dov'è il guadagno?» Razoress mise via il fazzoletto e, con le mani sulle ginocchia, cominciò a studiare Brontolone. Aveva bisogno di lui, senza alcun dubbio. Era in gioco la vita delle sue compagne. Come poteva fare a convincerlo? Brontolone lanciò un'occhiata allo sbarbatello, annuì, poi si rivolse a Razoress dicendo: «Ho adempiuto al mio compito. Per favore, sii gentile e dammi ciò che mi spetta». Razoress, ignorando Brontolone, guardò lo sbarbatello. «Hai detto che il re dei troll e Nove Dita parlavano di uno scambio, giusto?» «L'ho detto.» «Cos'ha intenzione di usare il re dei troll come merce di scambio?» «Uno dei suoi guerrieri tiene stretto un pesante sacco di monete.» Razoress fece un cenno a Brontolone. «Trovato: ecco il tuo guadagno. Monete d'oro, senza dubbio.» Brontolone sbuffò. «Ti prego, non sono un nano avido i cui occhi brillano di desiderio non appena si nomina l'oro. Uno snoot, innanzitutto, è un realista di prima categoria. Hai detto di aver bisogno del mio aiuto per prendere la giara. Non riesco a capire cos'abbia a che vedere questo col sacco di monete del re dei troll.» Razoress stava chiedendo allo sciacallo di fare la parte del leone. Era un'idiozia. Adesso se ne rendeva conto. E, tuttavia, come poteva recupera-
re la giara e liberare così le sue compagne? Meditabonda, si accarezzò il mento. Piano piano, sul suo volto apparve un sorrisetto furbo. La caratteristica fondamentale della natura degli snoot era di essere degli astuti saccheggiatori. Doveva fare leva sull'idea di un bottino ottenuto con facilità. «Molto bene, Brontolone. Voglio farti un'altra proposta.» Lui si strinse nelle spalle, fingendo indifferenza. «Ci siamo incontrati la prima volta perché volevi prendere il vessillo della regina. Se mi aiuti in questa missione e io non riesco a far tintinnare nelle braccia tue e dello sbarbatello tutte le monete del re dei troll che riuscite a trasportare, allora prenderò il mio coltello e taglierò il vessillo dall'asta per consegnartelo.» «Niente trucchi?» domandò lui, gli occhi da volpe subito attenti e vigili. «Niente trucchi. Ti do la mia parola di amazzone.» Brontolone strizzò gli occhi e si strofinò il mento grassoccio. «Prima spiegami il tuo piano.» Razoress si chinò in avanti e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. «Rischioso, rischioso», continuava a mormorare lo snoot. Quando udì quale doveva essere il suo compito, lo sbarbatello impallidì. «Siete abbastanza in gamba da riuscirci?» chiese Razoress. Brontolone sbuffò. «Ma certo che siamo abbastanza in gamba. Non è questo il punto. Il problema è che nel tuo piano ci sono talmente tanti se! Non lo so, non lo so...» Cominciò a scuotere la testa. «Senti, Brontolone», intervenne Razoress. «Suppongo che la maggior parte dei gruzzoli degli snoot non contenga poi grandi quantità di monete d'oro. Dopo stanotte, sarai di certo il più alto in rango nel tuo clan.» Lui fece un riluttante cenno di assenso. «Ma un alto rango significa grandi rischi», continuò lei. «Questa è una strana filosofia», commentò Brontolone. «E dai», replicò seccata l'amazzone. «Il pericolo sta tutto nel ruolo che svolgo io. Tu ti devi esporre solo per un brevissimo istante. Per una volta, lascia da parte le tue tattiche e smettila di mercanteggiare. Già così ti guadagnerai un'immensa ricchezza e un incredibile status sociale.» Finalmente Brontolone sorrise. «Molto bene, sono d'accordo.» «Anch'io», squittì lo sbarbatello. Razoress annuì. «Perfetto. Allora cominciamo.» Il cuore in tumulto, il pugnale stretto in pugno, Razoress si lasciò scivolare verso la radura di pietra. Scostò un ramoscello e strisciò su uno scroc-
chiante tappeto di aghi di pino. Infine, tirò indietro un ramo di conifera e scrutò nell'antica vallata. La luna illuminava il cerchio di pietre, e ogni pietra portava inciso un simbolo consumato e levigato dal tempo. L'area racchiusa dalla radura era quella di una torre di castello. La radura di pietra, come Razoress ben sapeva, si riteneva fosse stata costruita durante il regno dei re-maghi di Dan. Al momento, nel bel mezzo della radura, c'era un piccolo uomo incappucciato; al suo fianco, tre troll. Quelle creature erano più basse di Razoress, dovevano arrivarle all'incirca alla spalla, ma erano incredibilmente massicce; avevano una pelle spessa e orribile, e piccole teste munite di zanne. Alla cintura che portavano al fianco, i troll avevano spade a lama larga, e uno reggeva un pesante sacchetto di monete. Quello più vicino allo stregone aveva una cappa blu gettata sulle spalle: il re dei troll, senza dubbio. Mentre allontanava dagli occhi il sudore gelido sbattendo le palpebre, all'improvviso vide apparire Brontolone all'estremità della radura. Trascinava l'asta del vessillo, priva però del vessillo stesso. Soprappensiero, Razoress sfiorò l'insegna piegata che si era infilata nella cintura. Brontolone lasciò cadere l'estremità dell'asta, che sbatté rumorosamente contro la pietra. Nove Dita si girò, ma il suo volto rimase nascosto dalle pieghe del cappuccio nero. Anche i troll si voltarono, imperturbabili nei loro lineamenti rozzi e stupidi. «Guardate cos'ho portato», gridò Brontolone. Si trovava a circa dieci passi dal troll più vicino. Il re dei troll grugnì qualcosa allo stregone. «È uno snoot», gli spiegò Nove Dita. Lo stregone si esprimeva in uno stridulo bisbiglio, quasi avesse paura di essere udito. Spostando la giara che teneva in braccio, disse di rimando: «Cosa vuoi, snoot?» Dal suo nascondiglio Razoress vide che lo stregone aveva davvero solo nove dita. Strinse gli occhi fino a chiuderli, imponendosi di farsi trovare pronta. Anche se si sentiva ancora intontita e aveva la nausea, riaprì gli occhi e guardò la scena con attenzione. «Sono venuto a contrattare», rispose Brontolone. Nove Dita gracchiò stridulo. «Contrattare? Con un'asta? Vattene, snoot, prima che ti acchiappi e ti tagli i piedi.» Brontolone si levò il cappello e lo tenne in mano, chinando il capo. «Grande Signore, ritengo che tu desideri esaminare quest'asta prima di
cacciarmi via.» Il re dei troll grugnì di nuovo. Uno dei suoi raggiunse Brontolone, che danzò agilmente fuori portata. Il troll si chinò, prese l'asta e la portò al re. Questi l'esaminò, mentre Brontolone si rimetteva al posto di prima. «Notate i complessi intagli», gridò lo snoot. «Guardate come l'illustrazione delle battaglie descriva una splendida curva e mostri la gloria delle molte conquiste della regina. A questo punto vi chiedo: sapete cosa c'era attaccato a quell'asta?» All'improvviso Nove Dita sibilò: «Il vessillo!» «Proprio così, proprio così», replicò Brontolone. Si rimise il cappello. Il re dei troll rivolse un rapido grugnito a Nove Dita. Che annuì distratto, il cappuccio rivolto verso Brontolone. «Credo che ora possiamo iniziare le contrattazioni», riprese Brontolone. «Hai l'insegna?» chiese Nove Dita. «Ma certo.» «Mostramela», ingiunse lo stregone. «Oh, oh, grande Signore, ti prego, non sono così sciocco.» Il re dei troll grugnì qualche sillaba alle sue guardie, che estrassero la spada a lama larga. «No, mettetele via», intervenne Nove Dita. «Già, già, così va bene!» commentò Brontolone. «Altrimenti mi vedo costretto ad andarmene subito.» Le due guardie troll avanzarono verso Brontolone; il re grugniva con Nove Dita, il quale cominciò a scuotere il capo. «Stregone, ti prego di richiamarli», disse ad alta voce lo snoot. Il due troll fecero un altro passo avanti. Il re grugnì di nuovo. Spostando la giara nera nell'incavo del braccio sinistro, all'improvviso Nove Dita allungò una mano nodosa. Razoress fischiò e cominciò ad acquattarsi. Anche se la testa continuava a martellare, si preparò a scattare in avanti. «Fermati, o sarò costretto a lanciare un incantesimo!» gridò Nove Dita a Brontolone. Dal ramo di un pino che sovrastava la radura, all'improvviso scese un minuscolo cappio. Con abilità il cappio scivolò sul collo della giara e vi si strinse attorno con un guizzo. All'agitarsi del ramo lo sbarbatello gridò come un gufo, e Razoress scattò in piedi e giù nella radura. Il filo si tese e la giara nera venne strappata dal braccio di Nove Dita per schizzar via ondeggiando verso l'amazzone.
Nove Dita strillò allarmato, cercando di riafferrare la giara. I troll gracchiarono sgomenti davanti alla giara che sembrava volare. Razoress si allungò a prendere il contenitore, quando le passò davanti. Riuscì ad afferrarlo per il lungo collo e lo spezzò con un colpo di coltello. «No!» urlò Nove Dita. Dalla giara cominciò a salire un fumo nero. «Scappiamo!» gridò Nove Dita. Il fumo era gelido e ben presto oscurò le stelle. Per un istante Razoress provò una grande paura. L'incantesimo sarebbe stato annullato? Non lo sapeva, ma lo sperava. Rinfoderando il pugnale, tolse il vessillo dalla cintura, lo sollevò e attese. Piano piano il fumo cominciò a diradarsi. Mentre ciò accadeva, Razoress vide che la radura adesso era piena di amazzoni e troll stupefatti. «Il vessillo!» gridò, levandolo più in alto che poteva. «Stringetevi attorno al vessillo e scacciate i troll!» Udendo il familiare grido di Razoress e vedendo il vessillo circondato dai nemici, le amazzoni si radunarono molto più in fretta degli ottusi troll. La lotta fu breve; ben presto i troll, demoralizzati e gracchianti, se la diedero a gambe. Quando quelli scomparvero alla vista, le amazzoni si ritrovarono di nuovo attorno a Razoress, e Brontolone prese a strillare e a farsi largo in mezzo a loro. Al suo fianco c'era lo sbarbatello. «Questo è il coraggioso snoot che stanotte ha servito la causa della regina», dichiarò a voce alta Razoress. Il gruppo di soldatesse squadrò il piccolo snoot mentre Razoress, ginocchio a terra, si chinava verso di lui. «Dimmi, Brontolone, hai visto cos'è successo a Nove Dita?» «È sparito quando è sparita la nebbia.» Razoress annuì e chiese che le venisse portato il sacco delle monete del re dei troll. Era stato lasciato cadere dai troll in fuga. Una sua compagna glielo consegnò. Lei lo aprì. Le monete che conteneva erano d'oro. «Snoot Brontolone, rivendichi il tuo compenso?» «Certo che sì, certo che sì.» Brontolone tirò fuori quello che per uno snoot era un sacco di pelle davvero grandissimo. Con molta attenzione, facendo in modo che le amazzoni della regina vedessero bene, Razoress riempì il sacco di Brontolone con tutte le monete d'oro che lui riusciva a trasportare, poi fece lo stesso con lo sbarbatello. «Va', dunque, Brontolone», disse Razoress quando ebbe terminato.
«Racconta agli altri snoot della generosità della regina. Perché stasera tu le hai realmente reso un servigio.» E, a quelle parole, tutte le amazzoni applaudirono. Javonna L. Anderson STORIE Javonna Anderson chiarisce che, «nel caso non risultasse ovvio dal mio nome, sono una donna». Conosco perfettamente il problema ma, in un mondo in cui le ragazze sono chiamate «Scott», «Paige» o «Andrea», con ogni probabilità non esiste più la possibilità d'individuare il sesso di una persona basandosi unicamente sul nome proprio. Non solo ho ricevuto molte lettere indirizzate al Signor Marion Bradley, ma qualche anno fa, durante un picnic, una conoscente si è rifiutata di dirmi se il bimbo in salopette che le gattonava accanto fosse maschio o femmina, sostenendo che se l'avessi saputo probabilmente il mio approccio sarebbe cambiato. Comunque sia, Javonna Anderson abita a Wichita Falls, nel Texas, dopo essere nata a Springfield, nell'Illinois, e aver vissuto in una fattoria là vicino per diciotto anni. Come molti aspiranti scrittori, ha al suo attivo un gran numero di lavori strani, alcuni stranissimi, come accudire fagiani appena nati, potare migliaia di alberi da putta e aiutare ad allevare cuccioli di dobermann. È stata anche venditrice di biglietti per esibizioni pubbliche alla Fiera di Stato, tirocinante in corsi per la protezione delle falde freatiche - ecco un'occupazione che non avrei mai osato inventare: chi dice che la realtà non è più strana della fantasia? - e assistente di cancelliere in tribunale. Ha frequentato la Washington University di Saint Louis per sette anni, guadagnandosi una laurea in biologia, un master in ingegneria e politica aziendale, e una laurea in giurisprudenza. È sposata e risiede in Texas. È stata l'Aeronautica militare degli Stati Uniti a farla trasferire lì, perché il marito doveva seguire un corso di aggiornamento congiunto Euro-NATO per piloti di jet. Lui si augura di venire poi assegnato a un aereo da combattimento, mentre lei spera in un computer nuovo e in un indirizzo che non cambi per almeno tre anni. È la prima volta che vende un racconto. Ha intenzione di continuare a scrivere, nonostante le mille cose da fare, come passare l'esame per l'abilitazione all'avvocatura in Texas, cercare un lavoro e interrogare il marito su questioni come la temperatura del motore dei T-37. Javonna desidera
ringraziare: «Mike, Nancy, Dagvin, Erik, Tom, Anne e tutta la mia famiglia». «Mamma, raccontaci una storia.» «Sì, raccontacene una, solo una. Racconta, racconta, per favore! Eh?» La regina sospirò dolcemente. «Va bene. Ma una soltanto.» «Posso avere i mostri? Le storie della tata hanno sempre un sacco di mostri.» «Lasciami pensare.» «Falla lunga, mamma. Lunghissima.» Lei sorrise. «D'accordo. Non molto tempo fa c'era una principessa.» «Come me!» disse Midi. «Sì, tesoro, come te, solo più grande.» «Era molto carina?» chiese Midi, raggomitolandosi ancora di più nel letto. «Sì, cara, era molto carina.» «Uff!» sbottò Autieri. «Voglio sentir raccontare di mostri e cavalieri.» «La principessa crebbe in un luogo bellissimo, dove la gente non invecchia. Imparò a cantare e a cacciare coi falconi. Imparò a leggere libri di ogni tipo e imparò a scrivere...» «Lezioni. Uff!» mormorò Midi. Antieri annuì serio, concordando. «... e imparò a comportarsi da vera principessa.» «Mamma, ma era felice?» «Ah. Ci sei già arrivata? Hai proprio ragione, Midi; nonostante tutto quello che vedeva e faceva, la principessa non era molto felice. Sapete perché?» «Perché?» «Perché era un posto noioso?» azzardò Antieri. La regina tirò per bene le coperte del bambino. «Era infelice perché era sola.» «Non aveva un principe?» sbadigliò Midi. «Be', no, non ancora.» «Non la voleva nessuno?» La regina rise. «Oh, al contrario, erano in molti a volerla. Era lei a non volere nessuno di loro.» «Perché?» «Perché... perché ritenevano che i suoi sogni fossero sciocchi.» I bambini ci pensarono sopra un istante, poi Antieri sentenziò: «È un
motivo stupido. Tutti fanno dei sogni sciocchi». «No, non intendevo sogni veri e propri. Più che altro, idee sciocche.» «Come cosa?» «Be', erano molte. Voleva poter fare tutto a modo suo. Voleva condividere il potere del suo principe. E aveva anche diversi doni magici che le erano stati fatti quando era nata, e non voleva rinunciarvi.» «Era viziata?» La regina strizzò l'occhio a suo figlio. «Oh, be', forse un pochino.» «Quali doni magici, mamma?» chiese Midi, tirandole la manica. «Quelli più belli. Aveva una collanina che le permetteva di parlare ad alcuni animali. Aveva una scatolina che suonava a comando. E aveva due penne di falco, che erano le più preziose di tutte, dato che le consentivano di trasformarsi in un vero falco.» «Oh!» fece Midi. «Posso avere anch'io qualcosa di simile?» chiese il bambino. «No, amore mio. Purtroppo erano doni molto speciali che funzionavano solo in alcuni luoghi.» «Qui no?» «No. Qui no.» «Qui non funziona mai niente di divertente!» Lei gli tenne la mano con dolcezza, e per un istante non parlò. «Mamma, cos'è successo alla principessa?» chiese Midi. «Be'», cominciò, con un'occhiata al bambino, «grandi cavalieri venivano da ogni dove per cercare di vincere la sua mano e averla in sposa, dato che era molto bella e molto ricca. Portavano tesori a suo padre e ingaggiavano bardi che le cantassero le loro avventure, in modo che potesse sapere quanto erano coraggiosi. Combattevano l'uno contro l'altro per dimostrare chi era il più forte. Suo padre era molto impegnato a escogitare nuove prove e nuovi indovinelli per tutti quei pretendenti.» «Quanti ce n'erano? Centinaia?» «Non così tanti, ma parecchi.» «E combattevano i mostri? Io combatterò i mostri!» «Oh, sì! Li combattevano. Uccisero tutti i mostri nel raggio di miglia.» «Che tipo di mostri?» chiese scettico Antieri. «Be', c'erano grifoni e serpenti e minotauri. Credo che alcuni abbiano riportato a corte dei giganti, e anche un paio di troll.» «Nessun drago?» «Draghi di tutti i colori del mondo, Antieri. Grandi e piccoli, con le ali e
senza; persino qualcuno con più di una testa.» «Oh...» mormorò il bambino, gli occhi sgranati. «Qualcuno di loro si è fatto male?» «Sì, Midi, qualcuno. E c'era chi rinunciava e se ne tornava a casa dicendo: 'Questa principessa non vale tutta questa fatica. Se ne possono trovare altre, di principesse'.» «E poi, mamma?» «Be', poi suo padre andò da lei e le disse che doveva scegliere uno di quei cavalieri e sposarlo.» «E l'ha fatto? L'ha fatto, mamma?» «Piano, adesso ci arrivo. Prima di tutto lei parlò con tutti i cavalieri che erano rimasti. Quindi andò da suo padre e gli disse che nessuno di loro la rendeva felice.» «Che sorpresa...» commentò Antieri. La regina lo guardò con disapprovazione. «Alcuni erano meschini, altri erano timidi e altri ancora molto belli, ma nessuno era quello che voleva lei.» «Allora cos'ha fatto?» «Ha cercato di rimandarli tutti a casa.» «'Cercato'?» «Già. Vedete, uno proprio non se ne voleva andare. Disse che la principessa era ingiusta e che lui aveva fatto un viaggio troppo lungo per essere respinto tanto in fretta, e così rimase.» «Mmm... e poi cos'è successo?» «Poi la principessa s'innamorò del cavaliere che veniva da un'altra terra.» «Soltanto perché era rimasto?» chiese incredulo Antieri. «Be', in parte anche per questo», ammise la regina. «E per cos'altro?» «Più lui rimaneva, più lei aveva modo di conoscerlo. E, più lo conosceva, più le piaceva. Le mostrò che spesso la solitudine è un male che si fa a se stessi.» «E poi?» «Poi le chiese di sposarlo.» «Ed erano tutti contenti?» «No, perché il cavaliere disse che non sarebbe rimasto nel regno della principessa, ma avrebbe fatto ritorno nella terra lontana, portando sua moglie con sé.»
«E allora?» «Allora? Allora, se gli avesse detto di sì, avrebbe dovuto lasciare la sua casa, la sua famiglia, e tutta la sua gente per sempre.» «Perché per sempre?» «Perché quelle erano le condizioni.» «Ed è andata, mamma?» «Sì, se ne è andata.» «Ha dovuto lasciare anche tutte quelle sue cose speciali?» «Proprio così, Antieri. Ma, prima che se ne andasse, sua madre e suo padre le concessero di esaudire tre grandi desideri.» «E lei li ha usati?» «Un paio.» «Per fare cosa?» La regina distolse lo sguardo dai figli. «Per cose buone», mormorò. Midi cercava di tenere gli occhi aperti. «E poi?» «Be', dopo che la principessa andò via col cavaliere, che in realtà era un principe, i due formarono una famiglia.» «Erano felici?» «Oh, sì. La principessa dimenticò cosa si provava a sentirsi soli, tanto era impegnata a fare da mamma ai suoi bambini. Non si accorse nemmeno di essere diventata regina.» «Ed era una brava regina?» «Alcuni dicevano di sì.» «Cos'ha fatto poi?» «È rimasta finché la sua presenza è stata necessaria.» «Quanto tempo era?» «Sufficiente a vedere esauditi i suoi desideri.» «Ma non li aveva usati tutti.» La regina fece l'occhiolino. «È vero.» «Oh», disse Antieri. «Bambini, cosa fate ancora svegli a quest'ora? Cari, non abbiamo molto tempo per una storia stasera... mamma mia!» la tata gridò, quasi incespicando nella regina alla luce fioca. «Oh, be', Vostra Altezza! Non mi aspettavo di trovarvi qui! Ero giusto venuta a metterli a letto e a raccontare loro una storia.» Fece una risatina nervosa, di attesa, mentre arretrava fuori della stanza. La regina baciò entrambi i figli e si alzò per andarsene. «Dovete fare come dice la tata, tesori miei. Domattina avete lezione presto. Il precettore
si arrabbierà se non riuscirete a stare svegli.» Raggiunse la porta. «Mamma, ti sei dimenticata», disse Midi sbadigliando. «Di cosa, cara?» La bambina sorrise. «Non l'hai raccontata giusta. Alla fine di una storia la tata dice sempre che vivono tutti felici e contenti. Per sempre.» La regina rispose al sorriso con molta attenzione, sperando che non le tremasse la voce. «È vero, tesoro. Quella parte me la sono proprio dimenticata.» La regina attraversò correndo i corridoi in penombra del castello. Si fermò un istante davanti a una grande porta decorata col cimiero reale. I rumori che udì all'interno la convinsero che, ancora una volta, suo marito non era solo. Si affrettò a raggiungere le sue stanze. Per questo, sono diventata umana. In piedi accanto all'alta finestra nella fioca luce della luna, tese le mani. «Ho un figlio bravo e forte», sussurrò alle stelle. Il vento le mormorò tra i capelli. Dopo un istante, disse: «Ho una figlia bella e buona». Guardò le penne malridotte che teneva in mano. Poi usò l'ultimo desiderio, e se ne volò via. Jo Clayton Il FESTINO DELLE LARVE Orinai ho incontrato parecchie volte Jo Clayton alle convention, e trovo che somigli un po' alla compianta Leigh Brackett: cioè, non è poi tanto diversa dalla mia maestra delle elementari. Sarebbe difficile immaginare un aspetto più differente da quello che ci si aspetterebbe dall'autore di storie fantasy così eccitanti e avventurose. D'altra parte, l'unica cosa che gli scrittori hanno in comune è il fatto che nessuno ha «l'aria di uno scrittore». E, comunque, che aria dovrebbe mai avere uno scrittore? È una donna estremamente piacevole, che adesso vive nell'Oregon e scrive quando può sentire «la pioggia dell'Oregon sul balcone e i gatti che s'inseguono sopra, attorno e attraverso una decina di librerie». E la gente crede che queste cose me le inventi? Jo Clayton è comparsa, o meglio, è esplosa sulla scena della narrativa diversi anni fa con un romanzo dal titolo Diadem of the Stars, cui hanno
fatto seguito altri libri, tra cui il famoso Moongather. Di recente ha pubblicato una trilogia ambientata nello stesso mondo di Moongather: The Dancer's Rise, Serpent Waltz e Dance Down the Stars. Sembrerebbe divertente. A dimostrazione di quanto personali siano le indicazioni che seguo nella scelta dei racconti, devo dire che questo sono stata sul punto di rifiutarlo perché «troppo raccapricciante». Non ho mai amato la teoria sostenuta una volta da Stephen King, secondo cui «se non li puoi spaventare, disgustali!» Non m'importa se un libro mi mette paura, ma non voglio rimetterci il pranzo. Alcuni editor pensano esattamente l'opposto: non importa se sono disgustati, ma non vogliono avere paura. La conclusione di tutto questo è: conosci il tuo editor e i suoi preconcetti. Un debole suono, come uno sfioramento; un minuscolo clic, uno scricchiolio. Hallah aprì gli occhi. Mantenne la respirazione lenta e regolare come stesse ancora dormendo, poi esplose fuori dal letto, alzando il coltello a incontrare l'oscurità che balzava dal vano della porta. Sangue. Appiccicoso sulle sue braccia e lungo le vecchie cicatrici dove un tempo erano stati i seni. Strusciare di stivaletti sul pavimento. Gorgoglio senza parole che cessò quasi prima di cominciare. Silenzio denso come la puzza di sangue. Hallah era tesa, all'erta; aspettava. Silenzio. E ancora silenzio. Lasciò uscire il fiato che stava trattenendo e con passo felpato si diresse alla porta, i piedi nudi che grattavano sui pezzetti di pane secco che aveva sparpagliato come segnale d'allarme a buon mercato. Dopo aver ascoltato un istante, si lasciò cadere sul ventre; tenendo la testa bassa, vicina al pavimento, l'allungò delicatamente oltre lo stipite. Nella debole luce che saliva dal banco di mescita vide che il corridoio era vuoto. Un attimo di respiro. Bene. Di nuovo in piedi, chiuse piano la porta, bloccò il chiavistello e tornò rapida al letto, prese la trapunta e si affrettò alla finestra. Le imposte erano chiuse e sbarrate, ma il legno era marcio e pieno di crepe e avrebbe lasciato filtrare la luce come un secchiello arrugginito. Dopo aver appeso la trapunta infilandola nelle fessure, attraversò la stanza fino al tavolo sganghe-
rato che era uno dei servizi per cui l'albergatore si faceva pagare; cercò a tentoni il piatto con sopra il mozzicone di candela inclinato, e lo appoggiò sul pavimento. Accese la candela, poi tornò in fretta al corpo e gli s'inginocchiò accanto; la bocca le s'irrigidì nel vedere l'anello di ferro dell'apprendista assassino sulla mano tesa. Un giovincello della Corporazione. Il viso del morto era tondo, i lineamenti piccoli e delicati; con ogni probabilità era più vecchio di quello che sembrava, ma non poteva comunque avere passato da molto i vent'anni. Non era uno che conoscesse. Maytre! Sono diventata una dannata esercitazione per ottenere il diploma. Dubito comunque che fosse da solo... S'infilò i vestiti, aggrottando le sopracciglia mentre valutava il da farsi. Tetto? No. È una trappola peggiore persino di questa stanza. Avvolse indumenti di ricambio attorno al sacchetto con le fiale di veleno e la scatola contenente gli scacchi, e spinse il piccolo pacco nella borsa da cintura insieme con la scorta di monete; poi cominciò a far scivolare coltelli, aghi, punte e dardi nelle apposite tasche nascoste. Non dall'ingresso principale. E nemmeno dalle scale. È molto probabile che al banco di mescita ci sia qualcuno di guardia. Raccolse la candela, la spense, si sedette sul letto e prese gli stivali. All'interno di quello sinistro c'era un coltello avvelenato; strinse le labbra quando le dita sfiorarono l'avorio della lama. Era una delle cose di cui avrebbe voluto liberarsi insieme col giuramento alla Corporazione, ma la prudenza consigliava altrimenti. Ripiegò l'orlo dei calzoni, infilò i piedi negli stivali, e lasciò la stanza. Alla fine del corridoio c'era la camera che l'albergatore aveva cercato di rifilarle quattro mesi prima, appena arrivata. Era quella sopra la stalla e i rifiuti della cucina, cui salivano cioè tutto il rumore e la puzza. Ascoltò alla porta; udì il ronzio di un forte russare e arricciò il naso. Quel tipo sarà ben triste quando domattina all'alba il cuoco comincerà a vuotare la sua brodaglia. Una minuscola leva sbloccò delicatamente il chiavistello, e lei scivolò dentro; annusò l'aria, facendo una smorfia per il fetore di mele marce. Bleah, deve aver prosciugato tutto il mosht della città. Attraversò la stanza e aprì le imposte, lanciando un'occhiata al dormiente mentre i raggi della luna si riversavano all'interno. Era un omone, con un groviglio di cicatrici su viso e braccia. Il russare che gli agitava i folti baffi era forte abbastanza da coprire il suono di una fanfara. Ha l'aria da duro. Fortuna che è pieno come un otre. Fece passare con gentilezza le
spalle attraverso la piccola finestra quadrata, si rigirò e sbucò dall'altra parte, calandosi sul tetto della stalla. Si accovacciò nella chiazza d'ombra vicino al muro, scrutando il viottolo maleodorante che correva oltre la caserma dei doganieri, poi dietro la fila di magazzini e taverne che contornavano la curva del porto. Scorse un lieve movimento all'angolo della caserma e voltò il capo per guardare con la coda dell'occhio. Uno solo. Bene. Posso farcela. Strisciò fino al bordo del tetto, lo superò rotolando, e rimase a penzolare dalla grondaia finché uno dei cavalli nella stalla non sbuffò e scalciò contro la parete; quindi si lasciò cadere sui solchi polverosi del recinto. Corse alla porta sulla parete posteriore, tolse il fermo, e la tirò dolcemente verso di sé, fermandosi ogni tanto per non disturbare la notte; la muoveva con lentezza, con prudenza, come volesse davvero uscire da quella parte non appena l'apertura fosse stata sufficiente. L'uomo giunse da sopra il muro e sarebbe atterrato accanto a lei, ma lei non era li. Cominciò a girarsi bruscamente: un guizzo della mano e il coltello avvelenato gli scivolò tra le costole. Il ginocchio di lei contro la schiena di lui, la mano sulla bocca, l'uomo ebbe un fremito e morì. E sono due che hanno fallito gli esami finali. Ce ne saranno stati tanti in quella classe? Adesso prendiamo un cavallo. Diede un'occhiata alla finestra da cui era scesa. Il suo, direi. Non c'è nient'altro che valga la pena rubare qui dentro. Divertente. Impiccata come ladra di cavalli o per i cadaveri lasciati in giro. Sembrerebbe meglio non tornare da queste parti per un po'. Non che sia una gran perdita. Gorp Xil. Un foruncolo sulle natiche del mondo. Non appena fuori del cortile di stalla, con un colpo di talloni spinse il cavallo al galoppo e percorse rumorosamente il vicolo, diretta ai margini della città alla massima velocità osabile. Prese la strada verso nord, quella che conduceva alla Foresta; la famigerata Foresta di Xil, dove per migliaia di anni gli esiliati di migliaia di terre si erano rintanati e trasformati, diventando strani come esigevano la solitudine e il silenzio. L'alternativa migliore per levarsi di torno il resto della banda assassina consisteva nell'attraversare le montagne e raggiungere le regioni pianeggianti. Si trattava di una terra ricca e intensamente colonizzata, un folle mosaico di piccoli regni con alleanze molto fluide. Erano passati quindici anni da quando uno dei suoi primi incarichi l'aveva portata nelle pianure. Un fiasco totale: il suo obiettivo era stato messo in guardia ed era scomparso tra la folla. Faci-
le sparire là in mezzo, soprattutto quando chi ti insegue è alle prime armi e non è ancora pronta a lavorare da sola. Il cavallo era un animale alto, con gli occhi bianchi e il manto grigio sabbia con macchie marroni e bianche sui quarti posteriori. Una bestia dall'aspetto strano ma ben fatta, con una falcata lunga e possente. La sella era vecchia, consumata e sfregiata come il suo proprietario. Per un istante lei si chiese chi fosse quell'uomo e quale disastrosa combinazione di circostanze l'avesse condotto a Gorjo Xil. Una cosa che con ogni probabilità non saprò mai. A meno che non decida di rincorrermi. Proprio quello di cui ho bisogno, un altro inseguitore incavolato che vuol vedermi la testa staccata dal corpo. «Oooh, calma ragazzo, rallentiamo un po'. Non voglio tirarti il collo. Sì, sì, ti ha addestrato bene, senza dubbio. Chissà come ti chiami. Ti chiamerò Ciottolo, dal colore del tuo manto. Va bene così, tranquillo. Perfetto, un bel passo per arrivare lontani.» Girò la testa, per captare eventuali inseguitori, chiedendosi se i candidati avessero avuto delle cavalcature pronte o fossero stati costretti a trovarne una al volo come aveva fatto lei. Sto diventando negligente. Non mi sarei lasciata prendere così se facessi ancora parte della Corporazione. La Foresta si chiuse attorno a lei; soltanto qualche sporadico raggio di luna raggiungeva il terreno. Quando la sua vita era cambiata, quando era entrata a cavallo ad Atwarina insieme con lo Shiza'hey Kihyayti'an, uno dei due Assassini della Corporazione che lui aveva assoldato per fare mostra di ricchezza e potere, le foglie erano verdi, i primi giorni d'estate caldi e polverosi. In quel momento, invece, era tardo autunno; le foglie che pendevano dagli alberi e si sparpagliavano sulla strada erano rosse e oro e arancio-bruno, e Atwarina era al di là del mare e centinaia di miglia più a sud. Atwarina. Dove aveva trovato sua figlia, dove aveva rinunciato a far parte della Corporazione degli Assassini. Rabbrividì, ricordando la rabbia e l'angoscia di quel giorno di vent'anni prima, quando aveva creduto che Traccoar e il suo Gruppo Selvaggio avessero ucciso la sua bambina. Quel giorno, quando Traccoar le aveva tagliato i seni lasciandola lì a morire. Quel giorno in cui qualcuno aveva detto: «Fa' tacere la mocciosa; sbattile la testa contro un albero». La mocciosa: sua figlia. La sua Rowanny, di due anni e coi capelli più luminosi di qualunque fuoco, impaurita e urlante. Fa' tacere la mocciosa, sbattile la testa contro un albero.
Vent'anni. Tempo sufficiente per far cicatrizzare le ferite ma non per impedire che ricominciassero a sanguinare non appena aveva visto il viso della figlia nella corte di Alayjiyah. Pensò all'accordo che aveva concluso nella stanza al piano superiore della taverna di Thonsane - se tiri fuori di lì mia figlia e la figlia di mia figlia, se giuri di farle stare al sicuro e negli agi, io giuro per la Pietra di servirti fino al termine dei miei giorni -, l'accordo che l'aveva lasciata a vegetare a Gorjo Xil, in attesa che i suoi datori di lavoro le dicessero cosa volevano da lei. E in attesa che la Corporazione le si mettesse alle calcagna. Soltanto i morti lasciavano la Corporazione una volta che era stato pronunciato il Giuramento Definitivo. Rabbrividì di nuovo, fece fermare Ciottolo, e rimase in ascolto. Niente. Neppure il grido di un uccello o l'abbaiare di una volpe. Il vento agitava le foglie secche sopra la sua testa. Il vento sussurrava tra le foglie ma non la sfiorava, né sollevava la polvere rossa attorno agli zoccoli di Ciottolo. Fece ripartire il cavallo. «D'accordo. Andiamo avanti, Ciottolo. Quella cosa pesante nella parte posteriore della sella non sono io, è un sacco di grano. Tienilo a mente, vecchio cavallo. Una zampa davanti all'altra e auguriamoci che nessuno c'infilzi con uno spiedo. E, quando vedrò un posto che posso difendere in caso di necessità, avrai acqua e una palettata di grano. Dovrei tendere un'imboscata, Ciottolo, ma a quest'ora saranno prudenti. Qualunque stupido può pagare la sua quota e iniziare l'addestramento; sopravvivere fino al momento del giuramento richiede uno sforzino in più. In caso te lo stessi chiedendo, vecchio cavallo.» Sogghignò. Ciottolo sbuffò, fece qualche passo sulla sinistra, poi a destra. Quindi si fermò, tremando, la testa all'indietro, il contorno degli occhi più bianco che mai. Un legaccio si strinse attorno alla testa di Hallah e qualcosa prese a trascinarla. E a trascinare anche Ciottolo, obbligandolo a un veloce galoppo. All'improvviso il vento si fece più rumoroso. Hallah sorrise, un ghigno che le torceva la bocca, quando udì degli strilli alle sue spalle. Anche gli apprendisti Assassini erano stati presi. Siamo finiti in una bella trappola, come fossimo ciechi e sordi e pure idioti. Maytre! Ciottolo lasciò la strada per un sentiero simile a una pista di caccia, a-
vanzando in un'oscurità così fitta che si poteva tagliare. Gli alberi si richiusero su di loro, piegandosi sopra il sentiero; l'aria sotto le fronde aveva un odore acido, di bruciato, un fetore sconosciuto che fece starnutire Ciottolo. Peggio di un covo di serpenti. Le aveva fatto venire i brividi. Il terreno cambiò. Pietra sotto gli zoccoli. Ciottolo correva, e Hallah riusciva a udire anche gli altri cavalli. Erano solo a pochi minuti di distanza. Un muro. Un arco aperto, poco più luminoso del muro. Lo attraversò in sella. Era una stanza grottesca, che metteva paura per la monomaniacale mancanza di gusto; una saletta intima dove un paio di ghoul civilizzati avrebbero potuto sorseggiare tazze di sangue e chiacchierare dei loro ultimi scavi. Le pareti, fatte d'ossa vecchie e nuove, avevano una lucentezza leggermente viscida alla luce dell'unica lampada: un mosaico sui toni del bianco e dell'avorio con sfumature grigie e marroni, ottenuto assemblando pezzi d'osso lucidato. In mezzo alla stanza, la lampada di ossa e vetro era posta su un tavolo che aveva tibie per gambe e denti incassati nell'ambra come piano. Accanto al tavolo c'era un divano a due posti. Hallah poteva muovere le dita e voltare la testa, ma i piedi erano bloccati sul pavimento come se fossero stati incollati; le spalle e la parte superiore delle braccia non si staccavano dal muro. Piegò i gomiti, facendo scivolare le mani nelle maniche; con la punta delle dita sfiorò i coltelli che portava legati all'avambraccio. Chiunque avesse voluto aggiungere anche le sue ossa all'arredamento avrebbe dovuto darsi da fare per ottenerle. La porta si aprì di nuovo ed entrarono due figure vestite in grigio Assassino, i movimenti rigidi, cercando di resistere alla pastoia che li strattonava; erano un uomo e una donna, entrambi piccoli e muscolosi. L'uomo la squadrò, poi distolse lo sguardo; aveva il viso madido di sudore per lo sforzo di liberarsi dal legaccio, e gli occhi gialli mostravano un immutabile scintillio di fanatismo. Occhi da falco. Naso col dorso alto. Zigomi sporgenti. Czerwon, pensò Hallah. Solido come una quercia e quasi altrettanto rigido. Non mi preoccupa affrontare uno Czerwon. Nessuna sorpresa. Mmm... una c'è. Non era lui nella mia stanza; devono avere tirato a sorte e ha perso. La donna era più rilassata. Occhi marrone scuro, quasi neri. Pelle scura, labbra piene, qualche ricciolo che spunta dal cappuccio della divisa da
lavoro. Mi ricorda me stessa, pensò. Chissà se gioca a scacchi. Ha lo sguardo di pietra. «Giochi a scacchi?» chiese. La donna voltò il capo. «Sì, sono medio-bronzo; non una principiante ma neppure della tua statura, Hallah d'argento.» «Conosci il mio nome. Posso sapere il vostro?» La donna ignorò il sibilo di disapprovazione del suo compagno. «Lui è Widlow, io sono Tanút.» «E io sono la vostra esercitazione finale, giusto?» «L'hai detto.» Prima che Hallah potesse aggiungere altro, nella parete di fronte si aprì una porta scorrevole. Due figure, un maschio e una femmina, entrarono nella stanza; erano identiche, prive di espressione, e camminavano in modo curiosamente formale, accompagnate dall'odore acre che aveva spinto Hallah fuori della Foresta. Ondeggiavano insieme, spalla a spalla, mano destra nella mano destra, sinistra nella sinistra, le braccia a formare un otto in mezzo ai due corpi. Avevano pelle bianco osso, capelli neri, grigi occhi pallidi come ghiaccio d'inverno, labbra più grigie che rosa. Il maschio indossava calzoni bianchi aderenti e una tunica ricamata in fili d'argento, con ghiande e foglie di quercia e coppie di serpenti attorcigliati. Aveva i capelli lunghi, legati in una treccia morbida fermata da un cordoncino d'argento con, alle estremità, ghiande dello stesso metallo. La femmina portava un abito lungo che si avvolgeva stretto incrociandosi sulla parte superiore del corpo, per finire in un'ampia gonna scampanata di seta bianca, con identici ricami in argento. I capelli lunghi fino alle spalle erano sciolti, trattenuti da una fascia che le attraversava la fronte appena sopra gli occhi ed era legata sopra l'orecchio sinistro; era una striscia di stoffa ricamata con gli stessi motivi e le medesime ghiande d'argento alle estremità. Si muovevano insieme come fossero un unico essere, come se non si stessero solamente tenendo per mano, ma ogni mano fosse cresciuta nell'altra; girarono attorno all'ampio divano e si sedettero. Le teste, che si voltavano a formare archi identici, fissarono i tre prigionieri. Demoni? No. Più simili a spettri resi corporei. Magia, puah! Odiava il suo lavoro quando c'era di mezzo la magia; le regole erano arbitrarie - stabilite da chi esercitava il potere -, interiori, astratte. Difficile difendersi. Bisognava conoscere il mago o la maga per capirne la magia. Tarammen diceva che è meglio conoscere l'avversario che conoscere il campo da
gioco; e aggiungeva pure che è una regola che non si applica solo agli scacchi. Tanút sporse in avanti la testa e parlò con tono duro: «Chi siete? Perché ci avete portato qui?» Hallah accolse la protesta. «Non vi ho fatto niente di male. Perché attaccarmi e spingermi via dal mio cammino, dalla strada pubblica che ogni persona libera ha il diritto di usare?» Widlow si unì a loro. «Siamo viaggiatori intenti a occuparci dei nostri affari personali. Questa donna è una sconosciuta, non sappiamo chi sia. Ci siamo semplicemente trovati sulla stessa strada. Ma vi dico una cosa: la mia compagna e io abbiamo dei colleghi che si arrabbierebbero molto se qualcosa dovesse causarci ritardo. E non è piacevole avere a che fare con loro quando sono arrabbiati.» Sui volti d'avorio non si mosse neppure un muscolo, così come negli occhi pallidi non apparve il benché minimo guizzo di comprensione. La femmina si voltò verso il maschio per dirgli qualcosa. La sua voce giunse a Hallah come il cinguettare di uccelli lontani. Aveva la sensazione che ci fossero delle parole incastonate in quel flusso di suoni, comuni parole che sarebbe persino stata in grado di capire se solo fossero state pronunciate più lentamente e con maggiore chiarezza. Gli spettri si alzarono e uscirono con passo scivolato, scomparendo oltre la porta che si era aperta per loro senza che nessuna mano l'avesse sfiorata. La pastoia trascinò via Hallah dal muro costringendola a seguire i due. Mentre attraversava la soglia, riuscì a girare la testa e vide che Tanút e Widlow le stavano dietro. «Come facevate a sapere dov'ero?» Widlow serrò le labbra; strinse la mano sul braccio di Tanút. La donna si liberò con uno strattone; quando parlò, aveva un tono secco: «Sai, Widlow è bravo. Il fatto che abbia un'asta di ferro infilata nel culo non significa che non sappia il fatto suo». «Czerwon, giusto? Possono stare a discutere di onore mentre attorno a loro va a fuoco la casa.» Al di là della porta, il salone dal soffitto a volta era illuminato da alcune lampade a muro poste in alto su supporti d'osso. Era pieno di veli d'ombra che ondeggiavano e si muovevano al guizzare delle fiamme per le correnti d'aria che sferzavano le caviglie di Hallah e agitavano le ciocche di capelli sfuggite alla treccia da viaggio. Tanút rise, un suono nervoso. «Vero. Proprio vero. Sai, ho letto della tua vita. I tuoi rapporti, quantomeno. I tuoi maestri non ne parlavano. Non sei
una che spreca parole.» «È inutile.» «È più sicuro. Tenere per sé i propri trucchi.» «Esatto. Hai intenzione di rispondere alla mia domanda?» «Un'informazione ricevuta, non so nient'altro», replicò Tanút. «È tutto quello che si è lasciato scappare Groensacker quando ci ha dato l'incarico. Ci ha anche chiarito un altro punto, Hallah d'argento. Le alternative sono ucciderti o unirci a te.» «Suppongo che la cosa sia sempre valida.» «Certo.» Hallah oltrepassò la porta alla fine del salone e si ritrovò in una fossa lunga e stretta con pareti alte almeno sei metri. Nel muro orientale c'erano tre porte, e altrettante in quello a ovest. Al centro del pavimento acciottolato c'era una sottile colonna di pietra con due anelli di ferro incassati a circa tre metri di altezza, penzolanti come quelli di un palo per legare i cavalli. A essi erano appese delle lanterne, mentre tre torce erano infilate in fori in cima alla colonna. Al pari del salone, la fossa era piena di ombre guizzanti. Il respiro di Hallah era come fumo in quell'aria più fredda di quanto ricordasse mentre la pastoia la trascinava verso la più vicina delle porte nella parete est. L'uscio si aprì e lei vide una stretta scalinata. Giunta in cima, fu strattonata lungo una panca e fatta sedere con forza una volta arrivata di fronte alla colonna di pietra. Tanút grugnì quando verme costretta a sederle accanto. E Widlow? Hallah si chinò verso il parapetto di ferro che correva lungo la parte alta del muro e dava sulla fossa. L'uomo era schiacciato contro la parete occidentale, e si dimenava e grugniva cercando di opporsi alla pastoia. Sempre mano nella mano, gli spettri apparvero in cima alla parete e si sedettero in un ampio sedile simile a un trono; la pietra brillava attorno a loro. A testa china, i due si bisbigliarono qualcosa. All'improvviso Widlow, nella fossa, era libero. Si spostò rapido a ispezionare le porte. Non c'erano chiavistelli e si chiudevano con tanta millimetrica precisione che sarebbe stato difficile infilare la punta di un coltello tra battente e stipite. Fece un altro giro, studiando i muri. Cerca un funto in cui potersi arrampicare, pensò Hallah. Nei suoi abiti grigi era quasi invisibile.
Una delle porte si aprì e ne uscì un pardo, che gnaulava, sputava e scuoteva la testa; era un felino di medie dimensioni, la pelliccia beige con rosette marrone scuro che diventavano puntini sulle zampe posteriori. Vide Widlow e gli andò incontro saltellando. L'uomo si voltò di colpo e balzò verso la colonna. «Guardali», sbottò rabbiosa Tanút. «Guarda quegli srakas. È come se gli leccassero via di dosso il sudore.» Gli spettri si erano chinati al di sopra delle mani congiunte, gli occhi pallidi fissi su Widlow mentre lui si afferrava alla colonna e ci girava attorno, trasformando lo slancio in un calcio. L'animale scartò un attimo prima del previsto; lo stivale dell'uomo lo colpì al fianco ma rimbalzò via senza provocare le lesioni che egli aveva sperato di causare. Tenendo la colonna tra sé e la bestia, Widlow prese un coltello dalla manica e fece un altro rapido cambio di direzione. Data la velocità del pardo, l'uomo mancò di nuovo il bersaglio e dovette accontentarsi d'infliggere una ferita alla coscia invece di recidere il tendine. Scattò di nuovo attorno alla colonna, agitando la mano che gli artigli del felino avevano lacerato, in una pioggia di sangue, la manica stracciata che gli sbatteva sul polso. Hallah sentì la pastoia allentarsi leggermente; tentò di lasciarsi scivolare più in basso sulla panca. Il legaccio la seguì, ma cambiò posizione, piegando le dita. Se avesse scelto bene il tempo, forse sarebbe riuscita a liberarsi. Si chinò in avanti, gli occhi sulla coppia all'estremità più lontana della fossa. La bocca di entrambi era dischiusa; una pallida lingua rosa scivolava avanti e indietro sul labbro inferiore. Adesso Widlow perdeva sangue da una gamba; segni di artigli nella parte alta della coscia, la stoffa dei calzoni a brandelli. Dalla cintura che portava in vita estrasse una garrotta, roteò sulla gamba sana e con un gesto rapidissimo fece passare il filo metallico attorno alla testa del pardo. Usando la colonna a parziale protezione dagli artigli dell'animale, lo strangolò. Vortice... turbinio di oscurità... suzione... la comprensione che turbina... Hallah che turbina... in tondo, in tondo... suzione... respiro azzerato... caos... vento e nulla... nulla... suzione... La mente di Hallah si oscurò, non riusciva a respirare. Pensò di stare per morire.
Poi passò tutto e sotto i suoi piedi c'era di nuovo la pietra; un vento gelido le soffiava in viso. Quando la vista le si schiarì, sollevò la testa e fissò gli spettri dall'altra parte della fossa. Mostravano una maggiore solidità; sulle guance pallide c'era persino un tocco di colore. Larve! pensò stupefatta. Larve spettrali. Mangiatori di morte. E il dolore fa da aperitivo. La paura era gelida nel suo stomaco. Il dolore di Widlow. E il nostro. Quello di Tanút più che il mio, perché lei gli è legata. Ah, ragazza, nonostante la tua esperienza non hai imparato l'ultima e fondamentale regola degli Assassini. Mai avere a cuore qualcosa. O qualcuno. Nella Corporazione non esiste «loro e noi», soltanto «io e io e io». Accanto a lei Tanút si agitava, gemendo. Si mise a sedere, tenendosi stretta la testa. «Cosa...» mormorò; poi imprecò a voce bassa e monotona quando la porta nella parete si riaprì e ne uscì ciondolando un orso bruno, che ringhiava inferocito, a zanne scoperte. Widlow spostò lo sguardo dall'orso alle Larve, lasciò la garrotta dov'era, e si mise a correre. «Cosa sta facendo? Non può andare più veloce dell'orso. La gamba...» Hallah appoggiò la mano sul braccio della ragazza e le diede una stretta. «No. Non è in preda al panico. Ha un piano. Tieniti pronta a scattare, se puoi.» Tanút rabbrividì; staccò gli occhi dal viso assorto di Widlow per fissare Hallah. «Come?» «Quando le Larve... sì, ascolta, non hai percepito cosa sono? Quando sono distratte, la pastoia si allenta e poi ci vuole un po' perché si tenda di nuovo. Osserva Widlow. Quando si muove, sta' pronta a seguirmi. Salteremo oltre il parapetto, arrivando dall'altra parte della fossa. Ti faro scavalcare l'altro muro. Mentre tu e Widlow vi occupate delle Larve, io userò la mia fune da scalata per raggiungervi.» Nella fossa, Widlow barcollò quando la gamba ferita cedette per un istante. Lanciò un grido, che risuonò tutt'attorno mentre lui si riprendeva e cambiava direzione, girando attorno all'orso per correre vicino alla parete. «Come si uccidono gli spettri? Lo sai? Come?» Hallah si appoggiò il palmo piatto sulle labbra, contemplando i volti intenti delle Larve. «Osso», disse infine. «Non riesco a pensare ad altro. Il tuo coltello avvelenato, Tanút, la lama d'avorio. Se non funziona... be', siamo morti comunque, quindi tanto vale tentare.» Essendo riuscito a far spostare l'orso nella posizione che voleva, Widlow
gli girò attorno a gran velocità, gli saltò addosso e lo colpì alla schiena, poi alla zampa. Mentre l'animale si alzava dritto in piedi, l'uomo usò il movimento e i muscoli delle proprie gambe per spingersi verso l'alto, le mani tese per afferrarsi al parapetto. La gamba ferita lo tradì di nuovo; le dita rasparono la pietra in cima alla parete ma non riuscirono a farlo passare al di là. Scivolò di nuovo tra gli artigli dell'orso. Suzione... turbinio... artigli... Mentre si sforzava di non perdere la concentrazione, Hallah notò qualcosa d'interessante. Le Larve non si erano mosse quando Widlow era arrivato a pochi centimetri da loro, sul punto di afferrarle. Potevano essere potenti e pericolose ma erano lente a reagire, quasi non comprendessero a fondo il mondo mortale. Archiviò l'osservazione, mentre la speranza s'innalzava al di sopra dell'orrore per la prima volta da quando aveva attraversato l'arco di pietra. Vide mulinelli di nebbiolina nera salire dal corpo di Widlow; foschia grigia defluiva da Tanút, scompostamente sdraiata accanto a lei, priva di sensi. Anche da Hannah uscivano volute di fumo, frammenti della sua rabbia. Vi conosco adesso, vi conosco, vi conosco, gridò in silenzio. Conosci il Giocatore, il Campo non conta. La Larva femmina la fissava. La suzione aumentò. Si oppose, e rimase sorpresa quando si accorse di essersi conquistata un po' di tregua; la Larva distolse lo sguardo. Nella fossa, l'orso si allontanò arretrando dal corpo dilaniato, corse via guaendo e se ne andò da una porta che si era aperta senza il minimo rumore. Nugoli di scarabei uscirono ribollendo dai ciottoli. Tra un respiro e l'altro - o almeno così parve a Hallah -, quegli animaletti spazzini ripulirono le ossa del morto e scomparvero nelle loro tane. Un guizzo, come se l'aria si fosse ripiegata su se stessa, e anche le ossa erano sparite. Rimasero solo le macchie di sangue. E il puzzo delle Larve spettrali, più forte che mai. I due esseri sorridevano, i volti accesi e più paffuti, i corpi tesi contro abiti diventati stretti. Si voltarono all'unisono e fissarono Tanút.
Lei si alzò rigidamente in piedi e si allontanò con passo strascicato, il terrore negli occhi, le mani che strappavano i capelli, spingendo con forza contro la testa, cercando di levarsi il legaccio. «Tanút!» Hallah fece scrocchiare le dita, vide la ragazza sobbalzare, poi voltare il capo. «Uccidi qualunque cosa ti mandino contro. Non pensare ad altro. Devi ucciderlo perché io possa agire.» La bestia che uscì era di un genere che Hallah non aveva mai visto: una donnola gigantesca, lunga e veloce, e straordinariamente agile. Tanút si mise a correre. Hallah teneva gli occhi sulle Larve. Tanút lanciò un coltello da manica. La bestia gnaulò quando la lama le affondò nella zampa posteriore sinistra. Si arrotolò su se stessa e prese a addentare il pugnale finché non riuscì a strapparlo via; poi puntò furtiva verso Tanút, un inquietante lampo d'intelligenza negli occhi contornati di bianco. La tensione della pastoia si allentò. Le Larve spettrali erano prese dall'azione che si svolgeva di sotto e cominciavano a dimenticarsi di Hallah. Lei scivolò giù dalla panca e s'inginocchiò nello spazio tra quella e il parapetto. Con lo sguardo fisso sulle Larve, aspettando il momento, fece scorrere le dita in uno spacco nella cintura e cominciò a estrarre la corda da arrampicata che portava all'estremità il rampino. Tanút rimaneva vicina alla bestia, facendo curve rapide e strette per metterne a dura prova la zampa ferita. Continuavano a girare, avvinte in una danza lugubre e mortale. Il petto della Larva femmina si sollevò, e lei strinse le mani del maschio con tale forza che le articolazioni delle dita rosee e grassocce divennero bianche. Hallah arrotolò la corda attorno alla mano, poi si alzò lentamente, muovendosi in modo talmente graduale che le Larve non se ne accorsero. Tanút consentì all'animale di avvicinarsi troppo e quello la colpì, strappandole i calzoni ma senza lacerare la pelle. Ansimando e gemendo, costrinse il corpo a una velocità maggiore. Un rapido gesto con la manica per levarsi il sudore dagli occhi, una scrollata di spalle, ed ecco che aveva in mano il secondo coltello. Hallah era in piedi con le cosce schiacciate contro il parapetto, in attesa. L'animale gnaulò e saltò. Tanút si gettò da un lato, rotolò a terra, corse a perdifiato verso la colonna, l'afferrò e lasciò che lo slancio la portasse a ruotare in un cerchio molto
stretto, poi scagliò il coltello nella gola della bestia. Con uno scatto Hallah si liberò del legaccio che la tratteneva, oltrepassò il parapetto, cadde sul selciato e corse verso la parete a ovest. «Tanút! Da me!» Si chinò, le mani intrecciate; Tanút corse da lei, salendo su quel gradino improvvisato. Raddrizzando le gambe con un potente colpo di reni, Hallah mandò in alto la ragazza; poi svolse la corda, aprì le punte del rampino, lo fece roteare un paio di volte e lo lanciò. Mentre si arrampicava sulla parete, poteva udire l'acuto borbottio della Larva femmina e il ruggito rabbioso del maschio. Appoggiò le mani sul parapetto e lo superò con un balzo, sollevando al contempo il coltello avvelenato. Ebbe il tempo di vedere la Larva maschio che sbatteva il polso di Tanút contro il parapetto; il pugnale d'avorio cadde lontano roteando. Lui l'afferrò per la gola e prese a scuoterla. Hallah si precipitò verso la Larva maschio, infilandogli il coltello nel fianco; percepì una forza simile ad acqua nera fluire fuori di lui, acqua ardente, potere che attraverso il suo corpo s'incanalava nell'avorio. La Larva strillò. Le mani di Hallah volarono via, lontano dall'impugnatura del coltello. Anche la Larva femmina gridò. Hallah venne sbattuta all'indietro, contro il parapetto, e rimbalzò rovinosamente sulla panca. Stordita, si rimise barcollando in piedi, stringendo il pugnale da manica. Fece un passo, si fermò e rimase a guardare. Le Larve stavano bruciando, consumate dalla forza che aveva inserito in loro: fuochi di cadaveri, candele di carogne, incendi d'ossa. Fece un altro passo. Incespicò in qualcosa. Era Tanút. Pelle annerita, collo spezzato, testa inclinata in modo che la guancia appoggiava sulla spalla. «Almeno mi è stato risparmiato di doverti uccidere», disse. Cercò di provare qualcosa per la ragazza, ma non vi riuscì. In lei non c'era altro che una profonda tristezza, rivolta più verso se stessa che verso i morti. Dall'edificio si levò un frastuono: un suono che non seppe individuare, acuto e stridulo, come se le pietre urlassero di dolore. Poi un lamento e un boato, come se un frammento di parete più grande di lei fosse precipitato nella fossa. «Maytre! Devo uscire di qui. Il cavallo, devo raggiungere il cavallo, le mie cose...» Prese il rampino, avvolgendo la corda mentre correva. Alla fine della fossa saltò sulla panca; poi saltò di nuovo, afferrando il bordo del muro esterno, e si tirò su.
I fiochi bagliori delle torce sulla colonna erano sufficienti a mostrarle i rampicanti spinosi che crescevano abbondanti alla base, le canne grosse come il suo pollice che s'incurvavano verso l'alto. Impossibile scendere da lì. Imprecò e corse lungo la cima del muro, sentendolo scricchiolare e ondeggiare sotto i piedi. Lo stridio di un cavallo la fece fermare, incerta. Si passò la manica sul viso e guardò giù. Ciottolo stava tirando le redini legate a un ramo basso. Accanto a lui c'era una scintillante sagoma traslucida: Thonsane, nella sua forma di potere, lunghi capelli neri che le ondeggiavano attorno al corpo, grandi corna ricurve che le partivano dalle tempie, corna di alabastro brillanti come quarti di luna. «Spicciati», le disse Thonsane, la voce un intreccio di echi. Hallah posizionò il rampino contro uno dei merli e usò la corda per frenare la caduta. Una volta scesa, liberò il rampino, lo afferrò al volo e si mise a correre. Si fermò vicino al cavallo, lanciò un'occhiata alle sue cose, poi all'incorporea e misteriosa forma di donna cornuta. «Informazione ricevuta. Sei stata tu.» «Sì.» «Perché?» «Gli Eulé: quelle che tu chiamavi Larve. Nome adatto, tra l'altro. Avrebbero sentito odore di pericolo se tu avessi saputo troppo. Portavi il seme, era sufficiente.» Un altro crollo. Hallah si guardò nervosa alle spalle. Il tetto aveva ceduto. Ciottolo cercò di arretrare, ma Thonsane gli posò la mano sulla groppa e il cavallo si calmò. Hallah fece una smorfia. «Povero vecchio Ciottolo, sarà un relitto nevrastenico quando ce ne saremo andati da qui. Portavo il seme, Maytre! E se non ci fossi riuscita? Non importa. Conosco la risposta. Avresti mandato qualcun altro.» Tossì per il pennacchio di polvere che le si era levato attorno per il crollo di una parte di muro, poi balzò in sella. «Mi sciogli le redini, per favore? È meglio andarcene prima che ci cada addosso qualcosa. Tu, Thonsane, puoi anche rimanere illesa, ma a Ciottolo e a me non piacerebbe affatto.» Prese le redini e rimase seduta a guardare dall'alto in basso la donna cornuta. «Dove adesso?» «Tarakan.» «Mi farai vedere Rowanny e Briony?»
«Qualcuno lo farà.» Le parole erano un sospiro simile a vento tra le foglie mentre Thonsane scompariva. Hallah fece girare Ciottolo, spingendolo al galoppo. Tarakan. Uno dei regni delle pianure. Chissà quali guai mi aspettano laggiù. Lynne Armstrong-Jones I CAVALIERI DELLA LUNA Lynne Armstrong-Jones è una delle mie autrici più assidue. Agli inizi del Marion Zimmer Bradley's Fantasy Magazine, per un po' deve avermi inviato uno o due racconti a settimana; e adesso quando nella posta trovo una delle sue storie so che, anche se non potessi utilizzarla immediatamente, varrà comunque la pena leggerla. La qual cosa, è ovvio, mi rende impaziente di trovare qualcosa di suo che posso usare, e questo capita spesso. Vive in Canada e dice di essere sposata da ventun anni con lo stesso uomo e di avere «due bambini fantastici, Mike e Megan». La maggior parte dei bambini è fantastica; anche i miei lo sono. È difficile che io incontri bambini che non mi piacciono; succede, certo, ma di solito significa che non sopporto il relativo adulto e che l'antipatia si è trasmessa al povero innocente. Quasi tutti i miei scrittori preferiti hanno dei figli eccezionali. Galaan sospirò, massaggiandosi con le dita la schiena dolorante. Sto diventando troppo vecchia per tutto questo trambusto! E comunque, pensava, cos'altro avrebbe potuto fare? Metteva in vendita la sua abilità di guerriera e di scorta da... potevano davvero essere più di vent'anni ormai? Sospirò di nuovo e prese la tunica. In realtà dovrei essere riconoscente, pensò. In fondo, è un'impresa come un'altra. Se questi stregoni conoscessero la foresta, non avrebbero bisogno della mia assistenza. Si raddrizzò, inarcando la schiena: cercava di allontanare in fretta la rigidità. Una smorfia le increspò le labbra. Non sembrava poi passato molto da quando ogni mattina si alzava con un balzo, impaziente come un cerbiatto. Be', quello non lo si poteva evitare. Si sistemò la treccia e allungò una mano. «Jewel, vieni», mormorò, le dita protese verso l'uccellino scarlatto. «È improbabile che in questo breve viaggio abbia bisogno della tua abilità nel percepire la magia, ma senza dubbio il tuo canto mi allieterà lo spirito.» Si girò verso la porta, ma si fermò; un lieve tocco sulla mano aveva atti-
rato la sua attenzione. Galaan spostò nuovamente gli occhi sull'uccellino, mentre un sorriso cominciava a illuminarle il volto. Con lo sguardo accarezzò il compagno, che strofinava amorevolmente la testina piumata contro la sua padrona. A disagio, Galaan guardò le tre figure con mantello e cappuccio. Se i maghi erano persone oneste, perché facevano tutto il possibile per nascondersi? Lasciò cadere la mano sulla rassicurante impugnatura della spada. La sua «magia». «Allora, guerriera, puoi condurci sani e salvi dall'altra parte della foresta?» chiese una voce sussurrata come brezza tra le foglie. «Sì. Per quattro pezzi d'argento... come abbiamo già pattuito», rispose lei. Il cappuccio ondeggiò mentre chi vi si nascondeva dentro annuiva. «Vorrei essere pagata ora», continuò la guerriera. Il cappuccio scivolò leggermente all'indietro quando la testa al suo interno alzò lo sguardo, occhi infossati che cercavano un contatto con quelli di Galaan. C'era qualcosa nello sguardo della maga, qualcosa nel suo potere che provocò un rapido e gelido brivido lungo la schiena di Galaan. La quale si umettò le labbra secche, grata della vicinanza dell'uccellino sulla sua spalla. «Vorrei essere pagata ora», ripeté. La maga si mosse come per accontentarla, ma il più vicino dei suoi compagni incappucciati la fermò subito con un tocco della mano. «Cadera», disse a bassa voce. «Non dobbiamo. Che cosa succederebbe se dovesse...» La maga chiamata Cadera scosse il capo, ma fu Galaan a parlare. «Che succederebbe se...? La prego, mastro stregone, finisca la domanda! Senza dubbio possiamo parlarci con franchezza!» Lo stregone sospirò, voltando il viso barbuto in direzione della guerriera. «Signora, devi soltanto condurci al margine della foresta. Non ti devi preoccupare d'altro.» «Il mio compagno dice la verità, Galaan», intervenne la maga. «Una volta trovata la strada per attraversare la foresta, il tuo impegno sarà concluso.» «Tuttavia qualcuno sembra pensare che scapperò prima di averlo portato a termine.»
Cadera ci pensò sopra un istante, scambiando un'occhiata con gli altri due incappucciati. La luna stava salendo, e la sua dorata luminosità colse un baluginio azzurro mentre la maga spostava di nuovo gli occhi su Galaan. «Quando avremo attraversato la foresta, tu potrai tornare indietro. Ma noi... noi abbiamo un compito da svolgere. Dobbiamo avventurarci fino al crinale.» «Il crinale!» Galaan batté le palpebre; uno spasmo prese per un attimo il controllo del suo corpo, poi lo liberò. Un lampeggiare di ali scarlatte, e Jewel cercò un altro posatoio. «Il crinale? Ma sapete... conoscete il pericolo...» Cadera abbozzò un sorriso. «Sì», disse con dolcezza. «Dobbiamo affrontare i Cavalieri della Luna. La nostra magia è più forte della loro: la gente del villaggio non vivrà più nella paura.» Tuttavia il cuore continuava a martellare nel petto di Galaan. Non credo proprio! Correva voce che i Cavalieri della Luna fossero maghi potenti, feroci oltre ogni dire; avevano il volto simile alla luna piena, che rifletteva la luce contro le persone fino ad accecarle. Galaan valutò tutto quello che aveva sentito raccontare. No, non aveva nessuna voglia di avventurarsi oltre il limitare della foresta! Ma quattro pezzi d'argento le avrebbero reso la vita molto più facile. Molto più facile. «Desidero essere pagata in anticipo», ripeté piano. «Chi altri potrebbe mostrarvi la strada?» Il tintinnio del denaro nella borsa di Cadera tranquillizzò la guerriera. Galaan rese più stretta la lunga treccia di capelli nero-argento e cercò con la mano la sensazione familiare data dai suoi averi appesi alla sella. Poi si sporse in avanti, per accarezzare il collo del castrone grigio. Percepì un battito leggero, e si voltò verso l'uccellino scarlatto che le si posava sulla spalla. «Amico mio, forse dopo tutto avrò bisogno delle tue capacità anche questa volta!» mormorò la guerriera. «Meglio tu stia all'erta, in caso d'incantesimi. È possibile che i Cavalieri della Luna riescano a percepire la nostra presenza mentre ci avviciniamo!» Quel pensiero le inviò un altro brivido su per la schiena... e, quasi avesse percepito le esigenze della padrona, Jewel cominciò a emettere un melodioso gorgheggio. «Allora, Galaan... faremmo meglio a muoverci!»
