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PETER BENCHLEY SQUALO BIANCO (White Shark, 1994) A Jeff Brown e in memoria di Michael W. Cogan e di Paul D. Zimmerman dei quali sento la mancanza. RINGRAZIAMENTI Per i loro suggerimenti e le loro rettifiche in materia di cetologia, ittiologia, ornitologia, iperbarica e criptomedica, sono debitore a Richard Ellis e a Stanton Waterman. Qualsiasi dubbio o inesattezza che possa risultare dal testo è da attribuirsi a me, non a loro. E per la sua pazienza, perseveranza, saggezza, incoraggiamento e amicizia, sono grato oltre ogni dire, come ormai da quasi vent'anni, alla incomparabile Kate Medina. PARTE PRIMA 1945 1 L'acqua dell'estuario era rimasta immobile per ore, immobile come una lastra di vetro scuro, senza che neppure un alito di vento venisse a incresparne la superficie. Poi, all'improvviso, cominciò a ribollire, come infranta da un enorme animale marino che stesse emergendo dal fondo, e si sollevò in un'onda che sembrava dovesse rompersi da un momento all'altro. La prima reazione dell'uomo che scrutava le tenebre dall'alto di una rupe fu di distogliere lo sguardo, come se si trattasse di un'illusione ottica causata dalla stanchezza e dalla luce tremolante della luna velata di nuvole. Ma, mentre di nuovo si voltava a guardare, l'onda diventò sempre più grande e alla fine esplose, come infranta da una testa mostruosa, appena visibile, nero su nero, che si riusciva a distinguere dall'acqua solo per i rivoletti scintillanti che scorrevano via sulla sua pelle lucida.
Poi emerse la grande massa del mostro marino - un profilo appuntito, un corpo snello di forma cilindrica - che silenziosamente si adagiò e rimase a galleggiare immobile sulla superficie così liscia da sembrare di seta. In attesa. In attesa dell'uomo. Nell'oscurità una luce lampeggiò tre volte: un lampo breve, uno lungo, ancora uno lungo; punto, linea, linea, il segnale internazionale dell'alfabeto Morse per indicare la lettera W. L'uomo rispose, accendendo tre fiammiferi nella stessa sequenza. Poi prese la borsa che portava con sé e si avviò giù per il pendio della rupe. La pelle irritata prudeva e puzzava. I vestiti che aveva tolto qualche giorno prima a un cadavere riverso sul ciglio della strada - dopo aver seppellito nel cratere fangoso di una bomba la sua uniforme ben tagliata e gli stivali fatti a mano - erano sporchi, troppo stretti e infestati da insetti. Almeno non aveva più fame: nelle prime ore della sera aveva aggredito una coppia di profughi, aveva fracassato loro il cranio con un mattone e si era impadronito delle scatolette di carne che i due avevano elemosinato dagli americani invasori. Aveva provato una strana emozione nell'ucciderli. Lui che di esecuzioni ne aveva ordinate tante e che di un numero ancora maggiore si era reso in qualche modo responsabile, non aveva mai ammazzato nessuno con le sue mani. Ed era stato così incredibilmente facile. Aveva viaggiato, o meglio, era fuggito, per giorni e giorni. Cinque? Sette? Non ne aveva idea, perché momenti rubati al sonno su mucchi di fieno fradicio si confondevano nella memoria con marce estenuanti lungo strade dissestate, avendo come compagni di strada i miserabili rimasugli di popolazioni ridotte allo stremo. La spossatezza era diventata la sua compagna e la sua tragedia. Dozzine di volte era crollato esausto nei fossi lungo la strada o si era lasciato cadere in mezzo all'erba alta dove era rimasto a giacere ansimando, finché non aveva recuperato un po' di forza. In fondo non c'era niente di strano in tanta stanchezza. Aveva cinquant'anni, era grasso e l'unico esercizio fisico che aveva fatto negli ultimi dieci anni era stato quello di sollevare il gomito dal piano del tavolo per portare un bicchiere alle labbra. Nonostante ciò, la stanchezza lo rendeva furioso, la sentiva come un tradimento. Non era tenuto a essere in forma, correre non faceva parte dei suoi compiti. Non era un atleta, lui, e neppure un
guerriero. Lui era un genio, un genio che aveva realizzato qualcosa senza precedenti nella storia dell'umanità. Il suo destino era sempre stato dirigere, insegnare, ispirare gli altri, non correre come un topo spaventato. Due o tre volte era stato tentato di cedere alla stanchezza, di arrendersi, ma poi aveva resistito, perché era fermamente deciso a compiere il suo dovere. Aveva una missione, gliela aveva affidata personalmente il Führer, con un ordine diretto, il giorno prima di suicidarsi, e questa missione lui l'avrebbe portata a termine, a qualunque costo, non importava quanto tempo ci avrebbe impiegato. Perché, sebbene non fosse capace di una visione politica delle cose del mondo, sebbene fosse uno scienziato, sapeva che il significato della sua missione andava molto al di là dei confini della scienza. Ora però la stanchezza, la paura e la fame erano scomparse, e mentre scendeva con circospezione lungo il fianco ripido della rupe, Ernst Kruger sorrideva fra sé. I lunghi anni di lavoro avrebbero dato i loro frutti; la sua fede sarebbe stata ricompensata. Non che avesse mai dubitato veramente che i frutti sarebbero arrivati; neppure una volta, durante gli interminabili giorni della fuga; neppure una volta, durante le ore senza fine dell'attesa. Sapeva che non sarebbero mancati all'appuntamento. Potevano anche non essere intelligenti come gli ebrei, ma sui tedeschi si poteva fare affidamento. Facevano sempre quello che veniva ordinato loro di fare. 2 Quando Kruger raggiunse la spiaggia sassosa, trovò ad attenderlo un battellino di gomma. Un uomo era seduto ai remi, un altro stava in piedi sulla riva. Erano entrambi vestiti interamente di nero - stivali, pantaloni, cerata, berretto di lana - e avevano mani e faccia anneriti col nerofumo. Nessuno parlò. L'uomo sulla riva allungò una mano come per prendere la borsa di Kruger. Kruger rifiutò con un gesto. Poi, stringendo la borsa al petto, salì sul battello appoggiandosi con una mano sulla spalla dell'uomo seduto, e andò a mettersi a prua. Si udì il rumore della gomma trascinata sui sassi, poi solo quello, smorzato, della spinta dei remi nell'acqua. Altri due uomini erano in attesa sul ponte dell'U-Boot e quando il battello di gomma accostò sotto bordo aiutarono Kruger a salire, gli fecero stra-
da verso il boccaporto di prua e glielo tennero aperto mentre, per una scaletta di ferro, scendeva nel ventre del sommergibile. Kruger rimase in piedi dietro una scaletta, nella cabina di comando, ascoltando l'incrociarsi serrato di ordini secchi e di pronte risposte. L'aria all'interno del sommergibile era satura di vapore. Intorno alle lampadine elettriche si era formato un alone, una specie di nebbiolina, e le superfici metalliche erano bagnate. L'aria non era soltanto umida ma anche impregnata di cattivo odore. Kruger cercò di capire di che cosa si trattasse e riconobbe odore di sale, di sudore, di gasolio, di patate, mescolati con un che di dolciastro che poteva essere acqua di colonia. Aveva la sensazione di essere prigioniero di una palude infernale. Udì il rumore sordo dei motori elettrici, poi ebbe la vaga sensazione del movimento, in avanti e verso il basso. Un ufficiale che portava un berretto con la tesa bianca si allontanò di un passo dal periscopio, fece un cenno verso di lui e sparì in un corridoio. Kruger chinò il capo per passare attraverso un portello aperto e lo seguì. Si infilarono in un locale angusto che conteneva a malapena una cuccetta, una sedia e un tavolo pieghevole, e il comandante si presentò. Il capitano di vascello Hoffmann era giovane - non dimostrava più di trent'anni - e aveva la barba e il pallore malsano tipici dei veterani della guerra sottomarina. Portava appesa al collo la Croce di Cavaliere, che spostò da un lato con un colpetto della mano perché si era impigliata nel colletto della camicia. A Kruger piacque la disinvoltura di quel gesto. Stava a indicare che Hoffmann portava la Ritterkreuz già da qualche tempo; aveva probabilmente il diritto di portare anche le fronde di quercia, ma evidentemente non gliene importava un granché. Era senz'altro esperto nel suo lavoro; e questo, d'altronde, era ovvio, per il fatto stesso che era sopravvissuto. Circa il novanta per cento degli UBoot che avevano preso il mare durante la guerra erano stati affondati; dei trentanovemila uomini che avevano navigato con loro, trentatremila erano rimasti uccisi o erano stati fatti prigionieri. Kruger ricordava di aver sentito parlare della rabbia del Führer quando gli erano stati comunicati questi dati. Diede a Hoffmann le ultime notizie: il paese in preda al caos, l'estremo rifugio nel bunker, la morte del Führer. «Chi è il nuovo capo del Reich?» chiese Hoffmann.
«Dönitz,» rispose Kruger. «Anche se, di fatto, chi comanda è Bormann.» Poi fece una pausa, indeciso se rivelare o meno a Hoffmann tutta la verità. Che il Reich non esisteva più, non in Germania, almeno; e che se il Reich era destinato a sopravvivere, ebbene, il seme della sua sopravvivenza si trovava proprio lì, a bordo di quel sommergibile. Decise, però, che non era necessario che Hoffmann sapesse la verità. «E il suo equipaggio?» chiese. «Cinquanta uomini, compresi noi due, tutti volontari, tutti membri del partito, tutti scapoli.» «Di quanto sono a conoscenza?» «Di nulla,» rispose Hoffmann. «Se non del fatto che è molto improbabile che vedano ancora le loro case.» «E quanto durerà il viaggio?» «In condizioni normali, trenta o quaranta giorni. Ma questi non sono tempi normali. Non possiamo seguire la rotta più breve. Il Golfo di Biscaglia è una trappola mortale, pullula di navi alleate. Dovremo passare al largo della Scozia, entrare in Atlantico e fare rotta a sud. In superficie posso fare circa diciotto nodi, ma non so per quanto tempo potremo navigare in superficie. Dovrò tenere una velocità di crociera, diciamo, di circa dodici nodi, per mantenere il raggio d'azione intorno alle ottomilasettecento miglia. Se saremo molestati navigheremo di più in immersione. In immersione possiamo fare soltanto sette nodi e i nostri motori elettrici hanno un'autonomia di sessantaquattro miglia, poi hanno bisogno di sette ore di navigazione in superficie per ricaricarsi. Così tutto quello che posso fare è un'ipotesi: circa cinquanta giorni.» Kruger sentì la fronte e le braccia imperlarsi di sudore. Cinquanta giorni! Si trovava in quella tomba di ferro da meno di un'ora, e già aveva la sensazione che una morsa gli stringesse con forza i polmoni. «Ci farà l'abitudine,» disse Hoffmann. «E quando saremo a sud potrà passare un po' di tempo sul ponte. Se arriveremo a sud, s'intende. Siamo in una posizione di svantaggio. Se ci sarà da combattere, saremo come un uomo con un braccio solo, dato che non abbiamo i siluri di prua.» «Come mai?» «Ce ne siamo sbarazzati per fare posto al suo... carico. Era troppo voluminoso per passare dal boccaporto. Così abbiamo rimosso le piastre d'acciaio del ponte. Poi ci siamo accorti che non c'era spazio sufficiente fra i siluri, e questi, allora, sono... partiti.» Kruger si alzò in piedi. «Voglio vederla,» disse.
Si incamminarono attraverso una serie di locali angusti: la cabina radio, gli alloggi degli ufficiali, la cambusa. Quando furono a prua, Hoffmann aprì il boccaporto che conduceva alla camera di lancio dei siluri e Kruger entrò. Eccola: era lì, al sicuro in un'enorme cassa di bronzo, e per un attimo Kruger rimase in piedi a guardarla mentre gli tornavano alla memoria gli anni di lavoro, gli innumerevoli fallimenti, la derisione, i primi timidi successi e, alla fine, il trionfo: un'arma come nessuno mai era riuscito a inventare. Notò che il bronzo aveva cominciato ad annerirsi e fece un passo avanti per controllare che non ci fossero segni di deterioramento. Appoggiò una mano su un lato della cassa. Ciò che provava andava molto al di là dell'orgoglio. Davanti a lui c'era l'arma più rivoluzionaria non solo del Terzo Reich ma dell'intero mondo della scienza. Pochissimi uomini nella storia avevano potuto affermare ciò che a lui era consentito. Ernst Kruger aveva cambiato il mondo. Andò col pensiero a Mengele, a Joseph Mengele, suo amico personale ma rivale nel lavoro. Era riuscito a scappare anche lui? Era ancora vivo? Si sarebbero incontrati in Paraguay? Mengele, conosciuto come l'Angelo della Morte per via dei suoi esperimenti sugli esseri umani, si era mostrato sprezzante nei confronti del lavoro di Kruger, lo aveva definito fantasioso e irrealizzabile. Ma, in realtà, le ricerche di Kruger avevano uno scopo molto concreto e assolutamente mortale. Kruger sperava ardentemente che Mengele fosse ancora vivo. Non vedeva l'ora di mostrargli la sua impresa, l'arma totale e definitiva. Der Weisse Hai, Lo Squalo Bianco. Si alzò di scatto e uscì dalla camera di lancio. 3 Appena l'U-Boot ebbe doppiato la punta estrema della Scozia, incappò in una violenta burrasca da ovest. Beccheggiando e rollando come la giostra di un parco di divertimenti, mise la prua a sud, a ovest dell'Irlanda, e prese lentamente la sua rotta in Atlantico. L'8 maggio, Hoffmann disse a Kruger di aver captato un bollettino radio: la Germania si era arresa. La guerra era finita. «Non per noi,» disse Kruger. «Per noi la guerra non finirà mai.» I giorni si susseguivano ai giorni, come le foglie d'autunno che cadono
da un albero di tiglio, uno dopo l'altro, uno uguale all'altro. Hoffmann si era tenuto lontano dalle rotte più battute e così non avevano incontrato navi alleate. Per tre volte la vedetta aveva avvistato tracce di fumo all'orizzonte; una mezza dozzina di volte Hoffmann aveva dato l'ordine di immersione; tutte immersioni poco profonde, più esercitazioni che vere e proprie emergenze. Per Kruger il tempo divenne un monotono susseguirsi di pasti, sonno e lavoro nella camera di lancio di prua. Per lui il lavoro era fondamentale. Era rimasto ormai la sua unica ragione di vita, l'unico motivo per cui valesse la pena di continuare questo viaggio interminabile. Nella camera di lancio, Kruger schiacciò un pulsante dissimulato all'interno di una piccola svastica incisa nel bronzo. Il coperchio del cofano si sollevò di scatto; con una lente d'ingrandimento controllò attentamente i sigilli sulla spessa chiusura stagna di gomma che manteneva il cofano impermeabile all'aria e all'acqua. Spalmò poi del grasso su ogni punto che presentava segni di consunzione. I superiori di Kruger avevano capito immediatamente le possibili applicazioni militari dei suoi esperimenti. Quella che lui aveva visto come una conquista scientifica a loro era apparsa subito un'arma formidabile. Così erano stati investiti dei soldi nel progetto e Kruger era stato sollecitato a portarlo a termine. Ma poi, quando il successo era ormai a portata di mano, gli eventi erano precipitati; l'impero del Reich si era ridotto alle dimensioni di un bunker, a Berlino, e a Kruger era stato detto che l'arma doveva essere trasportata al sicuro anche se il programma era ancora incompleto. Navigavano già da quattro settimane quando, un giorno, Kruger fu chiamato in cabina di comando. Hoffmann teneva le braccia appoggiate sulle manopole laterali del periscopio, la faccia premuta sugli oculari, e ruotava lentamente su se stesso. Non staccò gli occhi dal periscopio ma, non appena Kruger fu entrato, gli disse: «È arrivato il momento che aspettavamo, Herr Doktor. Il mare è calmo, è il crepuscolo e piove. Possiamo andare in coperta a fare una doccia». Allontanò la faccia dagli oculari e sorrise. «E, in virtù del suo rango, lei farà il primo turno.» Era passato più di un mese da quando Kruger aveva fatto l'ultima doccia, si era rasato e si era lavato i denti. Il sommergibile poteva stivare solo pochi galloni d'acqua dolce e quella prodotta giornalmente dai desalinizzatori era riservata esclusivamente alla cucina e al rifornimento delle batterie.
Ora Kruger moriva dalla voglia di provare la sensazione dell'acqua fresca sulla pelle maleodorante. «Non c'è pericolo?» chiese «Credo proprio di no. Non c'è molto movimento di navi così a sud. Siamo a circa milleduecento miglia dalle Bahamas.» Hoffmann ritornò agli oculari e chiese: «Quanta acqua abbiamo sotto la chiglia?» «Non c'è fondale, comandante, qui,» rispose un marinaio seduto davanti a un pannello di controllo. «Non c'è fondale?» gli fece eco Kruger. «Com'è possibile che non ci sia fondale?» «È troppo profondo perché lo scandaglio possa darci un'eco,» spiegò Hoffmann. «Dobbiamo essere sopra una delle trincee medioceaniche... tremila metri... cinquemila metri... chi lo sa? Una gran massa d'acqua. Non possiamo arrivare a sentire niente con le nostre onde sonore.» Quando un uomo dell'equipaggio aprì il boccaporto della torre di comando, a Kruger sembrò che la ventata d'aria fresca avesse un profumo di violette. Rimase in piedi in fondo alla scaletta, con in mano un pezzo di sapone, e assaporò le gocce di pioggia che gli inondavano la faccia. Il marinaio scrutò attentamente l'orizzonte con il binocolo, poi gridò: «Tutto tranquillo!» e si lasciò scivolare all'indietro sostenendosi ai gradini di ferro. Kruger si arrampicò, scavalcò il bordo della torretta e scese giù per la scaletta esterna fino a mettere piede sul ponte. Quattro uomini lo seguirono, arrampicandosi su per la scaletta agili come ragni. Poi si raggrupparono nudi sul ponte superiore e cominciarono a passarsi l'un l'altro un pezzo di sapone. La pioggia veniva giù decisa ma leggera, senza raffiche, e il mare era calmo e lucente. L'onda lunga e tranquilla dell'oceano sollevava il sommergibile con tanta dolcezza che Kruger non aveva nessuna difficoltà a mantenersi in equilibrio. Fece qualche passo avanti, fino a un tratto piatto e liscio, si tolse i vestiti e li sparse sul ponte nella speranza che la pioggia portasse via un po' del loro cattivo odore. Poi si insaponò e rimase immobile sotto la pioggia con le braccia spalancate. «HerrDoktor!!!» Kruger lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e guardò verso poppa. I quattro marinai nudi si stavano affrettando su per gli scalini di ferro della
torretta. «Un aereo! Faccia presto!» L'ultimo uomo della fila indicò un punto nel cielo, poi riprese a salire. «Un... che cosa?» Poi, al di sopra del suono della sua stessa voce, Kruger udì il ronzio di un motore. Guardò nella direzione indicata dal marinaio. In un primo momento non vide niente. Poi, a ovest, contro il grigio chiaro delle nuvole, ecco un puntino nero che sfiorava quasi la cresta delle onde e sembrava dirigersi proprio contro di lui. Afferrò i vestiti e corse verso la scaletta. Urtò qualcosa con un piede, una specie di ostacolo, lì, sul ponte, e cadde in avanti sulle ginocchia, sparpagliando i vestiti tutto attorno. Il ronzio dell'aereo sembrava ora più vicino e piano piano ingigantiva fino a diventare una specie di ululato. Stordito da una fitta di dolore rovente e acuta che partiva dall'alluce e saliva su per il polpaccio, Kruger abbandonò i vestiti e si rimise in piedi a fatica. Si guardò indietro per vedere in che cosa fosse inciampato. Una delle piastre del ponte, subito dietro il boccaporto di prua, appariva deformata come se una saldatura fosse saltata e avesse fatto incurvare un'estremità della piastra. Poi prese ad arrampicarsi su per la scaletta. Il rumore del motore si era fatto assordante e Kruger si abbassò d'istinto mentre l'aereo gli passava rombando sulla testa. Poi guardò in alto, in tempo per vederlo iniziare un grande looping nel cielo. Uno dei marinai si sporse fuori dalla torretta e tese la mano a Kruger per farlo salire più in fretta. Da qualche parte, all'interno dello scafo, Kruger udì la sirena dell'immersione rapida e mentre scavalcava il bordo della torretta e cercava con un piede i pioli di ferro della scaletta interna, avvertì il rumore smorzato dei motori e una sensazione di movimento in avanti e verso il basso. Il boccaporto si chiuse con fragore sopra di lui. I marinai gli scivolarono ai lati lungo i bordi della scaletta e Kruger si ritrovò in piedi sul fondo del pozzetto, nudo, zuppo d'acqua, con uno strato sottile di sapone che gli sgocciolava lungo le gambe. Hoffmann era chino sul periscopio. «Togli il tappo, capo!» gridò. «Dobbiamo portarla giù.» Kruger cercò di interloquire. «Sul ponte, uno dei...» «Quota periscopio,» comunicò l'ufficiale di macchina. «Motori avanti
mezza.» Hoffmann fece fare al periscopio una rotazione di novanta gradi. «Figlio di puttana,» esclamò. «Quel bastardo sta ritornando.» «Non ci ha sparato addosso,» disse Kruger. «Io credo che lei...» «Lo farà questa volta. Voleva solo essere sicuro. Non lascerà che un UBoot se ne vada a spasso per l'Atlantico, guerra o non guerra. Prua sotto a quindici, poppa sotto a dieci. Portiamolo a cento metri.» Hoffmann chiuse di scatto le manopole del periscopio, poi premette il pulsante di rientro e lo scintillante tubo d'acciaio scivolò via verso il basso. Gettò un'occhiata a Kruger, notò l'espressione tirata del suo viso e gli disse: «Non si preoccupi. Siamo come un ago in un pagliaio. Si sta facendo notte e le possibilità che ci trovi...» «Cinquanta metri,» annunciò l'ufficiale di macchina. «Sul ponte...» disse Kruger, «ho visto... una delle piastre... ha già portato questo sommergibile a cento metri di profondità prima d'ora?» «Ma certo. Dozzine di volte.» «Settanta metri, comandante.» A settanta metri di profondità, la pressione dell'acqua sullo scafo era di circa cinquanta chili per centimetro quadrato. La nave era stata progettata per operare in condizioni di sicurezza a una profondità due volte superiore, e questo era già successo molte volte. Ma quando le piastre del ponte di prua erano state rimosse per fare posto al carico di Kruger, uno dei saldatori incaricati di sostituirle aveva lavorato in modo troppo affrettato. Alcune saldature superficiali, prive di importanza, avevano ceduto durante la navigazione, ma quelle che si trovavano nei punti critici avevano retto. Adesso però, con migliaia di tonnellate d'acqua che stringevano lo scafo come in una morsa gigantesca, una di loro aveva ceduto. Si udì un rumore a prua, una specie di sorda esplosione, e il sottomarino si piegò in avanti. Gli uomini furono strappati dai loro seggiolini. Kruger andò a sbattere contro la scaletta, mantenne a fatica l'equilibrio e si aggrappò con forza per non scivolare giù lungo il corridoio. Hoffmann ebbe la sensazione che i piedi gli scivolassero da sotto e si aggrappò al periscopio. «Emersione rapida!» gridò. «Riportiamola su! Indietro tutta! Svuota prua e poppa!» Poi fulminò Kruger con lo sguardo. «Ha bloccato il boccaporto di prua?»
«Non ricor...» Ci fu un'altra esplosione mentre il boccaporto di prua veniva divelto e una colonna d'acqua alta quasi due metri e larga tre irruppe dalla camera di lancio dei siluri, attraversò gli alloggi degli ufficiali e invase con furia la cambusa e il quadrato. «Novanta metri, comandante!» gridò una voce. Il sottomarino continuava ad affondare. All'improvviso Kruger ebbe la sensazione di non avere più peso, come se si trovasse in un ascensore. Tutto attorno si sentiva lo scricchiolio delle strutture metalliche che minacciavano di cedere alla pressione dell'acqua. Da qualche parte esplose una conduttura e il vapore ne uscì sibilando. La cabina di comando era impregnata di un odore acre di sudore, poi di urina e, alla fine, di olio e di feci. Un'altra esplosione, a duecento metri di profondità. Oscurità, grida, gemiti. Un attimo prima di morire, Ernst Kruger stese una mano davanti a sé, verso la camera di lancio, verso il futuro. 4 Il sottomarino affondò velocemente, la prua in avanti, fino a una profondità di trecento metri. Lì, molto al di sotto dei suoi test di profondità, la pressione interna dello scafo cedette, contemporaneamente, in una dozzina di punti. L'aria uscì con forza dalle falle aperte nel metallo squarciato, lo scafo vibrò e si contorse. Con l'idrodinamica distrutta, cominciò a colare a picco. Giù, andava sempre più giù, settecento metri di profondità, poi millecinquecento metri. E ogni dieci metri, la pressione dell'acqua sullo scafo aumentava di altri otto chili, premeva contro piccole sacche d'aria residua e le faceva scoppiare come acini d'uva. A tremila metri di profondità, più di due tonnellate d'acqua premevano su ogni millimetro quadrato d'acciaio e l'ultima bolla d'aria fu spinta fuori dallo scafo distrutto e salì ondeggiando nell'oscurità. Il sottomarino continuò nella sua discesa simile a una lattina di soda buttata via, finché, alla fine, andò a urtare contro il fianco di una collina, rimbalzò, rotolò su se stesso con un movimento lento, sollevando nuvole di sabbia invisibile e smuovendo frammenti di roccia che lo accompagnarono fino al fondo di un canyon sinistro. Dove, finalmente, si arrestò, ridotto a
un ammasso di acciaio contorto. Fra i rottami della prua la grande cassa, fusa nel bronzo, sigillata con la gomma, rimaneva impermeabile all'acqua del mare. La sabbia si posò sul fondo, passò il tempo. Miriadi di microrganismi che pattugliavano gli abissi distrussero tutto quanto ci fosse di commestibile. Tornò la calma sul fondo dell'oceano, e continuò l'inarrestabile ciclo della vita e della morte. PARTE SECONDA 1996 26 GRADI DI LATITUDINE NORD 45 GRADI DI LONGITUDINE OVEST 5 L'oscurità assoluta è rara sulla terra. Anche in una notte senza luna, con le nuvole che coprono le stelle, il bagliore della civiltà splende contro il cielo. Nelle profondità dell'oceano, l'oscurità più assoluta è, invece, la norma. I raggi del sole, ritenuti per millenni la sola fonte di vita sulla terra, non riescono a penetrare per più di settecento metri nell'acqua del mare. Circa tre quarti del pianeta - immense pianure, canyon profondi, catene di montagne che nulla hanno da invidiare all'Himalaya - sono avvolti nell'oscurità perpetua, rotta di tanto in tanto da organismi fosforescenti che emettono segnali luminosi per riprodursi o per cacciare la preda. Due batiscafi si muovevano circospetti, fianco a fianco, come granchi di una specie sconosciuta, il corpo bianco, gli occhi scintillanti. I due riflettori da cinquemila watt montati sulla loro fronte concava proiettavano una luce dorata per un raggio di circa settanta metri. «Quattromila metri,» disse, alla radio, uno dei piloti. «Il passaggio deve trovarsi proprio davanti a noi. Vado avanti.» «Va bene così,» rispose l'altro pilota. «Sono proprio alle tue spalle.» Le eliche girarono simultaneamente mentre i motori elettrici venivano
innestati, e il primo batiscafo si mosse piano in avanti. All'interno della capsula d'acciaio - lunga appena tre metri e larga due David Webber si mise in posizione semidistesa e semirannicchiata a fianco del pilota e premette il viso contro un oblò largo quindici centimetri, mentre i riflettori illuminavano ripide scarpate grigie di roccia e detriti che sembravano perdersi all'infinito, come se scendessero dal nulla e sprofondassero verso il nulla. Quattromila metri, pensò Webber. Tredicimila piedi d'acqua, più o meno. Due miglia e mezzo. Tutta quell'acqua sopra di lui, tutta quella pressione attorno a lui. Quanta pressione? Incalcolabile. Ma certamente sufficiente per trasformarlo in un budino. Non pensarci, disse tra sé. Se ci pensi, impazzisci. E questi non sono certo il momento e il posto ideali per impazzire. Hai bisogno di questo lavoro, hai bisogno dei soldi. Fai quello che devi fare e poi manda tutto al diavolo. Alcune gocce di condensa gli caddero nel collo e lo fecero sussultare. Il pilota lo guardò e si mise a ridere. «Mi sarebbe piaciuto vederle arrivare,» disse. «Avrei gridato insieme con te, ti avrei fatto pensare che stavamo per tirare le cuoia.» Sogghignò. «Mi diverto a farlo con i pivellini, mi piace vedere che se la fanno sotto.» «Molto gentile,» commentò Webber. «Ti avrei mandato il conto della lavanderia.» Rabbrividì e incrociò le braccia per strofinarsi le spalle. C'erano trentaquattro gradi in superficie, e lui sudava, col pullover, le calze di lana e i pantaloni di velluto. Ma nelle tre ore che avevano impiegato per immergersi, la temperatura era scesa di venti gradi. E ora stava congelando. Continuava a sudare, ma per la paura. «Qual è la temperatura dell'acqua, di fuori?» chiese, non perché la cosa lo interessasse davvero, ma perché parlare gli dava sollievo. «Quattordici, quindici gradi,» rispose il pilota. «Fredda abbastanza per raggrinzirti l'uccello, questo è sicuro.» Webber si girò di nuovo verso l'oblò e appoggiò una mano sui comandi di una delle quattro macchine fotografiche che aveva installato in alloggiamenti mobili fissati alla superficie esterna del batiscafo. Questo stava rasentando il crinale di un canyon desolato, una distesa sconfinata di pietrisco incolore dall'aspetto meno invitante della superfice della luna. Si sorprese a riflettere che quelli suoi e del pilota erano i primi occhi umani che avessero mai visto quel paesaggio, e che i suoi obiettivi sarebbero stati i primi a registrarlo su una pellicola.
«È difficile pensare che ci siano esseri viventi qua sotto,» disse. «Oh sì, ce ne sono, ma niente che tu abbia mai visto prima d'ora. Ci sono creature albine e creature senza occhi - voglio dire, è come parlare dei capezzoli di un toro: a cosa gli servono gli occhi quaggiù? Ce ne sono poi trasparenti. Merda, dappertutto c'è un qualche genere di vita. È chiaro che non posso parlare delle profondità veramente profonde, quelle, per esempio, di diecimila metri. Non sono mai stato lì in fondo. Ma, questo è certo, c'è vita anche lì. Quello che ha messo tutti in subbuglio è l'idea che ci sia qualche forma di vita che comincia proprio quaggiù.» «Sì,» disse Webber. «Ne ho sentito parlare. La chiamano chemiosintesi.» La chemiosintesi, questo era il punto, questa era la ragione per cui si trovava lì. Qui, mentre si congelava il culo a quattromila metri sotto la superficie del mare, in una assoluta, impenetrabile oscurità. Chemiosintesi: la possibilità che la vita si generi in assenza della luce; il principio secondo cui gli esseri viventi possono essere generati soltanto dalla chimica. Affascinante. Rivoluzionario. Mai documentato. Scoprire la prova che la chemiosintesi era possibile, documentare questa prova, dimostrarne l'esistenza al di là di ogni ragionevole dubbio: questo era il suo compito, il sogno di ogni fotografo. Libero professionista, legato da un contratto al National Geographic, Webber si accingeva a scattare le prime fotografie dei soffioni delle profondità oceaniche nella Trincea di Kristoff, scoperta di recente, sul fondo della dorsale medioatlantica, appena a ovest delle Azzorre. Questi soffioni, come pustole infiammate sull'epidermide della terra, eruttavano roccia incandescente dalle viscere del pianeta nell'acqua gelida. Gli stessi soffioni erano come dei piccolissimi vulcani, ma si riteneva che nascondessero forme di vita generate e alimentate dagli elementi chimici da loro emanati. In altre parole, la chemiosintesi. Forme di vita generate chimicamente che non avevano bisogno della luce del sole; anzi, che non la conoscevano neppure, perché erano nate e vivevano senza di lei. Lui era stato scelto per questo incarico fra numerosi suoi colleghi, perché era nota la sua abilità con le macchine fotografiche, gli obiettivi e i loro alloggiamenti; e anche per la sua giovane età e il suo coraggio. Aveva accettato l'incarico, in parte per i soldi, in parte per la sua dedizione alla rivista; ma soprattutto per l'emozione di essere il primo a dimostrare che questa singolarità della scienza poteva davvero verificarsi nella natura, nel mare.
Non aveva pensato alla paura. Si considerava vaccinato contro la paura. Negli ultimi quindici anni era sopravvissuto a tre disastri aerei, all'attacco di una leonessa ferita, ai morsi degli squali e delle murene, alle punture degli scorpioni e all'infezione causata da una serie di parassiti esotici e di amebe che gli aveva provocato, fra gli altri inconvenienti, la caduta temporanea di tutti i peli del corpo e lo squamarsi della pelle della lingua e del pene. In breve, era abituato agli imprevisti, agli strani scherzi che la natura poteva giocargli. Quello che non aveva mai sospettato, che non aveva mai neppure immaginato e che aveva scoperto con meraviglia nelle ultime ore, era di essere diventato claustrofobo. Quando era successo? E perché? Mentre vagava alla cieca in mezzo a una catena di montagne sottomarine, a una profondità pari all'altezza delle Montagne Rocciose, con la sua sopravvivenza affidata all'abilità di un autista sottomarino raggomitolato su se stesso alla guida di una minuscola capsula che probabilmente era stata saldata insieme da chi aveva fatto l'offerta più bassa, Webber si sentiva a disagio: senza aria, schiacciato, prigioniero, sofferente. Perché non aveva dato ascolto alla sua ragazza e non aveva accettato, invece, l'altro incarico? Si sarebbe trovato molto meglio nel Mar dei Coralli a scattare primi piani dei velenosi serpenti marini. Almeno, avrebbe potuto tenere la situazione sotto controllo e, se la faccenda fosse diventata rischiosa, avrebbe potuto uscire dall'acqua. Ma, no, doveva avere l'onore di essere il primo. Stronzo. «Quanto ci vuole ancora?» chiese, sperando che la sua voce lo distraesse dal battito affannoso del cuore. «Per il cratere? Non molto.» Il pilota picchiò con il dito su un manometro posto sul pannello davanti a lui. «La temperatura dell'acqua sta aumentando. Dovremmo essere vicini.» Quando il batiscafo superò un'aguzza punta di roccia sul fronte della scogliera, i suoi fari furono offuscati all'improvviso da una nuvola di spesso fumo nero. «Eccoci,» disse il pilota, mise in folle e ingranò la marcia indietro. Continuarono a scendere finché la luce dei fari si schiarì di nuovo. Webber si chinò in avanti e afferrò i comandi della macchina fotografica.
«Di' a Charlie di girarci attorno sull'altro lato,» disse. «Voglio inquadrarlo.» «Va bene.» Il pilota parlò nel microfono, e Webber vide la sagoma bianca dell'altro batiscafo spostarsi lentamente attraverso la nuvola scura e ondeggiare come uno spettro. Da quella distanza il soffione non sembrava un granché: un torbido pennacchio di fumo scuro contro uno sfondo di acqua nera, con saltuarie strisce di fuoco rosso-arancione come se la terra eruttasse dal ventre roccia fusa, su, attraverso la sua crosta. Ma il Geographic Magatine voleva un servizio completo su tutto quello che vedeva, non importava se poco scientifico, e così Webber cominciò a scattare. Ogni apparecchio era caricato con una pellicola da cento fotogrammi da 35 mm e il flash si ricaricava automaticamente; così Webber era in grado di fare scatti dopo scatti mentre il pilota guidava lentamente il batiscafo verso la bocca del soffione. Il lavoro fu un sollievo per Webber: concentrato su angolature e tempi di esposizione, impegnato a distogliere lo sguardo dalle altre luci del batiscafo, aveva ormai dimenticato la sua paura. Aveva smesso di tremare e non aveva più freddo. In effetti, ora sentiva caldo, come quando si trovava in superficie. «Che temperatura c'è all'esterno?» chiese. «Almeno novanta gradi,» disse il pilota. «Il soffione è come un forno, riscalda tutto quello che lo circonda.» All'improvviso qualcosa andò a sbattere contro l'oblò di Webber e rimbalzò via nella nuvola di fumo. Allarmato, sobbalzò all'indietro ed esclamò: «Che diavolo era?» Era stato troppo veloce e troppo vicino a lui per distinguerne i contorni; tutto quello che aveva potuto vedere era stata una macchia bianca ondeggiante. «Aspetta,» gli disse il pilota. «Non consumare tutta la pellicola. Ci sono un sacco di animali quaggiù; magari ne incontriamo di qualche specie sconosciuta che nessuno ha mai visto prima.» Ora si stavano avvicinando alla bocca del soffione. Lì, si poteva supporre, gli organismi viventi si nutrivano degli elementi chimici del soffione stesso. C'era un rumore assordante e discontinuo e lampi rossi e arancione, come se della roccia fusa venisse eruttata dalle spaccature della crosta terrestre. Un altro animale gli passò davanti veloce, poi un altro ancora. E poi, mentre il batiscafo si fermava su un'altura di lava disseccata da poco, ne
arrivò un vero e proprio tornado. Erano gamberi, erano enormi, color bianco cenere, privi di occhi. Migliaia, centinaia di migliaia di gamberi, forse milioni. Erano così numerosi da riempire l'intero campo visivo, sciamando e pulsando come un'unica massa vivente. «Oh Cristo Gesù...» disse Webber, tra l'affascinato e l'atterrito. «Cosa stanno facendo?» «Si nutrono,» disse il pilota, «con tutto quello che trovano in quel fumo.» «I gamberi possono vivere in un'acqua a novanta gradi?» «Ci nascono, ci vivono e ci muoiono. Di tanto in tanto uno va a finire nella bocca del soffione - ci sono circa centocinquanta gradi là dentro - e arrostisce... pop!, proprio come una zecca alla fiamma di un fiammifero.» Dopo che Webber ebbe sparato una dozzina di scatti, il pilota spinse in avanti il batiscafo, fendendo la massa dei gamberi come se fosse una spessa cortina di schiuma. Intorno alla bocca del soffione, radicati alla lava e rigogliosi come un giardino da incubo, c'erano lunghi steli simili a ossa, alti dai due metri ai due metri e mezzo, dalla cui estremità spuntavano una specie di dita sottili, gialle e rosse, che si muovevano flessuosamente dentro e fuori le nubi di fumo. «Ma che diavolo sono?» esclamò Webber. «Vermi a cilindro. Si costruiscono da soli quelle case con qualcosa che secernono loro stessi, poi mandano fuori i loro ventagli per nutrirsi. Guarda.» Il pilota allungò la mano verso una delle leve di controllo e distese uno dei bracci articolati del batiscafo verso lo stelo più vicino. All'avvicinarsi dei due artigli d'acciaio, i ventagli sembrarono rabbrividire, e una frazione di secondo prima di essere toccati scomparvero, risucchiati come per magia nel sicuro rifugio dei loro cilindri calcarei. «Sei riuscito a fotografarli?» chiese il pilota. «Troppo veloci,» rispose Webber. «Tentiamo ancora. Provo con un'esposizione di due millesimi.» Un'ora più tardi, Webber aveva fatto più di trecento scatti. Aveva fotografato i gamberi e i vermi a cilindro in primo piano, con il grandangolo e con l'altro batiscafo sullo sfondo. Sperava di avere almeno una ventina di immagini dello standard del Geographic. Non aveva idea se le foto avrebbero comprovato o meno l'esistenza di
specie nate per chemiosintesi, o soltanto che i gamberi albini ciechi potevano vivere in un'acqua a novanta gradi a due miglia e mezzo di profondità. In ogni caso, sapeva di avere delle fotografie straordinarie. Per sicurezza aveva chiesto al pilota di usare i bracci meccanici del batiscafo per raccogliere una mezza dozzina di gamberi e due vermi a cilindro; ora erano sistemati al sicuro in un raccoglitore situato all'esterno del batiscafo. Ne avrebbe fatto delle macro fotografie nel laboratorio a bordo della nave appoggio. «Abbiamo finito,» disse al pilota. «Andiamocene.» «Ne sei sicuro? Non credo che il tuo capo avrà voglia di spendere altri cinquantamila dollari per mandarci ancora quaggiù.» Webber ebbe un attimo di esitazione, poi disse: «Sì, ne sono sicuro». Era sicuro di avere delle fotografie di valore. Conosceva le sue macchine fotografiche, certe volte aveva la sensazione che il suo cervello ne fosse un'estensione, e poteva già visualizzare le immagini nella mente. Erano eccellenti, ne era certo. «Okay.» Poi il pilota comunicò per radio: «Qui abbiamo finito». Ingranò la retromarcia e si allontanò dal soffione. Un attimo dopo, Webber stava prendendo degli appunti su un blocco quando il pilota esclamò: «Figlio di puttana...» «Che c'è?» «Guarda lì.» Il pilota indicava qualcosa sul fondo, fuori dal suo oblò. Webber si chinò sul suo oblò e trattenne il respiro per non appannare il vetro. «Non vedo niente,» disse. «Laggiù. Gusci di gambero. A milioni. Ce ne sono dappertutto sulla sabbia.» «E allora? Non pensi che queste creature possano divorarsi fra di loro?» «Bene, non lo so, non ho mai visto nulla di simile. Suppongo che si divorino fra di loro, ma è possibile che si sguscino anche fra di loro? Forse si tratta di uno di quegli squali degli abissi, un sei branchie o un dormiglione. Ma starebbero lì a sgusciare un gambero prima di mangiarlo? Non ha nessun senso.» «Uno squalo potrebbe mangiarseli interi e poi sputare i gusci? Rigurgitarli?» «La digestione di uno squalo funziona come l'acido di una batteria. Non resta niente.» «Non capisco,» disse Webber. «Neanch'io, ma qualcosa ha mangiato questi gamberi, a migliaia, e li ha
anche sgusciati. Penso che sia il caso di dare un'occhiata.» Sembrava che i gusci si andassero assottigliando come a formare un sentiero, e il pilota girò il batiscafo e seguì quella traccia, dirigendo il fascio di luce verso il basso mentre navigava a poche decine di centimetri dal fondo. Il batiscafo procedeva con lentezza, non più di sette, otto metri al minuto, e, dopo due o tre minuti, il ronzio monotono del motore e la desolata uniformità del paesaggio cominciarono a diventare ipnotici. Webber sentì che gli occhi gli si appannavano. Scosse la testa. «Ma cosa stiamo cercando?» chiese. «Non lo so, ma ho la sensazione che sia la storia di sempre: una traccia che ci conduce verso qualcosa che la natura non ha fatto. Una linea retta di qualcosa, forse... una circonferenza perfetta... qualsiasi cosa abbia una simmetria. C'è così maledettamente poco di simmetrico in natura!» Si erano mossi soltanto pochi secondi ancora, quando Webber ebbe la sensazione di scorgere qualcosa di anomalo all'estremità del cerchio di luce. «Guarda lì,» disse. «Non è proprio simmetrico, ma non ha nemmeno un aspetto naturale.» Il pilota girò il batiscafo, e mentre il fascio di luce si muoveva sul fondo, una massa di metallo nero e contorto apparve sul tappeto di sabbia farinosa. Non aveva una forma definita: alcune parti sembravano schiacciate, altre squarciate e contorte. «Sembrano dei rottami,» disse Webber. «Sì, ma che genere di rottami? Che cos'era?» Il pilota comunicò per radio la sua posizione all'altro batiscafo, poi fece scendere il suo fino a farlo adagiare sul fondo. La massa di metallo era sparsa su un'area troppo vasta perché i riflettori potessero illuminarla tutta, così il pilota concentrò su un punto tutti i diecimila watt e manovrò le luci passo a passo, studiando le forme una per una e cercando di metterle insieme in un tutto omogeneo, proprio come se stesse facendo un puzzle. Webber non si offrì di aiutarlo, perché sapeva che non avrebbe potuto dare alcun utile contributo. Era un fotografo, lui, non un ingegnere. Per quel che ne sapeva lui, quel mucchio di ferraglia là fuori poteva essere stato una locomotiva, un battello a ruota, un piroscafo, o un aereo. Nell'attesa, sentì tornargli la paura. Erano stati in immersione per almeno cinque ore e ne avrebbero impiegate almeno altre tre per tornare in superficie. Aveva freddo; aveva fame; aveva bisogno di fare una pausa; e, soprattutto, aveva bisogno di muoversi, di fare qualcosa, e di mandare al dia-
volo tutto quanto. «Andiamo,» disse. «Lasciamo perdere e torniamo su.» Il pilota lasciò trascorrere un lungo istante prima di rispondere. Quando alla fine si decise, si voltò verso Webber e disse: «Spero che ti sia rimasta ancora un sacco di pellicola». «Perché?» «Perché ci siamo trovati un dannato lavoro straordinario.» 6 Il pilota chiamò l'altro batiscafo e lo fece mettere cinquanta metri più in là, dall'altra parte dell'area del relitto. Con i quattro riflettori che creavano un fascio di luce da ventimila watt, potevano distinguere quasi tutta la zona. Il pilota sorrise a Webber e gli disse: «Ebbene?» «Ebbene cosa?» «Ebbene, di che cosa si tratta?» «Come diavolo faccio a saperlo?» scattò Webber. «Senti, sto congelando, sono stanco, devo sbattere la testa da qualche parte. Fammi un piacere e diamoci un taglio...» «È un sottomarino.» «Che cos'è?» esclamò Webber, e premette la faccia contro l'oblò. «Come fai a saperlo?» «Guarda lì,» gli rispose il pilota. «Quello è un piano di immersione. E lì: quella potrebbe essere una presa d'aria.» «Dici che è un sottomarino nucleare?» «No, non credo; sono quasi sicuro di no. Si direbbe acciaio. Guarda come si sta ossidando; molto lentamente, in verità, perché non c'è praticamente ossigeno quaggiù. Comunque, si sta ossidando. E poi è piccolo e il fissaggio dei cavi fa schifo, alla vecchia maniera. Direi che stiamo parlando della seconda guerra mondiale.» «La seconda guerra mondiale?» «Sì, ma ora cerchiamo di avvicinarci.» Il pilota parlò al microfono e, a un segnale, i due batiscafi cominciarono ad avanzare l'uno verso l'altro, a passo d'uomo, rasentando il fondo a un'altezza appena sufficiente per non sollevare la sabbia. Dall'indicatore di pellicola, Webber vide che aveva ancora ottantasei foto e così scattò con cautela. Cercò di immaginare il relitto nel suo insieme,
ma la distruzione era stata così totale che non riusciva a pensare come qualcuno avrebbe potuto identificare le singole parti del sottomarino. «Su quale delle sue parti ci troviamo?» chiese. «Mi sembra la poppa,» rispose il pilota. «È appoggiato a tribordo. Quei condotti lì dovrebbero essere i tubi di lancio dei siluri.» Passarono vicino a uno dei cannoncini di coperta e, dal momento che assomigliava a qualcosa di concreto, Webber scattò un paio di fotografie. Si avvicinarono a una falla aperta nella fiancata del sommergibile e videro, sulla sabbia, a poco più di un metro di distanza, un paio di scarpe che sembravano aspettare qualcuno che ci mettesse dentro i piedi. «Dov'è il tipo a cui appartenevano?» disse Webber mentre fotografava le scarpe da angolazioni diverse. «Dov'è il corpo?» «I vermi dovrebbero esserselo mangiato,» osservò il pilota. «Oppure i gamberi.» «Le ossa e tutto? I vermi mangiano le ossa?» «No, ma il mare lo fa. L'acqua salata, fredda e profonda, dissolve le ossa. È una reazione chimica. Il mare va in cerca di calcio. Una volta volevo essere seppellito in mare, ma adesso non più. Non mi piace l'idea di servire da colazione per quegli orribili esseri striscianti.» Mentre si avvicinavano alla prua, videro degli oggetti più riconoscibili: pentole che venivano dalla cambusa, l'intelaiatura di una cuccetta, una radio. Webber li fotografò tutti. Stava risistemando una delle macchine fotografiche, quando, ai margini del campo visivo, scorse quello che sembrava una lettera dell'alfabeto dipinta su una piastra d'acciaio. «Che cos'è?» chiese, indicandola. Il pilota fece fare una virata al batiscafo e lo spinse lentamente in avanti. Guardando attraverso l'oblò, esclamò all'improvviso: «Tombola! Abbiamo identificato la nave». «Ah sì?» «Il tipo, almeno. Quella è una U dipinta su una delle piastre della torre di comando. È un U-Boot.» «Un U-Boot. Vuoi dire che è tedesco?» «Lo era. Ma cosa ci facesse da queste parti, così a sud, lo sa soltanto Dio.» Webber fotografò la U da diverse angolature, mentre il pilota dirigeva il batiscafo in avanti, verso la prua del sottomarino. Quando raggiunsero la zona del ponte di prua, il pilota mise in folle il motore e lasciò che il batiscafo ondeggiasse nell'acqua. «Ecco cosa lo ha
affondato,» disse, concentrando le luci su un'enorme falla aperta nel ponte. «È imploso.» Le piastre del ponte erano piegate verso l'interno, i bordi contorti come se fossero stati colpiti da un martello gigantesco. Mentre scattava le fotografie, Webber sentiva il sudore scorrergli lungo i fianchi; immaginava il momento in cui, mezzo secolo prima, gli uomini a bordo si erano resi conto che stavano per morire. Poteva immaginare il ruggito dell'acqua che irrompeva nello scafo, le grida, la confusione, il panico, la pressione, il soffocamento, l'agonia. «Cristo...» mormorò. Il pilota innestò la marcia, e il batiscafo si spostò lentamente in avanti. Le sue luci frugarono dentro alla falla e illuminarono una matassa di cavi, un groviglio di tubi, un... «Ehi!» gridò Webber. «Cosa c'è?» «C'è qualcosa laggiù, qualcosa di grosso. Sembra... Non saprei...» Il pilota manovrò il batiscafo al di sopra della falla, inclinò la prua verso il basso, e, usando le tenaglie all'estremità dei bracci snodabili, scostò i cavi e spinse da un lato i tubi. Controllò l'angolazione delle luci perché formassero un unico fascio luminoso da cinquemila watt e lo diresse direttamente all'interno della falla. «Che io sia dannato...» «Sembra una cassa,» disse Webber mentre osservava le luci danzare sopra la superficie giallo-verdognola di un rettangolo perfetto. «Un cofano.» «Sì, oppure una bara.» Il pilota fece una pausa, come se riflettesse. «No. Troppo grande per essere una bara.» Per un lungo momento, nessuno dei due parlò. Stavano lì a fissare la cassa, incuriositi, cercando di indovinare. Alla fine Webber propose: «Dovremmo portarla su». «Sì,» annuì il pilota. «L'unico problema è come. Quel bastardo sembra lungo quasi tre metri. Scommetto che pesa una tonnellata. Non posso tirarlo su con questo batiscafo.» «E con tutti e due i batiscafi insieme?» «No, non possiamo tirar su un affare da una tonnellata, e sto solo tirando a indovinare. Potrebbe pesare molto di più. Non ce la faremmo...» S'interruppe. «Un momento. Mi sembra che abbiano almeno cinque miglia di cavo nella stiva, lassù sulla nave. Se potessero fissare un peso a una estremità e calarlo fin quaggiù, e noi potessimo fare un'imbragatura intorno alla cassa, forse... una possibilità ci sarebbe...» Premette un pulsante e parlò nel microfono.
I due batiscafi impiegarono un'ora per recuperare il cavo zavorrato mandato giù dalla nave appoggio e per assicurare la cassa nell'imbragatura. E quando alla fine dettero alla nave il segnale di cominciare l'azione di recupero, erano arrivati praticamente alla fine della loro riserva d'aria. E così, non appena si furono assicurati che la cassa era libera dallo scafo del sommergibile e saliva regolarmente, si liberarono della zavorra e cominciarono a risalire. Webber si sentiva esausto, stimolato, eccitato, impaziente di arrivare in superficie, di aprire la cassa e di scoprire che cosa conteneva. «La sai una cosa straordinaria?» disse mentre controllava sull'indicatore di profondità la loro lenta risalita verso la luce del giorno. «Tutta questa faccenda è straordinaria,» rispose il pilota. «Stai pensando a qualcosa di particolare?» «Quel relitto. Era tutto coperto di sabbia. Tutto aveva addosso uno strato grigiastro... tranne la cassa. Forse è questa la ragione per cui l'ho vista. Si notava.» Il pilota si strinse nelle spalle. «La sabbia aderisce al bronzo? Non ne ho idea.» 7 «Non ci posso credere!» esclamò Webber. «Esperti di metallurgia, archeologi, chimici... ma che significa? L'unica cosa che conta è quello che c'è dentro! Ma cosa si sono messi in testa?» «Va bene, d'accordo, lo sai come sono fatti i burocrati,» ribatté il pilota, cercando di mostrarsi comprensivo. «Se ne stanno lì seduti tutto il giorno sui loro grassi deretani, e poi, all'improvviso, trovano qualcosa da fare, tanto per giustificare la loro esistenza.» Se ne stavano tutti e due in piedi a poppa della nave che faceva rotta a ovest, verso il Massachusetts. La cassa era assicurata a una intelaiatura posta sul castello di poppa, e Webber aveva passato delle ore a montare un parco lampade sulle sovrastrutture della nave per creare una plausibile atmosfera di mistero per il momento in cui sarebbe stata aperta la cassa. Aveva scelto il tramonto, l'ora magica dei fotografi, quando le ombre sono lunghe e la luce è attenuata e ricca di suggestioni. Ma poi, neppure mezz'ora prima che cominciasse a scattare, il capitano della nave gli aveva portato un fax del Geographic Magazine con l'indica-
zione «Urgente»: non doveva toccare la cassa e tantomeno aprirla finché la nave non fosse entrata in porto, dove una pattuglia di storici e di scienziati sarebbe salita a bordo per esaminarla e aprirla alla presenza di un giornalista, di un redattore e di una équipe di telecamere per la serie televisiva del National Geographic Explorer. Per Webber era stato un colpo. Sapeva che cosa sarebbe successo. Il suo parco luci sarebbe stato distrutto; lui sarebbe stato messo da parte, con un posto in ultima fila dietro alla troupe televisiva, e gli esperti gli avrebbero detto che cosa fare. Non avrebbe avuto l'opportunità di scattare abbastanza da avere un sufficiente numero di esterni, foto che il Geographic non avrebbe voluto e che lui avrebbe potuto vendere ad altre riviste. La qualità del suo lavoro ne avrebbe sofferto, e così anche il suo portafoglio. Eppure non c'era niente da fare e, quel che era peggio, era tutta colpa sua. Avrebbe dovuto controllare la propria eccitazione e prendere tempo prima di informare la rivista della scoperta della cassa. Gridò: «Merda!» nell'aria della sera. «Andiamo,» gli fece eco il pilota, «non te la prendere. Andiamo giù nel quadrato ufficiali; c'è un mio amico di nome Jack Daniel's, che muore dalla voglia di conoscerti.» Webber e il pilota rimasero a sedere nel quadrato e finirono la bottiglia di Jack Daniel's. Più il pilota si lamentava dei burocrati, più Webber si convinceva di essere stato defraudato. Aveva scoperto lui la cassa, era stato lui a fotografarla dentro il sottomarino, avrebbe dovuto essere lui a scattare le prime, le migliori - le uniche - fotografie di quello che c'era dentro. Alle otto e quarantacinque, il pilota dichiarò di essere morto di stanchezza e si avviò barcollando verso la cuccetta. Alle otto e cinquanta, Webber decise un piano d'azione. Andò a letto e puntò la sveglia a mezzanotte. «Quella è la Montauk Point,» gli disse il capitano indicando il circolo esterno sullo schermo del radar, «ed ecco qui Block Island. Se ci fosse bonaccia, getterei l'ancora fuori Woods Hole e aspetterei le luci dell'alba.» Dette un'occhiata all'orologio montato sulla paratia. «Adesso è l'una e un quarto; fra quattro ore dovremmo vederci abbastanza bene. Ma con questo vento da est che soffia come un esercito di spiriti maligni, penso di tenere la nave al riparo di Block Island e poi risalire la costa non appena fa giorno. Non ha senso far venire a tutti il mal di mare e, magari, mettere qual-
che ingranaggio fuori uso.» «Giusto,» disse Webber, in preda alla nausea per la tazza di caffè acido che gli tormentava lo stomaco mentre la nave affondava la prua in un avvallamento per poi risollevarsi di traverso sulla cresta di un'onda che si frangeva. Sotto la spinta del mare di poppa, la nave procedeva a spirale nell'oscurità. «Sarà meglio che torni a cercare di dormire un po'.» «Metta un cestino della carta accanto alla cuccetta. Non c'è niente di peggio che cercar di dormire in un letto pieno di vomito.» Webber era salito sul ponte a controllare quante vedette fossero in servizio e aveva visto che ce n'erano soltanto due, il capitano e un ufficiale, entrambi nella plancia di comando, tutti e due rivolti verso prua. La poppa era deserta e incustodita. Tornato nella sua cabina si mise un dito in gola e si costrinse a vomitare nel gabinetto. Poi attese cinque minuti, cercò di vomitare di nuovo, ma non buttò fuori altro che bile. Si lavò i denti e, sentendosi di nuovo lucido e fermo sulle gambe, appese alla spalla una Nikon con un flash incorporato, prese e controllò una lampadina e si avviò verso poppa, fuori sul ponte. Il vento soffiava a venticinque o trenta nodi, ma non pioveva, e la nave si muoveva con quindici nodi di vento, cosa che ne attenuava la forza: camminare attraverso il ponte piatto e spazioso non era peggio che arrancare in una brezza leggera. Due lampade da cinquecento watt illuminavano a giorno il ponte di poppa. I due batiscafi sembravano acquattati sulle loro intelaiature come scarafaggi lasciati di guardia alla cassa dai riflessi giallo verdastri, assicurata in mezzo a loro. Webber si tenne nell'ombra mentre attraversava i trenta metri del ponte di poppa. Si rannicchiò dietro la fiancata sinistra del batiscafo, si assicurò che non lo osservasse nessuno dal ponte di comando, poi diresse la luce della torcia sul fianco della cassa. Non aveva idea di quanto fosse pesante il coperchio, forse più di un quintale, certo troppo pesante perché potesse illudersi di sollevarlo da solo. Se fosse stato necessario, avrebbe usato l'attrezzatura di sollevamento di uno dei due batiscafi, un grosso gancio d'acciaio fissato a un dispositivo formato da un cavo e da un paranco e azionato da un verricello elettrico. Ma forse il coperchio aveva un congegno a molla; forse c'erano una leva o un pulsante di sbloccaggio. Uscì dalla protezione dell'intelaiatura del batiscafo, attraversò il ponte e
si inginocchiò vicino alla cassa. Chinandosi in avanti per nascondere con la schiena il fascio di luce della torcia elettrica, seguì con la mano il bordo del coperchio, da un'estremità all'altra. Verso il fondo, a circa un metro di distanza dal bordo dell'intelaiatura, con la scia della nave che spumeggiava mentre la poppa si sollevava e si abbassava dietro di lui, vide una figura scolpita nel bronzo: una piccola svastica. Sotto, c'era un pulsante. Premette il pulsante, udì uno scatto, poi un sibilo, e il coperchio della cassa cominciò a sollevarsi. Rimase in ginocchio, sbigottito, mentre osservava il coperchio che si apriva, invitante, piano piano, sollevandosi a non più di un paio di centimetri al secondo. Quando fu aperto per metà, si alzò in piedi, prese la macchina fotografica, la sistemò davanti all'occhio, mise a fuoco l'obiettivo e attese il bip che indicava che il flash era pronto a scattare. La luce era fioca; il coperchio manteneva in ombra l'interno della cassa, le immagini attraverso l'obiettivo erano piene di riflessi e indistinte. La cassa era piena di una sostanza liquida. Un pensiero gli attraversò la mente... ma non era una faccia quella? No, non... ma era qualcosa, e qualcosa che assomigliava a una faccia. Ci fu un movimento improvviso nell'acqua, e il lampeggiare di qualcosa che sembrava acciaio. Per una frazione di secondo, Webber provò dolore, poi un'ondata di calore, poi l'impressione di essere trascinato sott'acqua. E infine, proprio nell'attimo di morire, l'agghiacciante sensazione che qualcosa lo stesse divorando. 8 Aveva bisogno di nutrirsi e si nutrì finché non ne poté più. Bevve, succhiando avidamente, sensa sosta, finché le sue viscere rifiutarono di ricevere anche solo una goccia di quel fluido caldo e salato. Una volta sazio, si sentiva ancora disorientato e confuso. Aveva avvertito movimento e mancanza di equilibrio, e, quando era uscito dalla sua cassa, un allarmante senso di vuoto. Le sue branchie palpitavano, ansimavano in cerca di forza vitale, ma non ne trovarono finché non si immerse di nuovo. Gli impulsi nervosi gli arrivavano disordinatamente al cervello, incrociando sterili recettori, incapaci di generare risposte. Era programmato per dare delle risposte, ma, nella
frenesia, non era capace di trovarle. Sentì che la salvezza era vicina, e così, in preda alla disperazione, uscì di nuovo dalla cassa ed ebbe la percezione delle cose che lo circondavano. Lì, soltanto lì. Il mondo oscuro e accogliente nel quale doveva tornare. Gli mancava la conoscenza, ma il suo istinto era molto sviluppato. Riconosceva pochi ordini ma era tenuto a obbedire a quelli che conosceva. La sua sopravvivenza dipendeva dall'alimentazione e dalla protezione. Non aveva capacità di elaborazione, ma era dotato di una forza eccezionale e fu proprio quella forza che chiamò a raccolta. Lasciando tracce di una materia viscida e mucosa, si trascinò all'estremità della cassa e cominciò a spingere. Sebbene sempre più sofferente per la mancanza di ossigeno, il suo cervello era ancora in grado di generare gli impulsi elettrici che davano la carica alle fibre muscolari. La prua della nave affondò in un avvallamento e la poppa si sollevò. La cassa scivolò in avanti, trascinando con sé l'essere. Ma poi la prua si risollevò e puntò verso il cielo, e, mentre la poppa si abbassava rapidamente, per un attimo la cassa sembrò essere senza peso. Poi si spostò in avanti, oscillò per un attimo sul bordo dell'intelaiatura e precipitò in mare. Non appena l'essere avvertì il freddo, confortevole abbraccio dell'acqua salata, i suoi circuiti ripresero subito la loro funzionalità. Si lasciò andare verso la profondità del mare oscuro, animato dalla sensazione primitiva di trovarsi nel suo ambiente naturale. La nave beccheggiò e virò di bordo per portarsi sottovento a un'isola, mentre una Nikon schizzata di sangue rotolava avanti e indietro attraverso il ponte di poppa. PARTE TERZA 1996 WATERBORO 9 Simon Chase si chinò sullo schermo del monitor nella cabina della barca e fece ombra con la mano. Il sole estivo era ancora basso sull'orizzonte, e la luce entrava a fiotti dagli oblò confondendo le immagini sullo schermo verde. Il cursore bianco, con il suo lento movimento, era appena visibile.