La guerriera alzò lo sguardo. Era stato lo stregone barbuto a chiamarla. Galaan annuì, spingendo avanti il castrone nell'oscurità; non le dava fastidio la fresca ombra della foresta. Sapeva che la mancanza di luce non significava necessariamente presenza di pericolo o del male. E i raggi di luna che riuscivano a penetrare tra le fronde erano sufficienti per riconoscere i punti di riferimento. Di quando in quando, però, si fermava, ben sapendo che gli animali notturni erano svegli. Attendeva che i cavalli che la seguivano fossero immobili, poi ispezionava la zona con l'udito e con l'olfatto, in cerca di possibili pericoli. Ma, se questi sono davvero dei grandi maghi, non possono semplicemente far scomparire ogni pericolo? Un rumore improvviso le aveva fatto estrarre la spada; si trattava, però, solo di un animale che attraversava frettolosamente il loro sentiero. La luna piena attirò lo sguardo di Galaan. Davvero i Cavalieri della Luna avevano una faccia simile? Davvero potevano fare qualunque cosa grazie alla loro magia? Rabbrividì. Non c'era niente in grado di trascinarla fuori dalla sicurezza della foresta quella notte! Avrebbe accompagnato quei tre al limitare del bosco, certo. Ma non si sarebbe avvicinata a quel crinale. Con uno schiocco della lingua spronò il cavallo a riprendere il cammino. «Là», sussurrò alla maga che le stava accanto. Appena oltre i pochi alberi che avevano davanti, c'era il crinale. Non era poi tanto alto, eppure da quelle parti era in assoluto il punto più vicino alla luna. E la luna era immensa nel cielo, quasi potesse davvero elargire il suo potere. Splendeva in modo stupendo, coi segni scuri che formavano una faccia minacciosa. «Ci hai servito bene, Galaan», disse la voce setosa di Cadera. Subito dopo, i maghi erano andati via. La guerriera rimase a guardare la coda dell'ultimo cavallo che oltrepassava i cespugli, con un fruscio. Cosa sarebbe successo quando avrebbero raggiunto la cima del crinale? Avrebbero... avrebbero davvero potuto distruggere i Cavalieri della Luna? Liberare i villaggi dal male? Galaan si scoprì a nascondere la collana sotto la tunica. Si diceva che i Cavalieri della Luna bramassero qualunque oggetto riflettesse i raggi lunari. S'impossessavano di ogni cosa che fosse bella e lucente, e gli uomini e le donne che opponevano resistenza venivano massacrati. Bene, ne aveva avuto abbastanza! Tirò le reclini di Gray, felice di fare
ritorno al riparo della foresta. All'improvviso un fischio stridulo le fece sobbalzare il cuore. Jewel! Aveva percepito della magia! Ma, altrettanto di colpo, si era zittito. Poi il rauco grido di Cadera echeggiò dal crinale. Il crinale! I Cavalieri della Luna... e la loro magia! Jewel trillò di nuovo. Evidentemente Cadera e i suoi compagni stavano affrontando potenti incantesimi. Forse troppo potenti. Galaan esitò solo un istante. Spada sguainata, spinse avanti Gray. Si tuffarono nella vegetazione e poi nello spazio aperto. E là, li vide... Avevano facce grosse, rotonde; ammesso di poterle chiamare «facce». Il corpo era come quello umano, con sotto una cavalcatura. Ma quelle grandi facce scintillanti... Adesso Galaan riusciva a vedere la magia, frammenti di lampi d'argento. Provenivano, però, da Cadera e dai suoi compagni. Era la loro magia che aveva percepito Jewel. I maghi lanciarono un altro incantesimo, ma nei Cavalieri della Luna non si verificò nessun cambiamento. Possibile che fossero più forti di qualunque sortilegio? In quel preciso istante, uno dei Cavalieri della Luna si avvicinò a Cadera, con la spada che catturava la luminosità lunare. La reazione di Galaan fu immediata. «La mia magia», annunciò; la sua lama fendeva l'aria mentre Gray saltava sul terrapieno. Invece di attaccare la faccia splendente, colpì le parti che apparivano più umane. E il gemito emesso da quella «faccia» risultò davvero molto umano. Galaan, però, non ebbe il tempo di fare congetture, perché fu subito costretta a difendersi dall'attacco del cavaliere successivo, che aveva già estratto una spada. Con la coda dell'occhio vide lo stregone che preparava un incantesimo. «No!» gridò, mentre balzava giù dalla sella. Due uomini: due uomini e niente di più. Assestò un calcio a un ginocchio; la faccia da luna risuonò e si spaccò mentre il suo proprietario cadeva a terra. Adesso Galaan era impegnata con l'ultimo cavaliere, il quale tentava di levarsi la goffa maschera lunare per potersi concentrare meglio sul combattimento. Non è così facile sconfiggere un avversario che non ha paura, vero? pensò la guerriera, digrignando i denti mentre la rabbia le dava nuova energia.
Quando le dita del Cavaliere della Luna trovarono ciò che bloccava la maschera, Galaan afferrò la sua arma con entrambe le mani. Il clangore echeggiò per tutta la foresta mentre la spada della guerriera colpiva con forza quella dell'uomo, facendogli lasciare la presa. Lo stregone più grande afferrò il cavaliere alle spalle. Galaan si chinò per studiare i resti della maschera. Era realizzata con metallo lucido, e in un certo qual modo somigliava davvero alla luna. Galaan ridacchiò. Poi scoppiò proprio a ridere. Stava ancora sorridendo quando si voltò a guardare Cadera. Le dita della maga giocherellavano con l'amuleto d'oro che aveva sul petto. Il cappuccio era caduto all'indietro, e i raggi lunari creavano riflessi rossi tra i corti riccioli bruni della donna. Aveva il viso serio, le labbra pallide increspate in un broncio che sembrava quasi permanente. «Madama Cadera, mi dica», sorrise Galaan, «com'è che la vostra 'magia' non è riuscita a fermare questi saccheggiatori del tutto umani e per nulla 'magici'?» Alla maga sfuggì un lungo sospiro. «Abbiamo lanciato un incantesimo per neutralizzare qualunque stregoneria potessero utilizzare i Cavalieri della Luna. Se fossero stati veri maghi, il nostro incantesimo avrebbe avuto effetto. Capisci, noi presumevamo...» La voce si fece fioca, fino a non essere altro che un alito di vento tra le foglie. Galaan non disse nulla, montò sull'ampia groppa di Gray e spinse il cavallo verso casa. Ma il cuore le batteva forte; qualcosa in quella donna aveva fatto breccia in lei. D'impulso si voltò, chiamandola: «Cadera». La maga alzò gli occhi cerulei a incrociare quelli di un caldo marrone della guerriera. In fretta, prima che le parole potessero nascondersi nel suo animo, Galaan disse: «Forse... forse è stato davvero il vostro incantesimo. Dev'essere stato quello a consentirmi di scoprire il segreto dei Cavalieri della Luna con tanta facilità. Certo! Non è chiaro? La vostra magia deve averli indeboliti». Il viso di Cadera si era rilassato in modo evidente, le labbra leggermente curve all'insù. Annuì, anche se Galaan aveva la sensazione che nemmeno la maga credesse davvero a quelle parole. La guerriera fece voltare di nuovo il castrone verso la rassicurante familiarità della foresta, con sufficiente lentezza perché gli altri potessero seguirla. Sospirò ancora. Ma, in quel momento, la strana nuvola scura che assediava il suo spirito si sollevò un poco, in risposta al gioioso cinguettare accanto a lei.
«Ah, Jewel.» Allungò un dito per sfiorare le morbide piume mentre l'uccellino si appollaiava comodamente sulla sua spalla. «Dev'essere meraviglioso essere un animale, libero dagli imbarazzi dell'esistenza umana. Libero dalle preoccupazioni... vivere solo per il piacere di vivere. Ed eccoti qui, ad ascoltare le mie chiacchiere senza capire un bel niente. Ah, be'. Adesso, amico mio, potresti proprio cantarci una bella canzone... Jewel?» Ma per una volta l'uccellino se ne restò in silenzio. Mary Catelli AL LADRO! Mary Catelli ha incominciato a scrivere a dodici anni, perché «avevo già letto quasi tutti i libri della biblioteca». Questo è un altro di quei racconti che ero sul punto di rifiutare, perché ha a che fare con due dei soggetti che vedo ormai come il fumo negli occhi: ladri e draghi. Di storie con simili protagonisti ne ho già lette più che a sufficienza. Il racconto in questione sta comunque a dimostrare che sarò sempre disponibile ad acquistarne altri, qualora presentino, come in questo caso, un'alta qualità e un intreccio davvero irresistibile. I nidi somigliavano vagamente a quelli delle aquile ammassati sul limitare delle grotte, ma erano molto più grandi. Nessun nido d'aquila avrebbe mai potuto ospitare un drago. Mentre risaliva il sentiero, Sylvie contemplava i pallidi rami secchi che formavano i nidi. Non sembravano custodire le enormi ricchezze che di solito gli antichi draghi alati tenevano con sé; ma Sylvie intravedeva qualcosa attraverso l'intrico cespuglioso: una collana di zaffiri; uno scrigno forzato, da cui non fuoriuscivano candide perle né monete d'oro; un arazzo raffigurante un drago ad ali spiegate appeso a due grossi rami. Sylvie si avvicinò ancora. C'era un motivo se i draghi erano i signori di quelle terre. Non avrebbe mai potuto vendere quei magnifici tesori entro i confini del loro territorio. Per quanto potessero essere benevoli, e ritenuti i regnanti più generosi in un raggio di molte leghe secondo l'opinione delle genti a loro sottomesse e dei viaggiatori di passaggio, erano pur sempre dei draghi, con una memoria da drago. Possedere una sola di quelle perle avrebbe significato essere inseguiti per sempre, e nessuno avrebbe mai comprato da lei un simile destino.
«Se solo avessero dei libri», mormorò fra sé. I draghi erano maghi potentissimi; qualora lei fosse riuscita a entrare in possesso di qualche loro libro di magia, avrebbe potuto venderlo facilmente. Non c'era mago al mondo che non avrebbe dato il braccio destro per possederne uno; Sylvie si sarebbe sistemata per tutta la vita. Si affrettò a esaminare il primo nido. La bacchetta cesellata con decorazioni d'argento poteva anche essere magica, ma aveva dimensioni adatte a un essere umano, il che significava che anche la magia che era in grado di evocare era umana. No, soltanto la potente magia dei draghi avrebbe funzionato. Inoltre, anche se aveva visto i draghi allontanarsi in volo, era sicura che avrebbero fatto ritorno anche troppo presto. Fu nel nido successivo che Sylvie trovò la prima delle grandi sfere: era di un colore rosa pallido, perfettamente tonda, calda al tatto, grande quasi quanto lei. Un uovo? si chiese. Ma ha una forma diversa... Gettò un'occhiata alle stoffe e ai gioielli, e passò al nido vicino. Non sapeva che farsene di quelle strane sfere. All'interno del terzo nido c'era una mezza dozzina di sfere, ma nessun libro. Cercò anche dentro gli scrigni ricolmi d'oro e di pietre preziose, gettando tutto all'aria, di modo che i draghi al loro ritorno sì sarebbero facilmente accorti che era stata lì. Con un sospiro si mise a sedere nel nido più grande, sollevando gli occhi verso la parte di cielo azzurro che si riusciva a vedere, e cercò di riposarsi un po'. «Potrebbe comunque essere un uovo, anche se non ne ha la forma. Proverò a picchiettarci sopra per vedere se è cavo», disse prendendo un pezzo di legno. «Se è un uovo, me ne andrò altrove a cercare fortuna.» Per raggiungere la cima della sfera, dovette arrampicarsi sui rovi. Per quanto lievi fossero i colpi che assestò, sentì distintamente un suono sordo. Sospirò, lasciando cadere il bastone; il suo senso pratico ebbe la meglio, e Sylvie si apprestò a lasciare il nido. «Le uova di drago sono perfettamente tonde», notò mentre ridiscendeva. «La notizia potrebbe anche valere qualche moneta per uno studioso della materia, abbastanza da pagarsi una cena, almeno.» Un leggero picchiettio. Sylvie si voltò. L'uovo di colore blu vacillò e un altro colpetto fece staccare una parte del guscio. Un grande occhio color bronzo sbirciò fuori del buco, dritto verso Sylvie, mentre dall'interno del guscio proveniva un rumore indistinto. Un attimo dopo, schegge di guscio
volarono tutt'attorno in quella che sembrò un'esplosione. Un cucciolo di drago, azzurrino pallido e con due enormi occhi, balzò fuori e corse verso Sylvie. «Mamma, mamma!» Le ali spiegate a metà sbattevano frenetiche mentre la creatura gettava le braccia attorno ai fianchi di Sylvie, rivolgendole uno sguardo adorante. «Mamma», ripeté. Prigioniera della stretta, Sylvie faticava a respirare. Le ci volle un minuto per convincerlo a mollare la presa, ma il piccolo drago le si arrotolò attorno ai piedi, chiudendo uno solo dei suoi immensi occhi. Al loro ritorno, i draghi non sarebbero certo stati contenti della situazione; Sylvie doveva andarsene in fretta e sperare che i genitori del piccolo non scoprissero chi si era infilato nel loro nido. Si avviò, mentre il draghetto s'inerpicava dietro di lei con entusiasmo. Era sul punto di voltarsi per dirgli di andarsene, quando un'ombra si frappose tra lei e il sole. Poteva benissimo essere una nuvola, ma Sylvie sentiva che non era così. Si voltò lentamente, ritrovandosi faccia a faccia con un gruppo di draghi che planavano nel nido. Sì morse il labbro inferiore, preoccupata. Erano in sette: quello che li guidava aveva il colore dell'oro sbiadito, e le enormi squame che ne ricoprivano il corpo erano intarsiate di ornamenti di rame e d'argento. «Cosa? Il mio adorato, prediletto Azurine è nato? Dov'è? Cosa può essergli accaduto? Avrei dovuto sapere che non potevo fidarmi della formula magica datami dall'Eglatinor. Il mio piccolo adorato è sgusciato e venuto alla luce senza di me, nonostante tutte le sue promesse. Dove può essere andato, dove?» Il suo compagno, di colore verde pallido, appena planato sul bordo del sentiero, allungò un artiglio. «Eccolo, è là», disse pronunciando le parole con lentezza, e indicando con gli occhi nella direzione di Sylvie. Il primo drago, visibilmente sconvolto, volse lo sguardo verso il sentiero. «Un umano? Cosa fai qui, creatura umana? E cosa hai fatto al mio piccolo Azurine?» domandò in tono minaccioso, mentre la sua enorme sagoma si profilava incombente al di sopra di Sylvie e Azurine. «Aiuto! Mamma, salvami!» urlò Azurine, cercando protezione. Avvolse la coda attorno ai piedi della ragazza, aggrappandosi con le zampe ai suoi fianchi mentre lanciava in giro sguardi spaventati. «Troppo tardi, gli ha dato l'imprinting», sibilò uno dei draghi, enorme, dal colore bronzeo striato di nero. Un mormorio composto da diversi sibili attraversò il nido. O almeno Sylvie pensò si trattasse di un mormorio; in realtà quel suono l'avrebbe assordata se fosse stato appena un poco più
forte. Azurine si strinse ancora di più a lei. Un altro drago, più piccolo e di un rosso cupo come il sangue, squadrò Sylvie. «Ora dovrà crescerlo. E sarà un grosso problema e una preoccupazione. Dovrà trovargli un riparo adeguato e provvedere a tutto il resto. Sai bene quanto me, Auream, che non abbiamo scelta.» Sylvie s'irrigidì. Quanto tempo impiega un drago a diventare adulto? Diede un'occhiata ad Azurine, cercando una risposta; ricevette in cambio uno sguardo schietto e innocente. Auream sospirò, esalando dall'enorme bocca un fumo denso come nebbia. «Dunque non ci sono alternative. Dovremo sistemare le cose per questa umana.» Pronunciate tali parole si adagiò sul suo nido. «Ma, grandi signori, io non posso restare qui», esclamò Sylvie nel tono più compassionevole possibile. Venti occhi la fissarono all'unisono. «Io mi guadagno da vivere cercando di scoprire nuovi incantesimi e magie, per venderne poi i segreti ai maghi. Rimanendo qui morirei sicuramente di fame.» Auream si sollevò sulle zampe posteriori esclamando: «Nuove magie e incantesimi? Noi possediamo una magia più antica di qualunque civiltà al mondo! Te le daremo noi nuove magie da rivendere a quei maghi». Sylvie sorrise. «Ma sì. Insegnerò anche a te quello che insegnerò ad Azurine! Non imparerà niente che non imparerai anche tu», dichiarò il drago. «Ti sottoporrò persino alle stesse prove cui lui sarà sottoposto! Caro cugino Gillias, secondo te anche gli esseri umani crescendo diventano verdi?» Hannah Blair LA GUARIGIONE Al momento di accettare questo racconto mi sono informata sulle vicende biografiche della narratrice, e mi ha molto sorpreso scoprire che ha solamente quindici anni. Per quanto mi riguarda, di solito, voglio sapere quanti anni ha lo scrittore che sto trattando soltanto... dopo avergli comprato un racconto. Fin troppi scrittori esordienti rendono manifesta la giovane età insieme con la mancanza di talento, e io non faccio mai particolari concessioni all'età di un autore: se è abbastanza bravo da essere
pubblicato non ce n'è bisogno. Ma che provi grande piacere nello scoprire scrittori veramente giovani è dimostrato dai nomi di Micole Suldberg, Stephanie Shaver, Vera Nazarian, David e Margaret Heydt: quando mi hanno venduto i loro primi racconti non avevo idea di quanti anni avessero. Chi si ricorda dell'età di Mozart o di qualsiasi altra cosa che lo riguarda a parte la magnificenza della sua musica? Nella lettera scritta dopo l'accettazione del racconto, Hannah mi dice che sta pensando di diventare chef; la prospettiva non mi sembra particolarmente brillante per una minorenne, oltretutto vegetariana. Decisamente la cosa bella dell'essere giovani è che invecchiando non lo si è più. E alcuni giovani crescendo smetteranno di essere vegetariani; anche se George Bernard Show, sentendosi dire che il vegetarianesimo era dannoso per la salute, rispose che, avendo ormai più di novant'anni, era troppo vecchio per cambiare abitudini e si sarebbe dunque rassegnato a una morte prematura. D'altro canto, un esordio molto precoce non significa poi granché. Nessuno avrebbe mai pensato, leggendo i primi lavori di Ray Bradbury, Harlan Ellison, Bob Silverberg o Marion Zimmer Bradley, che avrebbero mai scritto niente che valesse la pena di essere letto e ricordato. Preludio: separazioni. «Perché?» chiese Malia per la terza volta, non aspettandosi davvero una risposta. «Non sappiamo perché», rispose con tono stanco sua zia Eirian, scuotendo la testa. «Non lo sappiamo e basta.» «Malia?» azzardò la cuginetta Iphis. «Dicono che adesso la tua mamma sia con gli dei.» «Perché non può più essere qui, con noi?» strillò Malia. Eirian le gettò un'occhiata di rimprovero mentre Iphis sgattaiolava via. «Per tutti viene il nostro momento di andarsene. Ketrina manca tanto anche a me.» «Facile a dirsi per te. Tua madre è ancora viva», mormorò Malia con una sfumatura di amarezza e risentimento nella voce triste. «Quanto poi a poteri di guarigione che tutti dicono io abbia...» aggiunse, quasi tra sé, con profondo rimpianto. «Smettila, Malia», la ammonì Eirian dall'altra parte della stanza. «Tutto il mio potere...» «Smettila, Malia.»
«Perché non sono stata in grado di salvarla?» Quel piagnisteo era decisamente molto infantile. Si sentiva di nuovo come una bambina, senza alcun controllo sul proprio mondo. Per un momento sedette in silenzio, tremante, i segni lucenti lasciati dalle lacrime che solcavano le guance arrossate, poi cominciò a piangere. «Perché?» Eirian le fu accanto, abbracciandola premurosa e tranquilla, fino a che le lacrime non cessarono e Malia rialzò di nuovo la testa. «Tua madre era una donna molto buona e un'ottima guaritrice. Commemoriamola semplicemente seguendo il suo esempio», disse teneramente Eirian. «È quello che vorrebbe anche lei. È la miglior cosa che tu possa fare per ricordarla.» Riparazioni. «Malia, per diventare una Maestra guaritrice, una donna viaggiante, è necessario che tu venga a patti coi fallimenti del passato», spiegò il decano dell'Accademia dei Guaritori, arrestando il passo. «Non puoi avere fiducia nelle tue capacità se prima non riesci a liberarti del peso degli insuccessi, e senza fiducia in te stessa non potrai mai guarire nessuno.» Mentre parlava volgeva lo sguardo tutt'attorno, mai su di lei. Poi d'improvviso, con tutta la comprensione di cui era capace, le disse: «Devi lasciarti alle spalle il fatto di non essere riuscita a salvare tua madre». Quelle parole colpirono Malia come una secchiata d'acqua gelida. Si era sempre crogiolata nell'approvazione dei suoi insegnanti, non aspettandosi mai nulla di più dei soliti predicozzi sulla responsabilità morale connessa all'opera di un guaritore, cui era regolarmente sottoposta in occasione di ogni nuova promozione. Fin dalle prime parole dell'uomo aveva capito che lì sarebbe andata diversamente, ma a quello non era preparata. «Malia?» La voce del decano la riportò d'improvviso al doloroso presente. Sembrava brancolare alla ricerca del miglior modo di esprimersi, poi disse: «Mi dispiace, bambina mia, ma va fatto». E allargò le braccia, quasi a sottolineare l'inadeguatezza delle sue parole. Malia assentì col capo, come intontita. «Io... io andrò a visitare la sua tomba.» «Credo sarebbe la cosa migliore», replicò il decano, aggiungendo tra sé: Che gli dei ti aiutino, bambina mia; perché io proprio non posso. Il piccolo camposanto dei guaritori era inondato dalla luce del tardo pomeriggio e profumava in modo delizioso di erba riscaldata dal sole, ma Malia era troppo sconvolta per apprezzarlo. Quando raggiunse la tomba di
sua madre la trovò immutata, avvolta com'era nel silenzio. Ancora una volta si meravigliò del rigoglio di vita e natura che prosperava tra quelle tombe: l'albero di melo inclinava i suoi germogli giusto sopra la lapide, un'esplosione di piccoli fiori germogliava lungo i suoi bordi, mentre l'aria risuonava del canto allegro degli uccellini. Nonostante lo splendore della giornata, la guaritrice sentì un'accusa salire dalla lapide: lei, Malia, aveva fallito. Come aveva potuto? Non si era resa conto di che cosa fosse in gioco? Troppo tardi ormai, annotò fra sé con improvvisa crudeltà. A quel punto si gettò sulla tomba nel parossismo del senso di colpa e scoppiò a piangere. Cessate le lacrime, si ritrovò a sprofondare lentamente nella Trance di Guaritrice. Provò a opporsi, ma alla fine si dimostrò più forte di lei. Prese a scivolare in un'oscurità calda e accogliente. Malia. Qualcosa le sfiorò la mente, una voce familiare. Malia trasalì, al ricordo, e si ritrasse dalla voce. Mi disprezzi, ora che sono morta? Non provo nessun dolore, il mio solo rimpianto è di aver causato dolore a te. «No!» Non negarlo, ti ho causato dolore. Ma hai dimenticato i nostri momenti insieme? C'era una sorta di sorriso nella voce della madre, e nella sua mente affiorarono i ricordi... La madre la guidò all'interno delle scuderie. «Eccolo.» L'enorme castrone dal manto grigio osservava dall'alto la bambina, piccola abbastanza da riuscire a camminare al di sotto del suo ventre senza nemmeno toccarlo. «Malia, dagli la mela», le sussurrò la madre. Nervosa, la bambina fece un passo indietro. «È grande, mi morderà.» «No, non lo farà. È molto mite», la incoraggiò la madre. Malia fece un altro passo indietro. «Mi morderà!» La donna scosse la testa. «No. Prendi, tieni...» - Ketrina strinse la mano attorno a quella molto piccola della figlia, a formare una sorta di coppa «... così, ora possiamo dargliela insieme.» Malia sollevò la mano. Il castrone annusò con interesse la mela, poi la risucchiò dalle mani della bambina con un nitrito. La voce di Eirian proveniva da un profondo abisso di tempo:
«Commemoriamola seguendo il suo esempio». «E allora?» chiese ansiosa Malia, ritta sulla soglia. La stanza era in penombra, in segno di rispetto per la condizione dell'uomo disteso sul letto col viso imperlato di sudore. «Non so», rispose la madre, mentre controllava la temperatura poggiandogli una mano sulla fronte. «Non ha più febbre, ma è sempre privo di sensi.» Ketrina sembrava serena, ma rughe di preoccupazione le solcavano gli angoli degli occhi e della bocca. Malia le porse una tazza bollente. «Ecco il tè che volevi.» Ketrina lo prese con riconoscenza e, nonostante la temperatura, ne bevve metà in un solo sorso. Chiuse gli occhi per un attimo e si appoggiò alla parete. «Guarirà?» domandò Malia. Ketrina aprì gli occhi e si rimise eretta. «Non lo so. Vorrei poterti dire di sì. Se almeno riprendesse conoscenza...» Scosse la testa e cercò con lo sguardo le sue erbe medicinali. Prese un cucchiaino di fiori viola essiccati. «Gli apriresti la bocca, per favore? Devo mettergli questo sulla lingua, ed è come se avesse le mascelle serrate col filo di ferro... Ecco, così. Grazie. Se questo non lo aiuta a...» Scosse ancora la testa, e aggiunse: «Non serve a niente continuare a pensarci». Stava alzandosi per sistemare il suo armamentario di medicinali quando l'uomo emise un suono rauco e cominciò a tossire. Fece una smorfia, e infine aprì gli occhi. «Commemoriamola seguendo il suo esempio.» Malia sedeva sulla coperta. «Sta per piovere», annunciò. La madre agitò la mano. «Sciocchezze. Guarda il cielo, non c'è una nuvola. Pensa a mangiare.» Malia assunse un'espressione imbronciata. «Odio il formaggio.» «Allora non mangiarlo. Abbiamo del pane.» Ketrina si portò con voracità un pezzo di formaggio giallo alla bocca e stappò l'otre. Dopo una lunga sorsata, l'offrì a Malia. «In un paio di minuti avremo tutta l'acqua che vogliamo», disse la ragazza, scura in volto, ma bevve comunque. Una folata di vento sferzò le foglie dell'albero sotto cui erano sedute. Una nuvola si mosse a coprire il sole, tutto il paesaggio si oscurò. Malia lanciò un'occhiata alla madre. «Te l'avevo detto.» «Be', non sta ancora piovendo», replicò Ketrina.
«Lo farà», ribatté sicura Malia. «Abbi un po' di pazienza.» «Sciocchezze.» Quando la prima goccia cominciò a bagnare le foglie, la ragazza rivolse alla madre un sorrisetto saputo. Ketrina imprecò a bassa voce e cominciò a mettere il cibo al riparo dentro lo zaino. «Dovremo correre», disse guardando il cielo attraverso le foglie. «Pare abbia intenzione di durare a lungo.» «Lo sapevo», mormorò Malia, distratta. «Cos'è, hai la capacità magica di prevedere il tempo», replicò Ketrina quasi divertita. «Sei una guaritrice, ricordi?» «Sì, mamma», rispose Malia con esagerata docilità. Ketrina si mise a ridere. «Andiamo?» Malia rispose con un sorriso malizioso: «Tanto vale. Sai, non smetterà tanto presto». Ketrina raccolse lo zaino, e insieme si misero a correre sotto la pioggia. «Commemoriamola seguendo il suo esempio.» La lieve carezza di due labbra le sfiorò fugacemente le guance; un attimo dopo la madre era scomparsa. Riaprì gli occhi, e si ritrovò appoggiata alla lapide ancora calda. Aveva gli occhi umidi e, anche se le lacrime non sgorgavano più, ne portava ancora i segni sulle guance. Malia toccò la superficie della pietra tombale coi polpastrelli; poi si alzò e s'incamminò verso l'accademia, nella luce profonda del tramonto, lo sguardo rivolto al futuro e il cuore finalmente sereno. Cynthia McQuillin LA SORGENTE DELLE VERGINI Credo di avere dimenticato quante storie sugli unicorni abbia letto e rifiutato, il che sta a dimostrare che la maggior parte di esse non meritava di essere ricordata, per non dire di peggio. Tuttavia ce ne sono state tre, in tutta la mia vita, che considero memorabili; la prima è quella che tuttora reputo il miglior racconto sugli unicorni mai scritto: The Silken-Swift, di Theodore Sturgeon. La seconda è opera del rimpianto Robert Cook, che ha lasciato solo una manciata di
poesie e racconti a propria memoria; ma credo che vena ricordato a lungo per il racconto in questione. La terza storia è opera di Cynthia McQuillin, una delle mie amiche e coinquiline nonché persona dai mille talenti, che ha venduto due o tre racconti per le antologie della serie «Darkover». Cynthia è una delle pochissime persone che riconosco essere cuochi migliori della sottoscritta. Un altro dei suoi talenti può essere ammirato nella sala vendite di quasi tutte le convention di letteratura fantastica: crea splendidi gioielli. Rappresenta inoltre metà del gruppo musicale Mid-Life Crisis e, insieme con Jane Robinson, ha prodotto almeno un eccellente disco di canzoni sui dinosauri, intitolato Fossil Fever. Si esibiscono in moltissimi caffè della zona nonché alle convention, dove è possibile trovare cassette con canzoni folk e filk, di tono sia serio sia umoristico, oltre ad alcune composizioni originali di quél genere, molte delle quali scritte da Cynthia, che ormai si è specializzata in canzoni romantiche o divertenti sui vampiri. Una cosa che ripeto fino alla nausea è che per diventare uno scrittore di successo bisogna scegliere di coltivare la scrittura a discapito degli altri talenti; solo pochissimi sono in grado di tenersi a galla nel mare dell'editoria lavorando part-time. Cynthia potrebbe essere l'eccezione. Il sole splendeva luminoso e la giornata era piacevolmente calda, ma Esmeralda non riusciva a gioirne. Le sembrava così strano ritrovarsi da sola per strada, dopo tutti gli anni trascorsi a vagabondare insieme con sua madre per le vie principali e le stradine secondarie. Altura aveva trasmesso alla figlia i segreti del proprio commercio, la vendita di erbe, ma non era quello che la ragazza avrebbe voluto fare. Ora che la madre era morta, doveva portare avanti l'attività da sola, senza il conforto di una compagnia nei lunghi spostamenti di villaggio in villaggio. Era sola coi propri pensieri, sempre gli stessi. Molti anni prima, in un momento d'irripetibile magia, Esmeralda si era innamorata, così perdutamente che niente e nessuno avrebbe potuto riconquistare il suo cuore. Ancora oggi ardeva intensamente di desiderio come il giorno in cui, mentre si bagnava alla sacra fonte delle Vergini, aveva visto per la prima volta l'unicorno. Da quel momento in poi, possedere l'animale era l'unica cosa che avrebbe potuto soddisfarla. Ma per tenere legato un unicorno occorreva un briglia d'oro, e lei non aveva il denaro per acquistare una cosa del genere. Tuttavia negli anni successivi aveva lavorato sodo, mettendo da parte
ogni penny come fosse un tesoro, spronata dalle ripetute brevi apparizioni dell'animale. Questi scivolava come un fantasma tra gli alberi che circondavano la radura della sorgente, o si teneva in disparte, fuori portata, per osservarla mentre esplorava le rovine della casa della Dea. Altura le aveva raccontato che un tempo la costruzione aveva ospitato le vergini sacerdotesse della fonte. Le aveva anche detto che ogni anno le giovani vergini si radunavano presso la sorgente con la speranza di essere ritenute degne di ricoprire il ruolo di guardiane del tempio. Con un sospiro Esmeralda si rassegnò una volta di più a non vedere mai realizzato il suo sogno. Aveva ormai diciassette anni, e l'età per continuare a preservare la verginità era quasi passata. Sua madre non c'era più, e tutti la esortavano a trovarsi un bel giovane e a sposarsi, ma lei insisteva testardamente che avrebbe continuato a vivere la propria vita come Altura aveva trascorso la sua, da sola nella foresta che amava. Dopo tutto possedeva un accogliente rifugio di pietra, ben nascosto dagli sguardi dei curiosi. Inoltre, diceva a coloro che insistevano, era giovane e forte, ed esperta nella pratica di un commercio sufficientemente redditizio. Perché mai avrebbe dovuto legarsi a un uomo e diventare così la sua serva? E poi, naturalmente, sino a quando fosse rimasta nella foresta c'era pur sempre la possibilità di rivedere l'unicorno. Esmeralda si fermò un attimo per riposarsi dallo sforzo di spingere il carretto col pesante carico di erbe. Aveva già compiuto il giro dei villaggi vicini ed era diretta a Prentiss per la Fiera del Solstizio. Mentre cercava un posto per sedersi, notò una pianta molto rara, le cui foglie, una volta sbriciolate e ridotte in polvere e unite a una crema, erano efficaci nella cura delle infiammazioni della pelle. La pianta cresceva più di un metro oltre il ciglio della strada. Avvicinandosi per raccogliere qualche foglia, vide un bagliore dorato attraverso l'intrico di erbacce e cespugli. Si trattava del fermaglio di una collana d'oro che spuntava da un piccolo scrigno, i cui bordi intarsiati erano pressoché interamente marciti. Incredula di fronte a un simile colpo di fortuna, Esmeralda s'inginocchiò per portare alla luce l'intera scoperta. Dentro quel che restava del cofanetto c'erano altre collane, due semplici anelli d'oro e un braccialetto con decorazioni in granato di buona fattura. Dalle condizioni dello scrigno, stimò fosse lì da moltissimo tempo, probabilmente caduto da un calesse di passaggio. Felice e impaziente, portò gli oggetti d'oro dal vecchio Rolpho, un fabbro che conosceva bene e di cui sentiva di potersi fidare, chiedendogli di
realizzare una briglia d'oro con la catena e gli anelli. «Una briglia?» replicò incredulo Rolpho. «Mia giovane fanciulla, ma tu non hai un cavallo!» «Non è proprio per un cavallo; è... è più un oggetto magico. E non si devono fare troppe domande sulle cose che servono per la magia», ribatté, senza riuscire a ingannare il vecchio fabbro. Rolpho infatti si ricordava di averla sentita parlare dell'unicorno della sorgente sin da quando aveva quattordici anni. Tuttavia, che cosa poteva farci? Era ormai una donna. Quando tornò per ritirare la briglia, Esmeralda offrì al fabbro il braccialetto come ricompensa per il suo lavoro. Rolpho, dopo averla rimproverata di nuovo per la mancanza di buonsenso, accettò quanto lei gli offriva. «Se tua madre fosse ancora viva, ne avrebbe fatto senza dubbio un uso migliore», le disse dolcemente presentandole il pregevole risultato del suo lavoro. «Lo credo anch'io», replicò sottovoce Esmeralda, rattristata al ricordo della madre. Sapeva benissimo che Altura avrebbe desiderato che investisse tutto quell'oro nella dote. E, per quanto strano potesse sembrare, in un certo senso era esattamente ciò che stava facendo. «Rimanere sola non è la cosa migliore per una ragazza», disse il fabbro scuotendo la testa in modo eloquente. «Ma, Rolpho, io non sono sola», ribatté Esmeralda con un sorriso rassicurante. «Ho un sacco di amici nella foresta. Ho tutto ciò di cui potrei mai avere bisogno: una buona casa, il mio commercio di erbe e la mia libertà.» Sentendola così decisa e convinta, il fabbro lasciò cadere l'argomento. Ma continuò a pensare, preoccupato, a quella ragazza; anche perché né l'anno seguente né tutti gli anni successivi ritornò a Prentiss. Avendo ottenuto la chiave di accesso al suo più grande desiderio, Esmeralda decise di ritornare a casa immediatamente, senza terminare il consueto giro dei villaggi. Aveva già messo da parte provviste sufficienti a sopravvivere durante i mesi di magra, e il cuore le comandava di riporre tutta la sua fiducia nella prova che l'attendeva, senza porre altro tempo in mezzo. Non appena tornata, si recò subito alla tomba della madre. In lacrime, sparse alcune erbe propiziatorie sulle pietre che ricoprivano il luogo del riposo di Altura; poi sussurrò una formula magica per garantire la serenità del suo spirito. «Perdonami, mamma», disse infine. «So bene che questa non è la vita
che tu avevi scelto per me, ma, mentre il tuo cuore vagava per il mondo a raccogliere e donare, il mio corre nella foresta su zoccoli veloci.» Quando ebbe finito, ritornò al rifugio nella radura per prepararsi una semplice cena a base di pane e formaggio. Poi si coricò per riposare, con mille pensieri di unicorni e incantesimi che s'inseguivano nella sua mente. La leggenda diceva che il corno dell'unicorno, immerso nella sorgente, purificasse l'acqua e rendesse la terra più ricca e fertile. Da piccola aveva riso delle superstizioni, ma era stato molto prima di vedere l'animale e di sentire il suo magico fascino. La meraviglia e lo stupore avevano preso il posto dello scetticismo, e si aggirava spesso tra le rovine del tempio, cercando di riparare ciò che poteva. Un giorno arrivò a comprendere che era stato l'unicorno stesso a rendere sacra la sorgente, e che le sacerdotesse vergini avevano raggiunto la loro condizione perché erano state capaci di catturarlo. E presto, lei stessa, se fosse riuscita a dimostrarsene degna, sarebbe potuta diventare sacerdotessa guardiana del tempio... Infine prese sonno. Si svegliò allo spuntare del giorno, ma non si alzò subito, sapendo di dover conservare le forze. Aveva predisposto il suo piano con cura; sapeva che l'unicorno si recava alla sorgente al tramonto, per cui fece passare l'intera mattina prima di alzarsi a prepararsi un pasto freddo. Infilati i calzoni che aveva acquistato per l'incontro che l'attendeva, li abbinò a un'ampia blusa, alle scarpe più robuste che possedeva e a una cintura. Vestirsi in abiti maschili le avrebbe dato maggiore libertà di movimento rispetto alla solita ingombrante sottana, nel caso l'unicorno fosse fuggito, come aveva sempre fatto tutte le volte che aveva tentato di avvicinarlo. Da ultimo si legò i capelli all'indietro e infilò la briglia nella cintura, di modo che fosse ben salda ma allo stesso tempo facile da afferrare. A quel punto andò alla sorgente, e si mise ad aspettare. Mentre le ombre si allungavano, la sua mente prese a vagare, cullata dal dolce mormorio della sorgente e dal calore del sole estivo che tramontava. Aveva atteso così a lungo, pensava, che non poteva non aver dato prova della sua sincera devozione. Una sensazione di quieta armonia la invase, e in quel momento seppe che era arrivato. Conservando quella serena condizione di spirito, Esmeralda si alzò per andare incontro all'unicorno, che usciva dal folto degli alberi. «Non ti aspettavi che tornassi a casa così presto, vero?» disse con dolcezza, tendendo la mano. A quella sua osservazione l'unicorno parve diver-
tito, ma abbassò il collo per annusarle il palmo. Sempre molto lentamente Esmeralda allungò la mano sinistra per accarezzare il collo setoso dell'unicorno. Sperava di riuscire ad afferrargli la criniera il tempo necessario a prendere la briglia con l'altra mano. Ma, proprio mentre lo sfiorava, la catena tintinnò lievemente. Dopo aver rizzato le orecchie, l'animale sparì in un battito di ciglia. Esmeralda, però, era preparata. In un primo momento si mise a correre con agilità, riuscendo a stargli dietro; ma, quando penetrarono nel fitto della foresta, cominciò a sentirsi stanca. L'unicorno rallentò l'andatura, in modo da permettere alla ragazza di non perderlo di vista, pur rimanendo fuori della sua portata. Infine inverti la direzione e tornò improvvisamente verso la fonte, dove sembrò potesse arrendersi all'appassionato inseguimento. Sbuffando come un mantice, stava ritto col muso in direzione di Esmeralda. «Non ce la faccio più, mi hai stremato», disse la ragazza, esausta, mentre si lasciava cadere sulle ginocchia senza trattenere i singhiozzi. Come per un miracolo, l'animale le si avvicinò, abbassando la testa. Con le ultime forze, Esmeralda riuscì ad assicurargli la briglia sul muso, e mormorò: «Ti amo, unicorno». Piegate le ginocchia, la bestia le appoggiò la testa in grembo. Unendo le mani a formare una coppa, Esmeralda raccolse dell'acqua dalla sorgente e gliela offrì. Quando l'animale ebbe bevuto, anche la ragazza calmò la sua sete; quindi si addormentarono insieme, esausti, l'unicorno avvolto nell'amorevole abbraccio di lei. Da quel momento, appagati ciascuno della compagnia dell'altro, vissero felicemente insieme per molti anni. Ogni giorno Esmeralda faceva provvista di erba fresca per lui, e in cambio l'unicorno le insegnava nuovi sentieri all'interno dei boschi. Esmeralda non lasciò la foresta alla ricerca della compagnia di qualcun altro; ormai aveva tutto ciò che le serviva. Avrebbero potuto continuare a vivere felicemente così, se il rimorso di un uomo non si fosse immischiato. Rolpho non aveva mai dimenticato Esmeralda, né la briglia che aveva costruito per lei. Non vedendola più tornare, cominciò a sentirsi in colpa per non essere riuscito a convincerla della follia del suo proposito. Dopo tutto, continuava a ripetersi, quando mai una giovinetta di quell'età era stata in grado di capire da sola ciò che era meglio per lei? Convinto che Esmeralda fosse morta nel tentativo di catturare l'unicorno, Rolpho ne fece una malattia, e quando aveva alzato il gomito era facile
sentirlo parlare di Esmeralda. Sfortunatamente, una notte il suo racconto giunse alle orecchie di tre cacciatori che lavoravano alle dipendenze di un mago. Con l'astuzia e l'inganno, i tre uomini riuscirono a carpire ogni dettaglio sulla giovinetta e su sua madre. All'avvicinarsi dell'alba abbandonarono il vecchio ubriaco sul pavimento della taverna. La pista era fredda da tempo, ma i tre cacciatori erano tra i migliori nel loro campo, addestrati a fiutare creature rare e magiche, il cui sangue o pelo veniva usato dal loro padrone per gli incantesimi. Dopo appena tre cicli lunari dal loro incontro col vecchio fabbro, avevano rintracciato Esmeralda nella foresta. Il capo dei tre, Karl, era smilzo, alto, forte e molto astuto; fu lui a tenere a freno i compagni, dopo che ebbero scoperto la radura incantata con la piccola e accogliente abitazione. Gli altri due, Thrace e Grumm, erano uomini di bruta forza più che d'intelletto, e avrebbero semplicemente voluto abbattere l'unicorno come fosse un cervo, ma Karl conosceva un modo migliore. Dopo essersi assicurato che il rifugio fosse deserto, preparò un'imboscata per Esmeralda. Non dovettero aspettare molto, perché era quasi mezzogiorno ed Esmeralda tornò di lì a poco per preparare il pranzo. L'unicorno invece, come sua abitudine, vagava ancora per la foresta e non avrebbe fatto ritorno prima del tramonto, quando sarebbe stato inesorabilmente attratto verso Esmeralda dalla magia della briglia incantata. «Chi siete?» domandò Esmeralda entrando in casa e vedendo Karl seduto al tavolo. Sembrava più irritata che spaventata, finché gli altri due non sbucarono alle sue spalle, bloccandole ogni via di fuga. «Devi essere Esmeralda», le disse sfacciatamente Karl. «Conosciamo un tuo amico, un fabbro di Prentiss. È molto preoccupato per te.» «Come potete ben vedere, non ce n'è motivo», replicò circospetta Esmeralda. «Ero convinto si trattasse di una giovane vergine e non di una donna fatta», grugnì Grumm. «Deve solo essere vergine per poter catturare l'unicorno; i libri del padrone non dicono nulla sul fatto che debba essere anche giovane», intervenne Thrace, che cercava sempre di mostrarsi bene informato. Nel sentire nominare l'unicorno, Esmeralda ebbe un tuffo al cuore. «Be', dato che ci siamo, forse sarebbe il caso di controllare se la fanciulla è davvero vergine», disse Grumm pulendosi la bocca come dovesse prepararsi all'evento.
«E, se lo facessimo, questo non renderebbe di nuovo libero l'unicorno?» chiese Thrace a Karl. «No, se porta ancora la briglia. Ormai è vincolato, a meno che non muoia o qualcuno non gli levi la briglia», rispose Karl accarezzando con noncuranza il mento della ragazza. Esmeralda comprese che volevano il corno dell'animale per appropriarsi della magia che conteneva, ma prima che riuscisse a dire qualcosa Karl le afferrò le guance con una mano e incominciò a stringere forte, dicendo: «Non abbiamo trovato nessuna briglia né altri oggetti d'oro, quando abbiamo rovistato questo posto». «L'ho venduta», mentì Esmeralda. «Dunque saremmo venuti fin qui per niente», replicò Karl in tono fintamente sconsolato. «Se è così, non credo vorrai negarci quel poco di consolazione che solo una donna può offrire, dopo tutto il disturbo che ci siamo presi.» La sua mano si era posata sul seno della ragazza, che si sentì afferrare le braccia da dietro, in una morsa. La trascinarono verso il letto. Provò a resistere, ma invano: erano troppi e troppo forti. Karl le strappò i vestiti di dosso, aiutandosi con il coltello, mentre gli altri due la tenevano ferma. Approfittarono di lei a turno, uno dopo l'altro; quando ebbero finito, la lasciarono sconvolta e singhiozzante sul letto disfatto. A dire il vero, le sue erano lacrime di rabbia e frustrazione, ma a quei furfanti lasciò credere diversamente, sperando che, se l'avessero vista spaventata a sufficienza, avrebbe avuto la possibilità di scappare prima del tramonto. Infine si sedette sulla sponda del letto. Coprendosi con la trapunta, ostentò un atteggiamento mite e remissivo, e chiese: «Vi prego, posso andare fuori a lavarmi? Mi sento così sudicia». Accennò con gli occhi bassi al sangue che le imbrattava le gambe e le braccia. Karl non era stato gentile e delicato neppure col coltello. Lui la osservò con circospezione; poi, rivolto a Grumm, disse: «Va' con lei, e tieni gli occhi aperti». Mancava ancora un po' al calare del sole, che era il momento in cui Karl sapeva sarebbe tornato a mostrarsi l'unicorno, perciò riteneva di non correre rischi. La ragazza sembrava docile e obbediente, dopo quella lezione. Camminando Esmeralda tremava tutta, e di quando in quando inciampava, per lo più per fare scena agli occhi di quelle canaglie, anche se era davvero ferita e dolorante. A mano a mano che svanivano il senso di malessere e la vergogna, affiorava la rabbia. Con molta cautela si trascinò zoppicante dall'altro lato della tinozza che serviva per lavarsi, fingendosi intimi-
dita dal farabutto che l'aveva accompagnata. Poi cominciò a pulire con molta attenzione le ferite, con l'acqua che lei stessa aveva trasportato dalla sorgente sacra. Lavandosi riacquistava le forze e sentiva scorrerle nelle vene la volontà di agire come aveva deciso. Era certa che l'unicorno fosse lì attorno, e che avesse tenuto d'occhio la radura per tutto il pomeriggio, in attesa. E adesso sapeva cosa fare. «Ho bisogno di liberarmi», disse in tono lamentoso appoggiandosi al bordo della vasca, come se non riuscisse a reggersi da sola. «Mi accompagneresti fino a quegli alberi?» «Buon Dio, ragazza, accucciati e fa' quello che devi fare», grugnì l'uomo. «Ma sono piena di lividi e dolorante», replicò piagnucolando, contorcendosi fino a cadere di schiena nella fanghiglia. «Brava, così sei proprio il ritratto della bellezza», rise Grumm, abbassandosi per rimetterla in piedi. Mentre lui si chinava, Esmeralda afferrò il sasso vicino cui era riuscita a cadere e, senza esitare, lo colpì alla testa. L'uomo le precipitò addosso, in una grottesca imitazione dello stupro di poco prima. Lei non riuscì a trattenere un urlo di dolore, accolto da risate e rozze grida d'incoraggiamento dall'interno del rifugio. Grugnendo e lamentandosi, Esmeralda si sforzò di togliersi di dosso il corpo del cacciatore. Continuò a gemere e grugnire fino a che non si fu messa di nuovo in piedi, poi schizzò verso il margine della radura dove aveva scorto un luccichio rivelatore. Si mise a correre disperata, incurante del dolore alle gambe e al ventre, fino a quando non raggiunse l'unicorno. Gli gettò convulsamente le braccia al collo, allungandosi per slacciare il fermaglio che serrava la briglia. Per alcuni insopportabili minuti il gancio parve non cedere. Quando infine si aprì, Esmeralda strappò via la briglia dal collo dell'animale e gli urlò: «Corri!» L'unicorno non si mosse, ma rimase a fissarla negli occhi. Le lacrime cominciarono a rigare il volto di Esmeralda mentre lo colpiva coi pugni serrati, continuando a urlare: «Scappa! Ti prego, vattene! Preferirei non averti mai visto in vita mia che doverti veder morire oggi». Sentì le urla di Karl poco lontano, frammiste al rumore di passi di corsa, e provò la terribile certezza che lo avrebbero preso. L'unicorno si ridestò, sbatté più volte le palpebre e mosse la testa come se avesse preso una decisione. Fece qualche passo indietro, chinò un'ultima volta il muso verso Esmeralda e le trapassò il cuore col corno. Il dolore che provò fu una re-
mota sensazione di freddo in mezzo al calore e alla luce che parevano riversarsi in lei; poi nella mente udì la voce di lui che la incitava a correre. Lo vide voltarsi, e con un balzo lo seguì. Troppo sconcertati da quanto avevano visto per prendere gli archi o i coltelli, i tre cacciatori rimasero fermi a guardare i due unicorni che si lanciavano verso le profondità segrete della foresta. Judith Kobylecky Il RIFUGIO Judith Kobylecky è sposata e madre di tre figli di dieci, sette e tre anni, il che smentisce nettamente la teoria di quelle donne che sostengono che la scrittura e i bambini non vanno d'accordo. Io comunque lo sapevo già, voi no? È più facile quando i bambini sono ancora abbastanza piccoli da starsene fermi dove vengono messi e hanno solo bisogno di qualche cambio di pannolino. Il mio defunto marito patì una grossa delusione credendo che sarebbe stato più semplice a mano a mano che i figli crescevano, ma in effetti non è così. Le necessità di un bambino piccolo sono essenzialmente fisiche e limitate al sentirsi a proprio agio e ben nutrito, ma soddisfare quelle dei ragazzi adolescenti è psicologicamente molto faticoso; per cui abbiate cara la loro breve infanzia! Questo racconto spinge il lettore a interrogarsi e probabilmente a rivedere la definizione di «mostro». In fondo è proprio questo il significato della scrittura, e di ogni altra attività: modificare e riadattare, crescendo, le proprie convinzioni. Mirelle stava seduta, avvolta in uno scialle per ripararsi dall'aria pungente del mattino, aspettando l'arrivo del distruttore del suo mondo. Dispiegò con attenzione le mappe che teneva in grembo e controllò ancora una volta ciò che aveva scoperto, ben sapendo di non avere commesso nessun errore. Probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto se tutti gli stregoni si fossero uniti mentre ancora ne avevano la forza, ma l'opportunità era svanita prima che si rendessero conto di cosa avevano perso. Con le dita irrigidite ripiegò le mappe e si strinse nello scialle. Il freddo inaspriva di molto i malanni che le devastavano le articolazioni e la facevano tanto soffrire. Si guardò le dita dolorosamente ritorte: sarebbe stato
così semplice curarsi da sola quando ancora era una strega, prima che la magia scomparisse del tutto dal mondo. Erano i colori della stregoneria ciò di cui sentiva maggiormente la mancanza. Da quella lontana mattina della sua infanzia in cui aveva ricevuto il suo dono, era stata in grado di vedere la magia che aveva attorno e che si rifletteva anche negli oggetti più ordinari. All'inizio la perdita era stata così graduale che in pochi se n'erano accorti; persino in seguito la cosa era stata molto commentata e discussa, ma nessuno ne aveva davvero colto il significato prima che fosse troppo tardi. Tastò le mappe. Non c'erano più dubbi su quanto fosse totale la distruzione. Intere aree erano state spogliate di ogni residua presenza di magia, e i maghi che vi abitavano erano stai trovati morti. Una debole musica distolse Mirelle dai suoi pensieri. Alzò gli occhi e vide una minuscola sfera dorata sospesa nell'aria davanti a lei. A un suo gesto la sfera si posò sul palmo aperto della mano, con l'impalpabile leggerezza di una bolla di sapone, ancora avvolta nel turbine formato dalle scie di un incantesimo. Mirelle la contemplò a lungo, sicura di conoscere il messaggio che conteneva. Con riluttanza soffiò sulla sfera, che incominciò a vorticare su se stessa fino a incendiarsi, lasciando evaporare le ultime parole di un altro mago. Mentre ascoltava, gli occhi le si riempirono di lacrime: al mago era rimasto solo il tempo di dire che quanto aveva progettato era fallito. Pianse caldamente la perdita di un altro amico. Erano rimasti così in pochi. Si accorse che in lontananza i colori sbiadivano; la creatura si stava avvicinando. Allungò la mano verso il bastone e si alzò lentamente dalla poltrona, lasciando cadere senza accorgersene le mappe che teneva ancora raccolte in grembo. Per anni aveva custodito la poca magia che le era rimasta, senza fare nulla per alleviare il suo dolore. Reggendosi allo stipite della porta, entrò nella vecchia casa che aveva dato rifugio a intere generazioni di maghi prima di lei; l'alone della magia ne permeava i muri e i soffitti. Molte volte nel corso degli anni aveva goduto del piacere di essere immersa nell'eco d'incantesimi svaniti da tempo, ma ora, quando passava la mano lungo le pareti, non percepiva altro che pietra. Svaniti per sempre erano i sussurri dei maghi scomparsi; il mostro doveva essere molto vicino. Con la rapidità che le consentivano le mani sofferenti, Mirelle raccolse diversi oggetti e li ammassò tutti insieme. Concentrandosi profondamente, richiamò la magia che tanto a lungo aveva custodito dentro di sé. Lo sforzo prosciugò la poca forza che le era rimasta, ma, quando ebbe terminato, sulla sua mano stava appoggiata una sfera luccicante. Era simile a quella
che poco prima le aveva recato il messaggio; leggermente più grande, di un color oro striato da tutte le mille tinte che per lei avevano rappresentato la magia, tutte le sfumature che ormai aveva perso. Esausta e tremante, si lasciò andare sulla poltrona vicino al fuoco. La porta che conduceva all'esterno si aprì lentamente: una piccola figura, avvolta in una coperta, stava ritta sulla soglia. Per un momento Mirelle credette che sarebbe rimasta paralizzata dalla paura, ma si sforzò di parlare: «Prego, entra pure». Il tremolio della sua voce la angustiava. Doveva riuscire a far avvicinare la creatura, altrimenti ogni sforzo sarebbe stato vano. Fece un profondo respiro per calmarsi, e disse ancora: «Entra, siediti accanto a me vicino al fuoco, dove fa più caldo». Il mostro fece qualche passo fino a entrare nel cerchio di luce dal caminetto, dove lo si poteva osservare bene. Mirelle fu sconvolta nello scoprire che il tremendo essere che tutti loro temevano assomigliava più a un bambino affamato che a un distruttore di mondi. La pelle del viso era molto tirata, gli occhi fissi e spaventati. In quel momento i colori della magia cominciarono a svanire dalla stanza; quella figura scheletrica aveva già incominciato ad attirarli a sé, prima di rivolgersi verso la donna per nutrirsi del suo potere. Mirelle sapeva bene che di lì a poco il mostro avrebbe assorbito la magia che lei conservava nel profondo del suo essere, e così facendo l'avrebbe uccisa. Tendendo verso il mostro la mano che richiudeva la sfera, lo invitò ad avvicinarsi. Si chiedeva se un tempo quella creatura fosse stata un apprendista mago che aveva liberato un incantesimo terribile, o solo un bambino sempre affamato, che non trovava mai di che nutrirsi a sufficienza perché il suo dono si era rivelato distorto. La rattristava sapere che non avrebbe mai scoperto la verità su quanto era accaduto, e che probabilmente non sarebbe riuscita a salvare il bambino nemmeno se lo avesse saputo. «Vieni, avvicinati, piccolo mio. Ho da darti una splendida magia. So che hai molta fame, vieni qui da me.» La creatura la guardò con occhi pieni di desiderio; con un sospiro le si arrampicò in grembo, appoggiandole la testa sulla spalla, gli occhi fissi sulla sfera incantata che lei teneva in mano. Mirelle cominciava a sentire freddo mentre la magia l'abbandonava, ma la lasciò fluire via da sé per trattenere il bambino. E consolarlo, perché ora per lei era un bambino che stava morendo, e non più un mostro di cui avere paura. Alitò sulla sfera per spingerne fuori la magia e alleviare la fame
del piccolo. Con l'altra mano spezzò una fialetta; tutti e due insieme respirarono il dolce profumo del veleno che se ne sprigionava. Mirelle lo teneva stretto e cominciò a cantargli una canzone, come aveva fatto ai suoi figli. Il piccolo sollevò la testa sorridendo, quindi chiuse gli occhi e si addormentò. Mentre sopraggiungeva la morte, Mirelle sentì la magia fluire dal corpo martoriato del bambino. Lo baciò sulla guancia e, per rendere più lieve il cammino che avevano intrapreso, intonò una ninnananna. Tom Gallier Il SALVATORE Tom ha esordito dicendomi che brivido fosse stato l'avere ricevuto la mia lettera di accettazione del racconto. Lo è sempre, ed è qualcosa che non si riesce a superare nemmeno alla mia età, e posso dirvi che è una sensazione con cui ho convissuto probabilmente per più anni di quanti ne abbia la maggior parte del mio pubblico. Questo è il primo racconto che riesce a pubblicare professionalmente dietro compenso, e aggiunge: «Dato che è abbastanza probabile che, da qualche parte in Cina o in Mongolia, Tom sia un nome femminile, tengo a dirle che sono un uomo, e che lo sono sempre stato, addirittura sin da prima di venire al mondo». Mi dice ancora: «Vivo a Dallas insieme con un bel po' di tipi ostinati - molti dei quali se ne vanno in giro portandosi appresso sciabole o disintegratori che vivono dentro il mio computer e richiedono la mia costante attenzione. Nel tempo che mi rimane dopo essermi occupato di loro come uno schiavo, lavoro come tecnico elettronico per una ditta che produce fibre ottiche. Sono single, e ho intenzione di rimanere tale fino al giorno in cui non deciderò di sposarmi. Più o meno come gli altri tre o quattro miliardi di scrittori che ci sono al mondo, al momento sto lavorando a un romanzo, e nel cassetto ne conservo un altro paio che stanno cercando sistemazione nel grande mondo delle case editrici. Credo che continuare a sommergerla di racconti abbia funzionato: alla fine si deve essere stufata di rifiutarli». Di solito funziona, prima o poi, anche se c'è qualcuno là fuori, di cui naturalmente non faccio il nome, che da mesi o forse anni continua a spedirmi un racconto a settimana, senza mai riuscire a migliorarsi. I racconti di Tom, invece, miglioravano in continuazione, al punto che rifiutarli sarebbe andato a scapito dei possibili lettori. La perseveranza conta più del
talento; il talento incompreso è quanto di più facile si possa trovare al mondo. Sono davvero contenta che i tuoi racconti siano finalmente usciti dall'oscurità. Il drago mugghiava in modo terribile, mentre vomitava enormi lingue di fuoco per tutta la caverna. La principessa Myriah se ne stava acquattata contro la pietra fredda e umida, quando una delle vampate di fuoco le arrivò talmente vicino da sfiorarla. Davvero troppo vicino. Non appena il drago si fu un po' calmato, la principessa prese in considerazione l'idea di lamentarsi, ma subito ci ripensò. Quel disgustoso lucertolone cresciuto a dismisura non le avrebbe dato retta in ogni caso. Dal tunnel venne ancora l'eco affievolita del metallo che grattava contro la roccia. La principessa Myriah sollevò entrambe le mani davanti al volto, per proteggersi dal calore della vampata con cui si aspettava che da un istante all'altro il bestione desse sfogo alla sua furia. L'acciaio arrugginito delle manette le morse dolorosamente la tenera carne dei polsi. Non verificandosi l'attesa fiammata, la principessa sbirciò con cautela tra le dita, in direzione del drago. Il mostro se ne stava appiattito contro il pavimento della caverna, sorvegliando l'entrata con spaventosi e imperturbabili occhi da rettile. I bagliori delle piccole fiamme che guizzavano lo illuminavano in pieno, facendo risaltare il magnifico blu delle scaglie. Myriah si morse nervosamente il labbro. Quello era il primo uomo che tentava di salvarla dopo quasi tre mesi di prigionia; doveva avere sangue nobile e un cuore impavido, senza dubbio. Solo che lei... aveva un aspetto orribile. I capelli castani, un tempo splendidi e lucidi, erano sudici e arruffati. Anche la veste di seta era sporca, e ridotta in brandelli dalle pietre appuntite. Temeva che il nobile salvatore non l'avrebbe trovata attraente. Buoni dei, avrebbe addirittura potuto rifiutare la sua mano, offertagli come tradizione da suo padre! Proprio in quel momento la testa di qualcuno in armatura sbucò dal fondo del tunnel. La luce rossastra del fuoco del drago si rifletteva sulla superficie lucida. Myriah ne fu impressionata: un'armatura di quel tipo era molto costosa. Una volta morto il drago, avrebbe trascorso il resto della vita nel lusso. In compagnia del suo principe, il suo salvatore. Il drago e il cavaliere balzarono l'uno contro l'altro nello stesso istante. L'uomo era straordinariamente agile e veloce, e riuscì a evitare le fiamme del drago. Myriah contemplava con soggezione il modo in cui il suo aspi-
rante salvatore portava gli attacchi, muovendo la spada e riparandosi con lo scudo. Non aveva mai visto in vita sua un simile talento nel maneggiare le armi, e dire che ai Giochi non mancava mai. Sarebbe stata di certo la più invidiata fra le principesse! «Fai attenzione, mio principe! La bestia è un avversario esperto e molto astuto!» Se anche il cavaliere aveva inteso l'avvertimento, era troppo impegnato per omaggiarla di un ringraziamento. La principessa, in ogni caso, non gliene fece una colpa. In pochi minuti il drago fu sulla difensiva. Il cavaliere era un talento rapido e mortale con la lama. Ormai il drago si muoveva in maniera convulsa, sputando fuoco in preda alla paura e al dolore. Ma il fumo e le fiamme riuscivano solo a nascondere ancora di più gli insidiosi attacchi del cavaliere. Quando la creatura abbassò l'enorme testa triangolare per vomitare fuoco contro il cavaliere, questi con un balzo scavalcò l'onda di fuoco e gli piantò nel cervello quasi un metro di freddo acciaio. La principessa Myriah cominciò a squittire di piacere e a battere le mani, facendo però attenzione a non ferirsi ancora di più i polsi. Il suo principe salvatore aveva sconfitto il drago malvagio e l'aveva liberata. I loro nomi sarebbero entrati a far parte delle leggende romantiche. E finalmente lei si sarebbe sposata, e con un partito come si conviene. «Mio principe! Mio eroe! Ti faccio qui promessa di amore eterno e ti giuro che avrai sempre la mia venerazione», gridò, mentre il cavaliere andava verso di lei. Il cavaliere, con l'armatura imbrattata di sangue, si arrestò a un passo da lei sogghignando. Myriah era stupefatta. «Mi è possibile vedere il volto del mio salvatore?» chiese un po' esitante. «Vorrei guardare negli occhi il valoroso guerriero cui mio padre offrirà senz'altro in ricompensa la mano di sua figlia.» «A dire il vero, preferirei una ricompensa in oro», replicò il cavaliere togliendosi il grosso elmo. Fece un leggero inchino a Myriah, presentandosi: «Karyn di Ohmsford, paladina di Traq'el, al suo servizio». Il cavaliere aveva una lucente capigliatura nera, un magnifico naso e una solida mascella mirabilmente disegnata. Ed era, al di là di ogni dubbio, una donna. Ora stava lì, fronteggiava la principessa, sorridendole senza nascondere una certa sicumera. Myriah era sgomenta. «Una donna! Dei del cielo, no! Ve ne prego, no!» gemette disperata, la testa piegata all'indietro. Cominciò a menare violenti
calci alle pareti di pietra e a pestare i piedi. Karyn indietreggiò, osservando perplessa lo spettacolo isterico che continuava davanti ai suoi occhi. Non era quella la reazione che si era aspettata. Poi Myriah si fermò di colpo e si girò, dando le spalle alla cavaliera. «Sarrin!» La parete di fronte all'infuriata principessa scorse di lato, rivelando una camera perfettamente arredata. Karyn inclinò la testa per vedere meglio l'interno di quella stanza sorprendente. Un uomo alto e sgraziato, con una palandrana nera da mago, verme fuori strascicando i piedi. Si fermò a debita distanza dalla sua principessa, torcendosi le mani e guardandola con aria imbarazzata. La principessa Myriah puntò il dito verso Karyn, e gli ingiunse: «Spiegami questo!» «Io... Io non capisco. L'incantesimo avrebbe dovuto...» mormorò Sarrin, poi, girandosi bruscamente verso Karyn, chiese: «Ditemi, paladina, siete voi di nobile nascita?» Facendo spallucce, Karyn rispose: «Mio padre è il re di Parquin». «Ecco spiegato, mia signora! La formula magica non era abbastanza specifica», spiegò il mago. «Non mi era nemmeno passato per la testa che potesse venire a salvarvi una principessa, altrimenti avrei preso le dovute precauzioni. Non succederà più, avete la mia parola.» «Sarà meglio per te», replicò secca Myriah. Alzando le mani, lanciò al mago uno sguardo di fuoco. Sarrin si fece piccolo piccolo, poi, dopo un suo strano gesto, le catene che serravano i polsi di Myriah scomparvero. Senza aggiungere una sola parola, la principessa lo seguì all'interno della camera. «Era tutto un trucco», sbottò Karyn fissando il mago. La sua mano si posò sull'impugnatura della spada. «Esigo una spiegazione.» All'uomo non sfuggì il movimento, né l'espressione minacciosa nei grandi occhi azzurri della donna. «Niente di cattivo, mia nobile paladina», le rispose affrettatamente, assumendo di nuovo l'aria imbarazzata e remissiva di poco prima. «Essendo una principessa, voi dovreste capire... con tutte le guerre che si sono avute di recente...» Karyn capì tutto. «Guerre che lasciano un numero troppo elevato di principesse prive di un marito adatto. E nessun principe degno di questo nome potrebbe resistere alla tentazione di precipitarsi al salvataggio di una principessa, con la prospettiva di riceverne in dono la mano direttamente
dal padre riconoscente.» «È tutto assolutamente innocuo», aggiunse Sarrin con un sorriso. «Il drago non è reale ed è previsto che soccomba dopo alcuni minuti di combattimento serrato. E l'incantesimo del tunnel fa sì che gli individui inadatti si ritrovino in una stanza laterale con uno scheletro di drago. Così se ne vanno delusi.» «Fantastico! Mi piace!» gridò Karyn, battendosi la coscia. «Non direte nulla, vero?» domandò il mago. «Il mio re saprà sicuramente ricompensare in modo adeguato il vostro silenzio.» Con un sorriso, Karyn sfilò una borsa semivuota dalla stessa cintura che sosteneva la spada. «Il silenzio è d'oro, mago. E più oro c'è, più diventa profondo il silenzio.» Sarrin si lasciò andare a un sogghigno. «E io che pensavo che i paladini fossero superiori a simili venali ambizioni.» «Anch'io pensavo che le principesse fossero superiori a simili inganni», sorrise Karyn di rimando. Jessie Eaker SFORTUNA E MALEDIZIONI Questo presentato qui è il quarto racconto che Jessie Eaker riesce a vendere dietro compenso a una casa editrice; gli altri appaiono in tre diversi volumi di questa serie. Nonostante l'ortografia tradizionalmente femminile del suo nome, si tratta di un uomo. Quel tipo di ortografia appartiene alla tradizione della sua famiglia, gli Eaker. Aggiunge che la corretta pronuncia del suo nome è «Acre», come la parola che designa l'unità di misura dei terreni. «Devo ammettere che un nome come questo ha causato spesso confusioni sia di genere sia di tipo fonetico, ma allo stesso tempo devo dire di essere molto fiero di portare un nome così ricco di storia.» Jessie e la moglie Becki sono costantemente tenuti occupati dai loro figli, splendidi e molto dotati. Daniel, il più piccolo, sta vivendo i cosiddetti «tenibili due anni» con un po' di anticipo, dato che ancora non li ha compiuti. «È sempre stato molto attivo, ma di recente è riuscito a dare un nuovo significato a quell'aggettivo.» Per quanto riguarda i «terribili due anni», che poi in fondo così terribili non sono, prima ci entrano e prima ne escono.