Chase tracciò con il dito una linea sullo schermo, la controllò con un compasso e disse: «È qui che viene. Vai per uno e ottanta». «Ma che cosa sta facendo?» chiese l'uomo che era con lui, Tall Man Palmer, mentre girava a destra la ruota del timone e faceva rotta a sud. «È andato alla Block per colazione e ora torna a Waterboro per pranzo?» «Non credo che sia affamato,» rispose Chase. «È probabile che sia così pieno di carne di balena da averne abbastanza per una settimana.» «O anche di più,» intervenne il figlio di Chase. Max stava seduto sul sedile di fronte al monitor e trascriveva con cura i dati su un foglio di carta diagrammata. «Alcune specie di carcarinidi possono stare più di un mese senza mangiare.» Fece questa osservazione con studiata disinvoltura, come se i segreti della biologia marina fossero familiari a tutti i ragazzi di dodici anni. «Bene, ti chiedo scusa, Jacques Cousteau,» disse Tall Man, ridacchiando. «Non fare caso a Tall Man, è solo geloso,» scherzò Chase, dando un colpetto sulla spalla di Max. «Hai ragione tu.» Era orgoglioso e commosso, perché sapeva che Max gli stava tendendo una mano, stava cercando di fare la sua parte per lanciare quel ponte che, in altre circostanze, sarebbe stato costruito molti anni prima. Tall Man accennò con la testa verso la riva e disse: «Andiamo ad annunciare alla gente sulla spiaggia che la signora non ha fame. Dovrebbero essere felici di questa notizia». Attraverso l'oblò, Chase gettò un'occhiata verso la spiaggia rocciosa di Watch Hill, sulla costa di Rhode Island. Sebbene non fossero ancora le nove del mattino, alcune famigliole avevano cominciato ad arrivare con cestini da picnic, frisbees e ciambelle salvagente. Alcuni giovani surfisti con la muta cercavano di mantenersi in equilibrio sulle onde minuscole in attesa di una raffica che non sarebbe arrivata mai; non per quel giorno, almeno, perché non c'era vento né le previsioni ne annunciavano. Sorrise al pensiero della confusione e del panico che si sarebbero scatenati se quella gente avesse avuto idea del motivo per cui quella barca bianca dall'aspetto innocente continuava a incrociare avanti e indietro, a meno di cinquecento metri dalla spiaggia. Alla gente piaceva leggere articoli sugli squali, amava i film sugli squali, le piaceva l'idea di amarli e di volerli proteggere. Ma se foste andati a dirle che c'era uno squalo, in acqua, da qualche parte, entro le dieci miglia - soprattutto un grande squalo bianco ecco che il loro amore si sarebbe trasformato immediatamente in paura e
ribrezzo. Se avessero saputo che lui e Max e Tall Man stavano seguendo uno squalo bianco lungo più di cinque metri che, presumibilmente, pesava una tonnellata se non di più, la loro simpatia si sarebbe trasformata in sete di sangue. Avrebbero chiesto a gran voce che venisse ucciso. Poi, naturalmente, non appena qualcuno lo avesse fatto, sarebbero tornati a disquisire su quanto loro amassero gli squali, e su come tutte le creature di Dio dovessero essere protette. «Lo squalo sta venendo su,» disse Max, leggendo sullo schermo i dati. Chase si chinò di nuovo sullo schermo, facendo ombra con la mano. «Sì, se ne è rimasto tranquillo a una sessantina di metri ma ora è già a meno di trenta.» «E dove lo trova un fondale di sessanta metri tra qui e la Block?» chiese Tall Man. «Ci deve essere una fossa là fuori. Te lo dico io, Tall, lo conosce il suo territorio. A ogni modo, sta venendo in superficie.» Chase staccò da un gancio della paratia una cinepresa dotata di uno zoom da 85-200 mm e se la passò intorno al collo. Poi disse a Max: «Andiamo a vedere se si mette in posa per noi». Poi, rivolto a Tall Man: «Controlla ogni tanto il monitor, tanto per essere sicuri che non se la fili da qualche parte». Poi andò sulla porta e guardò di nuovo in direzione della costa. «Spero che non venga su tra noi e la spiaggia. Non abbiamo proprio bisogno di isteria di massa.» «Vuoi dire come a Matawan Creek,» disse Max, «nel 1916.» «Sì, ma avevano delle buone ragioni per essere isterici. Quello squalo uccise tre persone.» «Quattro,» corresse Max. «Quattro. Scusami.» Chase sorrise e guardò in basso - poteva ancora guardare verso il basso, ma appena appena; il ragazzo era già alto un metro e sessanta - verso la sua copia esatta, ma solo più magra e più bella, con il naso affilato della madre e la bocca sottile. Prese un binocolo da uno scaffale e lo porse a Max. «Ecco, vai a vedere se riesci a individuarlo.» Tall Man si rivolse a Chase: «Mai discutere di squali con un ragazzo. I ragazzi conoscono gli squali. Gli squali e i dinosauri». Era vero, pensò Chase: i ragazzi erano fissati per i dinosauri e molti lo erano anche per gli squali. Ma lui non aveva mai incontrato un ragazzo che sapesse, sugli squali, la metà di quello che sapeva Max, e questo gli faceva
piacere e, nello stesso tempo, lo rattristava e gli faceva male, perché gli squali erano sempre stati il principale se non addirittura l'unico legame tra padre e figlio. Non avevano mai vissuto insieme, negli ultimi otto anni; si erano visti solo occasionalmente, e contrariamente a quanto dicono le pubblicità televisive delle compagnie telefoniche, le telefonate settimanali da lunga distanza non consentono di allungare una mano e toccare qualcuno. Chase e la madre di Max si erano sposati troppo giovani e troppo in fretta. Lei era l'ereditiera di una fortuna nell'industria del legname, lui uno squattrinato adepto di Greenpeace. Erano partiti dall'ingenuo punto di vista che i soldi di lei e l'idealismo di lui avrebbero interagito in modo sinergico, beneficiando il pianeta e consentendo a loro due di vivere nell'Eden. Si erano accorti subito, però, che, pur condividendo gli stessi ideali, avevano punti di vista molto diversi sui mezzi necessari per realizzarli. La concezione di Corinne dello stare in prima linea sul fronte del movimento per la difesa dell'ambiente includeva l'organizzazione di tornei di tennis, di garden party intorno alla piscina, e di cene danzanti in abito da sera a beneficio del movimento; mentre quella di Chase implicava lo stare via da casa per settimane intere, vivere nelle fetide stive di navi piene di ratti e fronteggiare feroci stranieri in alto mare. Avevano cercato di arrivare a un compromesso. Simon aveva imparato a giocare a tennis e a fare discorsi; lei aveva imparato ad andare sott'acqua e a capire la differenza fra gli Odontoceti e i Misticeti. Ma dopo quattro anni di progressivo allontanamento, si erano trovati d'accordo sul fatto che... non sarebbero mai andati d'accordo. La sola cosa in comune che restava del loro rapporto era Max. Più bello di entrambi, più intelligente, più sensibile. Corinne aveva ottenuto la custodia di Max. Lei aveva i soldi, una famiglia grande e premurosa, una casa (più di una, in effetti), e, dal momento in cui il divorzio era stato definitivo, una relazione stabile con un neurochirurgo che era stato il numero uno nel singolo a tennis, nella California del Nord. Simon era figlio unico di genitori morti, non aveva entrate stabili, non aveva fissa dimora ma relazioni volanti con svariate donne le cui maggiori qualità erano l'aspetto fisico e il fervore sessuale. Attraverso il suo avvocato, Corinne aveva offerto a Simon una generosa sistemazione finanziaria - non era crudele né vendicativa, e desiderava che il padre di suo figlio fosse in grado di ricevere Max, quando andava a visitarlo, in una casa decente - ma, in un sussulto di legittima fierezza, Chase
aveva rifiutato. Molte volte, da allora, aveva rimpianto quella che ora gli appariva come una malriposta stravaganza maschilista. Avrebbe potuto fare un buon uso di quei soldi. Soprattutto ora che l'Istituto - il suo istituto - si trovava sull'orlo del fallimento. Era stato tentato di riprendere in considerazione la cosa, di chiamare Corinne e di dirle che accettava quel gesto di generosità. Ma non si era mai deciso a farlo. Ciò che lo rendeva perplesso, ciò che non riusciva a capire, era il fatto che, in qualche modo, al di là degli anni e delle migliaia di miglia di distanza, suo figlio era stato capace di guardare attraverso il velo protettivo delle scuole private, dei country club e dei fondi fiduciari, e di conservare un'immagine del padre come di una figura avventurosa... qualcuno che si ha voglia di emulare. Mentre seguiva Max sul ponte esterno della barca di quindici metri, Chase abbassò gli occhiali da sole che portava sollevati sulla fronte. La giornata prometteva di essere rovente, più di trentacinque gradi malgrado si fosse al largo sull'oceano; una di quelle giornate, rare un tempo, ma che negli ultimi anni erano diventate sempre più frequenti. Nell'estate di dieci anni prima, c'erano stati otto giorni, a Waterboro, in cui la temperatura aveva raggiunto trentacinque gradi; tre anni prima, trentanove giorni; quest'anno i meteorologi avevano previsto cinquanta giorni con temperature superiori ai trenta gradi e almeno dieci con temperature sopra i quaranta gradi. Adoperò lo zoom come se fosse un telescopio e perlustrò la superficie liscia del mare. «Vedi qualcosa?» chiese a Max. «Non ancora.» Max appoggiò i gomiti sul parapetto per tenere fermo il binocolo. «Che aspetto dovrebbe avere?» «Se venisse a crogiolarsi al sole in una giornata come questa, la sua pinna dorsale dovrebbe star su come una vela.» Chase vide galleggiare un copertone, un cartone plastificato del latte, uno di quei micidiali contenitori di plastica da sei confezioni che strangolavano tartarughe e uccelli marini, e bollicine di petrolio che, una volta arrivate a terra e appiccicatesi alle piante dei piedi dei bambini, sarebbero state più maledette del catrame. Almeno oggi non aveva visto brandelli di corpi umani o siringhe. L'estate precedente, una donna aveva dovuto ricorrere ai sedativi, dopo che il suo bambino di quattro anni le aveva fatto do-
no del tesoro appena trovato sul bagnasciuga: un dito umano. E un uomo aveva tolto dalla bocca del suo cane quella che sembrava una palla di gomma e che si era rivelata invece l'intera valvola di uno scarico fognario. Guardò oltre la poppa, verso il cavo rivestito di gomma che reggeva il sensore di percorso, e controllò il nodo della sagola che manteneva il sensore alla profondità prescritta. Il rotolo di cavo, sul ponte alle sue spalle, era lungo cento metri; ma, dato che il fondale era pieno di secche e irregolare, avevano piazzato il sensore a soli venti metri di profondità. La sagola si stava consumando. Prima di sera avrebbe dovuto sostituirla. «Vedi ancora lo squalo?» disse rivolto a Tall Man. Ci fu una pausa, mentre Tall Man guardava sullo schermo. «È a circa quindici metri,» rispose. «Mi sembra che se ne vada a spasso. Il segnale è forte e chiaro, comunque.» Chase cominciò a parlare mentalmente allo squalo, lo pregò di venire su, di farsi vedere, non tanto per lui quanto per Max. Soprattutto per Max. Erano stati sulle sue tracce per due giorni, rilevando dati sulla velocità, sulla direzione, la profondità e la temperatura corporea, avidi di ogni informazione sul più raro fra tutti i grandi predatori dell'oceano, senza vederne altro che un segnale bianco sullo schermo verde. Desiderava che lo vedessero ancora, perché Max potesse ammirarne la perfezione e la bellezza, ma anche per assicurarsi che lo squalo stesse bene, che non avesse sviluppato un'infezione o una piaga a causa del dardo appuntito che conteneva il microsegnalatore elettronico. Era stato collocato con precisione nella pelle spessa dietro la pinna dorsale, ma questi animali erano diventati così rari che lui si preoccupava anche della più remota possibilità di far loro del male. Lo avevano trovato quasi per caso, e appena in tempo a impedire che diventasse un trofeo appeso a una parete di una locanda. Chase manteneva buone relazioni con i pescatori della zona, e si teneva con cura al di fuori dalla sempre più tesa controversia circa i limiti posti alla pesca a causa dell'impoverimento delle riserve ittiche. Poiché non poteva trovarsi dappertutto nello stesso momento, aveva bisogno che i pescatori fossero i suoi occhi e le sue orecchie nell'oceano, per avvertirlo di tutte le possibili anomalie, naturali o causate dall'uomo, come una massiccia moria di pesci, un improvviso proliferare delle alghe, o fuoriuscite di petrolio. Questa sua permanente neutralità aveva dato dei risultati la sera del giovedì, quando un pescatore di pesci azzurri - i voracissimi predatori oceani-
ci che possono essere lunghi più di un metro e venti - aveva telefonato all'Istituto. (Aveva avuto abbastanza buonsenso da non usare la radio, che sarebbe stata intercettata da tutte le barche di almeno tre stati.) Mentre faceva rotta verso casa, aveva detto a Chase di aver avvistato una balena morta alla deriva fra la Block Island e Watch Hill. Gli squali stavano già banchettando intorno alla carcassa ma si trattava di squali da branco, per lo più azzurri. I rari e solitari squali bianchi non avevano ancora fiutato la preda. Ma lo avrebbero fatto, quei pochi che ancora incrociavano nella baia tra Montauk e Point Judith. E presto. La notizia sarebbe arrivata alle barche che venivano noleggiate per le battute di pesca, i cui capitani avrebbero chiamato i clienti abituali e avrebbero promesso loro, per millecinquecento o duemila dollari al giorno, la possibilità di riprendere uno dei più ambiti trofei marini, il re dei predatori, il pesce più carnivoro del mondo, il mangiatore d'uomini: il grande squalo bianco. Avrebbero trovato presto la balena, perché la sua carcassa sarebbe stata avvistata dal radar, e l'avrebbero circondata mentre i clienti filmavano l'imponente spettacolo degli occhi che roteavano e delle mascelle che si muovevano per strappare brandelli di balena del peso di venti chili. E poi, inebriati dalla prospettiva di vendere le mascelle per cinque o diecimila dollari e trascurando il fatto che avrebbero potuto guadagnare di più lasciando in pace lo squalo e facendo pagare ai loro clienti il privilegio di filmarlo, avrebbero arpionato l'animale a morte... perché, si sarebbero detti, se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro. Lo avrebbero chiamato sport. Per Chase, questo non era più sportivo che sparare a un cane intento a mangiare. Lui, insieme ad altri scienziati, dal Massachusetts alla Florida e alla California, si era dato da fare per anni per ottenenere che il grande squalo bianco fosse dichiarato ufficialmente specie in via di estinzione, come era stato fatto in alcune zone dell'Australia e del Sud Africa. Ma gli squali bianchi non erano mammiferi, non erano animali graziosi, non giocavano con i bambini, non «cantavano», né si scambiavano versi affettuosi o saltavano attraverso un cerchio per la gioia di visitatori a pagamento. Erano pesci onnivori che, di tanto in tanto - ma di rado, molto più di rado di quanto non facessero le api, le tigri o i serpenti - uccidevano degli esseri umani. Tutti concordavano sul fatto che gli squali bianchi fossero dei prodigi
dell'evoluzione, sopravvissuti quasi inalterati per milioni di anni. Meravigliosi da un punto di vista biologico e affascinanti da un punto di vista medico, svolgevano una funzione determinante nel mantenimento dell'equilibrio nella catena alimentare marina. Ma in un'epoca di grossi budget e di conflitti di priorità, c'era poca pressione di opinione pubblica per difendere un animale percepito come null'altro che un pesce che mangiava la gente. Tra non molto, Chase ne era sicuro, forse prima del giro di boa del millennio, sarebbero scomparsi. I bambini avrebbero visto teste di squalo bianco montate sulle pareti come trofei, o servizi filmati nei programmi scientifici alla televisione, ma, entro una generazione, quelle meravigliose creature sarebbero diventate meno di un ricordo; non sarebbero state più reali dei dinosauri. Il suo primo impulso, dopo aver parlato con il pescatore, era stato di prendere dell'esplosivo, trovare la balena e farla saltare in mille pezzi. Era la soluzione migliore, la più rapida ed efficace: la balena sarebbe scomparsa dagli schermi radar dei pescatori a noleggio, gli squali si sarebbero dispersi. Ma era anche la più pericolosa, perché distruggere la carcassa di una balena era considerato reato federale. Il Decreto per la Protezione dei Mammiferi Marini era un capolavoro di contraddizioni. A nessuno - scienziati, uomini di legge, operatori cinematografici o pescatori - era permesso avvicinarsi a una balena, viva o morta. Poco importava se l'intero movimento per la salvezza delle balene (compreso lo stesso decreto) era iniziato con gli eccellenti filmati realizzati da appassionati professionisti. Poco importava se la carcassa di una balena poteva diventare un disastro ecologico. Se avevi a che fare con una balena, eri considerato un criminale. Per Chase era passata l'epoca in cui era stato un agitatore ambientalista. Cinque anni prima aveva preso la decisione di lavorare all'interno del sistema piuttosto che all'esterno di esso. Aveva soffocato il proprio orgoglio, aveva blandito qualcuno, ottenuto una borsa di studio per i corsi di perfezionamento ed era ritornato a Waterboro senza sapere bene che cosa fare. Poteva insegnare, o continuare a studiare, ma era impaziente di liberarsi di aule scolastiche e laboratori. Non vedeva l'ora di cominciare a imparare facendo qualcosa. Poteva cercare un lavoro al Wood Hole o al Cripps, o presso uno degli altri istituti marini in giro per il paese, ma era riluttante ad affrontare la tesi di laurea per il dottorato, e non aveva nessuna fiducia che qualcuno potesse assumerlo per fargli fare qualcosa di più che un lavoro monotono.
L'unica certezza, nella vita di Chase, era che intendeva passare la vita in mare, non importava se sopra, sotto o intorno. Lo aveva amato fin da che aveva memoria, quando suo padre lo prendeva a bordo della Miss Edna nelle giornate tiepide e gli faceva sentire il tocco, i rumori e gli odori del mare. Aveva imparato ad amarlo e a rispettarlo e ad amare e rispettare le creature che ci vivono e gli uomini che le pescano. Era rimasto particolarmente affascinato dagli squali (in modo un po' perverso, pensava suo padre). A quei tempi gli squali sembravano essere dappertutto: si crogiolavano al sole in superficie, attaccavano le reti guizzanti di pesci, seguivano la scia sanguigna dei pescherecci quando i pesci venivano puliti e le interiora gettate fuori bordo. All'inizio Simon era rimasto affascinato soprattutto dal loro aspetto di implacabile minaccia, ma più tardi, dopo aver letto tanto su di loro, era arrivato a vederli come una meravigliosa espressione dell'evoluzione naturale: immutati per milioni di anni, efficienti, immuni dalla maggior parte delle malattie che affliggevano gli altri animali. Era come se la natura, dopo averli creati, avesse esclamato: «Bel lavoro!» Amava ancora gli squali e, sebbene non avesse più paura di loro, adesso aveva paura per loro. In tutto il mondo erano stati assassinati senza pietà, senza scopo e per ignoranza; alcuni per le loro pinne, vendute per farne la famosa zuppa, altri per la carne, altri ancora soltanto perché ritenuti un pericolo. Per una strana coincidenza, Chase era tornato a Waterboro proprio nel momento in cui un'isoletta situata fra la Block Island e la Fishers Island era stata messa in vendita. Lo stato del Connecticut aveva rilevato l'isola da una banca in difficoltà e si accingeva a metterla all'asta per recuperare tasse inevase. Quei pochi ettari di macchia e di roccia erano troppo lontani e troppo poco attraenti per un impiego turistico e, data l'impossibilità di usufruire di servizi pubblici, inadatti per una suddivisione in lotti destinati ad abitazioni private. Chase, tuttavia, aveva visto la piccola Osprey Island come il posto ideale per la ricerca oceanografica. Con il ricavato della vendita della casa dei suoi genitori e della barca da pesca, aveva acquistato l'isola per poco, con il resto aveva costituito e finanziato l'Istituto Marino di Osprey Island. Non aveva avuto difficoltà a individuare progetti che valesse la pena di sviluppare: l'assottigliarsi delle riserve ittiche, le specie marine in via di estinzione, l'inquinamento: tutto richiedeva attenzione. Altri gruppi e istituti
stavano facendo lo stesso, naturalmente, e Chase aveva cercato di integrare il loro lavoro con il suo, sempre però riservando del tempo e tutto il denaro che poteva mettere insieme alla sua specialità: gli squali. Così, adesso, a trentaquattro anni e con la qualifica di direttore dell'Istituto, aveva il suo posto ufficiale nella società. Si stava guadagnando una rispettabile reputazione nell'ambiente scientifico per le sue ricerche sugli squali; i suoi articoli sul loro sistema immunitario erano stati pubblicati dalle più autorevoli riviste del settore ed erano stati accolti con interesse, anche se giudicati un po' eccentrici. E lui stesso era considerato uno scienziato da tenere in considerazione, un emergente. Se fosse stato sorpreso a far saltare in aria una balena, tuttavia, sapeva che sarebbe stato screditato immediatamente, multato e, forse, sarebbe finito in prigione. Così aveva optato per un compromesso. Aveva inviato un fax all'Istituto per la Protezione dell'Ambiente a Washington e al Dipartimento per la Protezione dell'Ambiente a Hartford, con la richiesta urgente che gli venisse permesso, non di distruggere la balena, ma di rimuoverla prima che andasse ad arenarsi su qualche spiaggia pubblica. Non aveva idea della direzione in cui la carcassa stesse andando alla deriva, ma sapeva che la minaccia era più che persuasiva: nessuna amministrazione, federale, statale o municipale, desiderava vedersi appioppare il costo, forse un centinaio di migliaia di dollari, della rimozione da una spiaggia di cinquanta tonnellate di balena in putrefazione. Aveva dato delle coordinate inesatte per la posizione attuale della balena, collocandola dove lui intendeva rimorchiarla, così, se gli fosse stata negata l'autorizzazione, avrebbe potuto dichiarare di non averla mossa, mentre se l'autorizzazione gli fosse stata data, avrebbe potuto rimorchiarla ancora più lontano, verso l'oceano profondo, dove nessun pescatore sportivo avrebbe avuto voglia di andare. Non aveva atteso la risposta di nessuno dei due enti. Insieme a Tall Man aveva caricato sulla barca dell'Istituto dei grossi rampini e un bidone con dentro un cavo arrotolato ed erano andati a cercare la balena. L'avevano trovata senza difficoltà, e, intorno alla mezzanotte, al chiarore della luna, avevano affondato i rampini nella carne in decomposizione e cominciato a trainare la carcassa verso il largo, oltre Block Island. Li seguivano il fetore nauseante della putrefazione e gli orrendi grugniti degli squali che guizzavano fuori dall'acqua per strappare brandelli di carne grassa. La balena era un giovane esemplare di balena gibbosa, e videro subito che cosa l'aveva uccisa. Reti da pesca le galleggiavano come un sudario in-
torno alla bocca e alla testa. Era incappata per caso in una enorme rete d'altura, si era intrappolata sempre di più dibattendosi nel tentativo di liberarsi, ed era morta soffocata. Lo squalo bianco era arrivato subito dopo l'alba. Era una grande femmina di età matura, forse di quindici o vent'anni, nell'età della prima figliata. Ed era gravida, come Chase aveva scoperto quando lo squalo si era rivoltato a pancia in su per immergere la sua testa massiccia nella carne rosata dei fianchi della balena, esponendo il ventre rotondo e la fessura genitale. Nessuno conosceva con certezza la durata della vita degli squali né a che età figliassero per la prima volta, ma la teoria corrente si orientava su un'età massima dagli ottanta ai cento anni e di un ciclo riproduttivo che comincia a circa dieci anni con la nascita di uno o due piccoli ogni due anni. Così, ucciderla, appenderne la testa al muro e venderne i denti per farne monili, non avrebbe significato uccidere solo un grande squalo bianco. Avrebbe significato spazzare via almeno venti generazioni di squali. Avevano inserito la microtrasmittente in modo facile e veloce. Lo squalo non aveva neppure avvertito la puntura e non aveva interrotto il suo pasto. Erano rimasti a guardarlo per alcuni minuti, e Chase aveva scattato delle fotografie. Poi, mentre si accingevano ad andarsene, Tall Man aveva acceso la radio e avevano ascoltato i pescatori da noleggio che si scambiavano notizie sulla balena. Era chiaro che il pescatore se ne era andato al bar, e, conscio di aver fatto il suo dovere, telefonando per prima cosa all'Istituto, non aveva resistito alla tentazione di farsi bello con i suoi amici raccontando della balena. Dove era andata a finire? si sarebbero chiesti i pescatori. Chi l'aveva portata via? Il dannato governo? Oppure quei cuori teneri dell'Istituto? A est. Dovevano averla portata a est della Block. I pescatori stavano arrivando. Venivano ad assassinare la femmina di squalo gravida. Chase e Tall Man non avevano avuto dubbi sul da farsi. Avevano preso dell'esplosivo sotto coperta, un panetto di plastico rimasto dalla costruzione delle banchine dell'Istituto, e avevano piazzato con cura le cariche nelle parti della balena più lontane da dove lo squalo stava mangiando. Avevano fatto detonare le cariche una per una facendo esplodere la balena in tanti pezzi che avevano cominciato subito a disperdersi e ad affondare. L'obiettivo nei radar dei pescatori era sparito; ora non avrebbero trovato più i resti della balena, né lo squalo. Lo squalo si era immerso, inseguendo pezzi di grasso di balena nella si-
curezza degli abissi. Se l'IPA o il DEA avevano voglia di montare un caso contro di loro, pensò Chase, che facessero pure. Non c'erano testimoni, le prove sarebbero state inconsistenti e se qualche pescatore fosse stato così intelligente da capire che cosa avevano fatto e perché, e così stupido da fare un reclamo, si sarebbe messo nei guai con le proprie mani, ammettendo che aveva l'intenzione di avvicinarsi alla balena morta più di quanto non fosse consentito dalla legge. E, quel che più contava, lo squalo sarebbe stato ancora vivo. Avevano messo in mare il sensore di rilevamento e seguito il puntino bianco ancora per qualche ora mentre si dirigeva verso est in acque più profonde, per poi girare a nord. In circostanze normali, Chase avrebbe seguito lo squalo senza interruzione, perché lasciare il contatto avrebbe significato perderlo: poteva uscire dalla portata del sensore e loro potevano non trovare più il contatto prima che le batterie del sensore si esaurissero: due giorni, tre al massimo. Ma era previsto che Max arrivasse all'aeroporto di Groton/New London quella sera, con il volo da Sun Valley, via Salt Lake e Boston. Per la prima volta Max si accingeva a passare un mese intero con suo padre, e Chase non se lo sarebbe mai perdonato, se avesse mandato a prendere il ragazzo dall'autista di un taxi della vicina città di Stonington, per poi prendere il traghetto, solo e al crepuscolo, fino a una roccia che gli sarebbe sembrata attraente come Alcatraz. Così lui e Tall Man avevano abbandonato lo squalo, pregando che non se ne andasse a zonzo fino al New Hampshire o al Maine, o al largo di Nantucket, e che, con un po' di fortuna, potessero tornare sulle sue tracce entro sei ore. Chase non aveva idea di quanto fosse vicina a partorire, ma il sensore elettronico avrebbe registrato l'evento, se fosse successo; avrebbe trasmesso le mutazioni nella temperatura corporea e nei ritmi biologici. Avrebbero anche potuto assistere al parto, se fosse avvenuto in prossimità della superficie. Nessuno - scienziato o sportivo che fosse - aveva mai assistito al parto di un grande squalo bianco. Max aveva detto che non aveva bisogno di disfare i bagagli, e si erano affrettati fuori dall'aeroporto, nel furgone, sul traghetto, sull'isola e in barca. Con gli occhi arrossati, esausto, il ragazzo era eccitatissimo all'idea di poter vedere un grande squalo bianco. Quando aveva chiamato sua madre dal telefono cellulare della barca, l'unica parola che aveva saputo dire era stata: «Fantastico».
Corinne non era stata altrettanto eccitata, aveva chiesto di parlare con Simon e gli aveva raccomandato di stare attento. Max aveva sistemato la cosa. Si era fatto ridare il telefono da Chase e aveva detto: «Non preoccuparti, Ma', va tutto bene. I grandi squali bianchi non vogliono fare male alla gente». «Cosa vuoi dire?» Max era scoppiato a ridere e aveva detto: «Hanno solo voglia di mangiarsela». Ma quando aveva sentito che sua madre era restata senza fiato, aveva aggiunto: «Stavo solo scherzando, Ma'... un po' di spirito da squalo». «Ti sei messo la giacca a vento?» «Va tutto bene, Ma', veramente... ti voglio bene.» Poi Max aveva chiuso la comunicazione. Entro un'ora individuarono di nuovo lo squalo, e questo sembrò a Chase la conferma di una delle sue teorie preferite. Era particolarmente interessato, e stava prendendo in considerazione l'idea di scrivere la sua tesi in proposito, alla questione del rapporto dei grandi squali bianchi con il territorio. Dei ricercatori, nell'Australia del Sud, in zone come il Dangerous Reef o la Coffin Bay, dove la temperatura dell'acqua cambia di poco da stagione a stagione, erano arrivati alla conclusione che gli squali bianchi di quella regione erano certamente legati al territorio. La loro risorsa di cibo, colonie di foche, era stanziale, e nello spazio di tempo di più o meno una settimana ogni squalo bianco faceva il giro del suo territorio e ritornava al punto di partenza, per poi ricominciare da capo. Qui, sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove la temperatura dell'acqua cambiava di quasi quindici gradi dall'inverno all'estate, e le riserve di cibo apparivano e sparivano in modo imprevedibile, la territorialità sembrava del tutto priva di senso. Sebbene nessuno lo sapesse con certezza, Chase aveva raccolto una serie di elementi che indicavano che i grandi squali bianchi potevano essere migratori: sembrava che andassero a sud d'inverno, riapparivano in primavera o all'inizio dell'estate (dopo essersi spinti, alcuni di loro, a nord est fino alle Canadian Maritimes), restavano fino alla fine di settembre o agli inizi di ottobre, per poi cominciare a scendere di nuovo a sud. Ma quello che incuriosiva di più Chase era che le registrazioni di anni di rilevazioni cominciavano a evidenziare che molti squali bianchi tornavano nella stessa zona ogni anno e ristabilivano il loro territorio, durante la per-
manenza in quella zona. Se avesse potuto dimostrare l'esistenza di modelli di comportamento ripetitivo, sarebbe stato in grado di aprire nuovi campi di ricerca sulle capacità di navigazione e sul senso della memoria dei grandi squali bianchi. Almeno finché fossero rimasti dei grandi squali bianchi da studiare. «Sta andando giù di nuovo,» osservò Tall Man dalla cabina. «Si direbbe che sia una signora volubile,» disse Chase deluso. Guardò verso la spiaggia. Il Napatree Point era sulla perpendicolare e la cittadina di Waterboro poco più in là. «Dove si sta dirigendo ora?» «Al largo di Montauk, si direbbe. Ma senza avere le idee molto chiare. Se ne va a passeggio.» Chase rientrò in cabina, appese la cinepresa e si deterse il sudore dalla fronte. «Ti va un sandwich?» chiese a Max. «Non uno di quei grossi affari con sardine e cipolla.» «No, ne ho messo da parte per te uno con burro d'arachidi e gelatina.» «Aprimi una birra,» disse Tall Man, guardando l'orologio. «Quest'orologio può anche dire che sono le nove e un quarto, ma non ha la più pallida idea di che ore siano veramente.» Avevano dormito in turni irregolari di quattro ore, per le ultime quaranta ore. «Lo stomaco mi dice che è proprio ora di una birra.» Chase fece un passo verso la scaletta che portava alla cambusa, sotto coperta, quando all'improvviso la barca sbandò, sbandò di nuovo e perse velocità. La prua sembrò sollevarsi e la poppa affondare. «Che diavolo succede?» chiese Chase. «Hai urtato qualcosa?» «In trenta metri d'acqua?» Tall Man diede un'occhiata allo scandaglio corrugando la fronte. «Non è possibile.» Il motore sembrava andare sotto sforzo. Udirono un rumore, come di gomma che si tendeva - uno scricchiolio sinistro - poi lo schermo del monitor e il ricevitore di segnali cominciarono a spostarsi all'indietro sui loro supporti. Il cavo di collegamento era teso al massimo attraverso la porta. «Marcia indietro!» gridò Chase mentre correva alla porta. Tall Man ingranò la marcia indietro e il cavo si allentò di nuovo e cadde in coperta. Fuori, nel pozzetto, Chase vide che il rotolo del cavo rivestito di gomma era sparito. Cento metri di cavo finiti in mare. «La sagola deve essersi rotta,» disse. «Il sensore deve essersi impigliato in qualcosa sul fondo.»
Chase prese il cavo in mano e cominciò a tirare, mentre Max lo arrotolava sul ponte dietro di lui. Quando il cavo fu teso di nuovo, Chase lo scosse, tirandolo a destra e a sinistra, lasciandolo andare e poi tendendolo di nuovo. Non c'era nessuna resistenza. Il sensore era sparito. «Non riesco a immaginare in che cosa possa essersi impigliato,» disse. «Laggiù non c'è altro che sabbia.» «Forse,» disse Tall Man. Mise il motore in folle, lasciando che la barca andasse alla deriva, e raggiunse Chase e Max a poppa. Prese il cavo dalle mani di Chase e lo tenne fra i polpastrelli, come se volesse captare un messaggio dalle sue vibrazioni. «Quel vento di nord est la settimana scorsa... quaranta nodi di vento per un giorno e mezzo possono avere fatto l'inferno sul fondo. La sabbia può essersi mossa. Può essere stata qualsiasi cosa: una roccia, una macchina che qualcuno ha fatto sparire.» «Potrebbe essere il relitto di una nave,» osservò Max. Chase scosse la testa. «Non da queste parti. Abbiamo individuato tutti i relitti della zona.» Poi, rivolto a Tall Man: «Abbiamo delle bombole a bordo?» «No. Le immersioni non erano in programma.» Chase si avviò a prua, scese in cabina e regolò l'indicatore dello scandaglio sulla massima sensibilità di lettura. Quando ritornò, teneva in mano una maschera e un boccaglio. «Trenta metri,» disse. «Più o meno.» «Hai intenzione di immergerti per il sensore?» Chiese Tall Man mentre la voce gli si alzava di tono. «In apnea? Sei impazzito?» «Vale la pena di tentare. Mi sono già immerso a trenta metri, prima d'ora.» «Non senza le bombole, questo non lo hai mai fatto. Almeno non più da quando avevi diciott'anni. Al diavolo, Simon, andresti in tilt già a quindici metri.» «Vuoi provare tu?» «Neanche per sogno. Questo paese ha già avuto la pelle di troppi indiani.» «Allora, abbiamo un problema, perché io sia dannato se mi rassegno a perdere un cavo che vale tremila dollari più altri tremila di sensore.» «Segnaliamolo con una boa,» disse Tall Man. «Ci procuriamo delle bombole e poi torniamo a prenderlo.» «E allora ci saremo persi lo squalo.» «Forse. Ma almeno non avremo perso te.»
Chase esitava, ancora tentato di immergersi per recuperare il sensore, o almeno di andare giù abbastanza per capire che cosa lo bloccasse. Era curioso di vedere se sarebbe stato capace di immergersi a quella profondità. Da ragazzi, lui e Tall Man si erano immersi in apnea su fondali invisibili dalla superficie, avevano nuotato intorno agli scheletri di vecchie barche da pesca, e avevano rubato le aragoste dalle nasse annidate nelle fessure delle rocce profonde. Ma Tall Man aveva ragione; non era più un ragazzino, un adeta che poteva far baldoria tutta la notte e nuotare tutto il giorno successivo. Poteva anche arrivare fino in fondo, ma non ce l'avrebbe fatta a tornare su. Affamato di ossigeno, il suo cervello sarebbe andato in tilt, lui sarebbe svenuto: vicino alla superficie se era fortunato, verso il fondo, se non lo era. «Parlagli tu, figliolo,» disse Tall Man a Max. «Digli che non hai fatto tutta questa strada solo per riportare il tuo papà a casa in una cassa.» Max sussultò alla franchezza di Tall Man, poi mise una mano sul braccio di suo padre. «Andiamo, Pa'...» lo esortò. Chase sorrise. «D'accordo allora. Mettiamoci una boa.» «Possiamo prendere delle bombole e tornare a immergerci?» chiese Max. «Sarebbe forte.» «Sei capace di immergerti?» Chase avvertì una fitta, quasi di dolore, come se il fatto che Max avesse imparato a immergersi senza di lui, da qualche altra parte e con qualcun altro, fosse un rimprovero per essergli mancato come genitore. «Dove hai imparato?» «A casa. In piscina. Il nonno mi ha dato qualche lezione.» «Oh,» disse Chase con un senso di sollievo. Almeno il ragazzo non aveva fatto delle vere e proprie immersioni; si era solo preparato per questa visita. «Ti metteremo in acqua, questo è sicuro, ma penso che dovremo iniziare su fondali più bassi.» Tall Man scese in cabina per staccare il cavo e impermeabilizzare la spina con grasso e nastro isolante. Chase aprì un gavone a poppa e prese una boa di gomma gialla, del diametro di quarantacinque centimetri, su cui erano state segnate, con del nastro adesivo rosso, le iniziali O.I. Camminando all'indietro, Tall Man si arrotolò il cavo intorno alla spalla e al gomito. Si era tolto la camicia madida di sudore, e i muscoli del suo torace gigantesco guizzavano sotto la pelle color cinabro come se fossero stati oleati. Era alto più di due metri e pesava quasi un quintale, e se avesse avuto del grasso, come diceva sempre sua madre nel cacciargli altro cibo in bocca, questo sarebbe stato concentrato tutto fra le orecchie.
«Uauu!» esclamò Max guardando Tall Man. «Ecco Rambo e Terminator messi insieme! Ma ti alleni tutti i giorni?» «Allenarsi?» rispose Chase ridendo. «I suoi unici due esercizi sono mangiare e bere; e la sua dieta è fatta al cento per cento di grasso fritto nel sale. Ecco un' ingiustizia cosmica.» «Io sono la vendetta del Grande Spirito,» disse Tall Man a Max. «Doveva pure far qualcosa per rimediare a cinquecento anni di oppressione bianca.» «Se gli credi,» disse Chase a Max, «puoi anche credere nelle favole. In realtà il suo Grande Spirito è il signor McDonald.» «E allora?» Tall Man scoppiò in una risata. «Un uomo dovrà pure rivolgere a qualcuno le sue preghiere.» Max era raggiante. Tutto questo gli piaceva. Questi erano discorsi da uomini, discorsi da adulti, e loro lo coinvolgevano, gli consentivano di farne parte, gli permettevano di sentirsi grande. Da sempre aveva sentito parlare di Tall Man, il migliore amico di suo padre fin dall'infanzia, e il colossale indiano Pequot era diventato una figura mitica per il ragazzo. L'idea di incontrarlo lo aveva spaventato, al pensiero che la realtà potesse offuscarne l'immagine. Ma l'uomo aveva rivelato la stessa grandezza del mito. Chase e Tall Man si erano separati molte volte; mentre Chase frequentava l'università, Tall Man aveva fatto il servizio militare nei Marines; quando Chase era andato alla scuola di perfezionamento, Tall Man aveva lavorato come operaio in un'acciaieria di Albany. Ma le loro vite si erano incrociate di nuovo, quando Chase aveva cominciato con l'Istituto. Si era reso conto di aver bisogno di un assistente dotato delle conoscenze di meccanica che a lui mancavano, e aveva scoperto che Tall Man lavorava come meccanico di motori diesel da un concessionario di automezzi pesanti. Il lavoro non lo preoccupava, aveva detto Tall Man a Chase, e venti dollari l'ora non erano una paga disprezzabile, ma non sopportava che qualcuno gli dicesse quando doveva andare al lavoro e quando poteva tornare a casa, e neanche gli piaceva sentirsi prigioniero fra quattro mura. Sebbene Chase non potesse offrirgli una paga fissa né garanzie di sorta, Tall Man aveva piantato il lavoro e si era messo con l'Istituto. Le sue mansioni non comprendevano compiti specifici, così faceva tutto quello che Chase desiderava che fosse fatto e tutto quello che lui stesso reputava necessario, dalla manutenzione delle barche ai controlli idraulici delle apparecchiature subacquee. Gli piaceva lavorare con gli animali e a-
veva il dono, quasi mistico, di comunicare con loro, di acquietarli, di conquistare la loro fiducia. Uccelli marini con un amo conficcato nel becco si lasciavano manipolare da lui; un delfino con la coda presa al laccio e ferita da una rete si era avvicinato a Tall Man nell'acqua bassa ed era rimasto tranquillo, mentre lui rimuoveva le strisce di plastica e gli faceva un'iniezione di antibiotici. Godeva di autonomia e aveva delle responsabilità, e rispondeva bene a entrambe. Arrivava presto, se ne andava tardi, lavorava con i suoi ritmi e provava un grande, anche se non dichiarato, orgoglio, nel sentirsi parte attiva del funzionamento dell'Istituto. Quando il rotolo di cavo fu assicurato alla boa, si sporsero tutti e due fuoribordo e rimasero qualche momento a osservare per assicurarsi che il cavo non si impigliasse e che la boa ne sostenesse il peso. Il cavo era pesante, ma nell'acqua il peso veniva neutralizzato - mezzo chilo di spinta in alto per ogni tre metri - e la boa era stata studiata per sostenere un peso morto di più di cento chili. «Non fa nessuna fatica,» disse Tall Man. «Se nessuno lo ruba...» «Giusto. Perché mai qualcuno dovrebbe interessarsi a cento metri di cavo?» «Lo sai meglio di me. C'è gente che strappa via le lampade da carrozza dalle porte d'ingresso delle case per prendere l'ottone; svitano le lampade stradali per prendere l'alluminio e le attrezzature dei gabinetti per il rame. In questo nostro sistema economico, specialmente grazie alla folla che i tuoi fratelli di sangue hanno attirato con quel loro casinò su a Ledyard, un uomo intelligente cammina per la strada con la bocca chiusa perché nessuno gli rubi le otturazioni.» «Ci risiamo di nuovo,» disse Tall Man a Max sorridendo, «il razzista che se la prende con i poveri indiani per ogni cosa.» Chase si mise a ridere e si spostò a poppa per avviare il motore della barca. 10 «Uccelli,» gridò Tall Man dalla plancia, indicando verso sud. Chase e Max si trovavano sul ponte di prua - Max all'estremità del pulpito di legno lungo due metri che proseguiva oltre la linea di prua, dal quale
scrutava la superficie dell'acqua nella speranza di vedere un delfino. Chase gli aveva detto che, qualche volta, i delfini venivano a giocare nell'onda sollevata dalla prua delle barche. Chase si fece schermo agli occhi con la mano e guardò verso sud. Uno stormo di uccelli, gabbiani e rondini di mare, svolazzava sulla superficie dell'acqua che sembrava ribollire di vita. Gli uccelli si tuffavano e sollevavano spruzzi in un turbine di penne, poi si alzavano di nuovo, muovendo a scatti la testa mentre inghiottivano in fretta la preda per potersi poi tuffare di nuovo a prenderne un'altra. La brezza di sud est portava il rumore delle loro strida eccitate. «Che cosa stanno facendo?» chiese Max. «Stanno mangiando,» rispose Chase. «Avannotti... pesciolini piccoli. C'è qualcosa che minaccia gli avannotti dal fondo, e li spinge in superficie.» Guardò verso Tall Man. «Andiamo a dare un'occhiata.» Tall Man girò la barca verso sud, lasciandosi a nord la remota sagoma grigia di Block Island e a est il profilo, più vicino ma più basso e più piccolo, di Osprey Island. Mentre la barca si avvicinava al parapiglia nell'acqua, Tall Man disse: «Pesci azzurri». «Ne sei sicuro?» chiese Chase. Sperava che Tall Man avesse ragione: un grosso branco di pesci azzurri affamati sarebbe stato un buon segno, un segno che i pesci azzurri stavano recuperando. Negli ultimi tempi, erano molto diminuiti di numero, vittime della pesca eccessiva e dell'inquinamento da PCB, pesticidi e fosfati provenienti dagli squilibri dell'agricoltura, e molti dei sopravvissuti manifestavano tumori, ulcere e anche strane mutazioni genetiche. Alcuni nascevano con lo stomaco che smetteva di funzionare dopo circa un anno, così i pesci morivano di fame. L'Istituto e vari gruppi ambientalisti avevano collaborato a bonificare le acque dei fiumi che si gettavano nell'Atlantico, e la quantità di elementi inquinanti si era ridotta in modo significativo, anche se non era sparita del tutto. Se i pesci azzurri prolificavano di nuovo con successo... bene, forse era solo un piccolo passo, ma era comunque un passo in avanti, per lo meno, e non indietro. «Sono proprio loro,» disse Tall Man. «Chi altro può buttar fuori schizzi di sangue come quelli?» Un uccello virò fuori dal branco, scese in picchiata dritto sulla barca, e Chase vide i segni rivelatori della carneficina provocata dai pesci azzurri: il bianco piumaggio sul petto dell'uccello era macchiato di rosso dal san-
gue delle vittime. I pesci azzurri nuotavano freneticamente in un grosso branco di esche in preda al panico, saltavano e guizzavano con furia cieca, tingendo l'acqua di rosso. Tall Man rallentò, lasciando che la barca andasse avanti piano senza far troppo rumore per non mettere in fuga il branco. «E sono anche belli grossi, questi bastardi,» disse. «Roba da tre o quattro chili.» I pesci azzurri guizzavano, saltavano e si tuffavano; i loro corpi dai bagliori metallici mandavano riflessi nella luce del sole, e gli uccelli si tuffavano senza tregua in mezzo a loro, pescando gli avannotti dall'acqua insanguinata. «Che orrore!» esclamò Max come ipnotizzato. «Possiamo andare a vedere?» «È quello che stai facendo,» gli rispose Chase. «No, voglio dire: possiamo mettere le maschere e immergerci?» «Ma sei impazzito?» ribatté Chase. «Neanche per sogno. Quei pesci ti farebbero a pezzetti. Non volevi riportarmi a casa in una cassa... Pensi forse che potrei rimandarti a casa da tua madre in un sacchetto?» «I pesci azzurri attaccano l'uomo?» «In una frenesia come questa, attaccano qualsiasi cosa. Qualche anno fa, in Florida, un bagnino se ne stava seduto su una tavola da surf, quando arrivò un branco in cerca di cibo. Ci rimise quattro dita di un piede. Sono muniti di piccoli denti triangolari affilati come rasoi, e quando sono in cerca di cibo...» Tall Man si intromise: «... sono dei grandissimi figli di puttana». «Forte,» disse Max. Come se avesse aspettato il suo turno, un grosso gabbiano si tuffò in picchiata, puntò la preda, la mancò, frenò con le ali e si posò sull'acqua. Afferrò il pesce, e si accingeva a prendere il volo di nuovo, quando all'improvvisò una forma azzurra gli guizzò di fianco. Il gabbiano si bloccò, ebbe un sussulto all'indietro e lanciò un grido stridulo: un pesce azzurro lo teneva bloccato per le gambe. L'uccello sbatté invano le ali e piegò il collo in avanti, cercando di colpire col becco il suo assalitore. Un altro pesce azzurro doveva averlo ghermito, perché l'uccello si accasciò su un fianco, trascinato di nuovo sul pelo dell'acqua. Lanciò un altro grido stridulo e batté forte le ali, ma ora altri pesci avevano sentito la preda ed erano guizzati fuori dall'acqua, su quel mucchio di penne macchiate di sangue. Il corpo dell'uccello, con la coda in avanti, fu tirato sotto il pelo dell'ac-
qua. L'ennesimo strattone lo trascinò sotto e l'ultima cosa che videro fu il becco giallo puntato verso il cielo. Chase guardò Max. Gli occhi del ragazzo fissavano ancora il punto dove si era trovato il gabbiano, e il suo colorito era diventato di un grigio verdastro. Continuarono in direzione dell'isola, Chase e Max sul ponte di prua, mentre Tall Man teneva il timone in plancia. Di quando in quando Chase faceva segno a Tall Man di rallentare, e allora prendeva un retino e lo immergeva in acqua, poi tirava su qualcosa da mostrare a Max: un viluppo di alghe marine in cui piccoli crostacei - gamberetti o granchi - trovavano rifugio prima di essere abbastanza cresciuti da poter provvedere a se stessi, sul fondo; una medusa della grandezza di un pugno che aveva sulla sommità una membrana purpurea traslucida simile a una vela e lunghi tentacoli ciondolanti che, come spiegò Chase, pungevano a morte la preda. Affascinato, Max toccò uno dei tentacoli e si ritrasse con un grido sentendosi pungere la punta delle dita. «È ancora presto perché se ne vadano in giro,» fece notare Tall Man. «L'acqua deve ancora riscaldarsi.» Quando furono a mezzo miglio dall'isola, Chase indicò una piccola boa dell'Istituto che ballonzolava a dritta di prua. Tall Man mise il motore in folle, lasciando che la barca accostasse alla boa, mentre Chase prendeva una gaffa e la tendeva oltre la murata. Chase agganciò la boa e la tirò a bordo. Era attaccata a una corda. «Tira,» disse a Max. Max afferrò la corda e cominciò a tirarla a bordo. «Che cosa è?» chiese. «Un esperimento,» rispose Chase, lasciando cadere la gaffa e aiutando Max a tirare la corda. «Un grosso problema, da queste parti, è rappresentato dalle nasse abbandonate. Le eliche delle barche tagliano via le boe o se le portano via le tempeste oppure semplicemente le corde si rompono e le boe si liberano. Ad ogni modo, il fondo è ricoperto di nasse abbandonate.» «E allora?» «Sono delle trappole mortali. Ogni sorta di animali, non soltanto aragoste ma anche pesci, granchi, polipi, entrano attratti dalle esche e non riescono più a uscire. Muoiono e diventano un'esca loro stessi, così un numero sempre maggiore di animali entrano e muoiono. Una nassa continua a uccidere per anni e anni.» La nassa urtò lo scafo con un rumore sordo, e Chase si sporse fuori bor-
do e la sollevò sul capo di banda. Era una gabbia rettangolare di fil di ferro, rinforzata da tavolette di legno. A una estremità c'era un imbuto di fil di ferro, l'entrata; sull'altro, uno sportello quadrato fatto di una rete di materiale leggero e fermato con una cordicella. «Quello che Tall Man e io abbiamo tentato di fare,» disse Chase, «è stato di progettare uno sportello di materiale biodegradabile. Le nasse vengono tirate su almeno una volta alla settimana, preferibilmente due, così abbiamo cercato un materiale poco costoso per gli sportelli, che si degradi dopo circa dieci giorni. Il pescatore di aragoste può cambiare lo sportello ogni settimana, ma se la nassa va persa le creature possono liberarsi.» Max si chinò sulla nassa e sbirciò all'interno. «È vuota,» disse. «Non abbiamo messo esche all'interno,» spiegò Chase. «Non stiamo cercando di prendere degli animali, stiamo cercando di salvarli.» Dette uno strappo leggero alla rete dello sportello, e parecchi fili si ruppero. «Questo materiale a base di cotone può essere la soluzione giusta,» si rivolse a Tall Man, «si rompe che è una meraviglia.» Dato che Tall Man non rispondeva, Chase guardò verso la plancia, e lo vide chinato in avanti, la mano a coppa sull'orecchio, in ascolto. Tall Man si raddrizzò all'improvviso. «Ci sono guai in vista, Simon,» disse. «Un paio di ignoranti stanno cianciando sul canale sei che hanno preso uno squalo all'amo.» «Maledizione!» esclamò Chase. «Puoi individuare la loro posizione?» «Circa tre miglia a nord est, si direbbe, proprio da questa parte della Block.» «Andiamo,» disse Chase. Lanciò la nassa fuori bordo e lasciò che la cima e la boa le filassero appresso. Tall Man ingranò la marcia, spinse in avanti la leva del gas e, mentre la barca faceva un salto in avanti, le fece compiere una virata stretta e puntò verso Block Island. Max si teneva stretto al parapetto e fletteva le ginocchia quando la prua della barca batteva sulle onde. «Credi che si tratti del nostro squalo?» gridò a suo padre. «Ci scommetterei,» rispose Chase. «È l'unico che abbiamo visto.» La barca si sollevò sopra un avvallamento e piombò di nuovo sulla superficie dell'acqua. La sagoma della Block Island ingrandiva a vista d'occhio, e mentre guardavano un puntino bianco prese forma sulla superficie del mare e presto divenne lo scafo di una barca.
«Che cosa intendi fare?» chiese Max. «Che cosa puoi fare?» «Non so bene cosa, Max,» disse Chase, con lo sguardo fisso davanti a sé, «ma qualcosa farò.» «Sono due ragazzi,» intervenne Tall Man che guardava con un binocolo. «Sedici anni, forse diciotto... stanno pescando da un fuoribordo di sette metri. Stupidi bastardi. Farebbero bene ad augurarsi di non prendere lo squalo; gli farebbe a pezzetti la barca.» Tall Man ridusse la velocità mentre si avvicinava alla barca, poi mise in folle e lasciò che la barca si arrestasse una decina di metri a sinistra del fuoribordo. Uno dei ragazzi stava seduto sul seggiolino di poppa, con l'estremità della canna bloccata fra le gambe, in un incavo del pavimento. La canna era piegata in avanti fin quasi a spezzarsi, e la lenza era tesa quasi in orizzontale dietro alla barca. Lo squalo si trovava quasi in superficie, ma ancora a una distanza di cinquanta metri o più. L'altro ragazzo stava in piedi a prua, ai comandi, e manovrava volante e leva del gas per mantenere la poppa della barca sempre di fronte allo squalo. «Ma può veramente prendere uno squalo così grosso,» chiese Max, «con una canna da pesca?» «Sì, se sa il fatto suo,» disse Chase. «Sta adoperando una lenza per i tonni, probabilmente un filo che può reggere trenta o quaranta chili, con la guida d'acciaio.» «Ma dicevi che lo squalo può pesare anche una tonnellata.» «Può anche farcela a tirarlo fuori. I grandi squali bianchi non sono molto battaglieri, in realtà non sono adatti alla pesca sportiva. Tirano, tirano, e alla fine ci rinunciano.» Mentre loro stavano lì a guardare, il ragazzo con la canna cercò di riavvolgere un po' di lenza, ma il peso era troppo grande e il tamburo del mulinello slittò sotto il rocchetto del filo. Allora il ragazzo ai comandi ingranò la marcia indietro, arretrando in direzione dello squalo e dando maggior lasco al filo per poterlo riavvolgere. Come Chase aveva temuto, i ragazzi sapevano il fatto loro. «Avvicinati,» disse a Tall Man. «Voglio fare due chiacchiere con loro.» Tall Man manovrò fino a portare la poppa della barca a meno di dieci metri dalla fiancata del fuoribordo. Chase fece qualche passo in avanti e si fermò al traverso. «Che cosa avete preso?» chiese.
«Le Grandi Mascelle, gente,» rispose il ragazzo che stava ai comandi. «Il più grosso, maledetto squalo bianco che voi abbiate mai visto.» «E che cosa avete intenzione di farne?» «Prenderlo... e venderne le mascelle.» «E come pensate di tirarlo a bordo di una barca così piccola?» «Non ce n'è bisogno... lo facciamo fuori e poi lo rimorchiamo.» «Farlo fuori come? È un grosso squalo incazzato.» «Con questo.» Il ragazzo allungò la mano sotto il cruscotto e tirò fuori un fucile da caccia. «Tutto quello che dobbiamo fare è andargli abbastanza vicino per un bel tiro.» Chase rimase un attimo in silenzio, riflettendo. Poi disse: «Lo sapevate che è una femmina?» «Eh?» «Quello squalo è una femmina, ed è gravida. La teniamo sotto controllo, la stiamo studiando. Se la uccidete, non uccidete soltanto lei, uccidete anche i suoi figli e i figli dei suoi figli.» «È un pesce,» ribatté il ragazzo. «Perché dovrei farmene un problema?» «Perché gli squali bianchi sono molto rari... sono una specie in pericolo, anche. Voglio fare un patto con voi. Voi lasciate andare quello squalo...» «Vai a farti fottere!» urlò il ragazzo che teneva la canna. «Mi sto spezzando la schiena...» «...e io farò pubblicare i vostri nomi sul giornale per avere collaborato con l'Istituto. Ne avrete un vantaggio molto maggiore che a ucciderlo.» «Non ci penso neanche.» Il ragazzo con la canna si girò sopra la spalla: «Vieni ancora un po' indietro, Jimmy. Sta recuperando di nuovo del filo». Il ragazzo ai comandi mise di nuovo il fuoribordo a marcia indietro, e Chase vide l'angolazione del filo aumentare mentre la barca si avvicinava allo squalo. «Papà,» intervenne Max, «dobbiamo fare qualcosa.» «Sì,» disse Chase, piegandosi sul parapetto mentre sentiva la rabbia salirgli dentro. Non c'era niente che potesse fare, non da un punto di vista legale, almeno, perché i due ragazzi non stavano infrangendo nessuna legge. E tuttavia sapeva che, se avesse lasciato succedere questo, non se lo sarebbe mai perdonato. Voltò le spalle e scese sotto coperta. Quando tornò, aveva in mano una maschera e un paio di pinne, e delle pinze tagliatili che sistemò nella cintura dei calzoni corti. «Gesù, Simon...» disse Tall Man dalla plancia.
«Dov'è, Tall?» Tall Man indicò col dito. «A circa venti metri lì avanti, ma non vorrai...» «È talmente sfinita e confusa, non mi presterà nessuna attenzione. L'ultima cosa che le interessa è divorare qualcuno.» «Sai quello che dici, vero?» «Sicuro, «replicò Chase con un sorriso forzato, infilandosi le pinne. «O almeno, lo spero.» «Papà!» esclamò Max, rendendosi conto all'improvviso delle intenzioni di Chase. «Tu non puoi...» «Fidati di me, Max.» Chase si sistemò la maschera sulla faccia e si lasciò andare di schiena giù dal parapetto. Il pilota del fuoribordo vide gli schizzi quando Chase si immerse nell'acqua e gridò: «Ehi! Che diavolo pensa di fare?» «Quello che avreste già dovuto fare voi,» disse Tall Man. Il ragazzo afferrò il fucile e armò il cane. «Fallo tornare indietro, oppure io...» «Metti via quell'arnese, piccola testa di cazzo,» sibilò Tall Man con una voce piatta e dura come l'ardesia. «O vengo lì e te lo faccio mangiare.» Il ragazzo dette un'occhiata di traverso a quell'uomo colossale dalla pelle scura che torreggiava sopra di lui sulla plancia di una barca tanto più grande della sua, e abbassò il fucile. Chase individuò il filo che veniva giù dal fuoribordo e lo seguì con gli occhi finché non vide lo squalo. Inspirò due o tre volte profondamente in superficie, trattenne l'ultimo respiro e si spinse in basso con le pinne. Lo squalo aveva smesso di combattere, perché nei suoi primi contorcimenti si era avvolto nella guida d'acciaio e poi nel filo stesso e ora era tutto preso in un groviglio di fili che gli penetravano nella carne. Si abbandonò su un fianco, forse per riposarsi prima di un ultimo, futile, tentativo di fuga, forse già rassegnato alla morte. Chase gli nuotò incontro, stando lontano dai grovigli di filo, finché fu a portata di mano dalla coda dello squalo. Non si era mai trovato sott'acqua, senza protezione, in compagnia di un grande squalo bianco. Li aveva osservati dalla sicurezza di una gabbia, aveva toccato loro la coda mentre la agitavano davanti alle sbarre cercando di arrivare alle esche. Si era meravigliato della loro forza, ma non si era mai trovato in mare da solo in compagnia di questo predatore supremo. Si concesse solo un attimo per passare la mano sulla pelle della schiena
liscia come l'acciaio, poi indietro contro la grana della pelle zigrinata, che sembrava ruvida carta vetrata. Sentì il dardo dell'etichettatura con il suo piccolo trasmettitore, ancora saldamente installato dietro alla pinna dorsale. Poi si piegò sopra lo squalo. I suoi occhi lo squadrarono senza paura né ostilità, ma con una indifferenza assente e impenetrabile. C'erano sei cappi attorno allo squalo - uno d'acciaio e cinque a monofilamento - che partivano proprio davanti alla coda, e lo avviluppavano fino alle pinne pettorali. Chase si mise sopra allo squalo, quasi disteso sulla sua schiena, prese la pinza tagliafili dalla cintura e tagliò i cappi uno alla volta. Man mano che i muscoli in quel corpo a forma di siluro sentivano di essere di nuovo liberi, cominciavano a fremere e a vibrare. Quando l'ultimo cappio fu reciso, lo squalo si piegò in basso, attaccato soltanto al filo che gli usciva dalla bocca che portava all'amo nel profondo del suo ventre. Chase allungò la mano fin dentro la bocca dello squalo e tagliò il filo. Lo squalo era libero. Cominciò ad affondare a pancia in su e, per un momento, Chase temette che fosse morto, che la mancanza di movimento in avanti gli avesse tolto l'ossigeno fino all'asfissia. Ma poi la coda sbatté una volta da una parte all'altra, lo squalo rotolò su se stesso e aprì la bocca mentre l'acqua irrompeva attraverso le sue fauci. Girò in cerchio, gli occhi fissi su Chase, e nuotò verso di lui. Procedeva lento e inesorabile, senza dar segni di eccitazione e di spavento, la bocca semiaperta, spingendosi avanti con la coda. Chase non si girò, non cercò di scappare o di spingersi all'indietro con le pinne. Rimase di fronte allo squalo e gli guardò gli occhi, ben sapendo che l'unico segnale di un attacco imminente sarebbe stata la rotazione dei globi oculari, una protezione istintiva dai denti o dalle chele della sua vittima. Sentiva pulsargli le tempie e scariche di adrenalina attraversargli le membra. Lo squalo venne avanti, faccia a faccia, fino a che fu a poco più di un metro da Chase, poi, all'improvviso, si girò su di un fianco, mostrando il ventre bianco come la neve teso per la presenza dei piccoli, e si piegò in basso, come un aereo da caccia in picchiata, e scomparve nelle profondità verdazzurre. Chase rimase a guardare finché lo squalo non fu sparito alla vista. Poi tornò in superficie, tirò alcuni respiri affannosi e tornò sulla barca. Si tirò fuori dall'acqua, e, stando seduto sulla pedana per togliersi le pinne, notò che il pulpito della barca dell'Istituto sovrastava lo scafo del fuoribordo. Sentì Tall Man che diceva: «Così abbiamo fatto un patto, d'accordo? La
storia è che voi avete preso all'amo lo squalo, vi siete accorti che era etichettato e ce lo siete venuti a dire. Diremo ai giornali che bravi cittadini siete». I due ragazzi se ne stavano imbronciati a poppa del fuoribordo, e uno di loro mugugnò: «Va be', d'accordo...» Tall Man guardò giù, controllò che Chase fosse a bordo, poi mise la barca a marcia indietro. «Grazie,» gridò ai due ragazzi. Chase passò le pinne a Max e si arrampicò attraverso il portello, fino allo specchio di poppa. Max aveva l'aria imbronciata. «È stata una cosa veramente sciocca, Papà,» disse. «Avresti potuto...» «È stato un rischio calcolato, Max,» ribatté Chase. «Questo significa avere a che fare con gli animali. Ero sicuro che non mi avrebbe assalito. Ho pensato che valesse la pena di correre un rischio per salvare la vita di mamma squalo.» «Ma supponi che ti fossi sbagliato. La vita di uno squalo vale forse più della tua?» «Non è questo il punto; il punto è che io sapevo quello che dovevo fare. La Bibbia può anche dire che gli uomini domineranno sugli animali, ma questo non significa che dobbiamo spazzarli via dalla faccia della terra.» Max stava in piedi all'estremità del pulpito, Chase alle sue spalle sul ponte di prua, mentre passavano attraverso uno stretto di acqua profonda fra le due isole. All'improvviso Max gridò: «Papà!» e indicò l'acqua con un dito. Un delfino era apparso da non si sa dove e guizzava sull'onda di prua della barca, costeggiando senza sforzo l'onda d'acqua creata dal movimento in avanti della barca. Potevano vedere il suo dorso grigio scintillante, il muso appuntito, lo sfiatatoio raggrinzito sulla sommità della testa. Potevano udire dei suoni, come degli schiocchi e dei trilli leggeri, che provenivano da qualche parte all'interno dell'animale. «Sta parlando!» esclamo Max tutto eccitato. «È così che parlano! Chissà cosa sta dicendo.» «Probabilmente sta solo farfugliando qualcosa... forse sta chiamando i suoi amici, forse sta dicendo qualcosa come 'Whee'.» Per alcuni istanti il corpo del delfino rimase quasi immobile; si lasciava trasportare dalla velocità della barca. Poi, per qualche ragione, accelerò, spingendo avanti e indietro la sua coda orizzontale, e si spinse davanti alla
barca; rallentò, lasciò che la barca lo raggiungesse e riprese la sua andatura. «Guardagli la coda,» disse Chase. Max si sporse dal pulpito. «Cos'ha alla coda?» domandò. «Quel delfino è stato attaccato da qualcosa,» gli spiegò Chase. «E direi che ha avuto fortuna a cavarsela.» «Uno squalo?» «No, non si tratta di uno squalo, nessuno squalo può fare una cosa simile. Il morso di uno squalo sarebbe semicircolare.» «Un'orca assassina?» «No, ha i denti a cono e vedresti come delle punture e i segni di uno strappo, non dei tagli netti come quelli. Sembrano dei segni di artigli, come quelli di una tigre o di un orso.» «Cosa c'è che vive nell'oceano e ha cinque artigli?» «Niente,» rispose Chase. «Almeno che io sappia.» 11 Il molo era stato costruito in una rada all'angolo nord-est dell'isola, e mentre la barca puntava nella sua direzione Chase dette una gomitata a Max, indicò col dito davanti a sé e sorrise. Un paio di rondini di mare volavano alte sull'acqua, a caccia di cibo per i loro piccoli, che si trovavano al sicuro nei nidi che Chase aveva costruito. «Una volta, le rondini di mare erano quasi scomparse,» spiegò a Max. «Per qualche ragione, le loro uova erano diventate così fragili che si rompevano prima che i piccoli potessero sgusciare. Uno scienziato cominciò a domandarsi cosa mai stesse succedendo, e alla fine lo scoprì: era colpa del DDT. I pesticidi si scaricavano nell'acqua e avvelenavano la catena alimentare, e la carne dei pesci che le rondini di mare mangiavano distruggeva le loro uova. Da quella scoperta nacque il Fondo per la Difesa dell'Ambiente. Quando si riuscì a far mettere al bando il DDT, le rondini di mare tornarono di nuovo. E ora sono in ottima forma. Un airone blu, senza un'ala, stava di sentinella su una pozza lasciata dalla marea a fianco al molo. «Ciao, Capo!» Tall Man salutò l'uccello. Poi si rivolse a Chase. «Il Capo è di cattivo umore. La sua colazione è in ritardo.» «Quello è Capo Joseph,» spiegò Chase a Max. «Lo hanno trovato dei ragazzi, giù, alla spiaggia della città. Aveva un'ala rotta; il veterinario da cui
lo portarono disse che l'ala era troppo malconcia per poter essere curata e voleva abbatterlo, ma io gli dissi di no, piuttosto che la amputasse e che lo lasciasse a noi. E ora è diventato una vera primadonna. Due volte al giorno si fa una passeggiata nell'acqua bassa, il resto del tempo se ne sta qui e reclama perché gli diamo poco da mangiare.» «Perché lo hai chiamato Capo Joseph?» domandò Max. «È stato Tall a dargli quel nome, come il capo dei Nasi Forati... sai, la battaglia della Montagna della Zampa d'Orso. Ha detto che, con una sola ala, gli ricordava le parole di Capo Joseph dopo la battaglia: 'Non combatterò mai più'.» «Il Capo è un tipo cordiale?» «Lo è se gli porti da mangiare. Altrimenti è un vero rompiscatole.» Max sorrise. «Magari troverò anch'io un animale speciale di cui prendermi cura, a cui dare un nome.» Tall Man guidò la barca al suo ormeggio fra due imbarcazioni più piccole, un Boston Whaler e un Mako, e Chase saltò sul molo e recuperò le cime. Lanciò a Tall Man la cima di prua e quella elastica e tornò a bordo per far vedere a Max come mollare la cima di poppa. Poi, mentre Tall Man andava a cercare qualcosa da mangiare per l'airone, Chase e Max si avviarono su per la collina. L'isola di Osprey era stata la proprietà privata di una famiglia per circa un secolo ma, nello spazio di quattro generazioni, la famiglia era diventata troppo numerosa per le quattro case consentite dal locale piano regolatore. Periodicamente, i vari membri della famiglia avevano cercato di acquistare gli uni dagli altri, ma si erano trovati in una situazione paradossale. Da un punto di vista tecnico, dato che consisteva in una proprietà di venticinque ettari sul mare, l'isola era valutata una fortuna, e lo stato e le autorità municipali l'avevano tassata in proporzione. Nel corso degli ultimi vent'anni, le tasse erano raddoppiate e, poi, raddoppiate ancora, finché, alla fine, i costi di gestione del complesso si erano avvicinati ai centocinquantamila dollari all'anno. Uno dopo l'altro, i membri della famiglia avevano compreso che per un soggiorno estivo di due settimane sull'isola finivano col pagare più dell'affitto per due mesi di una casa decente a Nantucket o a Martha's Vìneyard. Avevano cercato di vendere l'isola e avevano scoperto che in realtà non valeva niente, perché nessuno, compresi gli stessi membri della famiglia, era disposto a pagare il suo valore di stima.
E così, in un calcolato gesto di rivalsa nei confronti dei «tassocrati» locali, la società della famiglia, una struttura che esisteva al solo scopo di gestire l'isola, aveva acceso un'ipoteca del maggior ammontare previsto dalla banca locale - pari alla metà del valore di stima - e aveva suddiviso il ricavato fra le dodici famiglie del gruppo... avevano poi sciolto la società e abbandonato l'isola, lasciando nelle mani della banca i suoi vincoli, le sue tasse e le sue spese di manutenzione. Simon Chase era stato accolto dalla cittadinanza e dalla banca come il nuovo proprietario. Aveva delle radici profonde nella comunità locale, e sebbene, in quanto ente senza scopo di lucro, l'Istituto non avrebbe pagato tasse, alcuni dei progetti di Chase potevano produrre entrate sostanziose per la cittadinanza. Per esempio, poteva trovare il modo di far rivivere l'industria del pesce. Per anni i vivai di molluschi, telline e cozze intorno a Waterboro erano stati così inquinati che a nessuno era stato più permesso di pescare, mangiare o vendere quei molluschi. Forse Chase avrebbe trovato un modo per disinquinare i vivai. I commercianti locali sapevano, inoltre, che l'Istituto non avrebbe fatto loro alcuna concorrenza. E, infine, i grandi progetti di Chase per l'isola promettevano quella benedizione di cui la zona aveva maggiormente bisogno: posti di lavoro. I tagli al bilancio della difesa avevano ridotto i posti di lavoro della più grande fonte di occupazione del sud-est del Connecticut, la Electric Boat, di Groton, e la cassa di risonanza della crisi della EB e delle altre aziende in difficoltà aveva decimato i servizi per le industrie. Ristoranti ed empori, bar e negozi di regali avevano chiuso i battenti per essere rimpiazzati, qua e là, da negozi di antiquariato e da gallerie d'arte. Waterboro minacciava di diventare un posto esclusivo e di cristallizzarsi, e si sperava che l'Istituto potesse ridare vita alla comunità. Centinaia di persone sarebbero state impiegate per costruirlo, per realizzare impianti elettrici e tubazioni e, quando fosse stato completato, altre dozzine di persone avrebbero trovato un impiego a tempo pieno all'Istituto o in una delle innumerevoli aziende che gli avrebbero fornito i loro servizi. Per un anno era sembrato che il sogno potesse realizzarsi. Chase aveva fatto un corso sulle modalità di concessione delle sovvenzioni pubbliche e aveva ottenuto un contributo di centomila dollari per acquistare le barche e le apparecchiature scientifiche di base. Aveva anche ottenuto dal governo federale, dallo Stato del Connecticut e da numerose fondazioni private l'approvazione di massima per progetti che riguardavano le specie in via di
estinzione, la pesca commerciale e la ricerca medica. Una delle sovvenzioni gli avrebbe dato la possibilità di studiare la peculiarità per cui gli squali, che non avevano ossa, erano immuni sia dal cancro, sia da forme artritiche, e potevano sviluppare, nel morso, un'enorme pressione, pur essendo le loro mandibole fatte esclusivamente di cartilagine. Un'altra gli avrebbe permesso di dare un contributo alle ricerche concernenti la remota possibilità che la cartilagine granulosa degli squali avesse proprietà anti cancerogene. Alcuni ricercatori che lavoravano a Cuba con un gruppo di controllo avevano riscontrato una riduzione del 40 per cento nei tumori di pazienti a cui erano state somministrate dosi massicce di questo tipo di cartilagine. Poi, alla fine del '95, la crisi economica era esplosa. Il debito nazionale era salito a seimila miliardi di dollari. Il presidente e il congresso, ossessionati dalle imminenti elezioni, si erano rifiutati di prendere le dure decisioni necessarie a fronteggiare il deficit del bilancio. I tedeschi, i giapponesi e gli arabi, che avevano sostenuto la decantata American Way of Life per più di una dozzina d'anni, avevano cominciato a guardare dall'altra parte dell'oceano; indignati, avevano dichiarato che gli Stati Uniti non erano più una vera potenza mondiale e avevano ritirato i loro investimenti. L'inflazione aveva cominciato a crescere; i tassi di interesse stavano raggiungendo indici preoccupanti; la borsa era crollata di un migliaio di punti e finora non c'erano segni che non dovesse scendere ancora; la disoccupazione, a livello nazionale, era arrivata all'undici per cento; ormai una famiglia su quattro viveva al di sotto del livello di povertà. Nello spazio di una settimana, tutte le richieste di sovvenzione di Chase erano state rifiutate. E una nuova costruzione era veramente l'ultima cosa per cui avesse dei soldi; poteva a malapena pagare il suo staff di tre persone e mantenere se stesso. Se non fosse riuscito a ottenere, per l'Istituto, l'esenzione dalle tasse, avrebbe già dovuto seguire l'esempio dei suoi predecessori e abbandonare l'isola. C'era ancora la possibilità che dovesse fare i bagagli e andarsene, se questo ultimo lancio di dadi fosse andato a vuoto. Qualche mese prima aveva ricevuto una telefonata dalla dottoressa Amanda Macy, in California. Conosceva la sua reputazione, e aveva letto articoli su di lei in qualche rivista. Stava conducendo ricerche d'avanguardia nell'impiego di leoni marini addestrati per riprendere con una cinepresa le balene grigie allo stato selvaggio. Notoriamente ombrose, le balene grigie erano restie a farsi fotografare dai subacquei, e anche quando si riusciva a catturare qualche immagine, non era possibile valutare se il com-
portamento della balena fosse naturale o condizionato in qualche modo dalla presenza dell'uomo. Secondo la teoria della Macy, poiché i leoni marini accompagnano spesso le balene allo stato selvaggio, le balene ne avrebbero tollerato la presenza senza modificare il loro comportamento. Così aveva addestrato dei leoni marini a portare una cinepresa mentre nuotavano insieme con le balene. A giudicare dai suoi rapporti, stava già riscrivendo una gran parte delle conoscenze scientifiche sulle balene grigie. Ora voleva sperimentare la stessa tecnica con un'altra specie di balena, la balena gibbosa atlantica. Aveva sentito parlare dell'Istituto e aveva letto qualcuno dei lavori di Chase sugli squali. Sapeva che lui aveva le barche; inoltre aveva poi stoffa ed esperienza con i grandi animali degli abissi. Dato che le balene gibbose passavano ogni estate a est dell'isola seguendo la rotta per il nord, sarebbe stato disposto, si domandava, ad averla sull'isola per tre mesi con la sua squadra di leoni marini, di portarla in mare e di aiutarla nella sua ricerca... per un compenso, diciamo, di diecimila dollari al mese? Chase aveva accettato immediatamente, sforzandosi perché la voce non tradisse l'emozione. Sarebbe stata la sua salvezza, non solo da un punto di vista economico, ma anche intellettuale - un progetto fantastico, con delle solide fondamenta, con una collega di grande serietà. L'unico problema era che la dottoressa Macy doveva arrivare da lì a qualche giorno e Chase aveva speso un sacco di soldi, soldi che non aveva, per costruire i servizi necessari a lei e ai leoni marini, ma il primo assegno della dottoressa Macy non era ancora arrivato. Se avesse cambiato i suoi progetti, se avesse deciso di cancellarli senza avere la cortesia di avvertirlo, se... Be', ci avrebbe pensato su. Il centro nevralgico dell'Istituto era rappresentato da un grandioso edificio vittoriano di ventidue stanze, rivestito di legno che, ai suoi tempi, era stato la dimora principale del clan dell'isola. Sebbene le strutture non fossero cambiate, lo era la sua destinazione: ora veniva utilizzato per i servizi di foresteria, ristorazione, amministrazione e comunicazione dell'Istituto. Era inefficiente e cadente, e i primi, grandiosi progetti di Chase avevano dovuto essere cancellati e sostituiti perché sarebbero costati più di un milione di dollari. A ogni modo, tuttavia, ora era contento che la casa fosse rimasta intatta, così come lui aveva imparato ad amarla. Il suo ufficio era spazioso, con i soffitti alti, un caminetto funzionante e delle porte-finestre in piena vista sulla Fishers Island e, nelle giornate luminose, anche su
Long Island. Quando Chase e Max entrarono nell'ufficio, la signora Bixler stava lucidando il vasellame di peltro mentre ascoltava le previsioni del tempo alla televisione. «'Giorno, signora B,» disse Chase. «Il giorno è ormai abbastanza avanti,» rispose la donna, «e lei ha un aspetto terribile.» Poi guardò Max. «Non mi dirà che ha portato questo ragazzo in giro per pescecani?» «Certo che l'ho fatto, e si è trovato benissimo... grazie ai sandwich che lei ci ha preparato.» «Lei è stato fortunato,» continuò la signora Bixler, corrugando la fronte e tornando ai suoi peltri. «Lei è stato fortunato, punto e basta. Non bisogna sfidarla la fortuna, lo dico sempre io.» Ufficialmente, la signora Bixler era la segretaria di Chase; di fatto, era la governante dell'Istituto e, per sua stessa elezione, la factotum. Sessant'anni, vedova, con i figli che vivevano da qualche parte nell'Ovest, aveva fatto parte della famiglia dei fondatori e aveva vissuto lì buona parte dell'anno, dai tempi della guerra di Corea, facendo avanti e indietro dalla terraferma con la sua barca, un motoscafo di legno del '51 che teneva in una caletta di sua proprietà. All'inizio, quando la famiglia aveva lasciato l'isola, si era trasferita in una piccola casa sull'acqua dalle parti di Misty, ma appena era arrivato Chase - e aveva dovuto rivolgersi a lei ogni giorno per consigli e informazioni a proposito delle costruzioni; dei problemi sanitari, dei generatori di corrente, dei pozzi - lui le aveva chiesto di tornare sull'isola e di lavorare per l'Istituto. Nei loro accordi era stato compreso l'uso della cucina della casa principale per il suo appartamento di quattro stanze. La collezione dei peltri, un servizio da museo che comprendeva coppe, caraffe, piatti, candelabri e posate, era di proprietà della signora Bixler e valeva probabilmente svariate centinaia di migliaia di dollari. Avrebbe potuto venderla, tenerla da qualche parte in una cassaforte o nelle sue stanze, ma era stata da sempre nella stanza dove Chase aveva installato il proprio ufficio e lì, lei aveva detto a Chase, sarebbe rimasta. «Perché la sta guardando, signora?» domandò Max indicando la televisione, sistemata in una libreria. «Non si è mai troppo prudenti. Ecco una cosa che non si riesce mai a essere: troppo prudenti.» La signora Bixler era sintonizzata sui disastri. Aveva tre anni, nel '39,
quando un colossale uragano aveva devastato il New England. Diceva di aver visto le case volare via da Napatree Point e galleggiare sull'acqua. Sull'isola, poi, era passata attraverso un'altra mezza dozzina di uragani. Dopo che il tifone Bob aveva sradicato un boschetto di alberi, soffiato via non so quante finestre e depositato all'asciutto sul suo prato una barca da ostriche, nel '91, lei si era fatta dare un prestito per installare un'antenna parabolica in grado di ricevere a ogni ora del giorno e della notte i servizi meteorologici, e trovarsi pronta per la prossima grande raffica di vento. «Ci sono novità?» chiese Chase. «Niente di speciale, non abbastanza da bagnare i calzini di una rana. Ma c'è una bassa pressione che non mi piace affatto, che si prepara a est di Puerto Rico.» «Sto parlando di affari. Niente di nuovo dall'IPA o dal DPA? Abbiamo avuto l'OK per rimuovere la balena?» «Neanche una parola. Li ho chiamati tutti e due, e ho parlato con un robot che mi ha augurato una buona giornata.» Chase frugò in una pila di lettere sulla sua scrivania. «È arrivato l'assegno della dottoressa Macy?» «Non ancora. Se fossi in lei direi a quella donna che ci facciamo due giacche e un paio di guanti con la pelle delle sue foche se non si decide a pagare.» La signora Bixler fece una pausa. «C'è una cosa, comunque. Ero in città a prendere la posta. Andy Santos mi ha detto che Finnegan ha intenzione di fare un ricorso a proposito della sua situazione fiscale.» «Maledizione!» esclamò Chase. «Non vuole proprio mollare, eh?» «Non finché lei non avrà alzato i tacchi e non se ne sarà andato... o finché lei non avrà rinunciato e gli avrà ceduto tutto.» «Faccio saltare in aria l'isola, piuttosto.» La signora Bixler sorrise. «È quello che ho detto ad Andy.» Brendan Finnegan era uno speculatore immobiliare dotato di un grande intuito... che arrivava sempre con un anno di ritardo. Aveva messo insieme una fortuna negli anni settanta, l'aveva persa agli inizi degli anni ottanta, l'aveva fatta di nuovo alla fine degli ottanta ma era stato bastonato dalla recente congiuntura. Attualmente il suo impero era in bilico sull'orlo della bancarotta, e lui aveva disperatamente bisogno di un colpo grosso. Un mese dopo che Chase aveva chiuso la trattativa per Osprey Island, Finnegan aveva ricevuto un'offerta confidenziale da parte di un principe saudita di terzo rango che era preoccupato per l'esplosivo dilagare del fondamentalismo islamico e cercava un rifugio sicuro per un patrimonio in
sterline e marchi tedeschi del valore di svariati milioni di dollari. Stanco di banche e di transazioni, voleva convertire il tutto in solidi investimenti e reputava che, malgrado i grossi problemi dell'economia americana, una proprietà sul mare sulla costa orientale degli Stati Uniti fosse uno degli investimenti più solidi al mondo. Il suo valore poteva restare costante, poteva subire delle contrazioni, ma mai crollare... non con il 70 per cento della popolazione che viveva entro le cinquanta miglia dalla costa, e molti che abbandonavano ogni giorno il centro del paese. C'erano un sacco di case in vendita fra la Carolina del Nord e il New Hampshire, ma nessuna isola, e il principe era un fissato paranoico che aveva la necessità di un fortilizio protetto. Finnegan vedeva nel principe il suo colpo grosso, se solo avesse potuto trovare una casa da vendergli. Non si accontentava di una percentuale sulla vendita, voleva essere lui a vendere. Perciò doveva entrare in possesso dell'isola. I problemi finanziari di Chase non erano un segreto. Il prezzo che aveva pagato per l'isola era di pubblico dominio, e le difficoltà che incontrava nel sostenere le spese quotidiane erano note a tutti. Finnegan era partito offrendo a Chase lo stesso prezzo pagato da lui per l'isola e, ignorando i suoi reiterati rifiuti, aveva continuato ad aumentare l'offerta in quote successive del 10 per cento. La sua ultima offerta ammontava al 180 per cento del prezzo pagato da Chase, equivalente ai due terzi del valore stimato dell'isola. Chase conosceva il gioco di Finnegan, e non stava cercando di tirarlo in lungo. Come aveva detto a Finnegan quando i loro rapporti erano ancora abbastanza amichevoli, aveva finalmente trovato qualcosa che amava, qualcosa che voleva conservare e sviluppare, e intendeva tenersela. In seguito però Finnegan aveva smesso di mostrarsi amichevole. Aveva cominciato a presentare una serie di fastidiosi reclami con il consiglio di zona, il consiglio di pianificazione, la guardia costiera e l'IPA. Nessuno dei reclami era stato accolto, ma a ognuno bisognava dare una risposta, se non da Chase in persona, almeno dal suo avvocato da duecento dollari l'ora. «Che pretesto ha trovato questa volta?» chiese Chase alla signora Bixler. «Dice che lei non sta svolgendo una vera attività scientifica, qui; dice che i suoi esperimenti non hanno dato ancora risultati concreti, così non si vede perché i contribuenti dovrebbero continuare a mantenerla.» «Un ragionamento abbastanza valido.» Chase fece una pausa. «La dottoressa Macy arriva appena in tempo... la cavalleria viene a salvarci.»
«Che almeno ci paghi i suoi conti.» Sembrava che Max non avesse ascoltato la conversazione, quasi ipnotizzato dal monotono ronzio delle previsioni meteorologiche. Ma poi disse all'improvviso: «Se non ce la fai ad affrontare tutto questo, devi vendere l'isola?» «No,» rispose Chase, con un sorriso forzato. «Ma ora andiamo a prendere delle bombole e facciamo una lezione prima di tornare a immergerci per quel sensore.» «Niente da fare,» obiettò la signora Bixler. «Il compressore è fuori uso.» «Ma per l'amor del cielo... cosa c'è che non va?» domandò Chase vedendo che Max abbassava le spalle per la delusione. «Gene ha detto che, probabilmente, si tratta del solenoide. Però, Gene pensa che tutti i problemi del mondo dipendano dai solenoidi. Se fossi in lei, gli farei dare un'occhiata da Tall.» «Okay,» rispose Chase. Si sentiva prendere dal panico; ora c'erano problemi con il solenoide. Che cosa si sarebbe rotto ancora? Per il momento non c'era cosa che desiderasse di più di una bella dormita. Ma c'era Max, e Chase voleva a tutti i costi che Max sfruttasse questa occasione. Sorrise e disse: «Andiamo a parlare con Tall, così lo aiutiamo a dar da mangiare a Capo Joseph. Poi torniamo a controllare le rastrelliere delle bombole. Chissà che non ce ne siano un paio piene». Tall Man era già nell'officina e lavorava intorno al compressore diesel, il cui problema non era il solenoide ma gli iniettori otturati. Lo avrebbe sistemato per il pomeriggio, li informò. Ci sarebbero state delle bombole piene per l'indomani mattina. Chase non sapeva come avrebbe reagito Max - con delusione, forse, o rassegnazione - ma l'unica reazione contro la quale avrebbe scommesso era l'entusiasmo. Così fu sorpreso e compiaciuto quando Max gli disse: «Ecco la cosa fantastica di star fuori un mese; c'è sempre un domani». Poi fece un ampio movimento con il braccio. «Andiamo, papà, fammi vedere tutto il resto.» C'erano altre tre costruzioni sull'isola. Un tempo case d'abitazione, erano state tutte destinate alla demolizione e poi, invece, convertite in laboratori, servizi di rimessaggio e, in un caso, in una infermeria di fortuna. La stanza di soggiorno di una delle case più piccole era stata svuotata dei mobili e dei tappeti, il pavimento piastrellato, le pareti interamente intonacate a gesso.
In mezzo alla stanza, ancorato al suolo, illuminato da grandi lampade fluorescenti montate sul soffitto, c'era un cilindro lungo quattro metri e alto due con un portello rotondo a una estremità e un piccolo oblò nel mezzo. Tubi di plastica e cavi elettrici collegavano il cilindro a un pannello di controllo sistemato su una parete. «Questa è la nostra camera di decompressione,» disse Chase. «La chiamiamo Dottor Frankenstein.» «A cosa serve?» «Bene, vediamo quanto hai imparato dalle tue lezioni di immersione. Quali sono i tre pericoli maggiori quando ci si immerge? A parte la stupidità e il panico, quali sono i due più importanti, quelli di cui nessuno ti parla?» «È facile. Anzitutto l'embolia, che capita quando si trattiene il respiro durante la risalita. Poi l'embolia gassosa. E... ho dimenticato l'altro.» «Alcuni lo chiamano estasi, estasi della profondità.» Portò Max davanti a un piccolo frigorifero, da cui prese due lattine di Coca Cola. Ne porse una a Max e gli chiese: «Ti sei mai ubriacato?» Max arrossì. «Io?» «Non importa, non era una domanda a cui dovessi rispondere. Quello che intendo dire è che la cosa che chiamano estasi è come ubriacarsi sott'acqua. Il suo vero nome è narcosi da azoto. Quando respiri aria compressa nell'acqua profonda, c'è un'alta percentuale di azoto in quello che tu introduci nel corpo, e l'azoto può diventare un veleno, tanto quanto l'alcol. Colpisce la gente a diverse profondità, in modi diversi. Ad alcuni non succede mai, ad altri una volta sola e poi mai più, ad altri ancora così spesso che finiscono col farci l'abitudine. E c'è gente che ci muore.» «E come?» «Perché ubriacarsi sott'acqua, è... be'... una vera bomba. La cosa peggiore è che molte volte non ti accorgi nemmeno di quel che sta succedendo. È un genere dolce, sognante, di ubriachezza. Dimentichi dove sei; non ti preoccupi. Quella scogliera profonda laggiù a più di sessanta metri è così attraente che hai voglia di andarci a dare un'occhiata per un attimo, e se ti viene in mente di controllare il profondimetro o il misuratore d'ossigeno ti accorgi che non riesci a leggerli, i numeri sono tutti confusi, ma non gli dai importanza e continui a scendere. «Hanno fatto dei test sui sommozzatori e hanno rilevato che, di regola, a cinquanta metri di profondità un uomo di venticinque anni, in perfette condizioni fisiche, non riesce a compiere operazioni anche molto semplici,
se non è preparato a farle.» «Per esempio?» «Uno di quei rompicapi che facevi quando eri piccolo, dove devevi mettere un oggetto circolare in un buco circolare e un oggetto quadrato in un buco quadrato. Ecco, lui non riesce a farlo, non è capace di uscirne fuori. Ha perso ogni capacità di elaborazione. Non può più cambiare il suo programma di immersione. Se ha un'emergenza, se resta senza ossigeno o se gli si stacca il boccaglio dal regolatore di pressione, sopravvive solo per istinto e per riflessi condizionati dall'esperienza e dall'addestramento. O non sopravvive affatto.» «Le situazioni di emergenza li uccidono?» «Non sempre. Qualche volta si uccidono da sé. Se non sapessi come vanno queste cose, penseresti a un suicidio.» «Cioè?» Chase tirò un respiro profondo e guardò davanti a sé, inseguendo un ricordo. «Dieci anni fa, facevo il sommozzatore di sicurezza per un tipo che voleva filmare i coralli neri lungo il Little Cayman. Roba profonda, più di sessanta-ottanta metri, più o meno il limite di sicurezza per le immersioni col respiratore ad aria compressa.» «Ma la gente respira anche altre cose?» chiese Max. «Sì, se vuoi lavorare a profondità maggiori, devi usare delle miscele di gas. Elio e ossigeno, per esempio. A ogni modo, prendemmo tutte le precauzioni possibili. Calammo un cavo zavorrato giù fino a ottanta metri, sistemammo un sommozzatore ogni quindici metri con una bombola di riserva così che il cameraman avrebbe avuto qualcuno che lo controllava tutto il tempo e una quantità d'aria per la decompressione durante la risalita. Io ero quello che stava a trenta metri, e ce n'era un altro, dopo di me, a cinquanta. Il cameraman aveva due bombole da ottanta, caricate a tremilacinquecento atmosfere; bombole grosse, così non correva alcun rischio di restare senza aria. Disse che non aveva mai avuto prima fenomeni di narcosi, così nessuno se ne preoccupò. «Ci mettemmo tutti in posizione, il cameraman si tuffò e cominciò a scendere. Mi passò vicino e mi fece un segno, fece lo stesso con il tipo che si trovava sotto di me, poi si afferrò al cavo a sessanta metri e si fermò per sistemare la cinepresa e accendere le lampade. L'acqua era limpidissima, così potevo vedere ogni cosa. Lui sembrava stare bene, sotto controllo; le bolle venivano fuori in modo regolare, il che stava a significare che la respirazione era normale. Niente ansia, niente panico, niente.
«Un grosso pesce venne fuori dal suo buco nella muraglia e rimase lì a osservare il cameraman che gli dedicò qualche metro di pellicola. Poi il pesce si stancò e se ne andò a bighellonare giù per la muraglia. «Bene, all'improvviso, il cameraman si volta verso il tipo che sta sotto di me, gli fa un cenno di saluto, si toglie la maschera - la maschera, per amor di Dio! - la getta via e comincia a seguire il pesce giù per il muro. «Io gli partii dietro, e così fece il tipo sotto di me, e ce la mettevamo tutta ma non c'era nessuna possibilità. Abbiamo rinunciato a ottanta metri, e tutto quello che potevamo vedere erano le luci della cinepresa che andavano sempre più giù in quell'oscurità, finché non sembrarono capocchie di spillo.» «Quanto era profondo?» «Due miglia. Immagino che sia ancora laggiù.» «Due miglia!» esclamò Max. «E tu l'hai provata... l'estasi?» «Ero soprattutto sotto shock. Ma c'è stato un attimo in cui ho provato una sorta di invidia profonda per ciò che quell'uomo poteva aver visto scendendo negli abissi. Appena provai questo, mi resi subito conto di cosa si trattava, e mi spaventai, così afferrai l'altro sommozzatore e trascinai lui e me in superficie, dove ci sentimmo bene di nuovo.» «E l'embolia gassosa? Ti è mai capitata?» «No, grazie a Dio, e spero che non mi capiti mai.» Con un gesto, Chase indicò la stanza intorno a sé. «Stando seduti qui, noi abbiamo una pressione di circa sette chili, su ogni centimetro del nostro corpo. Okay? Circa sette KSI (chilo per centimetro quadrato). Per ogni undici metri di discesa in acqua, tu prendi un'altra atmosfera, così la chiamano, e l'aria nella tua bombola si comprime di altri sette KSI. Così, a undici metri, hai quattordici KSI; a ventidue metri, ne hai ventuno, e così via. Mi segui?» «Certo,» disse Max. «Ora, ricordi quello che ti ho detto a proposito del fatto che più ti immergi, maggiore è la quantità di azoto che respiri? Bene, eccoci di nuovo al punto: l'azoto è un cattivo elemento. Se stai giù troppo a lungo senza dargli una possibilità di uscire dal sistema circolatorio, che è poi quello che si chiama decompressione, ti limiti cioè a restare nell'acqua trattenendo il respiro, una bollicina di azoto ti si può fermare in un gomito, in un ginocchio o nel midollo spinale o nel cervello. Questa è l'embolia gassosa. Può renderti zoppo o anche ucciderti, oppure causarti quella che, per tutta la vita, vai avanti a pensare che sia borsite.» Chase indicò il cilindro d'acciaio. «Questo è il motivo per cui abbiamo il cilindro d'acciaio, nel caso
qualcuno dovesse andare in embolia gassosa. Le probabilità che questo succeda, da queste parti, sono molto limitate, considerando che facciamo immersioni relativamente poco profonde, ma quando la Marina ci ha offerto questa camera di decompressione che a loro non serviva, l'ho presa al volo.» «Come funziona?» «Se qualcuno va in embolia, lo metti dentro, pompi l'aria nella camera fino a saturarla, poi la porti a una pressione equivalente a quella della profondità indicata dai diagrammi di immersione, per cominciare con sicurezza la decompressione, trenta metri, sessanta metri, o altro. Possiamo pressurizzare la camera fino all'equivalente di trecentocinquanta metri. La pressione scioglie di nuovo l'azoto nella circolazione sanguigna, così le bollicine scompaiono e il corpo torna alla normalità. Generalmente, almeno, perché questo dipende anche dal tempo che ha passato in embolia e dall'entità del danno che è già stato fatto. «E qui viene il momento critico. Tu riduci la pressione nella camera con molta gradualità, che equivale a riportare la persona in superficie molto lentamente, praticamente a pochi centimetri per volta, così che l'azoto possa defluire per conto suo dai tessuti. Qualche volta ci si impiega una giornata intera.» «E cosa succede se viene su troppo in fretta?» «Vuoi dire veramente troppo in fretta? Muore.» Gettarono le lattine vuote in un contenitore per rifiuti, e uscirono all'aperto. All'angolo sud-est dell'isola era stata fatta una grande gettata di cemento, della circonferenza di quindici metri, che formava sinuosità ormai disseccate nella superficie rocciosa. L'anello era stato riempito d'acqua e al suo interno erano state lasciate rocce naturali che formavano piattaforme e caverne. «Assomiglia al recinto dei leoni marini allo zoo,» disse Max. «Hai indovinato... si tratta proprio di quello. L'ho fatto costruire per i leoni marini della dottoressa Macy.» «Credi che potrò giocare con loro?» «Non vedo perché no.» Chase dette un'occhiata all'orologio. «Ma adesso devo andare a fare un paio di telefonate. Vieni con me?» «Posso chiedere a Tall Man se ha un pesce, così posso provare a dar da mangiare a Capo Joseph?» «Certamente.» Chase si incamminò ma poi si fermò di nuovo. «Ma, ehi,
Max, ricordatelo... questa è un'isola... acqua, acqua dappertutto.» Max fece una smorfia. «Papà...» «D'accordo, Max, d'accordo,» disse Chase. Poi sorrise. «Ma devi tenere presente che sono del tutto nuovo al mestiere di padre.» Chase sedeva alla sua scrivania e guardava il fax del trasferimento bancario. I soldi della dottoressa Macy sarebbero stati accreditati sul conto dell'Istituto presso la banca locale la mattina successiva. Poteva pagare la signora Bixler, poteva pagare Tall Man e l'uomo tuttofare, Gene. Poteva saldare i conti del distributore di carburante e dell'emporio. Poteva anche pagare puntualmente il premio della sua assicurazione, evitando gli interessi, per la prima volta dopo mesi. Avrebbe voluto incorniciare il fax e appenderlo al muro come faceva molta gente con il primo dollaro guadagnato, perché questi diecimila dollari rappresentavano una vera ancora di salvezza, il primo passo, per l'Istituto, sulla strada della tranquillità economica. Ah, se avesse potuto tenere qui la dottoressa Macy e i suoi leoni marini per l'intero periodo di tre mesi - e perché no, in fondo? Il tempo sarebbe stato buono e le balene avrebbero incrociato avanti e indietro fino alla fine di settembre - lui avrebbe incassato trentamila dollari, abbastanza per tenerlo a galla fino alla fine dell'anno. Forse, per allora, i soldi delle sovvenzioni per i suoi progetti avveniristici sarebbero stati stanziati. Forse avrebbe potuto organizzare dei charter per compagnie televisive che volessero realizzare servizi sugli squali e sulle balene. Forse... forse che cosa?... forse aveva vinto alla lotteria. Sì, avrebbe fatto una fotocopia del fax e l'avrebbe incorniciata; sarebbe stato divertente rimirarlo, più in là, quando le cose fossero andate meglio. Si chiese se la dottoressa Macy avesse idea di quanto fossero determinanti per lui i suoi diecimila dollari. E quanto significavano, per lei, dieci bigliettoni? Probabilmente poco o niente. Il sistema universitario di stato della California succhiava, ogni anno, centinaia di migliaia di dollari di contributi. Per lei diecimila dollari erano, probabilmente, poco più che spiccioli. Si domandava che tipo fosse la Macy. Tutta al naturale, ci avrebbe scommesso, carica di temperamento, tutta sostanze organiche, niente conservanti, una di quelle donne che odorano di grasso d'agnello perché i loro maglioni sono fatti di lana grezza della Nuova Zelanda, che portano occhialini rotondi e hanno dello sporco fra le dita dei piedi perché vanno in giro con i sandali ortopedici, e che si rifiutano di mangiare qualsiasi specie
di animale. Le conosceva bene, dai tempi di Greenpeace, e trovava che, per la maggior parte, erano o compiaciute e piene di sé in modo insopportabile o piene di entusiasmo e pericolosamente ingenue. Comunque, non gli importava come fosse la dottoressa Macy. I suoi soldi erano buoni, e altrettanto il suo progetto. Le pubbliche relazioni dell'Istituto, un aspetto del suo lavoro che Chase detestava e che non era capace di sviluppare, avrebbero tratto vantaggio da un sodalizio con lei. Delle belle riprese di balene gibbose, soprattutto se fossero state immagini di grande effetto come quelle che la Macy aveva probabilmente fatto con le balene grigie della California, sarebbero state la prova tangibile di un serio lavoro scientifico. Ci sarebbero stati servizi sui giornali e alla televisione. Brendan Finnegan si sarebbe dovuto rimangiare le parole e avrebbe dovuto trovare qualcun altro da imbrogliare. 12 Max scivolò sui ciottoli viscidi e, prima che potesse aggrapparsi da qualche parte, cadde in avanti e si ritrovò con l'acqua alle caviglie. Si dette dello stupido, poi camminò barcollando nell'acqua bassa finché arrivò dove le rocce erano più basse. Si arrampicò e riprese il periplo dell'isola, muovendo i passi con cura da una roccia all'altra, consapevole, ora, della verità di quello che Tall Man gli aveva detto: che la bassa marea rende scivolosa la roccia. Tall Man gli aveva dato due pesci per l'airone. Si era avvicinato all'uccello con circospezione, perché era grosso, aveva il becco lungo e appuntito e i suoi occhietti neri lo seguivano come se fosse una preda. Preoccupato per le proprie dita, Max gli aveva lanciato il primo pesce che l'airone aveva preso di scatto dall'acqua, e aveva inghiottito intero allungando il collo. L'airone aveva visto il secondo pesce e aveva fatto un passo verso Max. Il ragazzo si era imposto di rimanere fermo, facendo dondolare il pesce fra le dita, e l'airone lo aveva preso col becco, con precisione chirurgica, mancando le dita di Max di pochi millimetri. Poi Max aveva cercato di toccare l'airone, ma lui si era girato ed era tornato in mezzo alla pozza d'acqua lasciata dalla marea. Max non aveva niente di speciale da fare, suo padre e Tall Man erano entrambi occupati, così aveva deciso di andarsene in giro in esplorazione. Con la bassa marea, gli aveva detto Tall Man, puoi fare tutto il giro dell'i-
sola, camminando sulle rocce, e lui ne aveva già fatto almeno la metà e aveva raggiunto la punta sud dell'isola prima di scivolare sulle rocce e mettere a mollo le scarpe da tennis. Arrivò a una pozza d'acqua, più che altro una grossa pozzanghera, dove la marea si era ritirata da un bacino, mettendo in mostra i ciottoli; si inginocchiò e si chinò sull'acqua. Vide dei piccoli granchi che si muovevano in fretta fra i sassi e delle pervinche marine attaccate immobili sul fondo, come se fossero in paziente attesa della prossima marea. Rimase per un momento a osservare i granchi, domandandosi che cosa stessero facendo per sembrare così occupati: si nutrivano, combattevano, scappavano via, poi si rialzò in piedi e proseguì. Le rocce più grandi erano schizzate di guano e ricoperte di gusci di molluschi e di granchi, che i gabbiani lasciavano cadere dall'alto, per poi scendere in picchiata a beccare la carne saporita dai gusci infranti. Le rocce più piccole, in prossimità dell'acqua, erano ricoperte di alghe e di erbacce, e negli anfratti che si aprivano in mezzo a loro. Max vide scatole di fiammiferi vuote, contenitori di plastica e capsule di lattine di soda. Raccolse quelle a portata di mano e se le ficcò nelle tasche. Arrivò in un posto dove le rocce sembravano troppo viscide e la loro superficie troppo scivolosa perché ci si potesse arrampicare sopra senza cadere, così salì sul fianco della collina e attraversò venti o trenta metri di erba alta verso il masso più grande che avesse mai visto: almeno cinque o sei metri di altezza, forse sei o sette di lunghezza, un residuo della ritirata dei ghiacciai alla fine dell'ultima era glaciale. Aggirò il masso, guardandolo con reverenziale timore, poi si mise a cercare un passaggio giù dalla collina, verso le rocce. Passò fra due cespugli, tastò il terreno con i piedi e si avviò verso il basso. Qualcosa attirò la sua attenzione, qualcosa nell'acqua, non molto lontano, non più di dieci passi più avanti. Guardò meglio, ma non vide nulla, e cercò di chiarire a se stesso che cosa avesse visto: un movimento che agitava il pelo dell'acqua, come se qualcosa di grosso stesse nuotando proprio sotto la superficie. Si mise a osservare, nella speranza di scorgere la pinna dorsale di un delfino o lo scintillio degli spruzzi lanciati da un branco di pesci alla pastura. Niente. Riprese ad andare, camminando a piccoli passi, poggiando con cura i piedi fra le rocce bagnate. Udì un rumore alle sue spalle: uno schizzo, ma uno schizzo strano, lo
schizzo causato da un corpo che cade, come se un animale fosse emerso dall'acqua e si fosse immerso di nuovo. Si voltò a guardare, e questa volta vide qualcosa: un'increspatura circolare dell'acqua che si allargava da un punto a poca distanza dalle rocce. Intravide come una protuberanza indistinta, sulla superficie dell'acqua; ma, mentre la guardava, la vide sparire. Si domandò se ci fossero tartarughe di mare da quelle parti. O foche. Di qualunque cosa si trattasse, voleva vederla. Ma, di nuovo, non c'era più nulla. Percorse ancora qualche metro e alzò lo sguardo per controllare il terreno sovrastante. Le rocce, da questa parte dell'isola, sembravano più piccole, ingombre di detriti. C'erano pezzi di plastica, palloni da boa e... E quello cos'era? Dieci o quindici metri più in là, qualcosa era intrappolato nelle rocce, metà in acqua e metà fuori. Un animale di qualche specie. Un animale morto. Si avvicinò e vide che si trattava di un cervo, dei resti di un cervo, perché la carcassa era stata assalita con ferocia, la carne fatta a brandelli e strappata via. Non si avvertiva l'odore nauseante della decomposizione, non c'erano sciami di mosche, il che indicava che l'animale non doveva essere morto da molto. Era un'uccisione recente. Non riusciva a immaginare chi avesse potuto fare questo a un animale così grosso. Dei cacciatori? Cercò delle ferite di pallottola sul corpo ma non ne trovò. Stava per tornare indietro quando vide qualcosa nella testa del cervo, qualcosa di strano. Fece un passo in avanti, si chinò, tese una mano. Scivolò, aprì le braccia e cercò di riprendere l'equilibrio, ma si sbilanciò e cadde all'indietro nell'acqua. L'acqua non era profonda, solo poco più di un metro, e Max sentì subito il fondale morbido sotto i piedi. Si tirò su. All'improvviso avvertì qualcosa dietro di sé: un movimento, un cambiamento di pressione, come se una massa d'acqua venisse spostata verso di lui. Si voltò e vide la stessa forma indistinta appena sotto il pelo dell'acqua. Questa volta si muoveva nella sua direzione. Cercò di spaventarla battendo le mani sull'acqua, ma quella continuò ad avanzare. Un'ondata di panico travolse Max. Si girò di scatto verso la riva, cadde in avanti nell'acqua che gli arrivava alle cosce, si spinse in avanti con le mani. Percorse un metro, due, e ora si arrampicava su per un pendio, facendo schizzare dietro di sé sassi e ghiaia. Spinse sui piedi e afferrò un ap-
piglio. Sentì con la mano la testa del cervo, e tirò. Qualcosa di acuminato gli si conficcò nel palmo e gli fece un taglio, ma lui non mollò la presa e continuò a tirare. Raggiunse le rocce asciutte, vacillò sulle gambe e poi cominciò a correre. Non si fermò finché non fu arrivato in cima alla collina. Respirando affannosamente, respiri convulsi più simili a singhiozzi, guardò giù nell'acqua. La forma indistinta era scomparsa, e le increspature dell'acqua si dissolvevano sulla superficie liscia come il vetro. Tremando di freddo e di paura, Max corse verso la casa. Era già a metà strada quando sentì qualcosa che gli pungeva il palmo della mano. Guardò e, conficcato nella carne sotto il pollice, vide l'oggetto che lo aveva ferito. Chase sollevò la sguardo dalla scrivania e vide Max in piedi nel vano della porta, grondante acqua dalle spalle in giù. Una pozza si stava formando sul pavimento intorno alle scarpe da tennis fradice. Tremava. Il suo colorito era grigio, le labbra bluastre. Appariva sconvolto. «Max!» Chase saltò su dalla scrivania, mandando la sedia a sbattere contro il muro, e attraversò in un baleno la stanza. «Stai bene?» Max annuì. Chase si inginocchiò e cominciò a slacciargli le scarpe da tennis. «Cosa è successo? Sei caduto sulle rocce?» «Un cervo,» disse Max. «Un cervo? Quale cervo?» Max cercò di parlare, ma riuscì solo a balbettare qualcosa mentre un brivido gli scuoteva il petto e le spalle e gli faceva battere i denti. «Ehi,» gli disse Chase. «Va tutto bene.» Tolse a Max le scarpe, le calze, i jeans e la biancheria, appallottolò il tutto e lo lanciò nel prato attraverso la porta. Prese due asciugamani da bagno da un armadio della biancheria che si trovava nell'ingresso, ne usò uno per asciugarlo, e lo avvoltolò nell'altro. Poi lo portò verso il divano nel suo ufficio e ce lo fece sedere sopra. «I cervi arrivano a nuoto da queste parti,» disse. «Generalmente dalla Block Island, ma qualche volta anche da tutte le direzioni che vengono dalla città. Non so la ragione del loro interessamento; non c'è niente, qui, che non possano trovare altrove. Sono un flagello: mangiano tutto quello che la signora Bixler pianta, e sono pieni di zecche. Loro...» Chase si interruppe perché Max scuoteva la testa. «Cosa?» «Era morto,» disse Max.
«Cosa? Nell'acqua? Era affogato. Ma sì, loro...» «Qualcosa lo aveva ucciso... aveva cercato di mangiarlo... lo aveva mangiato, almeno una gran parte.» Max parlava a scatti, perché stava ancora tremando. «Io stavo sulle rocce, nel punto... vicino a quella roccia gigantesca che la signora Bixler dice che la sua famiglia ha sempre chiamato Papa Rock... ho visto qualcosa nell'acqua, intrappolato tra gli scogli... ho visto la testa e una parte di quello che restava... sono andato più vicino... ho visto che non era rimasto niente a partire da qui...» Max si toccò il torace. «Ho pensato che, forse, lo avevano preso i pesci azzurri... come avevano fatto con quell'uccello.» «È possibile, se stava perdendo sangue. Uno di loro può averlo morso, e poi gli altri, vedendo come era facile, sono stati presi dalla frenesia e...» «No.» Max tornò a scuotere la testa. «Ho pensato che potesse essere uno squalo, ma quando gli sono andato proprio vicino, ho visto... il cervo non aveva più gli occhi. Tutto intorno agli occhi era stato strappato via. Uno squalo non lo avrebbe fatto... non avrebbe potuto.» «No. Avevi ragione, prima... pesci azzurri, probabilmente.» Max lo ignorò. «Ho visto qualcosa che gli stava conficcato in una guancia... qualcosa che brillava... ho cercato di afferrarlo ma non ci sono riuscito, così ho fatto un passo avanti e sono scivolato... caduto in acqua.» «Che cos'era?» Max aprì la mano destra. La ferita nel palmo era piccola e sottile, e aveva già smesso di sanguinare. Porse il piccolo oggetto scintillante a suo padre. «Assomiglia al dente di uno squalo,» disse Chase prendendo in mano l'oggetto e togliendolo dall'ombra proiettata dal suo stesso torace. «È quello che ho pensato anch'io.» Ma poi, mentre muoveva l'oggetto sotto la luce della lampada della scrivania e lo osservava sul palmo della mano, Chase sentì come un tuffo al cuore. Assomigliava al dente di uno squalo, al dente di un grande squalo bianco, forse fossile, perché aveva un colore grigiastro opaco. Aveva la forma di un triangolo di circa un centimetro e mezzo di lato, e due dei tre lati avevano delle punte cesellate con cura che, quando Chase ci passò sopra il pollice, gli tagliuzzarono la pelle con la velocità di un bisturi. Il terzo lato era appena più spesso e aveva una base piatta, e a ogni estremità della base c'era un piccolo gancio appuntito. I due ganci erano orientati uno verso l'altro. Uno era spezzato proprio sopra la punta.
Chase prese un righello dalla scrivania e misurò il triangolo. Non era lungo un centimetro e mezzo per lato ma dodici millimetri. Esattamente dodici millimetri. L'oggetto era un triangolo equilatero perfetto, realizzato con una macchina di assoluta precisione. Chase lo strofinò fra il pollice e l'indice. La patina grigia venne via come se fosse fanghiglia, e mentre lui strofinava gli si trasferì sulla pelle. Ora il dente, o qualunque altra cosa fosse, brillava come lucido argento. Chase guardò Max. «È uno scherzo?» gli disse. «Dimmi che mi stai prendendo in giro.» «Uno scherzo?» Max rabbrividì e indicò la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe. «Lo chiami uno scherzo?» «Bene, allora... ma che razza d'animale è quello che ha denti d'acciaio inossidabile?» 13 Erano le due e un quarto quando Buck e Brian Bellamy si staccarono dal molo, circa due ore più tardi di quando Buck avrebbe voluto partire, e infatti Buck era furioso. Aveva detto a Brian di riempire le due bombole di ossigeno, ma suo fratello era stato così occupato ad aiutare la sua ragazza a mettere insieme il costume per la parata della Benedizione della Flotta, a Waterboro, che non se ne era preoccupato. Gli aveva detto anche di assicurarsi che la barca avesse il pieno di benzina, ma Brian se ne era dimenticato, così avevano dovuto aspettare quaranta minuti in fila al distributore del porto mentre qualche riccastro faceva un pieno di gasolio da duemila dollari in un Hatteras così grosso da bloccare tutte le pompe del molo. Buck comunque teneva la lingua a freno. Dare una ripassata a Brian non sarebbe servito a niente. Brian era vaccinato contro i rimproveri. Dopo il servizio militare, quei due anni passati giù nel Texas vicino al confine con il Messico, con tutta quell'erba a buon mercato, e tequila e chissà cos'altro ancora, Brian si era praticamente immunizzato dalla vita. Niente riusciva a scomporlo; era sempre tranquillo. L'ultima volta che Buck se la era presa con lui, per aver dimenticato l'esca in occasione di una partita di pesca, Brian si era limitato a dire: «Ehi, ma cosa vuoi che sia». Poi era saltato fuori bordo e aveva preso a nuotare. Erano a dodici miglia dalla costa. Tuttavia Buck non era tranquillo. Era maledettamente eccitato, questo poteva essere il giorno più importante della sua vita. Così, invece di rivolgere qualche espressione vivace a Brian, si limitò a chiedergli, gentilmen-
te, se voleva per favore mettersi a sedere sulla cassetta imbottita sistemata in mezzo alla barca, per evitare che questa ondeggiasse da una parte all'altra. Poi spinse in avanti la leva dell'acceleratore. C'erano barche a vela dappertutto in giro per la baia, fitte come mosche, mentre piccole barche a remi si facevano strada in mezzo a loro. Gente arrivata da tutta la zona del sud-est del Maine e dalle spiagge del New Jersey per godersi tutta quella mezza stronzata della Benedizione, ma Buck non ci faceva caso. Se c'era in giro una motovedetta della polizia marittima, che ci provasse pure a raggiungerlo. Non ce n'erano molte di barche che potessero raggiungere lo Zippo. Buck aveva preso il vecchio scafo di un Mako, e ne aveva modificato il motore, aggiungendo un turbocompressore che poteva sviluppare una potenza di quattrocentocinquanta cavalli e che lo faceva letteralmente decollare. Doppiò la punta di Waterboro filando ad almeno trenta nodi, rallentò in modo da non scuotere troppo la sua preziosa cassetta attraversando la scia delle grosse barche che incrociavano su e giù per il canale di Wath Hill, poi dette gas di nuovo e inserì il turbo, puntando su Napatree con l'acceleratore intorno ai sessanta nodi. Se fosse andato tutto bene, oggi con le prove e domani con la riunione, per metà settimana avrebbe aggiunto un buon numero di zeri al suo conto in banca, e avrebbe potuto dire alla gente di Waterboro Lumer di trovarsi qualche altro sciocco per vendere compensato e vernice agli yuppie. Se Brian avesse voluto saltare anche lui sul treno della cuccagna, lo avrebbe preso con sé - in ogni società che si rispetti c'è un fratello strambo sul libro paga - benché, se avesse dovuto investirci dei soldi, c'era da scommettere che Brian avrebbe preferito restarsene a dare il resto ai clienti, al distributore di benzina sull'autostrada. Non c'erano onde lunghe, così Buck aumentò la velocità, mentre girava attorno a Napatree e faceva rotta a sud est puntando sullo spazio tra le due gobbe formate da Block Island e da Osprey. «Dove andiamo?» gli gridò Brian sopra il rombo del motore. «Alla Helen J.» «C'è molta strada.» «Hai un'idea migliore?» «Nessuna,» disse Brian piegandosi verso il refrigeratore. «Credo che farò uno spuntino.» «Più tardi, Brian. Abbiamo un lavoro importante da fare.» «Be', al diavolo, Bucky...» Brian tornò a sedersi.