Un ramo si spezzò alle sue spalle. Estraendo fulminea il pugnale dal terreno, Geyth balzò in piedi per affrontare i due uomini che si avvicinavano; ormai erano quasi di fronte a lei. Entrambi vestivano abiti rozzi e sudici, avevano i capelli lunghi e trasandati. Conosceva bene quelli come loro. Il più vicino dei due fece un passo indietro e la fissò guardingo. Quel gesto in un certo senso la confortò: l'uomo non aveva considerato il pugnale. Ma l'esitazione non durò a lungo. Lo vide passare rapidamente in rassegna la sua tunica di ottimo tessuto, l'amuleto spezzato che portava al collo e il braccialetto che aveva al polso. Lo sconosciuto sogghignò, mettendo in mostra denti gialli e spezzati. «Ci si prende cura dei fiori, a quanto pare», disse Denti Gialli. L'altro ridacchiò, cominciando a darsi dei colpetti sulla coscia con un bastone corto. Nello stesso momento si spostò di lato, chiudendole un'eventuale via di fuga verso il suo cavallo, che pascolava poco lontano. Geyth sollevò il pugnale e lo agitò in faccia ai due uomini, tenendolo ben stretto; sentiva sudore e terriccio sulla mano. Fece un passo indietro, con cautela, andando a sfiorare i cespugli sul cui terreno stava lavorando fino a pochi istanti prima. Erano cespugli di itha... provenienti dal suo paese natale. Geyth maledisse la sua stupidità. Avrebbe dovuto avere più buonsenso e non togliersi il mantello che recava il simbolo della sua professione. Quel salvacondotto era appoggiato sulla sella del suo cavallo, voltato al contrario e non visibile. Il piacere di assaporare il profumo dei cespugli di itha aveva prevalso sulla sua abituale prudenza. Di certo, si era detta, non c'era pericolo in una piccola sosta. La macchia di cespugli cresceva nascosta nel mezzo di un'ampia radura all'interno della foresta. Aveva intuito dove si trovavano semplicemente dal profumo! Niente poteva andare storto in un giorno così meraviglioso... Con fare molto tranquillo, Denti Gialli estrasse un lungo coltello dalla cintura. Geyth cercò di non tradire nessuna paura alla vista dell'arma. Era una lama davvero brutta, senza nemmeno una vera e propria impugnatura. Ma aveva l'aria di essere affilatissima, del tipo che i contadini usano per sventrare le bestie. Denti Gialli si passò la lingua sulle labbra e le si avvicinò. «Mia signora, mettete via il pugnale e non vi faremo niente di male. Non vogliamo altro che il vostro argento e abbiamo intenzione di prendercelo, in un modo o nell'altro. Non andate in cerca di guai.»
Il pugnale di Geyth non si mosse. Gli occhi dell'uomo tradivano i suoi reali pensieri, la sua cupidigia. Ma lei non avrebbe ceduto tutto il suo preziosissimo argento senza combattere. «Ladro!» gli gridò in faccia. «Credete che io sia una donna ricca? La magia è il mio solo commercio e, se non ve ne andate ora, scaglierò contro di voi la peggiore delle maledizioni!» Imperterrito, Denti Gialli scosse la testa. «L'amuleto che portate è spezzato, e non vi è nessun simbolo sui vostri abiti.» Gesticolò verso di lei con l'enorme coltello. «Credo stiate mentendo.» Geyth gli lanciò un'occhiata feroce, digrignando i denti. Se solo avesse potuto prendere il mantello col simbolo che dimostrava chi era veramente, li avrebbe visti darsela a gambe, fuggirsene via urlando. Ma, visto come stavano le cose, doveva adottare un'altra tattica. Si lasciò sfuggire un sospiro disperato e, abbassando il capo, abbandonò le braccia lungo i fianchi in segno di sottomissione. «Saggia decisione, mia signora», commentò ridacchiando Denti Gialli. Di colpo, Geyth fece finta di scagliarsi contro l'uomo che teneva il bastone, girandosi invece di scatto per infilarsi, con un salto, fra Denti Gialli e i cespugli. La velocità con cui si era mossa li aveva presi alla sprovvista, e la loro reazione fu troppo lenta. Denti Gialli cercò di afferrarla, ma riuscì solo a stringere il bordo della sua tunica, che si lacerò lasciandogliene un brandello in mano, mentre Geyth faceva una giravolta su se stessa a causa dello strappo violento. Sorprendentemente, la donna riuscì a mantenere l'equilibrio, e si precipitò verso il suo cavallo. Guardandosi alle spalle, vide Denti Gialli che la inseguiva col coltello, ormai a pochi passi da lei. Cercò di obbligare le gambe a correre più forte. Sentì un improvviso dolore alla gamba sinistra, e inciampò. Piombò a terra con violenza e, senza fiato per l'urto, andò a fermarsi nell'erba bassa. Denti Gialli le fu sopra in un attimo. Mani rozze e brutali la afferrarono bruscamente e la voltarono sulla schiena, tenendola inchiodata al terreno. Denti Gialli si chinò su di lei, il respiro ancora affannoso; il suo alito caldo e maleodorante le investi la faccia. Il volto del brigante si aprì in un ostentato sorriso di vittoria. Geyth implorò tra sé che, per una volta almeno nella vita, le potesse succedere qualcosa di buono. Ti prego, Dea Madre, non sono già stata punita abbastanza? Inaspettatamente, un grido di battaglia risuonò dall'altro lato dei cespugli in fiore. Sorpresi, i due uomini alzarono lo sguardo e videro una figura solitaria e disarmata scavalcare la siepe con un solo balzo, gettandosi con-
tro di loro. Denti Gialli grugnì con disappunto e si rialzò. Puntò il dito contro l'intruso, e il suo compagno, che reggeva ancora il bastone, si fece avanti per raccogliere la sfida. Denti Gialli valutava la possibilità di eseguire un attacco alle spalle. Tramortita dal dolore e dalla paura, Geyth fissava la solitaria figura che si stava avvicinando. Dapprima riuscì solo a vedere un'ombra sfocata che si stagliava contro il cielo brillante. Che fosse la Dea Madre, venuta a salvarla? Ma Geyth la sapeva lunga. Sbatté le palpebre e riuscì a distinguere una donna di mezza età dai capelli argentati, alta, con braccia muscolose. Correva a una velocità incredibile, e dimostrava l'agilità e la grazia tipiche di chi è abituato a combattere. Geyth sapeva per esperienza che quel repentino capovolgimento della sorte a suo favore non sarebbe durato a lungo. Visto che i due uomini non la stavano più tenendo d'occhio, tentò di alzarsi ma subito ricadde a terra per un fortissimo dolore alla gamba sinistra. Scoprì di avere il polpaccio coperto di sangue: una brutta ferita, coi margini lacerati, procuratale dal coltello di Denti Gialli. Strappò una striscia di tessuto dalla tunica e cercò di tamponare il sangue; ma il flusso non si fermava. Non potendo correre, tenne lo sguardo sul combattimento. L'uomo col bastone si era posizionato sulla linea di avvicinamento della donna. Stava piazzato in quel punto con l'arma sollevata all'altezza della spalla, ma la sua avversaria non mostrò la minima esitazione. Non appena gli fu vicina, fece mulinare il pesante bastone in direzione della testa. Lei, con rapidità soprannaturale, si accucciò schivando il colpo e gli assestò un pugno allo stomaco. La forza fu tale che per poco il compagno di Denti Gialli non venne sollevato da terra, mentre il fiato gli usciva dai polmoni con uno sbuffo sonoro. Mentre cercava di riprendersi, il bastone gli scivolò dalle dita, facendolo barcollare. La donna lo colpì altre due volte, e lui le stramazzò addosso. Sotto il peso del suo avversario, la sconosciuta perse l'equilibrio. Denti Gialli le scivolò furtivamente alle spalle e sollevò il coltello. «Dietro di te!» urlò Geyth. La donna roteò su se stessa e sfruttò l'impeto dell'avversario che cadeva per gettarlo contro Denti Gialli... e il suo coltello. Sputando rabbia, Denti Gialli liberò la lama con uno strattone e si avventò contro la sconosciuta. Lei gli afferrò il braccio e i due ingaggiarono una lotta corpo a corpo. Fu una questione di pochi istanti: con una velocità sbalorditiva, tanto che Geyth stentava a credere ai propri occhi, la donna si spostò di lato, abbassò
rapida la mano di Denti Gialli che stringeva il coltello, quindi la risollevò e infilzò il bandito con la sua stessa lama. L'uomo emise un grido, poi cadde disteso sul terreno e non si alzò più. Con sollievo, ma con un certo nervosismo, Geyth osservò la donna dirigersi verso di lei. In fondo, avrebbe potuto volere il suo argento, esattamente come i due banditi. E con quella brutta ferita alla gamba lei non poteva certo scappare. Ma la sconosciuta, sudata e ansimante, le s'inginocchiò accanto. Dopo averle strappato un altro lembo di tessuto dalla tunica, spostò le grosse dita di Geyth e cominciò a bendare la ferita. «Per la Dea Madre, ragazza mia! Questa ferita sanguina come la fontana di un palazzo! Credo ci sarà bisogno di qualche punto.» Si chinò e posò la mano sulla fronte di Geyth. «E sei pallida e sudata. Scommetto che sei anche sul punto di svenire.» Geyth riuscì appena a fare un cenno di assenso col capo. Sentiva che le forze l'abbandonavano, e aveva tanto freddo. La donna che l'aveva salvata si alzò e andò verso il cavallo. Diede all'animale qualche lieve pacca sulla groppa per calmarlo e rassicurarlo, poi spostò il mantello da viaggio buttato sulla sella. Quando vide il simbolo, si bloccò. Geyth deglutì e aspettò che anche lei si comportasse come tutti gli altri: uno scongiuro, e via di soppiatto. Non c'è scampo per una come te. Ma, con grande sorpresa mista ad ammirazione, vide che la donna si limitò a borbottare qualcosa e a scostare il mantello. Geyth doveva aver perso i sensi per qualche istante, perché all'improvviso ritrovò il cavallo al suo fianco, con la donna che la stava issando in groppa di peso. Digrignò i denti per il dolore alla gamba. La sconosciuta montò in sella dietro di lei, sostenendola mentre teneva le redini. «Non preoccuparti, bambina mia», le disse mentre la copriva col mantello. «La casetta del mio vecchio giardiniere è proprio dietro quei cespugli; ci arriveremo in un baleno.» L'ultima cosa che Geyth vide prima di perdere conoscenza fu il simbolo sul mantello da viaggio. Sembrava fluttuarle davanti agli occhi: un serpente, un occhio, e la luna all'interno di un cerchio d'argento. Lo aveva ricamato lei stessa, punto dopo punto, sulla pesante stoffa nera. Durante il lavoro aveva pianto molte lacrime: quell'emblema non simboleggiava soltan-
to la sua professione ma anche il suo fallimento, il suo disonore. Sfortuna e maledizioni, recitava. Venduta per denaro. La prima cosa che Geyth notò non appena sveglia fu il calore del letto, poi la luminosità della stanza, e infine un vago sentore di muffa misto all'odore di pane e spezie. Inizialmente pensò di essere ritornata nella città-tempio di Percillis, nella stanza che divideva con una dozzina di altre apprendiste sacerdotesse. E che da un momento all'altro la vecchia Sidra sarebbe andata a svegliarle e a condurle alla torre per la preghiera; poi, dopo una breve colazione a base di pane freddo, avrebbero ripassato le lezioni, inginocchiate ciascuna sulla propria stuoia. C'era grande severità, ma a lei era sempre piaciuto quel rigore... fino al giorno in cui non l'avevano espulsa. No, sei tu che sei scappata, si rimproverò. Non potevi sopportare di vedere altre benedizioni risolversi in una delusione, e non osavi tornare a casa col peso del fallimento e del disonore. Ai loro occhi sarebbe stata molto peggio che sporca. Così, senza altro modo di procurarsi da mangiare, si era messa a vendere maledizioni. Non avevo scelta, si disse. Ed ero anche molto brava, in quello. Aprendo gli occhi, si ritrovò in una casetta di campagna. La luce inondava la stanza attraverso due finestre aperte ai lati di una porta, e lei era adagiata su un pagliericcio coperto da un lenzuolo di lino. A riscaldarla, una folta pelliccia. Tranne che per la ferita alla gamba, non stava così comoda da anni. Il chiavistello alla porta si sollevò, ed entrò la donna dai capelli d'argento. Le sorrise, e i suoi occhi parvero scintillare. Geyth era stupefatta da tanto sincero calore. «Sveglia, a quanto vedo», disse la donna sistemando un pesante canestro sopra l'unico tavolo della stanza. «E giusto in tempo per la colazione.» Geyth sbatté le palpebre per la sorpresa. «Ho dormito davvero tutto questo tempo?» Era pomeriggio quando i due uomini l'avevano aggredita. Gradualmente sprazzi di memoria le balenarono in mente: la donna che la caricava a cavallo, altre persone che la osservavano, qualcuno che le dava da bere... La sua ospite ridacchiò. «Bambina mia, hai dormito per due giorni di fila.» Cominciò a vuotare il cesto. «Il guaritore temeva che la ferita peggiorasse, e ti ha dato da bere una pozione. È capitato anche a me di berla, e ti fa dormire come un sasso.»
Prese una tazza di minestra d'avena e aiutò Geyth a mettersi seduta sul pagliericcio. La ragazza provò una cucchiaiata con un po' di titubanza, non sapendo come avrebbe reagito il suo stomaco. Ma quello apprezzò e ben presto chiese di averne ancora. Finita la ciotola, Geyth alzò gli occhi imbarazzata. Mentre Geyth mangiava, la donna era rimasta tranquilla su uno sgabello. «Non sentirti in imbarazzo», le disse. «Hai perso molto sangue e hai bisogno di nutrirti.» Sorrise. «Solo non proverei a finire tutto in una volta.» Si allungò per prendere la scodella vuota e Geyth gliela porse. Non poté fare a meno di notare l'anello che la donna aveva al dito: la sottile fascia d'oro dei guerrieri. «Siete stata così gentile con me», disse Geyth. «Desidero, mia signora, ringraziarvi dal più profondo del cuore.» La donna sbuffò. «Chiamami Myrrha e dammi del tu. Ho abbandonato da molto tempo l'idea di diventare una signora.» Sorrise ironica. «E non mi devi nessun particolare ringraziamento, farei lo stesso per chiunque si trovasse sulle mie terre.» Geyth sgranò gli occhi. «Dunque questa non è la tua casa, possiedi qualcosa di... più grande.» Myrrha fece una risatina. «Sì, bambina, il mio castello è in cima alla collina. Questa casetta apparteneva al mio giardiniere, che è morto lo scorso inverno. Per tua fortuna, ero qui per dare una pulita quando ho sentito tutta quella confusione. Anche se meriteresti una scudisciata per avere abbandonato la via maestra. È stata una vera sciocchezza.» Geyth arrossì. «Ho sentito il profumo dei boccioli di itha sin dalla strada... dovevo proprio trovarli.» L'espressione di Myrrha indicò che aveva capito. «Vieni dalle terre del sud?» Geyth chinò la testa. «Sì, mia... Myrrha. Mi chiamo Geyth e vengo da Bechure.» Myrrha avrebbe volentieri ascoltato altre cose su di lei, ma Geyth pensò fosse meglio non aggiungere nulla. In ogni caso, non c'era modo di tornare indietro. Myrrha annuì, comprensiva. Si alzò. «Sei la benvenuta in questa casa fino a che non ti sarai ripresa completamente. Ho portato abbastanza provviste per tutta la giornata. Più tardi verrà a vederti il guaritore. Ti avviso che potrebbe volerti dare un'altra pozione. E non preoccuparti per il cavallo, c'è chi se ne occupa nelle mie stalle.» Geyth chinò ancora la testa. «Stai facendo troppo.»
Myrrha sorrise. «No davvero. Sono in debito con te per avere ripulito dalle erbacce quei dannati cespugli di itha, ne avevano davvero bisogno; se avessi provato a farlo io si sarebbero senz'altro rinsecchiti.» Geyth non riuscì a trattenere un sorriso. Myrrha riprese: «Ho qualcosa da sistemare al castello; ripasserò prima di notte a vedere come stai». Si avviò verso la porta, ma si fermò per voltarsi. «Mi sono presa la libertà di appendere fuori il tuo mantello. Credo che tenendolo bene in vista nessuno ti disturberà, anche se temo possa attirare qualcuno che ricerchi i tuoi servigi.» Si accigliò, e Geyth sentì l'intero mondo accigliarsi con lei. «Ti sarei grata se volessi astenerti dal praticare la tua arte fino a che rimarrai qui. Mi dispiace di non averti potuto sistemare al castello, ma ho idea che i miei servitori se la sarebbero data a gambe. Spero che questo non ti offenda.» Geyth abbassò lo sguardo. «Affatto. Sono perfino sorpresa che tu mi faccia rimanere sulle tue terre. Molti temono che io porti sfortuna.» Myrrha sorrise, e nei suoi occhi baluginò ancora lo scintillio di poco prima. «Non credo nella sfortuna, credo solo che esistano diverse opportunità. Hai sempre la possibilità di trasformare in buono qualcosa di cattivo, se riesci a vedere le cose nel modo giusto.» Ciò detto, uscì dalla stanza. Geyth corrugò la fronte, incredula. Non crede nella sfortuna! Come poteva dire una cosa del genere? Geyth non aveva mai conosciuto altro in vita sua, addirittura prima di provare a diventare una sacerdotessa della Dea Madre. Non era stata sfortuna che sua madre morisse quando lei aveva solamente sette anni? Non era stata sfortuna che la nuova moglie di suo padre fosse crudele? E lo stupro che aveva subito da parte di un soldato di passaggio, quella non era stata sfortuna? Scosse la testa; Myrrha era certo una persona gentile e premurosa, ma della malasorte non sapeva nulla. Geyth si mise a sedere, guardandosi attorno alla ricerca del vaso da notte e trasalendo per il dolore alla gamba. In realtà non faceva male come si sarebbe aspettata; nel giro di pochi giorni sarebbe di nuovo stata nelle condizioni di mettersi in viaggio. La ragazza si rabbuiò leggermente a tale pensiero; non era ansiosa di ripartire. La vita sulla strada era dura: dormire all'addiaccio, mangiare qualcosa preparato alla bell'e meglio su un fuoco acceso all'aria aperta, viaggiare da sola... Sempre da sola. Anche quando visitava un villaggio, nessuno le rivolgeva la parola; la gente sputava per terra al suo passaggio. Andavano da lei solo per una cosa: scaglia una maledizione contro quell'uomo perché mi ha ingannato, fa' che la sfortuna perseguiti quella donna per avermi rifiutato. Lei accontentava tutti. Ma poi
non stava mai in un posto tanto a lungo da vedere i frutti del suo lavoro. Era molto sicura dei suoi poteri. Si avvicinò alla finestra aperta e inalò un soffio della dolce brezza di primavera. Era piacevole lì, e i suoi fiori preferiti distavano solo pochi passi. Geyth decise che avrebbe cercato di rimanere in quella casetta il più a lungo possibile, magari allungando i tempi di proposito. Il suo viso si aprì in un largo sorriso. Forse avrebbe potuto prendersi ancora cura dei cespugli di itha. Era la cosa che le piaceva di più al mondo, prendersi cura dei fiori e delle piante. I fiori non la disturbavano e non la importunavano come faceva la gente, né le chiedevano di danneggiare qualcuno perché li aveva trattati male. La sera del quinto giorno di permanenza nella casetta, Geyth si stava spazzolando i lunghi capelli prima di coricarsi. Era un'abitudine dell'infanzia, che aveva ostinatamente mantenuto anche nel corso della sua vita di strada. Benché spesso fosse assolutamente inutile, di solito la trovava piacevole; e quella sera non faceva eccezione. Mentre si spazzolava intonò una melodia di quando era bambina. S'interruppe di colpo nel sentire rumore di zoccoli che si avvicinavano. Trattenne il fiato. Il cavallo si fermò proprio davanti alla porta; un attimo dopo, qualcuno bussò con forza. «Chi è là?» chiese ad alta voce. «Uno che ha bisogno dei tuoi servigi», le rispose una voce maschile. Era profonda e incuteva rispetto, come se venisse spesso usata per impartire ordini. Geyth sentì, una stretta al cuore. Così presto? Speravo di poter rimanere un po' più a lungo. «Vi prego, andatevene», replicò. «Lady Myrrha mi ha proibito di esercitare sulla sua terra.» Riprese la spazzola che aveva poggiato in grembo. «Ho del denaro», ribatté la voce. «Ti pagherò a dovere. Nessuno lo saprà mai, se non tu e io.» Geyth esitò. «Andatevene.» Sentì il rumore di stivali che strisciavano sul selciato davanti alla porta. «Ti pagherò davvero bene. Ho dell'oro...» Geyth sollevò la testa, sorpresa. La maggior parte dei suoi clienti era disposta a pagare per una maledizione, ma non troppo. E mai in oro. Si umettò le labbra. Se avesse avuto dell'oro avrebbe potuto comprarsi una casetta come quella. Forse persino una piccola fattoria, e smetterla con
quella vita raminga. Aprì la porta. Si fece avanti un uomo molto alto, dalle spalle possenti; per entrare nella stanza dovette chinarsi. Portava la barba acconciata nel tipico modo degli uomini delle regioni del nord. Con la sua presenza, la casetta sembrò improvvisamente minuscola. Osservandolo, Geyth si trovò a pensare che sarebbe stato un bell'uomo se non avesse avuto le labbra atteggiate in un ghigno. Senza esitazione lo sconosciuto si sedette su uno sgabello, appoggiando i gomiti sul tavolo. Geyth prese posto dall'altra parte del tavolo e attese che fosse lui a parlare. «Ho bisogno che scagli una maledizione contro una persona», disse infine. «Voglio che rimanga seriamente menomata, ma non deve morire. Puoi farlo?» Geyth annuì. «Posso farlo.» L'uomo si sporse verso di lei con un sorriso. «E puoi farlo questa notte?» Geyth sospirò e guardò la spazzola che teneva ancora in mano. «Se riuscite a procurarmi degli oggetti personali... tipo una ciocca di capelli o un abito particolarmente amato.» L'uomo frugò nella borsa che portava alla cintura e ne tirò fuori un piccolo fagotto avvolto in un panno. Lo gettò sul tavolo insieme con tre monete d'oro. Geyth si bagnò le labbra cercando di distogliere gli occhi dalle monete. Le tremavano le mani nel momento in cui prese l'involto per aprirlo. Dentro c'era una ciocca di capelli bianchi. «Chi è la persona contro cui volete sia scagliata la maledizione?» chiese. L'uomo strinse i pugni con tale forza che il sangue gli defluì dalle nocche. «Hai bisogno di saperlo?» Geyth intuì improvvisamente che si trovava davanti un uomo molto pericoloso. Tutti i suoi clienti lo erano, in un modo o nell'altro. Ma tutto in quell'individuo - gli occhi chiusi a fessura, le enormi spalle irrigidite, la tensione della mascella - indicava che non fosse semplicemente pericoloso. Era letale. «No, non mi serve il nome della persona», riuscì a balbettare Geyth. «La ciocca basterà.» Lo sconosciuto annuì e si alzò. «A meno che non sia richiesta la mia presenza, me ne vado.» Fece i pochi passi che lo separavano dalla porta e, giunto sulla soglia, si volse. «Non provare a imbrogliarmi. Se alla persona in questione non succederà nulla, verrò a cercarti per ucciderti. E scappare non ti servirà.» Quindi, uscì nel buio della notte.
Geyth cominciò a chiedersi se non avesse commesso un terribile errore. La mattina seguente Geyth uscì per prendersi cura dei fiori; ma, caso strano, non riusciva a trarne piacere. La maledizione era stata facile e non aveva comportato nessuna reazione magica sfavorevole, come accadeva talvolta. Tuttavia non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di disagio e di colpa che la opprimeva. Non per la maledizione in sé, ma per avere tradito la fiducia di Myrrha. Si sentì sporca e usata. Era tempo di rimettersi in cammino. A mezzogiorno giunse un messaggero di Myrrha chiedendole di andare al castello. Non le diede nessuna spiegazione, disse solo che si trattava di un «consulto». Geyth decise che avrebbe colto l'occasione per dire a Myrrha che se ne sarebbe andata. Era il minimo che potesse fare per la sua ospite. Seguì il messaggero, ma decise di non indossare il mantello. Trenta minuti dopo fece il suo ingresso nel castello, una torre ampia e spaziosa circondata da alte mura. Venne condotta ai piani superiori per diverse rampe di scale. Si fermarono infine davanti a una massiccia porta di legno, dov'era di guardia un uomo in armatura leggera; l'armigero la esaminò con occhio critico prima di lasciarla entrare. Myrrha giaceva supina sulla pesante pelliccia che ricopriva il letto. Sembrava addormentata. In piedi attorno a lei c'erano diversi domestici e altri uomini che Geyth riconobbe come i suoi ufficiali. Sui loro volti era dipinta un'espressione preoccupata. Cosa c'è che non va? «Puttana! Come hai potuto?» le ringhiò contro uno degli ufficiali. «Ti prego, Kerrard», disse Myrrha con voce calma, rimanendo distesa e facendo trasalire Geyth. «Non ne siamo ancora sicuri.» Geyth avvertì una stretta allo stomaco. «Cos'è successo?» «Non lo sai?» le chiese Myrrha. Geyth scosse la testa, ma nel contempo cominciò a farsi strada in lei un sospetto. Rivolse un'occhiata agli uomini presenti e poi di nuovo a Myrrha. «Cosa c'è che non va?» Rispose uno dei domestici: «La mia signora è caduta dalle scale questa mattina. Ha subito dei brutti colpi alla testa. Ora non può più muoversi, e non ci vede più. Il guaritore che l'ha visitata dice che qualcosa dentro di lei si è rotto, e che rimarrà in queste condizioni per il resto dei suoi giorni». Geyth portò la mano alla bocca. Ho bisogno che scagli una maledizione contro una persona, le aveva
detto lo sconosciuto. Voglio che rimanga menomata. Erano di Myrrha i capelli che le aveva portato quell'uomo, della sola persona fra tutti gli abitanti delle regioni del nord che si fosse dimostrata gentile e premurosa con lei. E le aveva fatto un maleficio! Non riuscì a trattenere un roco singhiozzo. Kerrard, l'ufficiale che l'aveva insultata poco prima, prese a guardarla molto da vicino, poi a beneficio di Myrrha disse: «Scuote la testa. Sembra confusa e spaventata. Quanto ti è accaduto sembra averla colta di sorpresa». Myrrha sorrise con un velo di tristezza. «Temo, miei signori, che dovrete ammettere che tutto questo è accaduto per caso, e che le maledizioni non vi hanno nulla a che fare. Oltre a ciò, la ragazza mi aveva dato la sua parola.» «Sfortuna», sussurrò uno dei domestici. «Sfortuna e nient'altro.» Myrrha ridacchiò. «No, amici miei. Non si è trattato di malasorte, solo di goffaggine. Mi avete ammonito di fare attenzione a quegli scalini sin dalla prima volta che venni in questo posto.» Scosse la testa. «No, questa è un'opportunità. Devo solo riuscire a scoprire il buono che ne può derivare.» Sorrise. «Anche se ammetto che potrebbe volermici un bel po'.» Proprio in quell'istante fece il suo ingresso un individuo molto alto e dalle spalle larghe e possenti, con la barba tipica degli uomini delle regioni del nord. Entrando si fermò un istante sulla soglia, scrutando coloro che stavano all'interno della stanza. Geyth si morse il labbro. È lui! Era lo sconosciuto andato da lei la sera prima. Cosa ci fa qui? L'uomo notò con indifferenza la presenza di Geyth, ma non disse nulla. Andò subito da Myrrha, le s'inginocchiò accanto e le prese la mano, portandola alle labbra in segno di rispetto. «Mia signora, sono io, Leighton. Mi sono precipitato non appena ho saputo.» «È stato gentile da parte tua», gli disse Myrrha, una lieve nota d'irritazione nella voce. «Mi aspettavo che l'avresti fatto.» «Com'è potuta accadere una cosa simile?» domandò. Myrrha sorrise. «È proprio quanto stavamo cercando di stabilire. Il mio capitano pensava che questa donna potesse avere scagliato su di me una maledizione, ma a quanto pare è sconvolta come tutti gli altri.» Leighton diede un'occhiata a Geyth, scosse il capo e affermò: «Le credo. Non avrebbe senso per lei farti del male. Cosa ci guadagnerebbe?» Fece un cenno con la mano a indicare la ragazza. «Ma non temere. Mi assicurerò che sia tutto a posto. Mi preoccuperò personalmente affinché non ti accada
nient'altro di male.» «Anche questo è davvero gentile da parte tua», replicò Myrrha. «Ma sono ancora perfettamente in grado di esercitare la mia autorità sulla mia gente.» Leighton scosse il capo. «Mi permetto d'insistere.» Diede un'occhiata a Geyth, e per un attimo la ragazza rivide un lampo minaccioso negli occhi dell'uomo. Era un chiaro avvertimento. «E forse più tardi avremo occasione di discutere la mia proposta», continuò l'uomo. «So bene che mi hai respinto molte volte, ma l'offerta è ancora valida. Anche costretta in un letto, saresti comunque la migliore moglie che un uomo possa desiderare. Dimmi di sì, e penserò io a tutto.» Myrrha s'irrigidì visibilmente quando Leighton le accarezzò la mano. «Pensaci, sarebbe vantaggioso per entrambi. Unendo i nostri possedimenti aumenteremmo di molto il nostro potere.» Myrrha scosse la testa. «No, Leighton, sarebbe senz'altro vantaggioso per te, ma alle mie terre e alla mia gente non porterebbe nessun beneficio. Inoltre, i tuoi svariati creditori potrebbero confondere le mie proprietà con le tue.» Leighton fece un rapido inchino. «Come desideri.» Ma Geyth era sicura che la questione era ben lontana dall'esaurirsi lì. Tornata alla casetta, Geyth si sedette al tavolo. Il sole era ormai calato da molte ore; solo una piccola lampada, posata al centro del tavolo, illuminava la stanza. La ragazza giocherellava con le tre monete d'oro. Sommate ai suoi pur miseri risparmi, sarebbero state sufficienti ad acquistare una casetta. Niente di eccessivo o lussuoso, ma a lei sarebbe bastato. Capovolse le monete e si mise a esaminarne l'altra faccia. Avrebbe dovuto essere felice. Ma il pensiero della povera Myrrha, incapace di muoversi e di vedere, continuava a perseguitarla. Girò ancora le monete, cercando traccia del sangue di cui avrebbero dovuto essere macchiate. Sangue per il male che aveva fatto. Dopo le prime esperienze, non aveva più voluto vedere i risultati del suo operato, e di solito la mattina dopo era già molto lontana. Aveva cancellato dalla mente la consapevolezza di quanto devastanti potessero essere. Tu non credi nella bontà. È quello che le aveva detto la vecchia sacerdotessa di Percillis prima che se ne andasse. Devi credere nel bene prima ancora che esso si verifichi. Il suo primo tentativo di benedizione aveva dato piena prova della vali-
dità di quella teoria. Pur essendo ancora un'apprendista, avevano deciso di concederle di benedire le novizie guardiane subito dopo il loro giuramento di fedeltà alla Dea Madre. Niente di particolarmente difficile, un generico augurio di buona fortuna e vita prospera. Ma, guardando quelle facce, tutto quello che aveva visto era un gruppo di donne forti e che portavano armi, armi come quella che il soldato le aveva puntato alla gola mentre la violentava. E la sua benedizione era diventata tutt'altro. Se non fosse intervenuta l'alta sacerdotessa, le novizie sarebbero morte. D'improvviso una serie di colpi contro la porta scosse la casetta. Geyth afferrò il pugnale che portava alla cintura. «Apri la porta!» ordinò la voce di un uomo. Era Leighton. «Andatevene!» gli urlò. «Non mi farò ingannare un'altra volta.» La porta tremò, con violenza. «Fammi entrare o la faccio a pezzi. Non ho tempo per i tuoi rimorsi.» Geyth richiamò alla mente l'immagine di quell'uomo - le spalle enormi, la lunga spada - ed ebbe la certezza di quanto esigue fossero le sue possibilità contro di lui. E l'uscio, buono solo a riparare dal vento, avrebbe resistito ancora per poco. Sollevò il chiavistello, e Leighton entrò nella stanza. Non perse tempo in formalità e gettò sul tavolo un involto di panno simile a quello della volta precedente. «Mi serve un'altra maledizione. Stavolta la voglio morta.» Geyth deglutì e cercò di fare appello a tutto il suo coraggio, ma non riuscì a trovarne molto per farsi forza. «Non... non lo farò. Voi mi avete già ingannato una volta. Mi avete usato per costringere Myrrha a sposarla.» Leighton la afferrò con brutalità e la sollevò fino a che il suo viso non toccò quasi quello della sventurata ragazza. «Non ti mettere a frignare con me sulla tua moralità ferita. Non ti sei mai data pensiero per tutte le altre disgrazie che hai provocato. Fallo, o ti ucciderò con le mie mani.» Mollò la presa in malo modo, e Geyth barcollò all'indietro. Con gli occhi inchiodati sull'uomo che le stava di fronte, cercò a tastoni il sacchetto sul tavolo. Doveva esserci qualcosa di piuttosto pesante. Lo aprì e vide un anello di grosse dimensioni su cui erano incisi piccoli disegni simbolici: il leone per il coraggio, il martello per la forza, il falco per la fedeltà. Geyth s'infilò l'anello al dito. I valori simboleggiati da quei disegni non erano un riconoscimento che si concedeva a cuor leggero. E Myrrha aveva meritato ciascuno di essi. Doveva essere senza dubbio una persona
eccezionale. Geyth girò l'anello col pollice. Myrrha era stata anche l'unica ad accettarla per ciò che era. L'unica che avesse dimostrato gentilezza nei suoi confronti. Geyth digrignò i denti; la rabbia repressa fino a quel momento cominciava a ribollire dentro di lei. Quell'uomo l'aveva ingannata, l'aveva usata. Come tutti gli altri. Sì, aveva causato del male a molte persone, ma non era costretta a continuare. Poteva smettere quando voleva. Aveva lei il controllo del suo destino. Poteva fare qualcosa di giusto. «No!» urlò. «Non lo farò!» Gli si avventò contro, graffiandogli furiosamente il viso con le unghie. D'istinto, Leighton colpì Geyth col dorso della mano; la mandò a sbattere contro il tavolo, che si rovesciò facendola cadere scompostamente sul pavimento. «Maledetta!» le urlò Leighton tamponandosi le ferite e guardandosi le dita sporche di sangue. Strinse gli occhi in un attacco di furia, la sollevò di peso e le assestò un pugno al viso. La testa di Geyth si piegò all'indietro, e lei sentì il dolore esploderle dentro. Crollò a terra priva di sensi. Quando si risvegliò, Geyth era distesa su un letto. Aprendo lentamente gli occhi provò un terribile spasimo alla testa che le strappò un gemito. La prima cosa che riuscì a vedere fu il crudele sorriso di scherno di Leighton chinato minacciosamente su di lei. Cercò di urlare e di divincolarsi, ma era imbavagliata, e aveva gambe e braccia legate. Si rese inoltre conto di non essere sola su quel letto. «Voglio essere sicuro che non verremo interrotti», disse Leighton. «State tranquille e vi assicuro che la vostra morte sarà rapida.» Raggiunse la porta, sbirciò fuori e abbandonò la stanza con tutta calma. Il chiavistello si chiuse dolcemente. «Geyth? Sei tu distesa accanto a me?» chiese una voce familiare. Era Myrrha. Geyth tentò di liberarsi del bavaglio, ma riuscì solo a emettere un grugnito di assenso. «Lo sapevo», replicò Myrrha. «Ero sicura che mi avresti seguito nella disgrazia, quando ho capito cosa Leighton aveva in mente: cercare di costringermi a sposarlo, dopo avermi ridotto un'invalida.» Aggiunse con un sospiro: «E tu eri il suo strumento». Geyth lottò contro le lacrime. «Mi dispiace», provò a dire.
Myrrha fece un cenno di assenso. «Non ti crucciare, bambina mia, ti perdono. Senza dubbio Leighton ti ha imbrogliato o minacciato. Persino io non mi ero accorta di quanto in basso fosse disposto a scendere pur di avere il controllo sulle mie terre. E quando me ne sono resa conto era già troppo tardi.» Myrrha si umettò le labbra inaridite. «Dato che non acconsentivo a sposarlo, ha scelto un'altra strada. Vedi, tra la mia gente, se qualcuno muore senza un erede - e io non ne ho - i suoi possedimenti possono essere dati a chiunque si sia prodigato per salvargli la vita. A cose fatte, sembrerà che mi abbia assassinato tu, e che lui sia riuscito a catturarti; sicuramente affermerà di averti dovuto uccidere mentre tentavi di fuggire.» Fece un profondo respiro. «Ora dobbiamo tentare di farti uscire di qui prima che Leighton ritorni. Hai le mani e i piedi legati, vero?» «Sì», fu la flebile risposta. «Svelta, allora, devi cercare di alzarti e tastare il muro alla fine del letto. La terza pietra all'altezza della cintura è smossa, e nasconde un pugnale. Usalo per tagliare le corde. Ma fa' in fretta; Leighton sarà di nuovo qui a momenti.» Geyth cominciò a dimenarsi e si sforzò di mettersi in piedi. Con molta cautela riuscì a raggiungere il punto della parete che le aveva indicato Myrrha. Andando a tastoni trovò la pietra giusta, la rimosse e afferrò il pugnale. La lama era così affilata che si tagliò la mano, ma le ci volle un attimo per liberarsi. «Ce l'ho fatta!» Myrrha sorrise. «Bene! Ora devi trovare aiuto. Forse ti ci vorrà un po' per incontrare qualcuno, credo che Leighton abbia allontanato tutti i miei domestici dal palazzo.» Geyth guardò la porta con ansia, ma si volse ancora verso Myrrha. «Come posso portare fuori di qui anche te? Leighton potrebbe ucciderti prima che io ritorni.» Myrrha assentì. «Vero. Ma dovresti trasportarmi fuori di peso, e non credo che tu riesca a farlo. No, lasciami qui e vattene in fretta, così potrai provare la tua innocenza.» Geyth si guardò la mano che stringeva il pugnale. «Non posso lasciarti qui.» «Devi!» sospirò Myrrha. «Con un po' di fortuna, prenderanno Leighton in flagrante. E, se io morirò, la mia morte potrebbe anche avere un risvolto positivo. Almeno in questo modo non sarò costretta a vivere il resto dei miei giorni come un'invalida. E morirò per un'amica. Adesso può sembrare una cosa negativa, ma a lungo termine acquisterà un significato diverso.
Non ho dubbi in proposito. Persino le tue maledizioni, alla fine, produrranno del bene.» Geyth cercò di respingere un fiotto di lacrime. Di fronte a lei, inchiodata a un letto senza potersi più muovere, c'era una donna profondamente buona e generosa. Anche davanti alla morte riusciva a vedere un aspetto positivo. Se solo ci fosse riuscita anche lei... se solo fosse riuscita a crederci. Sentì qualcosa di caldo riscaldarle la mano. Portava ancora l'anello di Myrrha! Possibile? Scosse la testa in un cenno di diniego. Allo stesso tempo, però, non poteva fare a meno di pensarci. Myrrha era un'ottima persona, e Geyth le augurava sinceramente quanto di meglio la Dea Madre poteva decidere di concedere. Le augurava una lunga vita, salute e felicità. Continuava a ripetere quella litania, e piano piano la mano si riscaldò; allo stesso tempo sentì crescere in lei la magia... una magia fino a quel momento sconosciuta. Era diversa. Era buona. Improvvisamente la porta si aprì ed entrò Leighton. Myrrha emise un gemito e a Geyth si bloccò il respiro in gola. L'uomo estrasse il pugnale ed esclamò: «Vedo che mi stavi aspettando; devo ringraziarti per avere tagliato le corde, renderà molto più credibile la mia storia». Mettendosi fra Leighton e Myrrha, Geyth brandì il suo pugnale. «Non lascerò che le facciate del male.» Leighton scoppiò a ridere e si avvicinò di un altro passo. Con un colpo fulmineo le sottrasse l'arma di mano e la spinse indietro, facendola rovinare sul petto di Myrrha. Poi afferrò Geyth per la gola e sollevò il pugnale, ringhiando minaccioso verso Myrrha: «Vedi cosa hai causato non volendo accettare la mia offerta? Ti avrei reso felice». Sogghignò. «O quantomeno tu e la tua amica non sareste morte.» Con forza poderosa vibrò un fendente in direzione del busto di Geyth. La ragazza non riusciva a staccare gli occhi dalla lama. Oh, Dea Madre, ti prego, no! In quello stesso istante, dietro di lei, si sollevò un braccio che afferrò il polso di Leighton, fermando all'ultimo momento il pugnale che stava per colpire. Geyth spalancò gli occhi incredula. Era la mano di Myrrha. «Non è possibile», riuscì solamente a dire Leighton, senza fiato. Myrrha si aprì in una risata. «Succede quando una sacerdotessa ti concede una benedizione!» Tenendo ancora stretta Geyth, l'uomo tentò di liberare la mano, ma Myrrha non mollava la presa e lo costrinse a lasciare andare la ragazza per
poter meglio affrontare un'avversaria esperta come lei. Leighton tentò di afferrarle la gola. Era quello che Myrrha stava aspettando. Mentre Geyth si toglieva di mezzo, la donna afferrò la camicia di Leighton e diede uno strattone violento. L'uomo perse l'equilibrio e cadde su un ginocchio. Con un movimento indistinto, Myrrha riuscì a balzare in piedi, voltandosi per affrontarlo. Leighton ruggì di rabbia e le si gettò contro, ma di nuovo Myrrha riuscì ad afferrargli la mano prossima a colpire e i due si trovarono a lottare corpo a corpo. Come aveva fatto col ladro che aveva aggredito Geyth, Myrrha afferrò la mano di Leighton che reggeva il pugnale e lo affondò nello stomaco dell'uomo, infilzandolo con la sua stessa arma. Questi emise un urlo e stramazzò a terra, per non rialzarsi più. Geyth si gettò immediatamente in ginocchio davanti alla sua salvatrice. «Mi hai di nuovo salvato la vita. Ti sarò per sempre debitrice.» Myrrha le prese la mano e la invitò a risollevarsi. «Credo si possa dire che siamo pari. Per merito tuo ho potuto vedere chi era davvero Leighton. E, per questo, sono io in debito con te.» «Dimentichi che ti ho colpito con una potentissima maledizione.» Myrrha sorrise. «E poi l'hai neutralizzata con una benedizione.» «Ma io non posso... non possiedo...» Myrrha annuì. «Certo che puoi, sacerdotessa della Dea Madre.» Geyth la fissò incredula, poi capì che quanto detto da Myrrha era la verità. Aveva operato una benedizione. Era riuscita a trovare un po' di bontà. Annuì a sua volta, lentamente. «Forse hai ragione. Ma io non sono degna di essere una sacerdotessa. Non ancora. Prima devo espiare per tutto il male che ho compiuto. Ammesso che riesca ad andare sino in fondo.» Myrrha le diede un'affettuosa pacca sulle spalle. «Qui sarai sempre la benvenuta, e so che i cespugli di itha sarebbero contenti di riaverti con loro.» Le si avvicinò. «Forse hai voglia di concedere loro una benedizione prima di andartene. Avranno bisogno di tutta la fortuna possibile, se sarò io a prendermi cura di loro.» Scoppiarono entrambe a ridere. Karen Luk L'ENIGMA DELLA SIGNORA
Karen racconta di avere ricevuto computer e stampante per Natale e compleanno, cosa che le rende molto più facile scrivere e correggere i suoi racconti. Niente di più vero: ci vuole autentica dedizione - la stessa che abbiamo avuto tutti quando eravamo giovani - per batterli a macchina su un vecchio modello meccanico e mettersi di nuovo a picchiare sui tasti per riscrivere le pagine con più di tre o quattro errori e correzioni. Ricordo che Damon Knight, prima ancora di fondare l'Associazione degli Scrittori di Fantascienza, diceva che, con quello che pagano a cartella, nessuno si poteva permettere di riscrivere un racconto, per cui era meglio abituarsi a scriverlo bene al primo colpo. In altre parole, azionate il cervello prima di mettere in moto le dita. Tuttora io mi fermo prima di ogni frase, per riflettere su quanto sto per dire. In particolare leggo e rileggo tra me i dialoghi, per sentire se suonano bene, prima di metterli nero su bianco. Troppi giovani scrittori, in particolare quelli dotati di computer e stampante, pensano che, se il loro lavoro si presenta esteriormente bene, significa che è buono anche dal punto di vista dei contenuti. Ma non c'è stampa accurata che possa far diventare bello un cattivo racconto. Per cui datemi retta, pensateci su prima d'incominciare a scrivere. E imparate a leggere a voce alta quello che state scrivendo, per sentire se «funziona». Karen Luk ha sedici anni, ed è il secondo racconto che mi vende per queste raccolte. Scrive racconti fantastici da quando, in seconda media, un amico le ha fatto conoscere questo genere letterario. I suoi progetti per ora sono di finire le scuole superiori e l'università, e continuare a scrivere proseguendo gli studi. Nella storia che ci presenta c'è un'atmosfera misteriosa che, per qualche ragione, mi ricorda i primi lavori di Tanith Lee. Elogio altissimo, questo; e che possa essere il primo di molti altri. Un adoratore della Signora delle Tenebre stava ritto in mezzo al campo di battaglia insanguinato. L'unico rumore che turbava il silenzio assoluto era quello della sua lunga veste nera agitata da un vento leggero. La luce arancione del sole al tramonto s'infiltrava attraverso la grigia foschia che ricopriva il terreno. «Io, Dawen Stroph, adoratore di Colei che comanda le Tenebre, offro queste anime», dichiarò indicando i cadaveri sparsi tutt'attorno. «E la mia stessa anima, in cambio della mia morte.» La sua voce sommessa scivolò sopra i corpi dilaniati. La brezza portò la preghiera di Dawen oltre i confini
del mondo degli uomini. Senza neanche un minimo spostamento d'aria, la Signora delle Tenebre comparve al suo fianco. Era avvolta in un mantello nero con cappuccio di ottimo velluto e seta pregiata, e si teneva in disparte con la serena dignità di chi conosce ogni cosa vi sia da conoscere nel mondo degli uomini. Con dita sottili, candide come perle, la Signora delle Tenebre scostò lentamente il cappuccio che le copriva il volto. Per un attimo Dawen ebbe l'impressione di trovarsi di fronte al teschio sbiancato di un morto, con gli occhi rosso fiamma. Ma, in un battito di ciglia, mise a fuoco i delicati lineamenti di una donna bellissima. Una maestosa cascata di capelli color ebano scendeva a lambire delicatamente le esili spalle. Negli occhi della donna turbinavano riflessi neri e cremisi, ma da essi non trapelava nessun sentimento né emozione; la linea delle labbra era atteggiata a una serietà che sembrava non ammettere deroghe. «Così tu mi offri queste anime», gli disse con gli occhi. Con la mano pallida ed eterea indicò i corpi sul terreno. «Tuttavia mi offri qualcosa che è già in mio possesso. Se sei davvero ciò che sostieni di essere, un mio fedele adoratore, dammene una prova.» «Non ho più parenti», replicò Dawen Stroph. «Sono stati tutti presi dalla tua mano, e darei qualunque cosa per poterli rivedere. Per cui ti cedo ben volentieri la mia anima. Non c'è più nulla per me in questa vita.» Ciò detto, s'inginocchiò ai piedi della Signora delle Tenebre, tenendo la testa china, in attesa del colpo mortale. Lei gli ordinò di alzarsi, cosa che l'uomo fece immediatamente. Si stava levando un forte vento. Dawen riusciva a malapena a resistere alle raffiche che cercavano di strappargli i vestiti; in pochi attimi fu spogliato completamente. La Signora delle Tenebre, invece, non era disturbata dalle correnti d'aria. Il mantello di velluto neppure ondeggiava. Dawen cadde di nuovo in ginocchio davanti a lei. Non aveva paura della Signora; l'amava per la pace che poteva garantirgli in cambio della sua vita. Lei lo afferrò per le spalle e lo fece rialzare, poi gli prese il viso tra le mani. Nei suoi occhi Dawen vedeva l'approssimarsi della morte, e accettò il suo destino senza esitazione. La Signora delle Tenebre gli parlò un'ultima volta con gli occhi neri come il sangue. «Io accetto la tua anima e la tua vita, anche se credo potresti non trovare la pace che cerchi», dissero quegli occhi gelidi. Le sue morbide labbra sfiorarono appena la fronte di Dawen Stroph. Un
fremito, e l'uomo crollò ai piedi della Signora. I suoi occhi si fissarono sul sole che scompariva oltre il limite del mondo. L'infuocato calore che proveniva dall'enorme sfera arancione andava spegnendosi mentre il giorno finiva. La Signora delle Tenebre attese fino a che la luna piena non si mostrò, riverberando il suo pallido riflesso sul desolato campo di battaglia. Sorridendo, la Signora intraprese il viaggio verso il suo regno... La Signora delle Tenebre stava tranquillamente assisa sul suo trono di ossa e teschi calcinati dal tempo. Era in grado di vedere tutto ciò che accadeva nel suo regno. Lì esistevano solo sfumature di grigio e di nero. L'unica cosa bianca era il trono. Il cappuccio del mantello celava il suo viso alla vista degli spiriti che abitavano nel regno, a meno che la Signora non desiderasse il contrario. Le lunghe vesti nere coprivano interamente il suo corpo. La Signora percepì su di sé lo sguardo vuoto di uno spirito incorporeo. Sapeva di chi si trattava, e inclinò la testa incappucciata nella sua direzione. «Mia Signora?» esordì con tono interrogativo lo spirito. «Sì?» replicò una pacata voce cristallina. La parola parve rimanere sospesa a mezz'aria fino a che lo spirito non parlò di nuovo. «È questo il tuo regno?» «Sì, Dawen Stroph. Seguimi e ti mostrerò cosa ha significato la morte per le altre anime qui raccolte.» La Signora delle Tenebre si alzò dal trono. Sembrava quasi che i suoi piedi non toccassero il pavimento. Lo spirito di Dawen Stroph le si affiancò in silenzio. Passarono diversi istanti prima che lo spirito si accorgesse che si stavano allontanando dalla stanza del trono. La Signora delle Tenebre si fermò senza il minimo spostamento d'aria. Un'ampia stanza con un'infinità di scaffali stipati di libri si materializzò davanti a loro. Spettri di studiosi, bibliotecari e altri eruditi si muovevano tra le corsie di volumi. «Perché mi mostri tutto questo?» chiese lo spirito di Dawen. «La gente che vedi aveva una tale sete di conoscenza, mentre era ancora in vita, che ha conservato quella stessa inestinguibile sete anche dopo la morte», rispose la Signora. «In questo luogo provano a placare quella sete», aggiunse facendo un vago cenno verso la smisurata biblioteca. La Signora delle Tenebre fluttuò verso un'altra stanza. Lo spirito si affrettò a seguirla e vide un enorme banchetto apparecchiato in una sala da
pranzo illuminata dalle stelle. Montagne di carne arrostita impregnavano l'aria coi loro aromi. Frutti di ogni forma e colore erano accatastati in grandi ceste, pronti per essere gustati. Erano molti gli spiriti che si concedevano assaggi dei diversi cibi. Lo spirito di Dawen Stroph attese che fosse la Signora delle Tenebre a parlare della visione che aveva davanti agli occhi. «Un banchetto di tale magnificenza sarebbe stato il paradiso in terra per molti di loro, quando erano ancora vivi», gli disse. La sala da pranzo svanì d'improvviso, e al suo posto comparve una cucina completa di ogni utensile concepibile, nuovo o in disuso. «Preparare banchetti come questo era per alcuni un'arte ma anche un modo di vivere», continuò. Spiriti in traslucidi abiti bianchi erano indaffarati a cucinare una stupefacente varietà di pietanze. La Signora delle Tenebre si allontanò da quelle immagini di cibi e banchetti. Per un attimo le visioni sfocate annebbiarono la vista di Dawen, che si ritrovò nella sala del trono. La Signora sedeva immobile al suo posto, come se non avesse mai mostrato le immagini del suo regno allo spirito di Dawen Stroph. «Le visioni che ho deciso di lasciarti vedere non sono che alcune tra le miriadi di diverse idee della morte», spiegò. «Quelle cui la gente crede di più sono il Paradiso della pace eterna e l'Inferno dell'eterna tortura. Quali erano i tuoi interessi nella vita passata?» «Erano due: tu e la morte», rispose lo spirito di Dawen. «La morte si prese i miei genitori e i miei fratelli, e tu hai riunito le loro anime. Io ho vissuto fino al giorno in cui sei venuta per prendere anche la mia anima.» «Dunque non c'è nulla qui per te», gli disse lei con voce stanca. «Dovrò discuterne con mio marito.» La Signora delle Tenebre si alzò. Spalancò le braccia; la veste colore dell'ebano ondeggiò, ma lo spirito di Dawen non percepì la presenza di vento. Un fascio di luce sfavillante composto di bianchissime stelle si raccolse attorno alla Signora in un piccolo vortice luminoso. «Chi è tuo marito?» chiese Dawen. «Il Signore della Vita.» La voce della Signora veniva portata dal turbine di luce. La luminosità che avvolgeva la Signora delle Tenebre la sollevò fino al cielo grigio che dominava il suo regno. Lo spirito di Dawen Stroph stette a osservare il vortice di luce che sfumava in lontananza, fino a sembrargli solo una stella nel grigiore del cielo.
Lo spirito di Dawen Stroph attese il ritorno della Signora delle Tenebre per quello che gli parve un tempo molto lungo. Apparve all'improvviso, come se non si fosse mai allontanata dal suo regno. Lo spirito di Dawen si affrettò a volteggiare verso il trono. «Allora, Signora delle Tenebre, di cosa hai discusso con tuo marito, il Signore della Vita?» le chiese. «Questo non è affar tuo», gli rispose fredda la Signora. «Ne ho incontrati molti come te, ma nessuno che fosse interessato unicamente a me e alla morte. Devi capire che non mi capitava di dover affrontare un problema come questo da molte centinaia di anni. Per fortuna mio marito ricordava come ce ne siamo occupati in precedenza.» Arrestò il fiume di parole. Dalle ombre sotto il cappuccio, la Signora delle Tenebre studiava la forma spirituale di Dawen Stroph. Il Signore della Vita aveva offerto a sua moglie gli strumenti che mettevano in grado uno spirito di fare ritorno al proprio corpo nel mondo dei vivi. «Sai almeno qual è la relazione fra la vita e la morte?» chiese la Signora. «No, non lo so», rispose lo spirito. «Tutto ciò che so è che desidero morire.» La Signora delle Tenebre sprofondò nel trono. Il volto sempre nascosto dal cappuccio, si chinò in avanti per appoggiarsi sul petto avvolto nella veste nera. Con la mano candida come una perla, invitò lo spirito ad avvicinarsi. Lo spirito di Dawen fluttuò verso il trono alla richiesta della Signora. «Per tutto il corso della vita, la morte si nasconde ovunque, in ogni cosa e in ogni luogo», sussurrò la Signora. «Alla morte basta solo un attimo per realizzarsi. Ovunque c'è vita, c'è anche la morte. «Se c'è morte, ci deve essere vita, per consentire alla morte di porre fine alla vita. Vita e morte procedono mano nella mano: nessuna delle due esisterebbe senza l'altra.» «Io non capisco la vita», disse afflitto lo spirito di Dawen. «Lo so», sussurrò ancora la Signora delle Tenebre. «Ed è per questo che devo rimandarti nel mondo dei vivi.» Lo spirito di Dawen si gettò ai piedi della Signora. Gridando implorava pietà, con un furore che aveva dimenticato di poter esprimere. La Signora rimase impassibile davanti a quelle urla e a quelle appassionate implorazioni. Si allontanò da quell'anima urlante. Prese dalle vesti scure una minuscola sfera incandescente di colore verde pallido, e la lanciò verso lo
spirito di Dawen Stroph. La piccola sfera andò ad avvolgere interamente l'essenza spirituale di Dawen; pur racchiusa dentro quel globo, continuava a implorare pietà. La Signora delle Tenebre prese la sfera incandescente tra le mani e ottenne l'attenzione dello spirito senza fare un gesto o pronunciare parola. «Tornerò da te solo un'altra volta, per vedere se sarai riuscito a comprendere qualcosa della vita», gli disse. «Fino a quel momento la morte non verrà in nessun caso a prenderti per condurti nel mio regno.» Quindi scagliò la sfera ardente verso l'alto. Con un dito sottile ne guidò il percorso in direzione del cielo. Intrappolato, lo spirito di Dawen Stroph fu costretto a soccombere alla luce nel piccolo globo... sfera... luce... La luce invase le palpebre di Dawen Stroph. Si riscosse da quello strano sonno e si tastò il corpo con mani incerte. Disgraziatamente scoprì di essere ancora nello stesso involucro mortale in cui dimorava prima d'incontrare la Signora delle Tenebre. «No!» urlò Dawen. Ma il suo grido di angoscia rimase inascoltato alle orecchie dei vivi come a quelle dei morti. Gli anni passarono in fretta per Dawen Stroph, e finì per dimenticarsi dell'incontro con la Signora delle Tenebre. Venne insignito dal re dell'onorificenza di cavaliere, per il valore delle imprese compiute. Aveva ucciso il mostro che infestava il Mare Da Tempo Perduto. Aveva ammazzato un drago, grande e imponente come una montagna. Aveva liberato il regno da una banda di orchi famelici che l'avevano invaso. Nonostante il gran numero d'imprese che aveva portato a termine, era riuscito anche a trovare il tempo di sposarsi. Non era ancora trascorso un anno dalla data di quel felice matrimonio che la sua giovane e bella moglie gli aveva dato un maschietto bello e sano. Il bambino aveva appena imparato a mettere un passo dopo l'altro quando il re chiese a Sir Dawen Stroph d'intraprendere una ricerca molto pericolosa. Sir Dawen baciò moglie e figlio, montò a cavallo e si lasciò alle spalle il suo castello, le sue terre e la sua famiglia. Cavalcò in direzione dei confini del regno, poi, dopo quindici giorni, scorse un'esile figura avvolta in lunghe vesti nere. Sir Dawen scese da cavallo e si avvicinò con cautela, la spada sguainata. Quando fu a meno di un metro di distanza, provò a rivolgerle la parola.
«Chi siete?» chiese. «In nome di Sua Maestà il Re, fatevi riconoscere», disse sollevando con forza la spada. «Se riporti la tua memoria a qualche anno fa, credo riuscirai a ricordare chi sono», gli rispose una voce sommessa. Sir Dawen Stroph pensò qualche istante. «La Signora delle Tenebre!» mormorò, rinfoderando subito la spada. «Non è stato il re a farti giungere fin qui, sono stata io», riprese la Signora. «Anche se incontrarmi di nuovo potrebbe rivelarsi la più impegnativa delle tue imprese. «E ora dimmi, Sir Dawen Stroph, sei cambiato? «Ma certo che sei cambiato. Credo tu abbia una visione della vita molto diversa rispetto a quando ci incontrammo la prima volta.» La Signora delle Tenebre gli si avvicinò. Nei suoi occhi, sotto il cappuccio del mantello, lampeggiavano ancora bagliori neri e cremisi. La Signora sollevò le mani al cielo. Dalle labbra rosso sangue sfuggì un sussurro che si disperse ai quattro venti. Sir Dawen impallidì. Sapeva che sarebbe stato impossibile impedire alla morte di fare il suo corso e di venire a prenderlo. Ma decise ugualmente di parlare: voleva vivere! «Non voglio che tu prenda la mia vita! Ho moglie e un figlio. Devo vivere, non fosse altro che per il bene della mia famiglia.» La Signora delle Tenebre lasciò trapelare un sorriso dalle ombre sotto il cappuccio. Sir Dawen aveva imparato molto sulla vita. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, dopo di che scomparve dalla vista di Sir Dawen e dal mondo degli uomini. Sarebbe tornata quando per Sir Dawen fosse realmente giunto il momento di entrare di nuovo nella sala del trono. Dave Smeds UNA LAMA ARRUGGINITA Se c'è ancora qualcuno che ritiene che io abbia dei pregiudizi contro gli autori di sesso maschile - cosa davvero incredibile dopo dieci o undici volumi pubblicati -, il nome di Dave Smeds dovrebbe bastare a farli ricredere; ho dimenticato quante di queste antologie si onorino della sua presenza, ma ormai sono senz'altro un numero considerevole. Di recente Dave ha aggiornato le sue note biografiche con l'inserimento di una figlia femmina, Lerina, di sette anni, e di un maschietto, Eliott nato da poco, nonché ovviamente di sua moglie Connie. Vive a Santa Rosa, che tutto
considerato non è poi molto distante. La lista dei suoi lavori pubblicati è lunga e onorevole: due romanzi e una serie infinita di racconti brevi presenti praticamente in ogni rivista di fantascienza, fantasy e non solo; ed è apparso in più antologie di quanto io stessa non abbia fatto. Ho incontrato Dave a numerose convention e conservo di lui un'immagine assolutamente nitida. Ha scritto i dialoghi inglesi di fumetti giapponesi, e insegna karatè, di cui è cintura nera. Prima di dedicarsi alla scrittura si è guadagnato da vivere come grafico e come compositore tipografico, con mia grande sorpresa: pensavo si facesse ormai tutto col computer di questi tempi. Darb ritrovò la pecora nel pascolo più alto. Stava distesa sul fianco, in preda alle convulsioni. Non appena Darb le sollevò la testa, dalla bocca le sgorgò un fiotto di sangue che gli imbrattò le mani. L'animale emise un ultimo gorgoglio, e non si mosse più. Lo spiazzo lì attorno, dove la pecora aveva presumibilmente pascolato, era fitto di piccoli fiorellini bianchi. Darb ne raccolse una manciata, studiando la forma dei petali. Actea! L'erba velenosa sarebbe dovuta crescere solo al momento del disgelo, quando i pastori più accorti non avevano ancora liberato le greggi nei pascoli aperti, non adesso che la neve aveva ostruito il passo. Lasciò l'animale dov'era; ci avrebbero pensato gli avvoltoi. Lui aveva già il suo da fare cercando di radunare tutte le altre pecore prima che si avvelenassero anche loro, o prima che l'odore del sangue portato dal vento richiamasse i lupi o gli orsi dei ghiacci. Darb si allontanò. In quel mentre vide che sua figlia Oleya si stava arrampicando tra i rovi e i massi di granito per raggiungerlo. La preoccupazione dell'uomo aumentò. A quell'ora, non avrebbe mai lasciato la casetta riservata ai maghi senza un motivo grave. La ragazza indicò la pecora morta e disse: «Questo è opera di una strega. Ha guidato gli sciami di locuste contro i campi di grano di Metch, ha fatto in modo che i pesci del lago fuggissero lontani dalle reti, e chissà cos'altro. Il suo canto proviene dalle cime più alte, da questo lato del passo. Ho convocato un'assemblea degli anziani». «Prenderò la spada», replicò Darb. In quella zona, ai limiti estremi del vecchio impero, le montagne sem-
bravano quasi toccare la luna. I picchi più alti erano perennemente nascosti da un manto di nuvole e di densa foschia, impossibili da scalare, consegnati per sempre ai ghiacci e alla neve. Si diceva che in cima l'aria fosse così rarefatta da rendere impossibile il respiro per un essere umano. Gli abitanti delle pianure pensavano che la gente delle vallate alpine dovesse essere folle per vivere tra quei giganti di roccia, tagliata fuori dal mondo civile per nove mesi all'anno. Forse erano davvero folli, pensava Darb mentre stava ritto a fissare il massiccio di granito che gli nascondeva il sorgere del sole. E la loro follia raggiungeva il massimo livello nel periodo in cui la neve li isolava completamente. Il villaggio di Passo Alto sorgeva molto al di sotto dell'effettivo passaggio tra le montagne da cui prendeva il nome. Lì la neve non avrebbe coperto il terreno ancora per qualche settimana; ma nessuno avrebbe osato andare o venire da Cold Lake, Bent Rock o Long Mine, le comunità più vicine. Per quanto clemente potesse essere il tempo giù nelle valli, le cime erano coperte da cumuli instabili e sferzate da venti in grado di congelare le palpebre di un uomo in un battito di ciglia. Il fatto che una strega ostile dividesse con loro la valle per nove lunghi mesi, durante i quali la si sarebbe sentita cantare, poteva essere materia di antiche leggende e fonte di molte paure. A dire il vero, una strega poteva piegare alla sua volontà solamente i piccoli elementi della natura. Nessuna pianta, nessun insetto o pesce l'avrebbe ascoltata e seguita, a meno che lei non imparasse il loro canto alla perfezione, e ciò richiedeva tempo e pazienza; qualsiasi uso dei suoi poteri, diversamente, si sarebbe rivelato miseramente inefficace. Ma un intero inverno in cui ogni notte i topi invadevano i granai, e le zecche della neve propagavano la febbre tra i bambini mentre dormivano... quella sì che sarebbe stata una stagione lunga e interminabile. Darb scrutò il bosco non ancora coperto di neve, sotto l'ombra del massiccio di granito. Da lì sarebbe incominciata la sua ricerca. Allontanatosi da quella vista, diede il giusto abbrivio alla mola per poi appoggiarvi il filo della sua spada. Le scintille danzavano sopra i ciottoli ai suoi piedi, e le macchie di ruggine scomparivano dalla lama. Sebbene avesse sempre tenuto l'arma avvolta in un telo oliato, dopo tutti quegli anni d'inutilizzo il freddo e l'umidità si erano infiltrati e avevano intaccato la superficie del metallo. Era come se la ruggine fosse la traccia spettrale del sangue delle sue ul-
time vittime, morte da ventisei anni. Il lavoro terminò solo quando la lama fu pulita e lucente. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che, anche solo per esercitarsi, aveva stretto il pugno attorno all'elsa? Dieci anni? Dodici? Quell'arma sembrava ancora la naturale estensione del suo braccio. Sua moglie Ilisi uscì di casa mentre lui stava finendo il paziente lavoro di affilatura. Fissò la spada, e un'espressione di scontentezza le si disegnò sul volto; la stessa reazione di quando gli anziani avevano stabilito che era Darb a doversi mettere sulle tracce della strega. «Vorrei tanto che non dovessi essere tu», gli disse. Darb ripose la spada nel fodero, assicurandolo con una spessa fibbia alla cintura. «Sai bene che devo essere io.» «Da solo?» chiese. Il tono lasciava intendere che quando sarebbe stato il suo turno di sedere nel Consiglio degli anziani - le mancava un anno per compiere cinquant'anni, dopo di che avrebbe fatto parte delle matriarche le linee di condotta in casi simili sarebbero cambiate. «Quelle cime non sono posto per pastori e tessitori, specie con la neve ormai prossima. Molto meglio che rimangano tutti qui a mietere il raccolto; pare che quest'inverno non ci sarà molto foraggio. E non voglio che nessun mio compagno muoia al mio fianco, se la strega si rivelasse un avversario troppo arduo e pericoloso; tantomeno ho bisogno di testimoni nel caso in cui riuscissi a intrappolarla nel suo rifugio e dovessi fare quel che va fatto.» Il volto di Ilisi si rabbuiò. Darb non sapeva se la turbasse di più la possibilità di perderlo o quella che riuscisse nell'impresa. «Ti saresti potuto rifiutare», replicò lei con fermezza. «Con l'età che hai, nessuno ti avrebbe stimato di meno per questo.» «Sì, ho una bella età», ammise Darb, passandosi una mano sulla barba ingrigita. «Ma non avrei potuto rifiutare.» Afferrò la mola e disse alla moglie: «Aiutami a rimetterla a posto». Ilisi fece un paio di passi indietro, per tenersi a distanza dalla ruota di pietra e dalla spada del marito. «Speravo che ventisei anni ti avessero cambiato», gli disse sottovoce. «Vai, dunque. Fa' quello che devi.» Le ultime parole le uscirono a fatica dalle labbra, increspate come se avesse dato un morso a una radice di genziana. «E tu come farai?» le chiese. Ilisi tirò fuori un piccolo mazzo di fiori e glielo porse. Erano aquilegie
selvatiche. Crescevano lungo tutto il sentiero che portava dal villaggio a casa loro, come a proteggerlo. Darb dubitava che avrebbero protetto anche il suo cammino in altura, ma le assicurò comunque al berretto di lontra. A fine giornata i boccioli si sarebbero sicuramente seccati, ma almeno per qualche ora la loro fragranza gli avrebbe inondato il viso, rallegrandogli il cammino. «Ti ho preparato del cibo, il necessario per un letto di fortuna, la scatola con esca e acciarino», gli disse Disi. «Ho mandato Bren dal fabbricante di frecce ad acquistarne tre. Nella tua faretra ne erano rimaste poche.» Poi, indicando la spada, aggiunse: «E ora lascia quella fuori dalla porta e vieni dentro, marito». La faretra non era poi così a corto di frecce come Ilisi aveva detto, ma aspettare il ritorno del figlio avrebbe rimandato la partenza di un'ora. Darb capì cosa gli stava chiedendo la moglie e si abbandonò al suo desiderio. Il ricordo della disperazione di Ilisi mentre facevano l'amore stringeva Darb in una morsa feroce mentre si faceva strada nella foresta. La passione con cui lo aveva investito era quella di una donna che aveva paura di non rivedere più il suo uomo. Sperava si trattasse soltanto di quello, ma non si faceva illusioni. Se fosse ritornato con la spada imbrattata del sangue di un altro essere umano, Ilisi non lo avrebbe accolto tanto presto nel suo letto. Non si trattava di ripicca o di una sciocca minaccia, semplicemente era la sua natura. Al ritorno dalle ultime guerre, ci erano voluti cinque anni prima che lei riuscisse a evitare di tremare quando lui le si avvicinava per toccarla. Nessuno dei due avrebbe voluto che accadesse, ma quella fredda ritrosia aveva avvelenato il loro amore. I due che lo accompagnavano lasciarono Darb immerso nei suoi pensieri, mentre faticavano a mantenere l'andatura che aveva preso. Per la prima fase della ricerca, il Consiglio degli anziani aveva stabilito che non raggiungesse le vette da solo. Ma portare qualcun altro con sé lo faceva sentire come se i piedi dovessero avanzare a fatica nella neve fresca. Lavorava meglio da solo. Era il più esperto nel seguire le tracce di un lupo, e nessuno conosceva le montagne come lui. Più che d'aiuto, i compagni gli erano d'intralcio. Comunque, se costretto, avrebbe senz'altro scelto i due che adesso lo seguivano. Oxfor era forte, rapido e molto abile. Nei due anni in cui lo aveva tenuto come apprendista, il ragazzo aveva dimostrato sangue freddo e imparato bene ogni lezione. E poi c'era Oleya, la figlia di Darb.