Brian aveva ragione. Il relitto del vecchio schooner Helen J. era molto lontano da lì, ma era l'unico relitto nella zona che valesse la pena di essere filmato. Il tempo era tranquillo, quindi la luce sarebbe stata buona, e il relitto era relativamente ben conservato, così le immagini sarebbero riuscite bene. Buck aveva bisogno di un set di qualità per il filmato di presentazione che voleva realizzare e far vedere ai boss dell'Oregon. Oh, certo, avrebbe potuto fare i suoi test da qualche parte, in una piscina, ma questo non avrebbe fatto molta impressione, certamente non abbastanza per dei tipi tutti tecnologia avanzata, forniti di pingui libretti d'assegni. Una buona presentazione era tutto, i dettagli contavano, e tutto si poteva dire di Buck Bellamy, tranne che fosse uno che trascurava i dettagli. «Guarda lì, «disse Brian indicando verso babordo. Buck guardò nella direzione indicata e vide una grossa boa gialla con una scritta. «E allora? Una boa.» «Non ho mai visto una boa come quella. Mi domando cosa c'è sotto.» «Non c'è tempo di andare a guardare, Brian. Ne abbiamo già perso troppo, di tempo.» «Potrebbe essere una barca,» riprese Brian pensieroso. «La tempesta dell'altra settimana... forse qualcuno ha perso la barca e ha segnalato il posto con una boa, per farla recuperare... si potrebbero fare delle belle riprese...» «Ma figurati,» lo interruppe Buck, ma poi, passando accanto alla boa, pensò: perché non darci un'occhiata? Ci perdiamo cinque minuti e, se è veramente una barca, una barca affondata da poco, quei cinque minuti possono farmi risparmiare un paio d'ore. «Buona idea,» disse. «Ogni tanto fai lavorare il cervello, Brian.» Brian si illuminò. «Oh certo, Bucky, quando mi concentro.» Si sporse da prua, afferrò la boa e la tirò a bordo, facendo forza sotto il peso del rotolo di cavo. «Un cavo ad alta resistenza,» osservò Buck. «Che iniziali sono O.I.?» «Che importa? C'è qualcosa laggiù. Prendi una bombola e vai a dare un'occhiata mentre io preparo l'attrezzatura.» «D'accordo. Vado a dare un'occhiata.» «Ma solo un'occhiata, Brian. Scendi e risali, tutto qui. Non voglio che ti fai fuori un'intera bombola d'ossigeno perdendo tempo attorno a qualche nassa da aragoste.» Brian annuì. «Un'immersione a rimbalzo. Mi piacciono le immersioni a
rimbalzo.» «E sei anche molto bravo a farle,» disse Buck. Forse i complimenti sarebbero riusciti là dove avevano fallito i rimproveri. «È proprio vero.» Brian si infilò l'imbragatura della bombola e strinse la fibbia della cintura, a cui generalmente teneva attaccati dei pesi di piombo da cinque chili. Prese un coltello da sommozzatore e se lo fissò al polpaccio. «Credi che qualche mostro voglia mangiarti?» gli domandò Buck, sorridendo. «Non si può mai sapere, Bucky, questo è certo.» Brian si infilò un paio di pinne, sputò sul vetro della maschera e la sciacquò fuori bordo. Poi si mise a sedere sul bordo della barca e si lasciò cadere all'indietro, nell'acqua. Buck stette a guardare, finché Brian non si sistemò la macchina e non cominciò a scendere nella penombra grigioverde, accompagnato da un turbine di bollicine. Poi aprì la cassetta imbottita, sistemata davanti al cruscotto. La cassetta conteneva due maschere integrali, nelle loro custodie di polistirolo. Assomigliavano a elmetti spaziali tagliati a metà, e avevano sistemati all'interno un regolatore d'aria, un microfono e un auricolare. Sulla parte posteriore di ognuna, assicurata da strisce di gomma, c'era una scatoletta rivestita di gomma, circa delle dimensioni di un pacchetto di sigarette. Era questa scatola che rappresentava il futuro di Buck. Quello che Buck aveva inventato era un sistema subacqueo di comunicazione, compatto, poco costoso e autonomo. Non era certo la prima trovata per permettere ai sommozzatori di comunicare fra loro sott'acqua - non si faceva illusioni in proposito - ma tutti i sistemi esistenti presentavano due grossi inconvenienti: le conversazioni dovevano essere smistate attraverso un ricetrasmettitore montato su una barca o su una piattaforma in superficie, e costavano svariate migliaia di dollari, il che ne limitava l'utilizzo a scopi commerciali o scientifici. Con il sistema di Buck, due o tre (o cinque o sei) sommozzatori potevano parlare direttamente gli uni con gli altri, come in una conversazione telefonica «a viva voce», e le apparecchiature potevano essere prodotte al costo di meno di duecento dollari al pezzo. Il sommozzatore medio spendeva circa duemila dollari in equipaggiamento, per cui un paio di centinaia di dollari in più, soprattutto per qualcosa di inedito, affascinante e in grado, all'occorrenza, di salvare la vita, sarebbero stati poco più che spiccioli.
Buck aveva fatto i conti tante di quelle volte che ormai le cifre gli si erano scolpite nella mente. C'erano quattro milioni di sommozzatori solo negli Stati Uniti. Se questo sistema fosse stato prodotto industrialmente, il suo costo unitario si sarebbe dimezzato. Mettici anche cinquanta dollari di distribuzione e pubblicità. Se avesse lavorato con una società intraprendente che applicasse un ricarico del duecento per cento, ricevendo una royalty del dieci per cento, questo avrebbe significato, per lui, trenta milioni di dollari. E tutto grazie a una scoperta fortunata... No, questo non era esatto; lui non credeva nella fortuna, certamente non dopo aver armeggiato per dieci anni con sistemi audiovisivi nel garage di suo padre. A ogni modo tutto era dipeso dalla scoperta di una nuova combinazione di cavi, transistor e relay. Ora, tutto quello che doveva fare era realizzare un video decente per i tizi che stavano per arrivare in volo dall'Oregon, un video con un sonoro ad alta fedeltà, che riprendesse lui e Brian mentre parlavano attraverso quindici o trenta metri d'acqua. E se i tizi ancora non si fossero convinti, bene, avrebbe portato qui anche loro e li avrebbe fatti provare personalmente. Questo era un altro aspetto positivo: il sistema era così semplice che poteva essere usato da chiunque. Anche da suo fratello. «Bucky!» Brian emerse dall'acqua con un guizzo e si afferrò al basso parapetto a poppa della barca. «C'è una cassa da morto là sotto!» Ci volle un momento perché le parole di Brian arrivassero a segno. Poi Buck replicò: «Stronzate, Brian... torna a bordo...» «Te lo giuro! Oppure il cofano di un tesoro. Devi venirlo a vedere.» «Brian... ci siamo immersi qui un migliaio di volte. Ci sono barche da pesca, carcasse di automobili, una chiatta da traino, un mucchio di bidoni e la Helen J. Non c'è nessuna fottuta cassa da morto. Non c'è nessun cofano del tesoro. A parte tutto, non riconosceresti il cofano di un tesoro neppure se fosse in superficie e...» «Ma adesso c'è, Bucky, ed è anche grosso... si direbbe fatto di bronzo.» Brian era lento di riflessi e non aveva molta immaginazione, non era uno che vedeva una cosa per un'altra. Se c'era una grande cassa di bronzo, laggiù, con qualcosa dentro... «Mi domando...» disse Buck, «...quella tempesta...» «È proprio quello che pensavo io. Probabilmente lo ha dissotterrato.» Buck allungò un braccio e aiutò Brian a salire a bordo. «Andiamo a vedere,» disse. Si sistemò la maschera, sistemò i cavi di Brian e gli ricordò la procedura
per la pulizia del vetro frontale. Poi montò la cinepresa nel suo alloggiamento, inserì un supporto con due lampade da 250 watt - per sicurezza, se l'acqua fosse stata troppo scura; per avere un'illuminazione piena, se non lo fosse stata - e inserì il connettore dall'alloggiamento alla sua maschera. Iniziò a riprendere se stesso e Brian nella barca, girando qualche metro di pellicola che poi fece passare nel visore per essere sicuro che tutto funzionasse. Le immagini erano nitide, il sonoro perfetto. Si misero a sedere sui due bordi della barca e, uno dopo l'altro, si lasciarono cadere in acqua. Buck si immerse per primo, muovendo le pinne più forte che poteva e guidandosi sul cavo con la mano libera. L'acqua era torbida, e ci fu un momento in cui si trovò sospeso in una foschia verde, senza poter vedere né la superficie né il fondo. Strinse forte il cavo e si fermò. «Hai controllato la profondità?» Le parole di Buck risuonarono nella maschera con un timbro profondo. «Non sono arrivato fino in fondo,» disse Brian, un paio di metri più in su, lungo il cavo. «Sono arrivato solo fino al punto in cui sono riuscito a vedere bene.» Buck sentiva le parole di Brian nitide come se fosse stato accanto a suo fratello, in superficie. «Non è fantastico il suono di questo apparecchio?» chiese. «Adesso sei a quindici metri,» gli comunicò Brian. «Scendi di altri quattro o cinque metri.» Buck buttò fuori l'aria e si spinse in basso con le gambe tenendo la cinepresa davanti a sé. Quello che vide sembrava, a prima vista, una macchia giallo verdastra immersa in un'oscurità verde pisello che, quando gli fu più vicino, prese forma: un rettangolo perfetto, di almeno due metri e mezzo, forse tre di lunghezza, uno e mezzo di larghezza e altrettanto di altezza. Quando fu a un paio di metri sopra la cassa, Buck la inquadrò nell'obiettivo, accese le luci e le ruotò intorno in un lento cerchio, filmando man mano che andava avanti. Udì Brian che diceva: «Deve essere qualcosa di grosso, se si sono preoccupati di segnalarla con una boa». «Non l'hanno segnalata con la boa, ci si sono impigliati. Guarda qui: c'è la testa di un sensore incastrata sotto, fra questa cosa e quella roccia.» Buck nuotò più vicino. «Credo che non si siano neanche resi conto di quello che hanno preso.»
«Allora potrebbe essere veramente qualcosa di grosso.» «Potrebbe... o potrebbe non essere niente... soltanto del bronzo che qualcuno ha gettato fuori bordo.» «E perché avrebbero dovuto farlo? Il bronzo si può vendere a caro prezzo.» «Perché la gente è stupida,» disse Buck. «A ogni modo, non lo sapremo finché non l'avremo aperta.» «Hai intenzione di aprirla?» «Pensa al video, Brian. Anche se quei tizi dell'Oregon dovessero tirarcela per le lunghe, pensa al servizio che ne tiriamo fuori. I primi ad aprire una cassa di bronzo persa da chissà quanto tempo. Te lo dico io: potremo venderlo all'Eyewitness News per... chissà per quanto?» «Ma supponi che dentro ci sia un cadavere. Non sarebbe...» «Non ci sono cadaveri, a meno che non si tratti di King Kong in persona. Guarda le dimensioni di questo maledetto affare. Deve essere caduto da una nave; è anche probabile che si tratti di qualcosa di valore, se si sono presi il disturbo di incassarlo nel bronzo.» Buck spense la cinepresa e scese fino al fondo sabbioso. Trovò una posizione stabile, sistemò le lampade e mise a fuoco gli obiettivi. «Okay, Brian, scendi fino alla cassa, sieditici sopra, così posso riprenderti e far vedere quanto è grossa.» «Non so...» Brian esitava, muovendo piano i piedi per mantenersi in posizione due o tre metri sopra la cassa. «Andiamo, Brian... non vuoi diventare famoso?» 14 Nella cassa sigillata la pressione ambientale era costante, ma qualcosa era cambiato nel campo elettromagnetico circostante. Lo aveva percepito. C'era della vita, lì attorno, vita in carne e ossa. E poi un rumore, sebbene non fosse in grado di percepire i rumori in quanto tali, ma solo come una piccola compressione delle membrane del timpano ai due lati della testa. Poi il rumore cessò. Era stravolto dalla fame. Quando tutto il nutrimento che aveva assorbito dal cibo trovato nell'ambiente estraneo e minaccioso della superficie si era consumato, era uscito dalla cassa ed era andato a caccia. Ma aveva sentito che lì non c'era cibo. Allora era emerso e aveva cercato di nutrirsi con qualcuno degli innumerevoli animaletti a cui si era abituato.
In stato di confusione, aveva nuotato su e giù per la colonna d'acqua, cercando esseri viventi di qualunque genere che potessero dargli sostentamento. Aveva visto delle creature viventi, ma erano tutte così veloci, così diffidenti, così sfuggenti. Era arrivato a colpirne alcune, ma non era stato capace di ghermirle. In preda a una disperazione crescente, guidato da segnali che riconosceva solo per necessità, aveva nuotato ancora più lontano. Aveva trovato del cibo: un po', non molto, sufficiente a stento a mantenerlo in vita. C'era stata una creatura di piccole dimensioni, che era apparsa all'improvviso sopra di lui, dibattendosi in preda al panico, e lui l'aveva ghermita, l'aveva trascinata sott'acqua, raccogliendo da un lato della bocca le parti non commestibili - la pelliccia e le ossa - come il bolo di un ruminante, e poi sputandole. C'era stata anche una creatura più grossa, più o meno delle sue dimensioni, anche lei in superficie, fuori dal suo ambiente naturale, e l'aveva ghermita dal basso, l'aveva trascinata sott'acqua e aveva cercato di divorarla. Ma era troppo grossa per divorarla tutta in una volta e la parte residua era stata trascinata via. Aveva seguito il corpo finché un'onda non l'aveva trascinata fuori dall'acqua, fuori dalla sua portata. Poi un'altra creatura, lenta ed esitante, era caduta nell'acqua, quasi alla portata dei suoi artigli, ma era scappata. I suoi circuiti programmati gli dicevano che doveva cacciare, presto e con successo, o certamente avrebbe cessato di esistere. Ora sentiva che lì vicino c'era un essere vivente. Se ne sarebbe cibato. 15 «Passa un cappio intorno alla cassa,» disse Buck. «Come se fosse un cavallo.» «Non ce la faccio, è troppo grande.» «Allora mettitici a sedere sopra. Mettiti in posa per me. Fai finta di essere su Playgirl.» A tentoni, con movimenti impacciati, Brian piegò le gambe sopra il coperchio della cassa. Per non farsi portare via dalla corrente, afferrò con una mano il pesante cavo nero che portava alla superficie.
È terrorizzato, pensò Buck mentre osservava Brian attraverso il mirino. Ancora un minuto e sarebbe andato a rifugiarsi in barca. Per distrarlo, Buck gli chiese: «Come va con l'ossigeno?» Brian prese in mano l'indicatore di livello e lo sollevò all'altezza della maschera. «Mille e cinquecento. Quanto siamo rimasti giù?» «Abbiamo ancora dieci o quindici minuti di tempo, a ogni modo.» Brian si piegò sulla superficie della cassa e fece scorrere la mano lungo il bordo del coperchio. «Come pensi di aprire questo affare?» chiese. «Non sembra che ci siano serrature da nessuna parte.» «Se è necessario, andiamo su a prendere un piede di porco.» «Supponi che ci sia qualcosa di vivo là dentro... non so, un esemplare di qualcosa.» Buck si mise a ridere. «Quella cassa potrebbe essere rimasta lì per anni. Cosa diavolo potrebbe esserci di vivo?» Finì la ripresa, poi spense la cinepresa e la lasciò pendere dalla cinghia che aveva al polso. «Su, vediamo se ci riesce di forzare questo oggetto misterioso.» Brian scivolò via dalla cassa, e mentre si appoggiava sul fondo smosse con le pinne la sabbia sottile, sollevando una nuvola di limo biancastro. Vide qualcosa che si alzava in mezzo alla nuvola per poi posarsi di nuovo sul fondo poco più in là. «Che cos'è?» disse. «Che cosa vedi?» gli chiese Buck muovendosi leggermente verso di lui. Brian si lasciò andare sulle ginocchia e frugò con le dita nella sabbia finché non incontrò qualcosa di solido. Prese l'oggetto e stette a osservarlo. «Un osso,» disse. «Che tipo di osso?» Brian lo sollevò. Era lungo circa dodici centimetri, e ricurvo. «Si direbbe una costola. Ma non so di cosa.» «Dalle dimensioni si direbbe di un cane.» «Cosa ci fa quaggiù l'osso di un cane?» «E chi lo sa,» disse Buck. «Guarda se c'è qualcos'altro.» Si inginocchiò vicino a Brian, e si misero a scavare tutti e due. Sentiva dei rumori smorzati dalla sabbia circostante. Una preda. Sentì sotto la mano il pulsante di apertura. Lo premette. Il coperchio cominciò a sollevarsi lentamente. «Guarda qui,» stava dicendo Buck. «L'osso di una mandibola. Di un ca-
ne, questo è certo; e qualcosa l'ha divorato.» Sollevò la mandibola e indicò delle incisioni nell'osso. «Questi sono segni di denti.» Buck scorse un oggetto scuro nel limo grigiastro, e allungò una mano per prenderlo. Era rotondo, nerastro e duro, più o meno delle dimensioni di una prugna. Fece scorrere un dito sulla sua superficie, prima da una parte poi dall'altra. «Che io sia dannato, Brian... è una palla di pelo... come quelle con cui giocano i gatti.» Buck si alzò in piedi e fece un passo indietro. Sollevò la cinepresa e la avviò. «Un paio di metri di pellicola, Brian, poi ce ne andiamo,» disse. «Solleva un paio di ossa e la palla di pelo. Puoi tornare alla barca, se vuoi, mentre io apro la cassa.» Scivolò fuori della cassa e si ritrovò sulla sabbia. Dato che il suo corpo non conteneva vescicole d'aria, non era privo di peso, nell'acqua, ma subiva una spinta verso il basso. Ma dal momento che, come tutti quelli della sua specie, nella sua composizione chimica c'era più del novanta per cento d'acqua, il peso negativo era di solo qualche etto. Poteva nuotare in salita quasi senza sforzo e, grazie alle membrane delle mani e dei piedi, poteva nuotare molto velocemente, poteva praticamente volare nell'acqua. Ora si alzò di scatto dal fondo e si girò verso un'estremità della cassa. Buck aveva preparato una ripresa perfetta. Brian, inginocchiato, riempiva l'inquadratura, con le due ossa in una mano e la palla di pelo nell'altra, il tutto ben contrastato contro la sabbia bianca. Buck premette il pulsante di ripresa. «Bel lavoro, Brian,» disse. «Ora sorridi, come se stessi vendendo qualcosa alla televisione.» Vide Brian che cercava di sorridere e poi guardava verso la cinepresa. All'improvviso gli occhi di Brian si spalancarono, lasciò cadere tutto quello che aveva in mano e urlò qualcosa. «Brian!» gridò Buck. «Maledizione!» Le creature erano due, non una soltanto. Erano grosse, lente e molto vicine. Rilasciò il pulsante e fece un balzo in avanti, guizzando come un delfino, con la spinta delle membrane posteriori. Coprì in meno di un secondo il breve spazio d'acqua. Da qualche parte del suo cervello intorpidito gli giunse come una memo-
ria di queste creature, una sorta di familiarità e, insieme alla memoria, avvertì un senso di determinazione: il suo compito era di uccidere queste creature. E anche se la sua fame sarebbe stata soddisfatta divorandone una sola, lui era programmato per ucciderle tutte e due. Ghermì la prima, e affondò gli artigli nella carne morbida. Brian arretrò sulla sabbia e rimase, paralizzato, con gli occhi sbarrati, mentre una nuvola di sangue - verde scuro a quella profondità - esplodeva letteralmente dalla carotide di Buck. Le gambe di Brian ebbero un fremito convulso, sollevando una nuvola di sabbia, e lui stese istintivamente le mani davanti a sé. Brian non poteva distinguere che cosa avesse aggredito Buck, ma era qualcosa di grosso e biancastro, ed era saltato fuori da qualche parte vicino alla cassa di bronzo. Attraverso l'acqua torbida scorse come dei lampi d'acciaio che laceravano a più riprese la gola di Buck, finché la testa non rimase attaccata da null'altro che ossa e tendini. Brian continuò a indietreggiare finché si rese conto che la via di salvezza non era in orizzontale ma in verticale; si dette una spinta con i piedi muovendo con forza le gambe e cercando freneticamente di afferrare il cavo ricoperto di gomma nera che conduceva su, verso la boa, in superficie. Trovò la presa e cominciò a tirarsi verso l'alto. Ma la tensione del cavo si era allentata con la bassa marea, e il peso di Brian non fece altro che recuperare il cavo allentato. Invece di spingersi in alto, stava tirando a sé il cavo. Alleggerito della tensione dall'alto, il sensore che era rimasto bloccato dietro la cassa scivolò via libero e rimbalzò sulla sabbia. Ora la barca, di sopra, andava libera alla deriva, trascinando il sensore. E Brian con lui. Brian guardò in basso e vide il corpo di Buck, ancora sanguinante, riverso sulla sabbia del fondo. Poi la cosa si voltò verso di lui. Era dotata di occhi, occhi bianchi come il gesso, senza colore. Schizzò via dalla sabbia come un razzo. Sembrava volare verso di lui. Continuando a muovere le gambe, continuando a tirarsi su con una mano, Brian allungò l'altra verso il pugnale che portava assicurato al polpaccio. Le dita cercarono a tentoni l'anello di sicurezza di gomma che tratteneva il pugnale nel fodero. L'anello si allungò, si richiuse di scatto, si allungò di nuovo e finalmente cedette. Brian estrasse il pugnale dal fodero.
La cosa continuava a volare verso l'alto, battendo l'acqua come un delfino, senza emettere alcun suono, senza lasciare bolle. I suoi artigli erano protesi contro Brian: erano dieci, tutti ricurvi come piccole scimitarre. Brian guardò in alto: la superficie non era lontana, poteva già scorgere i raggi del sole. I raggi di luce si riflettevano nel verde dell'acqua. Tornò a guardare in basso e la cosa gli era ormai addosso. Aveva la bocca aperta e la luce del sole colpì due file sovrapposte di denti triangolari e li fece scintillare come piccole stelle d'argento. Nella maschera, Brian urlò: «No!» ma nessuno poteva sentirlo. Gli artigli affondarono nella sua caviglia, straziandogli la carne e trascinandolo verso il basso. Sollevò il pugnale e prese a vibrare colpi alla cieca. Qualcosa gli ghermì il polso, e lame d'acciaio gli recisero le vene e i tendini. Il pugnale cadde lontano. Abbandonò il cavo e cercò di difendersi con l'altra mano, ma fu ghermita anch'essa, le sue braccia furono spalancate con forza e la testa spinta all'indietro. Cercò di gridare, ma, come aprì la bocca, qualcosa colpì il vetro della maschera, stordendolo. Poi sentì i denti contro la gola. L'ultima cosa che vide fu una nuvola del suo stesso sangue che si gonfiava contro i raggi dorati del sole, in una specie di nebbia arancione. Sentì che la creatura era morta. La tenne stretta con gli artigli e coi denti e iniziò a scendere a spirale, in un lento balletto di morte. Una volta sul fondo, trascinò la preda fino al punto dove l'altra giaceva riversa sulla sabbia, ondeggiando avanti e indietro nella corrente. E cominciò a mangiare. In superficie, la piccola imbarcazione fu presa nella corrente di marea. Andava veloce alla deriva, muovendosi in circolo perché era frenata dal pesante cavo ricoperto di gomma che le pendeva da prua. Rimase un poco arenata nell'acqua bassa di una scogliera, ma l'onda causata da una nave che passava al largo la sollevò dolcemente oltre gli scogli e la spinse verso la riva. 16
Chase puntò la prua del Boston Whaler versò un ormeggio libero in uno dei moli galleggianti di fronte al piccolo Yacht Club all'estremità occidentale della città. Lui non era socio del club - non giocava a tennis, non faceva regate né andava in giro con bermuda color pastello con sopra stampate delle anatre - ma conosceva da decenni la maggior parte dei soci; molti di loro gli piacevano, e non erano mai stati riluttanti a fargli usare uno dei loro preziosi ormeggi. L'acqua era liscia come l'olio a quell'ora di prima mattina, come se la brezza non avesse ancora deciso da che parte soffiare. Gli uccelli marini non erano ancora alla pastura, così i branchi di avannotti increspavano appena l'acqua mentre si affrettavano senza meta fra gli yacht all'ormeggio. Chase mise in folle la leva del cambio, poi girò la chiave e spense il motore, lasciando che la barca accostasse all'ormeggio senza far rumore. Guardò Max in piedi a prua, pronto ad attutire l'impatto col molo, e disse a se stesso: tieni la bocca chiusa, non dirgli di nuovo di stare attento a non schiacciarsi le dita fra la barca e il molo, non dirgli di non perdere l'equilibrio e di non cadere in acqua. Max piegò le ginocchia, si preparò e attutì il colpo alla perfezione, poi saltò sul molo tenendo la cima di ormeggio in una mano e la assicurò alla bitta come un marinaio esperto. Chase non fece commenti mentre suo figlio assicurava la cima di poppa; non si congratulò con Max né fece un segno di assenso per il lavoro benfatto. Ma si congratulò con se stesso nel vedere il fugace sorriso d'orgoglio di Max, perché si rese conto che stava imparando qualcosa di quasi altrettanto difficile che l'essere padre, cioè come e quando smettere di fare il padre. Passò a Max la sacca e si arrampicò sul molo. Poi si avviarono insieme verso l'area di parcheggio. Un gabbiano solitario stridette in lontananza, e da qualche parte, fra le case, abbaiò un cane. Oltre a ciò, il rumore più forte che si potesse udire era il fruscio dei loro piedi sull'erba umida di rugiada. Poi, da sopra la cima degli alberi, giunsero i sordi rintocchi della campana di una chiesa che batteva le sei. «Le sei,» disse Max, e si guardò attorno come se fosse in avanscoperta. «Non mi sono mai alzato alle sei. Mai. Cioè, da quando mi ricordo.» «A quest'ora del giorno tutto sembra nuovo e pulito,» disse Chase. «È l'ora in cui si ha fiducia nella propria sorte.» «Sarei dovuto venire con te già da prima.» Max fece per dire ancora
qualcosa, esitò, respirò e disse: «Sei preoccupato per i soldi, non è vero... perché forse puoi perdere l'isola?» «Non alle sei di mattina, proprio no.» Chase sorrise. «Non è possibile preoccuparsi dei soldi alle sei di mattina.» Raggiunsero il parcheggio; Chase si appoggiò contro il muro della Club House e cominciò a sgranchirsi cosce e polpacci mentre Max apriva la chiusura lampo della sacca e sparpagliava sull'asfalto il suo equipaggiamento. I primi giorni che Max aveva trascorso con lui, Chase era andato a correre da solo, svegliandosi automaticamente, come sempre, alle cinque o alle cinque e mezzo e facendo sei volte il giro dell'isola, una corsa di due miglia, più o meno. Poi si era fatto la doccia e la barba, si era vestito e aveva fatto colazione, per essere dietro la scrivania all'ora in cui Max si alzava dal letto, le otto o le nove, imbronciato e silenzioso finché la signora Bixler non gli dava la sua razione di glucosio e proteine. La notte precedente, senza un motivo apparente, Max aveva chiesto se, la mattina dopo, poteva andare con suo padre. «Certamente,» gli aveva risposto Chase. «Perché?» «Non voglio perdere neanche un'occasione.» «Non perdi niente. Ti limiti a soffiare e sbuffare.» «Ma poi ti senti alla grande, no?» «Nelle belle giornate, sì. Butti fuori la betaendorfina e ti senti benissimo.» «Allora,» aveva detto Max, «voglio venire con te.» Chase non aveva forzato il ragazzo, perché all'improvviso, come una benedizione, aveva capito cosa Max intendesse davvero, e cioè che aveva a disposizione un mese per stare con suo padre e, sebbene ancora non gli fosse chiaro cosa stesse cercando, per scoprire delle cose, trovare delle risposte, risolvere enigmi a proposito di se stesso. Trenta giorni per porre riparo a otto anni. Come un archeologo che scavi alla ricerca delle tracce di un popolo estinto, Max era intenzionato a grattare via le sovrastrutture di anni per scoprire chi era e da dove era venuto. L'unico problema era che Max, in effetti, non aveva nessuna intenzione di correre. Voleva pattinare, perché il suo allenatore gli aveva detto che quello era, per lui, il miglior sistema per migliorare il pattinaggio su ghiaccio e avere così un'opportunità di entrare nella squadra di hockey l'inverno venturo. Questo significava andare in città, perché non c'erano superfici a-
sfaltate a Osprey Island, e di conseguenza nessun posto dove si potesse pattinare per più di un paio di metri. Chase era stato tentato di convincere Max a correre con lui sull'isola, sostenendo che consumare benzina in cerca di asfalto, piuttosto che correre sull'erba e sui sassi, era una specie di degenerazione. Ma nel momento stesso in cui aveva formulato queste parole nella mente, aveva compreso che avrebbe fatto la figura di un emerito rompiscatole. Così avevano preso il Boston Whaler e avevano lasciato l'isola all'alba diretti a Waterboro. Mentre il motoscafo planava sull'acqua piatta, Chase aveva avuto la spiacevole sensazione che qualcosa non andasse... che mancasse, che fosse fuori posto o soltanto... sbagliata. Non sapeva che cosa fosse, ma comunque era lì, da qualche parte, nella sua mente. La sua boa. Ecco di che cosa si trattava. La boa che lui e Tall Man avevano lasciato in mare l'altro giorno per segnalare la testa del sensore. Intendevano tornare a recuperare il sensore, ma il compressore aveva bisogno di un pezzo in arrivo da New London, e così erano senza ossigeno. Erano stati occupati con altre cose; dopotutto il sensore non se ne sarebbe andato via. Ma dove era finita la boa? Avrebbe dovuto vederla mentre si avvicinavano a Napatree Point, ma non l'aveva vista e ora erano oltre Napatree, e mentre guardava a est fu accecato dai raggi del sole nascente. Decise di non pensarci; la boa era certamente al suo posto, l'avrebbero trovata sulla via del ritorno. Chase finì gli esercizi di riscaldamento e si finse indaffarato a fare un nodo doppio alle scarpe da jogging e a sistemarsi le fasce elastiche alle ginocchia, mentre osservava Max intento a indossare il suo complicato equipaggiamento: ginocchiere, salvagomiti, casco e, alla fine, un paio di stivaletti neri alti, allacciati fino alla caviglia, con applicate alle suole delle rotelle gialle di gomma. Il ragazzo aveva l'aspetto di un robot uscito da un film di serie B. Chase si limitò a dire: «Non è pericoloso, vero?» «Ma certo che no.» «E allora come mai tutte quelle imbottiture?» «Be'... può essere un po' duro fermarsi.» «Così saresti una specie di treno senza controllo.» Chase sorrise. «Okay, killer, avviamoci.»
«Dove?» «Non hai ancora visto la città.» Chase fece un gesto con la mano. «Faremo un cerchio: giù per Beach Street fino alla punta, poi indietro su per Oak Street e qui di nuovo. È più di un miglio. Se poi ti sentirai ancora i piedi, potremo volare giù per Route One e ritorno.» «Okay.» Max stava dritto sull'erba tremando sulle gambe come un vitellino appena nato, e mosse dei passi incerti sull'asfalto. Appena ebbe appoggiato un piede sul terreno duro, scivolò in avanti, barcollò, agitò le braccia come un mulino a vento, vacillò ancora, spalancò le braccia e recuperò l'equilibrio. Fece un timido sorriso. «Sono un po' arrugginito,» disse. «E questo sarebbe uno sport?» esplose Chase fingendosi allarmato. «Ehi, vuol dire che dopo colazione potremo fare un incontro amichevole alla roulette russa.» «Stai a vedere,» disse Max, e si piegò in avanti, si spinse con un piede, fece un paio di passi lunghi e slanciati, aprì le braccia e, mentre Chase osservava sorpreso, descrisse un elegante cerchio intorno al parcheggio. Poi sollevò un pugno in segno di trionfo e pattinò verso la strada che portava in città. Chase avrebbe voluto gridargli degli avvertimenti a proposito del traffico, dei pedoni; indicandogli, insomma, tutti i pericoli del crescere troppo in fretta, ma si trattenne. Fece due o tre respiri profondi e cominciò a correre. Non appena ebbe superato il lieve pendio che conduceva in città, avvertì il profumo delle focacce alla cannella e della pancetta fritta che usciva dai due ristoranti della Beach Street dove andavano a mangiare gli operai che facevano il turno del mattino alla Electric Boat. Non c'era traffico a quell'ora, così prese a correre in mezzo alla Beach Street e salutò con la mano Sally, che stava esponendo le sue verdure davanti al mercato cittadino, Lester, che scaricava casse di birra dal camion sul retro del suo negozio di liquori, e Earl, che aveva venduto giornali, riviste, sigarette, gomma americana ed edizioni tascabili nello stesso emporio da molto prima che Chase nascesse. Tutti ricambiarono il suo saluto, tutti avevano una parola per lui, e Chase improvvisamente si dispiacque di non venire in città più spesso. Questa era la sua casa, la sua casa era la gente, e si domandava se l'amore per la sua isola non stesse diventando malsano, non lo stesse trasformando in un recluso. Passò di corsa in Veteran Square davanti al vecchio edificio della banca
che esponeva ancora la logora bandiera che aveva sventolato sulla punta quando gli Inglesi, in un soprassalto di fantasia maligna, avevano bombardato Waterboro durante la guerra del 1812. Chase raggiunse Max all'estremità della punta, dove rimasero un momento a godersi il sorgere del sole. Poi fecero dietrofront e, mentre Max zigzagava davanti a suo padre come se attraversasse un campo minato, si spinsero in una serie di stradine secondarie finché uscirono in Oak Street, con le sue case imponenti dei vecchi capitani di mare, che rimanevano dai tempi gloriosi della caccia alle balene. Oak Street era lunga, diritta, ampia e deserta. «Adesso ci do sotto,» disse Max. «Ci vediamo al Club.» «D'accordo. Solo fai at...» Ma Max era già andato, spingendo con forza le gambe in avanti, muovendo ritmicamente le braccia, a testa bassa, la schiena curva, e le rotelle di gomma che sibilavano sull'asfalto. Chase scattò dietro di lui, più per fare esercizio che per l'effettiva speranza di raggiungerlo, ma dopo due isolati era senza fiato, e rallentò tornando al suo ritmo normale. Max tirò via, un isolato più avanti, poi due, finché divenne solo un punto scuro che scendeva in velocità giù per la strada ombrosa. Chase vide per primo la ragazza, la vide uscire dalla porta di casa, poi voltarsi a chiudere la porta e attraversare il marciapiede - non guardava la strada ma dentro il suo zainetto - e avviarsi per attraversare. Chase gridò ma le sue parole furono disperse dal vento. Probabilmente Max non la vide neppure, perché teneva la testa bassa; certamente non la udì, perché l'imbottitura del casco gli premeva stretta contro le orecchie. Chase vide la ragazza alzare di scatto la testa, lo zainetto caderle dalle mani, e le braccia alzarsi davanti alla faccia. A quel punto, Max doveva essersi accorto di lei, o in qualche modo avvertì la sua presenza, perché sbandò sulla destra e cercò di girare. I piedi dovevano essersi urtati fra loro, o incrociati, perché si bloccarono all'improvviso e la parte superiore del corpo catapultò in avanti. Un braccio colpì la ragazza e la spinse contro una macchina parcheggiata. Rimbalzò contro la macchina e cadde in mezzo alla strada in un turbinio di cotone azzurro. Chase vide Max volare per un momento con un movimento lento e arcuato e poi cadere come un uccello ferito, colpendo il suolo con le ginoc-
chia, poi con i gomiti e, alla fine, con la testa. Ebbe un sussulto, poi giacque immobile. Chase fece uno scatto, la sua mente imprecava e pregava, mentre i polmoni ansavano in cerca di ossigeno. Vide la ragazza aggrapparsi al paraurti di una macchina e tirarsi in piedi. Si avvicinò a Max, gli si inginocchiò accanto e gli toccò la faccia. Max si mise a sedere, si guardarono e Max disse qualcosa. La ragazza scosse la testa. Chase vide la ragazza girare la testa nella sua direzione, saltare in piedi alla sua vista, afferrare lo zainetto e, con un ultimo sguardo a Max, sparire in un vialetto fra due case. Quando Chase raggiunse Max, la ragazza era già scomparsa. Max stava a terra carponi. Allungò una mano, Chase la afferrò e lo aiutò ad alzarsi, tenendogli un braccio intorno alla vita per sostenerlo. «Va tutto bene?» «Certo.» Max sorrise debolmente. «Ecco il motivo delle imbottiture.» Indicò le ginocchia, e Chase vide che il tessuto che rivestiva le ginocchiere era strappato. «Cosa è successo alla ragazza?» «Sta bene... solo un po' scossa.» «Te lo ha detto lei?» «No... non esattamente.» Max corrugò la fronte, come se cercasse di ricordare quello che aveva detto la ragazza. «Allora come fai a sapere che sta bene?» «Non lo so... so solo che...» «Max...» Chase sentiva che stava per arrabbiarsi, e si sforzò di tenere la sua irritazione sotto controllo. «Guarda che hai letteralmente steso quella ragazza. Forse si è fatta male e neppure lo sa. Forse adesso sta cercando un dottore.» «No, non si è fatta male,» disse Max calmo. «Perché è corsa via?» «Non lo so.» «Che cosa ha detto?» «Niente.» «Cosa significa, niente? deve avere detto qualcosa... non so, 'va tutto bene' o 'come va?' o 'perché non guardi dove vai?'» «No,» disse Max. «Non ha mai aperto bocca. Mi è venuta vicino e io le ho detto: 'mi dispiace moltissimo, ti sei fatta male?' E lei si è limitata a
toccarmi la faccia e a sorridere. Ma era come se parlasse, come se, nella testa, io potessi comunque sentire le sue parole.» «Quali parole?» «Non ne sono sicuro, forse non erano parole vere, ma una specie di sensazione... qualcosa come 'non preoccuparti' e 'sono contenta che non ti sia fatto male'.» Max fece una pausa. «Poi ti ha visto ed è corsa via.» «Cristo, non sappiamo neppure chi sia. Non ho notato da quale casa è uscita.» Chase gettò un'occhiata nel viale come se si aspettasse di vedere la ragazza, ma il viale era deserto. Poi si girò di nuovo. «Bene,» disse, indicando i pattini di Max. «Vuoi toglierti quegli affari, che ce ne torniamo a piedi fino al Club?» «No, sto bene, lasciami andare. Il problema è questo casco. Non l'ho neppure sentita.» «Allora, stammi vicino. Sarò le tue orecchie e i tuoi occhi.» «Bene,» disse Max. «Ti girerò attorno, come se fossi la tua guardia del corpo.» Chase sorrise. «Fantastico; e forse potremo dividere la stessa stanza nel reparto di rianimazione dell'ospedale.» E gli dette una gomitata. Arrivati in fondo alla strada, Chase dovette scegliere: potevano andare avanti, ritornare al club, prendere la barca e fare ritorno all'isola, o concedersi un po' più di tempo, fare ancora un po' di esercizio, correndo in mezzo alle piccole strade secondarie nella parte est della città. Saltellando sul posto, dette un'occhiata a Max che pattinava avanti e indietro e faceva finta di inseguire un dischetto con un immaginario bastone da hockey, e concluse che, decisamente, il ragazzo non si era fatto niente e poteva continuare l'allenamento. Così girò alla destra di Oak Street e corse in direzione del grande fabbricato di mattoni rossi che una volta era stato la scuola della città e ora era un condominio. La strada era chiusa da un alto muro di mattoni a fianco del fabbricato. Normalmente, Chase avrebbe girato parecchi metri prima dell'estremità del cul de sac, ma nella baia, dall'altra parte, vide un branco di rondini di mare alla pastura, e i raggi del sole, sul loro piumaggio bianco e sugli schizzi d'acqua che sollevavano tuffandosi, sembravano una cascata di diamanti. Si avviò verso il muro, indicando le rondini di mare a Max, che gli sfrecciò vicino e si arrestò con un brusco movimento semicircolare. Si fermarono a osservare, per un momento, le rondini di mare, poi si girarono per andare via, e Chase, proprio mentre distoglieva la vista dall'ac-
qua, vide qualcosa in superficie, in mezzo alle rocce. Si fermò. «Che cosa c'è?» chiese Max. «Non ne sono sicuro.» Chase guardò ancora, osservando con cura la striscia sottile di ciottoli e roccia. Max si sporse sul muro, accanto a lui. «Che cosa stai guardando?» «In mezzo a quelle alghe,» disse Chase facendo segno con un dito. Un'onda sollevò il mucchio di alghe e lo avvicinò alla spiaggia di un paio di metri. «Papà!» gridò Max. «Ma è una mano!» 17 Aveva le dita serrate ad artiglio come se il suo proprietario, chiunque fosse stato, avesse cercato di arrampicarsi da qualche parte, di afferrarsi a qualcosa o di combattere contro qualcuno, nel momento stesso della morte. «Resta qui,» ordinò Chase, e si issò sul muro, passò le gambe dall'altra parte e si lasciò cadere sul sentiero sassoso. «Ma, papà...» disse Max, che già si stava slacciando i pattini. «Resta lì!» Mentre camminava in direzione del mucchio di alghe, Chase cercava di ricordare se, per caso, avesse sentito parlare della scomparsa di qualcuno. Poi si chiese quanto impiegasse il corpo di un annegato a tornare in superficie di nuovo. Succedeva così, lui lo sapeva bene: dopo un po' si formavano dei gas nel corpo, e quando i gas si dilatavano, il corpo tornava a galla. Il mucchio di alghe era grosso, e ricopriva un notevole specchio d'acqua. Chase non voleva toccare la mano - forse era tutto quanto era rimasto, o forse c'era dell'altro, ma certo così malridotto che la mano aveva finito con lo staccarsi - così si servì della scarpa da corsa per spostare da un lato le strisce gommose delle alghe. Allora vide una testa, e quel che era rimasto di una faccia, e un conato di bile gli salì alla gola e gli riempì la bocca. Cadde sulle ginocchia, tossendo e sputando. La pelle era bianco grigiastra; gli occhi, i lobi delle orecchie e le labbra erano spariti. C'erano altre parti del corpo, sparse in mezzo alle alghe; non era rimasta neppure una goccia di sangue, solo brandelli di carne bianca inframmezzati con le strisce di una muta di neoprene. «Chiama la polizia,» ordinò a Max. «Vai giù a Beach Street, all'ufficio informazioni, e dì a Earl di chiamare la polizia.»
«Chi... chi è?» «Non lo so.» «Che cosa è successo?» «Ma vai, adesso!» disse Chase, e, subito dopo, udì il rumore dei pattini di Max sull'asfalto. Quando pensò di poter guardare senza sentirsi male, Chase si fece più vicino. La faccia era irriconoscibile, ma c'era qualcosa di familiare nella mano. L'orologio. L'orologio al polso della mano rattrappita era uno di quegli orologi da sommozzatore che fanno di tutto tranne che tirarvi su le calze: dicono l'ora di qualunque parte del mondo, hanno indicatori per l'ora di partenza, per il tempo di un giro di pista e per le fasi lunari. Era l'orologio di un maniaco di gadget, e lui lo aveva già visto. Ma dove? Gli venne in mente: al Waterboro Lumber, con in mano una lattina di birra. Lui aveva fatto un commento sull'orologio e il proprietario aveva insistito per illustrargliene tutte le funzioni e gli aveva spiegato come fare per ordinarne uno. Buck Bellamy, ecco chi era. Possibile che questo fosse tutto quello che restava di Buck Bellamy? E perché? Buck era un marinaio esperto, un sommozzatore con tanto di diploma, e alle scuole superiori aveva partecipato a gare di nuoto. Si stava immergendo, la muta ne era la prova. Ma che cosa poteva averlo ucciso? Forse aveva respirato dell'aria cattiva... La gente era spesso trascurata a proposito di quello che metteva nelle bombole, e moriva per avvelenamento da monossido di carbonio. Forse aveva avuto un attacco cardiaco o un colpo, o era stato tagliato a fette dall'elica di una barca, oppure... Dio solo lo sapeva. Chase continuò a far pulizia in mezzo alle alghe, e vide l'altro braccio. La carne fra il gomito e la spalla era sparita del tutto e c'erano dei segni profondi nell'osso della parte superiore del braccio, come se un grosso pesce o un piccolo squalo lo avesse addentato e lo avesse scosso da una parte e dall'altra, per rosicchiarlo come fa un cane quando l'osso è troppo grosso per essere frantumato. Intorno al polso aveva una stringa e, attaccata alla stringa, c'era una custodia d'acciaio con dentro una cinepresa. «Sei tu che devi dirmelo, Simon,» stava dicendo il capo della polizia Roland Gibson. «Tu sei l'esperto di squali. Che razza di squalo può fare un
lavoro come questo?» «Nessuno,» rispose Chase. «Nessuno che io conosca. Non da queste parti, almeno.» Stavano seduti nell'ufficio di Gibson alla stazione di polizia sulla Route One. Foto polaroid dei resti di Buck Bellamy erano sparse sulla scrivania di Gibson e la cinepresa di Buck era stata collegata a un televisore situato in una libreria. Una macchina della polizia era arrivata entro cinque minuti, un'ambulanza qualche minuto più tardi; e, nel tempo necessario perché quel che restava del cadavere fosse fotografato, messo in un sacco e trasportato a New London per le analisi del medico legale, una piccola folla si era radunata accanto al muro di pietra. Su richiesta di Gibson, Chase e Max erano stati accompagnati alla stazione di polizia, e le loro dichiarazioni erano state verbalizzate. Ora Max se ne stava seduto nell'ingresso, mentre Chase e Gibson parlavano. «Molto bene, Simon,» disse Gibson. «Prima mi dici che sembra l'attacco di uno squalo, poi mi dici che qui attorno non ci sono squali che attaccano l'uomo.» «Non ho detto che è stato uno squalo ad attaccarlo, Rollie, ho solo detto che si direbbe che uno squalo lo abbia morso... dopo che Buck era morto.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Gli attacchi degli squali sono rari comunque, e assolutamente sconosciuti da queste parti. Un uomo ha maggiori probabilità di essere ucciso da un gatto selvatico o dal maiale di un contadino, piuttosto che da uno squalo. Per il motivo che, da queste parti, gli squali pericolosi sono dannatamente pochi. Gli squali da sabbia pasturano sul fondo; non attaccano mai un nuotatore, lasciano in pace un subacqueo, ma potrebbero azzannare un cadavere sul fondo. I mako sono scarsi, sono dei solitari, vivono nelle acque profonde e seguono i branchi di pesci, tonni o jack. Le probabilità che un mako se ne vada a gironzolare nelle acque basse sono di una contro un milione, specialmente se si tratta di acque basse e torbide come quelle qui attorno. Uno squalo azzurro è una possibilità; uno squalo azzurro può aggredire una persona che sta sanguinando, e se un branco assale qualcuno, lo fa a pezzi. Ma abbiamo visto la prova: i segni dei morsi sono molto chiari.» «E a proposito dei grandi squali bianchi? Ce ne sono in giro. Me l'hai detto tu stesso.» «Qualche volta,» rispose Chase, che non voleva dire a Gibson dello
squalo che lui e Tall Man avevano etichettato solo la settimana precedente. L'ultima cosa che desiderava era una vendetta di massa contro gli squali bianchi, da parte di un'armata di ignoranti assetati di sangue. «Ma di rado... quasi mai. E, al diavolo, se un grande squalo bianco avesse voluto mangiarsi Buck, lo avrebbe mangiato. Punto e basta. Se lo avesse attaccato per errore, magari scambiandolo per una foca - i sommozzatori con la muta venivano spesso scambiati per foche dagli squali - Buck sarebbe stato probabilmente tagliato in due. Potremmo trovare l'altra metà o potremmo non trovarla ma, se succedesse, i segni dei morsi sarebbero inequivocabili: delle grandi, cattive mezze lune. Certamente non lo troveremmo con la gola tagliata e la carne strappata via qua e là come se fosse stato servito a un banchetto.» Per un po' Gibson rimase in silenzio. «Immagino che dovremo aspettare quel che dice il medico legale. Forse, come dici tu, Buck è semplicemente morto. Capita, alla gente.» Qualcuno bussò alla porta ed entrò un agente. «Hanno trovato il fratello di Buck, capo,» disse. Esitò e aggiunse: «Alla Seagull Point». «Che cosa ti succede? Hai un aspetto orribile.» «È morto, anche lui. Semidivorato. Proprio come Buck. L'unica differenza è che questo, Brian, aveva il fodero di un pugnale assicurato al polpaccio.» «Solo il fodero?» chiese Gibson. «Senza il pugnale?» «Niente, il pugnale era sparito. Il fodero aveva anche uno di quegli anelli di sicurezza, per cui il pugnale non può essere caduto.» «Il che significa che Brian lo ha estratto, lo teneva impugnato.» Gibson lanciò un'occhiata a Chase. «Un po' troppo per delle cause naturali, non ti pare?» Poi fece un cenno col capo all'agente. «Okay, Tommy.» «C'è qui fuori Nate Green che vuole vederla.» «Merda, lo sapevo che la fottuta stampa ci avrebbe ficcato il naso.» Gibson sospirò. «Sarà meglio che tu lo faccia entrare, altrimenti si spargerà la voce in tutto il Connecticut che c'è in giro Hannibal il Cannibale che si mangia la gente.» Quando l'agente fu uscito, Gibson si rivolse a Chase. «Almeno si tratta di Nate e non di qualche esaltato a caccia del premio Pulitzer. Posso tenere Nate in riga con la promessa dell'esclusiva e un paio di whisky.» Nate Green, un reporter del Chronicle di Waterboro, era un veterano con trent'anni di esperienza che un tempo aveva avuto l'aspirazione di lavorare per un quotidiano di una grande città ma aveva poi conciliato il modesto
talento con una vita confortevole sulla riva del mare. Green entrò nella stanza e si chiuse la porta dietro le spalle. Aveva passato i cinquanta, era grasso e soffice e una miriade di venuzze dovute all'alcol gli disegnavano sul naso e sulle guance un reticolo simile a quello di una carta stradale. «Sento che c'è eccitazione in giro,» esordì mentre sorrideva a Gibson, stringeva la mano a Chase e si metteva a sedere nella sedia vuota di fronte alla scrivania. «Può darsi,» disse Gibson.»Ma fammi un favore, Nate. Non saltiamo subito a certe conclusioni.» «Ho sentito che Buck aveva con sé una cinepresa.» Dopo un attimo di esitazione, Gibson rispose: «Sì, ma è rimasta troppo in acqua e la pellicola si è bagnata. Forse invece è stato uno dei miei geni mentre la scaricava, non lo so. A ogni modo, non c'è un gran che.» «Ti dispiace se do un'occhiata?» «Solo perché mi fido di te.» Gibson fece un cenno a Chase, che si alzò, accese il televisore e premette il pulsante «play» del videoregistratore. «Ma tieni tutto questo per te. Non sappiamo con esattezza quanto è successo qui.» «Mi conosci, Rollie,» ribatté Green. Un'immagine sfocata di Brian Bellamy apparve sullo schermo, mentre la pellicola procedeva a scatti e a salti come se il segnale non fosse stato fissato. Sembrava che mostrasse qualcosa davanti alla cinepresa. Si udì la voce di Buck che diceva a Brian di sorridere. Poi l'espressione di Brian cambiò di colpo. Sbarrò gli occhi, spalancò la bocca e lasciò cadere quello che teneva in mano mentre gridava parole incomprensibili. «Si direbbe che abbia visto qualche cosa,» fece notare Green. «Sì,» disse Chase, «ma che cosa?» Sentirono la voce di Buck che diceva: «Brian! Maledizione!» «Ascoltate questo,» disse Gibson. «Buck impreca contro di lui, come se Brian si fosse messo a fare casino in giro... o gli avesse dato di volta il cervello.» All'improvviso la cinepresa inquadrò il fondo sabbioso e lo schermo diventò scuro. Poi ci fu un rumore di voci concitate e di grida, e la cinepresa riprese a filmare a scatti, girando attorno in una nuvola sfocata. L'acqua aveva assunto una tonalità verdastra. «Che cos'è?» chiese Green. «Potrebbe essere sangue,» gli spiegò Chase, «dipende dalla profondità.
Sotto i quindici metri il sangue sembra verde.» La cinepresa inquadrò di nuovo il fondo, questa volta con un movimento più lento, come se fosse stata lasciata andare, e sullo schermo non si vide altro che acqua. Si udì un'ultima parola, una voce che gridava: «NO!» Green chiese: «Chi era?» Chase rispose: «Non lo sappiamo». «Fallo passare ancora, Simon,» disse Gibson. Chase riavvolse il nastro e proiettò di nuovo la scena. Quando fu terminata, Gibson disse: «Si direbbe quasi che Brian abbia ucciso Buck». «E allora chi ha ucciso Brian?» chiese Chase. «Può essere che si siano uccisi l'uno con l'altro.» Green scosse la testa. «Non ha senso. Erano uniti come possono esserlo due fratelli. Brian adorava il fratello. Perché avrebbe dovuto ucciderlo?» «Droga,» disse Gibson. «Brian aveva avuto una storia. Potrebbe aver avuto una ricaduta ed essere andato fuori di testa.» «No, Brian era spaventato a morte dalla droga; frequentava tutti i gruppi e le associazioni antidroga possibili... Sarebbe andato perfino in chiesa, se fosse stato necessario. Mi ricordo di un giorno che stavo facendo benzina, e lui mi disse che aveva già distrutto tante delle sue cellule cerebrali che intendeva prendersi cura di quelle che erano rimaste. Una birra di quando in quando era tutto quello che si concedeva. I ragazzi Bellamy che si ammazzano l'uno con l'altro? No, Rolly, non ha alcun senso.» «Hai un'idea migliore?» Gibson si appoggiò all'indietro sulla sedia e si mise a guardare il soffitto. «È proprio un mistero, si direbbe,» replicò Green. «Generalmente le morti misteriose fanno vendere un sacco di copie.» «E terrorizzano la gente, anche,» aggiunse Gibson. Dopo una lunga pausa, Gibson fece il gesto di guardare l'orologio, e si alzò in piedi. «A proposito di distruzione delle cellule cerebrali... sono solo le nove e mezza del mattino ed è già stata una giornata fottuta.» Prese una chiave dalla tasca e aprì il cassetto di fondo di un armadio, ne tirò fuori una bottiglia di scotch e una pila di bicchieri di carta, quindi ritornò alla scrivania. Versò due dita di whisky in un bicchiere, lo passò a Green, poi ne versò un altro e lo offrì a Chase che scosse la testa. Ne bevve lui stesso un sorso, poi si stese di nuovo all'indietro sulla sedia. «Hai a casa qualcuno per la Benedizione della Flotta, Nate?» «Mia sorella con i ragazzi. Troveranno certo qualche scusa per rimanere
tutta la settimana.» Green sorseggiò il whisky. «Gesù.» Chase non capiva perché Gibson si fosse messo a parlare all'improvviso della Benedizione, ma non aveva voglia di ascoltarlo. Si piegò in avanti come per alzarsi, fece per dire qualcosa, ma Gibson lo fermò. «Dicono che sarà la più grande manifestazione della Benedizione che ci sia mai stata, con la gente che viene da tutte le parti, specialmente ora che il Casinò dà loro qualcosa da fare la sera e quando piove.» «Così dicono,» disse Green. «Per noi può essere una vera iniezione ricostituente.» «Ah, certo.» Chase capì dove intendeva andare a parare Gibson, e gli fu chiaro che doveva restare lì ad ascoltare. «Ora, Nate,» continuò Gibson, «capisco che tu debba riempire tutte quelle colonne, e allora perché non lasci che Simon e io ti diamo una mano con una logica dei fatti?» «Okay.» «Anzitutto, non c'è ragione di affermare che si tratta dell'attacco di uno squalo. Simon mi ha appena rilasciato una deposizione in proposito, non è vero Simon?» «Più o meno,» rispose Chase. «Ho detto...» «E la pellicola,» continuò Gibson rivolto a Green. «Ricordati che sei l'unico che l'ha vista. È un'esclusiva, e dovresti essere d'accordo che chiaramente a Brian ha dato di volta il cervello all'improvviso.» «O che ha visto qualcosa che gli ha fatto dar di volta il cervello.» «Visto che cosa? Il fantasma di Babbo Natale?» Gibson scoppiò in una risata. «Bene, questo è il punto.» «Ecco il mio punto di vista: laggiù non c'era niente da vedere. L'unica conclusione a cui può arrivare una persona ragionevole è che Brian ha avuto un'allucinazione da LSD o qualcosa del genere, ha attaccato Buck ed è rimasto ucciso lui stesso nella lotta.» «E da cosa è stato causato tutto quel sangue?» «Dal pugnale di Brian.» «Brian aveva un pugnale?» «Ma certo,» disse Gibson. «Non te lo avevo detto? Assicurato alla gamba. Ma quando lo hanno trovato il pugnale non c'era più. Ecco un'altra esclusiva per te.» Green appoggiò il bicchiere sulla scrivania e si volse a guardare Chase.
«Tu cosa ne pensi, Simon?» «Non so cosa pensare,» disse Chase. «Ma tutto questo mi sembra un po'...» «Hai una spiegazione migliore?» lo interruppe brusco Gibson. «No,» gli rispose Chase, che in realtà non ne aveva. Tutto ciò su cui poteva giurare, se mai fosse stato necessario, era che nessuno dei due uomini era stato ucciso da uno squalo... almeno non da uno squalo di cui lui avesse sentito parlare. «Allora hai tutto, Nate,» disse Gibson. «E sei un giornalista troppo bravo per andartene in giro armato di un mucchio di congetture fantasiose.» Green fece una pausa, poi aggiunse: «Mi farai sapere i risultati dell'esame medico legale?» «Non appena ci mandano il certificato sulle cause della morte.» Gibson versò ancora del whisky nel bicchiere di Green. «Ma sono pronto a scommettere un dollaro contro un cent che sarà morte causata da un oggetto tagliente. Mi sembra che sia una lezione utile, per i tuoi lettori: tossicodipendenti e psicolabili non dovrebbero fare immersioni subacquee.» Furono interrotti nuovamente dall'agente Tommy che si rivolse a Chase: «C'era una chiamata per lei». «La prendo fuori,» disse Chase alzandosi. «No, è andata,» precisò l'agente. «Era la signora Bixler. Mi ha detto di riferirle che la Sirenetta è arrivata.» «Bene. Grazie, Tommy.» Poi Chase si rivolse a Gibson: «Tre mesi di rinvio della prigione per debiti... almeno lo spero». E si girò per uscire. «Simon...» Gibson lo fermò. «Allora, siamo tutti d'accordo, qui, okay? Voglio dire, nel caso che qualcuna di quelle mezze cartucce di giornalisti della TV ti telefonasse e volesse tirare fuori un caso eccezionale da questa storia.» «Stai tranquillo, Rollie.» «Bene.» Gibson sorrise. «Il tuo istituto si sta guadagnando una gran bella reputazione. Sarebbe un peccato se tu la offuscassi andando in giro a curiosare nelle faccende della polizia.» Chase lasciò la stanza con una spiacevole sensazione. Prima di arrivare all'ingresso, aveva la certezza di essere stato minacciato. L'agente stava aspettando nell'ingresso con Max, pronto ad accompagnarli alla loro barca. «C'era una delle vostre boe a circa un centinaio di metri da dove hanno trovato Brian,» disse l'agente. «Un cavo di gomma con un qualche conge-
gno elettronico all'estremità. Gli ho detto di lasciarlo lì, che l'avreste preso tornando a casa.» «Grazie,» disse Chase. «Deve essersi liberato da dove era rimasto impigliato.» Quando furono in macchina, Max si piegò in avanti dal sedile posteriore e disse a Chase: «L'ho trovata». «Chi?» «La ragazza. Quella che ho quasi investito.» «Cosa vuol dire che l'hai trovata?» «Nel giornale, prima, mentre ti aspettavo. C'era una fotografia, qualche premio che ha vinto. Lo sapevo che c'era un motivo perché non mi ha sentito arrivare. È sorda.» «Chi è?» «Si chiama Elizabeth.» 18 Chase diminuì la velocità del Boston Whaler mentre si avvicinava all'estremità della bassa lingua di terra chiamata Seagull Point e diresse la prua a riva, così da poter incrociare in prossimità della spiaggia. Il corpo di Brian era stato trovato più o meno a metà strada dalla penisola; e il cavo di Chase avrebbe dovuto trovarsi da quella parte o poco più giù. Max stava in piedi a prua, e si teneva in equilibrio con una cima fissata a una galloccia. «Come dovrebbe essere?» chiese. «Contro quella sabbia bianca, dovrebbe risaltare come un serpente nero lungo cento metri.» Seagull Point era stata, a suo tempo, una proprietà privata, poi una spiaggia demaniale; ora era un santuario per gli uccelli. Ci nidificavano i gabbiani e le rondini di mare; e, sebbene la gente attraccasse spesso con la barca per fare il bagno o il pic nic, chiunque si avventurase all'interno, al di là delle dune, rischiava lacerazioni al cuoio capelluto a causa degli attacchi in picchiata degli uccelli che difendevano i loro piccoli. Chase poteva sentire gli uccelli che si lanciavano i loro striduli richiami, e li vedeva compiere ampi giri sui loro nidi, ma notò che nessuno di loro si tuffava o galleggiava sull'acqua. Si chiese perché. D'abitudine, in una giornata così calma, dozzine di uccelli sarebbero stati posati sull'acqua, in attesa di un segnale da parte delle sentinelle che li avvisassero dell'arrivo dei branchi di pesci esca.