A trent'anni, Oleya ne aveva passati dodici operando come strega: i primi cinque in veste di apprendista della prozia Lakli, e gli ultimi sette da sola. In un villaggio piccolo come il loro era difficile che nascesse più di una maga ogni due generazioni. Morta Lakli, era molto probabile che Oleya sarebbe rimasta l'unica a esercitare quella professione per i successivi vent'anni. L'alternativa sarebbe stata assumere qualcuno che venisse dalle pianure o dalle colline, ma Passo Alto aveva ben poco da offrire perché una strega potesse essere tentata di trasferirsi. Ciò faceva di Oleya la suprema autorità della valle in fatto di magia. Era rimasto poco in lei della madre. Ormai era come Darb, tutta durezza e determinazione. Per certi aspetti l'uomo se ne rammaricava, per altri ne era contento. La paura degli abitanti del villaggio, che si tenevano lontani dal casolare della ragazza per timore dei suoi poteri soprannaturali, era la stessa con cui lo fissavano a occhi spalancati quando tornava dalle sue spedizioni di caccia con qualche nuovo paio di zampe d'orso mozzate da poco. La gente era riconoscente a Oleya per le sue stregonerie, così come era riconoscente a Darb perché teneva a distanza gli orsi e i lupi, ma allo stesso tempo li temeva. Di tutte le persone che erano state parte della vita di Darb, solamente sua figlia Oleya era in grado di comprendere appieno cosa volesse dire essere tenuti a distanza. Macinavano terreno a gran ritmo. Prima di mezzogiorno Darb si volse e poté vedere il fumo dei camini di Passo Alto molto più in basso, a ovest. Il sentiero scendeva nuovamente davanti a lui, continuando a zigzag verso il massiccio cui erano diretti; parte del terreno era ricoperta di forti e resistenti conifere, e parte di boscaglia molto fitta. Si fermarono per mangiare. Finito il pasto, Oleya entrò in trance per riuscire a percepire eventuali segnali provenienti dalla strega loro nemica. Spazzò e rese liscia una parte di terreno, vi si sedette a gambe incrociate e chiuse gli occhi. Automaticamente Darb armonizzò il respiro su quello della figlia, pur restando in piedi, scrutando la foresta con l'acume del cacciatore provetto che era. Vi erano momenti in cui quasi credeva di poter udire i suoni della natura, proprio come una strega. Non era un'idea del tutto insensata: era padre di una strega, e pronipote di un'altra. Sebbene fosse raro che i pieni poteri magici si manifestassero in soggetti maschi, tuttavia spesso sapeva in anticipo quando sarebbe cambiato il tempo e quando sarebbero comparsi i bruchi. Mentre Oleya cantava, Darb sentiva l'aria riempirsi di un aroma insolito,
come se si trovasse sull'argine di un fiume e la corrente trasportasse profumi, sapori, sensazioni quasi a portata di mano. Accanto a lui, Oxfor era intento a ispezionare le frecce, ignaro di quanto accadeva. Oleya aprì la bocca e inspirò, trattenendo il fiato fin quasi a farsi scoppiare il petto; poi riaprì gli occhi espirando. «Sento il brusio sommesso dell'erica e il fruscio della farfalla dalle ali screziate.» Darb annuì. L'erica e le farfalle vivevano solo a una certa altitudine. «È vicina al limitare del bosco», disse a voce alta per far intendere che aveva capito. Oxfor scrutò oltre le scarpate e i burroni, e verso le vette brulle, poi disse: «Sono molti i posti dove potrebbe nascondersi». «Basta, per ora.» Il tono di Darb gli fece abbassare lo sguardo. Il cacciatore di lupi aiutò la figlia a rialzarsi. La ragazza oscillò, con la fronte imperlata di minuscole goccioline di sudore. Aprire completamente se stessa alle canzoni della vallata, e scegliere in particolare quelle associate alla strega, non era compito facile. «Continueremo verso il passo, tenendoci nella parte alta della foresta», stabilì Darb. Era cominciata la caccia. Proseguendo nel cammino, i fastidi e i dolori che Darb avvertiva alle giunture svanirono. I suoi occhi penetravano fra le ombre della fitta boscaglia di abeti e ginepri con l'acume di quelli di un falco. Pizzicò la corda dell'arco, sorridendo quando la vibrazione gli comunicò che era pronto all'uso. La vita non gli sembrava mai così intensa come quando s'inoltrava fra quelle cime, attento alla preda. E la sensazione più forte la provava quando sentiva che la caccia avrebbe anche potuto trasformarsi in un pericolo mortale. Come un orso dei ghiacciai poteva squarciarlo con una sola zampata, così quella strega avrebbe potuto distruggerlo. Presto si sarebbe accorta che lui era lì, magari lo sapeva già. Glielo avrebbero detto il vento, la linfa che scorreva negli alberi, persino i moscerini. Darb preferiva così. Quel gusto non poteva trovarlo a valle, pascolando le pecore o ascoltando vecchie storie davanti al fuoco. Oleya notò l'aumentato vigore della sua andatura e sorrise. Non aveva bisogno di chiederle scusa per il tempo che aveva trascorso vagando per quelle montagne, andando a caccia, restando ben poco al villaggio. Di fronte a lei non doveva provare rimorso per la persona forgiata da dieci
anni di guerra. Si tolse il cappello. I piccoli fiori che la moglie gli aveva donato stavano appassendo, il profumo quasi del tutto svanito nell'aria sottile e frizzante di quelle cime di granito. Il fuoco di bivacco, apprestato in un crepaccio al riparo da sguardi indiscreti, riusciva a malapena a mitigare il freddo della notte. A Darb non pesava quel disagio, aveva visto di molto peggio. «È qui da qualche parte», disse Oleya uscendo dalla trance. «Non riesco più a capire la direzione.» Si alzò, vacillando meno, stavolta. Lo stato di trance era durato molto poco, quanto bastava per dare conferma a ciò che già sospettavano. Una strega non era in grado di localizzare con estrema precisione un'altra strega. La presenza stessa di una maga cambiava i suoni della natura in un'intera zona; l'obiettivo sarebbe potuto essere ovunque in quel tratto di territorio. Oleya aveva portato a termine il suo compito: restringere il più possibile l'area di caccia. Ora Darb sapeva con assoluta certezza che la loro preda si trovava da qualche parte a non più di una giornata di cammino. «Oxfor ti riporterà a valle non appena sarà mattino», disse Darb. La ragazza aggrottò le sopracciglia ma non replicò. Era troppo preziosa per il villaggio per rischiare quanto li aspettava da lì in poi. Il Consiglio degli anziani aveva insistito su quel punto; suo padre si sarebbe dovuto esporre da solo agli attacchi della magia della nemica. Soltanto se Darb avesse fallito si sarebbero prese in considerazione altre possibilità. I bagliori del fuoco si riflettevano nelle pupille di Oleya, in uno scintillio quasi selvaggio. Darb comprese che la ragazza voleva vedere morta la sua rivale. Avrebbe guidato la caccia lei stessa se solo avesse potuto. «Da dove viene?» domandò Oxfor, mentre infilzava sullo spiedo il coniglio che aveva catturato e pulito. Lo appoggiò sulla brace. «Dalle pianure? Da Cold Lake?» «Credo venga da Long Mine», disse Oleya. Il ragazzo sollevò un sopracciglio. «L'avevo pensato anch'io; non è stata certo una bella annata per i minatori. Ma non hanno più avuto una strega al loro villaggio da quasi dieci anni, da quando è morta Mihana e, se una delle loro ragazze avesse manifestato poteri magici, di sicuro non avrebbero rischiato di perderla mandandola contro di noi.» «No», ribatté Oleya. «Ma, se per ipotesi la ragazza fosse caduta vittima della pazzia causata dalla magia, avrebbero potuto volerla abbandonare da
questo lato della montagna invece di ucciderla, in modo da far subire a noi gli effetti della malattia. Non mi è difficile credere a una simile provocazione da parte loro.» Darb si scostò dal fuoco, dove il fumo non gli copriva la vista della rete sottilissima e luminescente delle stelle. Aveva osservato spesso il cielo l'anno in cui Oleya aveva manifestato il suo dono, preoccupandosi per lei. Non era riuscito a rilassarsi fino a che il periodo di transizione non era passato, e il pericolo della pazzia scongiurato per sempre. «Io non amo certo i minatori», riprese Oxfor. «Ma la tregua è durata per più di una generazione, perché dovrebbero voler ricominciare la faida proprio adesso?» Darb si girò e disse: «Quando l'avrò trovata starò bene attento a leggere i segnali che possano dirmi da dove viene. Per ora, da dove viene non ha nessuna importanza. Ci ha attaccato, quindi deve morire. Avremo tempo per i particolari più tardi, quando tutto sarà finito». Oleya annuì al padre, con soddisfazione. Oxfor faceva finta di essere impegnato a cuocere il coniglio. Solo quando la carne fu quasi pronta a essere servita, si azzardò a parlare ancora. «È vera la storia che si racconta?» chiese a Darb. «Che hai ucciso il signore di Long Mine a mani nude?» Darb contrasse le labbra e non rispose. La sua mente si riempì d'immagini intense: suo padre e suo fratello con le teste mozzate, massacrati dai picconi e dalle lance dei minatori, su una distesa di neve diventata cremisi per il sangue sgorgato. E un minatore pallido come la larva per le lunghe e faticose giornate sottoterra, la faccia sconvolta mentre Darb - aveva diciassette anni a quell'epoca - per la prima volta insanguinava la spada. Come sua figlia Oleya, Darb riteneva la gente di Long Mine capace di qualsiasi malvagità. Sapeva quanto profonda e mai sopita fosse la loro brama di vendetta. Quasi sperava che la strega venisse davvero da lì. Tuttavia non disse nulla in proposito. Il suo apprendista era veloce con l'arco, e non aveva paura di affrontare la neve e i dirupi, ma c'era da attraversare un'alta e infida catena di montagne prima di raggiungere il luogo che Darb chiamava «casa». Di tutti gli abitanti di Passo Alto, Darb era l'unico che avesse mai ucciso un essere umano. Che Oxfor attraversasse pure quelle creste, se doveva, ma non sarebbe certo stato Darb a spingerlo. «Una storia cresce, passando di bocca in bocca», replicò. Non era il signore di Long Mine, infatti, che aveva ucciso quel giorno lontano, ma il
maggiore dei suoi figli. E non era stato a mani nude, ma con la stessa spada che costui aveva usato per mutilare il corpo di suo padre e suo fratello. Oxfor non fece pressioni per farsi dire altro. La carne era pronta, e si misero a mangiare. Non appena sistemati per passare la notte, con Darb che si era incaricato del primo turno di guardia, Oleya cominciò a cantare. All'inizio i suoni che le sgorgavano dalla gola sembravano nient'altro che i rumori della foresta, amplificati e con una più accentuata cadenza ritmica: il gracchiare dei rospi, il fruscio delle ali di una civetta, lo stridio dei grilli, lo scroscio indistinto di un ruscello di montagna. I rumori si armonizzavano in un coro. Oleya raddrizzò la schiena, inspirò profondamente e cominciò a cantare a voce piena, il collo che le tremava per lo sforzo. A poco a poco quel groviglio di suoni si districò. La melodia delle piante che crescono si affievolì, subito seguita dal profondo tambureggiare delle rocce e del terreno, mentre si liberava la musica più vigorosa del regno animale. Tergendosi il sudore dalla fronte, Oleya separò le note dei pesci, dei vermi, dei ragni, fino a che non rimase soltanto un gemito acuto e penetrante. Le orecchie di Darb cominciarono a ronzare. La strega aveva trovato il canto che cercava. Nonostante la stanchezza, Oleya sorrise e modificò leggermente quella melodia. Subito le zanzare e i moscerini che avevano infestato il loro piccolo accampamento per tutta la notte si ritrassero, come se d'un tratto la carne umana non avesse avuto più nessuna attrattiva. «Ecco», sospirò Oleya. «Dovrebbe durare fino a domattina.» Poi s'infilò nel suo giaciglio e cadde immediatamente in un sonno profondo. Al mattino Oleya stava ritta in piedi, gli occhi splendenti, del tutto risollevata dalla fatica dell'incantesimo. Di nuovo a Darb parve che avrebbe guidato lei stessa la caccia se solo avesse potuto. Invece baciò il padre e gli disse: «So che ci riuscirai». Poi si allontanò verso il punto in cui Oxfor la stava aspettando per riportarla a Passo Alto. «Proteggila come si deve», disse Darb al suo apprendista; i due ragazzi scomparvero nella foresta, mentre lui riprendeva a salire. Darb cercò per tutto il giorno, ma non trovò traccia della sua preda. Se era abile e accorta, sarebbe rimasta sempre in un unico posto, per evitare di lasciare indizi che lui avrebbe potuto seguire. Ma, con un po' di fortuna, la strega se ne sarebbe andata in giro, convinta di riuscire a non farsi scovare. Darb non fu fortunato. Il mattino seguente, mentre aggirava dei cespugli vicino a un ruscello, fu la preda a trovare lui.
Dalla boscaglia uscì un orso dei ghiacciai. Darb ebbe solo il tempo di vedere un'enorme massa di pelo marrone, con una striatura argentata attorno alla bocca e alla gola; un attimo dopo la bestia cercò di colpirlo con una zampata. Darb si mosse fulmineo, riuscendo a evitare il colpo. Gli artigli lo raggiunsero comunque di striscio, lacerando la mantella e il corpetto di cuoio, stracciando gli indumenti di lana che portava di sotto e graffiandogli la pelle. L'uomo scagliò di lato il suo arco e cadde a faccia in giù sul pendio erboso. Rimase immobile. Un pesante tonfo gli disse che l'animale era ridisceso sulle quattro zampe. L'orso gli diede dei colpetti al fianco col muso, annusando rumorosamente. Darb non si mosse. Non osava. Se avesse fatto trasparire il fatto di essere ancora in grado di opporre resistenza, la bestia l'avrebbe sbranato. L'orso gli infilò una zampa sotto la pancia e diede uno strattone, facendolo rotolare come fosse stato una foglia. Darb assecondò il movimento, finché non si ritrovò di nuovo a faccia in giù. Mentre ruotava aveva dato un'occhiata all'animale tra le palpebre socchiuse. Era un grande maschio adulto, che cominciava a striarsi di bianco per via dell'inverno, molto pesante per il grasso accumulato. Con quello che doveva aver mangiato, forse non aveva nemmeno fame. L'orso gli si avvicinò, lo annusò ancora, grugnì e lo fece nuovamente rotolare. Darb fu bene attento a ricadere sempre a faccia in giù. Per venti volte l'orso ripeté quel gesto, mentre Darb continuava a fingersi morto. Infine, con un grugnito disgustato, l'orso si allontanò con aria indolente. Darb rimase dov'era per un po', fino a quando non sentì che l'orso si tuffava in una pozza una cinquantina di passi più a valle. Ritornò con calma al punto in cui aveva abbandonato l'arco e lo riprese. Non era minimamente tentato di usarlo: un orso ferito e infuriato era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Si limitò a stare in guardia, nel caso l'animale tornasse. Risalendo la corrente, Darb controllò le ferite. Gli artigli gli avevano procurato solo alcuni sfregi superficiali al petto e a una spalla; dolorosi, ma la sua vita non era in pericolo. Pulì le ferite e vi appoggiò sopra un impiastro tenuto fermo con un bendaggio di fortuna. Provò a muovere il braccio. Il muscolo sarebbe stato piuttosto rigido al mattino, ma non avrebbe dato eccessivi problemi. Si sedette su un masso tondeggiante che dominava il corso d'acqua, da cui sarebbe riuscito a vedere l'orso se fosse tornato indietro.
Come ci era riuscita la strega? L'apparizione dell'orso non poteva certo considerarsi un accadimento casuale; e tuttavia un animale evoluto come quello non dava retta così rapidamente al canto di una strega più di quanto non avrebbe fatto un essere umano. Forse aveva indotto uno sciame di api a spargere il miele, o aveva fatto in modo che i frutti dei cespugli di more maturassero tutti insieme, e il profumo di cibi di cui era così ghiotto aveva guidato l'orso sulla pista al momento giusto per incontrarlo. Quel ragionamento gli suggerì tre considerazioni. Primo, si trattava di una strega molto potente, che andava tolta di mezzo il prima possibile. Anche Oleya sarebbe riuscita a provocare quell'effetto sulle more, ma cantando per ore. Indurre le api a spargere il miele, poi, avrebbe richiesto ancora più tempo. Secondo, sapeva che le stava dando la caccia. Terzo, si trovava lì vicino. La strega aveva corso un rischio, e perso. Se lui non avesse conosciuto così bene il comportamento degli orsi dei ghiacciai sarebbe sicuramente morto. Ma, dato che era sopravvissuto, ora lei correva un pericolo molto più grande. Non ci fosse stato l'attacco dell'orso, l'indomani Darb avrebbe potuto allontanarsi da quella vallata senza nemmeno sospettare che lei fosse lì. L'uomo si alzò e scrutò il terreno, scegliendo un sentiero che facesse un ampio giro attorno alla zona in cui sospettava stesse in agguato la strega. Sorrise deciso. Ormai si trattava di una sfida tra i poteri magici di lei e la conoscenza dei boschi di lui. Il sapere più forte avrebbe deciso chi era la preda e chi il cacciatore. La mano di Darb si strinse attorno all'elsa della spada. Qualche ora dopo, mentre osservava la piccola valle stando dall'altro lato, avvertì un formicolio che gli saliva lungo la colonna vertebrale. I suoi occhi guizzarono sul pendio pietroso che aveva alle spalle; si lanciò in una corsa a capofitto verso un robusto ginepro dai grossi rami. Dietro e sopra di lui le rocce cominciarono a muoversi. Si era messa in moto una frana. Riuscì a raggiungere la pianta appena in tempo; mentre era raggomitolato al riparo dei nodosi rami del ginepro, la pioggia di pietre gli rotolò accanto rombando da ogni parte. Un masso grande abbastanza da fracassargli la schiena andò a schiantarsi proprio contro il ginepro, ma l'arbusto, veterano di mille nevicate e frane, resistette ben saldo.
Darb massaggiò una caviglia che gli si era storta mentre correva precipitosamente in cerca di un riparo. Pieno di rabbia osservò le ultime pietre finire la loro corsa. Era stato incauto. Anche una strega dai poteri limitati era in grado d'indurre una zecca della sabbia o uno scarabeo a spostare un ciottolo, e su un pendio così ripido pochi ciottoli in movimento erano sufficienti ad alimentare una vera e propria frana. La montagna non era ancora ferma quando lui si alzò e si diresse verso una sporgenza. Il sole era sceso dietro le vette a occidente, circondandole con un alone infuocato, ma mancavano ancora ore prima che la luce svanisse completamente. Per comandare e dirigere una frana, la strega doveva poter vedere il ghiaione; quindi doveva trovarsi a portata di sguardo. Se solo lui fosse riuscito a trovare una traccia prima del tramonto, la strega non avrebbe potuto dileguarsi nel buio della notte. Nonostante la caviglia malandata e dolorante, le gambe lo sostenevano con una sicurezza che non sentiva da anni. Incoccò una freccia e si guardò attorno, ansioso di poterla scagliare. Il braccio con cui di solito reggeva la spada gli prudeva. Conosceva bene quella sensazione. Era la droga che gli aveva fatto trascorrere dieci anni come mercenario al servizio dei villaggi delle pianure, dopo che lo scontro coi predoni di Long Mine gli aveva stimolato l'appetito per il sangue. Vita contrapposta a vita. Erano stati anni magnifici. Nonostante il passo veloce, si muoveva furtivo, in caso ci fossero delle sentinelle. Era possibile che la strega non fosse affatto in preda alla pazzia; più probabile che i minatori l'avessero accompagnata lì e adesso la stessero proteggendo. Evitò una fitta boscaglia che si prestava alla perfezione per un'imboscata. Continuava a controllare dietro di sé, per essere sicuro di non essere seguito. A un certo punto s'imbatte in un sentiero, e lì erano ben visibili orme umane piuttosto recenti. Con molta cautela si chinò per ispezionarle. Appartenevano tutte alla stessa persona ed erano troppo piccole per essere orme di un uomo adulto. Attraversavano il sentiero in entrambe le direzioni, alcune erano molto fresche, altre sembravano risalire a qualche giorno prima. La persona che le aveva lasciate doveva essere sola, perché non c'era traccia di eventuali compagni. Darb si alzò e, a passi lunghi e veloci, riprese silenziosamente il cammino sullo stesso sentiero, che conduceva a un burrone poco profondo. Scrutando attentamente in ogni direzione, scorse diverse altre impronte dello
stesso viandante. All'improvviso sentì la terra mancargli sotto i piedi. Si gettò in avanti, le braccia che si aggrappavano istintivamente a un piccolo masso. Il terreno lo inghiottì fino all'altezza della vita, ma la roccia era un appiglio molto resistente. Si tirò fuori a fatica, come fosse caduto nella buca di una trappola dissimulata dalla neve. Per tutto il tempo si tenne vicino l'arco, pronto ad afferrarlo al minimo segnale di pericolo. Mentre si arrampicava sul terreno solido e sicuro, vide com'era stata congegnata la trappola. Le formiche avevano crivellato il terreno, facendo sì che crollasse non appena qualcosa di pesante come un essere umano ci fosse passato sopra. La strega aveva di nuovo dimostrato audacia, riuscendo a indurre le formiche a fare una cosa tanto lontana dai loro comportamenti abituali, oltretutto in un punto preciso e in pochissimo tempo. Si trattava però anche di un'azione disperata, con poche probabilità di riuscita. Darb sentiva di essere vicino. Rialzatosi, si mise a correre lungo il sentiero. Mentre si avvicinava a un pino gigante, sentì la melodia nel vento. La strega stava cantando, e il suo richiamo era dolce, acuto e limpido, ossessivamente bello in confronto al salmodiare gutturale di Oleya. Istintivamente Darb ebbe cura di evitare il grosso albero, per timore che un ramo potesse cadergli addosso. Ma i rami non si muovevano; qualcosa diceva a Darb che il canto che udiva non era quello dei pini. Cominciò a correre a perdifiato. Qualsiasi cosa fosse quel canto, era sicuro che stesse per finire. E voleva quella donna a portata di freccia o di spada prima che giungesse al termine. Girando velocissimo attorno a un'ansa del torrente, vide una piccola grotta. All'ingresso c'era un focolare, con accanto un mucchietto di ramoscelli. Il terreno era calpestato, come se chi ci abitava fosse lì da settimane. Darb scrutò attentamente la zona. Non c'era posto dove una sentinella avrebbe potuto nascondersi senza che lui riuscisse a vederla uscire allo scoperto. Corse verso l'ingresso della grotta. In quell'istante il canto cessò. Darb si fermò. Non aveva importanza. Il dado era tratto. Poggiò a terra l'arco, troppo scomodo per gli scontri ravvicinati, e sfilò la spada; con occhi lucenti e respiro controllato, entrò nella grotta. Sul fondo stava rannicchiata una figurina esile. Era minuta e delicata, e aveva al massimo sedici o diciassette anni. Era disarmata. Darb sollevò la spada, e la sagoma allungò le braccia. Sul pavimento
della grotta, dove era impossibile fosse sbocciato naturalmente, c'era un mazzetto di boccioli di aquilegia. La ragazza lo colse e lo porse a Darb. Il mantello della notte copriva già il villaggio di Passo Alto. Il fumo rimaneva attaccato alle travi del grande capanno, come se avesse paura di uscire e disperdersi nell'aria nebbiosa attraverso gli sfiatatoi. In lontananza, verso il precipizio, un lupo ululava. Gli abitanti del villaggio stavano tutti stretti attorno ai fuochi, pestando i piedi gelati, la fronte aggrottata per essere dovuti uscire dalle loro capanne in una notte del genere. Quando Oleya entrò, Darb lesse sul suo viso preoccupazione e smarrimento. Le persone che la scortavano la condussero al centro della stanza, dove i patriarchi e le matriarche si erano riuniti attorno al grande tavolo di quercia. Julde, il più anziano della comunità, alzò il suo scettro in corno d'alce intarsiato d'oro, zittendo il brusio della folla. Oleya si volse verso il padre alla sinistra del tavolo. Alla vista della giovanissima ragazza straniera che gli stava al fianco, sgranò gli occhi. «Perché è ancora viva?» chiese agli anziani. Se anche la sua intenzione era stata quella di apparire spavalda ed energica, il tremito nella voce rovinò il tentativo. Le rispose la matriarca Sahanna: «Tuo padre l'ha risparmiata. Invece di abbatterla subito con la spada, ha atteso per farle alcune domande. E la ragazza ha raccontato una storia molto interessante. «Aya appartiene alla gente di Long Mine. È una strega e, quando ha percepito che Darb le dava la caccia, si è difesa. Ma non è entrata nella nostra valle per farci del male. I suoi poteri si sono manifestati all'improvviso la scorsa primavera, ed erano così forti da provocare alcuni incidenti. Un bambino è quasi morto per le punture dei calabroni che lei aveva radunato mentre cercava d'imparare un canto cui gli insetti obbedissero. Gli anziani del suo villaggio cominciavano a temere che fossero i primi sintomi della pazzia causata dalla magia. Per la sicurezza sua e della sua gente, Aya aveva deciso d'isolarsi sulle cime più alte per passarvi l'estate e affinare le sue capacità senza nuocere a nessuno. È rimasta bloccata da questa parte del passo a causa della neve caduta così in anticipo». Darb non guardava la figlia. Era già abbastanza difficile continuare a stare nel capanno. Teneva gli occhi fissi sulle mani, tra cui stringeva ancora un rametto di aquilegia. Con quanta disperazione doveva aver cantato Aya, evocando per istinto ciò che serviva a fermare la lama dell'uomo che
l'aveva braccata. «Non è stata questa giovane figlia di minatori ad allontanare i pesci dalle reti, a chiamare le locuste e a far crescere l'actea fuori stagione», spiegò Sahanna. «Sono state le tue cantilene ad attirare sul nostro villaggio tutte queste disgrazie.» Oleya arretrò. «Quale motivo avrei avuto? Credete alla sua storia e non alla mia?» «Noi ti conosciamo, Oleya. Sei sempre stata orgogliosa e diversa dagli altri. Ti sei sempre impegnata a sminuire i racconti che riportavano le imprese di maghi di altri paesi o di altre epoche. Non hai mai accettato di essere una strega mediocre.» «Quando è arrivata Aya,» continuò la matriarca Eleera, «devi avere sentito il suo canto e compreso il suo enorme potenziale. Quando Aya avrà preso pieno controllo dei suoi poteri, diventerà la più dotata donna di magia che queste montagne avranno visto in tre generazioni. Così potente che la gente affronterà il viaggio da Passo Alto a Long Mine per poter usufruire dei suoi servigi, proprio come accadeva con Temri, che viveva a Bent Rock quando mia nonna era giovane. Per salvare il tuo orgoglio hai inventato una minaccia, hai rischiaro di riaccendere una faida e hai quasi trasformato tuo padre in un assassino.» Oleya s'irrigidì visibilmente. Per un attimo sembrò sul punto di appestare con le pulci gli anziani lì riuniti per punirli della loro audacia. Ma poi lasciò cadere le braccia. Una strega che non avesse l'appoggio o che non fosse almeno tollerata dalla comunità in cui viveva non valeva nulla. Fissò suo padre. Darb sapeva cosa stava pensando: che ne era stato della sua spada affilata e del suo spirito guerriero? Perché non aveva ucciso Aya all'istante come avrebbe fatto l'uomo che conosceva? «Non ho mai ucciso senza una ragione», spiegò Darb. «Ho contribuito a costruire la tregua, trentasei anni fa.» «C'è un modo con cui puoi rimediare a quello che hai fatto», disse ancora la matriarca Sahanna rivolta a Oleya. «Aya ha bisogno di essere istruita. Ha già imparato moltissimo da sola, ma ci sono canti e modi per dare forma alle cantilene magiche che solo un'altra strega può insegnarle. Se l'aiuterai a realizzare tutto il suo potenziale porrai continuare a vivere tra noi.» Oleya inghiottì amaro e lanciò uno sguardo feroce alla ragazza, senza nascondere la gelosia che la divorava. Darb sperava quasi che sua figlia scegliesse l'esilio, ma lei abbassò il capo mormorando: «Io... io l'aiuterò».
«Noi tutti, ovviamente, ti sorveglieremo da vicino», aggiunse Sahanna. «Ora puoi andare.» Poco dopo che la figlia era stata riaccompagnata alla casetta riservata ai maghi, Darb chiese il permesso di abbandonare l'assemblea. Due dei suoi figli e Oxfor si mossero per seguirlo. «Lasciatelo andare», disse Disi. «Lasciatelo da solo per un po'.» Darb accarezzò la guancia della moglie. Quella donna lo conosceva meglio di quanto lui non avesse mai voluto riconoscere. Ilisi gli sorrise. «Hai fatto quello che dovevi», gli disse con dolcezza. «Già», replicò con voce roca. Sua moglie, i figli e l'apprendista rientrarono nella stanza dove Aya stava raccontando della sua famiglia, delle sue speranze e dei meravigliosi canti della terra. L'intero villaggio ardeva d'entusiasmo per quella vittoria. Ne aveva ben motivo, pensava Darb. Gli abitanti del villaggio avevano vinto perché ora erano al sicuro e avevano una nuova strega che potevano cercare d'ingraziarsi per tutto l'inverno. Anche Aya aveva vinto, perché la vita le era stata risparmiata, e ora aveva davanti a sé un destino ricco e generoso. E avevano vinto persino i minatori di Long Mine, perché con l'arrivo dell'estate si sarebbero ritrovati con una strega perfettamente addestrata, e anche perché per la prima volta dai tempi della faida le due comunità avevano una valida ragione per cooperare. Solo due persone avevano perso. Oleya, naturalmente. E lui stesso. La persona che pensava lo conoscesse meglio di ogni altra, in realtà non lo conosceva affatto; così come non sarebbe mai riuscito a perdonare i minatori che durante le scorrerie del passato avevano ucciso suo padre e suo fratello, non sarebbe mai riuscito a perdonare la sua Oleya. Da quel momento in poi non aveva più una figlia. Ilisi era già addormentata quando Darb smise di vagare sotto il cielo fitto di stelle e rientrò a casa. Non la svegliò. Con aria solenne avvolse la spada nel panno oleato, poi la ripose dove non poteva vederla. Forse, se la fortuna l'avesse voluto, sarebbe rimasta lì ad arrugginirsi per sempre. Larry Tritten IMMAGINI D'AMORE
A giudicare dal curriculum, Larry Tritten ha scritto su ogni tipo di rivista e antologia, passata, presente e futura. Ricordo che gli venne pubblicato un articolo molto divertente, sul numero di aprile 1993 del Writer's Digest, riguardo al sistema per «dominare manierismi, luoghi comuni e ridicolaggini» del tipo di narrativa che si scrive. Non riesco ancora a capire come me lo sia lasciato sfuggire per tutto questo tempo; ma se la gente non scrive libri o non partecipa a convention è spesso una questione affidata al caso - sia esso fortunato o no - che io riesca a individuare qualcosa che abbia scritto. Il racconto qui di seguito è probabilmente quanto di più vicino al genere sentimentale abbia mai pubblicato; personalmente sono contraria al genere sentimentale soltanto quando viene considerato l'unico genere di lettura adatto alle donne. Io stessa ho cominciato leggendo Grace Livingston Hill, ma mi sono lasciata alle spalle quel genere prima ancora di compiere tredici anni. Fatico a immaginarmi persone adulte che leggano solo racconti sentimentali o fotoromanzi quando vi sono così tante altre cose da leggere, ma «i gusti son gusti, come disse la vecchia signora mentre si apprestava a baciare la sua mucca». Clarity era stata la fantesca di un mago nello stesso palazzo dove Saran aveva portato a termine la sua più recente avventura. Ora, mentre la accompagnava a casa attraversando il bosco, Saran aveva la strana ma eccitante sensazione di conoscerla da anni. Ricordava con tenerezza la prima volta che l'aveva vista: al primo sguardo, i corti capelli rossi gli avevano fatto pensare a un ragazzino, ma poi aveva notato i lineamenti delicati e soavi, le labbra carnose sotto un velo di rossetto, i caldi occhi azzurri sotto sopracciglia splendidamente disegnate, le orecchie graziose con gemme verdi ai lobi. Il suo sguardo aveva indugiato sul corpo di lei, invitante e voluttuoso nella morbida blusa nera e nei pantaloni aderenti, sempre neri, che mettevano in risalto un seno prosperoso e due magnifiche gambe. I loro sguardi si erano incrociati, restando avvinti. Nella maggior parte dei casi, due estranei si guardano per un attimo poi distolgono lo sguardo, in quel caso invece i due giovani si fissarono con un'intensità felina, magnetica. Quanti considerano la sensualità come una caratteristica primaria, tendono ad avere una naturale attrazione per chi è simile a loro, e quello fu proprio uno di quei momenti di reciproco riconoscimento: la chimica dei sensi che antici-
pa le parole, le presentazioni e i convenevoli sociali. Era l'ora del tramonto. L'azzurro del cielo si era tinto di un delicato lilla, che a sua volta digradava in una sfumatura viola, mentre l'oscurità iniziava ad avvolgere la luce. Erano soli per la prima volta da quando avevano lasciato il palazzo. Il lavoro di Clarity era finito, ma sembrava che la cosa non le importasse mentre ascoltava Saran parlare tranquillamente della sua avventura. Il ragazzo però aveva la testa da un'altra parte; i suoi occhi raccontavano una storia diversa, mentre indugiavano carezzevoli sul corpo di Clarity: un racconto che esprimeva chiaramente un desiderio. Era un corteggiamento giocato sugli sguardi, tanto che, quando lui ebbe finito di parlare, la sensazione d'intimità tra loro echeggiava nella mente di entrambi. Era il momento di abbandonarsi alla voluttà, e Saran si avvicinò alla ragazza. Il suo viso parve a Clarity una macchia fuggevole prima che le labbra di lui schiudessero le sue; gli si abbandonò tra le braccia, senza ritrarsi quando si fece più ardito accarezzandole il contorno del seno. Lei cominciò a gemere. Saran respirava avidamente la fragranza di quei capelli rossi, le cui ciocche scomposte scendevano sulla fronte. «Credo che...» ansimò Clarity. «Dovremmo...» continuò la frase Saran, carezzando la morbida cedevolezza del seno di lei attraverso la stoffa della blusa. Clarity concluse la frase con un sorriso invitante, il cui significato incoraggiava sguardi e carezze; poi fu più esplicita, usando la bocca, le mani e il seno impetuoso. Saran non si sentiva più pienamente padrone di se stesso mentre osservava Clarity spogliarsi. I suoi occhi si abbeveravano alla vista di un corpo le cui curve leggermente abbronzate sembravano risplendere di una radiosità spettrale, sotto le lame di luce che lo mettevano in evidenza. Le dita esperte della ragazza gli procuravano calde sensazioni; in breve tempo fu travolto dal desiderio e non riuscì a pensare ad altro. «E adesso...» gli giunse il sussurro appassionato di lei. Saran ebbe la sensazione che la testa gli girasse: ogni fantasia e pensiero erotico che avesse mai avuto erano distillati in un luogo psichico, ogni altro pensiero cancellato; e, quando il processo fu completo, si ritrovò in uno stato di pura voluttà. Osservò con meravigliato distacco le sue mani che abbracciavano l'inebriante bellezza dell'amante. Ci fu una sensazione improvvisa d'immersione, come se fosse penetrato dolcemente in un altro elemento; un'esperienza per certi versi analoga allo scivolare dall'aria calda
nell'acqua calda, ma gli elementi erano più densi e viscidi dell'aria e dell'acqua. In preda a un'incontenibile eccitazione all'interno di una galleria umida, con l'aria profumata che giungeva da qualche lontana grotta marina o scogliera tropicale, Saran si alzò in piedi, barcollando. Lungo la galleria, la luce perlacea proveniente da un'interminabile serie di lampade rischiarava l'umida oscurità rosata. Vide avvicinarsi con passo malfermo un fantasma, avvolto da una grande luce e con le braccia protese. Saran cominciò a ballare nel suo tenace e vischioso abbraccio; dapprima una danza lenta, affettuosa, ravvicinata, poi sempre più rapida e ritmica, che accentuava l'ondeggiare sincronico dei fianchi. La tenebra che regnava nella mente di Saran venne squarciata dallo sfavillio di mille fiori opalescenti, ed egli avvertì il remoto brontolio della risacca e il sentore intenso della salsedine. Il fantasma si trasformò all'improvviso tra le sue braccia in una figura evanescente, la luce dei lampadari guizzò vorticosamente; ed egli ritornò repentinamente nel regno della realtà, con una sensazione di piacere così intensa che sentì il corpo irradiare scintille neurali fin dentro la porosa consistenza del cervello. Riaprendo gli occhi, Saran vide un uccello dal vivido piumaggio rosso spiccare il volo dalla fronda più alta di un albero e librarsi verso il cielo. «Ti è piaciuto?» gli chiese Clarity, sollevando lo sguardo, o forse abbassandolo. All'apice dell'esperienza sensoriale, Saran aveva perso tutti i punti di riferimento, e ciò lo aveva lasciato in uno stato di stordito appagamento. Invece di rispondere, Saran annuì con un cenno del capo, ma anche quel gesto non sembrava adeguato, così fece una piccola smorfia che esprimeva un imbarazzato piacere. Dolcemente si allontanò da Clarity e la guardò stupefatto. Lei gli sorrise languidamente. «È stato un bel viaggio?» Saran annuì di nuovo, cercando i suoi occhi con uno sguardo pungente. «Diverso da qualsiasi altra cosa provata prima.» Guardò se stesso e l'ambiente circostante. «Io non... ero qui...» Lei sorrise di fronte al suo turbamento. «No, amore mio, eri altrove, nei territori rosa e violacei del tuo più profondo desiderio fallico, a esplorare le fantasie della tua libido. È stato bello?» Saran sogghignò lascivamente. «Dove sei stato?» s'informò Clarity. «In qualche grotta? Nelle profondità del mare? Intento a cuocere confetti rosa in un'angusta cucina sotterranea?
A lottare contro sirene dorate su una spiaggia bagnata?» Clarity fece un sorriso scaltro. «Tu sei una strega», disse Saran dubbioso. Clarity scoppiò in una risata. «È qualcosa che ho ereditato da mia madre. Lei considerava l'amplesso come l'antitesi dell'armonia dell'eccitazione; detestava la bramosia sensuale del sesso, la sua fisicità dirompente. Ma era una schiava ed era costretta a prostituirsi a causa della sua bellezza. Nel tempo riuscì a diventare un prodigio di autocontrollo, disprezzando la condotta sessuale del suo corpo a tal punto che la sua mente lo trascendeva, trasportandola in una dimensione più astratta, fatta di simboli e immagini in cui tutta la sua energia sessuale veniva investita ed espressa. In quel processo, una tangenza sinergica psicosessuale trasmetteva la stessa capacità nella mente dei suoi compagni, e con eguale intensità. Gli uomini che lasciavano il loro corpo partivano per viaggi metaforici creati da loro stessi: viaggi onirici eppure ectosomatici, infinitamente più vividi dei sogni comuni e arricchiti dall'estasi neurale prodotta dagli sforzi sessuali del loro corpo; culminavano sempre in orgasmi d'incomparabile intensità. «Per ironia, questa straordinaria tecnica di fuga dal piacere dei sensi fece diventare mia madre la prostituta più ricercata fra una selezionatissima clientela di uomini di alto rango, al punto che i suoi giorni trascorrevano in un meccanico vagabondare tra le cime falliche e le valli viola della sua immaginazione. Si dice che a trent'anni fosse ridotta a una sorta di automa. Elargiva il suo abbraccio con l'ottusa rassegnazione di un lemming in marcia verso una probabile morte in mare. Io sono l'unica figlia che ha avuto, venuta al mondo con un parto delirante che lei era convinta fosse uno straordinario amplesso; nell'esatto momento in cui lei dava l'ultimo respiro e io il primo, vidi il bianco miraggio della lampada dell'ostetrica: nacqui col 'dono' di mia madre che già ferveva in maniera rudimentale nel mio piccolo cervello.» La mente di Saran cercava di elaborare quel racconto fantastico mentre fissava su Clarity uno sguardo passionale. «La ripugnanza di tua madre per il sesso, comunque, non ti è stata trasmessa», le disse con aria interrogativa. «Al contrario, io sono una specie di edonista dei sensi», replicò Clarity. «Ho perfezionato nella mia mente un mondo fatto di esperienze metaforiche piene di città paradisiache, continenti esotici e climi di altri pianeti che superano l'immaginazione della più appassionata delle poetesse.» «Una domanda», disse Saran.
Clarity sorrise. «Parliamo ancora o facciamo di nuovo l'amore?» «Fare l'amore è così bello, vero?» gli disse appoggiando le labbra sulle sue. Più tardi, distesi nudi nella penombra, Saran le chiese come mai avesse cominciato a lavorare come fantesca da Longicorn. Intanto le ravviava le ciocche rosse. «Era un lavoro ben retribuito, e così l'ho accettato», rispose. «Avevo bisogno di lavorare, e le sue pessime maniere sembravano il prezzo da pagare per un buon salario. E inoltre potevo portarmi a casa tutto quello che volevo, ottimi cibi, vestiti smessi... non era affatto egoista con me, nonostante la sua rozzezza.» «A casa?» chiese Saran. «Vivi sola?» «Sì, più o meno un miglio da qui. Ti va di venirci adesso?» «Una tempesta nel deserto solleverebbe della sabbia?» fu la risposta retorica. Clarity lo baciò. Mentre camminavano mano nella mano, lei gli chiese dove l'avrebbe portato il suo vagabondare. «Non c'è modo di saperlo», replicò lui. «La vita mi si spiega davanti come le pagine di un libro di avventure: un lungo romanzo, se tutto va bene in forma di tetralogia. Sono un cavaliere errante in un'odissea senza meta, il cui solo scopo è assaporare il viaggio.» «Che non va da nessuna parte», osservò Clarity. «E ovunque», chiosò Saran. «E se ti succedesse di diventare ricco? Allora che faresti?» «In quel caso mi costruirei un palazzo e metterei radici.» «Ah...» «E poi io... sono stato ricco.» «Davvero?» «Sì, e ho perso tutto subito. Ma questa è un'altra storia.» «E adesso?» chiese Clarity. «Cercherai un lavoro? Io dovrò farlo: non ho molto da parte.» «Lavorare...» disse Saran, scoraggiato. «Be', ho cinquantadue maxime. Pare che dovrò farlo anch'io, tra non molto.» «Prima, però, perché non ci regaliamo un carnevale d'amore di due o tre giorni?» propose Clarity con un caldo sguardo. «Oh, sì, certo», disse Saran stringendole la mano e accelerando l'andatu-
ra. Dalla boscaglia chiazzata dal sole, uscirono sulla cresta di una collina da cui si vedeva la casetta di Clarity, in una radura fiorita circondata da alberi ombrosi, poche centinaia di metri più avanti. Il villino di Clarity era destinato a diventare un'isola di calore, piacere e comodità nel mare tempestoso della vita di Saran. Fatto a forma di tartufo al cioccolato, era piccolo ma sistemato con uno stile e un senso dello spazio che facevano sembrare le tre stanze tutt'altro che anguste. Le pareti scure della stanza principale creavano appunto l'idea del cioccolato; un'impressione rafforzata dalle folte pelli non conciate di volpe e di orso che coprivano il pavimento e da un voluttuoso divanetto marrone scuro pieno di cuscini color pelle e oro antico. La camera da letto aveva l'aspetto di un rifugio dalle tonalità porpora, con le pareti coperte di damaschi dello stesso colore volti a ricreare l'effetto dell'interno di una tenda. Il letto era uno sfarzoso rialzo contro una delle pareti, avvolto in un drappeggio di seta color prugna, di modo che chi vi si stendeva aveva la sensazione di essere doppiamente avvolto in un abbraccio sensuale. Tutt'attorno erano sparsi oggetti eleganti e ricercati: un cavalluccio da giostra vividamente dipinto in oro, uno sfarzoso cassettone in mogano scuro che poggiava su gambe a foggia di zampe d'animale e i cui cassetti traboccavano di biancheria color pastello in seta, raso e velluto. Sul mobile era poggiato un palazzo in miniatura, meravigliosamente preciso nei dettagli, sotto il cui tetto era riposto un vasto assortimento di profumi e cosmetici. La cucina era minuscola; in ogni scaffale e cassetto c'erano libri di ricette e utensili vari, ma anche in quella stanza si notava una particolare sensibilità decorativa. I recipienti e i vasetti erano esotici e originali, mai insignificanti; quadri e soprammobili mettevano in secondo piano l'aspetto funzionale della stanza: c'erano leoni dorati che fungevano da fermalibri per i volumi di ricette, sontuosi bouquet di fiori in vasi colorati e, sulle pareti, quadri raffiguranti gatti neri. Direttamente fuori della cucina c'era un piccolo cortile delimitato da un folto boschetto, con un tavolo posto ai piedi di una grande conifera i cui rami a ombrello offrivano un sicuro riparo anche in caso di scrosci violenti. I primi giorni insieme per Saran e Clarity furono un vero idillio dei sensi. La mattina era occupata da lunghe camminate nei boschi vicini, talvolta interrotte da improvvise effusioni sul soffice manto erboso. Il pomeriggio e la sera venivano dedicati alla lettura, al gioco, alla conversazione e all'amore fisico, intensificato a dismisura da scambi di ruolo e recite scherzose. La fiamma della reciproca passione saliva altissima, bruciava a lungo e intensamente, lasciandoli ogni volta esausti ma felici sulla scia della vam-
pata carnale. Durante quel periodo Saran si trasformò in una sorta di villeggiante temporaneo di quei posti voluttuosi e incantatori: ampie e assolate distese verdeggianti che d'improvviso venivano inondate da pioggia limpida come cristallo; grotte subacquee brulicanti di attinie e di lente creature marine iridescenti, dove l'acqua era tiepida come il vento della savana; profonde caverne dalle lucide pareti color malva, soffici come muschio, in fondo alle quali sorgenti salate scorrevano sino a formare pozze termali piene di pesciolini dorati che brillavano come luci a incandescenza; cucine di buongustai dove avvenivano epiche battaglie culinarie a colpi di monumentali timballi, zuppe e dolci riccamente decorati. Per tutta la durata di tali viaggi, non veniva mai a mancare un'impalpabile sensazione di godimento fisico, un piacere profondo che si trasformava in esaltazione pura e in una sconvolgente celebrazione di nervi, sangue e carne. Quel tipo di vita sembrava non soggetto ai limiti di tempo, ma il tempo incominciò a porsi come un problema rilevante quando i due amanti compresero che il denaro era una necessità. A giorni alterni Clarity andava da Zeisler's Ramps per acquistare cibi particolari e sofisticati, e improvvisamente si ritrovarono con le finanze di entrambi pressoché esaurite. Saran dovette riflettere anche su un'altra questione seccante. Si era sempre considerato un rubacuori, non per vanità, ma per motivi estetici. Le donne erano sempre state il primo dei suoi piaceri, perché la loro bellezza ed eleganza, non meno della loro psicologia così singolare, lo affascinavano e lo eccitavano. Era un corteggiatore scaltro e abile fin dalla giovinezza, e si era dedicato a baldorie amorose con decine di donne. Conosceva l'ossessione monomaniacale del vero amore e il dolore disperato dell'innamorato non corrisposto, così come l'effimero sfogo sensuale e l'istintiva depravazione di un momento. Tuttavia, la fine di una relazione non lo aveva mai lasciato irrimediabilmente ferito e inguaribilmente amareggiato come accadeva ad altri; al mondo c'erano così tante donne meravigliose che, anche quando era davvero innamorato di una, continuava con eccitazione a fantasticare sulle altre possibili conquiste. E provava desiderio per ogni sorta di amore: voleva la puttana e la verginella, la madre e la figlia, la gran dama e la servetta. Non era possibile che il suo interesse venisse definitivamente e invariabilmente monopolizzato da un'unica donna, fosse anche la più bella e la più affascinante, perché c'era una tale varietà di bellezze, caratteri, attitudini sessuali cui prestare attenzione. Saran considerava i monogami tenaci
e risoluti, che rifiutavano persino di notare la bellezza di altre donne, alla stregua di chi passeggiasse in un meraviglioso giardino tropicale con un mazzolino di violette in mano, senza mostrare il minimo interesse per orchidee, garofani, caprifogli, margherite e campanelle che lo circondavano: un vero e proprio affronto alla bellezza. E così, pur ammaliato da Clarity, il cui talento erotico era assolutamente unico, ricominciò a pensare ad altre donne, all'infinita varietà di attrattive rese possibili dai diversi visi, dai diversi corpi e inclinazioni naturali. Oltretutto Saran sapeva che, da sensualista dichiarata qual era, anche Clarity, entro certi limiti, la pensava come lui; presto o tardi lei avrebbe mostrato un rimpianto per la poliandria che avrebbe fatto il paio con l'irrequietezza che lui provava. Tuttavia era incerto sulla linea di condotta da seguire. L'idillio era alla fine; la questione denaro cominciava a farsi pressante e la necessità di trovarsi un lavoro, molto probabilmente umile o a giornata, lo metteva di malumore. Però sapeva pure che ci sarebbero potuti essere molti altri giorni piacevoli, o addirittura settimane, da trascorrere con Clarity, e la situazione attuale era estremamente conveniente. Che fare? Con tali pensieri, Saran passeggiava nel bosco. Si trovava così bene nel villino di Clarity che non l'aveva mai nemmeno accompagnata da Zeisler's Ramps, sebbene non si potesse certo dire di lui che fosse un tipo sedentario, visto che i suoi sforzi erotici continuavano a essere sfibranti. In ogni caso, a Saran non piaceva quell'avversione a spostarsi che si era insinuata in lui. Che fare? Il richiamo di Clarity era forte, e partirsene con solo poche maxime sarebbe stato come darsi la proverbiale zappa sui piedi. Ma il lavoro e la routine quotidiana non minavano il vero significato di un idillio? In quelle circostanze, in pratica sarebbe diventato un marito. Mentre lanciava sassi sulla superficie di un laghetto e imprecava sottovoce e con aria indolente, non poteva immaginare che Clarity, sulla via di casa con un cesto di frutta e dolcetti fritti, avrebbe portato anche una soluzione al loro problema comune. Più tardi quello stesso pomeriggio, svuotando il cesto di frutta, l'attenzione di Saran venne catturata dall'immagine di una sirena dal seno enorme stampata sulla pagina del giornale che foderava il contenitore. L'afferrò, e lesse il proclama scritto a caratteri cubitali a fianco dell'illustrazione: VOLUPTUA VERRÀ IN OGNI PARTE DELLA PROVINCIA DI SHADEL PER RIEMPIRE LA TUA TAZZA DI CIOCCOLATA BOLLENTE. 14 Meadowhawk Lane, Melander.
«Ma cos'è?» esclamò Saran, lisciando il pezzo di carta spiegazzato. Era un giornale di quattro pagine, in ciascuna delle quali campeggiavano vistosi annunci accompagnati da immagini di donne e uomini più o meno svestiti e in atteggiamento provocante. «È lo Spectator», spiegò Clarity guardando sopra la sua spalla. «Non l'avevi mai visto?» «Lo Spectator?» «Sì. La gazzetta degli edonisti», sorrise Clarity. Si avvicinò a Saran e si mise a osservare l'illustrazione di una donna in abito da sera nero con una scollatura molto profonda che rivelava un girocollo tatuato: vi era raffigurata una serie di cuori trafitti da frecce, gocciolanti sangue. «La maggior parte degli annunci riguarda il sesso transazionale», disse Clarity, che aggiunse: «Non certo la scelta del mio cuore... ma comunque...» Sorrise. «Il cuore non è l'arbitro di tutte le esperienze sessuali. Anch'io ho avuto, ovviamente, qualche esperienza di quel tipo.» Saran le rivolse un'occhiata interrogativa. «È stato molto... interessante», affermò Clarity mentre metteva i dolcetti nella dispensa. «Un corso di perversione.» Saran prese il giornale e andò a distendersi sul letto color porpora. Le pagine erano fitte di annunci di tutte le dimensioni: prostitute, libertini, pornografi, modelle... A un certo punto, tra i seni ostentati e le natiche prominenti di due donne disinibite che richiamavano l'attenzione sul Salone di Epicuro e sul Club della Meditazione Orizzontale, scoprì una piccola inserzione, sobria e poco appariscente, che diceva: COMPENSO IN CONTANTI PER INFORMAZIONI SU STRAVAGANZE SESSUALI REALI E VERIFICABILI. SI GARANTISCE LA DISCREZIONE. Dr. Hindermull, 42 Monopolis. Ogni rotella e ingranaggio del cervello di Saran si misero immediatamente in moto. «Guarda questo», disse a Clarity. Lei gli si accostò, e lesse. «Che ne pensi?» chiese Saran. Mentre rifletteva, Clarity fece una piccola smorfia, un suo atteggiamento tipico e in qualche modo provocante. «Non saprei», rispose. «Sembra essenziale e accademico. Immagino voglia incuriosire.» «Compenso in contanti», disse pensieroso Saran. «Potrebbe anche essere l'annuncio di uno di quei pervertiti contemplativi che amano solo farsi raccontare», rise Clarity. Saran aggrottò le sopracciglia.
«O qualcuno troppo timoroso e circospetto per osare un approccio audace prima dell'incontro.» «Compenso in contanti», ripeté Saran con un'occhiata maliziosa, alla quale Clarity rispose con uno sguardo pensieroso. «Vuoi rispondergli?» chiese. Saran alzò le spalle. «Contanti, Clarity. Dimmi cosa ne pensi tu.» Lei valutò un attimo la cosa, poi annuì. «Sì, certo», affermò decisa. «Potremmo guadagnarci anche qualcosa d'interessante, oltre ai soldi, no?» Piegò la testa all'indietro con sensualità, e le labbra le s'incurvarono in un sorriso provocante. Monopolis era un gruppo di così poche case e negozi da non poter essere definito un paese, a circa tre miglia da Zeisler's Ramps. Il mattino dopo, Saran e Clarity si mossero per scoprire dove abitasse il dottor Hindermull e indagare sui suoi interessi. Saran indossava un'ampia camicia rosa e pantaloni grigi che Clarity gli aveva dato dopo averli lavati per l'occasione; lui sospettava che fossero appartenuti a qualche vecchio convivente della ragazza ma non fece domande. Clarity aveva un'ampia fascetta color lavanda per capelli, un vestitino corto in raso messo in risalto da una serie di anelli di stoffa nera che le cingevano le spalle nude, una moltitudine di braccialetti d'oro e d'argento, e scarpette nere senza tacco. In una borsa aveva un paio di stivali di velluto nero con tacchi a spillo, che aveva intenzione d'indossare una volta giunti a destinazione. La giornata era mite, addolcita dal canto degli uccelli e da una tiepida brezza; verso mezzogiorno arrivarono in cima a una collina da cui si dominava Monopolis. Il centro del villaggio consisteva in niente più che una locanda, una stalla, un chiosco di ortaggi e un negozio di candele e curiosità. In uno spiazzo poco più avanti c'erano tre case, coi numeri civici 12, 22 e 32. Dopo avere controllato l'indirizzo, Saran e Clarity videro, al di là di un piccolo ruscello che correva su un declivio boscoso, un'imponente casa in pietra con finestre di vetro colorato che scintillavano al sole. Clarity cambiò le scarpe e si avvicinarono alla casa, che aveva il numero 42. Sull'enorme porta d'ingresso, un battente di bronzo dall'esplicita forma di fallo li fece scambiare un sorriso divertito. «A te l'onore», disse sorridendo Saran. Mentre Clarity sollevava l'insolito battente percuotendo per tre volte la porta, lui, in vena di allegra trivialità, le assestava dei colpetti a una natica con l'indice. La porta venne aperta da un uomo alto, il viso allungato dominato da un grosso naso e un sorriso suadente. Gli occhi brillavano dietro lenti ottago-
nali; aveva i capelli grigi, ma i lineamenti e il fisico erano giovanili. «Salve», disse con una voce calda e profonda. «Il dottor Hindermull?» chiese Clarity. «In persona.» «Salve.» Saran allungò la mano. «Io sono Saran e questa è la mia amica Clarity. Abbiamo visto il suo annuncio sullo Spectator.» Hindermull rivolse a Clarity un'occhiata di aperto apprezzamento. «Davvero? Prego, entrate.» Prese Clarity per mano e si spostò di lato per lasciarla passare, invitando Saran a seguirli. «Clarity, vero?» disse con tono cordiale, facendo strada lungo un corridoio che conduceva in un ampio salone elegante e ordinato, le cui pareti erano stipate di libri e impreziosite da dipinti raffiguranti orge pagane e schizzi espressionisti di figure ritratte mentre si accoppiavano. «Prego, volete accomodarvi qui?» li invitò suadente Hindermull, indicando un divanetto molto basso e sedendosi di fronte a loro in una poltrona di pelle. «Sono ansioso di sentire cos'avete da dirmi», esordì con entusiasmo; i suoi occhi erano fissi su Clarity, cosa che provocò un fugace sorriso sardonico da parte di Saran. «Devo assolutamente dire, mia cara, che sei proprio una donna molto, molto attraente», riprese Hindermull, riempiendo la pausa che si era creata con un ampio sorriso. Attraente, ripeté fra sé Saran. Aveva notato come le dita dell'uomo fossero saltate impazienti sui braccioli della poltrona nel momento in cui Clarity gli aveva rivolto una delle sue ammiccanti occhiate. «Posso offrirvi qualcosa da bere?» chiese affabile Hindermull, lo sguardo permanentemente concentrato su Clarity. Mentre entrambi stavano ancora pensando se accettare l'offerta, l'uomo esclamò: «Ho giusto quello che ci vuole. Avete mai provato un Rumpled Sunrise?» Non ci fu risposta. «Bene!» sbottò il padrone di casa. «Consentitemi, allora. Vogliate scusarmi solo un momento.» Si alzò e uscì dalla stanza, lasciando i due ragazzi a guardarsi negli occhi. «Che persona gentile», commentò Clarity. «Direi che la sua gentilezza va in un'unica direzione», replicò Saran. «Geloso, geloso», cantilenò Clarity con un sorriso sfottente. «È stata una tua idea, no?» Saran sospirò.
Hindermull rientrò nella stanza con un tale impeto che sembrava avesse ricevuto una spinta. Portava due grandi calici di cristallo pieni di una densa bevanda rosso-arancio, che porse prima a Clarity e poi a Saran. Quindi tornò sulla poltrona di pelle, accavallò le gambe, fece un gran sorriso e disse: «Così avete visto il mio annuncio!» Saran stava per rispondere quando intervenne Clarity. «Sì, dottor Hindermull. Io custodisco un'anomalia sessuale di proporzioni del tutto particolari.» «Per favore, chiamami Tomathy», disse il dottor Hindermull con un gesto noncurante e un sorriso ancora più largo. Per un attimo Saran si sentì a disagio. «Tomathy», ripeté Clarity, assaporando quel nome. Hindermull si sporse dalla poltrona di pelle verso la ragazza. «Lascia che ti parli un po' di me, mia cara. Io sono il dottor Tomathy Hindermull, sensologista, fino a poco tempo fa impegnato presso la Favolosa Clinica di Hampton's Lap, dove sovrintendevo allo studio sull'erubescenza sessuale, di prossima pubblicazione dalla casa editrice Eyeball. La mia branca di specializzazione sono le sensazioni sessuali e attualmente sono impegnato nella stesura di quella che sarà la mia opera definitiva, dal titolo Principia Sexualia, che è il motivo della mia curiosità e della pubblicazione dell'annuncio.» «Di cosa tratta il libro?» chiese Saran. Hindermull gli lanciò un'occhiata distratta. «Il tema è molto vasto, come indica il titolo. Spero di riuscire a catalogare tutti i comportamenti sessuali anomali, misteriosi, poco diffusi, o che in qualche modo si distanziano da quella che è generalmente riconosciuta come normalità comportamentale. Alla base della mia teoria vi è la supposizione che esista un universo sessuale parallelo a quello che tutti noi conosciamo e di cui generalmente si parla, ma che una sorta di congiura del silenzio, alimentata da proibizioni morali, ci abbia finora impedito di percepirne e comprenderne la meravigliosa portata e l'ampiezza estetica. Nel corso delle mie indagini scientifiche mi è capitato d'intravedere quel mondo, che io reputo stia a quello di cui siamo consapevoli come il volo dell'aquila sta ai bruschi strattoni di un aquilone legato a terra. Voglio che si conosca la verità. Là dove la verità rimane nascosta, la vita è ipocrisia. Ovviamente per il sesso sfrenato è necessario eliminare la vergogna. In genere, la dicotomia fra sensi e ragione caratterizza il comportamento delle persone, che tendono a vivere esistenze separate sopra e sotto la cintura. Io inneggio al giorno in cui alla nostra
dimensione cerebrale e a quella che fa capo agli organi genitali sarà consentito di raggiungere uno stato simbiotico nello schema delle cose; allora i moti del mio basso ventre non verranno valutati meno dell'attività del mio cervello, e queste parti di me potranno agire insieme per costruire un'estetica psicosessuale finalizzata ai più intensi piaceri che entrambe sono in grado di offrire.» Finito di parlare, Hindermull si riappoggiò allo schienale, gli occhi scintillanti. «È di questo che mi occupo», aggiunse con ardore, grattandosi meccanicamente una coscia. «E così ho scoperto abitudini, virtuosismi e stravaganze sessuali che vi farebbero venire la pelle d'oca!» Aveva un sorriso misterioso, tentatore. Saran era affascinato e vide che Clarity aveva un'espressione rapita. Assaggiò la bevanda color arancio e la trovò squisita. «Tomathy, penso di poterti dare un capitolo speciale per il tuo tomo», disse Clarity con voce roca e sensuale. Hindermull sorrise. «Qualcosa di speciale?» «Si è parlato di un compenso», intervenne Saran, non mancando di notare che gli occhi di Clarity erano fissi in quelli dell'uomo più anziano, che continuava a sorriderle con aria tranquilla. Saran cominciò a percepire l'inevitabile. «Il compenso è proporzionato alla sapienza trasmessa», replicò Hindermull dopo un istante. «Mia cara, qual è la sapienza che intendi trasmettermi?» Dopo un calcolato silenzio, Clarity guardò Saran e rivelò: «Si tratta di un'esperienza empirica. A dire il vero, Tomathy, la si può scoprire solamente facendo l'amore con me». Saran trasalì. «Per i miei rossori!» esclamò Hindermull con un tono acuto. Continuò a grattarsi la coscia. Osservò Saran, o meglio, lo attraversò con lo sguardo, poi fissò di nuovo Clarity. «Mia cara, il mio corpo e la mia mente sono aperti a ogni tua rivelazione», disse con voce calda e suadente. «Allora possiamo ritirarci nel tuo laboratorio senza ulteriore imbarazzo?» chiese Clarity rivolgendo a Saran uno sguardo compiaciuto. Hindermull fissò Saran fiducioso. Il ragazzo gonfiò le guance in uno sbuffo, si alzò e attraversò la stanza dicendo, quasi a se stesso: «Credo che andrò a farmi un giretto». Rivolse a Clarity un'occhiata di biasimo, cui lei rispose annuendo. Hindermull stava per alzarsi, ma Saran gli fece ostentatamente segno di non incomodarsi. «Trovo la strada da solo», disse.
Pochi istanti dopo, poco prima di chiudersi la porta alle spalle, udì un tonfo provenire dal salone, subito seguito dalla risata di Clarity. Saran vagabondò di malavoglia lungo la cresta della collina. Provava una punta di nausea. Gelosia? Sospirò. Sapeva benissimo che Clarity era una sensualista. Che stesse diventando possessivo? Ammise con se stesso che il fatto che Clarity gradisse Hindermull come amante lo infastidiva. Ah, le donne! E gli uomini! Si fermò alla locanda e ordinò un sorbetto alla malva; lo mangiò con grande serietà, soffermandosi rabbioso a riflettere su cosa gli ricordava il colore del dolce. Tre ore più tardi fece ritorno a casa di Hindermull. Afferrò il battente a forma di fallo con fastidio, e dovette attendere impazientemente diversi minuti prima che la porta si aprisse. Gli comparve davanti Clarity, scarmigliata e con un'espressione languida. Nascondeva la propria nudità con un grande asciugamano beige, e sulle prime parve non riconoscerlo. «E allora?» le chiese. Clarity si morse il labbro inferiore, pensosa. «Saran, tesoro, questa indagine è molto impegnativa. Hindermull è rimasto colpito. Mi serve tempo. Potresti prendere una stanza al villaggio e tornare, diciamo, domani a mezzogiorno?» Saran le lanciò un'occhiata furiosa. «Una stanza? Cosa stai facendo? Stai almeno parlando di soldi, lì dentro?» Inaspettatamente, Clarity lo abbracciò e lo baciò con passione. «Amore mio, sii contento del mio piacere», gli disse. «Trattieni le tue emozioni. Aspetta un attimo!» Prima che lui potesse replicare, Clarity se n'era già andata, lasciandolo in piedi davanti alla porta; un attimo dopo era di ritorno, per mettergli in mano senza spiegazioni dieci maxime. Prima che lui, vividamente arrossito, riuscisse a dire qualcosa, la ragazza si richiuse la porta alle spalle. Saran se ne stette impalato a osservare un granellino di polvere che gli volteggiava davanti agli occhi, un'intensa fragranza sensuale che l'avvolgeva, come un'onda nella scia di un'imbarcazione veloce. Non sapendo che fare, Saran decise di fermarsi a bere nella locanda per tutto il pomeriggio e fino a oltre il calare della sera; sedette per conto suo a un tavolo, ascoltando senza nessun interesse le discussioni della clientela abituale riguardo alle piccole faccende quotidiane della vita di campagna. Era una serata calda e, per risparmiare, Saran dormì al riparo di ombrosi alberi di fico. Al mattino ritornò alla locanda per prendere una focaccia
calda, e verso le undici era di nuovo davanti alla porta di Hindermull. Venne ad aprirgli Clarity con indosso un pigiama in due pezzi rosa e avorio di satin ornato di pizzi, che rifulgeva come il ghiaccio nel pallido sole. Pareva sconvolta. «Entra, Saran», disse. La seguì nel salone, e lei gli si sedette di fronte. Seppe subito di cosa si trattava, gli bastò guardarla, e cercò di farsi forza al meglio. I loro occhi s'incrociarono. «Ho accettato un lavoro», gli disse. «Un lavoro?» «Sarò l'assistente di Hindermull.» Saran fece una smorfia, distogliendo lo sguardo. «Per favore, no, non fare così», riprese Clarity. «È stato fantastico insieme, ma le cose cambiano.» «Non puoi pestare due volte la stessa buccia di banana», replicò Saran. «Così disse l'antico filosofo.» La sua espressione s'indurì. «Suppongo che Hindermull sia un amante da favola.» «Vuoi davvero saperlo?» Saran non rispose. «Non è privo di una certa abilità.» «E com'è possibile?» «È il depositario di una sapienza criptica», spiegò Clarity in tono sottilmente allusivo. Saran si sentiva innegabilmente malissimo, ma non voleva manifestare un'amarezza che potesse guastargli il ricordo di Clarity. L'amava davvero, in quel momento ne ebbe la certezza. «Vorrei che avessi tu il denaro, dato che è stata una tua idea.» «Non ha importanza», replicò lui. «Cento maxime, tesoro.» Usava quel termine in modo impertinente, tuttavia si percepiva vero e profondo affetto; Saran si accorse che una lacrima aveva incominciato a scenderle lungo la guancia. Secrezione insolita per lei, si trovò a pensare, e provò rabbia per l'amarezza della situazione; sentì che anche i suoi occhi si erano inondati di lacrime. «Ti amo», disse con voce soffocata. Lei lo abbracciò, e nella magnificenza del più eccitante bacio che il ragazzo avesse mai provato in vita sua, gli mise in mano il denaro. «Amore, amore», gli ripeté quasi dentro la bocca, e poi per qualche attimo i baci si mischiarono alle lacrime, fino a che Saran non si staccò e corse via. Nello splendore del giorno si sentì impadronire da una terribile euforia,
raccolse un sasso e lo lanciò contro il sole con un grido di gioia e dolore insieme. Si mise a saltare e fare piroette, mentre le lacrime continuavano a scendere. Poi, quando ebbe smesso di piangere, andò per la sua strada, quale che fosse; non aveva importanza. Non aveva nessuna importanza, perché si sentiva vivo, selvaggiamente vivo. Diann Partridge UN DESTINO PEGGIORE DELLA MORTE Diann Partridge è una delle «mie» scrittrici sin da quando la mia unica attività editoriale riguardava le fanzine. Mi ha inviato una sua biografia per ricordarmi che è sul punto di girare la boa dei quarant'anni; ti sorprenderebbe sapere, Diann, quanto giovane sembra qualcuno di quell'età quando si è all'estremità più lontana dei sessanta. È solo una questione di prospettive. Io ero convintissima che a cinquant'anni si fosse vecchi, adesso mi sembra un'età da giovincelli. D'altra parte, conosco una signora che sosteneva di non credere nel concetto di vecchiaia e di aver cominciato a contare all'indietro quando aveva quarant'anni; ormai credo abbia finito i numeri e sia ricorsa a quelli negativi. Quanto a me, sono solita dire: «Io non sto invecchiando, sto migliorando». Se l'età migliora il vino e i violini, perché non dovrebbe farlo con le donne? A volte pregusto con piacere il momento in cui avrò novant'anni. Diann mi racconta che il più grande dei suoi figli adolescenti è andato a vivere da solo lo scorso gennaio; a casa le restano un altro teenager e un terzo figlio un po' più giovane. Non sembra strano anche a voi che un ragazzino che dovrebbe andarsene ancora in giro gattonando guidi già la macchina o magari stia per sposarsi? Fanno parte della famiglia di Diann un segugio e due gatti, Harriet e Winston; Vane e Churchill, suppongo. È appena stata licenziata dall'impiego di cuoca e ha ingaggiato la sua piccola battaglia contro la disoccupazione. Vive tuttora in Wyoming. I suoi racconti appaiono in numerosissime mie fanzine «dei bei vecchi tempi», e in molte delle mie antologie. Non fa menzione di aver venduto qualcosa ad altri, ma il mancato profitto di altri editor è il mio guadagno. La folla del giorno di mercato si stringeva ondeggiando attorno ai cava-
lieri che cercavano di farsi strada in quella calca rumorosa. Due donne, impolverate e dall'aria stanca, conducevano due cavalli sul cui dorso erano ammassate pelli non conciate. Un'imponente cagna cacciatrice di leoni camminava faticosamente accanto a loro; alla schiena portava legata la soma, con tre cuccioli per lato. Ringhiava a chiunque le si avvicinasse troppo, e persino i cuccioli scattavano infastiditi contro dita che si facessero troppo curiose. Il gruppetto svoltò in una strada laterale per varcare la soglia della stalla di un'ampia locanda. Una frotta di ragazzini sopraggiunse correndo per prendersi cura dei cavalli, ma le due donne li fecero allontanare a gesti, lanciando una manciata di monete che quelli si affrettarono a raccogliere. Alloggiarono loro stesse i cavalli nella stalla. La cagna coi cuccioli venne sistemata in una delle poste, con un ampio giaciglio di paglia. La bestia si accasciò con un sospiro rumoroso, e i cuccioli si precipitarono a sfregare il muso sui capezzoli gonfi, con guaiti e uggiolii di gioia. Il garzone di stalla arrivò con un osso ancora guarnito d'una buona porzione di carne, e gli fu concesso il privilegio di porgerlo alla cagna con le sue mani. Le due donne lasciarono la loro consistente dotazione di armi dentro la stalla, insieme con le selle e le pelli. «Dove diavolo siete state?» strillò Amos come fecero il loro ingresso dalla porta laterale dell'osteria annessa alla locanda. Quando anche gli altri clienti le riconobbero, risuonò un poderoso «Salve!» Il piccolo e ossuto barista appoggiò con forza sul bancone un boccale e un bicchiere, e prese a riempirli fino all'orlo. «Britta ha figliato con l'ultima luna. La faccenda ci ha bloccato per una settimana, e poi il dover fare attenzione ai cuccioli, oltre che alle pelli, ci ha rallentato di parecchio», rispose Cozrina, la più alta delle due. La compagna più minuta ingollò il bicchiere di vino in un colpo solo. «Diavolo, era davvero ora che vi faceste vedere. Quanti cuccioli stavolta?» «Sei.» Cozrina buttò giù l'intero boccale in una lunga sorsata, fece un profondo sospiro e si pulì le labbra della schiuma. «Buona cosa. Ho una lista di gente che vuole portarsi via quei cuccioli più lunga del randello che mi porto a spasso nei pantaloni.» Jet, la compagna di Cozrina, sbuffò con ostentazione e fece segno che le si riempisse ancora il bicchiere. «Ho paura che, se la lista non è un po' più lunga di quanto dici, ne tiriamo fuori pochi di quattrini.» La stanza echeggiò di un boato di risate, compresa quella del barista, che
riempì nuovamente boccale e bicchiere. Poi le due trovarono un angolino libero e si sedettero. Jet si era tolta gli abiti da caccia e adesso era coperta da niente più che una fascia che le stringeva il seno, pantaloni larghi che arrivavano all'altezza delle ginocchia e sandali a lacci. Sebbene i capelli fossero tagliati corti, le incorniciavano lo stesso la testa in un'aureola di riccioli d'oro; perfino sotto lo strato di polvere rigata di sudore e cicatrici, era impossibile non notare la sua bellezza. Anche Cozrina era bella, ma in modo più appariscente. Era più alta della maggior parte degli uomini presenti nella sala; robusta e prosperosa, i muscoli delle spalle spiccavano sotto l'attillata camicetta di seta. Portava i lunghi capelli neri in trecce raccolte attorno alla testa e indossava pantaloni di morbida pelle sottile, infilati negli stivali di pelle di leone. Avevano appena finito di vuotare i bicchieri che Tulda, la moglie del barista, portò loro un piatto ricolmo d'un pasticcio di carne fumante insieme con una ciotola piena della sua famosa salsa piccante. Porse a ciascuna un asciugamano caldo e umido per pulire il viso e le mani. Cozrina si spostò per fare spazio a Tulda, che le si sedette accanto. «Sei cuccioli stavolta. Questa è fortuna! E anche le pelli! Le ho viste nella stalla, stupendo colore. Vi frutteranno una bella sommetta, e proprio quando si sposa Cer Durlina. Certo dovrete regalare una pelle a lei e allo sposo come dono di nozze, ma lo stesso, con quelle che rimangono, vi siete sistemate per un bel po'. Non avrete bisogno di andarvene dietro quei terribili leoni per un annetto o giù di lì.» Tulda continuò amabilmente a chiacchierare, riferendo gli ultimi pettegolezzi e lasciando che le due donne affamate continuassero a mangiare senza bisogno di risponderle. Alla terza volta che nominò il matrimonio di Cer Durlina, Cozrina si pulì la bocca e alzò la mano. «Intendi dire che Lord Durl ha finalmente trovato un marito per quella vecchia zitella di sua figlia?» «Non a voce così alta», l'ammonì Tulda. «Lord Caffra ha portato in paese un gruppo dei suoi uomini, e ce ne sono alcuni anche qui. Non vogliamo guai con la futura Lady e il Lord suo marito.» «Allora, chi ha conquistato l'onore di unire il proprio casato a quello di Cer Durlina?» Jet aveva posto la domanda in termini così forbiti ed eleganti che Cozrina sorrise. «È Sacon, il secondo figlio di Lord Caffra. E con un secondogenito non ci saranno discussioni su chi sia a comandare.» «Come se quella vacca dal cervello rattrappito abbia mai saputo chi è
che comanda», sogghignò Cozrina. Una grande ombra oscurò il loro tavolo. Cozrina dovette alzare lo sguardo più del normale per guardare l'omone dai capelli scuri che bloccava la luce del sole. «Sono Indonel, il primo ufficiale di Lord Sacon. Donna, voi dovete al mio Lord e alla sua eccellentissima prescelta delle scuse.» Tulda lanciò uno strillo di rabbia, e si alzò di scatto, dicendo: «Non potete battervi qui, e poi sapete bene che i duelli sono proibiti fino a dopo le nozze. Non voglio guai con nessuno di voi!» Era in piedi, coi pugni sui fianchi abbondanti, e lanciava occhiate furiose a Indonel e a Cozrina. «Non ci batteremo, Tulda, per cui stai pure calma. Vi porgo le mie scuse per le parole fuori luogo che ho pronunciato, primo ufficiale», replicò Cozrina in un tono che Jet sapeva non essere affatto di scuse ma che parve pacificare l'enorme individuo. «Sedetevi, vi offro un bicchiere del miglior vino di Amos.» La tensione si sciolse e parve abbandonare sia il primo ufficiale sia gli altri avventori. Con un gesto, Indonel mostrò di accettare l'offerta e si sedette a fatica accanto a Jet, la quale, sospinta verso il fondo del tavolo, lanciò un'occhiataccia a Cozrina; che la ricambiò con un sorriso innocente. Il primo ufficiale si era già scolato un bel numero di bicchieri della riserva speciale di Amos, e ben presto la cosa divenne una sfida tra lui e Cozrina per vedere chi riusciva a bere di più. Jet avrebbe voluto andarsene già da un po', ma era intrappolata al suo posto dalla stazza dell'uomo. Più birra e vino beveva, più Cozrina diventava affabile nei confronti del primo ufficiale; e lui non sembrava dispiacersene. Se un bicchiere tirava l'altro, così anche un racconto seguiva l'altro, e i toni si facevano sempre più violenti e agitati. Jet guardava rassegnata l'avvicinarsi dell'inevitabile conclusione. Tutte le armi, compresi i coltelli da tasca, erano state bandite fino a dopo lo sposalizio, perciò non ci volle molto perché la sua compagna sfidasse il colosso all'unica cosa rimasta disponibile: braccio di ferro. Jet sospirò e scosse la testa. Gli altri clienti non avevano aspettato altro per tutto quel tempo, e già le scommesse fioccavano a ogni tavolo. La mano di Cozrina era grande e massiccia almeno quanto quella del primo ufficiale. La stretta iniziale fece sobbalzare tutti. Grugnirono e sbuffarono entrambi quando il dorso della mano dell'uno, prima, e quello dell'altra, poi, arrivarono a sfiorare il tavolo. Dopo un minuto la sfida pareva equilibrata, e le puntate cambiavano in continuazione. Il sudore inondava il viso di Cozrina, che sbatteva spesso
gli occhi per vedere meglio. Il primo ufficiale incrociò il suo sguardo e sorrise. Emise un grugnito più forte e, con un gesto lento, riuscì a schiacciare la mano di Cozrina sul tavolo. I muscoli della donna guizzarono lungo il braccio mentre tentava di resistere; con un flebile crepitio, la camicetta le si strappò sulla schiena. «Vince il primo ufficiale!» urlò Amos. «E lo sconfitto paga da bere a tutti!» Un coro di «evviva» esplose prima che Cozrina potesse protestare. Accettò con grazia, e lanciò ad Amos un paio di monete. L'uomo le afferrò al volo e si precipitò dietro il bancone. Lo sguardo di Indonel era fisso sulle spalle di Cozrina. Sotto la camicetta strappata erano ben visibili due coppie di sporgenti cicatrici parallele. Incrociando i suoi occhi, lei s'irrigidì, in attesa di quanto avrebbe detto. «Solo un'altra volta in vita mia ho visto cicatrici simili, e il tipo su cui le ho viste era cadavere.» «Già, le cicatrici dei Tumaleon: sono stata loro prigioniera per quasi quattro anni. Mi avevano dato tutti per morta da un pezzo.» «Ho sentito dire che nessuno sopravvive alla loro prigione.» «Nessun uomo. Ma una donna, se è forte abbastanza nel fisico e riesce a trattenere l'odio abbastanza a lungo, può farcela. Io almeno ce l'ho fatta. Ora do la caccia ai Tumaleon per la loro pelle. È molto remunerativo.» C'era amarezza nella voce di Cozrina. Sotto il tavolo, il sandalo di Jet le sfiorò la gamba. «Mi piacerebbe ascoltare la vostra storia, signora, sempre che voi vogliate incomodarvi a raccontarmela. Al piano di sopra ho una stanza, dove si può stare più tranquilli.» Cozrina lanciò un'occhiata a Jet, che fece spallucce e sorrise. Afferrata una delle bottiglie di Tulda, che passava trotterellando di li, Cozrina replicò: «Amico mio, è una storia molto lunga e che rischia di farci morire di sete, come l'arida terra dei Tumaleon. Meglio che ci portiamo appresso qualcosa con cui rinfrescarci la gola». Il primo ufficiale si alzò e aspettò che la donna facesse lo stesso. In piedi, lei era appena un paio di centimetri più bassa di lui. Cozrina riservò a Jet un sorriso d'intesa. Jet roteò i vividi occhi scuri e le segnalò che stava andando via. Non accadeva spesso che la sua compagna trovasse un uomo grande abbastanza da riuscire a soddisfarla; ma non provava invidia per la notte di piacere che l'amica si apprestava a trascorrere. Non le era affatto sfuggita l'occhiata che Cozrina le aveva lanciato pochi attimi prima che l'ufficiale le inchiodasse la mano sul tavolo. A volte bisogna perdere qual-
che battaglia, se si vuole vincere la guerra. Due giorni dopo, alla vigilia della luna piena, Cozrina e Jet scivolavano inosservate su una stradina a pochi isolati dalla taverna di Tulda. In giro non c'era nessuno, perché attorno al Castello di Lord Durl si festeggiava il matrimonio che si sarebbe tenuto il giorno successivo. Cozrina si fermò davanti a una grande porta di ferro decorata con l'insegna della Dea guerriera Cybreta: un pugno alzato con sopra un occhio. Dopo aver bussato con vigore, rimase in attesa del permesso di entrare. «Credimi, Jet, è lui. Era poco più che un ragazzo, ma questo Lord Sacon è lo stesso che ha venduto me e i miei fratelli ai Tumaleon. Ora è più vecchio, ma non dimenticherò mai quella faccia. Quando mi porteranno alla tomba, ce l'avrò ancora davanti agli occhi.» «Certo che ti credo, 'Rina, solo non capisco cosa ti aspetti di poter fare. Appartiene alla famiglia reale, per prima cosa, e domani sposerà la principessa della corona. È troppo protetto per riuscire ad assassinarlo. Ricordati cosa ha detto Indonel.» «Mi vendicherò, Jet. L'ho giurato sulle grida dei miei fratelli mentre venivano castrati prima di essere mandati a lavorare nelle cave. Ho passato quattro anni della mia vita in balia della loro lussuria, e porterò per sempre su di me le cicatrici che mi hanno lasciato. Invocherò vendetta a Cybreta, e verserò tutto il denaro che mi chiederà.» Pochi attimi dopo la porta si aprì silenziosamente e le due donne furono invitate a entrare da una figura velata. Non c'era dubbio che si trattasse di una donna, ma nulla di lei era visibile. «Conosci la Strada, sorella?» chiese con voce pacata. «Sì, sorella. Conosco la Strada», le rispose Cozrina protendendo l'avambraccio scoperto. La donna passò la punta di un dito sopra una serie di cicatrici che striavano la pelle. Fece un cenno con la mano, e Cozrina le scivolò accanto. Trovarono la strada nell'oscurità fino a una stanzetta laterale nell'edificio basso e lungo. Jet aspettò che Cozrina accendesse una candela, poi individuò un posto accanto al muro dove sedersi. La piccola stanza era spoglia eccetto che per l'altare di pietra. Cybreta non era la Dea cui era devota, ma rispettava la fede dell'amica. Cozrina s'inginocchiò davanti all'altare, avendo cura di accendere la carbonella posta in un piccolo braciere. Le fiamme guizzarono alte per qualche minuto, lasciando poi spazio ai bagliori dei tizzoni ardenti. Si levò la camicia e la striscia di stoffa che le fasciava il
seno, poi sciolse i lunghi capelli, scuotendo la testa all'indietro. Prese un catino di bronzo e un coltello sottile che si trovavano accanto al braciere. Sollevandoli, chinò la testa e cominciò a salmodiare. Jet riusciva a sentire l'energia del potere che si stava evocando. Cozrina iniziò a risplendere, circondata da una pallida aura rosata, che tremolava e andava scemando alla luce della candela, per poi assestarsi sul ritmo regolare del battito del suo cuore. Poggiato il catino sui carboni, si fece una piccola incisione al polso, e con un gesto sicuro indirizzò lo schizzo di sangue nel contenitore. Per qualche secondo non accadde nulla, Cozrina continuava il suo canto. Poi d'improvviso il sangue prese a sfrigolare e il fumo a gonfiarsi fino a solidificarsi in una figura che Jet riconobbe per l'armatura e le armi di Cybreta. «Figlia», disse la Dea in tono affettuoso. La punta della sua spada sfiorò il polso ferito di Cozrina, che smise di sanguinare. «Madre mia», replicò con reverenza Cozrina. «Figlia, hai scoperto il seno e mi hai fatto omaggio del tuo sangue, quello che stai per chiedermi non dev'essere cosa di poco conto.» «Oh, sì, Madre mia, è qualcosa che mi ha consentito di sopravvivere a un destino peggiore della morte.» «Vendetta?» Cozrina annuì. «Quando ero prigioniera dei Tumaleon t'invocai e giurai di appartenere a te, corpo e anima, se Tu mi avessi fatto uscire viva dalle loro mani. Mantenesti la promessa, e io ho mantenuto la fede come tua guerriera: Ti ho adorato rendendoti omaggio dentro e fuori il mio cuore, ho osservato con scrupolo i tuoi riti, e festeggiato i giorni sacri. Ora, Madre, vengo a Te con un'altra preghiera.» «E di cosa si tratta, Figlia?» «Ho trovato l'uomo che mi ha venduto alla lussuria dei Tumaleon. Imploro il tuo aiuto perché mi possa vendicare. Concedimelo, e qualunque cosa Tu chieda sarà tua.» La figura sull'altare ondeggiò, si attenuò, poi di colpo si fece radiosa. Quando Cybreta sorrise, Jet sgranò gli occhi. Era come se il sole fosse sbucato tra nuvole scure. «Figlia fedele e devota, l'odio ti ha sostenuto e mantenuto viva, ma non ti ha sopraffatto. Hai nutrito e coltivato la tua forza e hai saputo attendere. Cosa vorresti che gli accadesse?» «Un destino peggiore della morte, Madre. Un occhio per occhio.» Cybreta assentì col capo e sorrise ancora. «Una scelta saggia, Figlia. E,
quello che chiedi, io ti darò. In cambio ti chiedo che quando tua figlia sarà grande abbastanza tu la conduca qui da me.» «Non ho figli, Madre, né maschi né femmine.» «Ne avrai», replicò Cybreta e, con un bagliore accecante, scomparve. Cozrina si accasciò all'indietro e sospirò esausta. Subito Jet accese diverse altre candele. Dentro il catino poggiato sui carboni c'era della luccicante polvere d'oro. Il dono di Cybreta per la vendetta. «'Rina, esige una contropartita impegnativa.» «Io le appartengo, Jet. La mia vita è sua. La mia ricompensa sarà dolce. Le urla di Sacon saranno come acqua fresca per una lingua riarsa.» Poi si rivestì e intrecciò di nuovo i capelli. Avvolse quindi il catino e quello che vi era dentro in uno scialle, e insieme con la compagna lasciò la stanza. Una magnifica mattina di sole spruzzò di luce l'enorme letto che Cozrina divideva con Indonel. Le aveva spiegato qualcosa, ma lei continuava a rimuginare sul fatto che Lord Sacon fosse ancora vivo. Rivedeva in continuazione la festa per il matrimonio. Lei e Jet non riuscivano a decidersi su come fosse meglio usare quanto Cybreta le aveva donato. Jet aveva pensato di metterglielo nel cibo, ma come potevano avvicinarsi tanto? Indonel era leale nei confronti di Sacon, per cui utilizzare lui era fuori discussione. Infine Cozrina aveva stabilito di sfregare la polvere luccicante sulla migliore delle loro pelli di Tumaleon. La spessa pelle dorata aveva la sagoma di un uomo, ma molto più grande. Valeva un piccolo riscatto, il giusto regalo di nozze per il ramo cadetto della famiglia reale. Con un po' di fortuna, Sacon l'avrebbe toccata. Jet aveva raggiunto il palco barcollando con la pelle tra le braccia. Cer Durlina era una donna esile e scialba, ben oltre l'età e le aspettative della bellezza giovanile, ma era vestita come si conviene a una donzella che si appresta a prendere marito: indossava una veste di seta color lavanda, quasi trasparente. Il taglio dell'abito rivelava spalle ossute e seno piatto. Gli opachi capelli castani erano intrecciati in un'elaborata acconciatura alta sopra la pesante corona che le faceva inclinare la testa all'indietro, e di conseguenza il naso sembrava sporgere molto di più rispetto alle labbra sottili. Gli slavati occhi azzurri si erano stretti per la bramosia alla vista della pelle di Tumaleon, e non era riuscita a nascondere la rabbia quando il suo aitante, e palesemente più giovane, sposo l'aveva afferrata per primo. Lord Sacon si era messo la pelle in grembo e su una spalla, il luminoso
colore che faceva risaltare i suoi begli occhi scuri. Impegnato ad accarezzare la pelle, non aveva degnato più di uno sguardo la sposa. Jet era arretrata, inchinandosi con gratitudine, sollevata che la sua parte in quella vendetta fosse finita. Avevano trascorso i due giorni seguenti nell'attesa della notizia che Lord Sacon stesse morendo, ma fino a quel momento niente di tutto ciò era accaduto. Indonel diede una tiratina a una ciocca dei lunghi capelli di Cozrina. «Ehi, 'Rina, mi stai ascoltando? Cos'è che ti preoccupa? Devo dirti la cosa più importante di tutta la mia vita e tu con la testa sei lontana centinaia di leghe.» Cozrina rispose rannicchiandosi contro di lui. «Scusami, amore. È solo che non ero del tutto sveglia. Dimmi, cosa c'è di così importante?» Indonel spiegò di nuovo, e stavolta Cozrina si mise a sedere di scatto sul letto, lanciando un grido di guerra per manifestare la sua gioia. Ma non si limitò a quello. Saltò in piedi sul letto e improvvisò una danza di guerra, coi capelli svolazzanti e col seno che ballonzolava, urlando con quanto fiato aveva in gola. Indonel rotolò giù dal letto - che cigolò per protesta per evitare di essere calpestato. In quel momento la porta della loro camera si spalancò e Jet, completamente nuda, entrò come una furia, una spada in una mano e un corto pugnale nell'altra. «Che diavolo succede qui?» strillò. Si rilassò leggermente vedendo che la sua compagna non era in pericolo. Indonel si rese conto di essere nudo anche lui e afferrò una coperta da avvolgersi addosso. Cozrina si lasciò semplicemente andare sul letto, continuando a ridere. «Che diavolo ti succede, Rina? Non sei la sola che sta passando la giornata a letto. Credevo ti stessero strangolando.» Una bella ragazza dai capelli rossi sbirciò un attimo da sopra la spalla di Jet, poi scomparve. «È successo, Jet! È successo! Dovrò fare una penitenza per espiare il peccato di avere dubitato di Lei, ma adesso capisco che nella sua sconfinata saggezza ha reso la mia vendetta migliore di quanto avrei mai potuto desiderare.» «Di che stai parlando? Stai dicendo che Sacon è morto?» chiese Jet. Indonel pareva altrettanto perplesso. «Diglielo, Indonel. Di' anche a lei quello che hai appena detto a me.» L'uomo si avvolse più saldamente la coperta attorno ai fianchi, e si schiarì la gola. «Stavo solo spiegando a 'Rina che Lord Sacon ha congeda-
to tutte le sue guardie e i servitori personali. Ci ha convocato stamattina e ci ha detto di non avere più bisogno di noi. Dice che da adesso non gli serve protezione, che il suo amore per Lady Durlina sarà per lui un'armatura più solida e resistente di qualsiasi spada. Ci ha anche detto che rinuncia al titolo e ai possedimenti, e per giunta anche all'eredità che gli spetta come figlio di un re; e tutto per amore di Durlina. Ma quello che è ancora peggio, è che ci ha fatto stare a capo scoperto sotto il sole mentre leggeva un poema di dieci pagine dedicato ai piedi della sua adorata sposa.» Jet spalancò la bocca. Cozrina si ficcò un angolo di cuscino in bocca. Indonel, guardando confuso le due donne, riprese a parlare: «Ha donato tutti i suoi beni terreni e il suo denaro a noi soldati. Ha regalato i suoi cavalli, l'armatura, e persino la spada. Poi si è levato tutti i vestiti, dicendo che non indosserà mai più nulla che non sia stato cucito dalle squisite mani del suo unico e sincero amore». Al ricordo, gli occhi di Indonel si spalancarono per un attimo. «Dei onnipotenti, chiunque è in grado di vedere che quella donna è maldestra come una mucca! 'Rina, smettila di ridere. Non è divertente! Lord Sacon ha perso la ragione, e io ho perso il mio lavoro.» Jet si era buttata sul letto a fianco di Cozrina, e le due continuavano a ridere all'impazzata; a vederle c'era da pensare che Lord Sacon non fosse l'unico ad avere perso la ragione. Jet abbracciò Cozrina, e l'amica ricambiò con altrettanta forza. «Ti rendi conto di cosa significa tutto questo?» chiese Cozrina quando finalmente smise di ridere. Jet annuì. Indonel, invece, continuava a non capirci nulla. «Vi dispiacerebbe spiegarmi cosa sta succedendo?» Cozrina aveva occhi solamente per la sua compagna. Con una delle sue manone, le sfiorò la guancia. «Ho ottenuto la mia vendetta, sorella. Le ho chiesto che si avverasse un destino peggiore della morte, e l'ho ottenuto. Lord Sacon si è innamorato di sua moglie.» Ricominciarono a ridacchiare. «E vuoi sapere qual è la cosa ancora peggiore?» Alzò lo sguardo verso Indonel, che scosse il capo. «Nel regno lo sanno tutti che Cer Durlina non sa cucire.» Le due amiche si lasciarono di nuovo andare a incontenibili risate. Sandra Morrese GIOCO DI POTERE
Sandra Morrese inizia ad aggiornare la propria autobiografia dicendo di temere che suonerà leggermente egotistica. Una biografia o un'autobiografia è l'unica occasione in cui non solo è consentito essere egotistici, ma è addirittura previsto. L'unica occasione in cui invece vorrei davvero che non mi si raccontasse la storia della propria vita, e come si chiamano figli e gatti, è quando mi viene presentato un nuovo racconto da parte di qualcuno che non conosco affatto e, sono sincera, non sono nemmeno particolarmente interessata a conoscere. Chiamerò io, o lo farà la mia segretaria, dopo l'acquisto del racconto. È quello il momento in cui raccontarmi la storia della vostra vita. So bene che una rivista per scrittori sostiene che si debba essere originali per emergere dal mucchio dei «manoscrittari», ma perché non provare a farlo mostrandosi sintetici e professionali? Dopo tutto, il racconto che si presenta è come un colloquio di lavoro, e una lettera personale zeppa di aneddoti e dettagli fa pensare a un invadente venditore di auto usate. Aspettate che il nome dei vostri gatti o la trama di racconti che dovete ancora scrivere vi vengano richiesti. O meglio ancora, aspettate che capiti l'occasione di fare conoscenza nella sala dell'Associazione Scrittori di Fantascienza a qualche convention. Detto questo, Sandra vive in Maryland col marito che e un pilota militare, con due figli, tre cani, un gatto e un vario assortimento di pesci. L'incantesimo resisteva; a stento, ma resisteva. Calia superò non vista l'ultima delle guardie, e scivolò nella camera da letto del principe Jevan. Ti prego, fa' che l'effetto non svanisca adesso! pensava. Nuda com'era dato che la lozione funzionava solamente sulla pelle -, sarebbe stato già imbarazzante se fosse tornata visibile in qualunque altro luogo del palazzo, ma lì, in quella stanza... Niente l'avrebbe potuta salvare se fosse successo lì. Conoscendo Jevan, trovandola in giro per le proprie stanze in quelle condizioni con ogni probabilità sarebbe scoppiato in una sonora risata; dopo di che l'avrebbe senz'altro uccisa. La sfacciataggine di quel bastardo! Venirle a dire che se la sarebbe cavata meglio come donna di piacere che come la rinomata strega che era, e offrirsi poi con impeto d'iniziarla lui stesso! A fatica era riuscita ad andarsene tutta intera... per non parlare della sua preziosissima verginità, da cui dipendevano tutti i suoi poteri magici. Vedremo, dopo stanotte, chi sarà a ridere! Avanzò furtiva verso l'enorme letto dove il principe era sdraiato supino,
a fianco di una delle sue concubine. Le lenzuola erano tirate da un lato, il suo bersaglio in piena vista. Se questa non è fortuna! Calia aprì con molta attenzione il borsellino che aveva tenuto nascosto nel pugno della mano, e ne sparse il contenuto sull'inguine del principe Jevan. La polvere sfavillò per qualche istante, poi scomparve. Spero per te che questa notte d'amore sia stata memorabile, perché di certo è stata l'ultima! pensò con cattiveria. Jevan si agitò nel sonno, e Calia fece qualche passo indietro. Lo sguardo le cadde su uno specchio appeso al muro e il panico le strinse la gola. Si stava materializzando! E Jevan si stava risvegliando! Dei onnipotenti, non qui... non ora! Jevan si sedette sulla sponda del letto e guardò dritto verso di lei. Sul viso dell'uomo la confusione del sonno lasciò il posto alla rabbia ed egli si mise a strillare, richiamando le guardie. Calia arretrò verso il muro. Abbassando gli occhi sul suo corpo che stava rapidamente tornando visibile, mormorò ancora la formula magica che doveva dare vita all'incantesimo, ma svanì solo a metà. Perché non funzionava? Dei e Dee dei Cieli! Se qualcuno di voi esiste per davvero, potrà chiedermi qualsiasi cosa, basta che adesso mi faccia uscire di qui! «Fatto», udì; o almeno le parve di udire. Guardò la porta spalancarsi mentre le guardie armate piombavano nella stanza. Era finita, poteva considerarsi morta. Strizzò gli occhi per non vedere il terribile colpo che sapeva stare per abbattersi su di lei, ma le guardie le passarono accanto di corsa come se... Aprì un occhio e guardò in basso, poi si portò la mano alla bocca per reprimere un urlo di sollievo. L'incantesimo funzionava ancora! Non stette lì a perdere tempo, nel timore che potesse svanire di nuovo. Si precipitò fuori della porta e lungo il corridoio mentre Jevan, furioso, continuava a urlare ordini, cercando di convincere le guardie che qualcuno era davvero stato fino a qualche attimo prima nella sua camera privata. Raggiunse le scale e scese a perdifiato, tre o quattro gradini per volta, fino al piano terreno; si fiondò verso la porta d'ingresso, mancando d'un soffio una guardia che stava entrando, poi, sempre correndo, attraversò un cortile e arrivò alla strada. Girò un angolo e si ritrovò in un vicolo, poi in un altro vicolo, e finalmente salì le tre rampe di scale che portavano a casa sua. Chiuse la porta sbattendola, sistemò il chiavistello e si lasciò scivolare sul
pavimento, ansimante. Si ricordò di spezzare l'incantesimo, poi rimase seduta per terra il tempo necessario a recuperare fiato e facoltà mentali. Le doleva un fianco e la testa pulsava frenetica, ma era viva e, cosa più importante, ce l'aveva fatta! «Sì, ce l'hai fatta.» Calia trasalì e alzò lo sguardo in direzione della voce maschile; si ritrovò a fissare, con rinnovata paura e assoluto sconcerto, un uomo giovane e vestito con eleganza che si trovava seduto sul suo letto. Deglutì a fatica e si rimise lentamente in piedi, scivolando contro la porta; poi si rese conto di essere ancora nuda, e imprecò a mezza voce. L'arredamento era scarso anche nei giorni migliori, e non c'era niente a portata di mano con cui coprirsi; decise quindi d'indossare l'unica cosa che le rimaneva - la propria dignità - rifiutandosi di mostrare imbarazzo davanti a quell'intruso che chissà come era riuscito a evitare gli incantesimi, impenetrabili in teoria, posti a guardia della casa. A meno che, ovviamente, l'intruso non fosse uno stregone. Accidenti! Non è proprio una gran giornata! considerò. E ora? «Diciamo che ricompensarmi per averti fatto uscire dal palazzo di Jevan sarebbe un buon inizio. Hai detto che avrei potuto chiederti qualsiasi cosa.» Calia spalancò la bocca. Nessuno poteva essere al corrente del suo piano. «Come hai...» iniziò, poi assunse un'espressione minacciosa. «Chi sei?» gli chiese. «Il dio che ha risposto alla tua preghiera, è chiaro. Aspettavi qualcun altro, per caso?» fece con aria innocente, prima di esplodere in una risata di stupore. «In realtà tu non credi che noi esistiamo, vero? Oh, posso assicurarti che sono assolutamente reale. Ecco... toccami e te ne renderai conto», disse alzandosi e facendo un passo verso di lei. Lo sguardo di Calia si ridusse a una fessura mentre incrociava le braccia e ignorava ostentatamente la mano protesa. L'intruso fece spallucce e si rimise a sedere, ancora palesemente divertito. Calia, invece, non lo era affatto. Era furiosa. Era anche parecchio innervosita da quel... quell'individuo che si trovava in un luogo in cui non sarebbe dovuto riuscire a entrare e che faceva allusioni a cose che assolutamente nessuno all'infuori di lei avrebbe dovuto conoscere.
«Va bene», disse infine con tono misurato. «Ammesso e non concesso che io ti creda, quale sarebbe il tuo onorario?» O si trattava di un illusionista eccezionale, o era stato davvero il suo sorriso a illuminare la stanza. Calia era profondamente scossa. Lui era di una bellezza sconcertante: un volto dai tratti finissimi circondato da riccioli d'oro con sfumature ramate. E se ne stava seduto con l'aria di chi sapeva benissimo quale effetto potesse fare su una donna comune la sua giacca di velluto dal taglio perfetto, che faceva risaltare la struttura muscolare solida e asciutta. In ogni caso, Calia non si considerava certamente una donna comune. Aveva trascorso dieci anni senza consentire a nessun uomo di attirare la sua attenzione, avendo cura di mantenersi sempre distaccata e indifferente. La Stregoneria Virginale richiedeva che perfino i suoi pensieri fossero incontaminati dalla concupiscenza, e donava i suoi limitati poteri a chi sapeva imporsi uno stretto rigore. Per tale ragione, il fatto che quello sconosciuto turbasse l'equilibrio di una disciplina tanto difficilmente raggiunta - era così difficile togliergli gli occhi di dosso - la infastidiva molto. Non è un uomo, rifletté Calia. Costui ha lo sleale vantaggio di essere un dio, o almeno così dice. Ma in che altro modo avrebbe potuto sapere? «Esatto», confermò l'intruso, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Calia. «Sta' lontano dalla mia mente!» Maledetto ficcanaso telepatico. «In cambio dell'averti salvato la vita», replicò imperturbabile lo sconosciuto, facendo una breve pausa e guardandola dritto negli occhi, «ti chiedo il sacrificio della tua verginità.» «Cosa?» gridò Calia esterrefatta, inarcando le sopracciglia. Persino un mercenario incallito sarebbe arrossito alla colorita ed estremamente personale sfilza d'imprecazioni che gli riversò contro prima che lui avesse il tempo di alzare le mani per fermarla. «Ti prego!» disse l'intruso, portandosi la mano al petto con finta indignazione. «Parole così sconvenienti pronunciate da una bocca così graziosa... non credo di riuscire a sopportarlo. Vuoi essere così gentile da permettermi di spiegarti?» Lei gli gettò un'altra occhiataccia, ma senza dare inizio a una nuova sfilza d'invettive. «Ti osservo da tempo, Calia, e posso dire che possiedi talento in quantità straordinaria. Ma lo stai sprecando dedicandoti a magie di second'ordine. La strega che ti ha detto che quello è il massimo che tu possa fare ti ha
ingannato. Nemet conosceva benissimo il tuo vero potenziale e ne era gelosa. Così ha mentito e ti ha convinto di non essere più dotata di lei.» Calia rimaneva sospettosa ma, suo malgrado, era incuriosita. Ripensò alla notte in cui si era recata da Nemet, la strega più vecchia e temuta in quella parte della città. A come le aveva rivelato in confidenza, a lei e a nessun altro, del potere che sentiva crescere dentro di sé, e del sogno romantico da dodicenne di un amore magico che le consentisse di esprimersi. Era ciò che raccontavano tutte le vecchie favole. Le favole sussurrate nel corso dei secoli dalle donne riunite fra loro, quando gli uomini si appartavano a fumare la pipa davanti al fuoco e le lasciavano sole. Aveva conservato nella memoria ogni singola parola di ogni storia segreta, e quella sera aveva fatto visita alla strega Nemet col cuore colmo delle promesse che contenevano. Così Nemet l'aveva messa alla prova. Lei non aveva compreso la rabbia e lo sgomento che per un istante si erano dipinti sul volto della vecchia prima che le dicesse che ciò che provava non era altro che un'ingannevole illusione. «Ragazzina, non avrai mai altro che i poteri della Corporazione Virginale. Ritieniti soddisfatta di quelli e dimenticati la Magia della Passione.» Ora costui diceva che Nemet aveva mentito? Ciò avrebbe spiegato molte cose. Se lui diceva la verità; e se era davvero chi affermava di essere. Ma in che altro modo avrebbe potuto sapere tutte quelle cose sulla sua vita? «Vorrei poterti mostrare ciò di cui sei veramente capace, Calia», riprese lo sconosciuto, mentre in lei interesse e speranza prendevano lentamente il posto del sospetto e della rabbia. «Come puoi vedere sono un dio ancora relativamente giovane - più un semidio, a dire il vero - e come tale ho bisogno di qualcosa di più di un pugno di sciocchi seguaci, anche se quelli non fanno mai male. Mi servono anche degli alleati. Come una strega potente, per esempio. Calia, vorrei che tu fossi mia alleata. Io posso aiutarti a liberare il potere che tanto a lungo hai desiderato. Sì, credimi, è dentro di te. E io posso insegnarti a usarlo, meglio di quanto farebbe una strega.» Smise di parlare e si chinò in avanti. «Ma devi volerlo, Calia.» La ragazza sollevò leggermente il mento a quello che le sembrava essere stato un insulto. Le aveva gettato l'esca lusingandola, ma lei non l'aveva addentata... non ancora. «Hai idea di quante come te sarebbero capaci di Vera Magia ma non realizzano mai le loro potenzialità? Molte più di quanto tu possa pensare. Vuoi sapere perché? La vera ragione? Perché è necessario che vi sia il desiderio - un intenso, appassionato desiderio di potere - e alle donne, in par-
ticolare a quelle che dimostrano talenti magici, viene insegnato a negare il desiderio. I vostri uomini temono quello che una donna potente sarebbe in grado di fare. Non vogliono dover dividere la loro posizione, il controllo che ora esercitano. E la maggior parte delle donne è restia a mettere a repentaglio la comoda nicchia che si è conquistata. Così v'insegnano a non volere più di quello che vi offrono. Vi dicono che volere di più è sbagliato. «Il mito segreto con cui tutte siete cresciute è relativo a uno stregone che libera il potere racchiuso in una donna dotata di talento. La verità è che siete voi a liberare il potere, quando abbracciate il desiderio di ottenerlo e vi lasciate alle spalle le limitazioni che vi sono state inculcate.» Finito di parlare parve rilassarsi, appoggiandosi di lato sul gomito. «Tra noi può nascere un'alleanza lunga e proficua per entrambi, oltre che piacevole.» Diede un colpetto col palmo della mano a indicare lo spazio del letto di fianco a lui. Calia si mordicchiava un labbro, mentre rifletteva. Quelle parole le erano sembrate sinceramente ragionevoli; o forse lui era solo molto convincente. Probabilmente ambedue le cose. Certo sarebbe stato un terribile guaio se tutto ciò che voleva quello sconosciuto fosse rotolarsi un po' tra le sue lenzuola. Quanto aveva detto sull'insegnamento che consigliava di aborrire il desiderio era senz'altro vero. Diceva che sarebbe stata molto più potente della vecchia strega. E, se non era stato lui a farla uscire dal palazzo di Jevan - su quel punto non era ancora del tutto convinta, anche se sembrava fosse una conclusione logica -, come poteva essere al corrente della sua preghiera improvvisata? «Vuoi davvero il potere, Calia? Desideri la Vera Magia con forza sufficiente da liberarti dalle loro costrizioni?» Era un rischio, ma dove l'aveva portata agire con prudenza? A una squallida stanzetta tre piani sopra il negozio di un maniscalco, ecco dove. «Sì», rispose, guardandolo dritto negli occhi e avvicinandosi con decisione al letto. «Posso almeno conoscere il tuo nome?» gli chiese. «Xander», rispose lui, tirandola a sé per baciarla. Erano a letto abbracciati quando il sole vinse la notte. Calia non aveva quasi dormito; troppo intenso era stato il piacere delle sensazioni provate. Era stupefacente pensare come lunghi anni di bugie potessero essere cancellati così facilmente. Sentiva già i primi fremiti del potere dentro di sé. Il suo potere. Lo stesso che molte altre come lei avrebbero potuto ottenere, se
qualcuno avesse avuto il buonsenso di dire loro come prenderselo. Pensiero allettante, quello. Svegliandosi, Xander si stiracchiò e allungò il braccio a cercarla. Si baciarono lentamente, poi lui la guardò. «Delusa?» «Nemmeno un po'», rispose. «Ma avrei una domanda. Se gli dei esistono, come mai sei stato proprio tu a rispondere alla mia invocazione e non un altro dio o un'altra dea? Non ero certo scesa nei dettagli nella mia preghiera. Eri l'unico dio nelle vicinanze in quel momento?» «Ma certo», replicò, lanciandole un'occhiata maliziosa. «Perché mai credi che il tuo incantesimo non abbia funzionato?» Sarah Evans LA STREGA DELLA PALUDE Sarah Evans ha trentadue anni, è cresciuta nella Central Valley della California, e attualmente vive a Austin, in Texas, con suo marito, suo figlio e «un gatto tigrato molto esigente». A dire il vero, non credo di avere mai incontrato un gatto che non fosse esigente. Questo è il primo racconto che vende, ma c'è da sperare sia solo il primo di molti. Le due cavallerizze, simili ma al contempo molto diverse, giunsero al bivio nel medesimo istante, incrociando gli sguardi nel primo sole del mattino. Entrambe erano guerriere armate di spada, in sella a cavalcature tranquille ed esperte che portavano le insegne di due signorotti locali. Una aveva un aspetto molto curato, sembrava giovane e nel pieno delle forze: il viso privo di rughe, i capelli biondi raccolti saldamente in una treccia che le scendeva sulla schiena, la giubba e i calzoni di pelle ancora lucidi e in ottimo stato, non consunti dall'uso. L'altra era più corpulenta, aveva scialbi capelli castani un po' ingrigiti tagliati corti sopra le orecchie, volto e abiti che mostravano chiaramente i segni del tempo. «Dimmi, vecchia, cosa ti porta nelle paludi?» domandò la più giovane ostentando nel tono e nell'atteggiamento l'altera sicurezza di chi si sente nel diritto di parlare per prima. «Stavo chiedendomi lo stesso di te. Qualcuno che mi è molto caro è sta-
to aggredito dal mal sottile, e mi hanno detto che la strega della palude potrebbe conoscere un rimedio. E tu?» «Anch'io sono alla ricerca di una cura. Non per qualcuno che mi è caro, ma per una persona che mi darà una sostanziosa ricompensa. Il mio signore si è improvvisamente ammalato, ed è noto per ricompensare bene i servigi che ne sono meritevoli. Si sa che le paludi sono infide come la strega che vi abita.» «Allora potremmo proseguire insieme. Il mio nome è Cara. Anche per quanto mi riguarda è il mio signore la persona sofferente; ma sto cercando di aiutarlo in ragione dell'eccellente trattamento che riserva a me e ad altri che non vengono messi da parte solo perché non sono più nel fiore degli anni. Potresti ben dire che è a lui che spetta una ricompensa», spiegò ridendo Cara, increspando gli angoli degli occhi. La bionda ci pensò sopra, poi si strinse nelle spalle. «Molto bene, per me non fa differenza; ma ti avverto, ti conviene starmi al passo. Il mio nome è Laschka.» Svoltarono insieme per lo stretto sentiero che conduceva alle paludi. La strada era senz'altro impervia, ma non costituiva un eccessivo problema per le due donne, abituate com'erano a tenere gli occhi bene aperti. Rovi, sabbie mobili e nebbie improvvise venivano superati con sicurezza, se non addirittura con facilità. «Dimmi una cosa, Laschka», chiese Cara dopo diverse ore di cammino. «Dalle insegne che porti capisco che sei al servizio di Lord Mardale, la cui reputazione è molto simile a quella del mio signore, Lord Vandon. Nemmeno lui è solito liberarsi delle persone che lo hanno fedelmente servito, quando gli anni cominciano a renderle più lente. Perché dunque accollarti tutti questi rischi se non tieni davvero alla sua salute?» «Te l'ho già detto prima. Mi ricompenserà a dovere. Anche se la strega della palude non potesse salvarlo, darà ordine che io sia ricompensata per il tentativo. Così non mi ritroverò mai nella posizione in cui ti trovi tu ora, a dipendere dalla carità di chicchessia, quando non sarò più... diciamo così, fisicamente all'altezza.» Cara guardò la giovane donna con aria di disapprovazione, poi si strinse nelle spalle e riprese a cavalcare senza aggiungere parola. Poco dopo Cara tirò le redini, alzando una mano. Un debole suono giungeva fino a loro sull'aria calda e densa che trasportava l'odore di vegetazione lussureggiante e putrescente. «Sembrerebbe un bambino. Da questa parte...» disse Cara con tono d'in-
volontaria autorità, e si allontanò dal sentiero. Laschka stava per protestare, ma Cara era già scomparsa alla vista tra la folta boscaglia, dopo aver lanciato il cavallo al piccolo galoppo. Con un'espressione torva, Laschka seguì la compagna più anziana. Non dovette fare molta strada. Trovò Cara in un piccolo spiazzo privo di vegetazione, inginocchiata a fianco di un bambino in lacrime, il cui corpicino era coperto da stracci. Laschka rimase a cavallo, agitandosi impaziente sulla sella, mentre Cara calmava il bambino parlandogli a bassa voce. Dopo qualche minuto si rialzò, sollevando anche il piccolo. «Si è perso: non sa come tornare nel villaggio dove vive. Non può essere troppo distante. Ci metteremo non più di un quarto di clessidra - o al massimo mezza - a riportarlo a casa», affermò Cara. «Se non è così lontano, la sua gente lo troverà. Muoviamoci, abbiamo cose più urgenti da fare; il mal sottile sta derubando i nostri signori del loro tempo, rendendoli più vecchi di quanto siano in realtà», replicò Laschka con arroganza. «Laschka, è solo un bambino. Non possiamo lasciarlo qui da solo, ad aspettare qualcuno che potrebbe non arrivare mai», protestò la guerriera più anziana. «Forse tu non puoi, ma io posso senz'altro. Non riceverò nulla di quanto pattuito se Mardale muore prima del mio ritorno!» Ciò detto, diede di sprone al cavallo per tornare sul sentiero. Cara guardò il bambino al suo fianco e lo accarezzò con la mano, sentendolo tremare. Gli sorrise rassicurante, poi lo fece salire in sella e montò dietro di lui. Tranquilla e sicura, si mosse per riportarlo a casa. Poté riprendere la ricerca della strega più in fretta di quanto si sarebbe aspettata, perché lungo il sentiero incontrò quasi subito la madre del bambino, che lo cercava disperata. Lanciò di nuovo il cavallo al galoppo, tenendo gli occhi ben aperti; in pochissimo tempo si riaffiancò a Laschka, che si era imbattuta in una fitta boscaglia. Insieme, riuscirono a venirne fuori. Mangiarono un pasto freddo rimanendo in sella; per i cavalli l'impegno era relativo, e non correvano il rischio di stancarli. Era quasi pomeriggio inoltrato quando Laschka, svoltando per una curva nel sentiero, per poco non travolse una vecchia. La ragazza imprecò e strattonò le redini, mentre la donna, senza fiato per lo spavento, si gettava di lato, sparpagliando la fascina di rametti e legna da ardere che teneva fra le braccia. «Stupida di una vecchia!» urlò rabbiosa Laschka.
«Non è stata colpa sua! Pensa a quello che fai prima d'insultare gli altri», fu il rimprovero che Cara le rivolse folgorandola con lo sguardo. «Dovevi stare più attenta e non correre a quel modo!» Le due donne si scambiarono un'occhiata di sfida mentre la vecchia impaurita stava acquattata fra i cespugli. Dopo qualche istante, Laschka spronò il cavallo in direzione della palude, al centro della quale si trovava la dimora della strega. Cara la seguì con gli occhi; poi, con un sospiro, scese da cavallo e tese la mano alla vecchia. «Vieni, ti aiuto a raccogliere la legna. Non è stata colpa tua e non meriti di dover fare un lavoro doppio», disse. Insieme non ci misero molto tempo, e a quel punto Cara decise che perderne un altro po' non sarebbe stato gran danno. Legò il fascio di legna alla sella, e seguì la donna sulla via di casa. «Grazie per avermi aiutato. Vuoi farmi l'onore di dividere il pasto con me?» chiese la donna. Cara scosse la testa, declinando l'invito. «Non posso, devo rimettermi in cammino. Sto cercando la strega della palude per una cura che possa aiutare il mio signore.» Gli occhi della vecchia s'illuminarono. «Parli della nostra signora delle paludi, giusto? Allora ti preparerò un po' di pasticcio di carne da portare via e ti indicherò una scorciatoia per casa sua. Ci arriverai poco dopo la tua amica.» Piacevolmente sorpresa, Cara rise e accettò di buon grado. Laschka intanto aveva cavalcato fino alla radura antistante il piccolo casolare che sorgeva nel cuore delle paludi. Da un lato della casetta, una donna dai capelli rosso scuro lunghi fino alla schiena lasciò l'orticello di cui si stava prendendo cura; si voltò verso la nuova venuta, il viso tranquillo e un'espressione risoluta negli occhi grigi. «Sei tu la strega?» le chiese Laschka. «C'è qualcuno che mi chiama a quel modo.» «Allora è dei tuoi servigi che ho bisogno. Il mio signore è ammalato di mal sottile, e ogni giorno che passa lo consuma come fosse un anno o anche più. Mi è stato detto che tu hai una cura.» La donna chinò la testa, assentendo. «E dunque?» la sollecitò Laschka. «Mi ci vorrà tempo», rispose la strega. «Al mio signore ne è rimasto poco da sprecare, strega.»
«Questo lo so.» Adesso nella voce della donna c'era una nota aspra. «In ogni caso non puoi tornare indietro attraversando le paludi di notte; quello che ti serve sarà pronto per domattina. E ce ne sarà abbastanza anche per la tua compagna.» Laschka spalancò la bocca per la sorpresa. Ma un attimo dopo sentì un rumore di zoccoli e vide Cara sopraggiungere da un sentiero diverso rispetto a quello percorso da lei. Strinse le labbra in un moto di rabbia. In silenzio, le due donne montarono il campo, mentre la strega raccoglieva erbe di diversi tipi dal suo giardino, entrando poi in casa a preparare l'intruglio curativo. «Signora delle paludi?» La donna si voltò verso Cara. «Grazie dell'aiuto. Ti sono molto riconoscente.» La donna rivolse alla combattente più anziana un luminoso sorriso, poi entrò nel casolare. Al mattino Cara e Laschka si lavarono in fretta, mangiarono e si prepararono ad andarsene, immerse nello stesso silenzio della sera precedente. «Accidenti! Aveva promesso che sarebbe stato pronto», ringhiò Laschka lanciando occhiate furiose verso il casolare. «Allora sarà così», replicò tranquilla Cara. «Calmati. Preoccuparsi non serve a nulla.» «Niente di più vero.» La voce fece trasalire entrambe. Veniva dalle paludi alle loro spalle, non dalla casa. «Soprattutto perché quanto vi serve è pronto.» Laschka stava già quasi aprendo la bocca per replicare con rabbia, ma Cara la zittì con un'occhiata. «Ti ringrazio, signora», disse Cara con un cenno del capo mentre prendeva la fiaschetta dalle mani della donna dai capelli rossi. Laschka prese la seconda con un'espressione caparbia, senza dire una parola. «Non ci sono istruzioni particolari, se non che l'ammalato deve bere tutta la pozione. Ha la capacità di guarire una persona soltanto, facendola tornare allo stato di salute normale per la sua età, a prescindere dalla causa del disturbo, malattia o magia. Vi dico solo una cosa: il tempo è assolutamente decisivo perché la cura sia efficace», aggiunse la strega con uno strano sorriso. Laschka assentì brusca e montò subito in sella; prima di seguirla, Cara sorrise e mormorò altre parole di ringraziamento.
Quel giorno la pista pareva familiare, e le due donne cavalcarono a buona andatura. Mangiarono ancora qualcosa senza fermarsi, parlando tra loro molto raramente e soltanto quando le condizioni del sentiero lo richiedevano. D'improvviso un grido d'aiuto le fece trasalire. Laschka lanciò a Cara un'occhiata furiosa mentre quella tirava le redini per fermarsi. La bionda frustò il cavallo e si allontanò al galoppo. Cara si voltò per vedere da dove provenisse la voce. Scorse un uomo ferito a una gamba, intrappolato da un pericoloso rettile di palude, una specie di lucertolone con una bocca piena di denti affilatissimi. Cara estrasse subito la spada e cercò di fare allontanare l'animale dalla sua preda; lo uccise dopo una dura lotta nel fangoso acquitrino. «Grazie di avermi soccorso», le disse l'uomo mentre lei gli bendava la gamba ferita. «Non è nulla. Piuttosto, dove si trova casa tua o qualcuno che possa esserti di maggiore aiuto?» replicò Cara con una certa fretta, non dimenticando che il tempo scorreva veloce e che nella sacca della sella aveva la fiaschetta con la pozione. «Non preoccuparti, sta arrivando un'amica», rispose l'uomo ferito. Sollevando lo sguardo, Cara vide sopraggiungere la strega della palude. La donna dai capelli rossi rivolse di nuovo a Cara un luminoso sorriso e, con un cenno del capo, le fece segno di rimontare in sella. Confusa e disorientata, Cara obbedì. Mentre attraversava le paludi, sentiva lo spirito sollevato e il cuore leggero. Non appena uscita dalla plaude, Laschka sospirò di sollievo. Non mancava molto ormai e non ci sarebbero più stati intoppi. I due faticosi giorni a cavallo cominciavano a farsi sentire fin nelle ossa. Sarebbe stato piacevole ristorarsi nella sala dei banchetti quella sera, dopo aver messo al sicuro la meritata ricompensa. Quando fece il suo ingresso nel cortile del castello di Lord Mardale stavano calando le prime ombre del tramonto. Da come la squadravano gli uomini di guardia, si rese conto di quanto sudicio dovesse essere il suo aspetto dopo tutte quelle ore nella palude. Smontò di sella e lanciò le redini a un garzone di stalla. «Prenditene buona cura, perché in questi giorni mi ha fedelmente servito. Ho qui la medicina per Lord Mardale, datami dalla strega della palude in persona!» Lasciato il garzone di stalla a fissarla con meraviglia, Laschka fece il suo
ingresso nel castello con la fiaschetta in mano; guardie, sguattere delle cucine e tutti gli altri abitanti del castello la guardavano a bocca aperta. Nel momento in cui spalancò la porta degli appartamenti del suo signore, i suoi pensieri erano rivolti alla scintillante ricompensa che le sarebbe spettata per essere riuscita a portare a termine quella stupefacente impresa. «Mio Lord Mardale, ho qui con me la pozione magica che farà tornare alla normalità la vostra salute e i vostri anni...» Respirava affannosamente, e s'interruppe un attimo, gli occhi sullo specchio d'argento del suo signore malato. Lui e i suoi attendenti la fissarono mentre metteva a fuoco l'immagine che le rimandava lo specchio: il volto coperto di rughe, come se negli ultimi due giorni fossero passati vent'anni, il fisico ingrossato e i capelli ingrigiti. Si toccò il viso e si umettò le labbra, incredula. Spostò lo sguardo prima verso la fiaschetta poi verso il suo signore, poi di nuovo sulla propria immagine. Mentre valutava le alternative, fu sopraffatta dal dubbio: ritrovare la giovinezza ma senza alcuna ricompensa e con una posizione di minor prestigio, oppure accettare la vecchiaia, ma con una adeguata ricompensa e un protettore riconoscente? Laschka maledisse con rabbia la strega, mentre l'eco della sua risata le risuonava nella mente. In un altro castello, un'altra cavallerizza scendeva di sella, sorridendo e salutando i compagni dopo la breve assenza. Era Cara, giunta a sua volta a portare una cura all'uomo che non le era solo signore ma anche amico, ignara del fatto che il suo viso e il suo corpo erano di nuovo giovani, mentre un vago ricordo di due occhi grigi e di un sorriso gentile aleggiava nella sua mente. Vicki Kirchhoff Il MOSTRO DAGLI OCCHI VERDI L'intento di questa antologia, come di tutta la narrativa, è di mostrare persone che si comportano da persone; una parte davvero eccessiva dell'originale letteratura sword and sorcery mostrava uomini che agivano come automi. In realtà, i personaggi principali di alcune storie di Isaac Asimov, che a volte erano davvero robot, risultavano più umani dell'eroe standard dei racconti fantasy. Di solito la gelosia non è un sentimento
particolarmente degno di ammirazione, ma è senza dubbio molto umano. Non sopporto quei racconti in cui il protagonista è un mago o una strega ma non lo si vede mai fare niente di magico. Non basta definire strega o mago il proprio eroe perché lo sia; in alcune delle storie che ricevo, la cosiddetta «strega» potrebbe benissimo fare l'idraulico, da quanto l'autore s'impegna a dimostrarci il contrario. In questo racconto, perlomeno, l'eroina - una spadaccina - dimostra di saper fare qualcosa. La compianta Leigh Brackett, che era bravissima in questo genere di cose, una volta disse: «Se nella mia storia c'è una donna, di certo fa qualcosa, senza preoccuparsi di quanto costano le uova o di chi è innamorato di chi». In troppa letteratura femminile non si fa altro che preoccuparsi di chi è innamorato di chi. Cosa che va benissimo, basta ricordarsi che prima e dopo un idillio c'è tutto il tempo di vivere. Vicki Kirchhoff sostiene che la sua biografia non è niente di speciale - e chi può dire il contrario della propria? - che ha ventinove anni e sta cercando il modo di mettere a frutto le sue lauree in inglese e pedagogia. Racconta: «Vivo in un appartamento in cui gli animali sono numericamente superiori agli umani in un rapporto di due a uno. Come peso, però, li superiamo ancora noi. Ho due furetti, due gatti e un fidanzato, che mi tengono impegnata e mi fanno scrivere anche quando sono frustrata dagli insuccessi nella ricerca di un lavoro». Continua a scrivere a questo modo e non ti servirà un lavoro. A volte mi chiedono come faccio a tenere una casa e a scrivere. La mia domanda, invece, è sempre stata come qualcuno riesca a mandare avanti una casa senza qualcosa di reale, come la scrittura, di cui occuparsi quando necessità come lavare i piatti diventano troppo invadenti. Le strade di Rivertown erano buie e desolate. Appena qualche ora prima, la piazza del mercato era stata piena di gente giunta a godersi la fiera. Una fiera era il momento in cui le cittadine sonnolente brulicavano di mercanti e di tutto ciò che era possibile acquistare o vendere. Era il momento in cui risultava meno probabile che le guardie fossero 'in cerca di fuorilegge con una taglia sulla testa. Anche Kenna e il suo compagno Dain erano andati a Rivertown per la festa. Volevano riposarsi dopo le settimane passate in strada e in fuga. Persino i fuorilegge come loro ogni tanto avevano bisogno di una pausa. Sebbene fossero arrivati insieme, la ragazza gironzolava da sola per la piazza del mercato ormai vuota, sforzandosi di tacitare i propri sentimenti
mentre Dain e una zingara di nome Jesarna si scambiavano occhiate vogliose a un tavolo di locanda. Sospirò, gli occhi azzurro acciaio che scrutavano le ombre. Era stupido da parte sua starsene fuori da sola a quell'ora di notte; lo sapeva benissimo quando era uscita dalla locanda. Teneva la mano sull'elsa della spada, un avvertimento per eventuali ladri che potessero considerarla una facile preda. Udì un soffocato rumore di passi alle sue spalle e si voltò, sguainando la lama. Una figura fece un salto all'indietro, poi uscì dall'ombra. Le ci volle un istante per riconoscere i luminosi capelli rossi, gli occhi azzurri e il largo sorriso di Galen, il suo amico menestrello. «Che ci fai qua fuori tutta sola?» le chiese. «Con la fiera, le strade sono piene di ladri pronti a derubare gli sprovveduti.» Kenna rinfoderò la spada. «Non mi sembra di essere una sprovveduta.» «Più che vero.» Si guardò attorno. «Dov'è il tuo compagno?» «È rimasto all'Ivory Stag.» «Senza dubbio con un'avvenente donzella al braccio destro e un'altra al sinistro», commentò ridendo Galen. «No», replicò lei. «Una soltanto.» Galen si fermò. «Sbaglio o si tratta di gelosia? Eppure so benissimo che voi due non siete amanti.» «È proprio questo a rendere meschina la cosa», sospirò Renna. «Sono gelosa perché balla meglio ed è più carina di me.» Galen le diede un abbraccio. «Non è possibile. Ci vuole più di un bel faccino per attirare gli uomini, e dubito che lei sappia brandire una spada per salvarsi la vita. Allora, com'è?» «È una zingara», sospirò di nuovo lei. «Un po' meno alta di me, folti capelli neri, occhi verdi. Si chiama Jesarna.» «Povera Kenna, che deve combattere il mostro dagli occhi verdi!» «Non credo proprio che la definirei un mostro.» Galen rise. «Mia cara, non intendevo la ragazza, ma la gelosia. Conosco una canzone intitolata La gelosia è un mostro dagli occhi verdi.» Le baciò le dita. «L'infatuazione di Dain per lei potrà passare oppure no, e non c'è niente che noi due possiamo fare in proposito.» Kenna sospirò ancora. «È solo che non mi piace, e l'unica spiegazione che so dare è la gelosia.» «Be', ragazza mia. È una zingara. Perché domani mattina non chiedi in-
formazioni a Viktor? Sai che sarà ben felice di vederti, e chissà cosa potrebbe sapere su di lei.» «Penso che lo farò.» Viktor era un vecchio amico, e i suoi zingari erano accampati appena fuori delle mura della città. I loro carri, dipinti con colori vivaci, erano posti circolarmente attorno a una buca per il fuoco. Kenna venne accolta a braccia aperte dalle due sentinelle, e scortata al carro di Viktor. Nel vederla, gli occhi del vecchio zingaro s'illuminarono. A dispetto dell'età, il suo abbraccio era forte come sempre. «Dunque, figlia-che-non-èmia, cosa ti porta a trovare questo vecchio stanco?» «Dain e io siamo venuti a vedere la fiera, e sapevo che non mi avresti perdonato se non fossi passata a salutarti.» Lui sorrise e disse: «Vasili mi aveva detto di averti visto. Ti davo fino a stasera prima di mandare qualcuno a prenderti». Indicò uno dei cuscini. «Amica mia, siedi e bevi con me. Hai qualcosa in mente, giusto?» Kenna rise. «Ma allora è vero che leggi nel pensiero!» L'uomo rise con lei. «Tu e il tuo amico siete ricercati, qui, e dovete stare all'erta; sapevo quindi che i cerchi sotto gli occhi ti derivano da mancanza di sonno e non da eccesso di bevute. So quando siete arrivati in città, so che il motivo non è il viaggiare di notte, quindi questo mi porta a pensare che sia stato qualcos'altro a disturbare il tuo sonno.» Sogghignò. «A meno che non sia stato qualcuno.» «Non è stato nessuno», lo rassicurò. «Allora forse dovresti trascorrere un paio di notti da noi. Ci sono di certo parecchi ragazzi in grado di sfidare la tua forza. Se la mia Marta non fosse così buona con me e io avessi qualche anno di meno...» «Viktor, non è per questo che sono qui.» «Scusa, amica mia, dimmi pure.» «Conosci una ragazza che si chiama Jesarna?» Il sorriso di Viktor si spense e la mascella s'irrigidì. «Solo perché sei una cara amica e non conosci tutte le nostre regole, ti do questo avvertimento. Non pronunciare mai più quel nome in mia presenza!» «Ma, Viktor...» «No. Mi dispiace, ma non coprirò con quel nome d'infamia della brava gente. Parliamo d'altro.» Kenna sospirò e fece come le era stato chiesto. Sapeva che non era il caso di discutere con lui. Tuttavia, almeno aveva la prova che riguardo a Je-
sarna c'era qualcosa da scoprire e che i suoi sospetti non erano infondati. Tornata in città, avanzò a fatica tra la folla nella speranza di trovare Dain. Le maggiori probabilità erano in uno dei banchi di armi, collocati quasi tutti vicino alla stalla e all'officina del fabbro. Doveva fargli sapere cosa aveva detto Viktor. Intravide una fila di vesti scarlatte e s'infilò in un vicolo. Quattro uomini con la testa rasata, e in mano aste uncinate, passarono davanti al punto in cui si era nascosta. Aspettò che si fossero allontanati, prima di uscire. Lei e Dain avevano dei conti in sospeso col culto dell'Avvoltoio, un gruppo religioso di farabutti senza cuore. Adesso aveva un altro motivo per trovarlo. Era nella piazza del mercato, a tirare sul prezzo con un armaiolo per un paio di coltelli da lancio. Attirò la sua attenzione e attese che concludesse l'affare. Dain comprò i coltelli e sorrise. «Ti stai godendo la festa?» «Non come all'inizio», replicò. «Dov'è Jesarna?» Lui fece spallucce. «Ci vediamo più tardi.» Sollevò i coltelli. «Pensi che le piaceranno?» «Dain, riguardo a Jesarna...» Lui sospirò. «Hai chiesto a Viktor, e lui non ne ha voluto neanche parlare. Probabilmente si è arrabbiato solo a sentire il suo nome. Giusto?» «Be'... sì. Come fai a saperlo?» «Ieri sera ho detto a Jesarna che lo conosci e mi ha spiegato che la sua reazione sarebbe stata quella, se tu gli avessi chiesto di lei. Non si sono lasciati in buoni rapporti.» Mise via i coltelli. «Non capisco perché ti fidi così poco di lei.» Kenna sospirò. «Non lo so nemmeno io.» «Be', se ti fa sentire meglio, mi ha detto di aver lasciato gli zingari perché disapprovava alcune loro credenze. Per quanto riguarda Viktor, lei è il peggiore dei mali. Si dà il caso che io non sia d'accordo.» «Mi dispiace.» Lui l'abbracciò. «Lo so che eri solo preoccupata per me. Mi ricordo che razza di fetente sono stato la prima volta che hai incontrato Galen. Jesarna vuole soltanto piacerti, e lo stesso vale per me.» Kenna sorrise. «Credo di essere semplicemente gelosa.» «Non devi», replicò lui. «Tu e io abbiamo affrontato troppo insieme perché qualcuno possa prendere il tuo posto al mio fianco. In questo momento per me Jesarna è qualcosa che sappiamo già tu non puoi essere. Ci abbiamo provato, te lo ricordi?»