«Guarda!» disse Max, indicando un punto a dritta di prua. Chase si voltò, seguendo il dito di Max, mise la barca in folle e la lasciò accostare. Vide qualcosa di bianco sulla superficie che scivolò lungo il fianco della barca finché Chase si sporse oltre il bordo e l'afferrò. Era un gabbiano morto e galleggiava a pancia in su. Dapprima Chase pensò che fosse tutto intero, ma, quando lo ebbe sollevato per una zampa, si accorse che il gabbiano non aveva la testa. «Ehi!» disse Max sussultando. Chase esaminò il mozzicone del collo del gabbiano. Cercava segni di denti, squarci, o qualunque altro indizio che potesse dirgli che cosa aveva decapitato il gabbiano, ma non c'era niente. Per quel che poteva vedere la testa era stata semplicemente strappata dal collo. «Ce n'è un altro!» esclamò Max. Chase lasciò cadere il gabbiano morto sul fondo della barca e ingranò la marcia. Il secondo gabbiano galleggiava in posizione verticale, con la testa piegata in avanti. Sembrava addormentato, ma stava troppo basso nell'acqua, e ondeggiava senza controllo. Chase lo afferrò per il collo e lo rovesciò. Le gambe gli erano state strappate via, e aveva una larga ferita nel ventre. «Che diavolo...» disse Chase. «Pesci azzurri?» chiese Max. «No, i pesci azzurri avrebbero portato a termine il lavoro, avrebbero mangiato l'intero uccello.» «E allora? Chi può essere stato?» Chase scosse la testa. «Non capisco. Non riesco a capire nulla di tutto questo.» Max si alzò in punta di piedi sulla prua, sostenendosi con la cima, e guardò verso la spiaggia. «C'è il nostro cavo,» disse. «E degli altri uccelli. Tanti altri. Nell'acqua.» Chase mise la prua in direzione della spiaggia e dette gas. Quando fu nell'acqua bassa, spense il fuoribordo, lo sollevò e lo bloccò perché l'elica non si incagliasse nella sabbia. La barca aveva abbastanza spinta da superare il bagnasciuga e affondare la prua nella sabbia asciutta. Era come navigare in una macelleria. Uccelli morti erano sparpagliati dappertutto sul bagnasciuga: alcuni decapitati, altri sventrati, altri ancora con la gola tagliata. Chase ne tirò su uno o due, osservò le loro ferite, poi li lasciò cadere di nuovo nell'acqua.
«Sembra qualcosa che avrebbero potuto fare dei ragazzi,» disse Chase. «Cosa vuoi dire, dei ragazzi?» «Dei teppisti... capisci... dei vandali. Non c'è nessuno nell'oceano che uccide per il gusto di uccidere. Gli animali uccidono per due ragioni: per mangiare e per difendersi.» Max saltò giù dalla barca. Chase lo seguì e tirò il Whaler più avanti nella sabbia. Camminarono lungo la spiaggia fino al cavo nero, che il poliziotto aveva arrotolato e legato. Trascinarono il cavo fino alla barca, lo caricarono a bordo e si allontanarono dalla riva. Quando Chase giudicò che l'acqua fosse abbastanza profonda, abbassò il motore e lo avviò. Mentre l'elica intorbidava l'acqua, un altro uccello morto venne in superficie e andò a sbattere contro un fianco della barca. Chase lo sollevò dall'acqua. Era una giovane rondine di mare. Le ali le erano state strappate dal corpo. «Chiunque abbia fatto questo,» disse Chase, deponendo con gentilezza l'uccello sull'acqua, «lo ha fatto solo per farlo. Soprattutto per il piacere di farlo.» Mise la prua a est, in direzione dell'isola. Quando furono a mezza strada da casa, fendendo le onde lunghe e tranquille, videro una barca grossa, lenta e alta di ponte che dirigeva verso di loro. La barca aveva una piccola cabina sul davanti e una poppa ampia e aperta con una gru su ogni lato. Mentre passavano sotto bordo l'uno dell'altro, il capitano del barcone azionò la sirena, si affacciò sulla porta della cabina e salutò con la mano. Chase restituì il saluto. «Chi è quello?» chiese Max. «Lou Sims. Trasporta merci. Immagino che abbia appena lasciato giù la dottoressa Macy e i suoi leoni marini... Deve averli imbarcati al molo di New London.» Nella scia della barca da trasporto c'era un'altra barca. Distava ancora un quarto di miglio ma procedeva in velocità. Era una barca da pesca sportiva, bianca e lucente, con un ponte di comando e due bilancieri. Quando si fu avvicinata, rallentò, e un uomo sul ponte di comando fece segno a Chase che voleva parlare con lui. Chase mise il motore in folle e lasciò che il Whaler andasse alla deriva. «Tienti forte,» disse a Max. «Quell'affare sposta una quantità d'acqua attorno a sé.»
Quando la barca da pesca si fermò, il suo scafo profondo beccheggiò nell'acqua e si formarono onde su tutti e due i lati. Chase si tenne in equilibrio mentre le onde sballottavano il Whaler da una parte all'altra. Vide Max barcollare, essere in procinto di cadere, e quasi mettersi a sedere sul sedile di prua. «Ti stavo cercando, Simon,» disse l'uomo che stava in piedi sul ponte. «Stavamo pescando alla traina al largo di Watch Hill; ho visto un delfino morto, incastrato nelle rocce.» «Un delfino?» ripeté Chase. «Sei sicuro che non fosse uno squalo? Era un delfino... una focena?» «Credi che non sappia distinguere un delfino da uno squalo? Era una focena. Proprio come Flipper, solo più giovane, un cucciolo. Non ci sono potuto andare troppo vicino, ma sembrava tutta tagliata a strisce, come se qualcosa l'avesse aggredita. Ho pensato che avresti dovuto dare un'occhiata.» «Hai avuto un'ottima idea, Tony,» disse Chase. «Lo faccio subito. Dove stava, esattamente?» «Proprio da questa parte del faro. Cosa vive da queste partì che può prendere e uccidere una focena?» «Vorrei saperlo anch'io.» Chase raccolse uno degli uccelli uccisi. «Forse la stessa cosa che taglia la testa ai gabbiani.» E forse, Chase pensò fra sé, la stessa cosa che ha ucciso i due sommozzatori. «Bene, a ogni modo... dammi un colpo di telefono se scopri qualcosa.» «Lo farò.» «E questo è il tuo ragazzo?» «Sì,» rispose Chase. «Max... Il capitano Madeiras.» Max fece un cenno con la mano, e Madeiras gli disse: «Vieni a lavorare con me quest'estate. Puoi guadagnarti il tuo 'diploma della colazione nel secchio'.» «Grazie,» disse Max, «ma io non ho molta esper...» «Non ti preoccupare, non potresti fare peggio di quell'inutile Bobby, laggiù.» Madeiras rise e indicò la poppa della sua barca. Poi spinse i comandi, e mentre la barca schizzava in avanti, le sue due eliche lasciarono un profondo avvallamento nell'acqua. Un adolescente dall'aria malaticcia e infelice stava in piedi a poppa. 19
Bobby Tobin decise che le probabilità che aveva di vomitare entro i prossimi cinque minuti erano molto alte. A ogni respiro lo aggrediva il fetore di interiora e di sangue misto a quello dei gas di scarico del motore diesel, ed era costretto a inghiottire in continuazione per tenere indietro i rigurgiti di bile. Ogni volta che la barca straorzava per tenersi al mare, sentiva lo stomaco scendergli nei piedi e poi salire di nuovo con forza come se dovesse schizzargli fuori dalla sommità del cranio. Anche se sapeva che, poi, si sarebbe sentito meglio, non voleva vomitare - non avrebbe vomitato, si rifiutava nel modo più assoluto di vomitare perché il capitano Madeiras non glielo avrebbe mai fatto dimenticare. Ogni nuovo cliente che fosse salito a bordo sarebbe stato gratificato della storia di Bobby steso sul ponte che rimette la colazione fuori bordo; e sarebbero state raccontate storie infinite a proposito di marinai d'acqua dolce, di teenager, tipi da spiaggia, protestanti e ragazzini che avevano la vita troppo facile. Bobby si alzò sulle ginocchia e, facendo attenzione a non toccare la camicia né alcuna parte della scintillante vetroresina bianca con le mani sporche di sangue, si sporse fuori bordo e inalò una serie di profonde boccate di aria fresca, aria che non puzzasse di olio bruciato o di pesce morto. Dietro di loro poteva vedere la Osprey Island, e accanto a lei Napatree Point, e, lontano, quasi sulla linea dell'orizzonte, la torre dell'acqua di Waterboro. «Ehi, stronzetto,» lo apostrofò Madeiras dall'alto del ponte di comando, «non ti ha detto nessuno di prenderti una pausa. Spazza via quella merda dal ponte prima che diventi secca.» «Sì, signore,» rispose Bobby, inalò un'ultima boccata d'aria, e tornò a occuparsi del carnaio sul ponte di poppa. Aveva già pulito dieci grossi pesci azzurri - squamati, aperti, ripuliti e avvolti in fogli di giornale - e un'altra ventina aspettava nella cassa del pesce contro la murata di babordo. Ma che cosa ci facevano due pescatori con trenta pesci? Non ne avrebbero mangiati più di uno o due, né potevano vendere gli altri. I pesci azzurri erano così numerosi quest'estate che i negozi di pesce potevano guadagnare qualche cosa solo a condizione che i pesci gli venissero dati gratis, e non c'era neanche la possibilità di distribuirli in regalo agli amici. Trofei, non erano altro che questo, segni distintivi di virilità. Una dozzina di gabbiani seguivano la scia della barca, lanciando strida impazienti, come se volessero mettere fretta a Bobby. Tirò su il secchio per la corda lunga due metri legata al manico, si dires-
se verso lo specchio di poppa, ci si sporse sopra, cercò una presa sicura con la mano libera, e gettò il secchio in acqua. Il secchio colpì la superficie, ondeggiò, si capovolse, si riempì in un istante e il peso dette uno strappo a Bobby facendolo quasi finire fuori bordo. Cominciò a recuperare la corda e lo tirò a bordo. Gettò l'acqua sul ponte e strofinò forte con una spazzola i frammenti di sangue raggrumato e di scaglie, gettando tutto fuori bordo attraverso lo specchio di poppa e gli ombrinali. I gabbiani rotearono sopra il sangue fresco nell'acqua e, non trovando pezzi di carne, lanciarono grida di protesta. Bobby mise via il secchio, cadde in ginocchio, prese il coltello dal fodero che portava alla cintura e allungò la mano nella cassa per prendere un altro pesce azzurro. Gli aprì le branchie per far uscire il sangue, poi gli incise il ventre dalla gola alla coda, infilò la mano nella cavità del corpo, tirò fuori le interiora e le gettò fuori bordo, attraverso lo specchio di poppa. I gabbiani si gettarono in picchiata, freneticamente. Due di loro ghermirono col becco lo stesso pezzo di intestino e si alzarono dall'acqua, battendo forte le ali e stridendo mentre tiravano con forza il bottino. Bobby scosse il pesce che teneva al fianco e cominciò a togliergli le scaglie con la lama del coltello, maledicendo se stesso, suo padre, Madeiras e il destino. Dio, quanto avrebbe preferito essere andato alla scuola estiva piuttosto che aver accettato questo maledetto lavoro. Suo padre gli aveva lasciato la facoltà di scegliere se andare alla scuola estiva oppure fare un lavoro pagato. Nell'attuale situazione economica i lavori erano rari come i denti nel becco di un'oca. C'erano laureati che facevano le consegne negli empori; studenti delle Business School che servivano al banco nei bar. Aveva girato dappertutto dal Mystic Seaport Museum alla stazione marittima di Waterboro, ed era ormai sul punto di telefonare a qualche scuola estiva quando all'improvviso suo padre aveva presentato una cambiale all'incasso ai Madeiras. Manuel, il giardiniere di casa, che non aveva nessuna assicurazione medica e la cui operazione al femore era stata pagata dal signor Tobin, aveva buttato lì, un giorno, che suo fratello, che lavorava con Tony Madeiras, si era appena preso l'epatite. Senza neanche interpellare Bobby, il signor Tobin aveva chiamato Tony e aveva ottenuto il lavoro. Per la verità, Bobby ne era stato entusiasta. Il lavoro gli era sembrato fantastico: aiutante su una barca da pesca d'altura. Cinque dollari l'ora più le mance, forse qualcosa come cento dollari al giorno, nelle giornate buo-
ne. Un lavoro all'aperto. Imparare come pesca un professionista. Il lavoro era impegnativo, sette giorni alla settimana, tempo permettendolo, ma aveva tutte le sere libere, e si potevano prevedere almeno dieci giorni di pioggia e vento che avrebbero tenuto la barca a terra. Ma c'erano alcune cose che nessuno aveva detto a Bobby. Anzitutto che le barche a motore, specialmente quelle da dodici metri come il Sea Hunter, non erano come le barche a vela. Non prendevano il vento e tagliavano le onde, mantenendo una certa stabilità, ma beccheggiavano, rollavano e ondeggiavano, inzuppandovi d'acqua, riempiendovi di lividi e facendovi soffrire il mal di mare tutto il giorno. In secondo luogo, la parola aiutante in realtà significava cameriere, sguattero, tuttofare, pulitore di pesci, leccapiedi e facchino. Se un cliente si lasciava scappare un pesce era colpa dell'aiutante; non aveva sistemato bene l'amo o non aveva afferrato la guida della lenza al momento giusto. Se un cliente vomitava, toccava all'aiutante pulire. Infine, ed era la cosa peggiore e più frequente, se un cliente otturava il cesso, ignorando il cartello piazzato in modo visibile sopra lo sciacquone, e buttando dentro la tazza un assorbente, cicche di sigaretta o un preservativo (era successo), era compito dell'aiutante sturarlo e pulire il tutto. E infine, nessuno aveva detto a Bobby che Tony Madeiras era un sadico attaccabrighe, una di quelle persone che si sentono gratificate quando disprezzano gli altri. Era anche un ubriacone, e sebbene sostenesse di non bere mai sul lavoro, sembrava che il «lavoro» finisse prima ogni giorno. Un mese fa non avrebbe toccato una goccia fin che la barca non fosse stata ormeggiata al molo; ora cominciava a bere da una bottiglia sistemata sul ponte di comando, non appena lasciava i banchi di pesca. Molti clienti non lo sapevano o non se ne curavano, come i due di oggi, due pompieri di New London, che avevano attaccato con la birra alle sette del mattino per passare al Bloody Mary verso le nove. Bobby se ne preoccupava, invece, perché a lui toccava subire l'impatto degli sbalzi d'umore di Madeiras che poteva passare dal sarcasmo osceno all'affetto lacrimoso, ma che tendeva a soffermarsi più sul primo che sul secondo. Poteva mollare lì, naturalmente, ma non lo avrebbe fatto perché sapeva che cosa sarebbe successo. Avrebbe raccontato al padre la sua versione della storia, e lui avrebbe fatto finta di credergli, ma in realtà non sarebbe stato così. Suo padre avrebbe telefonato a Madeiras e si sarebbe sentito di-
re (nel modo educato usato dagli adulti) che Bobby era un lagnoso, fragile, pigro marmocchio. Suo padre non gli avrebbe mai veramente detto che credeva a Madeiras, ma ci sarebbero state allusioni piene di disappunto e di biasimo che sarebbero andate avanti almeno per un anno. Mollare avrebbe avuto un costo troppo alto. Meglio resistere per altre sei settimane. Bobby stava sventrando un altro pesce, quando la porta a vetri della cabina ad aria condizionata si aprì e una voce disse: «Ehi, ragazzo, siamo senza ghiaccio». «Sì, signore,» rispose Bobby. Calò di nuovo il secchio fuori bordo, si lavò le mani ed entrò. Le mani gli puzzavano ancora di pesce, ma quei due non se ne sarebbero mai accorti. Nuotò avanti e dietro nella schiuma appena sotto il pelo dell'acqua, eccitato da un forte, intenso sentore di preda, e confuso dal fatto di non trovare niente in superficie. C'erano stati alcuni pezzi di cibo, e gli si era avventato sopra, solo per vederli sottratti alla sua presa da qualcosa che veniva dall'alto. Bramoso, nuotò in avanti, inalando l'acqua oleosa e striata di sangue attraverso le sue branchie palpitanti. «Pulisci ancora un paio di pesci e mettimeli dentro un sacchetto,» gli ordinò Madeiras. «Li porto a casa alla mia signora.» «Sì, signore,» disse Bobby. Erano rimasti tre pesci nella cassa, i primi tre della giornata e i più grossi; pesci da almeno due chili e mezzo forse tre. Afferrò il più grosso per la coda e lo sbatté sul ponte. Era stato pescato da qualche ora, e il suo corpo si era già irrigidito. Gli occhi vitrei fissavano con vuota minaccia, la bocca rigida e spalancata rivelava una fila di piccoli triangoli perfetti. «Per fortuna che non crescete fino a cento chili,» disse Bobby al pesce mentre gli cercava la spina dorsale, immergeva il coltello e lo faceva scorrere indietro. Non ripulì questo pesce dalle scaglie, né lo sventrò. Invece, con veloci colpi di coltello, rimosse tutta la carne da un fianco del pesce, tagliando lungo la spina dorsale, intorno alla coda, su lungo il ventre e intorno alle branchie. Poi rigirò il pesce e ripeté l'operazione sull'altro lato. Gettò la carcassa fuori bordo: testa, coda, ossa, viscere e tutto il resto.
Stette a guardare i gabbiani che si gettavano sulla carcassa non appena questa cadde nella scia della barca. Un gabbiano cercò di tirarla su per la testa, ma era troppo pesante e l'uccello non riusciva ad alzarsi in volo. Un altro ghermì la coda, e per un attimo sembrò che i due uccelli riuscissero, insieme, a portare la carcassa in un posto sicuro dove mangiarla. Ma poi un terzo uccello si avventò sulla carcassa e la fece cadere nell'acqua. Gli uccelli ci si gettarono sopra di nuovo in picchiata. Ma, prima che potessero afferrarla, ci fu un movimento improvviso nell'acqua, un lampo di qualcosa che scintillava e, quando l'acqua tornò tranquilla, la carcassa era sparita. I suoi lunghi artigli di acciaio ricurvo ridussero in brandelli la creatura senza vita. Ne succhiò le viscere dal corpo, e gli occhi dalla testa. Coi denti frantumò l'osso della mandibola. Divorò tutto, mentre scendeva verso il fondo. Il grande oggetto da cui era arrivato il cibo si allontanò finché divenne soltanto una debole pulsazione sulla membrana timpanica dell'essere. Voleva di più. Non solo per la fame, perché si era recentemente nutrito di molte creature - aveva mangiato fino a rigurgitare e poi aveva mangiato ancora - ma a causa dei suoi riflessi condizionati. Andare in cerca di preda era una cosa a cui non poteva resistere; uccidere e mangiare erano le sue uniche funzioni. Sebbene il corpo fosse più che soddisfatto, i suoi succhi gastrici continuavano a essere stimolati. Schizzò via dal fondo, i piedi palmati spingevano su e giù con sincronia perfetta, gli artigli luccicavano. Volava nell'acqua verso il rumore intermittente. Bobby finì di tagliare gli ultimi due pesci, gettò le carcasse fuori bordo e incartò i pezzi di carne. Immerse il secchio e si lavò le mani, e si accingeva a risciacquare il ponte, quando sentì che il motore andava giù di giri e la barca rallentò, si fermò, e si lasciò portare dalle onde leggere. «Uccelli avanti a prua,» gridò Madeiras dall'alto del ponte. «Si direbbe che un branco di pesci azzurri stia facendo strage in un vivaio di avannotti. Chiedigli se hanno voglia di fare un paio di lanci.» «Sì signore,» disse Bobby. Aprì la porta della cabina e fu investito da una corrente di aria fredda. I due avevano fatto una partita di gin rummy sul divano. Uno era caduto addormentato, e l'altro stava cincischiando con le carte. Una bottiglia di vodka era stata buttata nel cestino della carta.
Fa che dicano di no, pregò Bobby. Non voleva preparare altre lenze, pulire altri pesci. Oltretutto, ora che questi due erano pure sbronzi, erano destinati a fare degli errori e lui era destinato a essere rimproverato al posto loro. «Il capitano vuol sapere se avete voglia di fare qualche lancio,» disse Bobby. L'uomo lo guardò e corrugò la fronte come se non lo riconoscesse. «A cosa?» domandò. «Pesci azzurri.» L'uomo ci pensò un momento, poi scosse il ginocchio del suo amico, ma questi non si svegliò. «Al diavolo,» disse. «Sì, signore.» Bobby chiuse la porta e chiamò Madeiras. «Hanno detto no grazie.» «Se ne pentiranno,» ribatté Madeiras, guardando con il binocolo le rondini di mare che si tuffavano. «Questi devono essere dei veri mostri.» Bobby vuotò una secchiata d'acqua sul ponte, si buttò il secchio alle spalle e sfregò il sangue e le scaglie fuori dagli ombrinali. Rimanevano alcune macchie di sangue, e Bobby raccolse il secchio, si avvolse la corda intorno alla mano e si avviò a poppa. «Ehi, stronzetto,» gli gridò dietro Madeiras. «Te ne sei dimenticata qualcuna.» «Sì, signore,» gli rispose, secco, Bobby. «Per questo vado a prendere dell'altra acqua.» Madeiras tornò al suo binocolo. «Appena hai finito, preparami la canna da lancio. Penso che tenterò un paio di lanci da quassù.» Fai pure, pensò Bobby con rabbia. Magari sei così malconcio che perdi l'equilibrio, cadi in acqua e i pesci azzurri ti fanno a pezzi. I gas di scarico del motore che girava al minimo aleggiavano sopra la poppa, pungevano gli occhi di Bobby e gli annebbiavano la vista. I gabbiani giravano in alto, lontani dai fumi nocivi. Non c'era scia, ora, la barca stava ferma, così Bobby non si aggrappò allo specchio di poppa mentre lanciava il secchio. Il secchio colpì l'acqua con il fondo e si rovesciò; Bobby dette uno scossone alla corda, cercando di girare il secchio perché si riempisse. Salì fino a circa quattro metri dalla superficie dell'acqua. La cosa grande si era arrestata.
Si mosse con circospezione; i suoi recettori avvertivano la presenza di una preda ma non trovavano niente. Salì ancora di un metro e, attraverso l'acqua immobile, poteva vedere l'immagine riflessa di qualcosa che si muoveva. Ci fu del movimento in superficie, un rumore attutito e dei gorgoglii; c'era qualcosa che galleggiava. La preda. Schizzò in avanti, gli artigli protesi ad afferrare. La sua bocca era spalancata, la sua mascella inferiore si spinse in avanti e una fila di denti triangolari scattò in posizione verticale, pronta a mordere. Quando il secchio si fu riempito, Bobby tirò la corda, ma anche senza la spinta del movimento della barca il secchio era pesante: otto litri d'acqua pesavano otto chili. Bobby tirò su la corda, una mano dopo l'altra. All'improvviso la corda dette uno strappo, come se il secchio si fosse impigliato da qualche parte. Poi uno strattone, come se un pesce enorme lo avesse afferrato con forza. Bobby perse l'equilibrio, si girò per aggrapparsi allo specchio di poppa ma era troppo lontano, le sue dita trovarono solo aria e capitombolò fuoribordo. Nel cadere in acqua pensò: «Spero che non sia un grosso pesce azzurro quello che ha afferrato il secchio». Scese con un movimento a spirale, tenendo stretta la preda fra gli artigli, masticando la soffice carne bianca. Succhiò e bevve, masticò e inghiottì. Quando ebbe raggiunto il fondo non ne poteva più di mangiare, così si accovacciò sul fondo e, coi denti e con gli artigli, fece a pezzi la preda. Un dente incontrò una massa di cartilagine e uscì dall'alveo. Un altro dente, dalla linea sottostante, roteò in avanti e prese il suo posto. Tony Madeiras appese il binocolo al suo gancio, mise il motore su di giri e diede gas. Il motore ruggì, la prua si sollevò mentre la poppa sprofondava nell'acqua. «Dove diavolo è la mia canna?» urlò senza guardare in basso. Non ci fu risposta. PARTE QUARTA I PREDATORI
20 Quando Chase sistemò il Boston Whaler nel suo ormeggio, subito dopo mezzogiorno, vide la signora Bixler che arrivava dal sentiero diretta al molo. Portava un vecchio cestino da picnic, e Chase sapeva che cosa conteneva: un sandwich, un termos di tè ghiacciato, una matassa di filo da lenza e degli avanzi di pancetta, o del grasso di carne o del pane secco. La signora Bixler amava passare il suo intervallo di mezzogiorno pescando dal molo, con la lenza a mano, dei piccoli pesci con cui sfamare l'airone. L'airone la vide arrivare e fece un paio di lunghi passi in direzione del molo. Non appena ebbe spento il motore, Chase sentì dei versi provenire dalla parte dell'insenatura, dietro la collina. «Si direbbe che la dottoressa Macy e i suoi leoni marini se la passino benissimo,» disse rivolto alla signora Bixler. «Ah sì, lei e tutta la sua organizzazione.» «Questi versi sono dei leoni marini?» chiese Max tutto eccitato. «Posso andare a vederli?» «Certamente,» rispose Chase. «Ma comportati bene. Presentati. Non conosciamo la dottoressa Macy.» Max annuì, saltò fuori dal Boston e si avviò di corsa per il sentiero. La signora Bixler guardò dentro la barca. «Qualcuno ha partecipato a un'orgia di sangue?» chiese indicando gli animali morti: due gabbiani e un giovane delfino dal naso a bottiglia. «Qualcuno o... qualcosa.» Chase tirò su il piccolo delfino. Era lungo meno di un metro. La sua pelle viscida, che in vita era stata di un lucido grigio acciaio, era ora opaca e secca, come cenere di carbone. Aveva sulla schiena i segni di profonde ferite; il ventre era stato squarciato. «L'ho portato per fargli dare un'occhiata dalla dottoressa Macy. È più esperta di me di mammiferi.» «Cosa può dirle di più di chiunque altro? Qualcuno l'ha macellato.» «Sì, ma chi?» Chase mise di nuovo il delfino sul fondo della barca. «Lo metterò nel ghiaccio in modo che possano fare una vera e propria autopsia.» Scese dalla barca, assicurò gli ormeggi di poppa e di prua e salì gli scalini che portavano al molo. «Ha provveduto a sistemare la dottoressa Macy?» chiese. «L'ho portata in giro; Tall ha sistemato la sua roba.» «Che tipo è?»
La signora Bixler si strinse nelle spalle. «Sembra piena di entusiasmo, si veste come se stesse partendo per un safari. Ma, perlomeno, non esibisce i suoi diplomi come fa la maggior parte di loro.» Chase si avviò su per la collina, e quando fu arrivato in cima udì la voce di Max; gridava, pensò all'inizio, ma poi si rese conto che quelli che sentiva non erano grida ma scoppi di risa. Guardò in basso e vide Max giocare nell'acqua che gli arrivava alle spalle nella vasca che Tall aveva costruito per i leoni marini. Quattro sagome scure gli saltavano attorno, spingendolo sott'acqua, sguazzando dietro di lui in superficie, evitandolo con destrezza quando cercava di afferrarle. Una donna stava in piedi sull'orlo della vasca, faceva dei segni ai leoni marini e rideva, insieme con Max. Poiché né lei né Max si erano accorti della sua presenza, Chase ebbe modo di osservarla mentre camminava giù per la collina. Alta e benfatta, Amanda Macy poteva anche sembrare la modella di un catalogo. Portava mocassini Top-Sider, bermuda, una camicia caki, una catenella per sorreggere gli occhiali da sole che le pendevano dal collo, e un orologio subacqueo di acciaio inossidabile. Aveva le gambe muscolose e abbronzate, i capelli corti schiariti dal sole. Sembrava più giovane di quel che lui aveva immaginato, sebbene non sapesse per quale motivo avesse deciso che doveva avere la sua stessa età o essere più vecchia. Cercò di vederle il viso, ma lei gli voltava la schiena. All'improvviso gli suonò un campanello d'allarme nella testa, un campanello d'allarme che non aveva previsto. Oh Dio, pensò mentre le si avvicinava. Fa' che non abbia un bel viso. C'erano degli uomini fissati con il seno delle donne, altri con le natiche, le mani o le gambe o i piedi. Chase aveva sempre perso la testa per i bei volti. Per tutta la vita si era innamorato dei volti, in modo irrazionale - e pienamente cosciente di questa irrazionalità - ignorando le nevrosi, i disturbi della personalità, la stupidaggine, la grettezza e la vanità che spesso si celano dietro una bella faccia. Doveva lavorare con questa donna per tre mesi. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era la complicazione aggiuntiva di innamorarsi. Poi Max vide Chase; gridò: «Papà!» e agitò la mano. La dottoressa Macy si girò. Chase tirò un sospiro di sollievo. Aveva un viso grazioso, ben proporzionato, bello anche, ma non da arresto cardiaco. Lui tese la mano e si presentò: «Simon Chase».
«Amanda Macy,» rispose lei prendendogli la mano con una stretta forte e cordiale, e sorridendo con labbra prive di rossetto. «Vedo che Max non è stato quello che si dice timido.» «Oh, è stato molto educato,» disse Amanda. «Sono stata io a tagliare corto con le formalità. Gli ho detto che se voleva imparare a conoscere i leoni marini, la cosa migliore era saltare in acqua con loro. Nell'acqua è a suo agio, a ogni modo, e sembra più dotato, con gli animali, di molti altri ragazzi. Hanno familiarizzato subito con lui.» «Papà!» gridò Max. «Guarda!» Chase si voltò. Nella vasca due dei leoni marini stavano di fronte a Max, con le teste fuori dall'acqua. Max schizzò uno dei due e immediatamente entrambi esplosero in un turbine di pinne, schizzando Max come ragazzacci di strada. Lui si contorceva dalle risate e si immerse; subito i leoni marini gli andarono dietro, strofinandoglisi contro con i loro corpi serici e piroettandolo in una specie di girotondo. «È stupefacente,» osservò Amanda. «Generalmente impiegano molto tempo a prendere confidenza con qualcuno. Devono sentire della gentilezza, una sorta di innocenza nei ragazzi... o in questo ragazzo, almeno.» «Non mordono mai?» Amanda scoppio a ridere. «Questa è una domanda da genitore, non da scienziato.» «È vero,» riconobbe Chase. «Le uniche ragioni per cui un mammifero intelligente come questi morde qualcuno o qualcosa sono il cibo, la paura e la difesa da un'aggressione. Queste quattro sono tutte femmine, così non c'è pericolo di aggressività sessuale. Sono ben nutrite. E non hanno nulla da temere.» Fece una pausa. «Non assomigliano affatto agli squali.» Gli occhi di Chase seguirono Max che continuava a giocare con i leoni marini. «Vedo,» disse. «Per me questi animali sono molto più vicini alle persone che agli squali. Hanno bisogno di attenzione e di affetto, tra di loro e da parte mia. Gli piace che gli si lavino i denti e gli si spazzoli la pelle. Li ho tirati su fin da quando erano cuccioli.» Max saltò su dall'acqua ridendo, e Chase gli fece un cenno di richiamo dal bordo della vasca. «Vieni fuori da lì,» gli disse. «Stai diventando viola.» «Ma papà...» Amanda intervenne: «I leoni marini hanno bisogno di riposare, Max,
come te. Gli hai fatto fare un bell'allenamento». Max si issò fuori dalla vasca e Chase gli strofinò le spalle e la schiena. «Sembri un ghiacciolo.» Max indicò i leoni marini che, non appena lui era uscito dalla vasca, si erano arrampicati sulle rocce e si erano messi a prendere il sole. «Si chiamano Harpo, Chico, Groucho e Zeppo,» disse Max. «Non so chi sia chi, ma la dottoressa Macy mi ha detto che, quando avrò imparato a conoscerli meglio, potrò sceglierne uno come mio amico personale.» Chase sentì che tremava sotto le sue mani, e disse: «Ora vai a fare una doccia e mettiti dei vestiti asciutti». Max si avviò di corsa, poi si voltò indietro. «Più tardi posso giocare ancora con loro?» chiese ad Amanda. «Sicuro,» rispose la donna con una risatina, «ma solo quando ci sono anch'io. Devi imparare i segnali, proprio come hanno fatto loro.» Chase aveva costruito un capannone contro le rocce, dietro la vasca, e Amanda vi entrò per uscirne subito con un secchio pieno di pesci. «Si mangia, signore!» esclamò mentre si avvicinava al bordo della vasca. I leoni marini scivolarono giù dalle rocce e nell'acqua, poi, strepitando con impazienza, le nuotarono incontro, si misero in riga, allineati, in attesa. Dette un pesce ad ognuno, poi un altro e un altro ancora, e quando tutti ebbero avuto la loro razione di cinque pesci, li grattò sulla testa. Riportò il secchio nel capannone e si rivolse a Chase. «È un posto bellissimo. Sei cresciuto da queste parti?» «Non sull'isola... a Waterboro.» «Dove sei stato a scuola?» «Oh, un po' dappertutto,» rispose Chase pensando, eccola che arriva. In fretta, pensò se fosse il caso di dirle una bugia, ma poiché sapeva per esperienza che le bugie tendono a ingrandirsi fino al punto di non essere più sostenibili, disse la verità. «L'ultimo posto è stato la URI, nel Rhode Island.» «È ottima per l'Oceanografia. La tua specializzazione è proprio sugli squali o riguarda in generale gli elasmobranchi?» «No.» Chase fece una pausa. Poi aggiunse: «Devo ancora specializzarmi». Lei apparve sorpresa. «Vuoi dire che non hai il diploma? Sei il direttore di un istituto senza avere il dottorato?» «Esatto... dottoressa,» disse Chase. «È una cosa che riesci a sopportare?» Ma prima ancora che queste parole gli uscissero di bocca, si sentì uno
stronzo. Amanda arrossì. «Naturalmente... non intendevo... voglio dire... è solo che...» Buttò indietro la testa e scoppiò in una risata. Per un attimo, Chase pensò che stesse ridendo di lui, e cercò di pensare a un'osservazione tagliente. Ma prima che gli venisse in mente, qualcosa nell'espressione di lei gli disse che non stava ridendo di lui ma di se stessa. «È fantastico!» disse, «mi piace da morire!» «Cosa?» «Ho passato quattro anni all'università, due anni per prendere il master, e altri cinque anni per il dottorato. Sono qualcuno! Il mio diploma è la mia corazza. Posso essere una nullità, una gallina, una stupida, ma ho preso il mio diploma. È l'etichetta ufficiale della mia condizione di superiorità.» Scoppiò a ridere di nuovo. «E poi incontro qualcuno che non ha il suo bravo dottorato, che non può essere in ogni modo eminente come me, ma che ha fatto più di quanto io non abbia mai fatto, qualcuno che ha messo su, da solo, un intero istituto. E qual è la mia prima reazione? Impossibile. Oh, mi piace troppo!» Si avviarono insieme su per la collina. «Allora, ricominciamo dall'inizio,» disse Amanda. «Se dovessi fare una tesi, quale sarebbe l'argomento?» «La territorialità nelle abitudini degli squali bianchi,» rispose Chase. «Il che mi fa tornare in mente una cosa. C'è stato uno squalo bianco da queste parti nelle ultime due settimane. Lo stavamo seguendo per monitorarlo, quando abbiamo perso il sensore. Un paio di sommozzatori sono stati uccisi, ma non credo che lo squalo c'entri qualcosa. Ed è ancora là fuori.» «Pensi di poter trovare ancora lo squalo?» «Voglio provarci, ma...» Chase si interruppe. «Intendi dire che vuoi trovarlo? Un grande squalo bianco? E cosa ne sarà dei tuoi...» «I miei leoni marini la sanno lunga sugli squali bianchi,» disse Amanda. «Ci sono squali bianchi in tutta la California, e sanno come stare lontani da loro. Oh, certo, mi piacerebbe trovarlo. Ho sempre desiderato fare una ricerca sulla interazione fra predatori del mare: mammiferi che attaccano altri mammiferi, mammiferi che attaccano i pesci, pesci che attaccano i mammiferi.» «Credevo che lavorassi solo sulle balene.» «Finora sì, ma le immagini che i leoni marini stanno riportando indietro sono così straordinarie, i comportamenti che stanno registrando sono così interessanti, che non vedo perché non dovremmo allargare la ricerca.»
«Non ci arrivo,» disse Chase. «Che cosa può vedere un leone marino con una cinepresa sulla schiena che non possa vedere uno scienziato su una barca o magari in un batiscafo?» «La natura,» rispose Amanda. «La natura in azione. Balene, squali, altri animali, perlopiù si tengono lontani da una barca o da un batiscafo perché sono oggetti estranei e minacciosi. Sono degli intrusi, grossi, strani e rumorosi, e, se gli si avvicinano, il comportamento degli animali sarà tutto tranne che naturale. D'altra parte sono del tutto abituati ad avere i leoni marini che nuotano intorno a loro, così vanno avanti con le loro faccende: mangiare, accoppiarsi, qualunque altra cosa, e noi riprendiamo tutto sulla pellicola. Oltretutto, un batiscafo è lento e poco maneggevole, e costa una fortuna. Un leone marino è in grado di tener dietro a una balena, e poi è poco costoso: lavora per qualche pesce.» «Come riescono a fare quello che tu vuoi che facciano?» «Addestramento, più la loro intelligenza istintiva. Quanto a intelligenza, i leoni marini non sono da meno dei delfini e delle orche assassine. Abbiamo costruito un modello di balena grigia a grandezza naturale e lo abbiamo sistemato sopra un batiscafo azionato elettricamente, per addestrarli. Da una barca io do loro una serie di segnali manuali: nuotatele accanto, nuotatele dietro, giratele attorno. Non ci vuole molto tempo a insegnar loro le cose. Hanno voglia di imparare.» Chase rimase un momento soprappensiero, poi chiese: «Credi che potresti insegnare loro a fare delle fotografie o qualche altra cosa a cui non sono abituati, qualcosa che non gli viene naturale, un comportamento che non hanno mai visto?» «Per esempio?» «Vorrei saperlo,» disse Chase. «Ma c'è qualcosa che non va nell'oceano, qui intorno. O c'è qualcosa di nuovo in questa zona, o qualcosa è diventata matta furiosa.» Raccontò ad Amanda della strage, casuale, di uccelli e di animali, e del mistero che circondava la morte dei Bellamy. «Ci posso provare,» disse Amanda, «appena i leoni marini si saranno abituati al mare qui intorno, e alle balene gibbose. Comunque la ricerca delle balene ha la precedenza. Ho noleggiato un aereo da ricognizione, che parte questo pomeriggio.» «Un aereo?» Chase emise un sibilo. «Devi avere dei bei finanziamenti. Per quei soldi lì, sarei disposto ad attaccarmi delle ali e volare io stesso.» «Finanziamenti? I finanziamenti sono una barzelletta, settemilacinquecento dollari l'anno per tre anni. Mi mantengono a galla, ma
questo è tutto.» Esitò, imbarazzata, poi riprese a parlare. «Fondamentalmente, io sono l'angelo custode di me stessa.» «Come riesci a farcela?» «Come pensi che ci riesca? La fortuna del lignaggio. Il mio trisavolo era uno dei Macy cacciatori di balene. A volte penso che la mia carriera sia una punizione per quello che ha fatto. Capì che il mercato dell'olio di balena stava crollando e investì tutti i suoi soldi nel petrolio. Da allora siamo sempre stati ricchi sfondati.» Sorrise. «Ce la fai a sopportarlo?» «Al diavolo,» disse Chase ridendo. «L'ho già fatto.» Le parlò del suo matrimonio con Corinne. «Se avessi avuto un po' di cervello, avrei preso al volo la sua offerta e le avrei lasciato finanziare l'Istituto. Ma no, ero troppo orgoglioso.» «Non importa. Ti è rimasto qualcosa di molto più importante dal matrimonio.» «Cioè?» «Max.» «Oh,» commentò lui. «Sì, sto proprio imparando qualcosa in proposito.» Avevano raggiunto la casetta in cima alla collina, dove Chase aveva preparato l'alloggio per Amanda: una camera da letto, una cucina e, poiché la stanza di soggiorno era stata occupata interamente dalla camera di decompressione, un'altra camera da letto fungeva da salotto. «Hai fame?» le chiese Chase. «Abbiamo dei sandwich nella casa grande.» «Più tardi,» rispose Amanda. «Prima voglio farti vedere il regalo che ti ho portato.» «Un regalo? Ma non dovevi...» «I miei genitori mi dicevano sempre che non bisogna andare a fare una visita senza portare un regalo per la casa.» Sorridendo, lo prese per un braccio e lo condusse dall'altra parte della casa, dove il terreno scendeva verso un'insenatura il cui fondale era stato dragato per consentire l'attracco delle barche. «Ecco lì,» disse indicando l'insenatura. «Volevo incartarlo, ma...» Chase guardò, e, comprendendo subito di che cosa si trattava, si arrestò di colpo. «Mio Dio...» esclamò. Su una lastra di roccia all'estremità dell'insenatura era stato appoggiato qualcosa che Chase desiderava da quando aveva cominciato a fare questo lavoro: una gabbia antisqualo. Era una cassa rettangolare, alta più di due metri, fatta di sbarre d'alluminio e d'acciaio incrociate. C'erano dei portelli
di entrata in alto e in basso, e delle aperture quadrate, gli alloggiamenti per le macchine fotografiche, su entrambi i lati. Due serbatoi di galleggiamento erano stati saldati sul soffitto della gabbia, e anche da quella distanza Chase poteva vedere le guarnizioni d'ottone scintillanti che indicavano che i serbatoi contenevano la loro riserva d'aria, e cioè che la gabbia poteva muoversi con tranquillità sotto la superficie. Le gabbie erano uno strumento di ricerca fondamentale per gli scienziati, perché consentivano loro di avvicinarsi con sicurezza agli animali in mezzo all'oceano. La maggior parte degli squali non era in grado di mordere attraverso le sbarre di alluminio, e quelli che potevano farlo, come i grandi squali tigre o gli squali bianchi, non lo facevano. Potevano azzannarle, assaggiarle per vedere se erano commestibili, ma nessuno squalo aveva mai morso, attraverso le sbarre. Da quando aveva aperto l'Istituto, Chase aveva cercato di acquistare una gabbia - un rottame di gabbia, una gabbia usata, una gabbia qualunque così avrebbe potuto fare i suoi esperimenti in acque profonde. Aveva scoperto, comunque, che non si trovavano gabbie usate: c'era una tale richiesta per film sugli squali da parte delle televisioni via cavo che le società di noleggio davano via in un attimo tutte le gabbie che potevano trovare e chiedevano affitti da usurai. Le gabbie abbandonate erano abbandonate per un motivo: erano danneggiate al di là di ogni possibilità di riparazione. E il prezzo di una gabbia nuova, una buona gabbia, partiva da circa ventimila dollari. Questa sembrava nuova di zecca e di ottima qualità. «È stupenda,» disse Chase avviandosi verso l'insenatura. «Ma come hai fatto...» «Faceva parte dei miei accordi di divorzio. Il mio ex marito l'aveva fatta fare circa tre anni fa; voleva diventare un duro fotografo di squali, ma scoprì che c'era un sacco di concorrenza e dirottò sulle lontre di mare.» Fece una pausa, quindi aggiunse con un sorriso timido: «Ma non ha sfondato neanche lì, e così ha deciso di concentrarsi sulle ragazze. Lui si è preso la Toyota; io ho preso la gabbia da squali. Ho pensato che potresti usarla.» «Certo che posso. Ho sempre sperato...» «Lo so, leggo i tuoi articoli sulle ricerche a proposito delle dinamiche dei morsi e dell'artrite. Dalla gabbia, potresti fare del lavoro molto efficace con il tuo gnatodinamometro.» «Sei riuscita a pronunciarlo!» esclamò Chase con una risata. Gnatodinamometro era una parola da dieci dollari per indicare un concetto sempli-
ce, un metodo per misurare la pressione esercitata dalle mandibole di uno squalo, al momento del morso. «Non ho mai conosciuto nessuno che fosse in grado di farlo.» «Non mi è costato molto; basta che tu non mi chieda di sillabarlo.» Quando furono arrivati vicino alla gabbia, Chase fece scorrere le mani sulle sbarre di alluminio ed esaminò le saldature e gli accessori. «È perfetta,» disse sorridendo. «Non riesco ad aspettare.» «Perché aspettare? Cosa c'è che non va oggi?» «Oggi?» Pensieroso, Chase guardò l'orologio. «Ci sono ancora sei o sette ore di luce,» disse Amanda. «Quanto bisogna andare al largo per trovare degli squali?» «Non molto, almeno non per gli squali azzurri. Un'ora, forse anche meno.» «Prima metto in acqua i leoni marini, meglio è,» disse Amanda. «Possono nuotare insieme agli squali azzurri. È una cosa che amano. Gli piace stuzzicarli. Hai dell'esca... e del mangime per attirare gli squali?» «Uh-huh.» Poi Chase ricordò qualcosa e disse: «Ma quello che ci manca è l'aria. Il compressore...» «È a posto,» lo interruppe Amanda. «L'ho chiesto io a Tall Man. Sta riempiendo le bombole adesso. Te lo dico io, è eccitatissimo all'idea della gita.» Chase era impressionato. Più che impressionato, provava soggezione. La guardò, e vide che gli sorrideva, un sorriso non di trionfo o di condiscendenza, ma di complicità. Scosse la testa e disse: «Immagino che dovrei veramente prendere il diploma». «Cosa? Perché?» «Perché avevi ragione poco fa.» Sorrise. «Signora, sei qualcuno. Sei grande.» 21 La barca dell'Istituto galleggiava bassa nell'acqua, perché aveva il pieno di benzina e di acqua fresca, ed era stipata fino ai parapetti di attrezzature scientifiche, fotografiche e da immersione. Oltre alla gabbia da novanta chili, che Chase e Tall Man avevano fissato a prua con un paranco sostenuto da una gru, sulla murata di tribordo c'erano quattro alloggiamenti per cinepresa; un videoregistratore; otto bombole da immersione; venticinque chili di pesce per i leoni marini; tre latte da quarantacinque litri di mangi-
me - gamberetti tritati e tonno - per formare una chiazza puzzolente che avrebbe retto alla marea e attirato gli squali per miglia attorno; due scatole da dieci chili di esca congelata, che ora si stava disgelando al sole; tre sacche da sommozzatore stipate di mute, maschere e pinne; e, infine, un refrigeratore pieno di lattine di soda e di sandwich preparati dalla signora Bixler. Amanda aveva condotto i leoni marini giù per il sentiero fino al molo, e si erano arrampicati volentieri sulla barca. Ora si accalcavano tutti insieme a poppa, muovendo la testa avanti e dietro, con i baffi che vibravano per l'eccitazione. Amanda li accarezzava e parlava loro con dolcezza. Max le si inginocchiò vicino. «Stanno bene?» chiese. «Oh, certo,» disse Amanda. «Sanno che la barca significa lavoro e non hanno voglia di aspettare. Amano lavorare; si annoiano con molta facilità.» Max allungò una mano e uno dei leoni marini piegò la testa verso di lui perché lo grattasse. «Questo chi è?» chiese. «Harpo.» «Credo di piacergli.» Amanda sorrise. «Io ne sono sicura.» Sul ponte di comando, Chase mise la barca a marcia indietro. Tall Man stava in piedi sul pulpito e usava la gaffa per tenere la prua lontana dagli scogli. Quando la barca fu uscita dall'insenatura e Chase ebbe diretto la prua verso l'acqua profonda, Tall Man tornò verso poppa ed entrò in cabina. Ne uscì un attimo dopo e disse ad Amanda: «Il tuo ricognitore ha appena chiamato per radio; dice che sarà in aria a cercare le balene entro un'ora circa. Gli ho detto che siamo sul canale di controllo numero ventisette». Poi guardò su verso il ponte di comando. «C'era anche un comunicato sul sedici,» disse a Chase. «A quanto pare dobbiamo tenere gli occhi aperti per un ragazzino che è finito in mare.» «Chi?» chiese Chase. «Bobby Tobin, l'aiutante sulla barca di Tony Madeiras. Dicono che è caduto fuori bordo. Tony giura di aver incrociato in lungo e in largo per cercarlo, ma non ha visto niente.» «Si direbbe che cadere fuori bordo stia diventando contagioso da queste parti,» commentò Amanda. «Perché?» chiese Tall Man. «Chi ancora?» «Prima che lasciassi la California, mi ha telefonato una mia cugina. Una settimana o dieci giorni fa, il suo ragazzo è sparito da una nave per la ri-
cerca scientifica proprio vicino a Block Island. Era un fotografo del Geographic. Non lo hanno mai trovato.» La barca procedeva ancora lentamente, con il motore che brontolava piano; così, anche da una distanza di dieci metri, Chase aveva sentito le parole di Amanda. Chiamò Tall Man. «Guarda se trovi un giubbotto di salvataggio per Max.» «Papà...» disse Max. «Andiamo... non ci cado in mare, io.» «Lo so,» ribatté Chase. «E scommetto che anche Bobby Tobin non pensava che gli sarebbe successo.» Mentre passavano a sud di Block Island, Amanda diede a Max alcuni pesci per i leoni marini; poi si arrampicò su per la scaletta che portava al ponte di comando e rimase in piedi accanto a Chase. Nel doppiare una punta di terra poterono vedere una ventina di persone su una spiaggia riparata. Alcuni bambini che indossavano braccioli gonfiabili giocavano sul bagnasciuga, mentre due donne adulte con in testa delle cuffie da mare color pastello nuotavano avanti e indietro una ventina di metri prima del frangiflutti, e un ragazzo cercava di mantenere l'equilibrio in piedi su una tavola a vela. «Ogni volta che vedo qualcuno nuotare al largo,» disse Chase, «penso che sia una bella fortuna che non riesca a vedersi da cinquanta o sessanta metri di altezza.» «Perché?» «Perché se vedesse che cosa gli passa accanto, nuotando a non meno di quindici metri da lui, non metterebbe mai più piede in acqua.» «Ci sono molti squali?» «No, non più, almeno non così numerosi come un tempo. Ma non ce ne vogliono molti per scatenare il panico. Ne basta uno.» A un centinaio di metri dalla riva, un pescatore di aragoste stava tirando su le sue nasse. Si avvicinò con la barca a una boa, la agganciò con una gaffa e la tirò a bordo. Assicurò la corda a un paranco che pendeva da una intelaiatura d'acciaio a forma di A, dette un paio di giri di corda attorno a un winch e tirò su la nassa fino al parapetto della murata.. Chase lo salutò con una mano, e il pescatore di aragoste alzò la testa, accennò anche lui a un saluto, ma poi scorse le lettere O.I. dipinte sulla fiancata della barca. Bloccò il saluto a metà e, invece, batté un pugno nell'incavo dell'altro braccio sollevando il dito medio in direzione di Chase, in un
gesto osceno. «Ma che carino,» disse Amanda. Chase si mise a ridere. «È Rusty Puckett,» spiegò. «Non gli sono molto simpatico.» «Lo vedo.» «I pescatori di aragoste sono una razza strana. Molti di loro considerano il mare come una riserva di pesca personale, e pensano di avere una specie di diritto conferito da Dio di mettere trappole dove vogliono, quando vogliono, di prendere tutto quello che vogliono, e che il resto del mondo vada pure al diavolo. Che Dio aiuti chiunque vada a mettere fuori posto le loro nasse: possono arrivare a mandarsi a picco gli uni con gli altri e anche a spararsi addosso.» «E tu gliele hai messe fuori posto, le sue nasse?» «Più o meno. Prima che io acquistassi l'isola, lui aveva l'abitudine di utilizzarla come un campo base, un deposito o una pattumiera. Metteva le sue nasse dappertutto, non soltanto nell'acqua bassa, ma anche nel canale e vicino al molo. Non potevo né entrare né uscire senza che l'elica della barca si impigliasse nelle sue lenze. Gli chiesi di spostarle, e mi disse di non annoiarlo con quelle storie. Andai dalla Guardia Costiera, ma non vollero immischiarsi. Così un giorno Tall Man e io tirammo su le sue nasse, le svuotammo e demmo le aragoste alla casa di riposo per gli anziani. Poi rimettemmo le nasse in mare, qui al largo. Gli ci vollero un paio di settimane per ritrovarle. «Lui sa che siamo stati noi ma non può provarlo, e quando ci ha accusati, Tall si è limitato a dirgli che era stato un avvertimento del Grande Spirito. Rusty è stupido ma non è un suicida, non aveva voglia di dare addosso a Tall, un gigante che ha lo stesso senso della legge di Rusty. «Così ha lasciato le sue nasse al largo, un po' perché è troppo pigro per spostarle, ma un po' anche perché la pesca qui fuori è, comunque, migliore.» «Ma allora dovrebbe essere contento.» «Così dovrebbe essere. Ma Rusty è uno che serba rancore. E poi, qui fuori non gli piace. Non succede mai niente, non ci sono emozioni, nessuno con cui litigare o a cui sparare addosso.» Navigarono in silenzio per alcuni minuti, poi Chase si voltò a guardare indietro. Alle loro spalle Block Island era diventata una massa grigia dai contorni indefiniti. Tolse il gas e mise il motore al minimo. «Ci siamo,» disse.
«Siamo, dove?» Amanda si guardò attorno. «Non vedo niente, non un uccello, non un pesce, niente se non il mare aperto.» «Sì,» disse Chase, «ma io riesco a sentirli, avverto il loro odore, arrivo quasi a toccarli.» Poi continuò, sorridendo. «E tu?» «Io che cosa?» «Gli squali.» 22 Rusty Puckett rimase a osservare la barca che si allontanava veloce verso est, con lo scafo bianco che sembrava immergersi nelle onde dell'oceano finché non riuscì a scorgere altro che sporadici riflessi causati dai raggi del sole sulla sovrastruttura d'acciaio del ponte di comando. Figlio di puttana, pensò, spero che tu vada a fondo, spero che urti qualcosa e vada giù come un sasso. O forse che tu vada prima a fuoco, e poi affondi. Sì, il fuoco è una buona cosa, qualcosa di bello e cattivo nello stesso tempo. Forse sarebbe andato sull'isola, una notte di queste, e avrebbe appiccato il fuoco a qualcosa. Dare loro una lezione a proposito di venire a rompere le scatole proprio a lui. Ma avrebbero indovinato certamente che era stato lui, e allora quel fottuto King Kong di un indiano gli sarebbe stato addosso come una mosca sul miele. Avrebbe dovuto pensarci. Aprì lo sportello della nassa, in bilico sul parapetto. Due aragoste stavano in un angolo, e muovevano le antenne avanti e indietro. Una era grossa, almeno un chilo, e Puckett stese il braccio, la afferrò dietro la testa, facendo attenzione alle chele, la tirò fuori e la lasciò cadere nella cassetta sul ponte. L'altra era molto più piccola, probabilmente un esemplare giovane che avrebbe dovuto essere buttato di nuovo in mare e lasciato crescere ancora per un anno o due. Puckett pensò per un attimo di misurare il carapace per avere conferma che l'aragosta fosse un esemplare giovane, ma poi pensò: al diavolo, se non la prendo io, la prenderà qualcun altro. Così tirò fuori l'aragosta dalla nassa, e con un solo, veloce movimento rotatorio, le strappò la coda e gettò fuori bordo la testa, le gambe e le chele che ancora si muovevano guardandole scomparire sott'acqua. Sistemò la coda sul tagliere. L'avrebbe sgusciata più tardi e l'avrebbe
venduta per farne insalata d'aragosta. Nessuno ne avrebbe saputo niente. Cambiò l'esca nella nassa, chiuse lo sportello, spinse la nassa oltre il parapetto e lasciò scorrere la corda fra le mani fino a sentirla lenta, il che significava che la nassa era arrivata sul fondo. Poi sistemò la boa fuori bordo, ingranò la marcia e andò avanti piano lungo il cavo, fino alla nassa successiva. Aveva in mare dieci nasse, doveva controllarle tutte e dieci. Aveva già diciotto pezzi nella cassa, forse avrebbe potuto averne trenta o anche di più per quando sarebbe rientrato... niente male per una mattinata di lavoro. Puckett raggiunse la nassa successiva, mise la barca in folle, si sporse oltre il parapetto, agganciò la boa e la tirò a bordo. Poi assicurò la corda al paranco, la avvolse intorno al verricello e lo fece girare tenendo una mano appoggiata sulla corda per guidarla intorno al tamburo. Udì un grido dalla spiaggia, si volse a guardare e vide una ragazza alta e bionda che correva sulla sabbia bagnata inseguita da quello che era, presumibilmente, il suo ragazzo. Indossava uno di quei bikini che non sono tanto un costume da bagno quanto un invito alla seduzione - come li chiamano, bersaglio di seta - e i seni le ballavano su e giù come due meloni. Carina, pensò. Non gli sarebbe dispiaciuto trovarsela fra le mani. La ragazza smise di correre all'improvviso, si voltò e schizzò sabbia e acqua addosso al ragazzo. Lui gridò qualcosa e fece per acchiapparla, ma lei si divincolò, si tuffò in acqua e cominciò a nuotare. Vieni qui, bellezza, pensava Puckett, e te lo faccio vedere io come è fatto. La ragazza nuotò fino oltre il frangiflutti, stuzzicando il ragazzo, finché anche lui si tuffò e nuotò verso di lei. Nuotarono a rana, uno vicino all'altra, verso la spiaggia, lasciandosi portare dalla marea. La nassa urtò contro il fondo della barca. Puckett bloccò il verricello e spinse il cavo più lontano possibile dal bordo, guidando la nassa da sotto la barca e verso la superficie. C'era qualcosa che non andava: la nassa era tutta sbilanciata, come se un'estremità fosse molto più pesante dell'altra. Si sporse dal parapetto, la afferrò con tutte e due le mani e la sollevò a bordo. Un'estremità della nassa era rotta. Grosse schegge di legno pendevano da pezzi di filo di ferro contorto. Guardò all'interno. A prima vista, la nassa sembrava vuota: niente esca, niente aragoste, niente di niente. Poi, guardando meglio, vide dei fram-
menti di guscio e due zampe di aragosta incastrate nella rete metallica. Che diavolo succede?, pensò. Un bracconiere non l'avrebbe fatto; avrebbe fatto la cosa più facile: tirare su la nassa, aprire lo sportello, prendere le aragoste e rimettere a posto la nassa. Uno squalo? No, uno squalo l'avrebbe fatta a pezzi, forse l'avrebbe schiacciata mentre cercava di portarsela via. Puckett sciolse il cavo dalla nassa distrutta, la spinse fuori bordo, poi si avviò a poppa per prenderne una di riserva. Ne portava sempre quattro di riserva, perché non si poteva mai sapere: le nasse potevano venire rubate e i cavi potevano essere tranciati dalle eliche o strappati via da una tempesta. Sistemò la nassa, mise dentro l'esca e la gettò in acqua. La nassa successiva era conciata ancora peggio. Due lati erano stati sfondati e lo sportello era stato strappato via, sparito. Una mezza dozzina di antenne di aragosta erano sparse sul fondo, il che significava che c'erano state almeno tre aragoste. Qualcuno le aveva fatte a pezzi. Ma chi? Nessun polipo avrebbe potuto fare questo a una nassa. Non c'erano anguille giganti da quelle parti, nessun calamaro abbastanza grande e cattivo. E se si fosse trattato di un'aragosta gigante? Erano cannibali, e una abbastanza grande avrebbe potuto fare a pezzi una nassa. Ma fammi il piacere, disse a se stesso, quell'aragosta avrebbe dovuto essere grande come una maledetta Buick. Chiunque lo avesse fatto, era grande e grosso e anche furioso o addiritura pazzo, e aveva avuto uno strumento con cui lavorare. Un uomo. Doveva essere stato un uomo, ma chi avrebbe potuto avere voglia di... Chase. Simon Chase. Sicuro. Aveva un senso. Perché, sennò, Chase lo avrebbe salutato con la mano quando gli era passato davanti? Non erano quel che si dice amici del cuore. Ce l'aveva con il vecchio Rusty, non contento di sbatterlo fuori dell'isola dove aveva pescato aragoste per quasi vent'anni, non contento di mandarlo continuamente all'inferno e ritorno. Ora voleva anche mandarlo in rovina. Sì, quel gesto di saluto era stato la chiave, la rivelazione. Okay, mister Simon fottuto Chase, con il tuo fottuto Istituto della tua fottuta isola di Osprey... se vuoi la guerra, guerra avrai. Meditando una possibile vendetta, Puckett sostituì la nassa e dette gas al motore, seguendo il cavo fino alla boa successiva.