La donna rise. «Ed è stato un tale disastro.» Dain mise la mano in tasca e ne tolse una collana. «Non ho dimenticato la mia migliore amica neanche mentre tiravo un po' sul prezzo nei vari banchi.» Era di perline verdi, oro e blu. «I tuoi colori preferiti.» «È bella», disse lei, mentre lui gliela faceva scivolare sul collo. «Sono contento che ti piaccia. Vuoi unirti a noi per pranzo?» Kenna giocherellò con le perline, sentendosi ancora più sciocca per la sua gelosia. «Certo. Dove avete appuntamento?» «Piazza centrale. Stamattina ho visto che Galen era lì a suonare. Mi ha detto di fartelo sapere.» «Grazie.» Dain si voltò di nuovo verso il mercante. «Oh, scusa», lo richiamò Kenna. «Quasi dimenticavo. Poco fa ho visto quattro sacerdoti dell'Avvoltoio.» Lui aggrottò le sopracciglia. «Questo non mi piace. Hai idea di cosa facciano qui?» Kenna scosse il capo. «Non posso pensare che stiano cercando noi. Nessuno sapeva che saremmo venuti.» «Controlla con Galen. Io vedrò cosa riesco a scoprire chiedendo un po' in giro. Ci incontriamo là a mezzogiorno.» Kenna trovò il menestrello in piazza. Il cappello verde chiaro che aveva davanti era pieno a metà di monete. Terminò la canzone con due versi di anticipo e abbracciò la ragazza. «Allora, scoperto qualcosa d'interessante?» «Anche troppo», replicò. «Jesarna ha lasciato gli zingari perché non condivideva alcune loro credenze, ragione sufficiente a Viktor per non volere più sentir pronunciare il suo nome. E in città ci sono dei sacerdoti dell'Avvoltoio.» «Questa è una brutta notizia», disse Galen. «Stanno inseguendo voi?» «Non ne siamo sicuri. Speravo potessi scoprirlo tu per me.» Sorrise. «Voi donne volete sempre qualcosa.» Prese il cappello e mise le monete nella borsa. «Dai, facciamo due passi e godiamoci la fiera.» Per un certo periodo lei e Galen erano stati amanti, ma nessuno dei due aveva voluto rinunciare al proprio stile di vita per l'altro. Avevano deciso di essere amici. Non lo conosceva bene quanto Dain, ma sapeva di potersi fidare. «Allora», le disse, «Jesarna continua a non piacerti.» «E a te?» «Non l'ho mai incontrata. Certo è che non capisco cosa ti renda tanto
nervosa.» Lei sospirò. «Si vede che sono io a farmi dei problemi.» La prese sottobraccio. «Dai, ti compro un regalo così smetti di pensarci.» Quando il sole fu allo zenit, incontrarono Dain e Jesarna in piazza. Galen era tutto un sorriso e li guidò verso una taverna. Kenna cercò di non accorgersi di quanto Dain e Jesarna sembrassero rapiti durante il pranzo: era come se esistessero soltanto loro due. Si ritrovò a digrignare i denti e ripetere più volte la stessa cosa per ottenere l'attenzione di Dain. Infine si alzò e uscì, seguita da Galen. «Certo che si è preso una bella cotta», commentò lui. «Non sopporto di stare attorno a quei due», sospirò Kenna. «Ricordo di essermi sentito così per una ragazza», riprese Galen. «Credo si chiamasse Melissa...» Kenna gli assestò una gomitata. «Cosa dovrei fare? Non possiamo rimanere qui per sempre, e Jesarna non mi sembra proprio il tipo del mercenario.» Galen si fermò e la prese per le spalle. «Kenna, non vorrai impedire a Dain di essere felice con Jesarna? E se fosse stanco della strada e volesse stabilirsi da qualche parte con una moglie? Gli negheresti quel desiderio? Ti rifiuteresti di dargli la tua benedizione?» «Non credo...» rispose, distogliendo lo sguardo. «Forse, amica mia, non sei gelosa della zingara quanto piuttosto di ciò che Dain ha trovato e tu non hai. Da quanto sei sola?» «Da molto tempo.» «Allora forse abbiamo scoperto la causa del tuo malumore, non è così?» Kenna sospirò e si appoggiò a lui. «E adesso cosa faccio?» L'abbracciò. «Augura loro ogni bene o di' addio. Sta a te decidere.» «Devo pensarci.» «Allora trovati un posto dove pensare.» Lei si guardò attorno. Doveva lasciare la città. «Lo dici tu a Dain?» «Dirgli cosa?» «Che vado a Pineswood. Non è molto lontano.» «Tornerai?» «Digli che ci incontriamo là. Ma non farlo finché non te lo chiede lui, in modo che non si metta a seguirmi prima di avere avuto la possibilità di passare del tempo con Jesarna e capire cosa vuole veramente.» Galen l'abbracciò di nuovo. «Cosa farai se deciderà di non tornare con
te?» Kenna cercò di sorridere. «Mi cercherò un altro compagno.» «Magari potremmo riprovare noi due, eh?» disse l'uomo. «Non adesso, Galen. Vedremo poi, quando avrò avuto modo di pensare.» «Kenna, io sarò sempre tuo amico. Se Dain continua a ciondolare qui in giro, tra qualche giorno vengo a farti visita.» Lei annuì. Galen l'accompagnò a prendere il cavallo e le sue cose, e si salutarono alla porta della città. Pareva strano andarsene da sola, senza Dain al suo fianco. I passi del cavallo sembravano echeggiare senza il secondo rumore di zoccoli. Sarebbe stata una lunga cavalcata fino a Pineswood. Passò accanto al campo degli zingari e decise che avrebbe dovuto dire addio a Viktor. La prima persona che incontrò fu la sua figlia più giovane, Martika. La ragazza dai capelli neri si gettò tra le braccia di Kenna. «Non ti ho visto quando sei venuta l'ultima volta», disse. «Come stai?» «Bene», rispose Kenna. «Bugiarda», ribatté Martika. «Hai un'aria talmente triste. Siamo come sorelle, quindi raccontami cosa c'è che non va.» Il commento di Martika suscitò in Kenna un diverso tipo di solitudine, che da anni non permetteva a se stessa di provare. «Non posso.» «Perché no? Oh, Kenna, ha a che fare con mio padre? Raccontami, prometto di non dire niente.» «Devo chiederti una cosa, ma tuo padre mi ha già avvertito di non fargli mai più domande in proposito. Sei sicura di voler sapere?» Martika annuì. «Più che mai.» Kenna sospirò. Viktor si sarebbe infuriato se l'avesse scoperto. «Cosa sai di una ragazza che si chiama Jesarna?» Martika impallidì. «Papà ha detto che non dobbiamo mai più pronunciare il suo nome.» «Ho sentito che ha abbandonato le vostre credenze.» «È più di questo. Si è unita a quell'orribile culto dell'Avvoltoio.» Kenna sentì che il colore le defluiva dal viso. «Il culto dell'Avvoltoio?» Martika annuì. «Dopo tutto quello che hanno fatto al nostro popolo, non riuscivo a credere che potesse comportarsi a quel modo. Ho anche sentito voci secondo cui agirebbe da assassina per loro. Non lo so per certo. Perché vuoi sapere di lei?»
Kenna l'udì a stento mentre balzava in sella e faceva girare il cavallo con uno strattone. «Grazie, Martika, ti devo un grande favore.» Tornò in città al galoppo, oltrepassò le guardie che oziavano, e imprecò quando la folla rallentò la sua corsa. Mentre si dirigeva alla stalla per lasciare il cavallo, scrutò il mare di persone alla ricerca di qualche faccia familiare. Levando la spada dalla sella, l'avvolse nel mantello. Non voleva essere fermata dalle guardie per il fatto di portare apertamente un'arma durante il giorno. Era sempre possibile che qualcuna la riconoscesse. Riattraversò la folla a piedi, felice che la sua altezza le consentisse di vedere al di sopra della maggior parte delle teste. Per prima cosa controllò la piazza e trovò Galen. Lui incrociò il suo sguardo e interruppe la canzone; scusandosi col pubblico, si allontanò per raggiungerla. «Pensavo te ne fossi andata.» «Jesarna è un'assassina per il culto dell'Avvoltoio», spiegò Kenna. Lui si gettò il liuto sulle spalle. «Andiamo.» «Galen», gli disse. «L'ultima volta che ci siamo visti, di un combattimento sapevi a malapena da che parte s'impugna una spada.» «E continuo a non saperne di più», replicò lui. «Ma Dain è anche mio amico, e non te ne andrai a caccia di Jesarna da sola.» «Così perderò due amici invece di uno?» «Cercherò di stare fuori dai piedi, ma loro non sanno che sono un novellino.» «Qualche idea su dove potrebbero essere?» chiese la ragazza. C'erano troppi posti in cui guardare e troppe persone da cui guardarsi. A quell'ora Jesarna avrebbe potuto averlo già ucciso. C'era da stupirsi che l'avesse tenuto in vita tanto a lungo. Ovviamente c'era sempre la possibilità che l'alta sacerdotessa dell'Avvoltoio avesse stabilito così, dato che il culto preferiva sacrifici umani con persone vive. «Quei sacerdoti che hai visto prima, dov'erano?» Kenna sospirò. «Non me lo ricordo.» Lui s'inginocchiò. «Montami in spalla. Se sono ancora in giro, dovresti riuscire a individuarli tra la folla, così poi ci basterà seguirli. Ci porteranno dalla loro padrona.» Kenna si arrampicò sulle sue spalle, un po' traballante. Da così in alto poteva vedere molto più lontano. Individuò due punti rossi che si aggiravano tra la folla, vicino all'officina del fabbro. «Di là», disse. Balzò giù e afferrò la mano di Galen, trascinandolo in mezzo alla gente.
Riusciva a scorgere la loro preda. «Non così in fretta», l'ammonì Galen. «Se si accorgono che li seguiamo non ci porteranno dove vogliamo andare.» Era difficile tenerli nel raggio visivo, ma Kenna non intendeva certo lasciarseli sfuggire. Galen le andò a sbattere contro quando lei si fermò di colpo per guardarli entrare in un negozio. «Riesci a vedere che negozio è?» gli chiese. «Non vorrei attaccarli in un luogo pubblico.» Galen si avvicinò alla vetrina con aria noncurante, diede un'occhiata, quindi tornò dall'amica. «È abbandonato.» Kenna estrasse la spada. «D'accordo, allora, è quello che stavamo cercando.» Il menestrello la seguì mentre scivolava verso il vicolo a fianco del negozio, dopo aver scartato l'idea di entrare dalla porta principale. Raggiunta quella sul retro, lei la tirò quanto bastava a capire che era chiusa a chiave. Prima che potesse imprecare, Galen la spostò da una parte. S'inginocchiò vicino all'uscio, estrasse una serie di grimaldelli e l'aprì con una tale rapidità che quasi pareva non essere mai stato chiuso. Sorrideva mentre lei lo superava oltre la soglia. «È un talento che ho spesso trovato utile.» Entrarono in una cucina. Il focolare era freddo e dava l'idea di non venire usato da tempo. Kenna si stava chiedendo se avessero fatto la scelta giusta quando udì delle voci. «Cosa significa che ha lasciato la città?» La voce di Jesarna, non ci si poteva sbagliare. La risposta venne mormorata mentre Kenna si avvicinava ulteriormente alla porta. «Mi servono tutti e due per riscuotere la taglia. Qualcuno dovrà pur sapere dov'è andata. Trovate quel suo amico menestrello e portatelo qui. Devo fargli delle domande, quindi assicuratevi che sia cosciente.» Kenna appoggiò la mano sulla porta, in attesa. Meno accoliti di Jesarna c'erano in giro, più possibilità aveva di portare via Dain. La porta d'ingresso venne sbattuta e con un calcio lei aprì quella che aveva davanti; si concesse giusto il tempo sufficiente a stabilire che nella stanza, insieme con la zingara, c'erano altri due sacerdoti vestiti di rosso. Si gettò di lato, al riparo di un tavolo. «Allora non te ne sei andata», commentò Jesarna. Alzò lo sguardo, senza accorgersi di Galen sulla soglia. Jesarna era in piedi accanto a Dain e i sacerdoti si spostarono al suo fianco con aria protettiva. «Mi fa proprio piacere», aggiunse la zingara.
Negli occhi di Dain, seduto legato e imbavagliato contro una parete, ardeva una rabbia furiosa. Jesarna gli accarezzò la guancia con uno dei coltelli che l'uomo aveva mostrato a Kenna quella mattina. «Dunque, prima che le cose si mettano male, appoggia le armi sul pavimento. Sono certa che sai che non mi è consentito ucciderlo, ma posso sfigurarlo quanto voglio.» Un'ombra si staccò dalla parete accanto alla porta da cui era entrata Kenna. Lei rimase ferma, la spada pronta. «A quanto si dice, sei un'assassina. Quindi non dovresti aver paura di combattere con me.» «Mi dispiace», replicò Jesarna. «Non è il gioco che avevo in mente. Non avrei possibilità contro di te in un combattimento leale.» Il coltello scivolò lungo la guancia di Dain, seguito da una striscia di sangue. Dain strinse forte le labbra ma non disse nulla. «Allora, quanto vuoi vederlo soffrire?» Lo sguardo di Kenna passò dalla sua arma a quella di Jesarna, quindi a Dain. Gli occhi di lui l'imploravano di non arrendersi. «Non crederai davvero che due dei tuoi preti pelati possano impedirmi di ucciderti, eh?» Jesarna tracciò un'altra linea di sangue sul viso di Dain. «Quanto dolore pensi possa infliggergli prima che tu ci riesca? Potrei limitarmi a evirarlo, o a cavargli gli occhi. Forse riusciresti a uccidermi prima che glieli tolga entrambi, ma a quel punto sarebbe un uomo inutile. Puoi ottenere la vittoria, Kenna, ma varrebbe il prezzo che dovrebbe pagare Dain?» All'improvviso la zingara gridò: il manico di un pugnale le usciva dal petto. Kenna balzò verso l'avversario più vicino, afferrandogli l'alabarda con la mano sinistra e infilandogli la spada nel fianco. Tenne l'uomo fra sé e l'altro sacerdote. Jesarna stava ancora strillando quando Kenna liberò la spada e schivò l'alabarda diretta contro di lei. Rotolò al suolo e sentì la lama del sacerdote conficcarsi nel pavimento di legno, proprio dietro la sua testa. Si alzò e affondò il colpo, ferendo l'uomo alla coscia mentre cercava di recuperare la propria arma. Scavalcò il corpo del primo sacerdote e calò con entrambe le mani la spada sul collo dell'altro. Lanciò un'occhiata al punto in cui giaceva Jesarna. La zingara era riuscita a estrarsi il pugnale dal petto e si stava trascinando verso Dain. «Kenna!» Il grido di Galen la fece voltare di scatto. Il menestrello perdeva sangue dal fianco mentre arretrava nella stanza. Lo seguivano altri due sacerdoti.
«Galen, ferma Jesarna!» urlò Kenna, mettendosi tra lui e i suoi aggressori. Si chinò e rotolò tra i due uomini vestiti di rosso, assestando un fendente al fianco del più vicino prima di scattare di nuovo in piedi. Il combattimento ravvicinato avvantaggiava la sua spada, ma cominciava a essere stanca. Schivò un altro colpo e sbatté con violenza la spalla contro la parete, che era molto più vicina di quanto avesse creduto. Aveva le dita intorpidite, e quasi perse la presa sulla spada. Una lama colpì il muro, e le schegge le graffiarono il viso. Si trovò chiusa tra l'alabarda e l'altra parete, senza via di fuga, mentre uno dei sacerdoti avanzava verso di lei. Si accucciò, poi si girò di scatto, facendo un passo all'indietro e mancando di un soffio la lama dell'alabarda. Appoggiò male il piede su qualcosa di morbido: la caviglia sinistra si piegò, e lei cadde, atterrando sulla spalla destra. Un fuoco si propagò lungo il braccio; gridò, lasciando cadere la spada. Allungò la mano sinistra per riprenderla, e quasi perse le dita per colpa della lama che colpì il pavimento davanti a lei. Arretrò, priva di armi e dolorante. I suoi aggressori avanzavano, e pregò che volessero ancora prenderla viva. Almeno ci sarebbe stata una possibilità di fuga. Un grido di battaglia squarciò l'aria e uno dei sacerdoti stramazzò per terra. L'altro s'inarcò, cercando di afferrare qualcosa dietro di lui. Kenna si rialzò barcollando mentre quello cadeva, due coltelli che gli spuntavano dalla schiena. Dain e Galen erano là, in piedi. Gli occhi di Dain ardevano per la rabbia; Galen, scosso, era impallidito. Dain gettò a terra l'alabarda e andò ad abbracciarla. Le sue braccia tremavano mentre continuava a balbettarle scuse all'orecchio. Kenna sentì che anche Galen l'abbracciava, e i tre si tennero stretti in silenzio. La folla all'Ivory Stag non parve interessarsi ai tre quando, con gli abiti chiazzati di sangue, entrarono e scelsero un tavolo vicino al retro. Galen crollò sulla sedia. «Allora, è questo quello che fate?» Kenna e Dain gli avevano bendato la ferita, ma avevano dovuto sostenerlo per gran parte della strada. «Significa che non sei più interessato a essere il mio compagno?» replicò Kenna. La ragazza lanciò un'occhiata a Dain, che la stava guardando. Non aveva detto una parola dopo che avevano lasciato il negozio.
«Stai bene?» gli chiese. «Sto aspettando», ribatté. «Aspettando cosa?» «Che tu mi dica quanto sono stato stupido.» Il dolore che gli lesse negli occhi la trattenne dall'infierire. «È davvero questo che vuoi sentirti dire?» «Hai tutte le ragioni per farlo.» Kenna allungò la mano e gli strinse il braccio. «Non vedo il motivo di farti sentire peggio di quanto tu ti senta già.» S'interruppe. «E, poi, una parte di me sperava davvero che mi sbagliassi.» Lui sospirò. «Suppongo fosse abbastanza evidente ciò che era quella donna.» «Per niente», intervenne Galen. «A dire il vero, anch'io ero rimasto affascinato quando l'ho vista. Era brava in quello che faceva.» «Però adesso è morta, e io ho riavuto il mio compagno», aggiunse Kenna. «E questo mi ricorda una cosa», disse Dain. «Ti devo molto, Galen.» Fece scivolare verso di lui sul tavolo i due coltelli da lancio. «Forse potresti trovare il modo di usarli. Te li sei guadagnati.» «Siete entrambi miei amici», commentò il menestrello. «E l'avrei fatto comunque, però grazie.» Diede un'occhiata oltre la spalla di Dain. «Ehi, c'è una donzella bionda molto carina che serve ai tavoli e ti fissa da dietro il suo vassoio...» Dain rise, e Galen strizzò l'occhio a Kenna. «Vedi, si sente già meglio.» D. Lopes Heald FUOCO DI NEVE Denise Lopes Heald chiarisce di chiamarsi Denise, e non Dennis. Suppongo che, con un film intitolato Dennis la minaccia che ha recentemente fatto il giro del mondo, questo nome non sia esattamente ben visto. Tra le vecchie strisce a fumetti che hanno per protagonista lo stesso bambino terribile, la mia preferita è quella in cui si vede Dennis nel lettino che chiede alla mamma: «Perché dici sempre: 'Grazie a Dio' invece che: 'Buona notte'?» Per quanto sciocco possa sembrare, una volta ho sentito dire al disegnatore che riteneva di rendere un servizio pubblico mostrando ai genitori di non essere i soli ad aver pensato all'infanticidio; dato che al
giorno d'oggi le famiglie sono sempre più piccole, alcuni genitori non arrivano mai a impararlo con l'esperienza. Si tratta di una verità cosmica; ogni donna - e probabilmente ogni uomo - arriva a un punto in cui potrebbe tranquillamente buttare a mare il pargolo, ma l'ipocrisia degli anni '50 e '60 era tale da far sentire tutte le donne in dovere di fingere che occuparsi dei bambini piccoli fosse sempre e solo esaltante e gratificante. Tutte le donne però sanno che non è detto che sia per forza così: si possono amare i figli e allo stesso tempo uscire pazzi per colpa loro; e spesso una bella risata ha evitato l'infanticidio o l'esaurimento nervoso. Denise Heald vive nel Nevada insieme col marito e con la figlia, e «Fuoco di neve» è stato scritto con sessanta centimetri di neve onnipresente attorno alla casa. Dice che la neve era una sorta di fattore determinante sull'umore. Avendo vissuto nel New England, posso immaginare. Ha scritto romanzi che hanno visto soltanto il cassetto della scrivania; ma è da lì che partono tutti, a meno che l'autore non sia allo stesso tempo furbo e ossessionato. Ha già venduto racconti brevi al Marion Zimmer Bradley's Fantasy Magazine, ad Aboriginal Science Fiction e a Pandora, mentre il suo primo romanzo, Mistwalker, è stato pubblicato dalla Del Rey Books. Fiamme frustate dal vento guizzavano nella neve, fievoli brandelli di fuoco in un sentiero tortuoso: le impronte del Kizat, il Divoratore di Anime. Nel cielo del pomeriggio incombevano nuvole basse e plumbee, e l'aria gelida strideva, straziata dal vento. A Cairn bruciavano i polmoni; respirava a fatica, cercando ossigeno dove ce n'era troppo poco. E, a ogni respiro, con la schiena urtava la fredda pietra che gli forniva rifugio. «Mezza giornata.» Lady Steli cambiò posizione, il corpo avvolto nella pelliccia pronto ad agire, il mento sollevato, gli occhi che scrutavano le colline deserte coperte di neve, sempre in guardia. Lui riusciva soltanto a fissare le fiamme. Il Kizat si era spostato davanti a loro. Il ghiaccio gli si fermò in gola, con sapore di ferro e stanchezza. Tutti quei lunghi giorni di fatica bruciapolmoni per tenersi davanti al Kizat nel timore di essere presi... Aveva creduto che fosse quella la parte peggiore: correre, spinto a compiere sforzi sovrumani dalla propria paura. Ma adesso lei gli aveva chiesto di correre altrettanto in fretta verso il Kizat, per tendere un'imboscata. «Sei pronto, Guerriero?»
Sicura nel suo orgoglio, Lady Steli spezzò un gambo di salvia da un cespuglio congelato e lo fece roteare nell'aria. Sulla fronte le scintillava la fascia del clan delle Epah, il simbolo della Madre. Le Epah avevano dimostrato che le donne sapevano combattere con concreta e letale tenacia, con fredda ferocia. E tuttavia rifuggivano il torneo maschile del clan come una frivolezza infantile. Guerriero. Gli sorrise, prendendolo in giro. Non aveva combattuto per nulla durante il viaggio, si era limitato a camminare dondolando sotto la grande sacca che ora portava in spalla. E non si poteva lamentare; una persona più sensata non avrebbe nemmeno tollerato che lo posasse. Solo il suo tocco teneva l'ano'nuine al sicuro: il Kizat non poteva prendere l'anima di un essere vivente che portasse la gerla funebre. «Cairn?» La voce della donna si era addolcita. Si accorse di essersi alzato in piedi, torreggiando sopra di lei, senza però muoversi. Oggi la sua mente vagava. Percepiva molto vicina la presenza del Kizat, che gli succhiava via l'anima a ogni passo. Tremando si gettò lontano dalla roccia, spruzzando neve, rifiutandosi di guardare Lady Steli. Lei sosteneva benissimo il suo sguardo, ma non provava il desiderio di farlo. Lui invece non poteva sopportare i suoi occhi indagatori, che si chiedevano sempre quando sarebbe crollato, quando avrebbe fallito. Lei era stata addestrata a quel compito per tutta la vita, apprendendo cose che andavano oltre la comprensione di Cairn; aveva affinato mente, corpo e spirito in modi che superavano le sue possibilità. Quella consapevolezza costituiva per Cairn una flagellazione pari al Kizat: Lady Steli lo superava in ogni cosa. Soltanto la stazza gli dava un vantaggio, e l'ano'nuine che portava gli negava anche quello; lo appesantiva sempre di più, facendolo affondare oltre la crosta di neve, annebbiandogli la vista, indebolendolo sino a farlo muovere nel modo goffo e sgraziato di una donna incinta. Ma non era vita quella che portava. «Cairn!» Si era fermato di nuovo. La voce di lei lo spronò a continuare. La neve gli si attaccava alle gambe coperte di pelliccia, gli si avvinghiava agli stivali. Si tirò il pesante velo invernale più aderente al naso e si concentrò sul sentiero fiammeggiante che aveva dinnanzi. Se le tracce del Kizat portavano lontano, significava che era là che si era diretto. Questo non è un torneo di campioni, gli aveva detto Lady Steli la prima
volta che si era messo in spalla l'ano'nuine. Non ci sono regole né comportamenti sleali. Non ci sono vincitori... solo sopravvissuti. «Cairn!» Alzò la testa di scatto. La spalla di lei lo colpì al fianco, facendolo ruotare su se stesso. «La roccia. Torna vicino alla roccia.» Il Kizat. Si gettò in un cumulo di neve fresca, uscendo barcollando dalle tracce che avevano lasciato; si raddrizzò, colpì della neve pressata, e cadde in ginocchio vicino alla pietra. Il corpo di Lady Steli ondeggiò davanti a lui. La spada lampeggiò, catturando la luce anche sotto quel cielo cupo, intessendo incantesimi per rallentare il Kizat dove non poteva la spada. «Sta' giù.» La voce della donna era stridula. La tensione crepitava. I muscoli di lei erano tesi, sul viso si leggevano le ossa. Lui allacciò più strette le cinghie attorno al petto, il cuore che sprofondava. Il Divoratore di Anime non poteva prendere l'ano'nuine, solo spingerlo ad abbandonarlo. Puntò le ginocchia nella neve e aggiunse dei nodi alle cinghie sulle spalle per timore di sfilarsele in preda al panico. E la sua mente volò via, uscì dal corpo; dall'alto, osservò se stesso che si rannicchiava impaurito nella neve dietro una donna in armatura. Afferrò il pomo della spada che aveva insistito a portare, pur sapendo che non gli sarebbe stata d'aiuto contro il Kizat. Il suo cuore era in tumulto. Il polso gli martellava. Muscoli esausti gli indolenzivano le gambe. Strinse i denti, rifiutandosi di gridare, rifiutandosi di distrarre la Lady. Un fulmine lampeggiò. Grandi fiocchi piumosi incominciarono a scendere: la magia della Lady, o quella della natura stessa. Gli colpivano la fronte, fermandosi tra le ciglia. E la paura fuggì, inseguita da un gelido frullio di ali di falena, lasciandolo a puzzare di sudore e pelliccia sporca, a battere i denti, ogni dolorante muscolo contratto. «Cairn?» Non riusciva a reagire. Mani lo schiaffeggiarono, togliendogli il velo. Che guardasse pure il volto di un guerriero mai messo alla prova, se voleva; che s'indebolisse, se così aveva scelto. Lui ormai non aveva più aspirazioni e neppure speranze. Un uomo della sua età, che non era mai stato scelto per un torneo, aveva bisogno di ben più che un velo per nascondere la vergogna. In quel viaggio il suo ruolo era quello del mulo. «Cairn!» Il tono basso e pressante dell'implorazione di lei gli fece alzare lo sguar-
do. Non avrebbe dovuto essere bella, così fredda e bella. «Cairn!» ripeté lei, scuotendolo. Lui fece un respiro lungo e profondo, rendendosi conto di avere trattenuto il fiato sin da quando se n'era andato il Kizat. Ne fece un altro. «Ah, bene.» Lady Steli lo abbracciò; un gesto che non gli migliorò certo la respirazione. Ma i pugni di lei lo colpirono ai fianchi, ricordandogli di tenere quel ritmo, provocandogli nuovi respiri finché la vista non gli si snebbiò includendo uno spazio più ampio del viso della donna screpolato dal vento. Il ronzio che aveva nelle orecchie svanì. «Ho fallito...» Aveva il cuore dilaniato. «No.» La donna gli assestò una pacca sulle spalle. «No. Non lo senti?» E allora ci riuscì. Il peso! Quel peso terribile c'era ancora. Aveva fallito come guerriero, ma non in quella occasione. L'attesa si era dimostrata una battaglia disperata; la sua unica arma era stata una strenua resistenza. Si ricordò di sua madre, dei suoi occhi. Lei capiva. Sua sorella, i denti stretti per sopportare il dolore e la fatica del parto, lei capiva. Ma non avrebbe guardato Lady Steli. Con un grugnito lacerante, scattò in piedi, lasciandosi aiutare. Il mondo girava, un caleidoscopio di neve ardente. Trattenne il fiato, e lei gli tenne le braccia lasciando che si appoggiasse alle sue spalle. Il Kizat ossessionava la mente di lei come quella di lui? I pensieri dell'uomo si fecero confusi. Perché la neve bruciava? Ma sapeva che non era così, che si trattava solo della penetrante salvia oleosa. Di tutti i portatori di ano'nuine, lui era il primo maschio, perché portava il primo re che fosse mai stato offerto alla Pietra. Alcuni avevano protestato all'idea di un portatore maschio. Le Epah erano addestrate a quel compito: da secoli conducevano le regine del popolo al luogo del riposo, stando a guardia dell'anima fino al momento opportuno, quando il Kizat poteva nutrirsi di essa senza divorare la gente che aveva servito la Regina Madre. Ma Madre Nio era morta in un incendio. La sua anima era fuggita da sé. Il suo corpo era diventato cenere senza che il seme fecondatore del Kizat garantisse al suo popolo un altro ciclo. Era sembrato un disastro inevitabile... finché Lord D'Nio non aveva offerto in sacrificio la sua anima, devoto al suo compito di amante reale. Aveva governato per trent'anni, con mano gentile, forte, a volte impaziente, guidato dalle consigliere della Madre; aveva dimostrato che almeno un uomo era in grado di governare con saggezza. Lord D'Nio era morto. La via era stata intrapresa; alla vigilia della par-
tenza, la Sacerdotessa della Fiamma aveva dichiarato che doveva essere un uomo a portare quell'ano'nuine disgraziatamente voluminoso. Tuttavia Cairn aveva osservato che la scelta dell'uomo in questione non era stata fatta con particolare cura. Era arrivata una sacerdotessa. Il Capitano aveva passato in rassegna il suo centinaio di guerrieri e aveva scelto lui, il velo più vecchio. Una perdita sopportabile. Tu combatti come una donna, l'aveva schernito il Capitano. Cairn incespicò, gelato fino alle ossa, e cadde sulle ginocchia accanto a un brandello di fiamma. Che fosse dannato, il Kizat gli doveva qualcosa, almeno un po' di calore. Ma il fuoco ardeva senza scaldare. «Cairn?» Lady Steli lo spronò ad alzarsi. Tremando in ogni articolazione e in ogni muscolo, obbedì. Da bravo ragazzo... da bravo asinello. «Cairn.» Lo fece fermare, e poi ruotare su se stesso prendendolo per un gomito. Le dita guantate di lei gli accarezzarono la guancia, confondendolo. «Ci siamo.» «Cosa?» «Siamo arrivati alla Pietra.» Cominciò a sciogliere i nodi che aveva fatto alle cinghie, per legarsi stretto l'ano'nuine sulle spalle. Lui si oppose, in preda al panico. Il coltello lampeggiò. Una cinghia si ruppe. L'involto s'inclinò, facendolo barcollare. Il peso della donna gli si abbatté sulla schiena. Cadde a faccia in giù nella neve. Grugnendogli nell'orecchio, Lady Steli tagliò le cinghie che restavano. Cairn si sgravò del peso: era libero. Raschiando sulla neve scivolosa, in equilibrio precario, la donna tolse dalla gerla funebre il corpo del padre avvolto in fasce, trascinandolo fin sul grande spuntone di roccia che era stata la loro meta. «Vieni, Divoratore di Anime!» La sua voce era stridula, e squarciava la tetraggine del nuvoloso crepuscolo. «Possa tu qui banchettare. Trova qui la tua pace e riposa finché il mio viaggio non mi riporterà in questo luogo. Nutriti e spargi il tuo seme nel vento, alimenta il tuo popolo.» Lui non avrebbe dovuto guardare. Lo fece, sdraiato nella neve mentre lei ballava una danza di guerra alla montagna, intonava rivolta al vento un canto di madre, faceva piovere dolci lacrime sul terreno, e accendeva un fuoco simile al sole per contrastare l'avanzare della notte. Arrivò il Kizat.
Lungo il sentiero coperto di neve su cui si erano inerpicati, fiamme guizzavano e si radunavano. Cairn lo vedeva salire. Lady Steli fissava il vuoto, persa nell'incantesimo, braccia alzate, implorante. Lo spavento fu come la lama di un pugnale nel cuore di Cairn. Lei non era pronta! Suo padre, il re, giaceva ancora avvolto nei teli funebri, un blocco di carne congelata, ancora troppo freddo per bruciare. Con lentezza, costrinse le ginocchia a piegarsi, le spalle a sollevarsi, i piedi a rimettersi dritti. Finalmente utilizzò anche la spada, puntandola nel terreno gelato; un ancoraggio contro il vento. Lame di freddo gli ferivano la schiena scoperta. La paura gli lacerava il cuore. Le narici si dilatarono. Mentre ricominciava a cadere la neve, argentee ali palpitanti contro il cielo sempre più scuro, la vista gli si fece confusa. Il cuore accelerò, poi rallentò; rallentò ancora. Fu pervaso dalla spossatezza. I suoi pensieri affondarono dietro la foschia. Il terrore si sciolse. Ghiaccio scivolò via tremando dai suoi arti. I polmoni respirarono un'aria calda come brezza estiva, profumata d'erba e polirne. L'acqua stillava. Il verde avanzava ondeggiando. Attraverso sogno e illusione, vide avanzare il Kizat. La neve, resa vapore dall'energia pura, creava un alone di forma umana priva di tratti distintivi, e archi fiammeggianti si diramavano in tutte le direzioni. Cairn si mosse, come attraverso un muro d'acqua, per bloccare la strada al Divoratore di Anime. Avrebbe saputo riconoscere il momento giusto, quando Lady Steli avesse preparato tutto. Fuoco gli lambì i piedi. Foglie d'albero frusciarono, anche se non ce n'erano in nessuna parte dell'intero altopiano. Gli tremarono le gambe. Il suo corpo ondeggiò. Il Kizat lo sfiorò. Cairn emise un grido. Ma non provava dolore, né stanchezza; il suo corpo si era fatto leggero. Abbondante sudore gli correva lungo i fianchi. Il cuore batteva forte e lento, il sangue scorreva come spuma incandescente. Il Kizat s'innalzò dentro di lui, bevendogli l'anima. L'uomo cadde. Il Kizat passò, incapace di contenere un essere vivente. La neve ostruiva le narici di Cairn. Fiamme brillavano fioche e crepitavano accanto alla sua testa. Cairn urlò. E, dietro la sagoma infuocata del Kizat, Lady Steli si voltò a quel grido. I tendini del collo le si tesero, i muscoli della mascella le si allungarono.
Riflessi di fuoco simili a metallo fuso corsero per tutta la lunghezza della lama mentre la donna sollevava la grande spada rovinata. «Nutriti qui», allettò il Kizat, ondeggiando tra il Divoratore di Anime e la pira che aveva costruito. Il corpo di suo padre, avvolto dalle fiamme, non era del tutto consumato. Non poteva ancora consentire al Kizat di avvicinarsi. Cairn si alzò a fatica. La donna non poteva fermare il Divoratore di Anime; non più di quanto avesse fatto lui. Però era riuscito a rallentarlo. E, danzando, lei cercava in ogni modo di distrarlo. Il vento soffiava sul grande promontorio roccioso. Fiamme si dirigevano verso la schiena di lei. Il Kizat avanzò tremolando. Lady Steli fece oscillare la punta della spada davanti al volto infuocato dell'apparizione. L'essere seguì la lama splendente; lei arretrò, il Kizat la seguì. La spada danzava. Fiamme s'innalzavano. Il vento ululava. Cairn superò barcollando il Kizat. I capelli bruciacchiati dell'uomo erano dritti in piedi. Gli formicolava la pelle. Strappati rami di salvia, li gettò sulla pira del suo re. Le fiamme salirono alte, più calde, più sottili, bianche al centro. Carne e ossa caddero. Il Kizat balzò in avanti. Lady Steli gridò. In una vampata il Divoratore di Anime fu sull'ano'nuine, bevve a fondo, ed esplose verso il cielo, facendo piovere cenere nel vento e mandando il seme del re verso la sua gente. Cairn si lasciò cadere, sprofondando nella neve. Non avevano fallito. Tremava e piangeva come una donna. Non c'era da stupirsi che nessuno l'avesse mai giudicato degno di combattere. Lady Steli lo trascinò verso il calore del fuoco e gli appoggiò la gerla funebre contro la schiena. Il fumo li avvolse in spire e volute che odoravano di salvia e neve sciolta. Lei gli tamponò le tempie bruciacchiate col velo appallottolato. A nessuno dei due erano rimasti molti capelli. Lui avrebbe voluto ridere, invece nascose il viso. «Va tutto bene», disse la donna. Lo abbracciò di nuovo, stringendolo contro l'armatura. «Non mi guardare. Non sono stato messo alla prova.» «Non sei stato messo alla prova?» Le tremava la voce. «E lo credi solo perché non hai sparso sangue con la spada?» Lui non intendeva guardarla. Durante tutto il cammino, il viso scoperto di lei l'aveva schernito.
«Basta.» Gli abbassò le mani; le stanche spalle di lui erano incapaci persino di respingerla. «Guardami. Guarda!» ingiunse. Gli prese le guance ispide tra i palmi, non permettendogli via di fuga che non fosse il chiudere gli occhi. Lui non lo fece. «Questo non significa nulla», disse agitando il velo dell'uomo. Poi si strappò dalla fronte coperta di vesciche la fascia da guerriera, la piegò più larga sistemandola sulla fronte di lui, e continuò: «Questa ti reclama. Che sia maledetto il tuo clan maschile. Tu sei più forte di qualunque altro uomo. Hai portato un re. Sei sopravvissuto al Kizat». Il respiro gli si bloccò nei polmoni. Fissò gli splendenti occhi di lei. Parte dell'intorpidimento scomparve. «Io ti reclamo.» Lo scosse di nuovo. «Servi me. Un giorno potrei diventare Regina Madre. O forse no. Ma ora devo radunare dei guerrieri. E non mi vergogno a reclamare un uomo con la tua pazienza.» Negli occhi della donna guizzavano fiamme ardenti. «Ma ti avverto, noi proteggiamo la Madre. Portiamo l'ano'nuine, controlliamo le strade, e ci occupiamo dei confini. Compiti noiosi.» Lui comprese. E magari era per quello che per tutti quegli anni nessuno l'aveva sfidato, che era rimasto escluso dai campioni del suo clan, perché prendeva tutto tanto seriamente, combatteva con tale precisione tecnica che nessuno voleva sfidare la sua monotona perseveranza. «Lady...» Deglutì. Lei sorrise; dopo tutti quei giorni, era più abile nel leggergli nel cuore di quanto non fosse lui stesso. Una stanchezza conquistata a fatica gli attraversò il corpo. La mano di lei gli accarezzò la spalla. La donna rise. Nel gelido cielo notturno piovvero scintille. Le donne combattevano per motivi diversi, vedevano le cose con occhi diversi. Ma lui non aveva paura di ciò che prevedeva quella donna. Che cominciò a cantare al vento. Se lei non si vergognava a reclamarlo, lui non si vergognava a combattere come una donna. Stephanie Shaver ANTICA GUERRIERA Stephanie - che è una tra i miei autori più giovani, dato che aveva solo quattordici anni la prima volta che mi ha venduto un racconto - scrive che, «pur avendo sempre capélli e occhi castani e un sorriso felino assai so-
spetto, dall'ultima biografia che le ho mandato sono cresciuta di due centimetri e mezzo. E questo va benissimo: adesso sono un metro e sessanta tondo tondo!» L'ultima volta che ho scritto la sua biografia mi ero sbagliata affermando che ha gli occhi azzurri. Scusa, Stephanie. Sta lavorando a un romanzo e si aspetta di «impiegare altri due anni per finirlo e tre per ricorreggere tutte le varie stesure; tra scuola, lavoro, studi musicali e una vita sociale piuttosto attiva, ho poco tempo per scrivere, ma cerco d'impegnarmi al massimo». Tutti i suoi racconti pubblicati in queste antologie si svolgono nello stesso mondo in cui è ambientato «Antica guerriera». Con ogni probabilità si trasferirà presto nella Bay Area per frequentare la San Francisco State University. «Mi lascerò alle spalle la minore età alla fine di giugno, quando compirò diciotto anni e prenderò il diploma. Al momento prevedo di laurearmi in storia, ma, mi capitasse di scrivere un bestseller da New York Times - ah ah ah -, farò quello che farebbe qualunque persona sana di mente: allontanarsi dalla società e darsi all'eremitaggio da scrittore di fantasy.» Be', Stephanie, l'inizio è buono; starai giusto dall'altra parte della baia rispetto a noi. La Bay Area non è più quella di trent'anni fa quando sono arrivata la prima volta - fra le altre cose ne hanno occupato più di metà -, ma è ancora il miglior posto al mondo in cui vivere, o almeno batte tutti gli altri in cui ho abitato, e niente mi convincerebbe a trasferirmi da un'altra parte! «Seir Ario, dov'è tua figlia?» Ario distolse lo sguardo dagli occhi infossati della vecchia Grancha. «Dov'è stata per tutto questo mese, vecchia. A Gyrax, da sua cugina», rispose con dolcezza e sottovoce Ario, scostando ciocche di capelli sale e pepe come faceva sempre quando era nervosa. «Che strano», rifletté Grancha. «A me sembra che il giorno in cui tua figlia se n'è andata in città sia proprio quello in cui sono iniziate le uccisioni. Ma la tua dolce piccola Helen non ammazzerebbe nessuno neppure adesso, vero?» Ario si diresse risoluta verso il maniscalco. «Buona giornata, vecchia dama.» «Un buon giorno, forse!» le gridò dietro Grancha dalla sua sedia. «Ma che mi dici della notte?» Ario l'ignorò, passando davanti alle altre case e botteghe con tutti i loro
occupanti intenti a mormorare, ed entrò nella casa-negozio dell'unico maniscalco di Dias. La stanza era molto calda per il fuoco della fucina e la temperatura estiva. Seduto su un consunto sgabello di legno a lucidare amorevolmente una teiera di rame c'era il fabbro, un omone coi capelli neri e con lunghi baffi, la pelle irritata e scurita dagli anni di lavoro su un'incudine annerita. «Posso esserti utile, seir Ario?» le chiese, posando la teiera per guardarla. Ario annuì. «Quadrelli per la mia balestra.» L'uomo assentì, si voltò e prese due dozzine di frecce realizzate a mano da una scatola nel magazzino dietro la zona di lavoro. Ario pagò con le poche sottili monete d'argento che aveva, afferrò l'ordinato mazzo di quadrelli e si girò per uscire. «A me sembra che queste frecce siano diventate estremamente popolari in città da quando sono iniziate le uccisioni», disse con aria noncurante il maniscalco. Ario lo ignorò e lasciò il negozio, camminando rigida sulla gamba di legno. Passò di nuovo davanti alla vecchia Grancha, che la provocava a furia di domande. «E che ci farai con tutte quelle frecce, donna?» gridò Grancha. «La Guerra della Signora è finita da più di vent'anni!» E di nuovo Ario la ignorò, dirigendosi verso la fattoria in cui abitava da vent'anni. Dieci con marito e figlia, dieci soltanto con la figlia, e ormai un mese da sola. Per la prima volta. Era strano per Ario stare da sola. Non le piaceva molto. Il sole stava tramontando quando cominciò a salire a passo pesante i gradini che conducevano alla porta. La casa era fredda, la cenere nel focolare ancora più fredda, il vuoto che l'attendeva all'interno incombente come un'indicibile mostruosità. Neppure quando stava nell'esercito si era mai sentita così sola. Neppure quando era morto il suo amato marito, perché aveva sempre avuto Helen. Ma, in quel momento, lei - una guerriera antica, consumata - cos'aveva? Ario accese il fuoco e preparò una magra cena; poi andò alla mensola sul camino dove era appesa la sua balestra Evermist color nero cenere. La sollevò con delicatezza, passando le mani sul legno oliato. Bella, come sempre. Doveva trovare il dispositivo di caricamento; non era più forte o callosa come un tempo, ma non aveva importanza. Sarebbe stato lanciare la
freccia a far male, vedere la figlia non-morta cadere per il quadrello della propria madre... No, no, no! Non sua figlia! Una creazione di quel bastardo di Alesx. Le aveva portato via Helen, la sua bambina, cui aveva confezionato tante bambole. Ricordava ancora la notte in cui era andata ad aiutare Zavea, la fattrice, a uccidere i lupi che avevano fatto razzia delle loro pecore... e aveva lasciato Helen sola con quella cosa. Vedeva ancora la casa come l'aveva trovata tornando verso l'alba. Pezzi di stoviglie rotte, il tavolo che Russo aveva costruito per lei come dono di nozze spaccato in due. E la sua dolce bambina: scomparsa. E ricordava la sua stupida ingenuità nell'invitare lo sconosciuto in casa al calare del sole; quello strano sconosciuto, bianco come un fantasma, con capelli talmente neri da mostrare riflessi blu. Che stupida era stata! Nonostante i turni di guardia che aveva organizzato contro l'Oscurità - combattere non era l'unica cosa che aveva imparato nell'esercito -, aveva lasciato entrare Alesx. L'aveva invitato a entrare, vanificando in tal modo l'efficacia delle guardie, perché quel ragazzo con l'insolito accento cteaniano pareva tanto scarmigliato, tanto magro... E affamato, ma non di una fame mortale. La notte successiva... ricordo anche quella... quando stavo seguendo le loro tracce e ho visto quelle due pallide figure nella foresta di Dias, pensò Ario mentre cercava il dispositivo di caricamento. Sangue sulle mani, sui volti... i volti di Alesx e Helen... mia figlia! Allungò la mano in una credenza e, con un sorriso trionfante, trovò quello che stava cercando. Adesso basta! Stanotte ucciderò entrambi, o morirò nel tentativo. La mano sfiorò il ferro del dispositivo, e lo posò. Una bambola di legno rotolò giù dalla mensola su cui era appoggiata, disturbata dallo spostamento dell'oggetto metallico. Cadde, colpì il pavimento di legno duro, e rimbalzò. Con uno schiocco, la bambola fatta a mano andò in pezzi, lo scolorito viso dipinto che si staccava rotolando dal corpo. La vecchia soldatessa rimase immobile, mentre le lacrime le riempivano gli occhi. «Oh, Helen», mormorò, accovacciandosi per raccogliere il giocattolo. «È stata colpa mia, che ti ho lasciato da sola con lui. Colpa mia.» La rabbia le fece ricacciare indietro le lacrime, stringere il pugno attorno alla bambola, frantumandole gli arti polverosi. «È tempo di finire ciò che ho cominciato.»
La voce si fece strozzata, e gettò la bambola nel camino. Il fuoco scoppiettò e inghiottì avidamente legno e pittura, masticando il giocattolo come un cane con un osso da brodo. Ario tornò alla balestra e la caricò col primo quadrello. Sapeva qualcosa sulle creature come Alesx: erano maligne e crudeli, e odiavano lasciare conti in sospeso. Il«gioco» a Dias stava diventando poco fruttuoso e, se avessero continuato a predare lì, avrebbe potuto attirare l'attenzione della Corona. Alesx poteva anche essere abbastanza forte da tenere nel terrore una piccola comunità di contadini e artigiani, ma sarebbe senz'altro stato annientato nel confronto con un pericolo grande quanto i Maghi Reali. Che fosse quella notte o il giorno dopo o la settimana successiva, sarebbero tornati a casa di Ario a cercarla, prima di trasferirsi altrove, per ucciderla o trasformarla in una di loro. Era nella natura della bestia. O almeno così sperava. Dietro di lei, il fuoco ardeva ancora, e alcune fiamme si levarono e ridiscesero quando aprì la porta d'ingresso. In silenzio, portò fuori la sua vecchia sedia a dondolo, si sedette e si appoggiò in grembo la balestra. La luce lunare splendeva sulla campagna; due delle tre lune erano piene, e assicuravano un'illuminazione perfetta quella sera. Ario nascose la balestra sotto una coperta fatta all'uncinetto da sua nonna, si appoggiò allo schienale e attese. Sarebbe stata una lunga notte. La vecchia guerriera si svegliò di colpo dalla trappola in cui l'aveva attirata il sonno, riportata al presente da riflessi di combattente che aveva creduto sepolti da tempo sotto una tranquilla esistenza campagnola. Scosse via il sonno dalle palpebre e guardò verso il bosco, strizzando gli occhi che non funzionavano più bene come vent'anni prima. Ci fu un movimento improvviso. Ario voltò la testa a destra e a sinistra; poi smise, rendendosi conto che era inutile. Conosceva quelle tattiche anche troppo bene: confondere il nemico. Alla sua destra, le assi del pavimento scricchiolarono. Lentamente, si voltò in quella direzione. Una sagoma si stagliava contro il cielo scuro. Un vento delicato scompigliava i capelli biondo miele sulla testa di Helen e le agitava il vestito sbrindellato. La lucentezza ferina degli occhi della figlia attirò l'attenzione della donna. «Figlia, sei tornata», disse pacata, cercando di far sembrare la voce gra-
ve, come quando coglieva Helen nell'atto di fare qualcosa che non avrebbe dovuto. Silenzio. La vampira restò in piedi davanti a sua madre; un'immagine silenziosa, le ombre che le si radunavano attorno come una schiera di demoni. «Cosa si prova a togliere la vita a tutta quella gente?» chiese Ario con una forza che non aveva. «Ti è piaciuto, Helen? O com'è che ti chiami adesso? Fantoccio? Schiava? Tu non sei mia figlia. Mia figlia non ucciderebbe le persone per il loro sangue!» Le parole servivano a sostenerla, a spingerla in un luogo lontano dal suo cuore, dove avrebbe potuto tirare la manetta e scagliare il quadrello nel cuore della sua bambina. L'unico modo per uccidere un vampiro, in mancanza della purificante luce del sole, consisteva nel traffigergli il nero cuore, e poi ridurre il corpo in cenere col fuoco. Ario sapeva benissimo di avere a disposizione soltanto un tiro, e rischioso, per di più. Non avrebbe avuto il tempo di ricaricare perché Helen, per quanto una volta fosse stata sua figlia, non glielo avrebbe concesso. Dopo aver tirato quell'ultimo quadrello, Ario sarebbe rimasta senza difese. Helen era immobile, non si muoveva, non respirava, la pelle pallida che riluceva di un insano chiarore sotto le lune. «Mia cara ragazza, dov'è il tuo amante di sangue? Dov'è il tuo fratello non-morto? Dov'è Alesx, il mostro che viene dalle tenebre? Forse in piedi dietro di me con un randello? Ma, no... non avete intenzione di uccidermi, volete prosciugarmi e trascinarmi nel vostro incubo. «Ma queste vecchie ossa non ci verranno. Preferirei avere il corpo squartato e bruciato nel vento da banditi della peggior risma piuttosto che soccombere alla notte.» Fece un profondo respiro, rendendo verità le parole che pronunciava tra sé. Non sei mia figlia, tu non sei mia figlia, salmodiava la sua mente, costruendo l'illusione di emozioni da spietato soldato attorno a un cuore di madre, formando una patina di gelido odio. La guerriera posò gli occhi grigi su altri occhi che somigliavano ai suoi e scelse con cura le ultime parole, lo strato finale sulla barriera interiore che stava erigendo. «Tu non sei mia figlia», ripeté. «Ho allevato la mia bambina molto meglio di così.» Helen trasalì, e Ario seppe che era giunto il momento di agire. Rapida, prese la balestra, puntandola al cuore di Helen; il mirino inquadrava il corpo della non-morta con accuratezza mortale. Il sudore le formi-
colava per tutto il corpo, pungendo come un migliaio di minuscoli spilli. La mano sfiorò la manetta rigida; i muscoli delle dita si torcevano mentre cominciava a tirarla. E la voce di Helen fu portata fino a lei dal vento: «Oh, mamma...» A quelle due parole, la sua forza di volontà si frantumò come un lago ghiacciato nel disgelo della primavera. L'illusione si sciolse. La balestra le cadde dalle mani intorpidite, precipitando rumorosamente sul pavimento del portico, e si ritrovò in piedi a gridare: «Va' via di qui! Via! Che tu sia dannata... dimenticati di me!» Alla luce delle lune, gli occhi della non-morta splendevano. Un'unica lacrima, come una gemma, le scese lenta lungo la guancia, scivolò giù e s'infranse per terra. Poi la vampira scomparve, nella notte. Ario era seduta, la mano sul cuore, e cercava di calmarsi. Di colpo si sentiva assediata, paralizzata e molto, molto più vecchia. Ario era seduta, abbandonata sulla sedia a dondolo. Le lune illuminavano la balestra, abbandonata, che pareva avere solo qualche graffio. La soldatessa sospirò mentre si chinava a prendere l'arma, la testa vicina al pavimento. Udì il sibilo di qualcosa di massiccio e pesante che scendeva verso la sua schiena indifesa. Ruotò su se stessa per vedere cosa o chi la stesse attaccando, ma il randello fu più veloce. Oscurità e stelle s'impossessarono della sua vista. Ario si risvegliò sulla sedia a dondolo, la testa che martellava, una nebbia che le ostruiva la mente. «Bene, bene!» disse una voce dolce e sinistra, simile a un'ombra di mezzanotte, con la cadenza dell'accento cteaniano. «Salve, seir Ario.» Rise. «Come stai?» «Alesx», bisbigliò Ario, sforzandosi di alzarsi... solo per scoprire che non le era possibile, ovviamente. Il vampiro doveva esercitare un qualche arcano controllo sul suo corpo. Era bloccata come se fosse stata legata con fasce d'acciaio. Ario abbassò lo sguardo verso il portico. «Certo, seir Ario, sono io. Il tuo mostro personale. Il tuo odiato signore delle tenebre. Il tuo... ma non c'è bisogno che continui, puoi trovarle tu le parole. Dicci, vecchia: cosa dovremmo farne di te, la mia sposa e io?» Un piede la fece ruotare in modo che guardasse all'insù, dritto nel viso di Alesx. Helen era in piedi accanto al vampiro più anziano, lo sguardo rivol-
to altrove, come se si vergognasse. «Ctean», mormorò Ario. «Avrei dovuto pensarci la prima volta che ho sentito la tua voce. Ctean... governata dai cinque Re dei Tumuli. Tu quale sei?» Alesx rise. «Nessuno, sciocca! È vero, mio padre è uno dei cinque signori dei non-morti ma io... io sono un bastardo, per nulla vicino ai troni di Ctean! Mia madre era una strega delle paludi, e fece arrivare uno dei re neppure io conosco il nome di mio padre - nella casa in cui abitava, in modo da avere una sua prole.» Rise di nuovo, con un sibilo strozzato. «Ci crederesti? Ha sedotto un cadavere senza mai preoccuparsi di scoprire in che modo un vampiro esca dal ventre di sua madre.» Mostrò i denti ferini. «Nasciamo così! Ci facciamo largo lacerando le carni; poi, come primo pasto, ci nutriamo del corpo ancora caldo di nostra madre!» Guardò Helen, e il sorriso si allargò. «E, benché non sia nata vampira, ho previsto per tua figlia lo stesso destino, riguardo a te, vecchia megera.» «E come fai a sapere di appartenere alla stirpe dei vampiri?» chiese Ario come se stesse tranquillamente conversando. «Tu stesso hai affermato di non conoscere il nome di tuo padre.» Alesx sorrise. «Vecchia, io non sono umano. Ho modi per conoscere le cose che i tuoi sensi limitati neanche si sognano. Tutti i vampiri sanno da dove sgorga il loro sangue, e io so che il fiume della linea diretta dei miei progenitori deriva da una delle sorgenti originali. Posso anche essere un bastardo, ma sono sempre un principe; proprio come ora, per legge, tua figlia è...» - di nuovo un sorriso malizioso - «una principessa di Ctean. Antica guerriera, avevi mai pensato di entrare a far parte d'una famiglia reale?» Ario non replicò, fissando invece sua figlia. Per un attimo Helen incontrò il suo sguardo. Un brivido carico di presagi trafisse il cuore della guerriera quando vide la paura e il dolore che le rimandavano quegli occhi. L'hai provata anche tu quella paura, una volta, qualcosa le sussurrò nella mente. È successo quando ti sei trovata di fronte un muro di uomini con scudo e spada cteaniani, fermamente decisi a farti a pezzi. Conosci quel dolore, era per gli amici e i nemici morti. Anche tua figlia li conosce entrambi. Sono ciò che tutte le creature, mortali e non, provano quando affrontano la Morte. Tu li hai sperimentati solo per qualche momento. Lei ormai li conosce da un mese intero. Ario allontanò le lacrime. Helen, ti ho cresciuto per qualcosa di molto meglio.
Alesx sbuffò quando lei non rispose. «Ovviamente no.» Poi si chinò, finché il suo viso non si trovò dritto contro quello di lei, la pelle che odorava debolmente del liquido per imbalsamazione che usavano per tenere i vermi lontani dai cadaveri. La costrinse a fissarlo negli occhi, e nelle pupille di lui vide scintillare la propria immagine. «Ti succiderà via il midollo dalle ossa, megera; e, quando avrà finito, io ti strapperò l'anima dalla carcassa inaridita per divorarmela», sibilò il vampiro. Ario sorrise, una strana serenità nel cuore. «Spero che ti strozzi, progenie di demoni.» L'affascinante volto di Alesx si contorse mentre sollevava un pugno per colpirla, le nocche bianco osso che splendevano come cera. Ma in quel momento un randello si abbatté sul suo cranio perfetto e lui si accasciò, la testa che affondava contro il petto di Ario come fosse un amante addormentato. Helen riabbassò con lentezza il randello, con gli occhi privi di espressione mentre scostava il vampiro dal corpo ancora paralizzato di Ario. «Oh, mamma...» bisbigliò triste, un'eco delle parole che aveva pronunciato solo poche ore prima. Le sue labbra gelide si posarono sulla fronte calda di paura della madre. Nel cuore di Ario strisciò un brivido, mentre la premonizione le faceva accapponare la pelle, mettendola in allarme. «No... Helen...» Ma la ragazza l'ignorò; sollevò invece Alesx e lo trascinò fino alla quercia che indicava la tomba di Russo. Legò il suo amante-demone con la grossa fune che Ario usava qualche volta per impastoiare il bestiame. Poi si sedette appoggiando la schiena al tronco, rivolta a est. Verso il sole nascente. Ario lottò inutilmente contro la magia che la immobilizzava, gridando incomprensibili parole di rabbia e di dolore. Alesx si svegliò appena qualche secondo prima che le dita intinte di rosa dell'alba lampeggiassero sull'orizzonte collinoso, cristallizzando la rugiada che attendeva sull'erica e sui fiori selvatici. Urlò, la pelle che diventava scura e ribolliva, mentre Helen sollevava un avambraccio per ripararsi gli occhi dalla luce ustionante. I fulgidi raggi solari esplosero sopra di loro. Quando sfiorarono il principe dei tumuli, quello s'incendiò in un'urlante colonna di fumo torrido e gas. L'odore di resina e capelli bruciati veniva portato dal vento, sopraffacendo i sensi di Ario. I suoi occhi velati di lacrime si volsero alla figlia attraverso una bruma di luce solare, non volendo guardare ma sapendo di
doverlo fare. Non voleva vedere la carne fumante, non voleva vedere ripetersi su Helen gli antichi terrori dei giorni di guerra, quando la pece in fiamme schizzava su corpi urlanti. Forse gli Dei della Luce avevano disposto qualcosa di più gentile per la sua unica figlia, perché quando Ario spostò lo sguardo vide una scena del tutto diversa. L'alba attraversava la figlia dell'antica guerriera come fosse traslucida, sollevandole i capelli color del miele e rifrangendo la luce attraverso di lei, tanto da farla rifulgere come il sole stesso, o come lo splendido angelo che Ario aveva sempre amato. L'incantesimo che bloccava la guerriera svanì, e lei si alzò, balzando verso la figlia con un'agilità che non provava da quasi dieci anni. Helen si voltò, i capelli scarmigliati dal vento e il sottile vestito bianco reso aderente come fosse stato bagnato. Attorno a loro, le grida agonizzanti di Alesx raggiunsero una nuova intensità, mentre il suo corpo bruciava alle strane fiamme silenziose che non intaccavano né il legno né la fune. «Mamma...» bisbigliò Helen. Le loro dita si sfiorarono, toccandosi per un istante, vita contro morte. E poi fu tutto finito. La corda si arrotolò, vuota, cadendo alla base dell'albero, lasciandosi dietro nient'altro che una macchia d'unto. Ario rimase immobile, e completamente sola, le dita che tremavano mentre cadeva in ginocchio, fissando il mucchietto di cenere nel punto in cui si era trovata la sua unica figlia, tutta l'energia scomparsa dalla sua fragile forma. Nelle mani di Ario, la cenere filtrava lenta tra la punta delle dita, scivolando via come le lacrime che le scendevano sulle guance. Nella città di Dias si narrano molte leggende e molte storie; tra di esse, quella delle antiche guerriere che hanno scelto Dias per loro casa è la più incredibile. Ma la migliore raccontastorie è una vedova di campagna, che cammina con una gamba di legno e abita a circa un miglio dalla città vera e propria. Quando qualcuno va da lei e la prega di passare una notte nella sua casa vuota, acconsente, ma per un giorno soltanto. E, per quanto ami raccontare storie, anche se glielo chiedono con insistenza, la vedova guerriera non spiegherà mai perché sulla mensola del camino si trovi una balestra Evermist carica, che veglia silenziosa accanto a una coppa di semplice polvere a grana fine.