Era probabile che Chase gli avesse distrutto tutte le nasse, ma doveva tirarle fuori per assicurarsene. Un'ondata di rabbia investì di nuovo Puckett, quando si rese conto che gli erano rimaste soltanto due nasse di ricambio, il che significava che avrebbe dovuto fare tutta la strada fino in città, prenderne delle altre e poi tornare lì di nuovo. La rabbia lo distraeva dal lavoro, mentre afferrava con la mano la boa. Avrebbe dovuto galleggiare sciolta per via della bassa marea, con il cavo allentato sotto di lei, ma non era così; sussultava come se ci fosse attaccato qualcosa. Puckett non ci fece caso. Agganciò la boa e la issò a bordo, avvolse il cavo e avviò il verricello. Il verricello prese subito a gemere sotto sforzo, la barca si inclinò e il cavo cominciò a slittare contro il tamburo. E ora cosa c'è?, pensò Puckett. Questo maledetto affare si deve essere impigliato nelle rocce. No, non si trattava di questo, non era possibile, perché ora il cavo faceva presa, il verricello lo stava avvolgendo... lentamente, come se avesse attaccato un grosso peso, ma stava venendo su. Alghe. Probabilmente aveva una cinquantina di chili di robaccia ammucchiata intorno. Afferrò una gaffa lunga un paio di metri e si sporse fuori bordo, preparandosi a strappare via le alghe prima di issare a bordo la nassa. Improvvisamente la barca ebbe uno scatto all'indietro e il cavo prese a salire più veloce. Forse si era liberato dalle alghe. Forse... La nassa arrivò in superficie, una sagoma scura avvolta da una nebbia verde. C'era qualcosa vicino a lei, presa dentro alla nassa... no, la spingeva... era biancastra, e... Gesù Cristo, pensò Puckett, è un cadavere. Ma, no, non era un cadavere, e stava nuotando, e velocemente, anche. Aveva la bocca aperta, e così gli occhi. Aveva delle mani - o degli artigli e si stavano protendendo verso di lui. Una delle mani afferrò la gaffa. Puckett lanciò un urlo e cercò di tirare via la gaffa, ma l'altro la teneva bloccata con la mano, e lui arretrò, sempre urlando. Urtò con la spalla la leva dell'acceleratore e la spinse in giù ingranando la marcia, e il peso del
corpo la spinse in basso, al massimo. Il motore ruggì e la poppa si abbassò non appena l'elica cominciò a girare e fece presa nell'acqua. La barca schizzò in avanti. Il cavo si srotolò dal verricello, cadde nell'acqua e la boa fu sbalzata dall'intelaiatura e scomparve. Puckett non si mosse finché non udì se stesso gridare. Poi si staccò dalla leva e raddrizzò la ruota del timone. Tenne la barca al massimo della velocità, continuando a guardarsi indietro come se si aspettasse che, qualunque cosa fosse, quell'essere si arrampicasse a poppa e gli arrivasse in cabina. Quando ebbe percorso circa cinquecento metri, diminuì la velocità e fece fare alla barca un ampio cerchio attorno alla boa. Tenendo il motore a millecinquecento giri, cosa che gli dava una velocità costante di dodici o quindici nodi, si avvicinò a circa cento metri dalla boa, e la osservò con attenzione. Adesso galleggiava, non sobbalzava più, e seguiva la corrente della marea. La mente di Puckett era sottosopra. Pensieri, immagini e domande rimbalzavano disordinatamente come la pallina di un flipper. Dopo alcuni istanti, sentì un brivido, e poi un attacco di nausea. Spinse in basso la leva e puntò verso casa. Dal punto della spiaggia dove erano usciti dall'acqua i due ragazzi guardarono la barca allontanarsi ruggendo, in una nuvola di gas di scarico. «Mi domando che cosa gli ha preso,» disse la ragazza. «Forse ha un guaio all'elica,» osservò il ragazzo. «È capitato anche a me. Hai solo voglia di tornare a casa prima che ti salti lo spinotto.» Guardò su e giù per la spiaggia. «Ehi, indovina, siamo rimasti da soli.» «E allora?» «E allora che ne dici di fare il bagno nudi?» «Hai solo voglia di dare una palpata,» disse la ragazza, sorridendo. «Ma figurati.» «Sì, è quello che vuoi. Ammettilo.» Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione, poi sorrise. «Okay, lo ammetto.» La ragazza si mise una mano dietro le spalle, tirò una fettuccia e lasciò cadere il reggiseno. «Hai visto? La sincerità è sempre la politica migliore.» Sciolse poi un nodo sulla coscia, e gli slip caddero sulla sabbia. Girò su se stessa, superò a salti le onde basse e si tuffò in acqua mentre il ragazzo cercava di uscire dal suo costume da bagno.
Nuotò senza meta sulla sabbia, alla ricerca di qualche segno di vita. Sebbene non possedesse la nozione del tempo, e ignorasse che l'alternarsi della luce e dell'ombra ne segnavano il passaggio, sentiva che gli intervalli fra i momenti in cui lo assaliva il folle bisogno di mangiare si stavano facendo sempre più brevi. Rispondendo all'intensificarsi dell'attività, il suo metabolismo, che per anni aveva funzionato a un livello appena calibrato per il sostentamento di una vita puramente vegetativa, stava accelerando i suoi ritmi, restituendo reattività al cervello e bruciando calorie sempre più in fretta. Percepì del movimento da qualche parte sopra di lui, al di fuori del suo campo visivo, e seguì i suoni finché non fu di nuovo su un'altra di quelle strane scatole di legno e fil di ferro. Dentro c'erano due piccole creature vive; e lui distrusse la scatola e le divorò. Seguì la pendenza della sabbia verso l'acqua più profonda quando, all'improvviso, sentì che il movimento era proprio sopra di lui. Si arrestò, ordinò alle sue branchie di fermare il loro movimento ritmico; e sintonizzò i sensibili recettori ai lati del cranio sulla fonte del cambiamento di pressione dell'acqua. Non era in grado di localizzare il punto esatto, ma poteva individuare la direzione e così, spalancando la bocca cavernosa, facendo scattare in avanti i denti, flettendo gli artigli, volò silenziosamente verso la preda. Il ragazzo abbracciò la ragazza, la circondò da dietro con le braccia e le mise le mani a coppa sui seni. Lei mandò un gridolino, si contorse per mettersi di faccia a lui, e alzò una mano per dargli uno schiaffo. Lui le fermò la mano, se la passò intorno al collo, si piegò in avanti e la baciò. Stretti uno all'altra, affondarono finché le loro teste sparirono sott'acqua, poi si separarono e riemersero. «Quanto è profondo qui?» chiese lui ansimando per respirare. «Non lo so, quindici metri, forse di più.» «Fa venire i brividi il fatto di non riuscire a vedere il fondo.» «Pensi che qualcosa possa divorarti?» Il ragazzo si mise a ridere. «Voglio tornare a riva.» «Okay.» «Solo fin dove tocchiamo.» «Andiamo allora.» Il ragazzo fece un paio di bracciate verso la riva. Poi
si fermò e chiese: «Che cos'era?» «Che cos'era cosa?» «Qualcosa sotto di noi. Non l'hai sentito?» «Smettila,» disse la ragazza. «Non sei spiritoso.» «Dico sul serio. Come una leggera onda di pressione. Ora se n'è andata.» «Jeffrey, ti odio... non fai ridere nessuno.» «Ti dico che...» cominciò il ragazzo, ma la ragazza gli era già passata davanti e batteva l'acqua con forza, nuotando verso la riva. Adesso li poteva vedere, molto lontano, due creature vive, grandi, deboli, impacciate. Schizzò verso la superficie. All'improvviso sentì qualcosa che lo colpiva dall'alto, si sentì intontito, ma non ferito. Disorientato, piroettò su se stesso, per vedere che cosa lo avesse colpito. Al limite del suo campo visivo c'era qualcosa di enorme, più grande di lui, di un colore opaco che quasi non si distingueva dall'acqua circostante, con delle pinne sulla schiena e sui fianchi. Una coda a mezzaluna lo spingeva in un lento circolo. Aveva la bocca spalancata; e lo fissava con uno sguardo vuoto. Una parola venne alla mente dell'essere, di fronte a questa cosa, una parola che giungeva dal suo nebuloso passato. La parola era Hai - squalo - e nel momento stesso in cui la riconobbe, gli giunse anche una sensazione di pericolo. L'essere prese a girare insieme con lo squalo, pronto a difendersi. Lo squalo agitò la coda e caricò con la testa alta, spalancando la bocca. L'essere si scansò, arretrando e gettandosi su un fianco, e lo squalo gli passò accanto. Si girò immediatamente e attaccò di nuovo, ma l'essere gli si tuffò dietro, con gli artigli protesi. Gli artigli trovarono la carne, e la lacerarono, ma la carne era dura e spessa. Non ne uscì sangue. Questa volta lo squalo non si girò, ma continuò ad andare, muovendo l'acqua con la coda e scomparendo nella nebbia grigioverde. L'essere si lasciò andare sul fondo. Si orientò, poi osservò di nuovo la superficie, alla ricerca delle due creature vive. Se n'erano andate. L'acqua non era disturbata da suoni o da variazioni di pressione. L'essere si diresse di nuovo verso le acque profonde, per andare a caccia. A riva, la ragazza si avvolse nell'asciugamano, raccolse il costume da
bagno e si avviò, lasciando il ragazzo a cercare i pantaloncini fra l'erba della duna dove li aveva lasciati cadere. 23 La barca era ancorata su un fondale di circa settanta metri. La gabbia galleggiava cinque o sei metri indietro, trattenuta da un cavo assicurato a poppa. Per un'ora Chase e Tall Man avevano sparso mangime fuori bordo, e l'aria immobile della cabina di pilotaggio sapeva di sangue e di olio di pesce. Una macchia di unto si allargava a ventaglio dietro la barca, portata dalla marea, i riflessi oleosi chiaramente visibili contro l'acqua calma. Due bombole da sommozzatore erano state attrezzate con regolatori e imbragature e stavano sul ponte in mezzo a pinne e maschere. Amanda aveva indossato la muta fino all'altezza della vita e la parte superiore le pendeva dai fianchi. Il sudore luccicava loro sulle braccia e sulle spalle. La schiena di Amanda si stava arrossando per il sole. Si diresse verso prua, tuffò un secchio nell'acqua pulita, tornò indietro e annaffiò gentilmente i leoni marini, che si erano messi tutti giù in un groviglio e dormivano. «Devo mettere presto le ragazze in acqua,» disse. «Non sopportano il caldo.» «La radio dice che oggi dovrebbe arrivare a più di quaranta gradi, e scommetto che...» «Uno squalo,» gridò Max dall'alto del ponte di comando. «Ne vedo uno!» Guardarono a prua. Cinquanta metri più avanti, una pinna dorsale a forma di triangolo filava attravero la chiazza d'unto. La seguiva una pinna caudale che batteva l'acqua da una parte e dall'altra. «È uno squalo blu,» disse Chase. «Sapevo che li avremmo attirati.» «Come fai a dirlo da così lontano?» chiese Amanda. «La pinna dorsale è corta e massiccia... la pinna caudale è sottile... uno squalo blu scuro.» «Quanto è grande?» «A giudicare dalla distanza fra la pinna dorsale e quella caudale... direi tre metri, tre metri e mezzo.» Guardò su verso Max. «Bravo. Tieni gli occhi aperti, ce ne dovrebbero essere altri.» «Laggiù!» urlò Max, indicando col dito. «Dietro il... no, due! Ce ne sono altri due!» Come se avessero sentito l'eccitazione nella voce di Max, i leoni marini
si stirarono e si alzarono sulle pinne, annusando l'aria. «Prepariamoci,» disse Chase ad Amanda, e lasciò cadere il mestolo nel secchio del mangime. Prima che Amanda e Chase avessero finito di indossare le mute e le bombole di ossigeno e di sistemarsi le maschere sul viso, sei squali azzurri attraversavano in lungo e in largo la chiazza oleosa del mangime, avvicinandosi sempre di più alla gabbia. «Buttagli un paio di pesci ogni tanto,» disse Chase a Tall Man. «In modo da tenergli desta l'attenzione.» Aprì un boccaporto che si trovava fra i suoi piedi, allungò il braccio all'interno e tirò fuori due pezzi di plastica bianca, ognuno delle dimensioni di una scatola di cartone per le camicie, legati insieme, faccia a faccia. Un pezzo di corda era assicurato a un angolo. «Che cos'è?» chiese Amanda. «Un panino di plastica?» «Esatto.» Chase sorrise. «Ma noi scienziati di fama mondiale lo chiamiamo Gnatodinamometro.» «Stai scherzando.» «Niente affatto. Semplice ma efficace. Questa è plastica da laboratorio, ultrasensibile. E qui dentro,» spiegò Chase, «c'è un gamberetto ben frollato. Una volta che Tall Man ha gettato il cibo agli squali, io terrò il mio sandwich fuori dalla gabbia attraverso uno degli oblò per le cineprese. Uno squalo sentirà l'odore del gamberetto e morderà la plastica. Gliela faccio addentare fino in fondo, poi gliela porto via. Quindi riporto la plastica in laboratorio e uso un micrometro per misurare la profondità del morso, e un sistema di tavole di raffronto mi dice quanta pressione ha esercitato.» «Stupefacente,» disse Amanda. «Il tutto deve essere costato circa tre dollari.» «Dieci dollari, per la precisione. Ma aggiungi il costo della gabbia, la barca, il carburante e l'equipaggio e arrivi presto a un centinaio di migliaia di dollari.» Chase fece una pausa, osservando gli squali che giravano in cerchio vicino alla gabbia, poi le chiese: «Sei sicura di voler mettere in acqua i tuoi leoni marini?» «Tu stai a guardare,» disse lei con un sorriso. «Si faranno beffe dei tuoi squali.» Aprì la porta che dava sullo specchio di poppa, scese sulla pedana, prese un secchio pieno di pesci e chiamò per nome i leoni marini. Uno per volta, le si avvicinarono con la loro buffa andatura, ricevettero un pesce, e, quando lei agitò il braccio e mosse la mano in direzione dell'acqua, si lasciarono cadere sulla pedana e da lì in mare.
Chase osservò i loro corpi bruni spiccare tra i dorsi metallici degli squali, poi sfrecciare via nell'acqua azzurra. «Pronti?» disse Amanda. Allungò la mano nella cabina per prendere la cinepresa. Chase non rispose. Rimase a osservare l'acqua, anche dopo che i leoni marini furono spariti dalla vista. Era eccitato come si era aspettato di essere; quello che non si era aspettato era la vaga sensazione di inquietudine che gettava un'ombra sulla sua eccitazione: non paura, nulla di specifico, più che altro uno strano presentimento. «Non preoccuparti per i miei leoni marini,» disse Amanda. «Staranno benone.» «Non lo sono, infatti,» rispose Chase. «Non sono neppure preoccupato per gli squali azzurri. È solo che non posso fare a meno di domandarmi che cosa ci sia là sotto.» «Non pensarci, Simon,» intervenne Tall Man. Afferrò il cavo legato alla gabbia e lo tirò forte, trascinando la gabbia fino all'altezza della poppa della barca. «Non c'è niente che può andare storto con questa gabbia.» Chase disse: «Hai ragione». Poi si mise a sedere sulla pedana, si piegò sulla gabbia e aprì il portello sul tetto. Uno squalo azzurro si avvicinò alla gabbia, poi guizzò via. Mentre, ritto in piedi, si metteva maschera e boccaglio, Chase sentì Max che chiamava: «Papà...» Guardò su verso il ponte di comando. Il ragazzo appariva piccolo e distante. «Stai attento...» mormorò Max. Chase fece a Max un segno col pollice alzato, si abbassò la maschera sulla faccia, e, tenendo stretto al petto il sandwich di plastica, si calò nel portello, nell'acqua fredda e scura. Amanda lo seguì subito dopo. Quando Tall Man vide che erano al sicuro nella gabbia e avevano bloccato il portello, mollò la cima di sicurezza; la gabbia scivolò indietro finché il cavo non andò in tensione. Controllò che il nodo sulla galloccia tenesse, poi buttò qualche sgombro fuori bordo e riprese a spargere l'esca. Ci volle un momento perché le bolle d'aria si dissolvessero e l'acqua tornasse limpida. Chase dette un'occhiata ad Amanda, vide che stava sistemando la cinepresa e guardò fuori nell'azzurro circostante. Uno sgombro cadde con un tonfo nell'acqua sopra di loro e affondò da-
vanti alla gabbia, girando su se stesso come una foglia. Un leone marino piombò a capofitto da dietro il fianco della gabbia, afferrò il pesce con la bocca e si sollevò per un attimo come se volesse mettersi in posa per la cinepresa di Amanda. Poi affondò i denti nello sgombro, il sangue gli schizzò dagli angoli della bocca e, masticando, si allontanò a nuoto. Chase cercò gli squali con lo sguardo. Ne vide tre, a quindici o venti metri di distanza, al limite del suo campo visivo: profili scuri che incrociavano lentamente avanti e indietro. Non ci vorrà molto, pensò, sono solo circospetti; fra un minuto o due si saranno abituati alla nostra presenza, e verranno a mangiare. Ancora tre sgombri caddero davanti alla gabbia, uno per ogni lato e uno di fronte. Un leone marino ne afferrò uno; gli altri due continuarono a scendere. Due dei tre squali si girarono e nuotarono verso la gabbia, con movimenti non più lenti e sinuosi ma veloci e scattanti. Ora non nuotavano più senza meta, ora erano in caccia. Uno sgombro scendeva proprio di fronte a Chase, a non più di un metro di distanza. Come un aereo da combattimento in picchiata su un obiettivo, uno degli squali arrivò addosso allo sgombro. Spalancò la bocca, la membrana delle palpebre che gli proteggeva gli occhi scivolò in avanti... All'improvviso lo squalo si bloccò, il corpo arcuato; poi girò in un cerchio stretto e svanì nell'oscurità. Lo sgombro continuò a scendere, intatto. Chase guardò Amanda e aprì le braccia, che cosa significava tutto questo? Sapeva che gli squali azzurri, anche se attaccano raramente gli esseri umani, tuttavia non li temono; mentre gli sembrava chiaramente che lo squalo fosse stato preso all'improvviso dal panico quando aveva visto lui e Amanda. Lei si strinse nelle spalle e scosse la testa. Chase spinse il sandwich di plastica fuori dal portellino della cinepresa, lo spremette con forza per far uscire nell'acqua i succhi di pesce e lo agitò, tentatore. Un leone marino si avvicinò per annusarlo, ma Amanda gli fece segno di andare via, e quello obbedì. Tra le sbarre, sul fondo della gabbia, Chase vide uno squalo risalire dal basso. Aveva sentito l'odore, ne cercava la fonte. Lui tenne la plastica il più lontano possibile dalla gabbia, facendola oscillare al capo della corda. Lo squalo sollevò la testa verso l'alto e girò come se volesse tornare da dove era venuto. Vieni avanti, bellezza, mormorò Chase fra sé, vieni avanti.
Lo squalo aprì la bocca mostrando file di piccoli denti triangolari. Non era nenche a due metri dall'esca, poi a un metro... Chase tenne la corda più strettamente che poté, ben sapendo che avrebbe dovuto combattere per impedire che lo squalo gli strappasse via l'intera attrezzatura. Mentre lo squalo si girava su un fianco, poté vedergli gli occhi. Lo squalo ebbe come un fremito, come se fosse andato a sbattere contro un muro. Chiuse la bocca, e con due colpi della coda poderosa, scomparve in profondità. Chase si voltò verso Amanda e fece dei gesti verso l'alto con entrambi i pollici. Si dette una spinta contro il fondo della gabbia, spinse il portello per aprirlo e si issò fuori dall'acqua fino ad appoggiare i gomiti sul bordo della gabbia. Si tolse il boccaglio e sollevò la maschera. «Che cosa li spaventa?» chiese Tall Man. Dalla superficie, aveva visto tutto. «Che io sia dannato se lo so.» Amanda sgusciò fuori dalla gabbia e raggiunse Chase all'aria aperta. «Non ho mai visto una cosa simile in tutta la mia vita,» disse Chase. «Gli squali azzurri non hanno paura della gente.» «Questi è certo che ne hanno,» osservò Amanda. «Hai visto le ferite dell'ultimo?» «No. Dove?» «Lungo tutto un fianco. Non erano ferite da accoppiamento, comunque, quelle le conosco. Queste non erano casuali, erano cinque grossi tagli, tutti perfettamente paralleli. E freschi.» «Cinque?» disse Chase. «Ne sei sicura?» «Sicurissima. Perché?» «Circa una settimana fa abbiamo visto un grosso delfino con cinque tagli profondi sulla coda.» «Causati da che cosa?» «Questo è il punto.» Chase guardò Tall Man. «Tu cosa ne pensi?» «Diamogli un altro colpo,» propose Tall Man. Vuotò in acqua un altro secchio di mangime, seguito da una mezza dozzina di sgombri. «Se questo non li attira qui, non ci riuscirà nient'altro.» Aspettarono un momento, per lasciare che sangue e interiora si disperdessero nell'acqua, poi si calarono di nuovo nella gabbia. Nuvole di colore rosso si spandevano nell'acqua, carcasse di pesce scendevano verso il fondo simili a rottami. Attraverso l'acqua torbida Chase vi-
de due squali, a nove o dieci metri di distanza, ma non aveva fatto in tempo ad allungare una mano e bloccare il portello, che erano già scomparsi. Controllò il suo orologio, poi si afferrò alle sbarre e guardò attraverso il portellino della cinepresa. Dopo cinque minuti il sangue era scomparso, i pesci erano arrivati sul fondo. Chase non vide altri esseri viventi al di fuori dei leoni marini, che passavano davanti alla gabbia da soli o a coppie, giocando. Fece segno ad Amanda di tornare su. Quando furono saliti a bordo e si furono tolti le bombole, Chase disse ad Amanda: «Non ha alcun senso; c'è qualcosa che non va. Si direbbe che si siano passati parola, 'Girare al largo, gli umani sono una minaccia', ma questo non può essere, a meno che non ci sia nell'acqua una qualche anomalia elettromagnetica, che hanno percepito subito tutti, e che sia qualcosa collegata con l'uomo». «C'è da pensare che i miei leoni marini avrebbero dovuto sentirla per primi,» commentò la donna. «Senza offesa per i tuoi squali, ma le mie signore sono su un gradino più alto quanto a intelligenza.» «Può essere,» intervenne Tall Man. «Ma i tuoi leoni marini non erano nei paraggi quando è successa 'sta roba. Non hanno ancora avuto una lezione da imparare.» «Non vuoi richiamarli e farli salire a bordo?» le chiese Chase. «Certo che posso, se dobbiamo andare via. Altrimenti, torneranno indietro quando ne avranno voglia.» «Pensavo che avremmo potuto tentare in un altro posto, tanto per...» «Papà...» disse Max dal suo posto d'osservazione sul ponte di comando. «Posso andare nella gabbia?» «Vuoi dire con una bombola? Non...» «Ma non ci sono squali in giro.» «D'accordo, ma non mi sembra che un fondale di sessanta metri con una chiazza oleosa di mangime larga cinque miglia sia proprio il posto adatto per cominciare...» «Ti prego... ehi, dovrò pure entrarci in una gabbia. Con te.» Max sorrise, continuando a tormentare suo padre con le sue suppliche. «Di che cosa ti preoccupi... che ci colpiscano i raggi del sole?» Chase lanciò uno sguardo a Tall Man in cerca di aiuto, poi ad Amanda, ma nessuno dei due gli venne in soccorso. Questo è il momento dei genitori, pensò. Sembra che queste decisioni arrivino sempre quando meno te lo
aspetti. Alla fine acconsentì. Max non aveva una muta, così Amanda gli prestò la sua. Era troppo grande per lui, probabilmente non gli avrebbe tenuto caldo, ma gli avrebbe impedito di farsi dei tagli o dei lividi contro la gabbia. Chase gli sistemò sulla schiena una bombola, e, quando furono tutti e due pronti ed equipaggiati, ripeté con lui i punti salienti dell'addestramento. «La cosa più importante,» disse Chase alla fine, «è non...» «Lo so... non trattenere mai il respiro. Ma non andremo tanto in profondità.» «Se è per questo, non ci immergeremo affatto. La gabbia resterà in superficie, ma tu starai comunque a un metro, un metro e mezzo sotto il pelo dell'acqua. Puoi prenderti un embolo anche in cinquanta centimetri.» Chase fece una pausa. «A posto?» «A posto.» «Io andrò per primo; Tall ti dirà quando devi venire; Amanda ti darà una mano.» Chase rivolse uno sguardo supplice al cielo, poi si calò nella gabbia attraverso il portello. Un momento dopo, Max scivolò attraverso il portello, atterrando sui piedi. Si assestò la maschera e spurgò il regolatore d'aria. Chase vide che il ragazzo era un po' sottopeso - la spinta ascensionale della muta tendeva a sollevarlo dal fondo della gabbia - così fece cenno a Max di tenersi alle sbarre. Max annuì e obbedì, e insieme guardarono fuori nel mare deserto. Non videro squali, né leoni marini, niente di niente. Poi Max si lasciò andare in ginocchio, guardò verso il basso, scosse la gamba di Chase e indicò qualcosa. Molto sotto di loro, appena visibile, c'era un piccolo squalo solitario. Un leone di mare gli scese vicino a capofitto, come se volesse sfidarlo. Max premette la maschera contro il bordo della gabbia, nel tentativo di vedere meglio. Gli animali erano appena al di là del raggio di una visuale nitida. Se solo fossero venuti più su, pensò Chase, anche soltanto di tre metri, Max avrebbe potuto vederli bene. Poi gli vennero in mente le bombole di galleggiamento e si rese conto che se gli animali non fossero venuti verso di loro, lui avrebbe potuto avvicinargli la gabbia. Si piegò in avanti e controllò l'indicatore d'aria inserito nel regolatore di Max: mille chili. Era pieno. Poi allungò una mano e aprì le valvole di scarico di entrambe le bombole di galleggiamento.
La gabbia cominciò a immergersi. Ondeggiò per un attimo, poi prese a scendere dolcemente man mano che Tall Man allentava il cavo sulla barca. Quando il profondimetro di una delle bombole indicò a Chase che la sommità della gabbia era a cinque metri sotto la superficie, chiuse le valvole di scarico e aprì altre due valvole, immettendo aria nelle bombole finché la gabbia ebbe ripreso una spinta di galleggiamento neutra. Lo squalo e il leone marino erano ora chiaramente visibili, due sagome scure contro uno sfondo blu. Alcune bolle d'aria salirono veloci in superficie quando il leone marino buttò fuori dell'aria dalla bocca. Poi, all'improvviso, il leone marino si allontanò di scatto dallo squalo e partì a tutta velocità verso l'alto. A tutta prima, Chase pensò che l'animale si fosse stancato del gioco o avesse bisogno di respirare, ma c'era qualcosa nei suoi movimenti, una sorta di precipitazione, che diceva chiaramente che le cose non stavano così. Il leone marino passò velocemente vicino alla gabbia e si affrettò verso la barca. Mentre Chase lo seguiva con gli occhi, vide gli altri leoni marini due insieme e l'altro da solo - nuotare verso la barca con la stessa velocità frenetica. In nome di Dio, pensò Chase, che cosa c'è adesso? «Si direbbe che ne hanno avuto abbastanza,» disse Tall Man guardando i leoni marini che si affannavano sulla pedana. Emettendo una sorta di ruggito, si spingevano gli uni con gli altri nell'accanimento di salire a bordo. «No,» disse Amanda allarmata. «Qualcosa le ha spaventate. Qualcosa là fuori.» «Di che genere?» Tall Man guardò fuori bordo. Riusciva a stento a vedere la gabbia perché, nel momento stesso in cui si era immersa, era stata spinta dalla corrente nell'ombra della barca. Stringendo il cavo, andò da un lato all'altro della barca, poi ritornò a poppa. «Niente,» disse. «Non riesco a vedere niente là fuori.» «È lì, comunque,» insistette Amanda. «Qualcosa... da qualche parte.» «Allora, qualunque cosa sia, deve essere in profondità. O è così, oppure... Merda!» «Cosa?» «Sotto la barca.» E prese a tirare sul cavo. La gabbia vibrò quando il cavo le dette uno strattone. Chase allungò una mano per girare le valvole dell'aria.
Un'ombra le passò sopra, così grande da avvolgere l'intera gabbia nell'oscurità. Chase trasalì e guardò in alto. Un raggio di luce lo abbagliò per un attimo disorientandolo; e quando rimise a fuoco la vista, non era più sicuro della direzione presa dall'ombra. Si voltò. Tre metri più in là, emerso dall'ombra della barca e nuotando verso la gabbia con quella possente eleganza che Chase aveva ammirato una volta ma che ora trovava terrificante, c'era il grande squalo bianco. Non accennò a rallentare né ebbe esitazioni. Rovesciò gli occhi all'indietro nelle orbite; ruotò in avanti le gengive; triangoli bianchi si mostrarono, dritti e in fila serrata. Il suo morso si chiuse sulle sbarre della gabbia. D'istinto, Chase si tuffò in avanti e si gettò su Max. Il ragazzo voltò la testa, gli occhi spalancati per il terrore. Si udì uno stridio di denti contro il metallo il suono scricchiolante del metallo contorto, il sibilo improvviso dell'aria e un'esplosione di bolle. La gabbia sbandò impazzita, ondeggiando sotto la barca e sbattendo contro la chiglia, e Chase capì al volo che cosa era successo: lo squalo aveva messo fuori uso una delle bombole di galleggiamento. «Maledizione!» urlò Tall Man. I muscoli delle braccia e delle spalle sporgevano come cavi d'acciaio mentre tirava la corda. Aveva scorto lo squalo solo un attimo prima che attaccasse schizzando da sotto la barca come un siluro grigio. Amanda tese le braccia, afferrò il cavo e lo aiutò a tirare. «Pensavo che gli squali non...» «Sì,» disse Tall Man. «Ma indovina un po': questo l'ha fatto.» «Ma perché?» «Lo sa Dio!» Potevano sentire la gabbia battere contro la chiglia, potevano sentire i colpi sotto i piedi. «Puoi mettere il cavo nel winch?» chiese Amanda. «Non oso. Il bastardo pesa più di una tonnellata; il peso potrebbe strappare il cavo dalla gabbia.» «Cosa possiamo fare? Dobbiamo...» «Se esce da sotto la barca, gli sparo, a quel figlio di puttana,» disse Tall Man. «Fino ad allora, possiamo solo pregare che se ne vada.» Chase e Max si erano accucciati nell'angolo opposto della gabbia, tenendosi stretti l'un l'altro, afferrati alle sbarre, mentre la gabbia ondeggiava
senza controllo sotto la barca. Lo squalo aveva serrato le mascelle, e contorceva e agitava il suo corpo massiccio come se cercasse di fare a pezzi la gabbia. Chase vide che le bolle uscivano dal regolatore d'aria di Max in una corrente continua. Il ragazzo si stava iperventilando. Attirò l'attenzione di Max, indicò il proprio regolatore, poi quello di Max, e gli fece cenno di rallentare il ritmo della respirazione. Terrorizzato, Max annuì. All'improvviso, lo squalo mollò la presa sulla gabbia che ondeggiò verso il basso, tutta di traverso. Chase vide il grande ventre bianco dello squalo scivolargli lentamente davanti agli occhi mentre l'animale si lasciava andare verso il fondo. C'erano cinque tagli paralleli davanti alla fessura genitale. «Tira!» disse Tall Man. Lui e Amanda cominciarono a recuperare il cavo, una mano dopo l'altra. Guardando fuori bordo, poterono vedere la sommità della gabbia nel momento in cui si liberò dal fondo della barca. Lo squalo era una sagoma grigia, sospesa, quasi immobile sotto la gabbia. Tall Man si accucciò sulla pedana e tenne il cavo distante, sopra la poppa. «Ancora un paio di metri e ce l'abbiamo...» «No!» urlò Amanda indicando con una mano. Ci fu il lampo di una coda a mezzaluna, un ribollire d'acqua, e la testa conica dello squalo eruppe in superficie, la bocca semichiusa. Urtò contro la scaletta, scivolò, e si attaccò al cavo. Con un solo movimento della testa, lo squalo strappò il cavo dalle mani di Tall Man e lo divelse dalla gabbia. Tall Man cadde all'indietro sul ponte di poppa. Lo squalo nuotò via; la gabbia cominciò ad affondare. Chase si drizzò in piedi, afferrò la valvola dell'aria della bombola ancora intatta e la girò sulla posizione di massima apertura. Ci fu un sibilo d'aria e la gabbia rallentò la discesa. Ma continuava ad affondare. Chase gonfiò il suo giubbotto di salvataggio e quello di Max, sperando che la diminuzione del loro peso e l'aumento della spinta di galleggiamento avrebbero fermato la gabbia, lasciandola inerte, finché Tall Man non avesse calato giù un cavo. La gabbia continuava ad affondare. Chase guardò il profondimetto sulla bombola: l'ago aveva superato i dieci metri, poi dodici, quindici... Si guardò velocemente attorno. Lo squalo era scomparso. Diciotto metri...
Chase sapeva di non avere scelta, non potevano restare nella gabbia fino sul fondale. Sarebbero rimasti entrambi senza ossigeno, probabilmente prima di raggiungere il fondo, certamente prima che Tall Man potesse raggiungerli. Alzò Max in piedi e aprì il portello. Mise le mani sulle spalle di Max e lo guardò fisso negli occhi, per fargli tornare alla mente le cose che aveva imparato, e pregando che il ragazzo fosse stato ad ascoltarlo. Si tolse il boccaglio e formulò con le labbra la parola: «Ricorda!» Max capì. Venti metri... Chase spinse Max fuori attraverso il portello e lo seguì immediatamente. Strinse una mano del ragazzo e gli si mise di faccia in modo da poter controllare la sua respirazione. Stavano salendo troppo in fretta, più veloci delle loro stesse bolle; l'aria dei loro giubbotti si stava dilatando, tendeva verso la superficie, trascinandoli verso l'alto. Dovevano rallentare; continuando a salire con quel ritmo, rischiavano una lesione polmonare, un embolo o un'embolia gassosa. Chase fece uscire aria dai giubbotti, e rallentarono. Adesso le loro bolle li precedevano. Bene. Chase guardò il suo profondimetro: tredici metri... undici... Non guardò in basso... teneva lo sguardo fisso sul viso di Max. Non vide lo squalo che risaliva dietro di loro. Sei metri... cinque... All'improvviso ci fu il rumore di un tuffo sopra di loro, e un turbinare d'acqua, e Tall Man scese nuotando verso di loro, con un fucile a fiocina stretto in pugno. Adesso Chase guardò in basso, e vide il grande squalo bianco lanciato come un missile attraverso l'acqua scura, con la bocca spalancata e la mascella abbassata. Tall Man premette il grilletto. Ci fu uno sbuffo di bollicine dal propellente a base di diossido di carbonio, e la fiocina schizzò via dal fucile. Colpì lo squalo nel palato, e rimase infissa. Lo squalo ebbe un attimo di esitazione, scuotendo la testa per liberarsi di quel fastidio. Poi morse con forza, piegando la fiocina fino a spezzarla. Chase irruppe in superficie, tirò Max dietro di sé e lo sollevò sulla scaletta. Amanda afferrò Max e lo issò sulla barca mentre Chase, con una oscillazione delle gambe, ruotava sulla scaletta, e si sporgeva in basso ad afferrare la mano di Tall Man.
Ma Tall Man era rimasto appena sotto il pelo dell'acqua e guardava in basso. Alla fine, si dette una spinta verso l'alto, e, con un solo movimento, si issò sulla pedana. Chase si liberò della sua bardatura, lasciò cadere la bombola sul fondo e strisciò carponi fino a Max, che stava steso su un fianco, mentre Amanda lo aiutava a liberarsi della sua bombola. «Va tutto bene?» chiese Chase. Max teneva gli occhi chiusi. Annuì, accennò a un debole sorriso e disse: «Siii...» «Sei stato formidabile... hai osservato le regole... non ti sei fatto prendere dal panico. Sei stato formidabile!» Chase si sentiva colpevole e stupido, sollevato e orgoglioso; voleva esprimere questi sentimenti, ma non sapeva come, e allora si limitò a prendere una mano di Max fra le sue, la strofinò forte e disse: «Che diavolo di una iniziazione alle immersioni in alto mare». Vide Tall Man che veniva in avanti verso la cabina, e disse: «Ehi, Tall... grazie. Non guardavo. Non l'ho visto arrivare». «Lo so,» disse Tall Man. «Ho pensato che era meglio dare al bastardo qualche altra cosa da masticare al posto vostro. Era il nostro squalo, sai. Aveva ancora addosso l'etichetta.» «Non ho mai visto né sentito un simile comportamento. Era pazzo furioso! È una cosa strana, come per gli squali azzurri, solo al contrario: il bianco era folle di aggressività invece che di paura.» Chase fece una pausa. «Ma, qualunque sia la causa di questo comportamento, si tratta comunque dello stesso aggressore: c'erano cinque tagli sul ventre dello squalo bianco.» Salparono l'ancora e fecero rotta a ovest, diretti a casa. Chase stava alla ruota del timone sul ponte di comando. Max era steso su un asciugamano accanto a lui, e si riscaldava al sole del pomeriggio. Amanda dava da mangiare ai leoni marini. Quando li ebbe sistemati a poppa, si arrampicò per la scaletta sul ponte di comando. Il basso profilo di Osprey Island stava appena spuntando all'orizzonte quando Tall Man apparve ai piedi della scaletta e disse ad Amanda: «C'è il tuo pilota alla radio; ha trovato le balene». «A che distanza?» «Non è lontano, un paio di miglia a est.» Amanda ebbe un attimo di esitazione. Guardò l'orologio, poi i leoni marini, poi Chase. Chase chiese a Max: «Come ti senti?»
«Bene, sto bene. Andiamo; non ho mai visto delle balene.» Chase si rivolse ad Amanda. «Dipende da te. Credi che i leoni marini lavoreranno?» «Certo, finché non saranno stanchi. Allora si fermeranno.» «Non sono spaventati?» «No, non credo. Se vedono lo squalo bianco, usciranno dall'acqua, come hanno fatto prima. Tra l'altro gli squali, abitualmente, stanno lontani dai branchi di grosse balene in buona salute.» «Uh-huh,» disse Chase. Girò la ruota a sinistra e puntò a est. «Non pensavo solo allo squalo bianco.» 24 «Non riesco a sentirle,» disse Max. Duecento metri più avanti, un branco di balene gibbose si muoveva lentamente verso nord. «Le sentiresti se fossi sott'acqua,» ribatté Chase. «Le potresti sentire da miglia di distanza.» «Ma se cantano...» «Non è proprio un canto, lo chiamiamo così perché non sappiamo come descriverlo altrimenti. Non hanno realmente una voce. Emettono suoni per mezzo di un meccanismo situato all'interno della loro testa. E non lo fanno sempre.» Stavano in piedi sul ponte di comando. La barca borbottava con il motore in folle, beccheggiando pigra sulle onde lunghe dell'oceano. I grandi corpi grigi si muovevano attraverso il mare, spostando montagne d'acqua con le grandi teste a forma di bulbo, mostrando grandi e grasse pinne caudali larghe dai cinque ai sette metri. Vi erano degli esemplari adulti e dei piccoli, maschi e femmine, ma era impossibile contarli, perché ogni momento uno o due di loro sbattevano l'acqua con la coda per poi sparire in una profonda immersione, e riapparire dopo lunghi minuti in mezzo ai loro compagni, in una posizione assolutamente imprevedibile. «Cosa dice la loro canzone?» chiese Max. «Per molto tempo, non lo ha saputo nessuno; tutto quello che si sapeva era che le balene comunicano tra loro, forse parlano dei posti dove stanno andando, o dove può esserci del cibo e se hanno la percezione di qualche pericolo. Tutte le balene comunicano; ho sentito dire che le balene gibbose possono restare in contatto tra di loro anche attraverso mille miglia di oce-
ano aperto. Le gibbose, tuttavia, sono le uniche balene che cantano con un sistema complesso di suoni e di toni. Adesso gli scienziati sono sicuri che il canto delle balene è un canto d'amore, che i maschi cantano per richiamare le femmine.» Chase sorrise. «Preferisco pensare che abbiano torto e che il canto sia ancora un mistero.» «Perché?» «I misteri sono una cosa meravigliosa. Sarebbe noioso se ci fosse una risposta a tutto. È come il mostro di Loch Ness: mi auguro che non lo trovino mai. Abbiamo bisogno dei draghi per tenere desta la nostra fantasia.» «Max!» chiamò Amanda da poppa. «Vieni giù a preparare Harpo.» Max attraversò il ponte di comando e scese giù per la scaletta fino alla cabina di poppa. Tre dei leoni marini erano stati equipaggiati con una imbracatura, e assicurata a ogni imbracatura c'era una cinepresa con gli obiettivi orientati in avanti. Il quarto animale si muoveva in continuazione da un lato all'altro come se fosse confuso. Amanda porse a Max la quarta imbragatura e gli fece vedere come adattarla intorno alle spalle del leone marino, lungo il ventre, dietro le pinne e sopra la schiena. Quando Max gli fece scivolare le bretelle di cuoio sopra la pelle di seta, il leone marino gli strofinò contro il naso freddo e gli fece il solletico con i baffi. Amanda sistemò la cinepresa e gridò a Chase: «Tutto a posto». Chase guardò fuori sull'oceano. Tutto sembrava normale e tranquillo. Ma tuttavia... «Sei sicura di volerlo fare?» chiese. «Abbiamo tre mesi di tempo.» «Sì, ma le balene non si trovano tutti i giorni. Andiamo.» «Okay. Sei tu che conduci il gioco. Quanto vuoi che mi avvicini? Non voglio infrangere qualche legge federale sulle molestie alle balene.» «Non troppo vicino. È importante che ci mettiamo di fronte alle balene in modo che i leoni marini non si stanchino nel tentativo di raggiungerle.» Chase innestò la marcia e accelerò, tenendosi alla dovuta distanza dalle balene per non spaventarle con il rumore del motore. In una giornata così calma non ci sarebbero stati problemi a non perdere di vista le balene; le loro pinne caudali e i loro soffi sarebbero stati visibili per un miglio o più. Così si portò a una distanza di circa cinquecento metri dalle balene prima di togliere il gas e di lasciare che la barca andasse alla deriva.
A poppa i leoni marini furono messi in fila uno dietro l'altro come scolaretti allineati per la refezione. Amanda parlò a ognuno di loro e fece una serie di gesti prima di premere l'interruttore delle cineprese e muovere un braccio verso l'apertura nello specchio di poppa. Max stava in piedi dietro di lei, e imitava i suoi gesti. Uno dopo l'altro i leoni marini barcollarono fino a poppa e si tuffarono nell'oceano. Quando furono riemersi tutti dietro la barca, Amanda sollevò le braccia in direzione delle balene che si stavano avvicinando, poi le abbassò di nuovo. I leoni marini ruggirono, si girarono e scomparvero sott'acqua. «Quanto tempo possono stare sotto?» chiese Max. «Circa dieci minuti per ogni immersione,» rispose Amanda. «Non tanto a lungo quanto le balene, ma possono immergersi molte volte di seguito, e possono arrivare fino duecento, duecentocinquanta metri di profondità.» «Più a fondo di una persona.» «Molto di più. E non devono decomprimere, non si prendono emboli o embolie gassose.» Dal ponte di comando, Chase le chiese: «Vuoi seguirle con la barca?» «No, restiamo qui. Non voglio che le balene pensino che la barca sta dando loro la caccia. Puoi anche spegnere il motore, se vuoi. Le signore sanno dove siamo.» «Ma come fai a essere sicura che i leoni marini torneranno?» le domandò Max. «Perché lo hanno sempre fatto,» gli rispose Amanda, e sorrise. Chase venne giù al ponte di comando, spense il motore e prese un bicchiere da un armadietto della cambusa. «Vieni,» disse a Max. «Vediamo se siamo fortunati.» «Dove?» «Queste non sono zone di riproduzione e le balene gibbose, generalmente, cantano solo nelle loro zone di riproduzione. Ma forse, ti ripeto, forse potremo ascoltare un piccolo concerto.» Portò Max di sotto, nella cabina di prua. Sollevò un angolo del tappeto e lo arrotolò per circa un metro, poi si inginocchiò e appoggiò un orecchio sul freddo piano di vetroresina, facendo cenno a Max di fare lo stesso. «Cosa senti?» chiese Chase. «Acqua,» rispose Max, «una specie di sciacquio, e... aspetta!» Gli si spalancarono gli occhi. «Sì, lo sento! Ma è molto debole.»
«Qui,» disse Chase, sollevò la testa di Max e gli mise il fondo del bicchiere sotto l'orecchio, l'apertura appoggiata sul ponte. «Va meglio?» Max sorrise e Chase capì che cosa stava sentendo: i richiami spettrali, i cinguettii leggeri, i fischi e i gorgheggi. La amabile, allegra conversazione dei leviatani. «È fantastico!» disse Max, illuminandosi. «Certo che lo è,» ammise Chase, e intanto pensava: anche essere un padre lo è. Le balene passarono ad alcune centinaia di metri a est della barca e continuarono la loro rotta. Pian piano i loro suoni si affievolirono, finché, alla fine, anche con l'aiuto del bicchiere, Max non poté sentire che delle tenui eco. Lui e Chase uscirono sul ponte e aprirono la sacca termica che la signora Bixler aveva preparato per loro. Il primo leone marino ritornò dopo mezz'ora. Stavano tutti seduti a prua, mangiando, quando udirono i versi e videro l'animale che si arrampicava con incedere un po' altezzoso sulla pedana. «Ciao, Groucho,» disse Amanda. Chase scosse la testa. «Non capisco come tu faccia a riconoscerli.» «Vivici insieme giorno e notte per tre anni, e sarai in grado di riconoscerli anche tu.» Il leone marino si sollevò sulla lunga pinna caudale e si issò attraverso l'apertura nello specchio di poppa. Mentre Amanda gli toglieva da dosso la cinepresa e l'imbragatura, il leone marino ruggiva tutto eccitato e ondeggiava la testa da una parte all'altra. «Cosa sta dicendo?» chiese Max. «Mi sta raccontando quello che ha visto. Sai, tipo 'Ehi, mami, ne ho trovate un sacco!'» «E cosa pensi che abbia visto?» Amanda sollevò la videocamera. «Guarderemo i nastri sulla via del ritorno,» disse. «Appena rientrano gli altri, possiamo cercare di raggiungere di nuovo le balene.» Poi, rivolta a Max: «Perché non dai qualche pesce a Groucho mentre io asciugo la videocamera e la ricarico?» Max sollevò un boccaporto nel retroponte, tirò su un secchio di triglie e fece oscillare un pesce davanti al leone marino. Lui non addentò il pesce, non fece un balzo in avanti, ma si limitò ad allungare il collo, accettò il pe-
sce e sembrò inghiottirlo tutto intero. Il secondo leone marino, Chico, ritornò dieci minuti più tardi e il terzo, Harpo, qualche minuto dopo di lui. Max dette da mangiare a entrambi, e quando ebbero mangiato, attraversarono barcollando il ponte, si buttarono giù in un groviglio insieme con Groucho e si addormentarono tutti e tre al sole. Amanda controllò l'orologio; e Chase sapeva che era la decima volta negli ultimi cinque minuti. Poi si fece ombra sugli occhi con la mano e stette a guardare l'acqua calma, cercando di vedere qualche movimento in superficie. «Hai detto che possono continuare a immergersi per tutto il giorno,» disse lui. «Possono. Ma non lo fanno, specialmente dopo un lavoro come quello che hanno fatto con gli squali.» Guardò di nuovo l'orologio. «Nessuno di loro è mai stato fuori per due ore. Sono addestrati a rientrare entro un'ora. Oltretutto, lo vogliono: sono stanchi, hanno fame.» Corrugò la fronte. «Specialmente Zeppo. È la pigrona. E ora è in ritardo. Molto in ritardo.» «Forse ha solo deciso di prendere il largo.» «Neanche a parlarne,» disse Amanda seccamente. «Non so come tu possa esserne così sicura. È una...» «Loro sono i miei animali,» disse aspra. Chase alzò la mani in gesto di resa. «Mi dispiace.» «Dov'è il binocolo?» «Ce n'è uno in alto e uno sotto coperta.» Amanda cominciò a salire la scaletta verso il ponte di comando. «Possiamo andare a cercarla,» disse Chase. «No, lei sa dove siamo. Restiamo qui finché non ritorna.» Se, Chase si sorprese a pensare, se. 25 Quando si era spostato nell'acqua più profonda, scavando nel pendio sabbioso in cerca di creature da uccidere, le membrane della testa avevano percepito nuovi suoni, sconosciuti, dai toni alti, molto lontani. Ne aveva individuato la provenienza, sentendoli diventare sempre più forti e più distinti. Alla fine, in un'acqua che aveva perso la sua oscurità grigio verde ed era
diventata di color azzurro chiaro, era arrivato alla sorgente dei suoni: animali più grandi di quanto non avesse mai visto, certamente troppo grandi perché lui potesse attaccarli, ombre indistinte che si immergevano e tornavano in superficie con facilità, senza mostrare alcuna vulnerabilità o paura. Era stato sul punto di andarsene, di riprendere altrove la sua caccia, quando aveva avvertito la presenza di altre creature in mezzo ai grandi animali: creature più piccole, più veloci, creature che potevano rappresentare una preda. Aveva atteso in distanza, muovendosi quanto necessario per guadagnare spazio. Una delle creature gli aveva gironzolato vicino, e lui aveva cercato di prenderla da dietro allungandosi in avanti con veloci colpi dei piedi e ampie bracciate, ma la creatura l'aveva sentito avvicinare ed era volata via, troppo veloce per darle la caccia. Alla fine era rimasto indietro e presto le creature viventi erano scomparse alla vista, lasciandosi dietro una scia tentatrice di suoni. Ora era sospeso a mezz'acqua, gli occhi scintillavano come carboni bianchi incandescenti mentre esploravano l'azzurro impenetrabile. Un'improvvisa onda di pressione lo fece sobbalzare; guardò in alto e vide una macchia nera che si allontanava in controluce: una delle creature più piccole era ritornata, si era tuffata e aveva continuato per la sua strada. Subito in allerta, lui spinse adrenalina nelle vene e acido lattico nei muscoli. Stava più fermo che gli fosse possibile, muovendo le braccia e le gambe quel tanto che gli consentiva di non affondare. Un altro animale gli passò vicino, rallentò per un poco ma senza fermarsi. Non gli dette la caccia perché sentiva che ogni tentativo di inseguimento sarebbe stato vano. Aspettò sentendo che l'energia gli si diffondeva nel corpo. Comparve un altro animale e questo gli venne vicino, girandogli lentamente intorno e osservandolo con curiosità. L'essere rimase immobile, cercando di apparire inoffensivo, privo di vita. L'animale venne ancora più vicino, scuotendo la testa, espellendo dalla bocca una nuvola di bollicine. L'essere aspettò... e aspettò ancora... e poi ci fu un momento in cui i neuroni del suo cervello definirono la conclusione che la possibilità era diventata una opportunità. Colpì, sferzando con i suoi artigli d'acciaio. Gli artigli trovarono il mor-
bido. Si conficcarono in profondità nella carne adiposa e si chiusero gli uni sugli altri, in una stretta mortale. L'altro braccio scattò in avanti, e anche i suoi artigli incontrarono un tessuto pingue. L'animale sobbalzò all'indietro. Spalancò la bocca in un turbine di bollicine. Le sue membra si agitavano disperatamente, il corpo contorto si dibatteva per risalire. L'essere si aspettava che l'animale contrattaccasse, si difendesse, ma quello non lo fece. Ora l'essere sapeva che l'animale era un estraneo, lì, che non poteva sopravvivere nell'acqua, e che, così, per ottenere il risultato, era sufficiente tenercelo. Dopo alcuni attimi, l'animale smise di dibattersi. La testa ciondolò mentre il sangue sgorgava dalla carne martoriata. L'essere cominciò a mangiare. L'animale era coperto da uno spesso strato di grasso - un grasso nutriente, energetico, calorico - e così aveva una spinta di galleggiamento verso l'alto; non sarebbe andato a fondo. Predatore e preda erano avvinti insieme, sospesi immobili nell'acqua. Mentre mangiava, la sua visione periferica percepì altri animali - animali più grandi, predatori - attratti dall'odore del sangue e del grasso che si spargevano nella corrente. La maggior parte dell'animale era commestibile. Le ossa sprofondarono negli abissi, e furono subito circondate dagli spazzini del mare; pezzi di carne sfuggirono e furono sommersi da branchi di piccoli pesci. C'era un oggetto duro e non commestibile, che l'essere strappò e gettò via. L'oggetto ondeggiò nell'acqua risalendo verso la superficie. 26 «Fra quanto sarà buio?» chiese Amanda. Stava seduta sul parapetto, e accarezzava la testa dei tre leoni marini. Il sole del tramonto disegnava lunghe ombre sul mare, e, mentre lei voltava la testa, Chase vide delle ombre anche sul suo viso, rughe di angoscia che le segnavano la pelle intorno agli occhi. «Un'ora,» le rispose. «Ma non abbiamo bisogno di luce per tornare indietro. Possiamo stare qui tutta la notte, se vuoi.» «No,» disse lei, a bassa voce. «Non serve.»
Non avevano parlato molto durante le ultime due ore; erano rimasti seduti a scrutare il mare finché gli occhi non erano diventati rossi per lo sforzo e la stanchezza. Max aveva cercato di intrattenere i tre leoni marini, aveva cercato di dar loro da mangiare, ma sembrava che loro sentissero che qualcosa non andava, ed erano rimasti passivi. Chase non aveva avanzato altre ipotesi, sebbene ne avesse una. Le ipotesi non sarebbero state di nessun aiuto, soprattutto se quella che stava considerando era quella giusta. «Okay,» disse alla fine. Si alzò in piedi e guardò verso ovest, in direzione del profilo della Block Island. Erano andati alla deriva per almeno due miglia. Fece qualche passo avanti per accendere il motore mentre Tall Man si arrampicava sul ponte di comando. «Potrebbe essere stato lo squalo bianco,» disse Amanda come se continuasse una conversazione interrotta. Chase sussultò perché era stata proprio quella la sua teoria, l'unica che avesse un senso. Prima, i leoni marini erano fuggiti di fronte allo squalo bianco, ma stavano vicini al rifugio della barca. Solo, in mare aperto, un leone marino, soprattutto se stanco e distratto, sarebbe potuto cadere facilmente nell'agguato di un grande, veloce squalo bianco. «Sì,» ammise, «potrebbe essere.» Premette il pulsante d'avviamento e girò l'interruttore che accendeva le luci di navigazione della barca. Batté con le nocche delle dita sopra la testa per avvertire Tall di far rotta verso casa. «Forse gli altri hanno filmato qualcosa,» disse Amanda. «Diamo un'occhiata ai loro nastri.» Mentre Tall Man faceva virare la barca verso est, Amanda prese un monitor da una delle scatole, lo sistemò sul tavolo della cabina e lo accese. Collegò un videoregistratore al monitor e inserì uno dei nastri. Dopo averlo riavvolto, premette il pulsante «play», e si sedette sulla panca. Max stava seduto di fronte a lei. Chase stava in piedi all'estremità del tavolo. Mandò avanti il nastro velocemente attraverso un paio di minuti di monotono oceano azzurro, poi rallentò il nastro, quando la prima immagine di una balena comparve sullo schermo. «Come sembra piccola la balena,» disse Max. «È un obiettivo grandangolare,» gli spiegò Amanda. «Deve essere così, altrimenti non vedresti altro che una serie di bollicine.» Mentre guardavano, la balena divenne più grande fino a riempire tutta l'inquadratura. «Quanto è vicina adesso?» chiese Max.