Lawrence Schimel EREDITÀ BARBARICA Lawrence Schimel, un'altra delle nostre giovani scoperte, scrive: «Che giornata! Mi sono laureato a Yale, ho trovato e acquistato in libreria la mia prima copia della Giustizia delle spade, sono tornato a casa e ho scoperto che era arrivato il contratto per questo volume. È la diciassettesima volta che vendo un racconto per un'antologia; la prima era stata per Storie fantastiche di dame, eroi e incantesimi, e la notizia mi era arrivata appena prima che mi diplomassi alle superiori. Lei sì che sa fare regali di fine corso di studi! «Oltre a scrivere racconti per varie antologie, di recente ho venduto delle poesie a diversi periodici e giornali, inclusi il Saturday Evening Post e il Wall Street Journal. Poco tempo fa nella casella della posta ho trovato copie della mia prima traduzione in polacco, facendo quindi salire a tre le lingue in cui sono stato tradotto (le altre sono olandese e finlandese). «... cosa farò della mia vita? Continuerò a scrivere, questo è ovvio, ma la notizia più interessante è che dopo l'estate mi trasferirò a Barcellona». Magari ci incontreremo lì; se il romanzo ambientato nella Britannia romana, Le querce di Albion, andrà bene, il mio prossimo testo storico potrebbe avere un'ambientazione spagnola. Le «gambe» del titolo originale di Lawrence sono quelle della casetta su zampe di pollo, legata nelle favole russe e polacche alla strega Boba Yaga. File di girasoli stavano sull'attenti davanti alla locanda, sentinelle sempre vigili. Ma la loro guardia non fu sufficiente a evitare che l'inverno calasse o a fermare lo scorrere del tempo. Quando il vento freddo prese a soffiare da nord, portò con sé anche dei viaggiatori. Giunsero con notizie di un inverno rigido e di barbari che scendevano a sud a causa della neve. Quando i viaggiatori ripartirono, i lavoranti di Ilyana andarono con loro, disperdendosi come foglie. Presero tutto ciò che riuscivano a portare, il cuoco quasi le vuotò la dispensa; la lasciarono con cibo appena sufficiente a superare l'inverno. Dopo che se ne furono andati, Ilyana dovette combattere con uccelli e scoiattoli che attaccavano i girasoli, riducendoli a steli spogli mentre si rimpinzavano dei semi maturi. Le servivano per dar da mangiare
ai polli, ormai i suoi unici compagni nell'ampia locanda vuota sorvegliata dai gambi scheletrici dei girasoli. Durante il frettoloso esodo aveva nascosto i pennuti, come i vestiti e il denaro che aveva. Perché mai avrebbe dovuto temere i barbari quando, prima di loro, avevano già fatto razzia i suoi amici? Ogni mattina, di buon'ora, andava al pollaio per nutrire gli animali e, quando la fortuna le sorrideva, raccoglieva un paio di uova. Ogni giorno Ilyana svegliava le sette gallinelle marroni e il vecchio galletto, che la guardava male per aver interrotto il suo riposo finché non vedeva la piccola manciata di semi. Era passato il tempo in cui era il primo ad alzarsi e svegliava il mattino cantando. Quel giorno anche il pollaio era intenzionato ad andarsene. Sembrava tutto normale quando Ilyana aveva messo piede fuori dalla locanda, percorrendo il sentierino di terra battuta; ma, mentre si avvicinava, il piccolo edificio si alzò su due enormi zampe di pollo e cominciò ad allontanarsi, facendo un passo indietro a ogni passo avanti della donna. All'inizio, lei gli corse incontro, preoccupata che le uova potessero rompersi per il tanto ondeggiare avanti e indietro, ma quello si limitò a scappare più in fretta. Ilyana si fermò, e il pollaio fece lo stesso. Si studiarono a lungo; dopo aver deciso che la donna non avrebbe tentato di avvicinarsi, il pollaio ripiegò le zampe sotto di sé e si rimise a sedere. Sembrava strano quel pollaio collocato in mezzo al cortile anteriore invece che sul retro della locanda, dove era sempre stato. Ilyana sorrise. Era strano pure che a un pollaio crescessero le zampe e che si mettesse a correre come aveva fatto un attimo prima. Si chiese se gli animali fossero ancora all'interno, se fossero ancora vivi. Tese l'orecchio, sperando di udire il delicato chiocciare delle galline, agitate per essere state trasportate in giro, o il vecchio galletto, irritato per una sveglia cui non era seguita la manciata di semi. Ma il pollaio era silenzioso, in apparenza quasi soddisfatto o compiaciuto di sé, intento a crogiolarsi nel tenue calore del sole di primo mattino. Anche Ilyana ripiegò le gambe e si sedette sul sentiero, per osservare ciò che stava accadendo e decidere il da farsi. I piccoli semi scuri che aveva nella tasca della gonna si rovesciarono sulla dura terra battuta, e per un momento si distrasse, immaginando che i chicchi fossero stelle e creando costellazioni dai disegni che avevano formato. Presto però li raccolse di nuovo, mettendoli al sicuro nella tasca più profonda della gonna. Mentre lei giocherellava coi semi, il pollaio si era avvicinato, come se
desiderasse essere nutrito. Ilyana non sapeva cosa fare. Aveva abbastanza semi da far superare l'inverno ai polli, ma certo non sarebbero stati sufficienti per l'enorme pollaio. Tuttavia, rifletté, al momento non aveva animali. Si trovavano nella loro piccola casetta quando quella si era... trasformata. Forse erano tutti morti. O magari adesso erano il pollaio... All'improvviso la colse un pensiero ridicolo: cosa sarebbe successo se il pollaio avesse fatto un uovo? Avrebbe covato una minuscola casetta completa di minuscole zampette di pollo? O magari sarebbe stato un uovo normale, ma delle dimensioni di un maialino? Non poteva essere sicura di niente, ma rise di cuore all'idea. A quel suono il pollaio sembrò trasalire, sollevandosi di qualche centimetro da terra per raccogliere le zampe, pronto a schizzare via al sicuro. Ma rendendosi conto che la donna non aveva intenzione di fare nulla, nonostante il forte rumore, si rilassò. Si chinò in avanti, sempre in attesa dei semi. Ilyana cedette e gettò una manciata di chicchi davanti alla piccola porta. Non aveva idea di come avrebbe fatto a mangiarli, dato che non pareva avere una bocca o un becco ma solo zampe da pollo. Dopo tutto, era un pollaio. Ilyana rimase a guardare. Dopo un attimo la porticina si aprì e l'irritato vecchio galletto sbatté le palpebre per la luce, fece un mezzo chicchiricchì, quindi saltellò sul sentiero e iniziò a beccare. Felice di rivederlo, Ilyana si era alzata in piedi. Il pollaio scattò sulle grandi zampe e scappò via, lasciando il vecchio galletto a beccare i suoi semi. Ilyana si rimise a sedere, osservando il galletto mangiare, e rifletté sul fatto che gli animali quantomeno erano ancora vivi. Se solo fosse riuscita a capire cos'era successo e perché, magari avrebbe potuto decidere cosa fare. In un certo senso, non voleva fare nulla. Senza dubbio era interessante avere un pollaio con le zampe. Nonostante i polli, Ilyana era molto sola, e il pollaio sembrava fare più compagnia degli animali; se non altro era una novità. Era anche una compagnia... più grande, a dir poco. Faceva più compagnia perché ce n'era di più. Forse si tratta di una magia dei barbari, portata a sud dai freddi venti invernali, pensò Ilyana. Ma chi l'aveva fatta? E di cosa si trattava esattamente? Di un incantesimo che faceva crescere zampe di pollo alle cose? Si sarebbe ritrovata con altri oggetti all'improvviso muniti di zampe che scappavano via non appena si avvicinava? Che fosse un incantesimo che faceva crescere alle case gambe simili a quelle di chi ci abitava? Ilyana lanciò un'occhiata alla locanda, per assicurarsi che non le fosse
spuntato un paio di gigantesche gambe umane e non stesse scappando via mentre lei non guardava. Quando vide che era ancora la stessa vecchia locanda - a eccezione di una persiana che doveva essere volata via durante la notte e adesso giaceva sul terreno sotto la finestra - si sentì sciocca per essersi preoccupata. Ma dopo aver ricontrollato il pollaio ed essersi accorta che si era di nuovo spostato in avanti, decise di non essere stata affatto sciocca. Dopo tutto, quella era magia. All'improvviso il pollaio aprì di nuovo la porta, simile a un grande gozzo che sbadigliava. Ilyana s'irrigidì, chiedendosi cosa sarebbe successo. L'avrebbe attaccata, o stava facendo uscire qualcos'altro? Anche se pregava che si trattasse del resto dei suoi polli, non ci credeva. Non erano loro. Sulla soglia apparve una bambina di stirpe barbara, gli occhi gonfi di sonno. I vestiti erano pieni di piume e pezzetti di paglia. La bambina fissò a lungo Ilyana. Infine decise che si poteva fidare, e saltò a terra. La donna si chiedeva se ci fosse qualcun altro nel pollaio. Era stata la bimba a fare la magia che aveva fatto spuntare le zampe? La piccola barbara si diresse verso Ilyana, mormorando qualcosa nella sua lingua straniera. Ilyana non si mosse, augurandosi che non le stesse gettando contro un incantesimo. In fondo, era una bambina barbara. Ma la donna non condivideva le voci sulla spietatezza dei barbari; non era forse rimasta ad affrontare loro e l'inverno, da sola? E di certo una bambina così piccola... avrebbe potuto attaccare più facilmente Ilyana con la magia la notte prima, mentre lei dormiva. La bimba tese una mano. Ilyana trasalì, temendo il gesto finale di un maleficio. Poi si mise a ridere. «Sto diventando fifona come il pollaio», disse ad alta voce. Nella mano della bambina c'era un uovo. Non parlavano la stessa lingua e non si capivano, ma avrebbero imparato. Sarebbe stato bello avere compagnia durante il lungo inverno. «Spero solo che non crescano le zampe anche alla locanda e che non se ne scappi via», mormorò Ilyana, mentre preparava la colazione.. Laura J. Underwood NEBBIA Laura Underwood è una scrittrice freelance e vive a Knoxville, nel Ten-
nessee. Ha pubblicato racconti fantasy in Storie fantastiche di guerrieri e sortilegi e nelle Spade incantate, su Appalachian Heritage e sul Marion Zimmer Bradley's Fantasy Magazine. Inoltre ha pubblicato articoli non riguardanti la narrativa e lavora come critico letterario per un quotidiano di Knoxville. Al momento sta riscrivendo il suo primo romanzo fantasy. Tra i suoi hobby: escursionismo, ciclismo, storia, folclore celtico, musica. Per diversi anni ha vinto il titolo di campionessa di fioretto dello Stato del Tennessee. Al momento non ha una moltitudine di gatti o bambini, ma «nel cortile sul retro di casa ci sono molti corvi contro cui abbaia in continuazione il mio Cairn Terrier Rowdy Lass». In questo racconto una maga si preoccupa del destino di un ragazzo. Laura Underwood è senza dubbio una delle migliori scrittrici di fantasy di oggi, e mi ritengo fortunata che sinora altri editor non abbiano scoperto sino in fondo le sue qualità. Probabilmente non ci vorrà molto, perciò, finché dura, mi godo il privilegio di essere la sua editor principale. «Ci serve della nebbia.» Shona si rannicchiò, non tanto per la paura quanto per il disgusto verso l'alito intriso di birra dell'uomo che la teneva prigioniera. E per il fatto che avesse sottolineato la parola «nebbia» con forza sufficiente a mandarle uno schizzo di saliva dritto in faccia. Dietro di lei, nelle ombre create dal fuoco acceso dal bandito, udì gemere suo nipote Eldon. Povero ragazzo. Non c'era bisogno di colpirlo con tanta forza, solo perché stava cercando di difenderla. A volte dimentica che bado a me stessa da quasi un secolo. Non che dimostrasse l'età che aveva: dono - o maledizione - del suo sangue di maga. Probabilmente agli occhi della maggior parte degli uomini sembrava sulla trentina, non ancora una matrona, non più una ragazzina; insomma, una donna che entrava nel fiore degli anni. «Una nebbia fitta», continuò il capo dei briganti, senza aspettare che rispondesse. Anche perché non avrebbe potuto, imbavagliata e legata com'era. Se fosse nata con poteri magici più forti, le sarebbe bastato pensare a un incantesimo e fare un piccolo gesto per realizzarlo. Be', in quel momento anche il «piccolo gesto» avrebbe rappresentato un problema. Qualcuno si era preso la briga di indicare con precisione a quei banditi come prendere alla sprovvista una maga e renderla impotente. Sospirò, guardando l'uomo seduto davanti a lei. Il viso ingrigito era segnato da una cicatrice che correva dall'angolo dell'occhio alla base della mascella. Con ogni probabilità si era guadagnato quella decorazione
nell'Ultima Guerra, quando il re dei barbari aveva inviato le sue orde non civilizzate contro Ard-Taebh. Una guerra che aveva lasciato molti uomini senza un lavoro onesto. Il fratello più giovane della stessa Shona era caduto su quei campi di battaglia, facendo così morire di dolore la moglie e lasciando Eldon alle cure di Shona. E che cure... pensò lei, augurandosi che le ferite del ragazzo avessero smesso di sanguinare; i maghi vivevano a lungo, ma non erano immortali. «Il nostro padrone dice che sei una maga che può controllare il clima», aggiunse il capo dei banditi. Gronan. Non era così che l'aveva chiamato uno degli uomini quando pensavano che fosse ancora priva di sensi? Riuscì a muovere un poco la mascella dolorante e annuì. «Bene. Se giuri sulla tua dea maga di non usare la magia contro di me, ti tolgo il bavaglio», disse Gronan. «Se non mantieni la parola, uno dei miei uomini taglierà la gola al ragazzo. D'accordo?» Che altro poteva fare? Erano troppe le domande che le si agitavano nella mente. Perché si trovavano lì? Perché quegli uomini avevano affrontato la stretta salita verso la sua torre solitaria in cima al dirupo che dava su una delle tante brughiere del regno di Elenthorn? Perché avevano attaccato lei e suo nipote, trascinandoli fuori di casa privi di sensi, solo per accamparsi nella foresta e chiederle di fare apparire della nebbia? Con lentezza, chiudendo gli occhi, Shona annuì. C'era Eldon cui pensare; Eldon, i cui poteri magici stavano sbocciando nell'adolescenza com'era successo a lei. Ormai lui rappresentava tutta la famiglia che le era rimasta. Raramente i maghi per nascita cercavano dei compagni. Che senso aveva amare qualcuno cui si sapeva già di essere destinati a sopravvivere? Quando il bavaglio fu tolto, la pressione le lasciò un gran formicolio nella mascella contusa. Shona alzò le mani legate e si massaggiò il mento. Lo sguardo guizzò verso l'oscurità, in cui la vista di maga rivelava la sagoma raggomitolata di un ragazzo che sembrava a malapena sui dodici anni. Era più grande, lo sapeva bene, quasi sedicenne, eppure pareva ancora un bambino. Una volta che le caratteristiche di mago si presentavano, qualcosa nel potere rallentava il processo d'invecchiamento. Anche Eldon era stato legato e imbavagliato, e si agitava rannicchiandosi contro un tronco caduto. Capelli biondo scuro gli pendevano scarmigliati davanti agli occhi marroni; una riga cremisi gli striava la guancia pallida. Desiderava poter andare da lui, confortarlo. Sembrava spaventato a morte. Gronan si alzò per torreggiare sopra Shona. La donna fece scorrere su di lui il suo sguardo torvo, scuotendo la testa per levarsi dagli occhi una cioc-
ca di capelli castani. I duri lineamenti dell'uomo si aprirono in un ghigno, che gli corrugò la cicatrice. «Niente male come vista», commentò. Shona strinse gli occhi, sperando che lui fosse abbastanza stupido da credere ad alcune delle ridicole storie che si raccontavano sui maghi. «Cosa vuoi?» gli chiese. «La nebbia, te l'ho detto.» «Perché?» «Questi sono affari miei», replicò Gronan. «Allora, dove la vuoi questa nebbia?» domandò lei. «E perché rapirmi per una cosa tanto semplice?» «Il mio padrone dice che dalla maggior parte dei maghi non si ottiene niente chiedendo. Che date aiuto solo quando pensate ci sia un buon motivo.» «Ma, allora, perché non cercate qualcuno che pratichi la magia di sangue?» ribatté lei con sguardo severo. Lui sorrise. «Già, ai maghi di sangue non importa se la causa è giusta o no. Ma non è facile trovarli, e costano troppo per le nostre tasche. Inoltre, il mio padrone dice che sono solo poco più malvagi di quelli come te.» E pericolosi, rifletté cupa. La loro magia richiedeva la morte dello sciocco da cui traevano energia per realizzare gli oscuri incantesimi. Tutte le creature - tutte le cose - avevano un grado di essenza che i veri maghi potevano percepire e usare per alimentare il proprio potere. Ma, di quell'essenza, i maghi degni di tale nome usavano solo il necessario a evitare di stancarsi troppo, senza danneggiare chi la possedeva, che a volte non se ne accorgeva neppure. Certo la si poteva estrarre molto più in fretta lasciando il donatore senza fiato o addirittura morto, ma non era quello il sistema di un vero mago. Chi praticava la magia di sangue, invece, non si faceva simili scrupoli. Shona sospirò di nuovo. «Dove devo far apparire la nebbia?» «Attorno a Dun Cloghran.» «Dun Cloghran?» ripeté lei aggrottando le sopracciglia. «Ma quello è il tempio di Arianrhod. Le sue porte rimangono sempre aperte e ammettono chiunque abbia bisogno di qualcosa. Persino i sacerdoti del dio dei guaritori definiscono 'benedetto' quel posto. Perché evocare la nebbia proprio là?» «Più precisamente, mi serve all'interno e attorno alla torre principale», aggiunse Gronan. «La torre del Calice?» commentò Shona, e dall'improvviso silenzio dell'uomo capì che non poteva essere che quella. La maga raddrizzò le
spalle e lo fissò. «Allora dopo tutto siete dei ladri, e il vostro padrone vi manda a rubare il Calice della Ruota d'Argento, giusto?» Gronan serrò un pugno come se stesse per colpire, e Shona si preparò a ricevere il colpo. Ma il pugno si riaprì; delle dita le afferrarono il mento contuso. Trasalì quando fu costretta a girare la testa verso il cerchio di ombre in cui era rannicchiato Eldon. «È tuo parente di sangue, vero?» disse Gronan. «Ti somiglia.» Somiglia a suo padre, pensò con tristezza Shona. Somiglia a mio fratello. «Quanto vale per te la sua vita?» chiese Gronan a bassa voce. «Di certo più di un semplice calice.» Ma il Calice della Ruota d'Argento! Sacro recipiente della dea della luna che vegliava su tutti i maghi per nascita. La leggenda affermava che fosse un dono fatto a Lei dal dio Diancecht, signore di tutti i guaritori, e che avesse straordinari poteri nel curare le malattie. Il Calice era stato collocato a Dun Cloghran perché lì s'incrociavano linee di energia, e la sua presenza contribuiva a rafforzarle attraverso i poteri combinati del dio e della dea. Quelle linee di energia creavano una rete che si estendeva su tutto il mondo, mantenendo l'equilibrio dell'intera natura grazie al potere curativo del Calice. La rimozione del Calice poteva anche non causare la distruzione della natura, ma avrebbe indebolito il potere di Arianrhod in quel mondo. E in un periodo in cui i maghi per nascita erano così pochi... «Chi vuole il Calice?» chiese. «Non è affar tuo...» «Un sacerdote o un mago?» insistette. «Non è...» «Un sacerdote. Perché un mago poteva far apparire da solo la nebbia e non avreste avuto bisogno di venire da me», concluse Shona. Un sacerdote, d'altra parte, non avrebbe avuto motivo di rubare il Calice; a meno che non appartenesse ai temuti templi di Dubh Cromm, il Distruttore. Il suo ordine si stava propagando in ogni dove ad Ard-Taebh, affermando che la magia era malvagia e che i maghi meritavano la morte. Nascondendosi sotto una falsa maschera di pietà, usano la magia di sangue per i loro fini e la chiamano «preghiera»! Gronan la guardava torvo. «Farai ciò che ti ho ordinato?» «Perché un sacerdote di Dubh Cromm dovrebbe volere il Calice?» gli chiese. Era sicura di saperlo. Per rubare un manufatto della Ruota d'Argento e usarlo per i propri fini. Per contaminare quella magia con la loro. Il
Monarca Supremo di Ard-Taebh li tollerava perché non ne conosceva la vera natura. «Per le nere chiappe di Arawn, donna, farai ciò che ti ho ordinato ed evocherai la nebbia?» ripeté Gronan, senza preoccuparsi di negare gli interessi del suo padrone mentre faceva cenno a qualcuno dietro di lei. Shona avrebbe voluto sfidarlo, rifiutare, ma il respiro accelerato di Eldon le fece voltare di scatto la testa. Uno dei banditi sollevò da terra suo nipote con uno strattone, solo per sbatterlo contro un albero. Un piccolo pugnale baluginò alla luce del fuoco mentre gli veniva appoggiato alla gola. In preda al panico, Shona si alzò barcollando, dimentica dei legacci. Le pastoie alle caviglie la mandarono a cadere verso Gronan che l'afferrò per le spalle, sorreggendola. Shona incrociò il suo sguardo torvo e rabbioso. «Per favore, farò quello che mi hai chiesto! Ma non fategli del male. Per favore!» Gronan la ricacciò a sedere per terra con forza sufficiente a farla sobbalzare. «Così va meglio», disse, raccogliendo il bavaglio. «Domani, tu e il ragazzo ci accompagnerete nella foresta sotto Dun Cloghran. Lo lasceremo là insieme con uno dei miei uomini, che avrà ordini molto severi. Se qualcosa dovesse andare male, lo ucciderà, e io ucciderò te.» Che razza di patto, pensò tristissima mentre le rimetteva il bavaglio. Oh, Benedetta Signora della Ruota d'Argento, cosa devo fare? Un sacerdote di Dubh Cromm che ruba il Calice! I templi del Distruttore erano dedicati all'eliminazione di tutti i maghi, tranne quei pochi che avevano traviato con le loro macchinazioni. Nei villaggi in cui comandavano i templi, i bambini venivano sottoposti a prove per scoprire segni di capacità magiche e uccisi immediatamente se si scopriva che riuscivano a vedere al buio o a sentire suoni appena percepibili. «Portatela dall'altra parte dell'accampamento», ordinò Gronan ai suoi uomini. «Non dobbiamo lasciarle usare incantesimi mentali per parlare col ragazzo.» Non potremmo farlo neanche se volessimo, legati e imbavagliati come siamo, pensò Shona mentre veniva trascinata via dal falò centrale e legata a un albero. La lasciarono lì, da sola. C'erano maghi che riuscivano a comunicare mentalmente, ma Shona non aveva mai imparato quel genere d'incantesimi; la sua specialità era il controllo del clima. Da molto tempo si era rassegnata ad avere poteri minori, anche perché l'unico maestro che aveva avuto era stato un mago che per mestiere faceva incantesimi adatti a
risolvere poco più dei piccoli problemi quotidiani. Le aveva insegnato tutto ciò che sapeva riguardo al controllo degli elementi e all'utilizzo del suo potere innato. Ognuno di noi ha uno scopo, grande o piccolo, e facciamo tutti parte della Ruota d'Argento, le diceva quando osava lamentarsi. Era un uomo semplice e gentile. Al pari di lei, era nato nel più lontano regno settentrionale di Ard-Taebh, quello più devastato dall'Ultima Guerra. Con un simile diritto di nascita, poteva offrire poco di più. Negli anni seguiti alla morte del maestro, Shona aveva imparato ad accontentarsi. Gli abitanti della zona erano in massima parte contadini che andavano da lei a chiedere aiuto per il raccolto. A volte la superstizione superava il buonsenso, quando andavano a trovare la «donna del tempo» che viveva nella sua torre solitaria. Comunque fosse, ci andavano, per avere la pioggia che mettesse fine alla siccità e giornate di sole quando la pioggia minacciava di causare inondazioni. Shona faceva quanto poteva e, per gran parte delle sue giornate, veniva lasciata in santa pace a studiare segni e prodigi del clima da trasmettere poi a Eldon. Il ragazzo imparava in fretta, anche se era un po' ingenuo e sprovveduto. A volte lo siamo tutti. Poteva mettere anche se stessa nella lista, dato che aveva fiduciosamente aperto la porta a quegli uomini senza pensarci. Stupida! Shona sospirò e si guardò attorno, osservando il mondo della foresta che si offriva alla sua vista di maga. Non riusciva a individuare niente di abbastanza vicino e tagliente per recidere i legacci, neppure un sasso contro cui sfilacciare la corda. Il terreno sotto di lei era molto umido a causa delle piogge. Umidità che le avrebbe reso facile far apparire della nebbia. Ma, anche se fosse riuscita a liberarsi, cosa avrebbe potuto fare per salvare se stessa ed Eldon? Evocare una tempesta? Dei fulmini? Bruciare la foresta proprio sotto il mio naso! Arianrhod, dolce Signora della Ruota d'Argento che leghi noi tutti in questo mondo, che posso fare? pensava. Come poteva fermare quegli uomini e allo stesso tempo tenere in vita Eldon? Ci serve della nebbia... Una nebbia che nascondesse le loro malefatte, senza dubbio. Una nebbia che li celasse agli occhi delle guardie e dei sacerdoti del tempio. Se soltanto a Dun Cloghran vivessero dei maghi. Quelli come lei preferivano non abitare nei templi, neppure là dove la presenza dei maghi era gradita, anche se poi facevano visita ai sacerdoti e si fermavano da loro per qualche notte per accertarsi che andasse tutto bene. Dun Cloghran era isolata sul suo alto dirupo. Sebbene la torre centrale ospitasse il Calice, il luogo era tranquillo e umile. I sacerdoti si aggiravano nei giar-
dini circolari, coltivando erbe e verdure, occupandosi delle poche persone che ancora rimanevano tra quelle montagne rocciose e quelle brughiere solitarie. Tuttavia, Shona ricordava che quel luogo era stato una delle poche fortezze a resistere con successo all'assalto delle tribù barbare quando si erano riversate fuori delle loro spaventose montagne nell'estremo nord. La posizione a nido d'aquila rendeva difficile saccheggiare Dun Cloghran. In quei giorni dell'Ultima Guerra alcuni maghi erano riusciti a chiudersi entro le sue ripide mura di pietra, per proteggere il Calice dallo stregone che si era proclamato re dei barbari. Anche il maestro di Shona era giunto là per aiutarli, verso la fine della guerra. Aveva evocato una nebbia fredda e nera che era salita a oscurare lo stretto sentiero, in modo che i barbari che lo stavano risalendo precipitassero e morissero. E quelli che non precipitarono affogarono nella nebbia. Shona aggrottò le sopracciglia. Era accaduto meno di diciassette anni prima, durante l'ultimo decennio dell'Ultima Guerra. Il suo maestro le aveva ordinato di spingersi più a sud per salvarsi, e lei aveva portato con sé la moglie di suo fratello, che era in attesa di un figlio. Era stata Shona ad aiutare a far nascere il bambino; Shona aveva riportato entrambi a nord, quando si era sparsa la notizia che il re dei barbari era stato catturato e messo a morte ai confini più settentrionali di Elenthorn. La sua testa era stata collocata là in un monolito, lo sguardo rivolto alle Distese Montagnose, come avvertimento alle tribù barbare di quel reame. E a cosa aveva fatto ritorno? Il suo maestro era morto, consumato dal costante utilizzo dei poteri e indebolito da un'infiammazione ai polmoni così grave che neppure i guaritori di Diancecht avevano potuto impedire ad Arawn di reclamare per Annwn l'anima del vecchio. Anche suo fratello era morto: una spada barbara nel ventre, avevano detto. Shona l'aveva pianto, ma non con l'intensità della cognata, che, consumata dal dolore fino a morirne, l'aveva lasciata a occuparsi di un bambino piccolo. E, quando nel ragazzo si erano manifestati i segni del mago, Shona aveva reso grazie alla Ruota d'Argento: perlomeno non avrebbe dovuto stare a guardarlo crescere in fretta e morire. Ma se non do a questi uomini ciò che vogliono, Eldon morirà di certo! E anche lei. Siamo così pochi. La vita è troppo preziosa per sprecarla. Ma come poteva consentire che un manufatto della sua dea cadesse in mani distruttrici? Non l'avrebbero fatto a pezzi, quei sacerdoti di Dubh Cromm. Piuttosto l'avrebbero conservato nella loro tesoreria, abusando del suo po-
tere per i loro fini. Benedetta Signora, che posso fare? Chiuse gli occhi e si appoggiò contro la possente quercia, desiderando intensamente che giungesse il sonno a cancellarle le preoccupazioni dal cuore. E, invece, neppure nel sonno trovò pace. Sognò di arrampicarsi lungo un ripido sentiero su una parete di roccia. A metà strada si fermò e cadde in ginocchio, perché il buio della notte era stato squarciato dal candore accecante della luce lunare che la inondò del suo splendore. Apparve una figura che non aveva mai visto ma che, dai ciuffi di capelli bianchi svolazzanti e dalla Ruota d'Argento che le roteava al di sopra della testa, riconobbe come Arianrhod, dea dei maghi, dea della luna. La dea non parlò, ma tese la mano verso la parte bassa del sentiero. Shona percepì la presenza di uomini che s'allontanavano di soppiatto. Avevano le mani strette attorno a un lucente calice d'argento, inciso con una maestria che la maga non avrebbe mai creduto possibile. Fermali! L'implorazione della dea risuonò nella mente di Shona. La donna si precipitò giù per lo stretto sentiero, ignorando il pericolo del ciglio che s'increspava dritto sopra la brughiera. E li aveva quasi raggiunti, pronta a evocare una fitta nebbia che li soffocasse, quando il loro capo si girò e la guardò torvo. «Uccidetelo!» ordinò, e lei non ci mise molto a capire a chi si riferisse il bandito. Eldon era alla testa del gruppo in fuga, e freddo acciaio era premuto contro la sua gola. «No!» gridò Shona, allungando invano le dita... solo per sentire dell'acqua contro il viso. Nebbia? pensò, uscendo dal sonno farfugliando. No. C'erano degli uomini attorno a lei, uomini il cui volto era truce per la diffidenza. E filtrava luce attraverso le foglie. Mattino. Shona si scosse e cercò di alzarsi. Si fece avanti Gronan, che mise da parte un secchio e si accovacciò accanto a lei. «Stavi sognando», le disse. Lei annuì. Il bavaglio si era allentato, consentendole di gridare nel sonno. Le dita dell'uomo lo sciolsero del tutto, e lei fece parecchi respiri profondi mentre muoveva la mandibola. «Vieni. Volevamo levare le tende presto, ma senza fare tutto questo rumore.» È una battuta? si chiese lei mentre Gronan la rimetteva in piedi e la portava verso il fuoco dov'era seduto Eldon. Gli occhi del ragazzo erano resi più profondi dai cerchi che li circondavano. Cercò di sorridergli, di rassi-
curarlo con lo sguardo mentre tutti si preparavano ad andarsene. Presero la strada breve, attraverso la foresta, arrivando ai piedi della montagna appena dopo mezzogiorno. Lasciarono Eldon con una guardia alquanto scorbutica. Suo nipote aveva un'aria talmente triste quando lei si voltò un'ultima volta a guardarlo. Cosa l'aveva buttato così giù di morale? Shona cercò di tenere sotto controllo la rabbia. Poteva impedirle di pensare con chiarezza e, se doveva escogitare un piano, non sarebbe certo stato un bene avere la testa confusa dalle emozioni. I legacci le erano stati tolti, e Gronan aveva addirittura insistito perché lei si lavasse e indossasse vestiti puliti, per timore che il suo aspetto potesse sollevare sospetti. La salita non era ripida come nel sogno; la percorsero in silenzio. Notò che la sua «compagnia» si era abbigliata con indumenti talmente dimessi che la si poteva scambiare per un gruppo di seguaci di Diancecht, il dio guaritore, i cui sacerdoti erano noti per preferire la comodità all'eleganza. Ognuno degli uomini portava un bastone di quercia, intagliato con decori a forma di ghianda, foglie di quercia e vischio. Soltanto lei sapeva che, sotto le semplici tuniche e i mantelli, Gronan e i suoi nascondevano spade corte. Il capo dei banditi l'aveva istruita con cura. «Siamo seguaci di Diancecht venuti da un tempio all'estremo sud di Ard-Taebh. Siamo qui in pellegrinaggio e per rendere omaggio al Calice; chiederemo di poter pregare in solitudine. Puoi evocare una luce magica per accecare le guardie in modo da poterle sopraffare?» Lei annuì. Un incantesimo piuttosto semplice, ma non le piaceva l'uso che ne avrebbero fatto. «Sopraffarle come?» «Di questo ce ne occuperemo noi. Quando mi genufletto e chino il capo verso il Calice, è allora che devi colpire. I miei uomini faranno il resto. Una volta che avremo preso il Calice, farai apparire la nebbia attorno alla torre.» Shona aggrottò le sopracciglia. «Non avrebbe più senso avvolgere completamente il tempio e la porta?» chiese. «Per nascondere la vostra fuga anche a quelle guardie?» Lui scosse il capo. «Solo la torre.» «Ma vi vedranno uscire dalla nebbia!» sbottò. «Vogliamo che ci vedano uscire», replicò Gronan. «Fuggiremo come se fosse stato un mostro ad attaccarci mentre eravamo in preghiera.» La maga strizzò gli occhi. «Vedranno che avete il Calice.» «Lo nasconderemo.» «E se chiudessero le porte vedendo che si forma la nebbia?»
«Non lo faranno, ci sarà troppa confusione. Grideremo tutti che nella nebbia qualcosa ci ha assalito. Vorranno indagare sulla nostra affermazione, prima di pensare a chiudere le porte.» «Ma se i sacerdoti di Diancecht se ne vanno e loro scoprono che il Calice è scomparso...» Gronan sorrise, e a Shona si raggelò il cuore. Incolperanno del furto i sacerdoti di Diancecht. Non ladri al soldo di un sacerdote di Dubh Cromm. Distolse lo sguardo. Follia! Follia pura! Avrebbero seminato il caos nei pacifici rapporti che la maggior parte delle fazioni religiose manteneva. I sacerdoti di Diancecht e Arianrhod erano alleati fin dall'inizio dei tempi; ciò non significava che non avessero mai divergenze d'opinione era così in tutte le religioni -, ma dare inizio a un simile scompiglio avrebbe significato ulteriori divisioni e contrasti. E i seguaci di Dubh Cromm si eleverebbero dal caos per governare quelle terre! Per la Ruota d'Argento, come poteva permettere che accadesse una cosa simile? Lanciò una timida occhiata a Gronan, che guardava di nuovo avanti. «Che ne sarà di me e di mio nipote una volta che avrete ciò per cui siete venuti?» chiese. «Deciderò quando saremo lontani», replicò l'uomo, e lo scintillio nei suoi occhi le diede i brividi. «Conosci bene qualcuno degli abitanti?» Indicò le porte del tempio che s'innalzava davanti a loro mentre svoltavano all'ultima curva del sentiero. «No», rispose Shona, la mente che correva frenetica. Ucciderà tutti e due una volta che avrà quello che vuole. Non può permettersi di lasciarci vivi, perché conosco la realtà di ciò che sta facendo. «Comunque copriti la testa», le disse Gronan, e diede uno strattone quasi scherzoso al cappuccio del mantello che le avevano prestato. Lei obbedì, più per sfuggire al suo sguardo lascivo che altro. Follia, ripeté tra sé. Non poteva lasciare che succedesse; non poteva permettere che prendessero il Calice. Ma che ne sarà di Eldon? Per tutti gli dei, come posso fare una scelta simile? Le porte incombevano come fauci mentre passava sotto le antiche pietre. Gronan si fece avanti per salutare le guardie che erano uscite a incontrare il gruppo. Shona fissava il terreno mentre lo sentiva chiedere udienza al capo sacerdote. In men che non si dica, stavano entrando nella torre centrale, accolti calorosamente da una donna anziana. Gronan fece la sua richiesta; pur sembrando un po' stupita, l'alta sacerdotessa non vide motivo di negargli il consenso. Insistette però sul fatto che alcune guardie dovevano per
forza rimanere a difesa del Calice in ogni momento. Gronan la benedisse per la gentilezza e le assicurò che la presenza delle guardie sarebbe stata gradita. Ben presto vennero condotti al centro della torre, una stanza circolare dove il pavimento mostrava intarsi di marmo blu e grigio pallido che formavano una ruota di carro. Al centro c'era un altare rotondo su cui era posta una lucente coppa d'argento, circondata da una striscia nera e oro e decorata con pietre di luna. Che meraviglia, pensò Shona, mentre dalla stanza venivano fatti uscire tutti tranne le quattro guardie in piedi attorno all'altare. Indossavano cotte d'arme caratterizzate da simboli di Arianrhod e portavano alabarde con la punta a forma di quarto di luna. Tremante, Shona aspettava in mezzo al gruppo. I banditi si distribuirono a cerchio, rivolti verso il Calice. Sollevarono tutti le braccia, come a rendere omaggio alla splendida coppa. Poi Gronan distese le mani allontanandole dai fianchi, cadde in ginocchio e s'inchinò. Era il segnale. Shona chiuse gli occhi e ricercò l'immobilità interiore, estraendo la luce dal suo nucleo magico e bisbigliando le parole di un incantesimo di luce. Le guardie l'udirono e si voltarono nella sua direzione con sguardo stupefatto prima che, dalla punta delle dita tese, lei inviasse un lampo luminoso contro il loro viso. Subito Gronan e i suoi uomini sferrarono l'attacco. Shona vide l'acciaio emergere da sotto le loro vesti. Lame scintillarono, facendosi cremisi mentre entravano e uscivano dalla gola delle quattro guardie. Shona si voltò con un singulto; lacrime di pietà le bagnavano gli occhi. Morendo, nessuno degli uomini emise un suono. Dietro di lei un acciottolio, poi Gronan le fu al fianco e le afferrò il braccio. «La nebbia!» ordinò in un sibilo. «Evocala adesso!» A Shona tremavano le mani, e chiuse di nuovo gli occhi. Stavolta cercò il pozzo di energia dentro di sé e pronunciò parole adatte a estrarre dall'aria una leggera umidità, lasciando che le avviluppassero il cuore prima d'inviare all'esterno l'ondata di potere che avrebbe riempito la sala. La nebbia cominciò a salire dal pavimento, levandosi come nuvole di fumo bianco. Il profumo dell'acqua fresca si sparse nell'aria mentre la nebbiolina cresceva e si propagava. Scivolò attraverso ogni apertura che riusciva a trovare, ricoprendo la torre come una mano che si stringe attorno a una piccola bacchetta. «Adesso!» disse Gronan. Un gemito terrorizzato salì dalla gola dei suoi uomini. Nascosero le spa-
de, stringendosi gli uni agli altri in modo da non perdersi quando si precipitarono verso la porta. In gruppo fuggirono dalla stanza e dalla torre, spingendo Shona con loro mentre si riversavano nel cortile insieme con la nebbia. «Al mostro!» gridò qualcuno. «Che cosa orribile!» urlarono altri. «È un presagio!» aggiunse un altro ancora. «Scappiamo!» Attorno a loro, Shona udì le guardie del tempio correre verso la torre avvolta dalla nebbia. Si concentrò sul rimanere in piedi mentre i banditi si slanciavano verso la porta aperta. Nessuno li fermò. Non c'era nessuno a provarci. I sacerdoti di Arianrhod e le loro guardie erano troppo impegnati a occuparsi della torre che riuscivano a stento a vedere. I banditi avevano già percorso un bel po' di strada quando rallentarono il passo. Soltanto allora si tolsero in fretta gli abiti usati come travestimento, raggiungendo rapidi l'accampamento temporaneo che li attendeva nella foresta. Non appena arrivò Shona, Eldon alzò lo sguardo verso di lei: i suoi occhi scuri erano sgranati per l'infinita tristezza. Attorno a loro i banditi levavano velocemente le tende. Ignorata, Shona corse dal nipote, sperando di allentargli i legacci, sperando che i banditi non li vedessero scappare via. Ma, non appena raggiunse Eldon, venne afferrata da braccia possenti. «Monta a cavallo», ordinò Gronan. «A quest'ora si saranno accorti che manca qualcosa e saranno all'inseguimento di quei sacerdoti di Diancecht che hanno osato profanare il loro tempio col sangue e rubare la preziosa reliquia!» Spinse Shona verso il cavallo più vicino. «Ma io pensavo dovessimo ucci...» cominciò a protestare la guardia di Eldon. Gronan si voltò, colpendo al volto l'uomo col dorso della mano. «Falli montare a cavallo!» sbottò. «Sarà il padrone a decidere il loro destino!» «No!» Shona prese a divincolarsi. Era come aveva pensato. L'unico modo in cui Gronan avrebbe potuto liberare lei e il ragazzo era con la morte. Una morte orribile per mano del suo padrone, se i racconti che aveva udito sui templi di Dubh Cromm erano veri. Il capo dei banditi cercò di metterle una mano sulla bocca. Shona affondò i denti nella carne non protetta dal guanto. L'uomo strillò e la colpì con un pugno, mandandola a terra. Vide Eldon liberarsi e lanciarsi verso un calcio rabbioso di Gronan che l'avrebbe colpita alle costole. Il ragazzo riuscì a far perdere l'equilibrio al brigante prima di cadere vicino alla zia.
«Uccideteli subito!» disse furente Gronan. «E al diavolo gli ordini del sacerdote!» Mentre Gronan indietreggiava, spade si precipitarono su di loro da tutte le direzioni. Shona chiuse gli occhi, cercando rapida il nucleo del suo potere. Volevano della nebbia: l'avrebbero avuta, ma di un tipo che non avevano mai visto! Le parole dell'incantesimo le attraversarono le labbra mentre tendeva la mano per afferrare l'essenza degli uomini arrabbiati che la circondavano. L'attirò a sé con tale rapidità che alcuni banditi si fermarono, senza fiato. Vide l'espressione stupefatta di Gronan mentre lei lanciava il potere sul terreno ed evocava un'acquosa bruma letale. Una nebbia nera cominciò a salire dal suolo, allungandosi come mille tentacoli per afferrare i banditi in spire fredde e umide, e circondarli di un bozzolo scuro. Grida di terrore riempirono l'aria. Udiva gli uomini correre di qua e di là, e non c'era finzione nelle loro voci mentre scappavano, o cercavano di scappare. Alcuni parevano essere andati a sbattere contro gli alberi. Altri barcollavano ciechi, strillando che la gelida mano di Arawn si stava chiudendo attorno a loro. La rabbia di Shona serviva a rafforzare l'incantesimo, come l'essenza che stava rubando. Furibonda, rese più fitta la nebbia, alimentandola con altra umidità fino a quando l'aria non diventò così umida e pesante che era quasi impossibile respirare. Al suo fianco, Eldon gemeva, nascondendo il viso contro le braccia. Attorno a lei la nebbia nera crebbe in un mare torbido e fluttuante, che lasciava lei e il nipote al centro senza neppure sfiorarli. Udì uomini gridare e gorgogliare mentre affogavano in una nebbia talmente fitta da non riuscire a estrarre aria dall'acqua che conteneva. Poi scese il silenzio, che lasciò un lieve sciabordio, come di onde su una riva. Soltanto allora Shona spezzò l'incantesimo. Tutt'attorno, l'acqua spruzzava il terreno. La nebbiosa oscurità cadde al suolo e scomparve, lasciando un mare di corpi infangati ai piedi della maga. Shona s'inginocchiò e prese Eldon tra le braccia, gli levò il bavaglio e sciolse i nodi delle corde che gli legavano i polsi. Lui diede un'occhiata al carnaio inzuppato che li circondava e nascose il viso contro la zia. La maga lasciò scorrere lo sguardo sui morti. Quasi tutti, da quanto poteva vedere. Per la Ruota d'Argento, cos'ho fatto? I suoi occhi si posarono su Gronan, che giaceva lì vicino, testa piegata all'indietro e occhi spalancati. La borsa che portava al fianco si era aperta, rivelando l'argenteo luccichio del Calice. Stupido! pensò, udendo un tambureggiare di zoccoli che sapeva essere
dei cavalli delle guardie inviate dai sacerdoti di Arianrhod all'inseguimento degli uomini che li avevano derubati. Almeno il Calice era salvo, si disse. Avrebbe raccontato cosa era successo, sperando che le credessero. Potevano ordinare che fosse incarcerata, o punita in qualche modo. Sempre meglio di quello che mi avrebbero fatto gli accoliti di Dubh Cromm. Sicuramente i sacerdoti di Dun Cloghran sarebbero stati contenti di sapere che una seguace della loro dea maga aveva salvato il prezioso manufatto, impedendo che i devoti al dio guaritore fossero ingiustamente incolpati del furto. Fissò il corpo di Gronan e scosse il capo. Volevi la nebbia, pensò con un sorriso truce. Spero tu sia soddisfatto. Tammi Labrecque GUARITRICE MUSICALE Nel sottopormi questo racconto Tammi ha scritto di avere richiesto le norme redazionali aggiornate ma, dal momento che la sua lettera doveva essere stata ingoiata dalle poste, si è presa poi la libertà di usare quelle dello scorso anno sperando che non mi dispiacesse. Non mi dispiace affatto; le norme redazionali non cambiano molto da un anno all'altro, e perlomeno si è presa la briga di leggerle. È sempre una cattiva sorpresa per me scoprire quanti non si pongono il problema, e se ne vantano pure nella lettera di accompagniamento. Scrive che al momento lavora come operatrice di telemarketing e si rifiuta di avere il telefono a casa perché ne vede troppi in ufficio. E, aggiunge, si mettono sempre a squillare proprio quando si è finalmente messa tranquilla a leggere o a scrivere. So come ci si sente; non riesco a credere che adesso le linee aeree offrano ai passeggeri la possibilità di essere raggiunti al telefono. Io ho sempre pensato che la cosa migliore del viaggiare in aereo fosse il fatto di non poter ricevere chiamate. Ma, in fondo, ho lavorato per così tanti anni come consulente telefonico che ancora odio quegli apparecchi. Tammi ha vent'anni, ventuno il prossimo agosto, e sostiene che la sua biografia è «penosamente banale». Sta iniziando il college presso la University of Southern Maine dopo aver terminato da due anni il liceo. «Ho una gatta che si chiama Zoe e sto lavorando a un romanzo, due note biografiche che sono certa la stupiranno ben poco.»
In questo racconto ha cercato di rendere il sesso di Tyrnill del tutto secondario. Se fosse un uomo, la storia non cambierebbe per nulla. Ma come sarebbe noioso il mondo senza differenze di sesso! Tammi desidera dedicare questa storia a Cardi Farthing. Il primo debole rossore dell'alba aveva appena sfiorato l'orizzonte a est quando Tyrnill chiuse silenziosamente la porta della camera da letto e, stivali in mano, strisciò lungo il corridoio lastricato. In cucina, dove già fervevano le attività mattutine, si fermò per infilare gli stivali e riempire una borsa di cuoio con tutto il pane, formaggio e frutta che riusciva a prendere senza attirare l'attenzione. Con un sospiro di sollievo, perché nessuno si era accorto di lei, scivolò fuori della porta laterale e si diresse alle scuderie. Il nitrito di Liertha la salutò non appena raggiunse la posta della giumenta. «Ciao, bella mia», mormorò Tyrnill, la voce melodiosa molto più bassa del solito. Condusse la cavalla in cortile e la sellò in fretta. La sera prima aveva riempito le bisacce con qualche cambio di abiti e altro cibo: carne secca, altro pane e formaggio, e alcune radici di quelle che mangiavano i domestici; Tyrnill non le aveva mai assaggiate ma presumeva dovessero essere nutrienti. In una borsa legata attorno alla vita e nascosta sotto l'ampia camicia di lino c'era il denaro che era riuscita a risparmiare nelle settimane che avevano seguito la decisione di scappare. Doveva ancora solo riempire d'acqua i tre otri appesi accanto alla porta della scuderia; a quel punto, era pronta a mettersi in viaggio. È stato sorprendentemente facile, pensò mentre lasciava il cortile della scuderia in uno sferragliare di zoccoli. Quando i garzoni di stalla arrivarono a vedere cosa fosse quel rumore, se n'era già andata. Tyrnill fece una sosta verso mezzogiorno per far riposare Liertha e rifocillarsi con un pasto frettoloso; legò la giumenta a un cespuglio a margine del torrente che avevano seguito e si appoggiò a un albero poco distante. Divorò in fretta il magro desinare - era decisa a far durare il più a lungo possibile le scorte -, poi si mise a sedere per stabilire la sua linea di condotta. Dirigersi attraverso i campi rimanendo su quel lato del torrente l'avrebbe portata in una zona troppo densamente popolata per i suoi gusti, e tornare per la strada da cui era venuta ovviamente non rappresentava un'alternativa valida. Ciò le lasciò due possibilità di scelta: poteva continuare a seguire il
fiumiciattolo e assicurarsi così acqua e foraggio sufficienti per Liertha, oppure svoltare nella foresta che era apparsa sull'altra riva quando avevano incrociato il ruscello. La decisione era difficile; se restava vicino al corso d'acqua sarebbe stata più facilmente pedinabile e catturabile, ma aveva anche maggiori probabilità di sopravvivere, mentre nel bosco le possibilità di essere rintracciata erano quasi nulle, e quelle di sopravvivere non molto maggiori. Era nata e cresciuta in città, poco pratica delle abitudini della gente dei boschi e per nulla avvezza a privazioni di qualunque tipo. Ciò sembrava non lasciare alternative e consigliare di evitare la foresta, ma il fatto che i suoi inseguitori, sempre ammesso che ve ne fossero davvero, sapessero della sua ignoranza riguardo alla vita nella foresta la spinse a sciogliere Liertha, guadare il torrente e dirigersi verso il fitto intrico di cespugli che era l'inizio del bosco. Il crepuscolo scese in fretta tra gli alberi, e nella foresta fu buio un po' prima che gli ultimi raggi di sole sparissero dal mondo circostante. All'occhio inesperto di Tyrnill gli alberi sembravano tutti uguali, e tra l'uno e l'altro non si evidenziava un sentiero preciso. La paura di stare semplicemente girando in tondo crebbe in lei al punto che si ritrovò quasi in preda al panico; Liertha, percependo l'angoscia della sua padrona, cominciò a scartare e a sobbalzare a ogni rumore proveniente dal sottobosco. Fu in quelle condizioni che alla fine s'imbatterono nella radura. Era piccola, appena sufficiente a ospitare la minuscola casetta e l'ancor più minuscolo orticello lì accanto; ma era deliziosa, ben tenuta e, in un certo senso, ospitale. Mentre Tyrnill conduceva Liertha nello spiazzo davanti alla casetta, la porta si aprì e sulla soglia apparve una sorridente donna di mezza età. «Be', salve», la salutò allegra. «Pensavo che non arrivassi più!» Confusa, Tyrnill batté le palpebre, ma non riuscì a trovare qualcosa da dire. La dorma ridacchiò. «Lega il cavallo vicino alla casa - non dalla parte dell'orto, per favore - e datti una lavata al pozzo laggiù; poi vedremo di trovarti una sistemazione.» Scomparve all'interno, chiudendosi la porta alle spalle. Ovviamente mi ha scambiato per un'altra, ma forse mi può aiutare, pensò Tyrnill. Se vive qui, saprà senz'altro come si esce da questa stramaledetta foresta. Obbedì alle istruzioni della donna, legando Liertha vicino al
pozzo e lavandosi in modo rapido ed essenziale. Quindi tornò all'ingresso e bussò decisa alla porta; che si aprì immediatamente, con la donna che scrutava fuori. «Oh, povera me», disse sorridendo. «Non c'è bisogno che bussi, mia cara. Questo posto è tuo quanto mio! Vieni, entra.» Tyrnill la seguì, notando subito che tutto era pulito in modo maniacale. La stanza era piuttosto piccola e conteneva soltanto un tavolo e due sedie, con un bacile su una credenza contro la parete più vicina alla porta e un camino dalla parte opposta. Sul muro a destra dell'entrata, dove adesso si trovava Tyrnill, c'erano due porte, entrambe chiuse. «Ora, mia cara, lascia che ti mostri dove tengo le cose. In quei pensili sopra il camino c'è un po' di cibo, soltanto alimenti essiccati, e le erbe che uso per cucinare. Ovviamente, ogni tanto c'è qualcuno che porta cibo fresco, a volte anche un pezzo di carne, e c'è sempre l'orto, ma mi piace avere qualcosina in dispensa.» La donna guardò Tyrnill come per cercare conferma alle sue parole, e la ragazza annuì in silenzio, travolta dalla vitalità della sua ospite, che le fece un gran sorriso. «Scusa se continuo a chiacchierare; è da un po' che non ho occasione di parlare davvero con qualcuno. Allora... qui c'è il catino per lavare. Dobbiamo tenere tutto scrupolosamente pulito, se vogliamo fare le cose per bene.» Si chinò per scostare una tendina che nascondeva delle mensole piuttosto profonde. «E qui sotto c'è il resto delle erbe, e qualche benda. Stracci puliti, è ovvio, per detergere il sangue o quello che è.» Sangue? Tyrnill sbatté di nuovo le palpebre. La donna le sorrideva con simpatia. «Non possiamo aggiustare per bene qualcosa se non sappiamo qual è il problema, e non possiamo scoprire qual è il problema se non vediamo niente, giusto?» Tyrnill era confusa e finalmente riuscì a confessarlo. «Mi dispiace, ma io non ci capisco nulla. Credo... cioè...» Cercò le parole giuste ma non le trovò. «Davvero non sai di cosa sto parlando?» La donna pareva sconcertata. «Non ci avevo proprio pensato... Ma certo, un potere forte come il tuo era naturale che andasse in cerca di altro potere, ma non avrei mai creduto che non ne fossi consapevole.» Aggrottò le sopracciglia. «Mia cara, hai idea di chi sono io? O di chi sei tu, peraltro?» chiese con tono lento e solenne. Tyrnill scosse il capo. «È evidente che si tratta di un malinteso. Io non sono certo quella che stava aspettando. Sono qui solo perché mi sono persa nel bosco.» «Persa nel bosco, come no!» La donna si mise a ridere. «Mia cara, potrai
anche esserti persa, ma non è di sicuro per questo che mi hai trovato. E sei, senza dubbio, proprio la persona che stavo aspettando.» «Non vedo come...» «Ma io sì, adesso, e non ti nascondo che mi vergogno di non essermi accorta fin dall'inizio della tua confusione.» La donna prese una sedia e vi si lasciò cadere sopra. «Qui, siediti», ordinò, indicandole l'altra sedia, e Tyrnill, obbediente, lo fece. «Allora, immagino di dover cominciare dall'inizio. Io mi chiamo Raelenne.» «E io...» «Tyrnill; questo lo so già.» Tyrnill sgranò gli occhi. «Ma come fa?» si lasciò sfuggire. «Tra le altre capacità, ho un bel po' di quella che mia madre ha sempre definito 'perspicacia'. Principalmente, però, sono una Guaritrice. Una Guaritrice Musicale, per essere precisi.» Raelenne gesticolò verso Tyrnill. «E lo sei anche tu, è ovvio.» Tyrnill scosse il capo e protestò con veemenza. «Mi dispiace contraddirla, ma io non sono quello che ha detto lei. Non ho una briciola di magia in tutto il corpo; lo può chiedere a qualunque dei miei insegnanti! Volevano costringermi a fare la domestica a scuola perché non ho parenti che prendano le mie parti, e dicono che non mi possono semplicemente far uscire dalla scuola, ora che so dove si trova.» Parlava in fretta adesso, sollevata di poter raccontare la sua storia. «Si presume che sia un gran segreto; e con un test di ammissione molto rigoroso. Ma io sono stata ammessa direttamente, con solo un rapido esame per vedere se avevo il potenziale necessario, dato che i miei genitori erano entrambi stregoni molto potenti.» Per un attimo le tremò la voce. «Sono morti in una sorta di combattimento e, il giorno dopo, quelli della scuola sono venuti a prendermi. E sono rimasta lì per sei mesi e ci ho provato - ci ho provato davvero - ma non riuscivo a imparare niente di quello che mi volevano insegnare. E allora hanno detto che avevano fatto uno sbaglio, che avevo un grande potenziale ma non sarei mai stata in grado di utilizzarlo. E hanno detto...» Raelenne interruppe la tirata. «Be', erano degli stupidi. Di sicuro non sarai mai una strega, ma sarai - sei - qualcosa di molto più prezioso. Dimmi, l'uno o l'altro dei tuoi genitori aveva talento musicale?» «Oh, sì», rispose Tyrnill. «Papà diceva sempre che la voce della mamma poteva mettere in imbarazzo gli usignoli; e aveva ragione. Lui invece riusciva a suonare qualunque strumento gli capitasse tra le mani. Faceva parte della loro Magia; cioè, contribuiva a realizzarla.»
«E quegli idioti della scuola lo sapevano?» «Dovevano saperlo per forza; mamma e papà erano stati addestrati lì.» «Stupidi! Adesso Stammi a sentire.» Il viso di Raelenne era quasi duro alla luce del fuoco. «Tu diventerai una Guaritrice estremamente capace, molto più brava persino di me, che più di una volta sono stata definita 'la migliore'. Il potere di cui sei dotata è così grande che sono letteralmente impressionata. Una volta che avrai imparato a usarlo, diventerai di gran lunga la Guaritrice di maggior talento che abbia mai visto.» Tyrnill scosse il capo. «Non so niente di Guarigione; non saprei nemmeno da che parte cominciare a imparare.» «E io sono qui proprio per questo! Francamente, ti serve qualcuno bravo come me come insegnante; non mi fiderei di nessun altro per gestire capacità simili. Senza addestramento potresti fare un sacco di guai. Questo tipo d'insegnamento può essere pericoloso, te lo assicuro.» Tyrnill spalancò ulteriormente gli occhi. «Oh, non posso imparare a fare cose pericolose. Non ho un controllo sufficiente, né concentrazione; lo dicevano tutti i miei insegnanti», mormorò. «Non ne dubito», replicò acida Raelenne. «Devo ancora incontrare una persona con controllo sufficiente a imparare qualcosa per cui semplicemente non ha talento.» «Raelenne, io proprio non...» Raelenne prese le mani di Tyrnill tra le sue e sorrise con aria rassicurante. «Ti posso garantire che quello che ti insegnerò non ti farà del male e nemmeno ti metterà paura, finché possiedi la volontà di controllarlo. Devi ricordarti, sempre, che sei tu a dominare le tue capacità; loro non possono fare nulla se tu non lo permetti.» «Ma non so se...» cominciò Tyrnill. «So che hai molti dubbi; è proprio questo il problema. In ciò che imparerai, basta tentennare un momento per distruggere quanto speri di realizzare.» Il sorriso di Raelenne era scomparso, e adesso fissava Tyrnill con sguardo solenne. «Non dico queste cose con leggerezza, perché le ho viste accadere. E a volte non è solo l'opera a venire distrutta, ma anche l'operatore.» Tyrnill scosse il capo. «Raelenne, non sono in grado di assumermi una simile responsabilità.» «Non solo ne sei in grado, sei anche straordinariamente dotata», replicò con convinzione Raelenne. «Chiunque abbia un potere grande come il tuo non deve permettere che sia la paura a guidarlo. Supererai la paura. Devi
accettare le capacità che ti sono state date, altrimenti rischi di diventare come i tuoi insegnanti. Che differenza c'è tra il loro rifiuto di accettarti e il tuo di accettare un talento che non ti aspettavi di avere?» Sollevò una mano per tacitare le obiezioni di Tyrnill. «Nessuna. Un talento come il tuo è raro, ma non senza precedenti; sapendo che entrambi i tuoi genitori erano superbi musicisti, chi si era assunta la responsabilità di addestrarti avrebbe dovuto cercarlo in te. Ma volevano una strega tradizionale e hanno voltato le spalle al tuo vero potenziale. Tyrnill, non devi tradire la tua vera vocazione come hanno fatto loro, o sarai colpevole di una negligenza ben peggiore.» Tyrnill deglutì nonostante un groppo in gola e chiese timidamente: «Lo crede davvero? Dopo le cose che mi hanno detto, pensavo che non sarei mai stata buona a niente». Raelenne si alzò e girò attorno al tavolo per abbracciarla. Con un sospiro, appoggiò il mento sulla testa della ragazza. «Non mi sbaglio; una volta addestrata, varrai due volte più di rutti loro messi insieme. Te lo prometto.» Seguì il periodo più appagante della breve vita di Tyrnill. Di giorno si occupava dell'orto, puliva la casetta, faceva lunghe passeggiate; a volte andava con Raelenne, per osservare la Guaritrice occuparsi delle altre persone che abitavano nella foresta. E loro, in cambio dei servigi di Raelenne, donavano la maggior parte delle cose, cibo incluso, che servivano alla sopravvivenza delle due donne. Di sera Tyrnill studiava, imparando tutto quello che c'era da sapere sull'organismo umano: come funzionava, come era costruito, e come diagnosticare ogni genere di malattie e disturbi. Imparò il nome di tutte le erbe che Raelenne usava per le Guarigioni, dove trovarle e come prepararle. Imparò a bendare le ferite e gli arti fratturati, oltre a prevenire e curare le infezioni. Raelenne l'addestrava anche alla musica: imparò cosa significavano timbro e tonalità, e la gamma di note e scale che doveva trasformare in musica per ottenere una Guarigione. Era la prima volta che riceveva un'istruzione musicale, e fiorì; la voce si fece sicura e, come suo padre prima di lei, riusciva a suonare qualunque strumento le venisse messo in mano. Spesso Raelenne mostrava stupore per il talento della sua pupilla. «Sei proprio più brava di me, parola», commentava. «Dovrei essere gelosa.» E, ogni volta che glielo sentiva dire, Tyrnill rideva.
Infine, arrivò il giorno in cui Raelenne la dichiarò pronta a tentare una Guarigione. «Tyrnill, non c'è altro che possa insegnarti. Ormai è tempo che tu faccia un po' di esperienza, che è un'insegnante migliore di quanto potrò mai sperare di essere.» Passarono parecchi giorni prima che se ne presentasse l'occasione. Tyrnill stava togliendo le erbacce tra la verdura quando nello spiazzo davanti alla casetta irruppe un uomo a cavallo; si raddrizzò per salutarlo. «Buon giorno a lei, signore.» «E anche a lei, signorina. C'è la Guaritrice?» chiese preoccupato. Raelenne era già apparsa sulla soglia. «Qual è il problema, Kiersen?» «La mia bambina, signora; è caduta da un albero. Si è rotta una gamba.» Aveva il volto aggrottato dall'ansia. Raelenne annuì. «Tyrnill, va' dentro a prendere ciò che ti serve.» Tyrnill si precipitò in casa a raccogliere bende, pezzi di legno per steccare la gamba in caso fosse davvero rotta, e le erbe che sarebbero servite a curare una gamba fratturata, ma anche quelle per lesioni interne e alla testa. Raelenne le aveva spiegato che era meglio essere pronti a trattare le peggiori ferite possibili, perché la diagnosi di chi andava a cercare l'aiuto della Guaritrice non sempre era corretta o sufficientemente dettagliata. In pochi minuti era di nuovo fuori, a sellare Liertha. Raelenne era già montata in sella dietro Kiersen; non appena Tyrnill fu pronta, lasciarono la radura al galoppo, seguiti dalla ragazza. Raelenne parlò in modo lento e cadenzato: «Chiudi gli occhi e fa' esattamente ciò che ti dico». Tyrnill ascoltava con attenzione, escludendo dalla mente il debole piagnucolare della bambina. «Ricorda gli esercizi di respirazione su cui ci siamo esercitate. Respira a fondo, sii consapevole di ciò che accade dentro di te. Del battito del tuo cuore, del tuo respiro, della tua temperatura; e poi dimenticali, e concentrati sui suoi.» Tyrnill spostò la focalizzazione sulla ragazzina, e l'armonia del suo corpo contrastò bruscamente con quella discordante della piccola malata. In lei la musica era spezzata, e Tyrnill vide come quella musica poteva essere ricomposta. Era stata la frattura alla gamba a provocare la lacerazione nella musica. Tyrnill cominciò a canticchiare sottovoce, senza parole, una melodia calmante che si pose tra la bambina e il dolore; poi cantò davvero,
mentre si tendeva verso la gamba, mantenendo le mani sospese a pochi centimetri da essa. Cantò di una musica spezzata che veniva ricomposta, di ragazzine che correvano, dell'armonia che abitava nella piccola, e che sarebbe ritornata. Cantò di come i vasi sanguigni si uniscono e il tessuto si richiude sopra ossa rinsaldate con una linea di congiunzione quasi invisibile. Cantò la melodia dell'organismo della bambina, raccogliendo le note incerte e riposizionandole al punto giusto, riunendo i pezzi strappati della musica della bambina con la forza di volontà e della voce. Ci vollero parecchi minuti prima che fosse di nuovo consapevole di se stessa. Il cuore le correva all'impazzata, ed era madida di sudore, ma la gamba della ragazzina era di nuovo dritta; la rabbiosa lacerazione della carne, dove l'estremità dell'osso era uscita, si stava riducendo a una crosta scura, poi a una cicatrice arrossata. «Dovrebbe guarire in pochi giorni», disse Tyrnill alla famiglia riunita. «Rimarrà una cicatrice; quello non lo posso evitare. E non posso eseguire una Guarigione delle ossa, quindi le metterò una stecca. Non dovrà appoggiarsi alla gamba finché non sarò certa che l'osso si sia rinsaldato per bene. Comunque, è meglio che non possa eseguire una Guarigione delle ossa: tende a lasciarle più deboli di quanto non fossero prima. In questo modo, invece, la gamba sarà come nuova, anche se si dovrà aspettare un pochino di più.» Sorrise rassicurante ai visi dall'aria sollevata che le stavano attorno. «La steccherò, e poi dovremmo darle la possibilità di dormire. Sta usando molta energia, per guarire in fretta.» Raelenne assentì, approvando. «Mia cara, ti sei comportata davvero molto bene», commentò mentre gli altri lasciavano la stanza. «Sei un po' lenta, ma questo cambierà col tempo, e sei uscita dalla trance guaritiva molto più in fretta di quanto mi aspettassi. Credo che non ci vorrà molto perché tu riesca a Guarire senza neppure dover cadere in trance.» Davanti a quelle lodi, Tyrnill arrossì. «Lo pensi davvero?» chiese sottovoce. Raelenne rise. «Sì, mia troppo modesta apprendista. Lo penso davvero.» Ciò accadeva all'inizio d'autunno, e Tyrnill rimase con la sua maestra fino allo scioglimento delle nevi d'inverno, continuando a imparare e facendo progressi rapidi come aveva previsto Raelenne. Perciò accadde che un giorno, all'inizio di primavera, quando gli alberi avevano appena iniziato a colorarsi di nuovo di verde, Raelenne disse a Tyrnill che era ora che partisse.