«Venti o venticinque metri. Le andrà ancora più vicino, poi si fermerà a circa dieci metri.» L'immagine continuava a ingrandirsi, muovendosi lungo il fianco della balena passando davanti a una pinna enorme, poi rallentando mentre inquadrava la testa. Quando la cinepresa inquadrò l'occhio della balena, Amanda spinse il pulsante «pause», e l'immagine si bloccò. «Guarda quell'occhio,» disse a Max, «e dimmi se non è un essere intelligente.» «È diverso dall'occhio di uno squalo,» commentò Max. «È... non lo so... ecco, differente. Non così opaco.» «Più ricco, più profondo,» disse Amanda, e sorrise. L'entusiasmo del momento non le faceva sentire la sua perdita. «Sai perché? Le balene gibbose hanno un cervello delle dimensioni di un pallone da pallacanestro. Dicono che l'occhio è lo specchio dell'anima. Bene, c'è proprio un'anima dietro quell'occhio.» Premette il pulsante «play» e le immagini partirono di nuovo. C'erano inquadrature della balena da tutti gli angoli di visuale, mentre il leone marino le scendeva sopra a capofitto, giocava con lei, si lasciava portare dalla sua scia. La balena aveva ignorato il leone marino, e non aveva mai modificato la sua rotta. Amanda accelerò per dieci o quindici minuti di nastro, finché, attraverso il tremolio delle linee dello scanner, vide che la balena cominciava a ondeggiare con maggior vigore e si tuffava in una immersione profonda. Rallentò il nastro e guardò l'immagine diventare più confusa dato che il leone marino aveva seguito la balena nell'oscurità del fondo marino. Quando la balena non fu altro che un punto oscuro contro uno sfondo blu inchiostro, l'obiettivo della cinepresa scattò improvvisamente all'insù e si avviò in fretta verso la luce del sole, che appariva molto lontana. «Ha rinunciato,» disse Amanda. «Direi a circa centocinquanta metri.» Il nastro si interruppe, e lei lo sostituì con l'altro. Il secondo leone marino aveva seguito un grosso esemplare di balena femmina, e mentre l'immagine ingrandiva sullo schermo, Max gridò all'improvviso: «Guarda! Un piccolo!» Un cucciolo, lungo forse sei metri, se ne stava annidato sotto la pinna pettorale sinistra della madre. «Viaggiano sempre lì sotto,» disse Amanda. «Perché?» «Un po' per imparare. Osserva, vedrai che lui fa tutto quello che fa la
madre, imita ogni suo movimento.» In effetti, il cucciolo ripeteva esattamente ogni movimento della madre. Quando lei risaliva per respirare, lui respirava; quando lei si immergeva, si immergeva anche lui; quando lei si girava su un fianco per guardare il leone marino, il piccolo si girava con lei. «Vedi come guarda?» disse Amanda. «Lo protegge, anche. Se ci fosse un grosso squalo nelle vicinanze, la vedremmo tenersi il piccolo vicino vicino, e diventare molto nervosa. È probabile che se lo porterebbe giù, in profondità.» Ma la madre non sembrava agitata. Evidentemente soddisfatta dell'identificazione del leone marino, tornò a girarsi in posizione orizzontale e continuò la sua andatura tranquilla, vicino alla superficie. «Niente,» disse Amanda, e fece scorrere velocemente quel che restava del nastro. Dopo un paio di minuti del nastro successivo Amanda si mise a ridere e disse: «Questo è quello di Harpo». «Come fai a saperlo?» le chiese Max «Perché è una sciocca. Guarda,» indicò lo schermo, «si mette dietro a una balena, e non appena le pinne della coda sbattono, schizza via.» L'immagine sullo schermo virò sull'azzurro dell'acqua, ruppe la superficie, e inquadrò un'altra balena. «Le ci vogliono circa dieci minuti per capire che non vogliono mangiarla. Sta imparando, solo che non è svelta come le altre. Tutte hanno le loro stravaganze.» «Per esempio?» «A Groucho piace andare troppo vicino, così mi dà un sacco di nastro debole, sfocato. È come se pensasse di non entrare in contatto con la balena finché non la tocca materialmente. A Chico piace scherzare con le balene, specialmente con i piccoli. Si tratta di un gioco, ma qualche volta le innervosisce.» «E Zeppo?» chiese Chase. Amanda esitò, come se fosse stata ricondotta brutalmente alla realtà. «Come dicevo, è pigra. La cosa che mi preoccupa, è che lei è anche la più curiosa. È capace di andare a nuotare intorno a qualcosa, solo per vedere di che cosa si tratta.» Le immagini del nastro di Harpo passavano da una balena all'altra. C'erano alcuni buoni primi piani, e una ripresa spettacolare di una balena che balzava fuori dall'acqua volando in superficie, esplodendo all'aperto nella luce del sole, e piombando di nuovo nell'acqua con un fragore da catacli-
sma. Ma gli ultimi, pochi minuti del nastro riprendevano solo l'azzurro neutro dell'oceano. Amanda lo fece scorrere velocemente. Aveva distolto l'attenzione dallo schermo per dire qualcosa a Chase, quando Max esclamò: «Ehi! Guardate!» Amanda si voltò di nuovo verso il monitor. «Cosa?» «Torna indietro.» Amanda fece scorrere indietro il nastro, e dopo qualche secondo vide qualcosa di vago e sfocato, ma certamente qualcosa, nell'angolo superiore destro dello schermo. Lo lasciò passare, poi premette il pulsante «play» e il nastro riprese a scorrere in avanti. C'era qualcosa, una forma, subito scomparsa, e l'immagine tremò e zumò di nuovo verso la superficie. «Che diavolo era?» chiese Chase, chinandosi in avanti, gli occhi fissi sul monitor. «Non lo so,» disse Amanda, «ma, qualsiasi cosa fosse, è certo che ha terrorizzato la povera Harpo. Avete visto come è schizzata via veloce? All'improvviso, il motore rallentò, e Tall Man batté con un piede tre volte sul soffitto. Chase uscì fuori nel pozzetto, e gridò verso il ponte di comando: «Visto qualcosa?» «Un lampeggiatore rosso davanti a noi,» rispose Tall Man. «Come una luce d'emergenza. La luce è cattiva, a quest'ora, e non posso dirlo con precisione.» Chase si piegò sul parapetto e guardò davanti a sé. Era quasi buio, l'acqua era come una lastra di acciaio scuro su cui una piccola luce rossa intermittente si accendeva e spegneva a intervalli di un paio di secondi. Afferrò la gaffa, premette le ginocchia contro il parapetto e aspettò che Tall Man conducesse la barca verso la luce. Quando la luce scivolò lungo il bordo della barca, Chase la raggiunse con la gaffa. Era attaccata a un oggetto duro, largo circa dodici centimetri, e Chase fece ruotare il gancio finché non riuscì ad agganciarlo, poi lo sollevò a bordo e lo appoggiò sul parapetto. «È la custodia di una cinepresa,» disse a Tall Man. «Una delle nostre?» Tall Man spinse in avanti la leva dell'acceleratore e riprese la rotta per l'isola. Chase udì dei passi alle sue spalle, poi un singhiozzo breve e aspro. «È quella di Zeppo,» disse Amanda. Portarono la custodia in cabina, la asciugarono e la misero sul tavolo. La custodia era intatta, ma le cinghie di pelle erano state strappate. Tristemen-
te, in silenzio, Amanda tolse il nastro dalla cinepresa e lo sistemò nel videoregistratore. Lo riavvolse, poi premette il pulsante «play». I primi minuti del nastro erano in tutto simili agli altri: lunghe riprese delle balene, primi piani di balene, balene che nuotavano, balene che si rotolavano su se stesse, balene che si immergevano. Poi seguì una ripresa interminabile della superficie, da appena sopra e da appena sotto il pelo dell'acqua. «Si sta crogiolando al sole,» disse Amanda, e c'era un timbro basso nella sua voce. «Ve l'ho detto che era una pigrona.» La videocamera andò sott'acqua di nuovo e inquadrò due balene che si allontanavano. Le seguì per circa quindici secondi, poi virò e non si vide altro che l'azzurro. Amanda disse: «Ha rinunciato». «Ma guarda,» disse Max indicando una minuscola figura nera al centro dello schermo. «Ecco un altro dei leoni marini. Zeppo lo stava seguendo; tornava a casa.» L'immagine sembrava andare sulle montagne russe, su e giù, come se il leone marino avesse accelerato l'andatura nell'acqua per raggiungere le sue compagne. Poi rallentò e si aprì un varco in superficie, per respirare, probabilmente, e quando si immerse di nuovo nuotò lentamente per un poco. Poi, all'improvviso, virò. «Qualcosa ha attirato la sua attenzione,» disse Chase. Sebbene non ci fossero altri animali in vista nella distesa azzurra, velocità e direzione si potevano dedurre dai raggi di sole che si riflettevano dalla superficie come frecce che saettavano giù nell'oscurità, e dagli infiniti granelli di plancton che brillavano passando davanti all'obiettivo. «Sta girando intorno a qualcosa,» osservò Amanda. «Perché non riusciamo a vederla?» chiese Chase. «Perché Harpo le sta sopra e guarda in basso, e ha la cinepresa sulla schiena.» Il leone marino aveva fatto un'ampia virata verso l'alto - videro la luce della superficie lampeggiare lontano - poi si era immerso, aveva girato ed era rimasto dritto nell'acqua, in posizione verticale e immobile. La superficie luccicava in alto, in lontananza. Amanda disse: «La sta guardando; non ne ha paura». «Ma non la riprende?» chiese Max. «Non crede di doverlo fare. L'unica cosa che crede di dover riprendere
sono...» All'improvviso la videocamera sobbalzò all'indietro, e l'azzurro dell'acqua fu offuscato da una nuvola nera. Amanda urlò. Per dieci o quindici secondi, l'immagine ondeggiò freneticamente, sobbalzando a destra e a sinistra, offuscata da qualcosa che sembrava inchiostro, poi nitida, e poi offuscata di nuovo. Qualcosa di scintillante luccicò davanti all'obiettivo. «Ferma il nastro!» disse Chase, ma Amanda era come paralizzata, gli occhi sbarrati, una mano sulla bocca. Allora lui allungò una mano e premette il pulsante di riavvolgimento. L'immagine era sfocata, dato che la cosa scintillante era troppo vicina perché l'obiettivo potesse metterla a fuoco. Ma mentre faceva scorrere di nuovo il nastro in avanti, un'inquadratura per volta, Chase non ebbe più dubbi su quanto stava vedendo: cinque artigli, ricurvi, appuntiti, taglienti come rasoi e fatti di acciaio inossidabile. 27 «Dammene un altro, Ray,» disse Rusty Puckett al barista del Crow's Nest. Spinse il suo bicchiere vuoto attraverso il banco e lo fece seguire da un biglietto da cinque dollari. «Quando basta, basta, Rusty,» ribatté Ray. «Adesso vattene a casa.» «Ehi! Ho messo giù cinquanta fottutissimi dollari, qui, e ho detto, avvertimi quando li ho fatti fuori.» Puckett indicò il fascio di banconote sotto il portacenere. «E non sono arrivato ancora alla metà.» «Tieni la bocca chiusa!» disse Ray. Appoggiò le mani sul banco e si chinò vicino a Puckett. «Ti sei divertito abbastanza, Rusty; c'è gente per la cena e non hanno voglia di ascoltare le tue storie immaginarie. Fai un favore a tutti e due: prendi su il tuo resto e vattene a casa.» Puckett si girò sul suo sgabello e abbracciò la sala con uno sguardo vitreo. Ray aveva ragione. Il bar si era riempito e c'era una coda di gente che aspettava un tavolo in sala da pranzo. Quando era successo tutto questo? Guardò l'orologio, chiudendo un occhio per mettere a fuoco i numeri sul quadrante. Cristo. Era lì da tre ore. Si rese conto che alcune persone lo guardavano, e pensò che fossero stati ad ascoltarlo mentre raccontava a Ray quello che aveva visto. Che andassero al diavolo, non gliene importava niente: era la verità, parola per paro-
la. Dette di gomito a una di loro, una donna niente male, e la vide arrossire e girare sui tacchi. Forse la cosa la interessava. Forse avrebbe dovuto fare due chiacchiere con lei. Gli venne in mente all'improvviso qualcosa di divertente. Si girò verso Ray e gli disse, forte abbastanza perché tutti potessero sentire: «Non ti permettere di sbattermi fuori, Raymond, o faccio a pezzi il tuo fottuto locale». Ray non rise, in realtà appariva abbastanza arrabbiato, e tutto a un tratto sollevò il ripiano pieghevole del banco, uscì fuori e afferrò Puckett per il colletto della camicia. Puckett si sentì sollevare dal pavimento, sentì la mano di Ray che gli cacciava una manciata di soldi nella tasca dei calzoni e si ritrovò a faccia in giù fuori dalla porta. «Puoi tornare quando sarai di nuovo sobrio e avrai smesso con le tue allucinazioni,» gli disse Ray. «Mi preoccuperei se fossi in te, Rusty. Sei in pieno delirium tremens.» Puckett sentì la porta che si chiudeva dietro di lui, e la voce di Ray che diceva: «Mi dispiace, gente». Rimase in piedi in mezzo alla strada, confuso, barcollando leggermente. Una coppia uscì da una macchina, passò bene al largo da lui e si avviò verso il ristorante. Appoggiò una mano al muro della casa per sostenersi. Poi si avviò giù per la strada, tenendo lo sguardo fisso sui piedi mentre li appoggiava con cura uno davanti all'altro. Che cosa diavolo voleva dire Ray con «storie immaginarie»? Ray lo conosceva abbastanza bene da sapere che non era uno da raccontare favole. E non era neppure affetto da delirium tremens. Sapeva maledettamente bene che cosa aveva visto, che cosa l'aveva quasi ammazzato, e non aveva esagerato niente. Sembrava insensato, assurdo. Ma era la verità. Aveva visto un mostro fottuto. PARTE QUINTA LA BENEDIZIONE 28 «Sei sicuro che non vuoi aspettare Amanda e me?» domandò Chase. Te-
neva con una mano la cima di prua del Boston Whaler, mentre Max accendeva il motore e sistemava la sua cinepresa sotto il cruscotto del volante. «Sarà pronta fra mezz'ora, al più tardi alle undici e mezza.» «Non posso,» disse Max. «La Benedizione della Flotta comincia a mezzogiorno. Se non vado adesso, non troverò mai un posto decente.» «Parli come un giovanotto che ha un appuntamento galante,» commentò Chase con un sorriso. Max gli fece una boccaccia. «Papà...» «Okay, scusami... Allora... sai dove è stivata l'ancora, hai due giubbotti di salvataggio a bordo, tu...» «Ma abbiamo già controllato tutto.» «D'accordo.» Chase sospirò e lanciò nella barca la cima di prua. «Lascia la barca al club. Se non ci sono ormeggi, tirala a riva.» «Okay.» Max innestò la marcia, girò il volante e si allontanò piano dal molo. «Ricordati,» gli gridò dietro Chase, «di non fermarti lungo la strada... per nessuna ragione... non importa quello che vedi.» Max lo salutò con la mano e gridò: «Ciao!» Chase rimase in piedi a guardare Max che accelerava e faceva planare la barca. All'inizio Chase aveva fatto resistenza a che Max prendesse il Whaler. Il ragazzo non era mai stato fuori in barca da solo e, sebbene il canale per Waterboro fosse ben segnalato, c'era tuttavia la possibilità di andare a finire sugli scogli, se non si faceva attenzione. Benché i motori fuoribordo ricevessero una manutenzione meticolosa da parte di Tall Man, tutti nascondevano uno spiritello maligno e potevano grippare o fermarsi ogni momento senza motivi apparenti. Max aveva dimostrato di essere un marinaio abile e un buon nuotatore, ma che cosa sarebbe successo se fosse stato costretto a saltare fuori bordo e a nuotare fino alla riva? Negli ultimi tre giorni il tempo era stato orribile; il vento aveva soffiato implacabile da nordest a quindici-venti nodi, con punte fino a quaranta nodi, e una pioggia fredda aveva bagnato la costa dal New Jersey al mare. Max non aveva avuto niente da fare, fatta eccezione per una occasionale gita in città con Chase e Tall Man, durante la quale il ragazzo era scomparso nel labirinto di stradette secondarie e di piccoli edifici e, così pensava e sperava Chase, aveva fatto amicizia con qualche coetaneo del posto. Max aveva atteso con ansia la Benedizione della Flotta, ed era stato contagiato dall'entusiasmo per l'avvenimento.
Ora che il giorno era arrivato e che il tempo si era rimesso al bello, Chase desiderava che Max se la godesse, e aveva ceduto. Lui avrebbe quasi voluto che il tempo peggiorasse. Il cattivo tempo avrebbe tenuto la gente fuori dall'acqua, le barche sarebbero rimaste a riva e nessun altro si sarebbe fatto male. Qualunque cosa ci fosse là fuori, dovunque fosse, non avrebbe avuto prede a portata di mano. Chase sperava che il bel tempo non le provocasse la frenesia di nutrirsi. La mattina seguente all'uccisione del leone marino, aveva portato il nastro alla stazione di polizia e lo aveva fatto vedere a Gibson. Aveva suggerito di rimandare se non addirittura di cancellare la Benedizione fino a che non avessero chiarito che cosa fosse l'animale ripreso sul nastro. La risposta di Gibson era stata secca. «Scordatelo, Simon,» aveva detto. «Non ho nessuna intenzione di cancellare la più importante manifestazione dell'estate a causa di due secondi di nastro malconcio che non sembra che una cosa banale... o per la testimonianza di un ubriacone.» «Quale ubriacone?» «Rusty Puckett. Si è riempito d'alcol fino agli occhi ieri sera, ha cominciato a raccontare a tutti che aveva visto una specie di zombi uscito dall'inferno. Ha dato tanto di quel disturbo, si è fatto buttare fuori dal Crow's Nest e da altri due locali, che ho dovuto metterlo al fresco.» «È qui? Posso parlargli?» «Niente affatto, almeno non fino a dopo la Benedizione. Poi potrai parlargli finché vorrai, fino a che uscirete tutti e due dalla vostra intossicazione da cazzate.» Gibson aveva fatto una pausa. «Hai fatto vedere quel nastro a qualcun altro?» «No.» «Bene. Penso che lo terrò io per qualche giorno. Abbiamo tutta l'estate per diventare isterici.» «Vorrei che tu avessi ragione, Rollie,» aveva detto Chase. «Eppure là fuori c'è qualcosa.» «E allora lascia che resti là, o lascia che vada al diavolo da qualche altra parte. A ogni modo, non credo che verrà a riva e comincerà ad assalire i turisti.» Quando il Whaler fu così lontano da essere invisibile contro la macchia scura della terraferma, Chase si incamminò su per la collina e poi giù verso la vasca dei leoni marini. Poteva vedere Amanda in piedi sul bordo di cemento, che cercava di allettare i leoni marini con un pesce, nel tentativo di
farli uscire dalla vasca. Loro scuotevano la testa, opponendo un rifiuto. «Non vogliono uscire,» disse Amanda quando arrivò Chase. «È così ogni giorno da quando siamo tornati dalle balene. Posso fare qualsiasi cosa, loro non abbandonano quella vasca. È come se ricevessero dei segnali d'allarme dall'acqua.» «Che tipo di segnali? Elettromagnetici?» «Penso di sì. Tutto quello che so è che qualcosa gli sta dicendo di stare lontani dal mare. E si comportano come se fossero spaventati a morte.» 29 Max la vide non appena ebbe doppiato la Waterboro Point, e sentì un tuffo al cuore. Sebbene dovesse attraversare ancora l'intera baia - un quarto di miglio, almeno - non c'era pericolo di confonderla: una figura snella e delicata che se ne stava in piedi tutta sola all'estremità del molo del club, vestita di azzurro, come sempre. Nei dieci giorni dalla loro conoscenza, non l'aveva mai vista indossare qualcosa che non fosse azzurro: maglioni azzurri, abiti azzurri, gonne azzurre con camicie azzurre. Era come se sapesse quanto le donava l'azzurro, riflettendosi nel colore dei suoi occhi e facendo da complemento all'oro luminoso dei suoi capelli. La salutò con la mano, benché fosse sicuro che lei non potesse vederlo, almeno non attraverso il dedalo di barche a vela che intasavano la baia, tutte pavesate con bandiere multicolori e fiamme e stendardi in onore della Benedizione della Flotta. Anche le stesse navi della flotta - scure, con le loro sovrastrutture rugginose cariche di reti, di bilancieri, di antenne radar e di winch coi tamburi enormi - esponevano, come vestite a festa, stendardi dei colori dell'arcobaleno, come se fossero ansiose, in questa occasione unica nell'anno, di tener fede ai loro nomi assurdamente pretenziosi: Miss Eula, Miss Daisy, Miss Wendy. Max avrebbe voluto spingere l'acceleratore e sfrecciare fra le barche, ma si trattenne perché sapeva che la polizia marittima si aggirava in cerca di preda, e che l'ultima cosa di cui aveva bisogno era proprio una multa per eccesso di velocità. Non aveva una patente del Connecticut per guidare una barca - era troppo giovane per andare da solo in una barca a motore - e, anche se lo avessero lasciato andare con un'ammonizione, la notizia sarebbe certamente arrivata a suo padre, che non avrebbe potuto fare a meno di sgridarlo.
Così si costrinse ad andare piano nella baia, controllando, ogni volta che si veniva a trovare in uno spazio aperto, per essere sicuro che Elizabeth non se ne fosse andata, piantandolo in asso per andare a vedere la Benedizione per conto suo. Ogni volta che guardava lei era sempre lì, ad aspettare. Non a leggere un libro o a guardare ogni tanto l'orologio o a camminare avanti e indietro. Ma semplicemente ad aspettare, come aveva promesso. Quando Max superò l'ultima della grandi barche, a un centinaio di metri dal molo, e cominciò a farsi strada in mezzo alla piccola flotta dei Bluejays del club all'ormeggio, agitò di nuovo la mano. Questa volta lei lo vide, alzò la mano e sorrise. Lui era confuso dalla tempesta di sentimenti che gli turbinavano dentro. Aveva conosciuto delle ragazze nella sua vita, aveva girato loro intorno ogni giorno, fin dai tempi dell'asilo. Era andato con delle ragazze alle feste, e al cinema, sebbene sempre in gruppo, con altri ragazzi. Aveva molte amiche. Ma non aveva mai avuto una vera ragazza. Non aveva mai sofferto il terribile dolore della gelosia e della lontananza. Non aveva mai baciato una ragazza, e, sebbene avesse visto un sacco di baci al cinema, e avesse fantasticato spesso a proposito del baciare e altro ancora, non era sicuro che avrebbe saputo come cavarsela. I baci cinematografici sembravano facili e divertenti, ma poi, quelli che si baciavano al cinema non avevano dodici anni. Max non era neppure sicuro che quelli che provava per Elizabeth fossero i sentimenti che si provano per la propria ragazza. Sapeva soltanto che erano diversi dai sentimenti che aveva provato finora, e che Elizabeth era diversa da qualsiasi altra ragazza che avesse mai conosciuto. Era carina - bella, anche - ma si comportava come se non lo sapesse... o, se lo sapeva, non usava la bellezza come un'arma, come facevano certe altre. Era intelligente, aveva letto dieci volte più libri di quanti ne avesse letti Max, compresi un sacco di libri seri, ma non se ne vantava mai. Era timida, ma la sua non era una timidezza introversa, né chiusa in sé o vergognosa di qualcosa. Era invece una timidezza dolce, serena e aliena dai giudizi, come se fosse semplicemente contenta di se stessa. Forse aveva qualcosa a che vedere con il fatto di essere sorda - sicuramente un handicap grave come la sordità doveva essere un fattore determinante nella vita di una persona - ma Max non ne sapeva abbastanza della sordità per capire fino a che punto potesse influenzare una personalità.
Era sempre contenta di vederlo, e lui si era accorto che cominciava a sentire una specie di vuoto quando lei non c'era, il che lo aveva portato a concludere che questo era probabilmente l'inizio di una storia d'amore. La prospettiva lo allarmava perché significava che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto baciarla, o almeno avrebbe cercato di farlo, perché è quello che fanno i ragazzi con le loro ragazze. Questo lo spaventava anche perché non si fidava del proprio intuito. Stava ancora assorbendo a fatica un sovraccarico di emozioni: i miti che si era creato intorno a suo padre si erano dileguati, rimpiazzati, ogni giorno, da nuove realtà; non in modo negativo, perché ciò che scopriva a proposito di suo padre era altrettanto positivo delle fantasticherie che lui si era inventato. Il fatto era che tutto era nuovo. Non aveva mai dubitato dei motivi ufficiali del divorzio dei suoi genitori, ma aveva compreso recentemente che il fatto di aver vissuto con sua madre tutti quegli anni rappresentava una critica implicita nei confronti di suo padre. Perché non aveva mai vissuto con lui? Forse che i soldi e le scuole private e le lezioni di tennis e le case per le vacanze erano per lui veramente da preferire ai sandwich al burro di arachidi e alle nuotate in compagnia dei leoni marini? E poi c'era Amanda, verso la quale Max provava sentimenti - non poteva trovare una definizione migliore - magici. Non era sua madre e non pretendeva di esserlo, e lo trattava da adulto più di quanto sua madre non avesse mai fatto, il che lo faceva sentire più vicino a lei che a sua madre. Non sapeva che cosa provasse suo padre per Amanda o viceversa. Si piacevano l'un l'altro, questo era certo; erano amici. Tutto questo era un po' troppo perché Max ci si raccapezzasse, e lo portava a mettere in discussione anche le proprie emozioni pruriginose nei confronti di Elizabeth. Forse stava diventando matto, pensò mentre fiancheggiava con il motore al minimo i moli galleggianti in cerca di un ormeggio libero. Probabilmente ogni cosa si sarebbe risolta da sola quando fosse tornato all'Ovest. D'altra parte, non era affatto sicuro di avere voglia di tornare all'Ovest. Trovò un posto libero, spense il motore e lanciò il cavo d'ormeggio a Elizabeth. «Ciao,» lo salutò lei, e si illuminò. «Ciao.» Si curvò sulla poppa e sollevò il motore in modo che l'elica fosse fuori dall'acqua, e lo bloccò. «Ciao,» ripeté lei. C'era una studiata cautela in quella parola. «Ciao.»
Solo allora la cosa lo colpì: lei gli aveva parlato, ad alta voce, fuori, all'aperto, dove tutti potevano sentire. «Ehi!» disse lui, sorridendo mentre si girava a guardarla, parlando con chiarezza in modo che lei potesse leggergli sulle labbra. «Bravissima. Quel 'ciao' era molto bello.» Quando si erano incontrati la prima volta, lei non aveva parlato affatto, sebbene lui ricordasse la strana sensazione che c'era stato qualche tipo di comunicazione. Quando l'aveva trovata di nuovo, dopo aver visto la sua fotografia sul giornale, lei aveva scritto delle parole su un taccuino che aveva in tasca, con una penna a sfera che portava appesa al collo con una catenella, e gli aveva insegnato a leggere alcuni segni rudimentali fatti con le mani. Quando avevano preso a vedersi sempre più spesso, lei gli aveva confessato che il suo linguaggio la imbarazzava. Poiché non era in grado di sentire le proprie parole, non aveva idea di che suono avessero per gli altri, ma poteva capire, dall'espressione della gente, che si trattava di un suono strano. Ormai, c'erano delle volte in cui sembrava che conoscesse i pensieri di Max prima che lui dicesse una parola. Quando lui gliene aveva parlato, lei aveva liquidato la cosa come frutto di un po' di pratica, niente di importante, dell'esperienza che lei aveva sviluppato con gli anni, da quando quella strana febbre l'aveva resa sorda. Lo collegava alla capacità che hanno i cani di sentire suoni che gli esseri umani non percepiscono, e gli spiegò che un medico le aveva detto che quando una persona perde un senso primario, come l'udito, spesso gli altri sensi diventano molto più acuti. Però, disse, questo non funziona sempre e, comunque, non con la maggior parte della gente. Max afferrò la cinepresa e saltò sul molo. «Hai trovato un posto?» le chiese. «Uno fantastico,» disse Elizabeth. Poi sorrise, prese Max per mano e lo guidò su per la strada verso la città. Era a piedi nudi - non portava mai le scarpe, o almeno lui non l'aveva mai vista con le scarpe - ma non batteva ciglio neppure sui tratti più duri dei marciapiedi di sassi. La banda della scuola superiore si stava radunando sul piazzale del rifornimento delle barche in fondo a Beach Street. Le majorette in lustrini e paillette si allenavano a lanciare in aria i loro bastoni; gli ottoni strombettavano pezzi cacofonici di melodie sconosciute; due ragazzi cercavano di sollevare una tuba sulle spalle di una ragazza con un fisico da giocatore di football. Un vecchio cane grigio stava accucciato nella polvere e di tanto in tanto ab-
baiava. I Mason, gli Elk e i Rotariani si erano inquadrati dietro la banda. Membri della Holy Ghost Society, vestiti in colorati costumi portoghesi, si ammiravano gli uni con gli altri mentre fumavano l'ultima sigaretta; alcuni di loro si passavano un sacchetto di carta con dentro una fiasca di sostanzioso elisir. La strada che portava in città era stata chiusa al traffico, e centinaia di pedoni sciamavano tutto attorno e su verso la chiesa cattolica in Settlers Square, dalla quale sarebbe uscito il vescovo per guidare il corteo attraverso la città e fino ai moli per la benedizione solenne. Elizabeth e Max superarono la folla, attraverso la strada e giù per Oak Street, dove una moltitudine di persone si accalcava sui marciapiedi. Bambini piccoli stavano seduti sui tetti delle automobili, mentre alcuni ragazzi si erano arrampicati sui rami degli alberi. Max fermò Elizabeth, fece un gesto verso la gente e disse: «Non vedremo mai niente». Lei gli dette una gomitata e si toccò il petto: fidati di me, gli stava dicendo, e lo trascinò avanti. A un angolo di strada c'era una casetta di legno. Elizabeth condusse Max dietro la casa, aprì un cancello nel giardino e ce lo spinse dentro. Indicò un buco nello steccato, probabilmente scavato da un grosso cane dalla parte opposta del giardino; attraversò il giardino di corsa, si buttò a pancia a terra, e sgusciò attraverso il buco. Max la seguì, e quando si rimise in piedi dall'altra parte dello steccato, si accorse che si trovavano nel cortile di quella che una volta era stata una chiesa ma che adesso era una casa privata. Il campanile, o torre dell'orologio, o qualsiasi cosa fosse stato, incombeva alto sopra il tetto della casa. Elizabeth salì di corsa gli ampi gradini del portico e si arrestò di fronte al massiccio portone a due ante. Fece un segno a Max, unendo le mani a coppa davanti a sé e piegando le ginocchia. «Ehi,» disse lui. «Io non...» «Via,» replicò lei. «Sììì, ma...» «Tutto bene,» disse lei, e di nuovo si toccò il petto. «Veramente.» Max si strinse nelle spalle e unì le mani a coppa, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Lei gli mise un piede sulle mani, gli appoggiò una mano sulla testa e si sollevò finché riuscì a raggiungere il bordo superiore dell'architrave sopra
il portone. Cercò con la mano lungo il ripiano, poi saltò giù. Sorridendo, sollevò una chiave davanti al naso di Max e disse: «Cugini». Aprì la porta e dopo che Max e lei furono entrati la richiuse e girò la chiave nella serratura. Condusse Max sulla sinistra, attraverso una porta e lungo una scala che saliva a spirale su per la torre. Salirono per quello che a Max sembrò un tempo lungo un'ora, finché la scala finì contro una porta, sprangata in alto e in basso. Fecero scivolare i catenacci, Elizabeth spinse la porta e Max uscì su uno stretto ballatoio. Gli mancò il respiro e sentì se stesso dire: «Uauu...» Sembrava di essere su un aereo o un elicottero; era come volare sulla città stando fermi. Erano più alti di qualsiasi albero o edificio. La città si stendeva sotto di loro come un plastico, e, più lontano, pensò Max, poteva vedere fino alla linea dell'orizzonte. A est c'erano Little Nagaransett Bay e la Napatree Point e la sagoma grigioverde delle isole Osprey e Block. Verso sud, barche a vela e piroscafi oceanici erano inquadrati contro il basso profilo della Montauk Point. A ovest poteva vedere degli scorci di Stonington e Mystic, e a nord il nastro dell'autostrada che portava a Rhode Island. «Bello?» chiese Elizabeth. «Puoi dirlo.» Max aprì l'obiettivo della cinepresa e osservò i soggetti da riprendere. Lontano, in basso, udirono le prime note stonate di The Stars and Stripes Forever, e un applauso salì dalla folla. Max zumò con l'obiettivo e riprese le immagini del vescovo, delle majorette e della banda. Immortalò gli Holy Ghosters, gli Elks e i Rotariani. E, all'improvviso, il corteo era già passato sotto di loro diretto verso la punta, ed Elizabeth lo tirava per il braccio. La seguì giù per le scale e fuori della casa, la sollevò per rimettere a posto la chiave, poi si lasciò guidare attraverso un dedalo di viuzze e di passaggi che correvano paralleli alla strada della parata. Man mano che si avvicinavano alla punta, il rumore aumentava, e la brezza di terra era piena dell'odore di grasso fritto. La città di Waterboro si restringeva gradatamente come la punta di una matita, fino a un'area di parcheggio coperta di ghiaia generalmente occupata, durante il giorno, da gruppi di turisti e, alla sera, da ragazzi che facevano baldoria. Oggi le macchine erano state bandite e rimpiazzate da camioncini, furgoni e banconi mobili di alluminio che vendevano magliette, stendardi, boccali, distintivi, spille, poster e roba da mangiare... fritta, bol-
lita, grigliata, allo spiedo, congelata, cruda e ancora viva, servita su spiedini e bacchette, avvolta in tovaglioli, fogli di giornale o in fette di pane ripiegate. Lungo un lato dell'area di parcheggio, al di là di uno steccato traballante, si stendeva l'unica spiaggia pubblica della città, una stretta striscia di terra che guardava la baia. Sebbene la giornata fosse bella e facesse già caldo, la spiaggia era praticamente deserta: una babysitter che indossava una felpa delle Indigo Girl, divideva la propria attenzione fra una copia della rivista People e un bambino di due anni che trotterellava lungo la riva, raccogliendo conchiglie. Dietro, nella baia, erano ancorate delle barche a vela che beccheggiavano dolcemente a causa delle onde sollevate dalle lance con a bordo gli yachtmen avanti e indietro dai moli della città. Mentre seguiva Elizabeth in mezzo alla folla che aspettava l'arrivo della parata, Max era come in trance, convinto di essere stato trasportato in un bazar del Medio Oriente. Sebbene riconoscesse soltanto una parte del cibo accatastato sui tavoli pieghevoli, e sebbene avesse fatto colazione solo da un paio d'ore, era tentato dai profumi ricchi ed esotici. Si fermò davanti a un furgone che vendeva grasse salsicce avvolte in falde pastose, e si ficcò una mano in tasca a cercare qualche moneta. Camminando davanti a Max e aprendosi la strada in mezzo a coppie, a famiglie e a uomini che discutevano sulla sconfitta dei Red Sox, Elizabeth si accorse di essere sola. Si voltò e si trovò davanti Max che le rivolse un sorriso timido mentre masticava un sandwich alla salsiccia, con del grasso rossastro che gli sgocciolava giù dal mento. Lei fece per parlare, poi prese la penna da dentro il giubbotto e il taccuino dalla tasca, scrisse alcune parole e lo passò a Max. Che lesse ad alta voce: «Ti piace mangiare quelle cose morte e piene di grasso?» Lui le sorrise e le disse con voce chiara: «Certo... non lo fanno tutti?» 30 Nuotò avanti e indietro senza meta... confuso, tormentato, tentato. La visuale era molto ridotta nell'acqua bassa, torbida e piena di alghe; il suo cervello registrava una pioggia di suoni e di impulsi, ma non era possibile distinguerne nessuno, nessuno sembrava contenere una promessa. Alcuni degli impulsi erano minacciosi, e, sebbene lui non sapesse che cosa fosse la paura, era stato programmato per autoconservarsi e quindi per
difendersi, così i segnali di minaccia mettevano in moto gli impulsi di conservazione. E ancora nessuna delle minacce si era materializzata. La sua riserva di energia si era quasi esaurita; non aveva mangiato più niente dopo quella cosa grassa e liscia che era venuta a gironzolargli vicino nelle acque profonde. Era andato a caccia lungo le coste e lontano da esse, sopra i fondali sabbiosi e in mezzo ad ammassi di rocce. Le cose viventi che un tempo andavano avanti e indietro nelle acque basse erano scomparse, o si erano nascoste. Nessuna di quelle vulnerabili, facili prede, era apparsa in superficie; nessuna delle cose dai movimenti impacciati era entrata nell'acqua dalla riva. Aveva registrato dei cambiamenti nella temperatura e nella turbolenza dell'acqua, ma non era stato in grado di collegarli alla mancanza di cibo. Ora, all'improvviso, sapeva che c'era del cibo nelle vicinanze, ma non riusciva a trovarlo. L'acqua sembrava permeata della fragranza della carne, ma non c'era carne attorno. Lentamente, con cura, si spinse verso l'alto e lasciò che la sua testa emergesse attraverso la pellicola vitrea della superficie. I suoi sensori olfattivi furono assaliti da un aroma che gli procurò un'ondata di succhi gastrici nel ventre. I suoi occhi, non appena le lenti si furono messe a fuoco, scorsero cose vive... non una soltanto, ma una moltitudine di cose vive, tutte raggruppate in un branco, tutte che lo tentavano con il loro odore. L'adrenalina gli pompò rinnovata energia nelle vene. Ma poi i suoi segnali d'allarme ripresero il controllo, e lo avvisarono che le cose vive erano troppo numerose e troppo lontane dalla sicurezza del suo mondo. Non poteva nutrirsene e poi anche sopravvivere. Fatta eccezione per due di loro... più piccole, separate dalle altre, sole al confine fra i due mondi. Ma anche prendere queste due avrebbe richiesto una decisione complessa, una decisione che lui era stato programmato per prendere ma che non aveva ancora mai preso, una decisione che avrebbe potuto significare la fine della sua vita invece che la salvezza. Il conflitto dilaniava il cervello dell'essere primitivo e il suo sistema di condizionamenti non ancora perfezionato. La sopravvivenza aveva due strade in conflitto fra loro. E così continuò a nuotare avanti e indietro senza meta, e il bisogno all'interno del suo organismo divenne frenesia.
31 Quando il corteo girò attorno alla punta di fronte all'area di parcheggio, alcuni membri della banda abbandonarono i ranghi e afferrarono lattine di soda dalle mani di amici che si trovavano fra gli spettatori. Gli Elks si servirono da sacchetti di carta che venivano loro offerti; gli Holy Ghosters accettarono delle tartine dalla loro prole spaventata. Anche i più giovani del seguito del vescovo non erano immuni dalle lusinghe: uno accettò una sigaretta accesa da un amico confuso fra la folla, come un corridore di staffetta che prende il testimone, e tirò una boccata profonda prima di nasconderla sotto la casacca. Max riprese tutto questo finché, proprio quando aveva inquadrato il fumatore pirata e premuto il pulsante, udì dall'interno della videocamera il fruscio del nastro che si riavvolgeva. Guardò l'indice del contatore che tornava a zero, poi disse: «Dannazione». Elizabeth gli dette un colpetto col gomito e aggrottò la fronte come per dire, cosa c'è? «È finita la pellicola,» le spiegò Max indicando il contatore. «Sai dove posso comprarne un'altra?» Elizabeth annuì. Indicò Max con il dito, poi il corteo e disse: «Seguire». Poi indicò se stessa e mosse due dita per simulare una figura che corre. Disse anche un'altra cosa che suonò a Max come «ketchup». «Ma come faccio a trovarti?» le chiese. «Come...» Lei si mise la mano sul petto, poi prese la mano di lui e la mise sopra la sua, e fece l'occhiolino. «Okay,» disse lui ridendo. Lei si girò e partì come un razzo in mezzo alla folla. Ci vollero ancora un paio di minuti perché gli ultimi sbandati del corteo, due ragazzi che portavano al guinzaglio un enorme sanbernardo travestito da clown, girassero la punta e prendessero giù per Beach Street verso i moli commerciali. I venditori stavano già chiudendo furgoni e bancarelle, spegnendo fuochi e chiudendo i sacchi della spazzatura, ansiosi di spostarsi su un'area di parcheggio dall'altra parte della città, dove avrebbero aperto di nuovo per la festa del dopo-benedizione. Max comprò una mela candita dall'ultimo stand aperto, poi si avviò lemme lemme dietro al sanbernardo.
Nel passare accanto allo steccato che delimitava la spiaggia pubblica vide un bambino con la faccia premuta contro la rete metallica. Aveva le mani e la bocca sudice, come se avesse mangiato delle porcherie, e il pannolino sporco gli pendeva su una coscia. Dietro al bambino una ragazza stava stesa di schiena sulla sabbia, con una rivista appoggiata sul viso. Il bambino si aggrappò alla rete con le dita grassocce, mentre seguiva Max con gli occhi spalancati. Max guardò il bambino, poi, d'impulso, fece un passo verso lo steccato, ci si curvò sopra e porse al piccolo la mela candita. «Questa è per te, amico!» gli disse con un sorriso. Il bambino si illuminò, tese tutte e due le mani, afferrò la mela per il bastoncino, cercò di mettersela in bocca tutta intera... e cadde all'indietro. La mela cadde nella sabbia. Il bambino rotolò su se stesso, afferrò la mela e cominciò a leccarla, gorgogliando di gioia. Max si voltò e si avviò giù per la strada. Appena l'ultimo venditore di cibarie si fu allontanato con il suo furgone, comparvero due volontari della Holy Ghost Society che cominciarono a pulire l'area di parcheggio. La ghiaia era cosparsa di cicche di sigarette, bicchieri di carta, residui di costolette di maiale, hot-dog, panini mangiati a metà e salsicce che si erano bruciate durante la cottura ed erano state buttate via. C'erano gusci d'uovo e verdure, calamari e tentacoli di polipo, ali di gallina e pezzi di rigaglie sparsi qua e là. Un odore nauseante e dolciastro di olio di oliva, di condimento per insalata e di grasso gravava come un gas sull'intera area di parcheggio. I volontari indossavano i guanti, avevano delle pale da campo, e raccoglievano i rifiuti in contenitori di plastica. «La gente è peggio dei maiali,» borbottò uno. «Questo posto fottuto sembra un mattatoio.» «E puzza come un obitorio,» ribadì l'altro. Dei bidoni da due cento litri, erano stati sistemati intorno all'area di parcheggio per raccogliere i rifiuti, e i volontari trascinarono un contenitore carico fino al bidone più vicino. Era pieno, come il secondo e anche il terzo. «Bene, merda... e ora cosa dovremmo fare?» «Che ne dici di quello lì?» Il volontario indicò un bidone sulla spiaggia. Il suo compagno si strinse nelle spalle. «Proviamoci. Non porterò certo questa robaccia a casa.» Trasportando il contenitore di plastica, aprirono il cancelletto della
spiaggia pubblica e attraversarono la sabbia soffice. Il bidone era vuoto. Nello svuotare il contenitore, notarono un bambino che sedeva poco distante, masticando qualcosa con soddisfazione, e anche sopra l'acre fetore dei rifiuti potevano sentire l'odore che emanava dal piccolo. Dieci metri più in là, una donna stava distesa sulla schiena con una rivista aperta sul viso. «Ehi!» la apostrofò uno dei volontari. «È lei la madre di questo ragazzino?» La donna sollevò la rivista, e videro che non doveva avere più di diciotto anni. «Ce ne vuole ancora di tempo!» esclamò. «Bene, lo sa come si cambia un pannolino?» «E voi cosa sareste,» disse la ragazza, «la squadra di sorveglianza della cacca?» Punto sul vivo, il volontario si inalberò: «Stammi a sentire, tu...» e fece un passo verso la ragazza. Il compagno lo fermò mettendogli una mano sul braccio. «Lascia stare, Lenny. Il bambino se l'è fatta addosso, e allora? Se fai casino con la ragazza, ti ritrovi in tribunale per molestie sessuali senza neppure accorgertene.» «Molesterei una pecora, piuttosto,» disse Lenny, forte abbastanza perché la ragazza lo sentisse. «E scommetto che ci riusciresti, anche,» commentò la ragazza, e si rimise di nuovo la rivista sul viso. «Lascia perdere, Lenny. Lascia perdere.» I volontari riempirono i contenitori di plastica ancora due volte e li svuotarono nel bidone sulla spiaggia. Poi si misero le pale in spalla e se ne tornarono a casa a lavarsi le mani e a bere un bicchiere. 32 Giaceva disteso nell'acqua bassa, solo gli occhi e il naso emergevano. La maggior parte delle cose viventi era sparita, e il guazzabuglio di percussioni che aveva tormentato le sue membrane timpaniche si era attenuato in un remoto brusio. Restavano solo due cose vive, e non inviavano segnali di minaccia, così i suoi sistemi d'allarme erano silenziosi. Ma l'odore allettante persisteva, un misto gustoso di aromi di carne, più forte che mai, più vicino che mai.
E lo lasciava perplesso, perché non sembrava potersi collegare alle cose vive. Si spinse in avanti, trascinandosi con gli artigli. Le branchie gli si aprivano e chiudevano velocemente pompando con forza. Il contenuto di ossigeno dell'aria di superficie era povero e inquinato da impurità. Il più forte sentore di preda veniva da un oggetto strano, vicino alle cose vive. La sua capacità di prendere decisioni era limitata, nel senso delle opzioni non elaborate. Era bramoso di tutto, ma sentiva che doveva operare una scelta. E poi, come se una luce gli si fosse accesa all'improvviso nel cervello, percepì un impulso che gli diceva che avrebbe potuto avere tutto. Doveva solo decidere a che cosa voleva dare la precedenza. Ordinò alle branchie di chiudersi, si sollevò sulle braccia possenti e scattò in avanti. 33 La ragazza si era addormentata, senza volerlo; era un peccato mortale per una babysitter con un bambino di due anni che giocava sulla riva del mare. Il suo sonno era leggero ma comunque abbastanza profondo da consentire un sogno fluttuante in cui la principessa Diana le chiedeva di diventare la sua cameriera personale e di badare ai due principini. Ma all'improvviso, come uscendo dal nulla, uno dei principini stava piangendo; in realtà, lanciava alte strida. Sì alzo a sedere di scatto, buttando giù la rivista, e si voltò a guardare Jeremy. Era lì, seduto sulla sabbia dove stava prima, e lei fu sommersa da un'ondata di sollievo. Stava urlando - la testa buttata all'indietro, la bocca spalancata, gli occhi chiusi - e lei conosceva abbastanza i bambini per sapere che non si trattava di un pianto di rabbia o di un capriccio, ma di un pianto di paura, come se si fosse fatto una bruciatura o un taglio o fosse stato morso da un cane. Gli andò vicino, si chinò su di lui e gli chiese: «Cosa c'è... ti sei fatto male?» Il bambino non rispose, neppure con uno dei suoi balbettii infantili, solo prese a urlare più forte. «Jeremy... non fare la lagna... dimmi dove ti fa male.»
Lui aprì gli occhi e alzò le braccia per farsi prendere in braccio, il che la sorprese perché non l'aveva mai voluto, in realtà lei non gli piaceva più di quanto lui piacesse a lei. Il loro rapporto era basato sulla reciproca sopportazione, l'accettazione tacita di una brutta situazione che nessuno dei due voleva ma che tutti e due dovevano accettare. «Scordatelo,» disse lei, scuotendo la testa. «Pensi che io abbia voglia di sporcarmi tutti i vestiti di cacca?» Lui urlò di nuovo, ancora più forte, e tese le braccia verso di lei. Innervosita, lei disse: «Cristo... chiudi il becco, va bene?» Si guardò attorno per vedere che nessuno stesse guardando. «Ma che cosa c'è?» Le venne un'idea. «Ti brucia il culo eh? Sì, deve essere proprio così. Bene, se non te la facessi nelle mutande ogni momento, il culo non ti brucerebbe.» Si aspettava quasi che la sua logica conclusione portasse un po' di consolazione, che lo facesse stare zitto, ma non fu così. Lui restava ancora seduto al suo posto come un piccolo Budda ululante. «Vai a farti fottere!» esclamò chinandosi in avanti. Lo prese sotto le ascelle, lo sollevò tenendolo il più possibile lontano da sé, e si avviò verso l'acqua. Lui si contorse, scalciò, gridò, e più si avvicinava all'acqua, più diventava agitato, come se qualunque cosa lo avesse spaventato o gli avesse fatto male, quella cosa fosse lì fuori, nell'acqua. Lei dovette lottare per tenerlo fermo, probabilmente stringendolo troppo, ma senza preoccuparsene, e quando fu nell'acqua fino alle ginocchia, lo immerse fino alla vita, staccò le bande adesive che tenevano fermo il pannolino e lasciò che l'acqua se lo portasse via. Poi girò il bambino, nella speranza che l'acqua gli pulisse il didietro. Dopo circa un minuto lo tirò fuori dall'acqua, e tenendolo ancora a distanza con le braccia tese, ritornò sulla spiaggia e lo rimise a terra, in piedi. Il suo pianto si era trasformato in una serie di singulti staccati e ansimanti, ma lui voleva ancora essere preso in braccio; e, quando lei si rifiutò, le si attaccò con forza a una gamba. «Andiamocene, maledizione!» disse lei, e alzò una mano per allontanargli il braccio dalla gamba con uno schiaffo. Ma nel momento stesso in cui sentì l'impulso di colpire il bambino, la sua rabbia svanì, sostituita improvvisamente dalla paura, paura di se stessa, del potere che aveva su quel bambino piccolo e del male che poteva fare... a lui e a se stessa. La paura si trasformò velocemente in simpatia. «Ehi,» gli disse, «ehi... va tutto bene.» Gli si inginocchiò accanto, lasciò che le mettesse le braccia
intorno al collo, gli mise un braccio sotto il sedere e lo tirò su. «Ora ce ne andiamo a guardare la televisione. Che ne dici?» Mentre attraversava la spiaggia verso il punto dove aveva lasciato l'asciugamano, si accorse che c'era qualcosa di strano, mancava qualcosa. Poi vide delle tracce sulla sabbia, come se un oggetto pesante fosse stato trascinato nell'acqua, e si accorse che il bidone dei rifiuti non era più al suo posto. Guardò in giro per la baia e vide, a circa una ventina di metri da lì, non più lontano di un tiro di sasso, il bordo nero del bidone dei rifiuti che galleggiava, vuoto, sulla superficie dell'acqua. «Ci crederesti?» disse facendo sussultare il bambino con il suono della sua voce. «Quei due tizi riempiono il bidone della spazzatura con tutta quella roba, poi vanno e lo buttano nella baia in modo che possa andare a spargersi nei giardini della gente. Te lo dico io, Jeremy, siamo al livello di guardia della vita, la gente puzza.» Raccolse l'asciugamano e la sacca da mare e, con il bambino sistemato sull'anca, si avviò attraverso il cancello e sul marciapiede... dicendo sciocchezze per tenere tranquillo il piccolo, e giurando a se stessa che la prossima estate avrebbe trovato un modo più facile, non importava quale, per guadagnare cinque miseri dollari l'ora. 34 Furioso, agitava le braccia in mezzo alla pioggia di spazzatura che si spargeva in giro, ghermendo a caso pezzi di relitti galleggianti e digrignando i denti contro di loro, come se la violenza potesse in qualche modo fargli produrre quelle sostanze nutrienti che in realtà non contenevano. Alcuni pezzi erano nutrienti, ma molto pochi, solo quel tanto da fargliene bramare degli altri. Alcuni non valevano niente, e non c'era modo per lui di distinguerli. Le branchie erano sotto sforzo, intasate da cose estranee che si erano conficcate nelle falde e gli impedivano il movimento. Aveva fatto la scelta sbagliata, seguendo l'odore invece dell'istinto. Si spinse lentamente verso la superficie e attese che gli occhi mettessero a fuoco la spiaggia. Vuota. Le cose viventi erano scomparse. Tuttavia erano lì, da qualche parte, insieme a molte altre. Lui lo sapeva. Sapeva anche che sarebbero potute arrivare alla sua portata.
Un'altra decisione gli veniva richiesta, una decisione per la quale era stato programmato, ma il meccanismo di esecuzione era - o almeno così credeva l'essere - al di là delle sue capacità. Si lasciò andare giù di nuovo e rimase sul fondale fangoso, ondeggiando come un cadavere in mezzo alle strisce delle alghe mentre esplorava i recessi del cervello in cerca di chiavi perse da lungo tempo, capaci di aprire serrature rimaste a lungo nascoste. Il suo cervello era confuso ma non lento, fuori allenamento ma non disabile, e più gli si domandava, più era in grado di rispondere. Una dopo l'altra, le chiavi comparvero. Alla fine, sapeva che cosa doveva fare e come lo doveva fare. Fortificato dalla nuova prospettiva, strisciò lungo il fondale che risaliva verso le acque basse. Quando la schiena fu quasi fuori dall'acqua, si mise di traverso al riparo di alcuni sassi, e aspettò scrutando la spiaggia finché ebbe la certezza di essere solo. Anche allora attese ancora alcuni minuti, ripassando le cose che avrebbe dovuto fare, riluttante ad abbandonare la sicurezza del mondo che aveva conosciuto - per quanto tempo? Per sempre, a quanto ne sapeva lui - ma una cosa era certa, ed era che la sua vita dipendeva dalla linea di condotta che aveva scelto. Si chinò in avanti, immergendo la testa e le branchie, e pompò acqua attraverso il suo sistema, irrorando il sangue di ossigeno come un sommozzatore che si prepari a battere un record di immersione. Sollevò la testa, si spinse in posizione eretta e cominciò a camminare. I muscoli delle sue gambe erano deboli - non avevano portato pesi per mezzo secolo - ma lo sostenevano, e a ogni passò recuperavano un po' di energia nuova. Aveva bisogno di un riparo per l'esercizio che era stato programmato a fare, e ne aveva bisogno presto. Poiché non aveva alcun senso del tempo, non poteva sapere che cosa significasse «presto», ma sapeva che il suo sangue glielo avrebbe detto. Quando l'ossigeno si fosse consumato, ne sarebbe stato richiesto ancora e il cervello sarebbe andato in crisi. Presto. Le strade erano vuote, le porte chiuse e le finestre avevano le tende tirate. Ancora, si sentiva esposto, e così cercò il conforto dell'ombra fra due edifici. Le sue orecchie erano ora in grado di sentire - non si limitavano a registrare i cambiamenti di pressione - e udivano dei suoni rauchi non molto lontano.
Passò davanti a molte porte chiuse, svoltò in un'altra strada scura, vide altre porte chiuse e si accingeva a svoltare di nuovo, quando, in un posto riparato, vicino all'estremità della strada, vide una porta aperta. Camminò barcollando verso la porta, lasciando dietro di sé una scia di fanghiglia, e cominciando a sentire nel cervello il primo segnale d'allarme che richiedeva ossigeno. La porta era alta e larga, e lo spazio all'interno scuro e vuoto. L'essere guardò in alto e vide ciò di cui aveva bisogno: delle grosse travi incrociate che sostenevano il soffitto. Non poteva arrivare alle travi con un salto, e non c'erano funi o scalette per arrampicarsi. Provò una delle pareti con gli artigli. Il legno era tenero per la consunzione, il marciume e l'umidità - e i suoi artigli ci si conficcarono come se fosse argilla bagnata. Gli artigli penetrarono a fondo nel legno e lui si arrampicò su per la parete come una pantera. Lo sforzo gli succhiò ossigeno dal sangue e, quando raggiunse la prima trave, l'allarme gli si era fatto pressante nel cervello. Gettò le gambe al di là della trave e rimase sospeso a testa in giù, quattro o cinque metri sopra il pavimento sporco, con le braccia che penzolavano. Dalla bocca gli uscì un rivolo di liquido che sgocciolò sul pavimento. Rimase un momento in attesa, controllando il cambiamento del metabolismo: la trasformazione era troppo lenta, e, prima che il suo sistema si fosse purificato, prima che il motore si fosse arrestato per poi avviarsi di nuovo, il cervello avrebbe cominciato a morire, affamato di ossigeno. E così, come gli era stato insegnato a fare cinquant'anni prima, e come aveva fatto in pratica una volta, si strinse i pugni sotto la cassa toracica e li fece scattare verso l'alto. Del liquido verdastro gli uscì a fiotti dalla bocca come vomito. Il primo conato ne incoraggiò un secondo, e poi un terzo finché cominciò una serie di convulsioni che pompavano acqua dai polmoni e la facevano scorrere attraverso la trachea. Una pozza fetida di fluido verdastro si formò nel sudiciume sottostante, come una palude in miniatura. Ci vollero solo pochi secondi perché i polmoni si svuotassero e la cassa toracica si contraesse. Alla fine, l'essere rimase appeso immobile, gli occhi rovesciati all'indietro, simili a gusci d'uovo di un bianco perfetto. Goccioline di fluido verde scendevano lungo i denti e cadevano, simili a smeraldi.
La sua vita da animale marino era finita. Clinicamente era morto. Il suo cuore non aveva ancora cominciato a battere. Il fluido nelle sue vene era immobile. Ma il cervello era ancora vitale, e ordinò a se stesso di inviare un'ultima scarica di elettricità attraverso i circuiti che avrebbero fatto rinascere la vita. 35 Elizabeth si sbatté la porta alle spalle, saltò giù sul marciapiede e rimase immobile, cercando di capire dove fosse il corteo. Naturalmente non poteva sentirlo, ma poteva percepirlo, come una pulsazione sui timpani e una leggera vibrazione sotto la pianta dei piedi nudi. Tube e tamburi inviavano nell'aria onde sonore, e lo scalpiccio di centinaia di piedi si ripercuoteva sui marciapiedi di cemento per interi isolati in tutte le direzioni. Aveva impiegato più tempo del previsto a trovare la pellicola, e pensava che, ormai, il corteo doveva essere vicino al porto commerciale. Voleva dare la pellicola a Max prima che arrivasse al porto, perché l'arrivo del corteo e la Benedizione erano i momenti più interessanti di tutta la cerimonia. Respirò profondamente e trattenne il respiro; chiuse gli occhi e si voltò nella direzione da cui percepiva quelle sensazioni. Aveva ragione: il corteo si trovava a due terzi di strada giù per Beach Street, solo a un centinaio di metri dal porto. Poteva ancora raggiungerlo, se prendeva qualche scorciatoia. Si mise la pellicola nella tasca della gonna e cominciò a correre. Sapeva che Max sarebbe stato lì, che non si sarebbe fatto prendere dall'impazienza e non se ne sarebbe andato a cercare la pellicola per conto suo; era sicura che lui si fidasse di lei tanto quanto lei si fidava di lui, che gli piacesse tanto quanto lui piaceva a lei. Non le era mai capitato di domandarsi perché lui le piacesse più degli altri ragazzi che conosceva, perché lei non era una persona analitica ma accettava le cose così com'erano. Prendeva ogni giorno come veniva, sapendo che le avrebbe portato qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio, qualcosa di buono e qualcosa di cattivo. Lui le piaceva, tutto qui, e quando se ne fosse andato - perché niente durava per sempre, questo le aveva insegnato la sua malattia - le sarebbe continuato a piacere. Se fosse tornato, sarebbe stata una bella cosa, se non lo
avesse fatto, be', questo sarebbe stato molto brutto. Però, almeno, avrebbe avuto per un po' di tempo qualcuno che le piaceva molto, e sarebbe stato meglio che non aver avuto nessuno che le piacesse così. Per il momento, tutto quello che voleva era portargli la pellicola, vedere la sua faccia illuminarsi e osservare la sua meraviglia di fronte a tutte le manifestazioni della Benedizione. Scavalcò uno steccato, attraversò un cortile, scavalcò lo steccato dall'altra parte e corse giù per una strada secondaria. Svoltò un angolo, si districò in mezzo a dei bidoni della spazzatura e attraversò un vialetto. Era solo a un isolato di distanza da Beach Street, e poteva sentire il rullo dei tamburi nelle orecchie. La strada in cui si trovava era stretta. Le macchine erano parcheggiate da entrambi i lati, tranne che davanti a un garage aperto. Mentre si avvicinava al garage, avvertì uno strano odore, salino e dolciastro, e vide un rivolo di liquido verdognolo che scorreva dall'autorimessa fino al canaletto di scolo. Rallentò, perché il garage apparteneva a degli amici dei suoi genitori e il liquido che scorreva sulla strada sembrava una cosa preoccupante: olio lubrificante o acque di scarico, qualcosa che forse stava a indicare una situazione di emergenza, e lei avrebbe cercato i proprietari nel corteo e li avrebbe avvertiti. Si chinò in avanti e annusò il liquido. Non aveva mai sentito niente di simile. Mentre si alzava in piedi, gettò lo sguardo nel garage buio e vide una grande pozza, e, mentre guardava, altre gocce caddero dall'alto. Non c'erano dubbi. Qualcosa si era rotto e stava sgocciolando. Entrò nel garage. Appeso come un pipistrello gigante, aspirò con forza aria nei polmoni, e sentì la vita tornargli nei tessuti. All'improvviso fiutò la preda, la sentì. Ordinò agli occhi di ruotare in avanti, e guardò in basso. Elizabeth avvertì un cambiamento di pressione nell'aria circostante, come se un grosso animale avesse tirato un profondo respiro. Incapace di udire, incapace di vedere nei recessi oscuri del garage, sentì un brivido di paura. Si girò e prese a correre. Le braccia dell'essere si contrassero, le lunghe dita palmate delle sue e-
normi mani si fletterono; allungò le gambe e saltò sul pavimento. La sua preda era piccola e fragile... facile da prendere, facile da uccidere. Ma quando colpì il pavimento, le sue gambe, troppo deboli per aver sostenuto troppo a lungo un peso troppo leggero, cedettero, e l'essere cadde su un fianco. Si spinse con le braccia, si accovacciò, e poi si mosse con andatura sgraziata verso la luce. La preda era sparita. Ruggì pieno di frustrazione e furore, un ringhio gutturale e bavoso. Poi, repentinamente, avvertì il pericolo, riconobbe la possibilità di essere inseguito. Sapeva di dover fuggire. Ma non sapeva dove cercare la salvezza. Non aveva scelta: doveva tornare nel mondo che conosceva. Uscì dall'ombra, nella luce della strada. Non poteva ricordare come fosse arrivato fin lì né che strada dovesse fare per tornare indietro. Circondato da edifici, non poteva vedere il mare, ma poteva fiutarlo, e seguì il suo olfatto verso l'odore salmastro. Aveva camminato per meno di un minuto quando, subito dietro di lui, udì un rumore che riconobbe come un segnale di aggressione. Si girò su se stesso per far fronte alla minaccia. Un grosso animale coperto di pelo nero stava accucciato in un andito buio fra due edifici. Aveva il pelo dritto sul collo, le labbra, tirate indietro, mettevano in mostra lunghi denti bianchi e le spalle erano protese in avanti sui muscoli possenti delle gambe anteriori. Dalla gola gli usciva una specie di ruggito. L'essere valutò l'animale, preoccupandosi meno del cibo che della fuga. Sentiva che l'animale non gli avrebbe permesso di fuggire, che era pronto ad attaccare. Così l'essere fece un passo verso di lui. L'animale scattò con i denti di fuori e gli artigli protesi. L'essere lo ghermì al volo e affondò gli artigli d'acciaio nella sua gola. Immediatamente il ruggito si trasformò in un lamento, e poi in un silenzio di tomba mentre l'essere teneva stretto l'animale e lo lasciava morire. Quando fu morto, l'essere lo gettò sul marciapiede, gli si inginocchiò vicino e ne squarciò con gli artigli il ventre. Allungò una mano nelle viscere calde e ne strappò le interiora. Poi riprese la strada verso la sicurezza del mare. 36
«Smettila di preoccuparti, Max,» disse Chase. «Dal rumore che fa, si direbbe che la banda girerà l'angolo fra una decina di secondi; su, rilassati e goditi lo spettacolo. Ti troverà, stai tranquillo.» «Ma non dove le avevo dato appuntamento,» replicò Max. «Avrei dovuto...» «Ehi, Max, ma cosa sta succedendo qui?» Chase sorrise. «Non è che per caso...» Si interruppe quando sentì che Amanda gli aveva cacciato un gomito fra le costole. «Ti troverà, Max,» lo tranquillizzò Amanda, mettendogli un braccio intorno alle spalle. «E capirà. Veramente.» Max stava seguendo il corteo, dietro al sanbernardo, quando lo sguardo gli era caduto nello spazio fra due case di fronte alla spiaggia e aveva visto Amanda e suo padre che incrociavano lentamente a bordo del Mako dell'Istituto. Era partito di corsa giù per gli scogli agitando un braccio; Chase aveva rivolto la prua a riva e aveva detto a Max di saltare a bordo. Avevano assicurato il Mako contro il bordo di una barca da pesca d'altura, ormeggiata a uno dei moli commerciali, ed erano andati a riva per vedere il corteo. Il vescovo comparve per primo, e dietro di lui il suo seguito e poi le majorette. Quando il primo dei musicisti svoltò l'angolo ed entrò nel viale di accesso al porto, la banda attaccò la marcia del Colonnello Bogie. Max guardò la sua cinepresa vuota. «Ne ho portata una,» disse Amanda, e tirò fuori dalla tasca una piccola cinepresa. «Farò delle copie per te.» Roland Gibson si fece strada tra la folla alle spalle di Chase e venne a metterglisi vicino. La sua uniforme di capo della polizia era stirata di fresco, le scarpe brillavano. «Duemila turisti, Simon,» disse sorridendo. «E volevi che la annullassi.» «Te lo concedo,» ammise Chase. «Ma non è ancora finita. Quando metti Puckett in libertà?» «Non appena l'ultimo turista avrà lasciato qui l'ultimo dollaro... verso le sei. Allora potrai farti raccontare tutto quello che vuoi a proposito del mostro di Rusty.» La radio al cinturone di Gibson gracchiò, e una voce disse: «Capo...» Gibson sganciò la radio, parlò nel microfono, stette in ascolto, poi disse piano: «Merda!» «Che succede?» chiese Chase. «Tommy non me lo ha detto. Ha detto solo che c'è qualcosa che io do-
vrei vedere.» Gibson rimise la radio a posto e si avviò lungo il molo. «Ci vediamo dopo.» Tutto a un tratto Chase udì, alle sue spalle e sopra il frastuono dei tromboni che si avvicinavano, la voce di Max che gridava: «Elizabeth!» Si voltò e vide Max correre costeggiando la folla verso una ragazza con i piedi nudi vestita d'azzurro che correva più forte che poteva a fianco della banda. Max e la ragazza si incontrarono; lei tremava, e Max le stava facendo una carezza per calmarla. Quando Chase si avvicinò, sentì che la ragazza cercava di parlare, ma tutto quello che le venne fuori dalla bocca erano suoni incomprensibili. Le sue mani si agitavano come colibrì, davanti alla faccia di Max, e Max scuoteva la testa e diceva: «Più piano, più piano». «Che cosa dice?» chiese Chase. «Non capisco,» rispose Max. Amanda venne vicino a Chase, si inginocchiò, prese le mani di Elizabeth fra le sue e le chiese: «Sei ferita?» Elizabeth scosse la testa. «Spaventata?» Elizabeth annuì. «Di che cosa?» «Qualcosa,» mormorò Elizabeth con voce indistinta. «Qualcosa di grosso.» Poi Chase si sentì chiamare per nome. Alzò lo sguardo e vide Gibson che gli faceva segno dall'estremità del molo. «Torno subito,» disse ad Amanda. Gibson aveva un'espressione stravolta. «Qualcuno ha appena ammazzato Buster, il cane da guardia di Corky Thibaudeaux. Lo ha sgozzato e sventrato, proprio in cima a Maple Street. Tommy ha trovato questo.» Allungò la mano, e Chase vide un dente di acciaio inossidabile. Era dentellato da due parti, e c'erano dei piccoli ganci ripiegati alle due estremità del terzo lato, più spesso. A Chase mancò il respiro; non riusciva a distogliere lo sguardo dal dente. Poi guardò Gibson e disse: «È qui, Rollie. È venuto a terra». 37 Entrò in acqua nello stesso punto da dove era emerso; vide le sue stesse impronte sulla sabbia, e, stando al riparo dei sassi, si mosse lentamente
lungo il pendio melmoso del fondale finché non fu immerso fino alle spalle. Svuotò i polmoni dell'aria, si tuffò sott'acqua e, come il cervello gli indicava di fare, mise in movimento le falde delle branchie, aprì la bocca, dilatò la trachea e respirò. Gli sembrò di soffocare. Scattò immediatamente in superficie, ansimando e tossendo. Fitte di dolore gli attraversavano i polmoni e gli davano crampi ai muscoli dell'addome. Innervosito e senza equilibrio, scivolò e cominciò ad affondare. L'acqua gli filtrò nelle aperture delle branchie, e di nuovo ebbe sintomi di asfissia e conati di vomito. Cercò con la mano un appiglio sui sassi, lo afferrò e ci si tenne avvinghiato, ansimando, finché i polmoni non furono liberi di nuovo. Tentò ancora due volte di immergersi, seguendo punto per punto la vecchia programmazione. Due volte ancora fallì. Non sapeva che cosa fosse successo né perché, dato che il suo cervello non poteva porsi simili quesiti e quindi non poteva dare risposte. Sapeva soltanto che non poteva più vivere sott'acqua, che la sopravvivenza dipendeva dall'aria che respirava. Ma sentì anche che non poteva sopravvivere in mezzo alle creature che respiravano l'aria. Se non poteva vivere sott'acqua, avrebbe dovuto vivere nell'acqua. Tirò un respiro profondo, bloccò le aperture delle branchie e si tuffò in avanti. Questa volta non soffocò. Poteva vedere, perché le lenti che coprivano gli occhi erano intatte, e poteva muoversi. A titolo di prova, mosse qualche bracciata in avanti. Ma quando provò a immergersi, si accorse che qualcosa era cambiato. Immergersi non era più facile, fluido, naturale; immergersi era diventato difficile, e una pressione interna lo spingeva verso la superficie. Ma altre cose erano cambiate; molto presto cominciarono a fargli male i polmoni, sentiva una pulsazione nelle orecchie, e il cervello gli trasmise il comando di trovare aria per respirare. Si girò verso l'alto, irruppe in superficie e respirò affannosamente. Mentre inspirava ed espirava, il suo galleggiamento cambiò, e dovette muovere i piedi lentamente per mantenere la posizione. Il suo cervello elementare era fortemente stimolato. I cambiamenti richiedevano adattamento se bisognava sopravvivere.