«Ti ho insegnato tutto quello che potevo», informò la sua pupilla, con più che un accenno di rimpianto. «Ma sono ancora tante le cose che non conosci, e l'unico modo che hai d'impararle è viaggiando.» «Io non voglio viaggiare», protestò Tyrnill. «Voglio rimanere qui. Mi piace prendermi cura di queste persone.» «Cara, ti piacerà anche prenderti cura di altri», replicò Raelenne. «Dopo tutto questa è la tua vocazione. E non pensare che non mi aspetti di vederti tornare, perché un giorno qualcuno dovrà pur prendere il mio posto qui, e spero tanto che sarai tu. Sono molti però i luoghi che devi visitare prima, e moltissime le cose da scoprire. Ma basta con le discussioni. Devi andare, e questo è quanto.» «Tornerò», affermò Tyrnill con fervore. «Questo è il primo posto dove mi sono sentita veramente a mio agio, e ci tornerò.» «Ma certo che ci tornerai», confermò Raelenne, con gli occhi lucidi. «Non mi aspettavo niente di diverso. Ma non precipitarti qui solo perché ne senti la mancanza. Va' nel mondo, fatti un nome, assicurati d'imparare tutto il possibile; torna soltanto allora, e saremo tutti felici di riaverti con noi.» «Quando dovrei partire?» «Partirai domani all'alba. È da un po' che metto via delle cose per te, e credo ce ne sia una scorta sufficiente per almeno una quindicina di giorni. Se a quel punto non avrai trovato il modo di mantenerti da sola, allora ho fatto un terribile errore di valutazione; e sappiamo entrambe che io non sbaglio mai.» Raelenne rivolse a Tyrnill un caldo sorriso. «E niente proteste perché devi partire tanto presto. Per come la vedo io, prima vai, prima torni a casa.» «Allora questa è proprio casa mia?» mormorò Tyrnill. «Ma sicuro, mia cara. E sarà sempre qui ad aspettarti, non importa quanto lontano andrai o per quanto tempo starai via.» Kathy Ann Trueman NON È TUTTO ORO... Kathy Trueman vive in una delle minuscole cittadine del Texas che conosco anche troppo bene. Ha quarant'anni e spesso è stata affettuosamente descritta come una «grintosa tipaccia». Se quando lo dicono fanno un gran sorriso, potrebbe essere affettuoso. Ma qualcuno ha detto che il Te-
xas è un posto meraviglioso per gli uomini e i cavalli, non altrettanto per le donne e i cani. Quando abitavo lì, la maggior parte delle vittime di omicidio erano mogli separate; perciò quando ho lasciato mio marito me ne sono andata lontano e in tutta fretta, non volendo essere la protagonista di un nuovo articolo su un fattaccio di sangue! Ha una laurea in inglese, che ha preso «solo per amore delle parole, non per fare passi avanti nella carriera». È figlia di un militare e ha vissuto un po' in tutto il mondo. Ancora oggi ogni tanto le prudono i piedi per la voglia di andare, ma la maggior parte delle volte la cosa si risolve con uno spostamento dei mobili di casa. Casa che condivide con Rondi, la sua migliore amica dal 1969. Cerca di non contare quanti anni siano. Abitano in un vecchio edificio che pende un po' su un lato. Del «Club delle Bestioline» fanno parte sei cavalli, tre cani, nove gatti, tre oche e circa venti polli. È fermamente convinta che ai confini della città ci siano dei segnali per animali che puntano verso casa loro indicando: QUI ABITANO DUE SCIMUNITE. Ha «imparato a scrivere leggendo» - che è il modo migliore - e questa era la prima volta che tentava di vendere qualcosa. Si sente come se avesse fatto un fuori campo alla prima battuta. «È un complimento», aggiunge... come se non lo sapessi! Janell percepiva la magia farsi più forte, resistere, formicolarle su per le braccia, quasi ringhiarle contro mentre iniziava a districare i fili d'energia. Quell'incantesimo di maledizione era potente e complesso, in modo sorprendente. Esitò un poco, non scoraggiata, ma per la necessità di respirare e riesaminare l'incarico. Dall'altra parte della stanza piuttosto spoglia, sedeva imbronciata la sua cliente. Era una donna non brutta ma insignificante e goffa, che aveva superato la mezza età. Quando Janell le aveva chiesto come mai volesse pagare una somma così alta per farsi togliere la maledizione, lei aveva indicato con disprezzo il suo corpo. «Mi guardi!» aveva gridato. «Ero bella, aggraziata, fertile! Non posso continuare a vivere con questo corpo orrendo e inutile!» Janell riusciva a capirla. Nemmeno lei era bella, ma aveva deciso di apparirlo, e conosceva i benefici e le seduzioni della bellezza. «Perché il mago le ha gettato la maledizione?» era stata la domanda successiva. «Voleva il mio tesoro. Adesso ce l'ha, quasi tutto almeno.» La donna sì fissava con tristezza le mani irruvidite dal lavoro. «Ma si è portato via l'u-
nica cosa che per me aveva davvero valore. La rivoglio. Voglio tornare com'ero prima che mi maledisse.» Poi aveva preso un borsellino, vuotandone il contenuto sul tavolo. «Questo è ciò che sono riuscita a portare con me. Lo do tutto a lei, perché mi tolga il maleficio e mi faccia tornare bella.» Il mucchio di gemme luccicava verso Janell. Se quella era solo una piccola parte del tesoro, non c'era da stupirsi che il mago avesse gettato un maleficio per impossessarsi del resto. Inoltre, Janell poteva vedere che una delle pietre, un amuleto di rubino, era stregata. Incapace di resistere, aveva passato le dita tra le gemme, per poi sollevare l'amuleto. Non c'erano indizi evidenti riguardo al tipo d'incantesimo che lo avvolgeva. La donna la fissava preoccupata. Non era una maga, e Janell aveva cominciato a pensare che non si rendesse conto di cosa aveva tra le mani. Con tono fintamente annoiato, le aveva chiesto: «Come è entrata in possesso di un simile tesoro?» Senza la minima traccia di vergogna, anzi quasi con orgoglio, la donna aveva risposto: «Mio padre era un grande ladro. E un grande avaro». Poi aveva aggiunto: «È sufficiente?» Le pietre rappresentavano più di quanto Janell poteva ottenere con dieci richieste d'incantesimo, anche senza il rubino stregato. Non vedeva l'ora di cominciare a decifrare la magia presente nell'amuleto. Tuttavia, non aveva dimenticato la prudenza. Gli incantesimi a protezione della stanza non solo le dicevano che quella che aveva di fronte non era una maga rivale pronta ad attaccarla mentre era concentrata, ma anche se le stesse dicendo una bugia. Quando controllò, vide che la donna aveva detto la verità. Decidere fu facile. Janell fece un lieve gesto per sollevare gli scudi protettivi che avrebbero impedito qualsiasi interruzione una volta iniziato il rito. «È appena sufficiente», aveva risposto. «L'aiuterò.» Quindi aveva avvertito la donna di non parlare e non muoversi finché il maleficio non fosse stato spezzato. Adesso vi era immersa; seguiva e separava i fili di energia come un sarto scuce i punti di un'imbastitura. Era complicato, anche come incantesimo di mutazione; seguiva direzioni inattese, forte dove avrebbe dovuto essere debole e debole dove con ogni probabilità lei l'avrebbe fatto forte. Ma era ciò in cui riusciva meglio, e seguì l'incantesimo fino al cuore. Quando ebbe raggiunto il nucleo di luce da cui era derivato tutto il resto, lo racchiuse tra due «mani» magiche, quindi inviò il suo controincantesimo come fosse un coltello.
La donna gettò la testa all'indietro e cominciò a gridare, ma Janell non si stupì. Il mutamento implicava sempre un po' di dolore, e ancor più un mutamento forzato. Mantenne l'attenzione sul maleficio, frammentandolo e soffiando via i pezzi, lasciando che si unissero all'energia ambientale della stanza. Aveva finito. La donna era caduta in avanti, ingobbita sulla sedia, e il grido cominciava a trasformarsi in un altro suono. Janell stava già allungando la mano verso l'amuleto quando si rese conto che il suono non era il pianto che di solito faceva seguito a una mutazione di forma. Si trattava di un ringhio, debole, ma che di colpo si trasformò in ruggito. Il ruggito riempì le orecchie di Janell, riempì la stanza; l'aria stessa vibrò, come incapace di contenerlo. Non era un ruggito di dolore, ma di trionfo. Janell sobbalzò, barcollando all'indietro sulla sedia. In pochi secondi i vestiti banali e la pelle giallastra della donna si dissolsero. Apparve una forma molto, molto più ampia, di un nero intenso dalle splendide iridescenze; era come se si fosse cibato di colori e li avesse intrappolati nella nerezza, consentendo loro di giocare lungo le varie curve mentre cresceva e continuava a salire. Emerse un collo lungo, inarcato come quello dei cigni per evitare che la grande testa da rettile sfiorasse il soffitto. Il corpo si allungò, riempiendo la stanza da destra a sinistra; una lunga coda si dimenava, sfiorando Janell. Grosse zampe muscolose che finivano con lunghi artigli dorati frantumarono la sedia su cui erano posate; dalle spalle si spalancarono ali nere che si aprivano su una struttura di falangi ossute e allungate, come quelle dei pipistrelli. Gli incantesimi! Non può avermi mentito senza che me ne accorgessi! pensò Janell in preda al panico, e poi capì. La donna aveva affermato che la sua vera forma era giovane e bella. Non aveva mai detto che fosse umana. E la sua vera forma era bella, ma di una bellezza fatta di lucida grazia torreggiante e di forza bruta, terribile come nuvole temporalesche che rotolando riempiono il cielo di tempestosa oscurità e fulmini lampeggianti. Curve inumanamente perfette vibrarono, si allungarono, scossero via l'ultima apparenza della forma data dal maleficio, e si fissarono con l'inevitabilità del primo sibilo di una valanga. La testa roteò per guardare Janell con occhi rossi e guizzanti. Non erano occhi umani, ma la maga poteva ugualmente leggervi un gioioso trionfo. Cercò disperatamente di lanciare un incantesimo per proteggersi mentre l'immensa bocca si apriva, mostrando file di lunghi denti. Ma il drago non
la morse. Invece, disse: «Arlahalimin». In quel momento, con infinito orrore, Janell capì a cosa serviva l'amuleto. «No!» gridò; la protesta le lacerava la gola, ma era troppo tardi. La stanza e il drago parvero allontanarsi da lei a gran velocità mentre si sentiva sprofondare, diventando piccola, poi più piccola e ancora più piccola... Vedeva il drago attraverso una nebbia rossa. Era dentro l'amuleto. Il drago appoggiò la testa sul tavolo con un grugnito soddisfatto che fece tremare il legno e quasi cadere in ginocchio Janell all'interno della minuscola stanza che era il rubino. «Adesso vado a riprendermi il mio tesoro», dichiarò. I denti scintillarono in un sorriso. «E tu mi aiuterai. Dentro quell'amuleto non puoi far altro che obbedirmi. Sarai tu a combattere il mago con la magia, dato che io non posso. Se fallisci, morirai», sottolineò senza che ce ne fosse bisogno. «Ma se vinci...» Un artigliò afferrò la catena dell'amuleto, e Janell si ritrovò a ondeggiare in aria in preda alle vertigini. «Se vinci, sarai il pezzo forte della mia collezione», concluse il drago, continuando a sorridere. Deborah Wheeler SOGNI AVVELENATI Credo che Deborah sia presente nella maggior parte, se non in tutti, i volumi di queste antologie, fin dall'inizio. Di professione fa la chiropratica e ha due figlie, che ho incontrato la prima volta quando erano adorabili bimbette ma sono ormai diventate due deliziose giovani donne piene di talento. Il marito di Deborah, esperto di rolfing, è uno dei pochi in quella disciplina che non si ostinano a parlare in gergo psicologico, come se una tecnica di massaggio fosse in grado di purificare i problemi emozionali accumulati in un'intera vita. Anche se saremmo di certo tutti contenti se fosse così! Deborah vive a Mar Vista, California, un sobborgo residenziale della zona ovest di Los Angeles, «dove, a volte, l'aria è ancora respirabile». Uno dei suoi romanzi brevi, Madrelita, era nella lista preliminare dei candidati al premio Nebula, e ho trovato molto piacevole leggere il suo primo romanzo, Jaydium, e il secondo, Northlight, pubblicato dalla Daw. Al momento sta lavorando a una storia ispirata dal lungo periodo trascorso in Francia nel 1991.
Verso l'alba, tutte le conversazioni lungo le merlature del castello si smorzarono nel silenzio. Il sacerdote aveva fatto il suo giro un'ora prima, confessando e assolvendo quanti glielo chiedevano e benedicendo in silenzio chi non lo faceva. Tutti i combattenti - arcieri, spadaccini e quelli che azionavano i grandi calderoni di pece e olio bollente - guardavano la piana quasi buia al di sotto e contavano i fuochi da campo che riuscivano a vedere, chiedendosi quanti altri fuochi rimanessero nascosti. Si strinsero la cintura attorno a ventri appiattiti dalla fame e ricontrollarono le armi. Alcuni lanciarono occhiate nervose alle loro spalle, non verso l'alta torre dove re Reyesmond lì teneva consiglio di guerra ma verso la sala principale e le cucine sottostanti. Nelle profondità dell'antico maniero, una strana figura deforme era accovacciata accanto al focolare del retrocucina, intenta a tracciare rune nella cenere. Nessuno si avvicinò abbastanza da udire il suo salmodiare sussurrato. Il cuoco e gli assistenti giravano ben al largo mentre si affaccendavano a preparare bevande calde e una magra colazione per i combattenti. Al primo canto dell'unico gallo che non fosse stato ancora mangiato, la fata sollevò la testa e voltò a est gli occhi simili a opali lattiginosi. Un fremito mosse le orecchie lievemente puntute che sbucavano tra gli arruffati capelli color ametista. La luce dei tizzoni si rifletteva fioca sul cappio di ferro che aveva al collo, non più spesso di un filo e tenuto fermo solo da un pezzo di cuoio ritorto che anche un bambino avrebbe potuto sciogliere. Sulla pelle pallida come la luna, al di sotto del cappio, risaltavano purpuree cicatrici smarginate e gocciolanti. Quando la fata si chinò di nuovo sulla cenere, il movimento fece scivolare il mantello lacero, rivelando le ali che pendevano, mutilate, sulla schiena. Con un dito ritracciò le rune, manipolandole fino a trasformarle da fortuna a paura, da paura a codardia e da codardia a terrore mortale. Il re le aveva ordinato di compiere un incantesimo di vittoria per la battaglia del mattino e così avrebbe fatto, ma il sovrano non aveva specificato di chi dovesse essere la vittoria. Al rumore di stivali sulla scala di pietra, la fata non alzò gli occhi. Non ne aveva bisogno, perché in quei passi riusciva a sentire l'eco di un'altra camminata: quella del vecchio sovrano, morto ma non dimenticato. La porta si spalancò, il cuoco fece un inchino e arretrò mentre una giovane donna col corsaletto entrava spedita. Aveva i capelli scuri intrecciati stretti sulla testa, e portava una spada corta con l'aria di chi sa come usarla. Sulla sopravveste c'era lo stemma del re, con in più un unicorno quale insegna
personale. Da bambina, aveva amato molto gli unicorni; la fata l'aveva vista vegliare sperando di scorgerli alla luce della luna e lasciare furtivamente il letto per andare ad ascoltare un menestrello che ne cantava le avventure. «Sangue-di-re», sibilò la fata, le labbra viola tese all'indietro a mostrare denti fini e appuntiti come aghi. «Stirpe-di-re, figlia-di-re-che-sarebbedovuta-essere-un-figlio. Quale bazzecola ti ha mandato a fare questa volta?» Valry figlia-di-re sollevò il viso, pallido e risoluto. La fata riusciva a percepire la tristezza che c'era in lei, e più volte nel corso degli anni aveva tentato di alimentarla per trasformarla in qualcosa di più, in risentimento e amarezza, un cancro di astio che avrebbe avvelenato tutto ciò che la principessa avesse toccato. Aveva tentato senza successo, come se l'unicorno stesse davvero a guardia del cuore della ragazza. «Mio padre ti ordina di andare da lui.» Le mani nodose della fata si mossero in una runa della Notte, il tipo che non mancava mai di far scappare come lepri i servitori. La principessa restò dov'era. «Mio nonno ha avuto la meglio su di te e ti ha costretto al suo servizio col gelido ferro. Il divertimento di mio padre consiste nell'obbligarti a restare». Esitò solo un istante «E tu, vecchia Ali Spezzate, gli obbedirai, anche se io dovessi trascinarti fino da lui sul ventre.» Soltanto a sentire nominare il vecchio re, le piaghe sulle ali della fata pulsarono e rilasciarono un liquido denso e scuro. Sentiva l'odore del sangue del vecchio sovrano nelle vene della giovane donna. Rabbrividendo, si alzò e zoppicò fuori della cucina più in fretta che poté. Nelle camere del Consiglio del re, le candele gettavano ombre tremolanti sulle pareti coperte da arazzi. I paggi si affannavano per rimpiazzare i lumi consumati e rimuovere la cera sgocciolata durante la notte. Sul tavolo erano sparpagliate carte e mappe. Quando entrò la fata, scortata dalla figlia del re, capitani e consiglieri s'irrigidirono. Alcuni alzarono lo sguardo. Altri sbiancarono. Soltanto il re pareva tranquillo, ma la fata era in. grado di percepire il terrore che lo dilaniava. Fece in modo di afferrarlo e avvertì quel sentimento rafforzarsi e tendersi come il cappio di un impiccato. L'uomo le resistette, come faceva sempre, dato che era figlio di suo padre. Ma aveva anche visto quel padre, nel pieno della vittoria, chiedere alla
fata quale futuro l'attendesse. Aveva visto la gioia scivolare via dalla vita di suo padre quando lei gli aveva detto quale sarebbe stata la sua morte: un prolungato incubo di senilità e pestilenza. E in tutti quegli anni dopo la morte del genitore, in tutti quegli anni in cui era stato re, tutti gli anni in cui l'aveva tenuta prigioniera, non le aveva mai chiesto quale fosse il proprio futuro. Il re indicò alla fata di avvicinarsi. Lei gli lesse nello sguardo ciò che aveva percepito durante la notte: i rinforzi del duca erano arrivati, consolidando la posizione dell'usurpatore. Si protese di nuovo verso il cuore del re e assaporò la contorta, oscura tentazione dell'uomo di ucciderla con le proprie mani, per evitare che il suo potere cadesse in quelle del nemico. «O grande re e figlio di colui che mi ha vinto», gli disse col suo tono più dolce, «qual è il tuo desiderio?» Il re esitò un istante prima di rispondere. Doveva avere passato ore a studiare la domanda, la giusta composizione di parole per ottenere la risposta di cui aveva disperatamente bisogno. «Cosa devo fare per vincere questa battaglia?» L'impulso oracolare le avvolse la gola e le labbra si mossero senza che lei lo volesse. «Devi aprire loro le tue porte.» «Cosa?» Il capitano anziano fece un balzo avanti. «Arrenderci?» «Tradimento!» gridò qualcun altro. «Non ci possiamo fidare della strega-demonia! È troppo pericoloso tenerla in vita!» La fata si raddrizzò per tutta la sua altezza, raccogliendo attorno a sé il mantello. «Per il freddo ferro che mi lega, ho risposto secondo verità. Ma posso rispondere solo a ciò che mi viene chiesto.» «Padre, questo è vero.» Valry figlia-di-re gli si mise accanto, le sopracciglia inarcate mentre pensava. «Ma la sua risposta non significa necessariamente una resa. Forse ha visto un negoziato, una tregua...» Proprio in quell'istante le porte si spalancarono e un sergente brizzolato si precipitò nella stanza, il viso rosso come se fosse arrivato di corsa dalla merlatura più lontana. «Vostra Maestà, se ne sono andati! Tutti, fino all'ultimo fante del duca! L'intero campo, vuoto!» «Vuoto?» ripeté il re. «Sì, a parte qualche avanzo delle salmerie, troppo piccolo per nascondere anche un solo uomo. Per quello che possiamo vedere... è un miracolo, ecco cos'è!» Poi, forse ricordando la propria posizione e l'augusta compagnia cui si stava rivolgendo, s'interruppe per fare un profondo inchino.
«Un miracolo», disse meditabondo il re. Con un guizzo i suoi occhi si spostarono sul volto impassibile della fata. «Scendiamo e accertiamocene.» Resti di fuochi ed equipaggiamento abbandonato occupavano il campo, solcato da latrine ricoperte in tutta fretta. Le tracce di pesanti carri e zoccoli ferrati segnavano il terreno. Il re e la sua scorta andavano avanti e indietro a grandi passi, lo stupore che si scioglieva in trionfo mentre esaminavano ciò che era stato lasciato. La fata, controllata dalla figlia del re, li seguiva. Sparpagliate in giro, trovarono delle giare di terracotta di ottima fattura, decorate con fiori e api stilizzati, che emanavano un allettante profumo di miele. «Perché lasciarle qui?» si chiese uno dei consiglieri. «Come dono», rispose un secondo, in preda alle vertigini per il sollievo. «In omaggio alla nostra superiorità!» Senza sorridere, il re scosse il capo. «Avremmo potuto avere la meglio se si fosse arrivati a combattere. Ma non era cosa certa. Erano risoluti quanto noi, e con più provviste. Perché avrebbero dovuto rinunciare e abbandonare qui queste cose per noi?» Posò un dito sulla cera liscia del sigillo. I cortigiani gli si radunarono attorno, in attesa che ordinasse di aprire le giare. Da tempo le razioni avevano subito dolorose riduzioni, e adesso il forte e dolce aroma del miele faceva venire l'acquolina in bocca a tutti. Lo stomaco di qualcuno rumoreggiò speranzoso. Il re fece cenno alla fata di avvicinarsi e le mostrò le giare. «Il nostro nemico ci ha lasciato questo, ma per quale ragione? Il miele è forse avvelenato?» Un'increspatura di costrizione fece tremare le ali della fata. «Non vi ucciderà.» «Tuttavia ci sono altri modi per nuocere a un uomo», replicò pensoso il re. «Il miele è forse contaminato dalla magia?» Di nuovo la fata rispose di no. Il sollievo si fece strada sul viso del sovrano. I cortigiani si diedero l'un l'altro di gomito, i volti che si rilassavano in un sorriso. Uno si chinò a prendere un'altra giara. «Padre.» La limpida voce di Valry figlia-di-re fermò tutti. «Il miele non è una tentazione troppo forte? Rischieresti il destino del regno sulla parola di un nemico giurato... o su quella di una fata?»
Il re aggrottò le sopracciglia. «Ha detto che è sicuro.» La principessa scosse il capo. «No, ha detto solo che non è avvelenato né stregato. Se davvero è sicuro, che sia lei ad assaggiarlo per te...» Prese la giara dalle mani del padre e con un movimento rapido ruppe col pollice il sigillo di cera. L'odore di miele li avvolse, stucchevole e invitante. La dolcezza distillata di un migliaio di fiori, di un centinaio di giorni d'estate, riempì le loro narici. Muscoli stanchi per la tensione si sciolsero. Senza sorridere, la principessa tese la giara alla fata. «Se ha il coraggio.» La fata strinse gli occhi d'opale. Aveva capito, nel momento in cui le erano state spezzate le ali, quanto maggiore fosse la crudeltà umana rispetto a quella della sua specie. Aveva capito che si trattava di una caratteristica che non sarebbe scomparsa col vecchio sovrano. Adesso le sue mani tremavano mentre accettava la giara di miele perché, anche se non sapeva in che modo si sarebbe realizzata, era certa che la sua profezia delle porte aperte era vera. Tuffò la punta di un dito nel miele liscio e denso e se lo portò alle labbra. Per un attimo il mondo le s'increspò attorno, come riflessi visti sull'acqua baciata dal sole. Qualcosa nel profondo della fata si agitò, qualcosa di sepolto da tempo. La vista prese a fluttuare con una miriade di luci splendenti che ardevano pallide e pure come le stelle il giorno in cui era nata. Il dolore alle ali si attenuò, come fossero guarite all'improvviso. Il profumo dell'asfodelo e del gelsomino notturno riempì l'aria; lei se ne abbeverò, saturando ogni poro del suo essere con quella fragranza. Fu attraversata da un confortante frescore; aveva quasi dimenticato cosa significasse provare piacere. Un suono stridulo le risuonò nelle orecchie, a malapena comprensibile, come il ronzio degli insetti. La voce di Reyesmond: «Portate dentro il miele e la traditrice». Poi, da una distanza molto maggiore, giunse una musica di campane d'argento e voci che gridavano con una cadenza familiare. «Vieni! Vieni da noi!» Sono qui! urlò dal più profondo del suo essere. Sollevò le ali, allungando e distendendo le pieghe di una complessa struttura di membrane sottili e leggere come fili di ragnatela. Presero il vento; il suo corpo sembrava senza peso. In punta di piedi alzò le braccia, pronta al volo. Per un breve istante udì le voci cantare il nome che non udiva più da quando il vecchio re le aveva spezzato le ali. Il nome che pensava non avrebbe mai più udito.
«Vieni, vieni da noi, o bella tra le belle, o Miranthea dalle Ali di Seta! Presto, vieni da noi!» Sono qui! Oh, fratelli miei, oh, sorelle mie, sono qui! Ritornò in sé, confusa e col cuore sofferente. Il dolore la pervadeva, l'antico dolore alle ali rinnovato come il giorno in cui il vecchio re le aveva spezzate. Dilatò le narici, che si riempirono del tanfo dei corpi umani, di unto e sporco e sudore asciugato. Restate, oh, sorelle mie, restate per me! In un attimo si rese conto di dove si trovava: nella stanzetta che le era stata assegnata ma che usava di rado, preferendo le ceneri oracolari del retrocucina. Una guardia dal viso arcigno vigilava davanti alla soglia; la sua voce echeggiava ancora contro le nude pareti di pietra, ed erano state quelle parole a svegliarla. Per la prima volta in trent'anni di prigionia, non riusciva a percepire cosa stesse succedendo. Era stata spogliata di tutte le difese, lasciata nuda in mezzo ai nemici. Valry figlia-di-re entrò a grandi passi nella stanza. La sua armatura brillava, come catturasse una luce invisibile. O forse si trattava soltanto della luminosità del suo sogno ormai quasi svanito. Miranthea non avrebbe saputo dirlo. «Vieni con me, vecchia Ah Spezzate. Mio padre sta per aprire le porte.» Senza indugi, Valry figlia-di-re fece strada verso la merlatura che dava sul cortile centrale. Miranthea guardò giù e vide i corpi sul terreno, gli arti come contorti da terribili convulsioni; tuttavia, con la sua vista di fata, notò che in loro continuava ad ardere la vita. Le porte spalancate sussurravano un invito irresistibile. Ovunque spostasse lo sguardo scorgeva altri uomini appostati, nascosti dietro porte socchiuse e carri, le armi pronte. «Una trappola astuta», mormorò. La guardia si era ritirata, lasciando le due donne sole sul parapetto. «Degna del più infido dei trucchi umani.» «Se siamo infidi, è perché abbiamo imparato da te», replicò la principessa, osservando coi gelidi occhi grigi la fata. Miranthea era di fronte alla nipote di chi l'aveva vinta. Un tempo l'avrebbe maledetta in silenzio, o avrebbe cercato di distorcere le sue parole, usando il suo odio come spada e come scudo, ma adesso non poteva fare altro che restarsene lì, indifesa davanti ai propri ricordi. Sentì di nuovo il freddo ferro lacerare la delicata membrana delle ali. Udì le ossa sottili frantumarsi di schianto. Gli echi di voci argentee scomparvero dalle sue orecchie.
La principessa sobbalzò, quasi avesse ricevuto un colpo. Cos'aveva visto negli occhi di Miranthea? Magari stava ricordando le notti in cui danzava sul suo balcone alla luce della luna, cantando per gli unicorni. O magari tutte le volte in cui suo padre l'aveva respinta perché non era un maschio. «Mio nonno avrebbe dovuto ucciderti. Mio padre avrebbe dovuto liberarti.» «Entrambi uomini e sciocchi.» «Ma io non sono né l'uno né l'altro.» Un brivido attraversò le ali spezzate di Miranthea. Sotto di loro, gli uomini del duca stavano entrando decisi nel cortile. Le voci erano forti, come se non avessero più bisogno di nascondersi. Le risate salirono fino alla merlatura. I capitani alzarono i vessilli. Uno estrasse un piccolo corno e suonò una marcia mentre il duca oltrepassava le porte in groppa al suo stallone bianco purosangue. All'improvviso dalla torre più alta si udì il suono di un altro corno. La saracinesca, con la fune tagliata, calò con rumore di tuono. Gli uomini che giacevano a terra balzarono in piedi. Gli arcieri del re apparvero su ogni parapetto e fecero piovere frecce sui nemici sottostanti. Le risate si trasformarono in grida e ordini contraddittori. Il duca fece girare di scatto il suo destriero, chiamando a raccolta i suoi uomini. Ma metà dell'esercito aggressore si trovava ancora fuori delle porte e il resto era in rotta, alla disperata ricerca di un rifugio. A un secondo squillo del corno del re, uomini armati saltarono fuori da dietro le porte socchiuse, dai compartimenti per i cavalli e dai carri coperti, e si lanciarono contro quegli assedianti che erano riusciti a trovare riparo dalle frecce. Tre soldati, che Miranthea riconobbe come i migliori spadaccini del re, corsero verso il duca. Uno trapassò al ventre lo stallone bianco; con un nitrito di dolore, l'animale crollò al suolo. Gli altri due bloccarono il duca e lo trascinarono via, mani dietro la schiena, spada alla giugulare. Anche mentre gli attaccanti si arrendevano e venivano portati via, Miranthea non riusciva a togliere gli occhi dallo stallone morente. Giaceva là, contorcendosi, il mantello color di luna insozzato e insanguinato, finché uno degli uomini del re non gli tagliò la gola. Miranthea seguì la principessa nel grande salone, dove Reyesmond sedeva sul trono di suo padre. I capitani si tennero lontani da lei, facendosi il segno della croce o disegnando nell'aria gesti per scacciare il male. La fata rimase nello spazio che le era assegnato, mentre il re ascoltava la resa for-
male del suo avversario. Lo scotto da pagare era il solito: il figlio primogenito del duca come ostaggio, la confisca di alcune terre e un giuramento di lealtà. L'età del figlio faceva ritenere a Miranthea che il giovane avrebbe sposato Valry, così il problema sarebbe stato risolto una volta per tutte. E allora, figlia-di-re, chi sarà stato a vincere e chi a perdere? «E adesso veniamo ad altre questioni», disse il re con voce severa. «Questioni di giustizia, questioni di vendetta per il tradimento più bieco. Adesso parliamo non delle ambizioni degli uomini ma degli atti infidi degli immortali. Fatti avanti, e ascolta le accuse contro di te.» Indicò Miranthea, che zoppicò verso di lui. «Non fosse stato per l'acutezza di pensiero di nostra figlia, avremmo mangiato il miele avvelenato. E adesso ce ne staremmo in ginocchio, ad ascoltare il nostro destino, invece di sedere qui in giudizio. Tu hai rinnegato il giuramento fatto a mio padre e commesso il più efferato crimine di tradimento. Cos'hai da dire a tua discolpa?» Miranthea sollevò il mento. Con quel piccolo movimento, un dolore straziante le attraversò le ali storpie. «Non ho detto altro che la verità.» «La verità! Sufficiente a ucciderci tutti! Il miele era di papavero dei sogni, come sapevi benissimo! Basta un assaggio e un uomo è perduto: il corpo vive ma la mente è schiava! E tu ci hai tenuto nascosto quel segreto.» Il viso del re era rosso e alterato dalla rabbia. I cortigiani arretrarono. «C'è una sola ragione per cui non dovrei staccarti la testa dal collo, qui e ora?» Un fremito di speranza attraversò Miranthea. Poteva sopravvivere nella condizione in cui era stata prima di assaggiare il miele, metà morta e il resto intorpidito dall'odio, ma non avrebbe sopportato quella nuova consapevolezza che la trafiggeva in ogni più piccolo angolo, quel riconoscimento di ciò che era stata. Porse, se lo stuzzicava a sufficienza, il re le avrebbe davvero tagliato la testa. «Non ti libererai mai di me, mai!» strillò. «Viva o morta, ossessionerò per sempre i tuoi incubi!» Il re estrasse la spada e scese dal trono. Aveva gli occhi ardenti come se la sua anima fosse stata in fiamme. Miranthea gettò la testa all'indietro ed emise una gioiosa risata stridula. «Ho vinto io! Ho vinto io! Adesso non mi puoi sfuggire! Questa scellerata maledizione ricadrà su di te e sui tuoi discendenti sino alla fine dei tempi!» Nella sala scese il silenzio; i cortigiani trattenevano il fiato. La paura era percepibile, come puzzo dopo una carneficina. Rapida, Valry si spostò a fianco del padre. Gli appoggiò una mano sul braccio che reggeva la spada.
Miranthea sentiva la tenerezza di quel gesto. Il re si fermò e abbassò lo sguardo sulla figlia, come se la vedesse per la prima volta. «Non ti ho forse servito bene?» chiese la principessa. «E non posso chiedere un premio per il mio buon consiglio?» Dopo un lungo momento, il re chinò il capo, assentendo. «Allora affida a me questa disgraziata creatura. Lascia che sia io a emettere la sentenza.» Un brusio di sorpresa percorse la sala. Il re gettò la testa all'indietro e rise. «Mia figlia! Il suo coraggio è grande il doppio di quello di qualunque uomo!» Indicò la fata con la punta della spada. «È tua.» Mentre Valry si avvicinava, Miranthea allargò le labbra in un ringhio silenzioso, mostrando le zanne simili ad aghi. Sputò una sfida. «Vediamo di cosa sei fatta, progenie di re. Il tuo coraggio è così limitato che non osi colpirmi, anche se sono disarmata?» «Vecchia Ali Spezzate, non intendo discutere con te. Soltanto infliggerti la condanna che meriti.» Con una mossa rapida e violenta, Valry figlia-di-re afferrò il cappio di ferro. Il metallo affondò nella carne di Miranthea, provocandole una sofferenza tale che quasi non poteva respirare. In qualche modo riuscì a barcollare dietro la principessa che la trascinava fuori della sala. Il re e la corte le seguirono dappresso. Si fermarono alle porte. La saracinesca era stata sollevata e una delle porte aperta per consentire agli uomini del duca di arrendersi. La principessa liberò la fata e la spinse oltre l'apertura. Miranthea vacillò, sopraffatta dalla forte luce, dall'odore dei campi calpestati e del sangue nel cortile. La principessa sfoderò la spada e ne appoggiò la punta contro la gola della fata. «Uccidimi subito e facciamola finita», sibilò Miranthea. «Mostrati misericordiosa, almeno in questo.» Lentamente, la principessa sorrise. Con una torsione del polso, tagliò i legacci di cuoio e gettò lontano il cappio di metallo. «Hai la libertà della strada. Possa tu vivere a lungo per goderne.» Miranthea rimase senza fiato per l'improvvisa scomparsa del dolore con cui aveva convissuto per così tanti anni. Cercò di raddrizzarsi completamente, ma i muscoli erano bloccati, come se la colonna vertebrale fosse diventata di pietra. Le ali dolevano e divenne acutamente consapevole di avere gli arti deformi, la pelle squamosa e butterata, i capelli opachi, e calli sporchi di cenere su mani e piedi.
Dove mai poteva andare? Dove, in tutto l'immenso mondo, c'era un posto per ciò che era diventata? Chi tra quelli della sua specie l'avrebbe accolta, ridotta così? La principessa infilò la mano nella borsa che portava in vita e ne tolse una piccola fiala di cristallo, sigillata con la cera e appesa a un cappio di seta intrecciata. La mise al collo della fata, dicendo: «Un dono d'addio, qualcosa per cui ti ricorderai di me». Attraverso le pareti di cristallo, il miele splendeva come una pozza di luce fusa. Un profumo stucchevole e irresistibile filtrò attraverso i sensi della fata; la colsero visioni di una bellezza da lacerare il cuore. Allungò una mano sul sigillo e sentì la cera, morbida e cedevole al tocco. Come sarebbe stato facile esercitare una pressione, tuffare un dito nel dorato elisir, udire voci amate chiamare il suo nome, restare per sempre con loro... Le dita di Miranthea si strinsero attorno alla fiala. Un colpo secco avrebbe spezzato i fili di seta, ma sapeva che non l'avrebbe mai fatto; proprio come non si sarebbe mai arresa ai sogni all'interno del cristallo. Avrebbe vissuto con essi ogni istante della sua esistenza immortale, il ricordo di tutta la bellezza che era stata sua e che ormai aveva perso, per sempre. La voce di Valry figlia-di-re penetrò le ondate di nostalgia, così bassa che soltanto Miranthea poteva udirla. «Tu sei come questo miele. Sincera e bugiarda, dolce e infida. Non ti farei del male per mia mano, ma finché rimarrai qui mio padre sarà tentato di usare i tuoi poteri. Ti temerà, e quel timore lo divorerà poco per volta, fino a quando non resterà più nulla. Io amo mio padre. Non permetterò che tu lo distrugga.» Miranthea sollevò la testa e distese le ali, dolorosamente. Adesso era tutto chiaro, alla luce della memoria. «Pensa a questo, principessa. Pensaci a lungo e intensamente. Se agli occhi degli uomini io sono il male, non sarà per quello che mi hanno fatto diventare? Crudele, intrigante, infida... Ho forse scelto io che mi venissero spezzate le ali, che mi venisse strappata la vita? Ho scelto io di vivere come una schiava, isolata per sempre dalla mia gente? Di essere ciò che sono diventata? E adesso dimmi, chi di noi è davvero innocente?» Negli occhi di Valry figlia-di-re risplendevano le lacrime, ma non fece neppure il gesto di asciugarle. Poteva avere ottenuto ciò che desiderava, il rispetto di suo padre, liberandolo della fata, ma a quale prezzo? A differenza di Miranthea, lei aveva scelto liberamente di agire in modo crudele. Per amore, forse, ma sempre di scelta si trattava. Quale unicorno avrebbe mai posato il capo sul suo grembo, se non nei
suoi sogni avvelenati? La fata annuì. «E così, figlia-di-re, erede-di-re, ora hai il tuo diritto di nascita. Possa tu vivere a lungo per goderne.» Senza guardarsi indietro un'ultima volta, Miranthea dalle Ali di Seta si voltò e avanzò zoppicando in mezzo alla polvere. Cynthia Ward. Il MOSTRO DELLA NOTTE Ho dimenticato in quante di queste antologie si trovino racconti di Cynthia Ward. Secondo la sua biografia, questa è la terza; io avrei detto di più. Immagino sia perché mi sono abituata a vedere il suo nome su molti manoscritti. Il mio primo marito, che Dio l'abbia in gloria, era solito dirmi che non dovevo inviare niente che non fossi sicura sarebbe stato accettato, altrimenti l'editor avrebbe cominciato a pensare che ero una scrittrice che meritava solo rifiuti. Anche allora sapevo per istinto che si sbagliava di grosso, ma, dato che ero giovane e mi lasciavo intimidire facilmente, non riuscivo a spiegare perché. Adesso, dopo anni passati da entrambi i lati di una scrivania, ci riesco. Se l'editor si abitua a leggere il vostro nome su buoni manoscritti che gli dispiace dover rifiutare, continuerà a cercare una buona scusa per sottoporne uno ai suoi lettori. Ciò spiega perché sono felice di proporvi un racconto di Cynthia. L'annotazione che avevo scritto a margine è: «Due giovani streghe diventano adulte». In nove casi su dieci, un commento simile relativo a un testo preso dalla mia pila dei manoscritti indicherebbe un soggetto vago, anche troppo sfruttato. Provenendo da Cynthia, si dimostra un'ottima lettura; se fossi uno scrittore intellettualoide, con ogni probabilità potrei intrattenervi su questo racconto dicendo molte cose su simbolismi e metafore e cose simili. Ma io odio questo genere di chiacchiere, perciò vi dico soltanto: «Leggetelo; vi piacerà. Come è piaciuto a me». Arrivò in una notte di bufera di neve e uccise tutti quelli che trovò in strada: tre robusti cacciatori, il maniscalco e una madre col suo bambino. Non era una bestia normale, perché non mangiava quelli che ammazzava, si limitava a farli a pezzi con lunghi artigli o zanne. Gli uomini costruirono un'alta palizzata attorno al villaggio di Habar e stabilirono turni di guardia
sulle mura; ma, la prima notte, un uomo venne ucciso sulla passerella, e le altre guardie videro un animale piuttosto grande, dalla pelliccia candida, scendere dalle mura come un gatto e scappare correndo come un uomo. L'inseguirono, ma scomparve nell'oscurità del villaggio; e, anche se Habar era minuscolo, una manciata di casette e negozi disposti lungo un'unica strada, le guardie non riuscirono a trovare il mostro della notte. Adesso nessuno si avventurava fuori dopo il calar del sole, tutte le porte venivano sbarrate e tutte le finestre avevano le persiane chiuse. Allysa chiese a Nath, il figlio dei vicini, d'insegnarle a difendersi da un animale che camminava come un essere umano. Mentre Nath rispondeva, il suo respiro creò un pennacchio bianco nell'aria gelida. «Nessuno può difendersi dal mostro della notte, altrimenti la guardia, un cacciatore esperto, l'avrebbe ucciso!» Scosse il capo, i capelli color rame che gli cadevano sulle spalle. «Tanto per cominciare, non avrei dovuto insegnarti a usare il coltello e la lancia; chi vorrà sposare una ragazza che crede di essere un guerriero?» Allysa andò su tutte le furie. «Perché mai dovrei volermi sposare, se tutti i ragazzi sono come te?» ribatté, e tornò a casa. Nath allora andò al casolare dei genitori di lei, con due lance dalla punta avvolta in pezzi di stoffa, e Allysa lo raggiunse in strada. Il sole scomparve dietro la foresta, al di là della palizzata, quando Nath insegnò ad Allysa a difendersi con la lancia, nella neve che rendeva difficili i movimenti. Entrambi indossavano pesanti abiti di lana: tunica, calzoni e mantello col cappuccio, con una cintura di cuoio sopra la tunica e un pugnale in un fodero di pelle di daino; e poi guanti lunghi e stivali alti, anch'essi in pelle di daino, con ricami colorati. Quando Nath si tolse i guanti, e tolse anche quelli di Allysa per correggerne la presa sull'impugnatura di frassino, le sue mani su quelle della ragazza risultarono sorprendentemente calde. Quando Allysa inciampò nella neve alta fino al ginocchio e cadde contro di lui, le parve di percepire il calore del suo corpo nonostante gli strati di abiti invernali. Nath rise, la testa piegata all'indietro, il cappuccio scivolato via e i capelli sparsi sulla neve, simili a fili di rame incredibilmente fini. Allysa lo fissò e sul suo mento vide dei morbidi mazzetti di peli rossi che fino a poco prima non c'erano. Avrebbe voluto tenere il muso a Nath, ma la sua risata era così esuberante che si trovò a ridere anche lei. Poi il riecheggiare di un grido nella strada zittì entrambi. «Vattene, Renor!» Era Leis, la sorella maggiore di Allysa. Leis non al-
zava mai la voce, eppure stava strillando. «Va' via! Non possiamo sposarci!» Cercò di sbattere la porta del casolare dei genitori. Il suo promesso la tenne aperta. «Leis!» gridò il giovane. «In che modo ti ho offeso?» «Non mi hai offeso», replicò Leis. Aveva quindici anni, uno più di Allysa; era chiara quanto Allysa era scura e dolce quanto Allysa era impetuosa. Allysa cercava di diventare un cacciatore, mentre Leis non sopportava neanche di tirare il collo a una gallina. «Renor, tu non c'entri», stava dicendo Leis. «È solo che non ci possiamo sposare. Adesso va'!» «Non ti ho offeso, abbiamo sempre voluto sposarci, il matrimonio è previsto tra una settimana... perché allora fai così? Per gli dei, Leis, farò qualunque cosa...» Si udì una risata. Allysa si guardò attorno e scoprì un terzetto di vicine che osservava sua sorella e il fidanzato. Anche Renor se ne accorse, e arrossì. Leis approfittò dell'attimo di distrazione per chiudere la porta. Il viso del giovane si scurì ulteriormente, per la rabbia, quindi si mise a correre lungo la strada e sparì dietro un angolo. Allysa e Nath si fissarono stupefatti. «Nath, devo andare a vedere perché mia sorella è angosciata», disse Allysa. Nath annuì, e la ragazza corse a casa, dimenticandosi di restituirgli la lancia. La porta era sbarrata, ma lei picchiò forte col pugno e gridò: «Leis, sono Allysa! Fammi entrare!» Le mani le erano diventate rigide come due pezzi di ghiaccio quando sua sorella si decise ad aprire la porta. Allysa entrò e le posò la mano sinistra sulla spalla. «Leis, cosa c'è che non va?» «Non mi posso sposare», rispose. «Non posso avere figli. Tutto qua. Non preoccuparti.» Cercò di allontanarsi. Allysa rafforzò la stretta sulla spalla della sorella. «Ma, Leis, hai sempre desiderato sposarlo! Non lo puoi respingere a una settimana dalle nozze! Sei solo agitata perché ormai la cerimonia è vicina.» «Io voglio sposarlo», ribatté Leis. «Ma non posso! E tu... oh, dei! Allysa, non devi più incoraggiare Nath. Non ti dovrai mai sposare!» «Sposare Nath?» esclamò Allysa. «Io non sposerò né lui né nessun altro! Vivrò da sola. Farò il cacciatore, come nostro padre, come sua sorella Bar-
la. Io non mi voglio sposare.» «Potresti cambiare idea, quando in te si verificheranno i cambiamenti delle donne», continuò Leis. «Allysa, ormai hai quattordici anni. Ti sono già cominciati i periodi lunari? Oh, dei, quelli ti cambieranno...» Allysa arrossì. «No, i miei periodi lunari non sono ancora cominciati. Ma non mi cambieranno, non più di quanto abbiano cambiato zia Barla. Lei non si è mai sposata...» «Non è questo che intendo!» gridò Leis. «Oh, Allysa, verrà il giorno in cui capirai di cosa sto parlando. Un giorno amaro. Devi indurire il cuore per quel giorno.» «Nessun uomo conquisterà mai il mio cuore», dichiarò Allysa. «Ma Renor ha il tuo. Spiegami perché pensi di non sposarlo!» Leis fissò la sorella da vicino, coi suoi occhi azzurro pallido. Le labbra livide si socchiusero, e Allysa si chinò in avanti per udire le parole. Poi Leis gettò la testa all'indietro e urlò: «No! Non posso!» Corse fuori dalla casetta, anche se non indossava mantello né stivali, ma soltanto il vestito e le pantofole da casa. Il sole calante chiazzò di rosso il suo abito giallo prima che la ragazza scomparisse alla vista di Allysa. La giovane si riprese dallo sbalordimento. «Leis, ti congelerai!» gridò, e uscì di corsa. Si accorse di avere ancora in mano la lancia di Nath. Leis stava correndo in direzione della porta nella palizzata, che era aperta in attesa del ritorno dei cacciatori dalla foresta. Le gambe di Allysa non erano impedite da una gonna lunga, come quelle della sorella, ma lo stupore per la fuga di Leis l'aveva fatta indugiare al punto che non riuscì a raggiungerla prima che oltrepassasse la guardia e la porta. «Leis, è il tramonto!» gridò avvicinandosi alla palizzata. «Ti sei dimenticata del mostro della notte? Torna indietro!» Il guardiano afferrò Allysa per il braccio sinistro. Lei continuò a correre ma lui non lasciò la presa; rotearono su se stessi e caddero nella neve. «Ragazzina, non è il momento di avventurarsi fuori del villaggio!» disse l'uomo, scuotendola. Lei tentò inutilmente di liberare il braccio. «Dove credi di andare?» chiese lui. «A prendere mia sorella, che lei non ha fermato!» gridò Allysa, e lo colpì al gomito con la lancia. Lui gemette e allentò la stretta. Allysa schizzò in piedi con uno spruzzo di neve e corse nella foresta. «Leis!» gridava, mentre seguiva le impronte profonde e colme d'ombra della sorella su per un sentiero di caccia. «Torna indietro! Non sei abbastanza coperta per questo freddo!»
I rami di pino e di abete pesantemente coperti di neve bloccavano i raggi obliqui del sole, e di colpo Allysa si rese davvero conto di quanto facesse freddo. Tolse i guanti dalla cintura e li infilò; quindi, stringendo la lancia con entrambe le mani, riprese ad avanzare. Le ombre s'infittirono, raggrumandosi come sangue, finché non riuscì più a vedere le impronte di Leis e neppure la propria mano messa davanti al viso. Era scesa la notte, il momento di quella spietata bestia assassina. Allysa aveva paura, ma continuò ad andare avanti, urlando per richiamare la sorella. «Leis! Dobbiamo uscire dalla foresta! Leis! Il mostro della notte!» Era scesa la sera. Sua sorella poteva essere morta. Allysa aveva una lancia, aveva un coltello, ma anche lei sarebbe potuta morire. Continuò a camminare, verso un chiarore nel buio, e si ritrovò in una radura, davanti a una distesa di neve che brillava come argento sotto la luna crescente. Nessuna impronta deturpava la superficie liscia. Che Leis avesse abbandonato il sentiero, spingendosi tra i pungenti rami di abete e il fitto sottobosco? No, non era possibile, indossando solo un vestito leggero. «Leis!» gridò Allysa. Nell'oscurità, il suo respiro era una nebbia bianca. «Dove sei? Rispondimi!» Un ruggito fece tremare gli alberi e la luna; un orrendo grido rauco che crebbe fino a diventare un urlo da spaccare i timpani. Allysa si voltò in direzione del suono, e vide un grande animale dal pelo candido che correva verso di lei, su due zampe come un uomo ma ululando come un lupo. Le zanne erano più lunghe di quelle di un lupo, la pelliccia era bianca e lunga e ispida, gli occhi bianchi e selvaggi, e le zampe anteriori - no, le mani erano sollevate, e dotate di artigli che brillavano alla luce della luna. Il mostro della notte saltava come un lupo, risalendo il sentiero verso Allysa, balzando contro di lei come di certo aveva già fatto con Leis. Con un grido pieno d'odio la ragazza puntò la lancia in modo che la punta trafiggesse il corpo della bestia. Il mostro della notte poteva anche non morire subito, perfino se gli avesse trapassato il cuore; poteva riuscire a farla a pezzi prima che la vita lo lasciasse. Ma, se doveva morire, si sarebbe assicurata che morisse anche il mostro color dell'inverno. Una mano dalle lunghe dita, dotata di lunghi artigli, spazzò via la lancia, e il robusto legno di frassino si ruppe di schianto come il più fragile ramoscello. Poi il corpo proiettato in avanti colpì Allysa e la gettò nella neve. Artigli simili a unghie arroventate le affondarono nelle spalle, e l'aria le uscì di botto dai polmoni, sostituita da un dolore simile a ferro liquido in-
candescente. Alzò lo sguardo verso le fauci spalancate, verso le lunghe zanne e gli ardenti occhi bianchi del mostro della notte. La deforme testa pelosa e le zanne si avvicinarono al collo della ragazza, che armeggiava alla ricerca del pugnale. Allysa vide che gli occhi della bestia non erano bianchi ma azzurro pallido, di un delicato color ghiaccio. Poi si accorse che le mascelle si erano fermate. La testa non si avvicinava più, anzi s'inclinò, come se il mostro della notte fosse sconcertato, e gli occhi pallidi la studiarono. Quindi il pugnale fu libero dal fodero, e lei lo spinse verso l'alto. Forse la pelle dell'animale era troppo spessa per la lama di una lancia o di un coltello, ma gli occhi erano vulnerabili. Il mostro della notte sollevò la testa, allontanandosi di scatto dalla punta del pugnale. Allysa fece un affondo appoggiandosi sul gomito sinistro, contro il peso della bestia, contro gli artigli conficcati nella spalla, per aumentare la portata del colpo. Il pugnale trafisse il pallido occhio. Scomparve in una fontana scura, e il sangue si riversò sul viso di Allysa come rame fuso. Il mostro della notte urlò di dolore. Il grido divenne un gemito, e il gemito una parola, mentre le mascelle si restringevano, ritirandosi nella faccia mostruosa; le zanne arretravano nelle gengive, gli artigli abbandonavano le ferite nelle spalle di Allysa, e la testa mostruosa alterava la sua forma mentre la pelliccia scompariva da lì e da tutto il corpo. E la parola che la bestia mutante pronunciò mentre cadeva fu: «Allysa». «Leis!» gridò la ragazza. Sua sorella giaceva immobile sopra di lei. Scosse la nuda sagoma bianca; la scosse con violenza, ma Leis non rispose. «Leis!» gemette Allysa. «Oh, dei, perdonatemi! Ho ucciso mia sorella!» Piangendo, portò la punta del pugnale contro il petto. Se si fosse uccisa, però, i suoi genitori avrebbero perso entrambe le figlie, la loro unica speranza di avere dei nipoti e veder continuare la stirpe. Aveva ucciso sua sorella. Nessuna famiglia meritava di affrontare un fatto così orribile. «Leis, perché non me l'hai detto?» chiese alla donna morta. «Ti avrei aiutato!» Nonostante la follia omicida del corpo mostruoso, Leis aveva riconosciuto Allysa; e Allysa avrebbe potuto aiutarla. Ma cos'avrebbe potuto fare? Liberare delle pecore per le strade del villaggio in modo che sua sorella potesse massacrarle mentre vagava in forma di mostro? Precederla
per essere certa che nessuno si aggirasse per le vie buie? Adesso sapeva perché Leis aveva mandato via Renor, perché aveva deciso di non potersi sposare e aveva detto anche a lei di non farlo: era convinta che i loro figli sarebbero diventati dei mostri. E non avrebbe creato altri mostri perché massacrassero gli amici e i vicini. Da quanto era diventata una mutante? Gli omicidi erano un fatto nuovo, cominciato un mese prima. Leis non era sempre stata così, comprese Allysa, e il terrore le fermò il cuore in una stretta di ghiaccio. La sorella le aveva chiesto se fossero cominciati i suoi periodi lunari; ciò significava che la mutazione era iniziata quando a Leis era iniziato il sanguinamento da donna. «Allysa!» Una voce spezzò il silenzio della notte. Una voce maschile: la voce di Nath, profonda come non era un mese prima. «Allysa! Leis! Dove siete? Dovete uscire dal bosco!» Nath l'aveva vista inseguire Leis, e le aveva seguite. Nell'udire la sua voce provò un grande sollievo e una strana gioia; aprì la bocca per chiamarlo, poi la richiuse. Lasciò cadere il pugnale e si tolse di dosso il cadavere facendolo rotolare, poi sistemò braccia e gambe in modo che la morta godesse di un sereno riposo; ma non poté cambiare i lineamenti distorti dal dolore. Con una manciata di neve pulita deterse il sangue dal pallido volto della sorella; poi, digrignando i denti per la sofferenza e il freddo, si strofinò della neve sulle ferite alle spalle. Conficcò il pugnale nella coltre bianca, rimuovendo il sangue, asciugò la lama sulla tunica e tagliò delle strisce di stoffa dal mantello. Quindi rinfoderò il pugnale e si legò le ferite con le bende improvvisate. Con grande fatica si schiarì la vista, sbattendo le palpebre, e si asciugò le lacrime; non voleva che le ciglia si congelassero, impedendole di tenere gli occhi aperti. Prese la lancia spezzata. La lancia di Nath. Lo rivide mostrarle le mosse difensive di un combattimento, lo rivide ridere con la testa gettata all'indietro e i lunghi capelli rossi sparsi sulla neve. Voleva andare da Nath; voleva corrergli tra le braccia e restare sempre con lui. Ma si diresse a lunghi passi nel folto della foresta. Come aveva detto sua sorella, non poteva sposarsi. Era brutto non sposarsi, non avere bambini, quando era l'unica figlia rimasta della sua famiglia, ma sarebbe stato molto peggio far nascere dei mostri. Allysa non poteva rischiare. E non poteva tornare a casa. I cambiamenti lunari sarebbero apparsi in lei all'improvviso, come per tutte le ragazze e, se fosse stata affetta dalla stessa maledizione di sua sorella, sarebbe diventata una mutante
e avrebbe ucciso prima ancora di rendersene conto. La dolce Leis, che non avrebbe ammazzato neppure un ratto scoperto nel silo del grano, aveva ucciso molte persone, amici e vicini di casa. Ad Allysa piaceva andare a caccia; non sarebbe mai riuscita a impedirsi di uccidere se fosse diventata come sua sorella. Doveva vivere da sola nella foresta, lontana dal villaggio. Non avrebbe corso il rischio di uccidere la sua famiglia e i suoi amici. Non poteva rivederli mai più. Non poteva mai più rivedere Nath. Rochelle Uhlenkott Il REGALO Rochelle Uhlenkott afferma che vorrebbe poter dire di ricordarsi d'aver scritto fin da quando è stata abbastanza grande da prendere in mano una matita, ma non è così. Ha sempre voluto provare a scrivere, ma non ne ha mai avuto il coraggio finché non è diventata una «Lavoratrice Aerospaziale in Esubero». Ha una laurea in fisica delle particelle elementari e ha pensato che, se era riuscita a scrivere una tesi su quell'argomento, poteva riuscire a scrivere qualunque cosa. A giudicare da questo racconto, aveva ragione; ma sarebbe sorpresa di scoprire quanti laureati non sono in grado di farlo, o quanti ragazzi di terza media ci riescono, invece, benissimo'. La cultura accademica, ho conferme ogni giorno, non ha niente a che fare con l'abilità di raccontare una bella storia. Ed è questo che serve davvero; questo, e la capacità di scrivere frasi di senso compiuto e sintatticamente corrette. Ma con ogni probabilità vi stupirebbe anche scoprire quanti laureati non sanno fare neppure questo. Lo dico per esperienza. Un regalo magico di grande importanza, aveva detto il vecchio e cencioso venditore ambulante. Nessuno dovrebbe farne senza. Basta tenerlo in mano ed esprimere un desiderio. I suoi usi sono infiniti. Viene direttamente da Doria. Creato nelle profondità delle incandescenti montagne di Valkyr. Benedetto da Nissa, dea del mare, e Valerius, dio del fuoco. Deputato a proteggere. Un dono potente, senza dubbio. Ma, quando Lida scartò il pacchettino, non trovò altro che un minuscolo sassetto levigato dall'acqua, con delle macchioline bianche. Una pietra di fiume: ma che razza di regalo era? A cosa poteva servire una pietra di fiume? Come poteva pro-
teggerla quel sasso? Era troppo piccolo per lanciarlo con la fionda. Non si poteva nemmeno farlo saltare. Considerò la possibilità di buttarlo via; poi lo fece. Era infantile credere che esprimere un desiderio tenendo in mano un sasso potesse proteggerla. Inoltre era da più di un secolo che in quella zona isolata di Teres non c'erano problemi. Continuò a seguire il sentiero su cui si trovava, prendendo a calci il sasso ogni volta che se lo trovava davanti. La pietra atterrò al centro d'un cerchio di fiori selvatici. Lida si fermò ad annusare i fiori, poi entrò nel cerchio per dare un altro calcio al sasso. Quello volò lontano, e lei lo seguì. O meglio, cercò di farlo. Mentre tentava di oltrepassare il cerchio, andò a sbattere contro una parete invisibile. Girando attorno, provò a cercare un'altra via d'uscita, ma la barriera invisibile era ovunque. Un cerchio fatato. Panico! La gente moriva in trappole create con cerchi fatati. Le pareti stavano cominciando a restringersi, riusciva a percepirne la pressione crescente. Rapida ficcò la mano in tasca, cercando disperata il regalo del vecchio ambulante. Si rese conto troppo tardi dell'errore che aveva commesso, quando vide il sassolino sul sentiero a pochi metri di distanza, fuori della sua portata. Le pareti si restrinsero ancora. Non riusciva a respirare. Il vecchio venditore ambulante passò sul sentiero col suo carro, le fece un cenno con la testa, e si allontanò. Si fermò a riprendere la pietra, scosse il capo e si voltò a guardare con tristezza la ragazza che stava soffocando. Poi riprese il cammino. «Un regalo magico di grande importanza», disse il vecchio e cencioso venditore ambulante. «Nessuno dovrebbe farne senza. Basta tenerlo in mano ed esprimere un desiderio. I suoi usi sono infiniti. Viene direttamente da Doria. Creato nelle profondità delle incandescenti montagne di Valkyr. Benedetto da Nissa, dea del mare, e Valerius, dio del fuoco. Deputato a proteggere. Un dono potente, senza dubbio.» Lo diede a una ragazza di nome Tila. Felice, lei scartò il pacchettino: mai nessuno le aveva fatto un regalo. Non trovò altro che un minuscolo sassetto levigato dall'acqua, con delle macchioline bianche, ma ringraziò comunque il venditore ambulante. Con attenzione, mise il prezioso pezzo di pietra di fiume nell'unica tasca senza buchi che aveva. Le importava ben poco che il regalo non avesse valore; era sempre un regalo e andava conservato con cura. Si diresse verso casa lungo il sentiero che portava al ponte. In quel periodo dell'anno il fiume era gonfio e veloce. Le piogge erano arrivate in ritardo, il terreno era ancora molle per l'umidità. Si trovava proprio al centro
del ponte, la mano in tasca ad accarezzare il sasso, quando quello crollò, staccandosi dalle sponde e precipitando nelle gelide rapide sottostanti. Tila si dibatteva, cercando con tutte le forze di raggiungere la riva, ma non sapeva nuotare. Col sassolino ancora stretto in mano, seguì il consiglio del vecchio ambulante e chiese intensamente di ricevere la protezione di cui aveva bisogno. Qualcuno l'afferrò per le spalle proprio mentre stava per finire sott'acqua, trascinandola fuori dal fiume e all'asciutto. Si guardò attorno, mentre l'acqua dai capelli le gocciolava negli occhi, ma non vide nessuno cui dire «grazie». Sorridendo tra sé, si rimise in tasca il prezioso sassetto e cominciò a strizzarsi gli abiti. Il vecchio venditore ambulante passò sul sentiero col suo carro, e accennò un saluto con la testa. Le fece l'occhiolino e le sorrise, poi riprese il cammino. Kristine Sprunger LA BARA DI CRISTALLO Kristine ha ventidue anni e vive coi genitori, con una sorella più piccola e un gatto. Attualmente sta lavorando a quattro romanzi; di solito lavora di notte, per non essere disturbata dal telefono e dal gatto. Il suo obiettivo è riuscire, un giorno, a guadagnarsi di che vivere scrivendo. Dice di essere «rimbalzata sul soffitto due o tre volte dopo aver letto la lettera d'accettazione, e ho coinvolto mia mamma e mia sorella in un girotondo. Penso di avere anche spaventato il gatto». Senza dubbio c'è chi ha reazioni entusiastiche alle mie lettere d'accettazione. Vuole dedicare questo racconto a «mamma e papà, che mi hanno sempre sostenuta; a Susan per essere un'amica migliore di quanto meriti; a Jeffy, per esserci, sempre; ai miei amichevoli 'editor'; e a Jimmy, tu sai perché». Era autunno quando la donna aveva trovato la bara di cristallo. Era rimasta incantata dall'uomo che dormiva all'interno. Aveva parlato con le minuscole guardiane e aveva chiesto educatamente se poteva dargli almeno un bacio: lo trovava così attraente... Le minuscole guardiane le avevano risposto che non le avrebbero impedito di baciarlo; ma, dato che era stata molto gentile con loro, le avevano anche consigliato di non farlo. Alle guardiane piacevano le persone gentili.
Lei però non aveva seguito il consiglio e aveva comunque dato un bacio a quell'affascinante uomo nella bara. Era primavera quando un giovane si addentrò nella foresta, seguendo un ruscello. Vide la bara che risplendeva al sole. Si avvicinò a indagare. Pensava che la donna fosse molto bella, e desiderava toccare i suoi capelli fulvi. Purtroppo però sembrava anche decisamente morta. Le minuscole guardiane arrivarono proprio in quel momento e trovarono il giovane accanto alla bara. «Non è morta, solo profondamente addormentata.» «Svegliatela. È bella e vorrei conoscerla.» «Non possiamo. Non abbiamo quel potere.» «Allora me ne vado...» Abbassò lo sguardo sulla donna, desiderando ancora di più ciò che non poteva avere. «C'è qualcuno con la capacità di svegliarla cui potrei chiedere aiuto?» «No», rispose una delle ninfe. «Allora, potrei darle almeno un bacio?» Le ninfe si scambiarono un'occhiata e sorrisero. Semplicemente con lo sguardo, concordarono che sarebbe stato... interessante... per il giovane. «Fa' pure.» L'uomo sorrise trionfante e sollevò il coperchio. Si chinò e baciò con dolcezza il labbro inferiore della donna. Dietro di lui le ninfe ridacchiavano; mentre si voltava a chiedere perché, dalla bara uscirono due braccia che lo trascinarono all'interno. «Grazie», gli bisbigliò all'orecchio la donna, che era lì dall'autunno precedente. Quindi rotolò fuori della bara e lontano da lui, balzò in piedi e richiuse con forza il coperchio. «E grazie ancora! Non avevo proprio nessuna voglia di passare lì dentro un altro minuto. Adesso posso riprendere i miei affari.» Abbassò lo sguardo sul giovane uomo nella bara e sospirò. «Peccato debba restare qui, è così bello.» Guardò le ninfe, sue guardiane mentre dormiva. «Grazie. Sono felice che siate rimaste. Qualcuna di voi vuole venire con me? Mi farebbe piacere la vostra compagnia.» «No», rispose una delle ninfe del bosco. «Ma saremmo contente se un giorno o l'altro tornassi a salutarci. Tu ci sei piaciuta. È per questo che hai passato così poco tempo nella bara. La maggior parte ci rimane per anni. Biancaneve, per esempio. Ma allora erano i nani a stare di guardia.» La ninfa roteò gli occhi. «Non hanno la concezione del tempo.» Ridacchiarono ancora. Le ninfe sono piuttosto sciocche. «Chissà...» disse la donna. Poi guardò di nuovo il giovanotto addormen-
tato. «Che ne sarà di lui?» «Non impediremo a nessuno di venirgli in aiuto.» La ninfa sorrise con aria furbetta. «Ma neppure spingeremo nessuno a farlo, come abbiamo fatto con te.» La donna rise a crepapelle. «Grazie e addio, mie amiche e custodi.» Almeno non ho dovuto affrontare l'inverno... anche se dormire per tutto l'inverno non è poi tanto male... non mi piace l'inverno... La donna scese a grandi passi la collina da cui era venuto il giovane, senza voltarsi indietro. Mildred Perkins ANELLO DI STREGA E adesso siamo arrivati alla fine; per tradizione, in questi volumi si tratta sempre di qualcosa di molto breve e divertente. Non posso dirvi troppo di questa storia, altrimenti la prefazione sarà più lunga del racconto. Mildred spiega che i suoi due gatti sono felici quando l'estate è al culmine, perché possono rotolarsi nella polvere e sporcarsi divertendosi come matti. So benissimo come vanno queste cose: ho un cane che fa esattamente lo stesso. Signy ritiene che il momento migliore per rotolarsi nella zona più sporca del giardino sia appena dopo essere stata lavata, sostituendo l'odore di gatto a quello del sapone. E nella natura dei cani, perché arrabbiarsi? Questo racconto, in realtà, più che divertente è insolito. Meglio così: la maggior parte di quelli che credono di essere divertenti non lo è affatto. E questo è quanto, per un altro anno! Qualcosa attirò lo sguardo di Maggie verso la donna dall'altra parte del tavolo. Sembrava abbastanza normale per quella fatiscente sottospecie di taverna. Indossava una veste ampia e scura, con una cintura per reggere il fodero di una spada corta; un'altra cintura andava dalla spalla destra alla vita, facendo sì che l'ampio petto spiccasse in quell'abbigliamento voluminoso. Un cappuccio le copriva viso e capelli, lasciando in vista solo la mano snella che reggeva distrattamente un boccale di birra. La mano era abbronzata e liscia, con unghie corte tagliate senza molta cura e bordate di terra nera. Un anello d'argento le stringeva l'indice, affondando quasi nella carne. Sulla grossa fascia di metallo erano incisi dei fiori meravigliosi;
guardando più da vicino, Maggie riuscì a scorgere serpenti e bestie feroci che spuntavano da dietro il fogliame immobile e lucido. Al di sopra di tutto, incombente, c'era una cupola rosso scuro, quasi nera. Sembrava un granato, ma di uno strano tipo, dato che scoprì di poterci guardare dentro. Vi regnava la calma, di un genere malvagio, minaccioso. A fluttuare sul nulla c'era un enorme trono d'ebano su cui era seduta quella stessa donna! Era vestita come prima, ma adesso era grande e imponente e, mentre Maggie si avvicinava ancora per vedere meglio, parve finalmente accorgersi di lei. In piedi, diventando sempre più alta e scura, si mise sul nulla che reggeva il trono e allargò le braccia. La luce si affievolì e il mondo divenne uno spazio vuoto coperto dall'ombra sempre più grande della donna. Maggie si sentì cadere, cadere... La sua testa sbatté con forza sul pavimento appiccicoso della taverna. Un attimo dopo fu investita da una cascata di sangue caldo e rotolò via, ansimando e soffocando. Qualcuno la prese per un braccio e la mise bruscamente in piedi. Qualcun altro le passò uno straccio per pulirsi il viso. Nell'angolo in cui fino a poco prima erano sedute lei e la donna, che adesso era un corpo decapitato riverso sul tavolo, si era riunita una folla. La gente fece largo alla guardia di palazzo, che si allontanò dal cadavere e raggiunse Maggie, ancora intenta a pulire la spada. «Ragazza, come ti è venuto in mente di sederti a un tavolo con una strega?» chiese la guardia. Maggie ci pensò un attimo, poi sollevò le spalle con indifferenza, senza rispondere. Tornò all'angolo a prendere il mantello e, mentre si chinava, afferrò l'anello che ancora stringeva il dito della donna. Venne via senza fatica e si scaldò in fretta. Adesso non avrebbe avuto problemi a guardarci dentro. FINE