Dopo qualche momento, si sentì abbastanza bene da allontanarsi a nuoto, gradualmente, dalla riva. Dall'altra parte dell'acqua vide una striscia di terra. Restando sott'acqua più che poteva ed emergendo solo per respirare, nuotò verso la terraferma. Lì, lo sentiva, era al sicuro. Lì poteva cacciare. PARTE SESTA LO SQUALO BIANCO 38 «Salute, Ray,» disse Rusty Puckett, mentre si arrampicava su uno sgabello e sbatteva un biglietto da venti dollari sul bancone. «Seven and Seven?» chiese il barista. «Fammelo doppio; ho una sete terribile.» Puckett si guardò attorno. La stanza era semivuota. Erano le sette e mezzo, i clienti del pomeriggio erano già andati via, quelli della sera non erano ancora arrivati. Ray miscelò il drink, mise il bicchiere davanti a Puckett e prese i venti dollari. Sorrise nel dargli il resto e disse: «Ho saputo che sei stato in vacanza, ospite dell'amministrazione cittadina». «Bastardi,» sibilò Puckett. Vuotò a metà il bicchiere e aspettò che la sensazione di calore gli invadesse lo stomaco. «Non mi hanno neanche chiesto scusa. Ho una mezza idea di fare causa a Rollie Gibson.» «E perché? Per averti dato un'asciugata? Hai un aspetto splendido; non fa mai male prendersi un giorno o due di astinenza.» Puckett finì il suo drink e fece cenno di versargliene ancora. Il fatto era che si sentiva bene, e non solo fisicamente: si sentiva vendicato. Gibson e gli altri non avevano creduto una parola di quello che aveva detto, avevano pensato che raccontasse frottole o fosse vittima di allucinazioni, e poi, all'improvviso, il pomeriggio erano diventati tutti interessati, ansiosi di ascoltare la sua storia fin dall'inizio. Ma lui gliel'aveva fatta vedere, aveva dato risposte evasive a Gibson e a Chase, aveva detto di non ricordare. Perché avrebbe dovuto dar via delle cose gratis, quando avrebbe potuto guadagnarci dei soldi? Qualcuno di quei programmi televisivi, uno di quei «documenti di vita vissuta», pagava fior di dollari per interviste esclusive, e lui era matematicamente sicuro di essere stato l'unico a vedere quella cosa, qualunque cosa fosse. Tutto quello che doveva fare era aspettare, la sto-
ria sarebbe circolata e sarebbero venuti a cercarlo. Doveva solo avere pazienza; aveva tutto il tempo a disposizione. «È stato qui Nate Green, prima,» disse Ray. «Ti cercava.» «Lo credo bene,» Puckett sorrise. «E tu cosa gli hai detto?» «Che non ti avevo visto.» «E non mi hai ancora visto, d'accordo?» Al diavolo Nate Green, pensò Puckett. C'erano pesci più grossi da prendere, molto più grossi del Chronicle di Waterboro. «Sicuro, Rusty,» disse Ray. «Non mi uscirà una parola di bocca.» Puckett finì il secondo drink. Ora si sentiva veramente bene. Anche Ray lo trattava con rispetto. Un uomo entrò dalla porta che dava sulla strada, si sedette all'altra estremità del bancone e ordinò un bicchiere di vino. Mentre Ray glielo versava, l'uomo chiese: «Conosce un uomo di nome Puckett? Un certo Rusty Puckett?» Puckett si bloccò e fece finta di leggere il menu sulla lavagna sopra il banco. «Uh-huh,» rispose Ray, senza guardare dalla parte di Puckett. Rimise nel refrigeratore la bottiglia di vino e riprese a tagliare fettine di limone. «L'ha visto?» Puckett sentì uno strano accento nella voce dell'uomo, sicuramente non americano: straniero, forse di qualche paese europeo. «Potrei anche averlo visto,» disse Ray. «Ha degli affari con lui?» «È possibile.» Puckett prese a succhiare un cubetto di ghiaccio mentre rifletteva fra sé e sé su qualche ipotetico guaio. Non doveva soldi a nessuno. Di recente non aveva pescato di frodo le aragoste di nessuno; non aveva tagliato via boe, né speronato qualche barca o investito qualcuno con il furgone... almeno per quanto poteva ricordare. Allora si mise a pensare a un'ipotetica buona notizia. Forse il tipo veniva per conto di qualche giornale importante o per uno di quei programmi televisivi, e voleva fare un accordo. Dopo aver passato in rassegna tutte le possibilità, si sentì sufficientemente tranquillo da girarsi verso l'uomo e dirgli: «Io sono Puckett. Chi è che desidera saperlo?» «Ah,» esclamò l'uomo. Sorrise e si alzò dallo sgabello, portando con sé il bicchiere di vino, e passando davanti al barista gli disse: «Molto discreto da parte sua». Puckett osservò l'uomo che si avvicinava. Era molto alto, sui due metri,
con le spalle larghe e la vita stretta, un tipo che si prendeva cura di se stesso, probabilmente si teneva in allenamento. Puckett immaginò che dovesse essere appena sotto la cinquantina. I capelli, un tempo biondi, erano brizzolati e pettinati all'indietro. Indossava un completo grigio, una camicia bianca e una cravatta nera. Il suo colorito era pallido... Non malsano, solo il pallore di chi non sta mai al sole. Puckett decise che aveva l'aspetto di un impresario di pompe funebri. «Posso sedermi ficino a lei?» Puckett indicò lo sgabello accanto al suo e pensò: europeo, senza dubbio. Ficino invece di vicino. Tedesco, forse; oppure olandese, o di uno di quei paesi pisciosi che avevano cominciato a mettersi per conto loro. L'uomo disse: «C'è un signore là fuori che desidera conoscerla». «Perché?» «Ha sentito parlare di lei... o delle cose che lei ha detto.» Puckett fece una pausa, poi rispose: «Okay, e allora lo porti dentro». «Temo che non sia possibile.» «Perché?» rise Puckett. «È troppo grasso per passare dalla porta?» «Qualcosa del cènere.» Cènere... qualcosa del cènere. Tedesco. Doveva essere proprio così. «Ehi, Ray,» disse Puckett, «non ci sono delle regole contro i tipi grassi, no?» Ray non rise. «Vuole venire fuori, per favore?» chiese l'uomo. «Credo che impiegherà bene il suo tempo.» «In che senso?» «Finanziariamente.» «Bene, diavolo, perché non me lo ha detto subito?» Puckett si alzò in piedi. «Tienimi caldo il posto, Ray. Se non sono indietro fra dieci minuti, chiama la polizia.» Un furgone era parcheggiato dall'altra parte della strada. Era nero, i finestrini erano oscurati in modo che nessuno potesse guardare all'interno, e Puckett notò che le targhe portavano il contrassegno della licenza speciale per handicappati dello Stato di New York. «Che diavolo è, un'ambulanza?» L'uomo fece scivolare uno dei pannelli laterali e fece cenno a Puckett di entrare. Puckett si sporse in avanti e guardò all'interno. Era buio, e, per quel che poteva vedere, vuoto. Senza una ragione apparente, rabbrividì. «Non ci penso neanche,» disse.
«Signor Puckett...» «Ascoltami, Hans, non so chi ci sia là dentro. Non so chi sei tu, non so niente. Tutto quello che so è che io là non ci entro. Gli dica di venire fuori.» «Le ho appena detto...» «Se lo scordi. Se volete parlare di affari, lo facciamo alla luce del sole. Fine della storia.» L'uomo sospirò. «Mi dispiace.» «E allora, bene...» Puckett non vide il movimento della mano dell'uomo, ma all'improvviso ebbe la sensazione di ruotare su se stesso, i piedi gli si sollevarono da terra e fu catapultato nell'oscurità del furgone. Cadde sul pavimento coperto di moquette e rimase lì, confuso, mentre sentiva il pannello laterale sbattere, il motore accendersi e il furgone che si avviava. 39 Chase tirò via l'ultima pagina dal fax, e la lesse in fretta. «Un altro oide» commentò disgustato. «Quale, questa volta?» chiese Tall Man. «Elasmobrancoide: presenta le caratteristiche dei pesci cartilaginei.» Gettò il foglio nel cestino. «Qualcuno di questi tizi deve aver preso un diploma avanzato nella scienza di pararsi il culo. Sono dei geni a mettere insieme definizioni che sembrano chissà che cosa e che invece non significano niente.» Nelle ultime quarantott'ore, Chase aveva tempestato di fax tutti gli scienziati marini che conosceva, aveva mandato copie delle polaroid dei denti d'acciaio e dei segni lasciati dagli artigli sul corpo degli animali uccisi, descritto ogni incidente capitato dopo che erano stati trovati i fratelli Bellamy, e aveva chiesto opinioni: intuizioni, ipotesi, qualsiasi cosa, con l'impegno da parte sua di tenerle riservate, sulla natura dell'essere con cui avevano a che fare. I pochi scienziati che si erano degnati di rispondere erano stati vaghi e guardinghi; nessuno si era spinto fino a identificare un animale specifico, tutti spingendo le loro soluzioni fino all'aggiunta del suffisso «oide», il che non diceva a Chase nulla che già non sapesse. «Così adesso,» disse, «abbiamo il carcarinoide, che sarebbe una classe di pescecani; l'ittioide, che potrebbe essere un pesce; il panteroide, che po-
trebbe essere un leone o una tigre del mare; e l'elasmobrancoide.» Osservò per un attimo il cumulo di fax, poi ci frugò in mezzo e ne scelse uno. «Lo sai qual è l'unico che mi dice qualcosa? Questo qui, quello dei criptozoologi.» «Quelli dei mostri marini?» chiese Tall Man. «Ma quelli sono...» «Marginali, lo so. Pseudoscienziati, nessuno li prende sul serio. Ma sono gli unici ad avere il coraggio di usare l'unico «oide» che mi piace: umanoide.» «Andiamo, Simon.» Tall Man scosse la testa. «Lo sai meglio di me come sono andate le cose. L'essere che ha ucciso il leone marino si trovava almeno a sessanta metri di profondità; non c'erano bolle d'aria in superficie, così non aveva attrezzatura subacquea. E nessuno si immerge in apnea a sessanta metri, almeno non così a lungo da poter uccidere e divorare un leone marino.» «Non ho detto che è un essere umano, ho detto che può essere un umanoide... una specie di essere umano... simile a un essere umano. Al diavolo, non lo so.» «Cominci a parlare come Puckett? A proposito, non l'hanno ancora trovato?» «No, è sparito, volatilizzato, nessuno...» Squillò il telefono. Chase alzò il ricevitore. Sospirò, coprì il microfono con una mano e disse: «Gibson». Poi chiuse gli occhi, si appoggiò allo schienale della sedia e ascoltò la solita litania. Il capo stava mandando in rosso il suo bilancio; le barche della polizia erano fuori ventiquattr'ore al giorno, impegnando gli agenti in doppi turni; la stampa gli stava alle costole; l'articolo di Nate Green sul Chronicle, intitolato MOSTRO DIVORA UN CANE, in cui aveva alluso alle morti ancora irrisolte dei Bellamy e di Bobby Tobin, aveva attirato giornalisti da tutte le parti del paese; un produttore voleva un film per la TV intitolato Il Diavolo degli Abissi; agenzie immobiliari, ristoranti e l'amministrazione cittadina tenevano le spie dei telefoni della stazione di polizia illuminate come un albero di Natale. Come sempre, la litania di Gibson si chiudeva con la domanda accusatoria: e lui cosa stava facendo? «Ma cosa ti aspetti che faccia, Rollie?» disse Chase quando Gibson ebbe finito. «Correre in giro per l'immenso oceano con la mia barchetta? Non so neppure cosa dovrei andare a cercare. Almeno i ragazzi del laboratorio sono venuti fuori con un'analisi del fluido trovato sul pavimento del garage?» «Sì e no. Credo che si stiano rompendo la testa. Gli ho detto che non da-
rò loro un attimo di tregua finché non avranno i risultati finali del DNA.» «Perché? Che cosa pensano?» «Dicono che viene da una specie di mammifero.» «Di che specie?» «Dicono...» Gibson ebbe un attimo di esitazione, come se facesse fatica a parlare. «Dicono che sembra provenire da un essere umano. Maledizione, Simon...» Chase riagganciò, si alzò in piedi e chiese a Tall Man: «Dov'è il nostro esperto personale di mammiferi?» «Dove sta sempre. Giù, con i ragazzi e i leoni marini.» Mentre Chase e Tall Man scendevano giù per la collina, potevano vedere Max ed Elizabeth nella vasca che giocavano con i tre leoni marini, e Amanda che li guardava dal parapetto di cemento. I leoni marini erano diventati incredibilmente timorosi. Amanda diceva che sembravano clinicamente nevrotici. Evitavano l'acqua; qualunque acqua, non solo quella salata. Per due giorni si erano rifiutati decisamente di obbedire agli ordini di Amanda di entrare nella vasca. Disperata, Amanda aveva telefonato in Florida a un collega che lavorava con i delfini, e aveva appreso che gli animali intelligenti rispondono in modo straordinario ai bambini, specialmente ai bambini afflitti da qualche problema fisico, e comunicano con loro in un modo inesplicabile, probabilmente extrasensoriale. Amanda aveva chiesto a Elizabeth di aiutarla in un esperimento, e i risultati erano stati sorprendenti. Quando gli animali si rifiutavano di obbedire direttamente ad Amanda, si lasciavano avvicinare da Elizabeth, si lasciavano accarezzare e, qualche volta, convincere a seguirla in acqua e giocare con lei e con Max. Amanda era stata così eccitata dal successo dell'esperimento che aveva cominciato a dare un numero sempre maggiore di istruzioni attraverso Elizabeth incoraggiandola a dare lei stessa gli ordini, in un tentativo di allargare i confini della comunicazione fra specie diverse. Quando udì Chase e Tall Man alle sue spalle, Amanda indicò i ragazzi e i leoni marini. «Non è fantastico?» chiese. «Ho bisogno di parlare con te un paio di minuti,» disse Chase. «Si tratta degli esami di laboratorio di Gibson.» «Pensavo anch'io di venire su da te, ma non mi sembrava una cosa abbastanza importante da interrompere tutto questo. Ho pensato che non ci potevamo fare niente.»
«A proposito di che cosa?» «Ho appena ricevuto una chiamata alla radio, nel capannone, dal pilota del ricognitore.» «Pensavo che lo avessi pagato e mandato via,» disse Chase. «Visto che i leoni marini non lavorano più.» «Credo che sia interessato a quello che stiamo facendo qui. A ogni modo era fuori a cercare pesci spada per conto delle barche da pesca d'altura, e ha visto un pescatore, da questa parte della Block, disporre una chiazza di mangime sull'acqua. Ha detto di aver pensato che ci avrebbe interessato saperlo e che sembrava che il tipo stesse preparando l'esca per gli squali bianchi.» «Quel tipo deve essere matto. Con tutta la pubblicità sulle cose che stanno succedendo qui attorno, perché qualcuno dovrebbe andarsene in mare a spargere una chiazza di mangime?» Chase corrugò la fronte. «A ogni modo io non posso farci niente, non ci sono leggi contro le chiazze di mangime.» «No,» disse Amanda, «ma c'è una legge federale contro l'uso di cuccioli di delfino come esca. E questo è quanto il pilota dice di avere visto.» «Delfini!» esclamò Chase. «Ne è sicuro?» «Sì. Ma ho pensato che, finché non avessimo chiamato la guardia costiera o l'EPA, o chiunque altro...» «Ha riconosciuto la barca?» «Si, dice che è di Waterboro... il Brigadier.» «Non può essere... si è sbagliato.» «Perché?» «Perché non può essere.» Chase si avviò verso il capannone. «Di che cosa volevi parlarmi?» gli gridò Amanda. «Fra un minuto,» rispose Chase. Tall Man seguì Chase nel capannone. «Sammy?» disse. «Non posso crederci.» Conoscevano Sammy Medina da quindici anni; era un noleggiatore di barche da pesca responsabile e di successo che aveva condotto di recente una campagna per regolamentare la pesca sportiva e commerciale. «È così, se si tratta del Brigadier,» ammise Chase. «È difficile vederlo da un aereo. Ma lo sapremo presto. Cindy sarà sincera con me.» C'era un telefono sul muro del capannone, e Chase sollevò il ricevitore, fece un numero, parlò per qualche istante, riappese e disse a Tall Man: «Sono proprio un idiota». «Era Sammy.»
«In persona.» Chase annuì. «A casa... si è preso una giornata di riposo, ozio totale. Dice di avere avuto un'offerta, semplice noleggio della barca, senza pilota ed equipaggio, solo l'affitto della barca, senza far domande... per diecimila dollari al giorno!» Tall Man fece un fischio. «Che razza di pesca può valere dieci testoni al giorno?» «È quello che vorrei sapere.» Chase fece una pausa. «Indovina chi gli ha noleggiato la barca.» «Donald Trump?» «No. Rusty Puckett.» «Puckett?! Puckett non ha tutta quella grana, nessuno qui attorno ce l'ha. E poi, cosa ci vuol fare Puckett con...» «Non sta pescando i grandi squali bianchi, Tall,» lo interruppe Chase. «Sammy dice che lo stupido bastardo pensa di avere trovato un mostro... o perlomeno ha convinto qualche credulone di averlo trovato. O forse lo ha trovato veramente.» 40 Giaceva disteso in un intrico di cespugli, ascoltando il rumore del suo stesso respiro e quelli della vita del bosco che lo circondava. Riceveva i suoni e li selezionava, archiviandoli per identificarli più tardi. Stava sintonizzando i propri sensi. Da quando era emerso dall'acqua, dei cambiamenti avevano avuto luogo all'interno dell'essere, cambiamenti che poteva percepire ma non comprendere. Più a lungo il suo sistema vascolare, il suo cuore e il suo cervello erano irrorati e nutriti dalla miscela di ossigeno e di azoto che formava l'aria, al posto dell'acqua, con una dominante di idrogeno, più gli sembrava di capire e di ricordare, e in proporzione aumentavano le sue capacità di elaborazione. Man mano che il suo equilibrio biochimico si modificava, cambiava anche la sua vita. Ora sapeva, per esempio, che cosa era stato una volta. La sua mente era in grado di dare un nome a vari oggetti e animali, sebbene la sua voce non fosse in grado di pronunciarli. Parole di tutti i generi gli rimbalzavano nel cervello, parole che suscitavano memorie ed emozioni così diverse come l'ira, l'odio, l'orgoglio e l'euforia. Sentiva la potenza della sua stessa forza fisica e ricordava, anche se va-
gamente, il piacere che derivava dall'uso di questa forza. Ricordava anche altre sensazioni di piacere derivanti dall'uso della forza, dall'infliggere dolore e causare la morte. Si era costruito un riparo scavando una bassa trincea e coprendola con foglie e rami. Finora non era stato scoperto da nessuno, fatta eccezione per un cane ficcanaso, che aveva ucciso e divorato. Aveva imparato che non poteva inseguire e cacciare la maggior parte degli animali con cui divideva la macchia, ma stava cominciando a insegnare a se stesso come tendere loro delle trappole. Inoltre, non era capace di nutrirsi abbastanza per soddisfare il suo enorme e sempre crescente bisogno di energie. Più cresceva la sua forza, più aumentavano le sue esigenze; più cresceva la sua energia, più aumentavano i suoi bisogni e più energia doveva spendere per assecondarli. Era diventato cauto per istinto, non per riflessione; ora sapeva cosa doveva evitare e con cosa poteva confrontarsi, che cosa era innocuo e che cosa pericoloso. Sebbene il passato e il futuro restassero paesaggi avvolti nella nebbia, alcuni banchi di questa nebbia avevano cominciato a sollevarsi, e lui ora aveva un obiettivo: portare a termine la sua missione di annientamento. Ora riposava, ascoltando i richiami degli uccelli e degli scoiattoli, i passi delle volpi e dei cervi, il sibilo del vento attraverso gli alberi, lo sciacquio delle onde sulla vicina spiaggia di sassolini. All'improvviso, udì rumori nuovi, di passi maldestri, pesanti e sbadati, attraverso il sottobosco. E voci. Si alzò sulle ginocchia, poi sulle piante dei piedi, e guardò attraverso i cespugli, in direzione dei suoni. «Al diavolo!» gridò un ragazzo di nome Chester, massaggiandosi un polpaccio. «Potevo rompermi la gamba in quella tana di marmotta.» «E allora guarda dove metti i piedi,» lo canzonò il suo amico Toby. «Ancora non ho capito perché dobbiamo camminare tanto qui in mezzo.» «Te l'ho detto: è qui che c'è selvaggina.» «È anche proprietà privata, però.» «Ci sono stato un milione di volte, non gliene importa niente.» «Ah sì? E allora perché ci sono tutti quei cartelli del tipo 'Vìetata la caccia, andatevene fuori dai piedi'?» «Per via dell'assicurazione,» disse Toby, che aveva già compiuto dicias-
sette anni e aveva quindi due mesi di saggezza più di Chester. «Sono obbligati a metterli.» «Bene, se ci mandano dietro i piedipiatti, sei tu che hai rubato quell'arnese fottuto, non io... Non credere che non glielo dica.» «Tu mi hai dato una mano.» «Sono stato a guardare.» «È lo stesso.» «A ogni modo,» riprese Chester, «non capisco cosa ti fa pensare che puoi colpire un fottuto procione con una fottuta balestra.» «C'era scritto sulla scatola: precisa fino a cinquanta metri. Oltretutto c'è anche il caso che vediamo un cervo, invece.» «Oh, no, questo no. Provati a tirare a un cervo, con la caccia chiusa, e io che sono qui...» «Non fare lo stronzo.» Continuarono per alcuni metri, finché arrivarono vicino a un grosso albero che si ergeva in mezzo a un intrico di fogliame fitto. «Perfetto,» disse Toby. Fece un passo nel fogliame e girò intorno, dall'altra parte dell'albero. «Questa è edera velenosa,» commentò Chester. «Hai i pantaloni lunghi.» «Che cos'ha di così speciale quest'albero?» «È un noce. Verranno dritti qui. Gli piacciono le noci.» «A chi piacciono?» «Alla selvaggina... di tutti i generi.» «Sai un sacco di cose.» «Chiudi il becco.» Si inginocchiarono dietro l'albero. Da una faretra che portava alla cintura Toby trasse un dardo di grafite con la punta d'acciaio, lungo diciotto pollici. Appoggiò il calcio della balestra sul terreno, tirò indietro la corda, la incoccò e sistemò il dardo nella scanalatura. «Come fa quest'affare a volare dritto se non ha le penne?» chiese Chester. «La scanalatura, qui, la fa filare come se fosse sparata da un fucile.» «La punta non è neanche a uncino.» «Neanche una pallottola lo è, testa di cazzo. Una cosa che abbia sufficiente potenza dietro di sé è capace di ammazzare un rinoceronte.» «O uno che fa jogging. Ecco una bella cosa da spiegare a...» «Chiudi il becco, ti ho detto!»
Chester rimase in silenzio per un momento, poi mormorò: «E allora, cosa facciamo adesso?» «Cos'è che fanno sempre i cacciatori? Aspettiamo.» Ce n'erano due, uno era più grasso dell'altro, tutti e due lenti e vulnerabili... ma apparentemente armati, sebbene non capisse con cosa. Rimase a osservarli, aspettando di vedere che cosa avrebbero fatto. Non fecero niente, si accovacciarono soltanto in mezzo ai cespugli. Il canto degli uccelli e i richiami degli scoiattoli si erano interrotti. Si mosse lentamente sulla destra, finché ebbe la strada libera verso di loro. Li avrebbe presi con facilità tutti e due, prima l'uno poi l'altro, e li avrebbe trascinati entrambi nella sua tana. Quello grasso per primo. «Che cos'era?» chiese Chester. «Cos'era cosa?» «Un rumore, dietro di noi.» Toby si girò a guardare ma vide solo i cespugli. «Lascia perdere,» disse. «Qui siamo noi i cacciatori, pensi che qualcuno ci stia facendo la posta?» «Odio i boschi,» brontolò Chester. «Io... Toby!!!!» Quello grasso lo aveva visto, lo stava guardando, lo indicava con il dito, emetteva un rumore. Scattò dal sottobosco, e con due lunghe falcate gli fu addosso. Affondò gli artigli di una mano nel petto del ragazzo, gli altri nel cuoio capelluto e negli occhi, gli piegò indietro la testa e con i denti gli squarciò la gola. Il grasso morì subito. Si girò verso l'altro. «Dio... Gesù... Dio... Gesù...» Toby arretrò. Qualcosa aveva afferrato Chester, qualcosa di grosso e bianco-grigiastro, e il sangue scorreva dappertutto perché... oh Dio... Gesù... la cosa se lo stava mangiando! Toby andò a sbattere con la schiena contro il tronco dell'albero. Ora l'essere si stava voltando verso di lui. Aveva capelli giallastri e denti d'acciaio e gli occhi bianchi come palle da biliardo, ed era più grosso di Schwarzenegger.
Toby tirò su la balestra e la tenne di fronte a sé, cercò di dire qualcosa ma le parole non gli uscirono dalla bocca. Premette il grilletto. La balestra sussultò mentre il dardo volava via dalla scanalatura. Vide il dardo colpire l'essere e conficcarcisi, e ci fu un piccolo schizzo di quello che sembrava essere sangue. Ma l'essere continuava ad avanzare. Mugolando di terrore, Toby lasciò cadere la balestra, girò intorno all'albero e cominciò a correre. Sentiva una sensazione di bruciore nel fianco, sotto le costole, guardò in basso e vide qualcosa che gli usciva dalla carne. Strinse una mano intorno alla cosa, se la strappò dalla carne e la scagliò lontano. Non era ferito gravemente, nessuna delle sue funzioni vitali era pregiudicata, ma il dolore lo rallentava e distraeva. Si fermò e stette a guardare l'umano che fuggiva in mezzo ai cespugli. Ritornò da quello grasso, con l'intenzione di trascinarlo nella sua tana. Allora, per la prima volta, sperimentò qualcosa che sembrava una previsione: l'altro umano sarebbe tornato, sarebbe tornato per dargli la caccia. Insieme ad altri. Lui era in pericolo. Doveva escogitare un piano. Si mise a sedere contro il grosso albero, ordinando al cervello di lavorare, di progettare, di selezionare, di trovare una soluzione. Le priorità erano chiare: arrestare l'emorragia e sopravvivere. Raccolse delle foglie dal terreno e del muschio dal tronco dell'albero, li appallottolò e li applicò sulla ferita. Per mangiare, usò gli artigli per tagliare via pezzi di carne dall'umano grasso e li consumò. Mangiò fino a saziarsi, poi si costrinse a mangiare di nuovo, finché sentì che un altro boccone lo avrebbe fatto rigurgitare. Ora, lo sapeva, doveva fuggire e trovare un altro posto, più sicuro. Si alzò e camminò fin dove gli alberi terminavano sul litorale. Rimase in piedi al riparo degli alberi, per assicurarsi di essere solo, poi entrò in acqua. Non poteva immergersi, ma poteva nuotare. Non poteva più trovare nutrimento nel mare, ma poteva sopravvivere fino a che avesse raggiunto una nuova terra. Così come era divenuto conscio del suo passato, ora cominciava a scandagliare il futuro. 41
Il mare era calmo, non c'era neppure la brezza necessaria per increspare l'acqua, così il Mako si alzò velocemente in planata e tagliò la superficie liscia come l'olio a quaranta miglia all'ora. «Mi domando chi è venuto fin qui con dieci testoni,» gridò Tall Man sopra il ruggito del motore fuoribordo. «Qualche produttore televisivo, probabilmente,» rispose Chase dal timone. «È bene che preghino l'inferno di non tirare su quella creatura.» Una sola barca era ancorata nel canale profondo a sud-est di Block Island. Sebbene fosse ancora a un quarto di miglio di distanza, Chase la riconobbe subito. «È la barca di Sammy,» disse. «Bianca con una striscia azzurra... torretta per i tonni... fuori scalmo.» Il sole era alle loro spalle e tramontava a occidente. Tall Man si fece ombra sugli occhi con la mano e guardò di traverso. «Hanno due bestie di attrezzature da pesce spada fuori prua,» disse. «Lenze d'acciaio. Solo due tizi in cabina di pilotaggio.» «Uno di loro è Puckett?» «Sì.» Tall Man fece una pausa, guardando. «L'altro è un bellimbusto grande e grosso, alto come me. Si direbbe che imbracci un AK 47.» «Lo imbraccia,» chiese Chase. «Non sta prendendo la mira?» «Non ancora.» Nel passarle vicino, Chase si tenne a una trentina di metri dalla barca. Non vide altri membri dell'equipaggio, né cineprese, né apparecchiature del suono. «Non stanno girando un film,» disse. «Stanno andando a caccia.» Fece fare una virata al Mako, mise in folle e lasciò che la barca accostasse piano, alla deriva, sotto bordo della barca da pesca. Puckett si sporse sul parapetto e gridò: «C'è da scommetterci, Chase! Ogni volta che mi capita un'occasione, tu trovi il modo di mandarla a farsi fottere. Un uomo avrà anche il diritto di guadagnarsi da vivere». «Non assassinando i delfini, però, questo no,» rispose Chase. «Stai cercando di passare un sacco d'anni tutto solo in una cameretta.» «Non hai capito un cazzo.» Puckett si frugò in tasca e tirò fuori un foglio di carta. «Questi delfini sono morti per un virus, loro insieme a un'altra dozzina. Li abbiamo comprati da un laboratorio a Mystic.» Chase esitò. Quel che diceva Puckett era possibile, e aveva anche senso. Nel corso degli ultimi anni, centinaia, forse migliaia di delfini di varie razze erano stati lasciati dalla risacca sulle spiagge della costa orientale, uccisi
da virus le cui origini rimanevano un mistero. Si pensava che l'inquinamento potesse essere l'elemento catalizzatore, ma il genere d'inquinamento - acque di scolo, residui agricoli, rifiuti petroliferi o chimici - nessuno sembrava saperlo. «E allora che cosa state facendo tu e Rambo?» Chase fece un gesto con la mano verso l'uomo colossale che teneva il fucile d'assalto sul petto. Prima che Puckett potesse rispondere, Chase sentì che Tall Man gli dava di gomito guardando in alto. Seguì il suo sguardo e vide una telecamera montata sul parapetto del ponte di comando della barca da pesca. Si muoveva tenendoli inquadrati mentre scivolavano via sul Mako. «Stiamo pescando i grandi squali bianchi, che cos'altro sennò?» disse Puckett. «Una buona mascella di squalo bianco può valere fino a cinque testoni, come niente.» «Non raccontarmi stronzate, Rusty, lo so io cosa...» L'uomo col fucile disse: «Non abbiamo infranto nessuna legge. Questo è tutto ciò che la riguarda». «No, quello che mi riguarda è cosa pensate di cercare, mentre non avete la più pallida idea...» All'improvviso, da un altoparlante montato sopra la cabina di pilotaggio, uscì una voce incorporea, stridula, innaturale, con un timbro quasi meccanico e un forte accento, che gridò: «Rudi! Vieni qui!» L'uomo passò il fucile a Puckett, si voltò ed entrò nella cabina. Il Mako di Chase era stato portato dalla corrente oltre la barca all'ancora, e Chase ingranò la marcia indietro e venne di poppa finché le due barche non si trovarono di nuovo fianco a fianco. Puckett teneva il fucile stretto al petto, puntato contro di loro. «Metti via il cannone, Rusty,» gli intimò Tall Man, «che sei già nella merda fino agli occhi.» «Mettici un tappo, Geronimo,» ribatté Puckett. L'uomo ritornò dalla cabina. «Gettatemi una cima,» disse, «e salite a bordo.» «Perché?» chiese Chase. L'altoparlante esplose: «Lei!» Chase guardò in alto verso la telecamera e si puntò il dito indice contro il petto. «Sì, lei. Lei dice di sapere quello che stiamo facendo?» «Ho paura di sì,» rispose Chase. «Venga dentro... prego... lei e il suo amico. Credo che abbiamo bisogno
l'uno dell'altro, lei e io.» 42 La cabina era buia. I vetri erano oscurati e le tende erano state tirate sugli oblò. Faceva freddo, anche per via degli impianti di condizionamento e di deumidificazione. Quando i loro occhi si furono adattati all'oscurità, Chase e Tall Man videro che tutti i mobili erano stati tolti dalla cabina e sostituiti con quella che sembrava un'unità di rianimazione mobile. Nel centro della cabina c'era una sedia a rotelle a motore, in cui stava seduto un uomo. Un tubo di gomma andava da un monitor digitale, attraverso un flacone sospeso, nella vena all'interno di uno dei gomiti dell'uomo. L'altra mano teneva l'estremità di una manichetta fissata a una bombola d'ossigeno. Alle sue spalle si trovavano alcuni macchinari, fra cui un elettrocardiografo e uno sfigmomanometro; e in alto, sul davanti, c'era uno schermo televisivo che riprendeva l'immagine a colori della poppa della barca. L'uomo era vecchio, certamente, ma non era possibile dire quanto, perché aveva la testa rasata e portava occhiali scuri. L'ampiezza delle spalle lasciava intendere che doveva essere stato di corporatura massiccia, ma ora si era come raggrinzito. Una coperta lo nascondeva dalle ginocchia al petto. L'uomo sollevò la mano che teneva la manichetta dell'ossigeno, spinse da un lato i lembi di un fazzoletto da collo giallo e si premette la manichetta contro la gola. Il torace gli si dilatò mentre l'ossigeno gli riempiva i polmoni. Poi cominciò a parlare e Chase trasalì nel sentire che le parole non venivano da lui ma da una scatola che si trovava dietro di lui, un qualche tipo di amplificatore. «Dov'è lui?» Cosa significa «lui»? pensò Chase. «Non lo so,» rispose. «Adesso è lei che deve dirmi cosa è... quell'essere.» Di nuovo l'uomo si appoggiò la manichetta sulla gola, e di nuovo cominciò a parlare. «Una volta era un uomo. Diventò un grande esperimento. Chi sia, non è ancora dato saperlo. Un mutante, forse. Un predatore, certamente. Non smetterà mai di uccidere; questo è ciò per cui è stato creato.» «Da chi? E cosa le fa pensare che...»
«Io so quanto basta. Se riesco a prenderlo in trappola...» L'uomo ebbe una contrazione. Era rimasto senza ossigeno. Fece una pausa come se volesse recuperare la forza necessaria per respirare. «Si sieda,» disse, poi indicò il ponte oltre la porta della cabina. Chase dette un'occhiata allo schermo e vide Puckett che gettava in mare interiora di pesce e sangue. L'altro uomo, Rudi, stava seduto a poppa con il fucile sulle ginocchia. Il vecchio disse: «Se viene su, Rudi gli sparerà». «Allora può essere ucciso. Questa è una consolazione.» «No, è una domanda.» Ci fu un leggero cambiamento nel tono di voce dell'uomo, come se sorridesse. «Una domanda pertinente: si può uccidere ciò che non è realmente vivo?» Chase e Tall Man rimasero seduti mentre riprendeva le forze, e, dopo un attimo di silenzio, ricominciava a parlare. All'inizio le parole uscivano in brevi raffiche, ma gradualmente prese un ritmo di inspirazione ed espirazione che gli consentiva di esprimere pensieri finiti. Chase chiuse gli occhi; lo distraeva guardare il tubo toccare la gola dell'uomo e poi staccarsene, osservare il torace dilatarsi e poi contrarsi, e lasciò che le parole lo sommergessero e si trasformassero in immagini. «Mi chiamo Jacob Franks,» cominciò l'uomo. «Sono nato a Monaco, e negli anni prima della guerra lavoravo come apprendista nella farmacia di mio padre. Saremmo potuti partire, ci spingevano a farlo, ma mio padre si rifiutò. Era un uomo con una malriposta fiducia nella fondamentale dignità dell'essere umano. Non voleva credere alle voci circa le intenzioni dei nazisti a proposito di noi ebrei... finché una notte, all'improvviso, fu troppo tardi per andare via. «Vidi per l'ultima volta i miei genitori e le mie due sorelle mentre venivano fatti uscire da un carro bestiame in un posto vicino a una città che nessuno aveva mai sentito nominare. «Io fui risparmiato - ero giovane e forte e in buona salute - e fui messo a lavorare come operaio. Non potevo sapere che quello che stavo costruendo erano forni crematori... In pratica, stavo scavando la mia stessa tomba. La mia salute cominciò a indebolirsi, a causa della denutrizione. Sapendo com'è andata a finire, è chiaro che mi mancavano poche settimane o mesi per essere trasformato in cenere, quando un giorno arrivò al campo un nuovo medico. Poiché dai miei documenti risultava che avevo una certa esperienza in farmacologia, fui mandato a lavorare con lui. «Si chiamava Ernst Kruger: era un protetto, un amico e, più tardi, un ri-
vale di Joseph Mengele.» Fece una pausa. «Voi sapete chi fosse Mengele, suppongo.» «Certo,» rispose Chase. «Chi non lo sa?» «Io non lo so,» disse Tall Man. «Lo chiamavano 'l'Angelo della Morte',» spiegò Franks. «Era medico ad Auschwitz; non provava gioia nel salvare vite umane ma nel distruggerle, e nei modi più spaventosi possibili. Provava gusto a fare esperimenti sui prigionieri, a torturarli senz'altro scopo che quello di vedere quanto potevano resistere al dolore, a sventrare dei gemelli solo per vedere fino a che punto, in realtà, fossero simili, a trapiantare gli occhi solo per vedere se continuavano a funzionare, a congelare o a far bollire donne e bambini solo per vedere quanto tempo impiegavano a morire. È riuscito a fuggire, alla fine della guerra, ed è vissuto in Paraguay e in Brasile.» «Non l'hanno mai preso?» chiese Tall Man. «No. È annegato, o così dicono, qualche anno fa al largo di una spiaggia brasiliana. Dissero che c'erano delle prove certe, ma per me Mengele non morirà mai. Il fatto che un uomo simile possa esistere, che Dio possa permetterlo, significa che una piccola parte di Mengele può vivere dentro ognuno di noi.» «E il suo dottore,» domandò Chase, «questo Kruger... era come Mengele?» «Era perverso come Mengele,» rispose Franks, «e altrettanto brutale. Ma Kruger era più intelligente, e aveva un sogno più ambizioso, per quanto distorto.» «E cioè?» «Di usurpare il potere di Dio. Voleva davvero creare una nuova specie.» «E per che diavolo farne?» disse Tall Man. «In un certo senso, per vedere se era possibile. Ma poi, man mano che andava avanti nel suo lavoro, e l'impossibile sembrava diventare possibile, mentre i successi seguivano ai successi, la cosa arrivò alle alte sfere gerarchiche del partito nazista. Soldi e incoraggiamenti gli piovvero addosso. Il sogno di Kruger divenne megalomania: decise che avrebbe cercato di creare una razza di guerrieri anfibi.» Tall Man fece per dire qualcosa, ma Frank proseguì. «Erano gli anni quaranta. Non dimenticatevelo. Non c'erano sottomarini nucleari con autonomie infinite, l'immersione subacquea era appena stata sperimentata e l'uomo era ancora uno straniero nel mare. Immaginate una creatura con l'intelligenza, le conoscenze, l'allenamento e la brutalità del-
l'uomo, ma combinati con le capacità del più grande predatore degli abissi.» «Gesù,» disse Chase. «Delle orche assassine naziste.» «Non esattamente. Più versatili, persino,» spiegò Franks. «Le orche devono respirare. Le creature di Kruger non ne avrebbero avuto bisogno. Avrebbero potuto restare sott'acqua all'infinito, immergersi fino a trecento metri di profondità, sistemare esplosivi, spiare il passaggio delle navi. Il suo sogno era che diventassero una potenziale minaccia permanente.» «Significa che era matto,» commentò Tall Man. «Non necessariamente,» intervenne Chase. «Mi ricordo di aver letto di un professore di Duke che tentò la stessa cosa negli anni sessanta. Cominciò con i topi. Inalava loro dei liquidi nei polmoni senza farli annegare e scoprì che inalare liquidi elimina il pericolo dell'embolia gassosa. Una volta sottopose un topo a una decompressione da trenta atmosfere alla pressione di superficie in tre secondi, come se un sommozzatore salisse da trecento metri di profondità alla velocità di mille chilometri all'ora. Il topo sopravvisse. Non vide motivi per cui questo non avrebbe potuto funzionare anche con gli esseri umani. Interruppe gli esperimenti solo perché ne venne meno la necessità: si affacciarono alla ribalta i robot, i ROV, i batiscafi. Potevano fare un lavoro migliore, nelle acque profonde, senza rischi per le persone. Ma lui era convinto che avrebbe potuto creare un anfibio umano.» Frank annuì e disse: «In teoria, creare un essere umano capace di respirare acqua non dovrebbe essere molto difficile. Discendiamo da esseri che respiravano acqua, dopo tutto. I feti sopravvivono nel liquido, e in vari stadi del loro sviluppo mostrano segni di pinne e anche di branchie. E noi tutti siamo già dei respiratori d'acqua, visto che i nostri polmoni contengono fluidi senza i quali non potrebbero funzionare». «Così ci sta dicendo che Kruger ebbe successo?» chiese Chase. «Ci arrivò vicino. Se la guerra fosse andata ancora avanti, ce l'avrebbe fatta di sicuro. Quello che rallentava la sua impresa era la qualità delle sue cavie. Erano persone deboli, malate, denutrite: schiavi. Molti di loro sviluppavano infezioni già dall'iniziale operazione di tracheotomia, e, dato che allora non c'erano antibiotici, morivano. Alcuni non riuscivano a sopravvivere all'allagamento dei polmoni con soluzioni saline e fluorocarbonati. Ma Kruger aveva un'inesauribile riserva di pazienti, così andò avanti. «E poi, da qualche posizione elevata nella gerarchia del potere, forse da Hitler stesso, gli arrivò un regalo. Un soggetto perfetto. Heinrich Guenther aveva il fisico ariano ideale, alto più di due metri, con la muscolatura simi-
le a quella di una statua greca. Aveva vinto delle medaglie alle olimpiadi del '36 nel lancio del peso, nel giavellotto e nel lancio del martello, ed era diventato una specie di eroe nazionale. Si arruolò nelle SS, passò di grado, fu promosso ufficiale e, allo scoppio della guerra, sembrava destinato a una brillante carriera. Era senza paura, senza pietà e totalmente privo di coscienza: era un assassino. «Non era del tutto sano di mente, inoltre, anche se questo, all'epoca, non era evidente. Uomo scorbutico, viveva da solo, e a quanto pare, era andato avanti per anni a uccidere gente... prostitute ed emarginati, perlopiù. Tutto questo venne fuori soltanto quando, una notte, fu preso da furia scatenata, in una birreria, e uccise tre persone. Suppongo che oggi gli verrebbe diagnosticata una psicopatologia sessuale o una schizofrenia paranoica; nel 1944, fu etichettato come maniaco omicida. Fu condannato a morte e stava per essere fucilato, quando qualcuno decise che avrebbe potuto rendere un ultimo servizio al Reich. E lo mandarono giù da noi.» «Lei ha lavorato con quel tipo?» chiese Chase. «Ho lavorato su di lui. Con Kruger. Per mesi. Veniva trattato come una tigre. Fra un'operazione e l'altra era tenuto in gabbia, nutrito con carne cruda e iniezioni di vitamine, anestetizzato e programmato con metodi che sono considerati sofisticati anche oggi: bioregressione, condizionamento subliminale. L'esperimento era praticamente finito; Kruger aveva soltanto un altro passo da fare, quando gli alleati circondarono il campo. Ma Kruger era come ossessionato; si rifiutava di abbandonare l'esperimento. Quando fuggì portò Guenther con sé. Come alla maggior parte dei nazisti che certamente sarebbero stati considerati criminali di guerra, a Kruger era stata data una via di fuga verso il Sud America. «Così inalammo in Guenther, per l'ultima volta, i fluidi necessari, lo sistemammo in una cassa di bronzo piena di fluorocarbonati concentrati e di soluzioni saline arricchite e lo caricammo su un camion. Kruger partì a piedi e si diresse a nord, verso il mare. Non ho mai più visto nessuno dei due.» «E cosa ne è stato di lei?» chiese Chase. «Cosa è successo all'arrivo degli alleati?» «Mi hanno liberato... ci hanno liberati tutti.» «Tutto qui?» «E perché non avrebbero dovuto farlo?» «Perché lei non si era limitato a sopravvivere,» disse Chase. «Lei aveva lavorato fianco a fianco con quel mostro mentre lui uccideva la gente.»
«Forse...» iniziò Franks, ancora con quello che sembrò un pallido sorriso, «... forse pensavano che avessi sofferto abbastanza.» Si chinò in avanti sulla sedia a rotelle, e il riflesso dello schermo gli illuminò il viso. Si tolse gli occhiali scuri. Uno dei suoi occhi era normale, ma l'altro era di un colore giallo scuro come un tuorlo d'uovo. Poi toccò il tubo che gli andava alla gola, ma questa volta, dopo avere inalato, spostò con la punta delle dita il fazzoletto che aveva intorno alla gola. C'erano tre tagli diagonali da entrambe le parti del collo di Franks, chiusi ormai da decenni in rugose cicatrici purpuree, e nel mezzo della gola un foro nero dai contorni irregolari si apriva dritto nella trachea. «Mio Dio...» mormorò Chase. «Sono... le hanno fatto... delle branchie.» «Io fui uno dei primi esperimenti... e un fallimento,» spiegò Franks. Si rimise gli occhiali scuri. «E sono l'unico sopravvissuto. I miei polmoni erano troppo deboli per assorbire i fluorocarbonati. Ogni volta di più, continuavo ad affondare verso l'orlo della morte. Kruger avrebbe potuto lasciarmi morire, ma non lo fece. Mi sollevò a testa in giù sulla catena di un paranco e lasciò che la forza di gravità mi prosciugasse, per poi riattivare i miei polmoni con quello che a quei tempi si chiamava CPR. Mi riportò alla vita, perché, come disse poi, aveva bisogno di me.» Franks si appoggiò all'indietro, in ombra. «Non mi sono mai ripreso del tutto, non mi riprenderò mai; ma non voglio presentarmi davanti a Dio senza un ultimo atto di espiazione. Voglio uccidere... questo supremo abominio.» «Se è lui,» disse Tall Man. «È lui, ne sono certo. Sappiamo che Kruger non raggiunse mai il Sud America. I cacciatori di nazisti che hanno inseguito Mengele, Eichmann e gli altri non ne hanno mai trovato traccia. L'U-Boot su cui viaggiava fu dato per disperso.» «Come fa a sapere che è scappato su un U-Boot?» «Ci sono dei documenti. I nazisti erano fissati con i documenti. Il progetto di Kruger aveva un nome in codice, ed è riportato negli archivi come caricato a bordo dell'U-165. Il sommergibile affondò o fu affondato, credo da qualche parte nell'Atlantico meridionale.» «Come ha fatto l''essere' a viaggiare per un paio di migliaia di miglia sul fondo dell'oceano,» chiese Tall Man, «e sopravvivere per tutto questo tempo?» «Kruger aveva rallentato il metabolismo di Guenther al livello della morte clinica, uno stadio intermedio prima dell'ibernazione. I preparati chimici contenuti nella sua cassa potevano mantenere questa vita di base
così com'era, e il suo bisogno di cibo sarebbe stato nullo, almeno per un lungo periodo. Alla fine, come un orso svegliato dalla fame a primavera, il suo organismo ha richiesto del nutrimento, e credo che abbia trovato qualcosa da mangiare.» Franks fece una pausa; Chase e Tall Man si scambiarono uno sguardo. «Le risposte sono qui,» continuò Franks, «se sapete cosa cercare. Ho smesso di cercare Kruger molto tempo fa. Tutto stava a dimostrare che fosse morto. Uno zio mi aveva portato in America e mi aveva messo a lavorare nella sua industria chimica. Mi sono fatto una nuova vita, ho avuto un figlio, Rudi, e sono diventato ricco. «Ma non ho mai dimenticato. Una parte della mia mente è stata sempre alla ricerca di chiavi, di indizi che Kruger e Guenther fossero ancora vivi. E poi lessi un servizio su un giornale a proposito di un fotografo del National Geographic scomparso da una nave da ricerca oceanica vicino a Block Island.» «Ne abbiamo sentito parlare,» disse Chase. «L'articolo diceva che una cassa di bronzo delle dimensioni di una grossa bara era caduta fuori bordo ed era scomparsa... una cassa che i ricercatori avevano portato su dal relitto di un sottomarino nella Trincea di Kristoff... un U-Boot tedesco.» «Ha detto che la programmazione di Guenther non era terminata e che c'era ancora un passo da fare. Cos'era?» «L'ambizione di Kruger era di creare un assassino che fosse veramente anfibio,» disse Franks. «Un'arma semiumana che potesse sopravvivere ugualmente bene all'aria o in acqua, che potesse spostarsi indifferentemente fra i due elementi. Condizionò Guenther a respirare acqua, poi gli insegnò a drenare i polmoni e a respirare aria. Quello che non aveva avuto il tempo di insegnargli era come invertire il processo quando voleva tornare in acqua. Una volta sulla terra, Guenther diventerebbe quello che viene chiamato un 'respiratore d'aria' obbligato. Sarebbe intrappolato lì. Così, come vedete, è importantissimo che lo distruggiate prima...» «Cristo!» disse all'improvviso Chase, scattando in piedi. «Puckett non glielo ha detto? L'essere è stato già a terra! Ha ucciso un cane a Waterboro.» Si voltò verso Tall Man. «Suona il corno per Rollie Gibson, che tiene la radio del suo ufficio sintonizzata sulla frequenza sedici. Digli che cosa è l'essere, e che potrebbe essere libero in città, o forse nei boschi.» Tall Man si arrampicò sugli scalini fino alla cabina di pilotaggio mentre Chase apriva la porta e usciva sul ponte di poppa. Ordinò a Rudi di tagliare
le esche e a Puckett di accendere il motore, poi tornò nella cabina. «L'essere è parzialmente umano,» disse a Franks, «o almeno lo è stato. Così potrebbe essere ucciso come un essere umano, giusto?» «Vorrei saperlo con certezza. Kruger ha alterato il sistema nervoso centrale, così lui, l'essere, vive a un livello molto primitivo. Vorrei dire che ucciderlo sarebbe difficile come uccidere un grosso squalo... il che mi fa venire in mente, signor Chase, che non le ho ancora detto il suo nome in codice. I nazi si riferivano a lui come Der Weisse Hai... lo Squalo Bianco.» Tall Man ritornò dalla cabina di pilotaggio. «Non sono riuscito a mettermi in comunicazione via radio,» disse. «Ma non importa. Rollie sarà già in pista a quest'ora... siamo arrivati troppo tardi.» «Cosa vuoi dire?» ripeté Chase. «La radio è come la padella di una friggitoria cinese, è tutto un cicalare. Un ragazzo è stato ucciso su a River Point. Il suo amico giura che è stato ucciso da uno yeti.» «Uno yeti?» chiese Frank. «L'Abominevole Uomo delle Nevi.» Chase si rivolse a Tall Man. «Andiamo.» Si avviò precipitosamente alla porta. «Il Mako ci può portare in città in...» «Simon... l'essere potrebbe non essere in città.» «Che cosa vuoi dire?» «Il ragazzo, il sopravvissuto, ha detto di averlo visto tuffarsi in acqua e partire a nuoto verso est.» «Verso est? Cosa c'è a est di Winter Point? Non c'è terraferma da quella parte eccetto... oh mio Dio.» L'unica terraferma a est di Winter Point era Osprey Island. «Chiama Amanda sul ventisette, dille di prendere i ragazzi e...» «Ho provato,» disse Tall Man. «Non ho avuto risposta.» 43 «Forte,» disse Elizabeth. «Fantastico,» confermò Max. I ragazzi stavano in piedi sulle rocce che delimitavano, verso il mare, la vasca dei leoni marini, incantati a guardare il motoscafo d'epoca della signora Bixler che sfrecciava fuori dal suo porticciolo e si avvicinava con una veloce virata. Mentre la barca si avvicinava alla banchina, il sole del tardo pomeriggio faceva brillare lo scafo di mogano lucido e le attrezzature
di acciaio inossidabile. Sembrava una fantastica nave spaziale. A Max piaceva quella barca, e aveva chiesto alla signora Bixler di fargliela guidare. «No, finché non avrai la mia età,» aveva risposto lei con un sorriso. «Solo una vecchia pazza come me può guidare una vecchia barca come questa.» Amanda stava in piedi dietro di loro; alle sue spalle, i leoni marini si dondolavano avanti e indietro sulle pinne, reclamando la cena. Nel capannone, dieci metri dietro la vasca, una voce uscì dalla radio a modulazione di frequenza: «Base Osprey, Base Osprey... Mako Osprey chiama Base Osprey... rispondete, Base Osprey». La voce echeggiò fra le pareti di cemento, inascoltata. La signora Bixler indossava un giubbotto di salvataggio arancione, occhiali da sole e un berretto da baseball girato all'indietro in modo che la visiera proteggesse dal vento la sua pettinatura. Rallentò la barca mentre si avvicinava alle rocce, e il rombo del grosso motore GM 8V divenne un cupo brontolio. Prese un vecchio megafono dal sedile vicino al suo e disse: «Sto andando in città per il Bingo; forse resto a dormire da Sarah. Mi metterò in contatto con la polizia appena a terra, per assicurarmi che Simon abbia dato notizie di sé. Probabilmente hanno già mandato una barca d'appoggio. Vi telefono, se ci sono novità». Amanda e i ragazzi segnalarono di aver capito. La signora Bixler spinse in avanti la leva dell'acceleratore, e, come un cavallo da corsa a cui sia stato dato il via, la barca si tuffò in avanti, girò intorno alla punta e si diresse a ovest verso la terraferma. Nel capannone, la voce chiamò di nuovo: «Base Osprey, Base Osprey... rispondete... Base Osprey...» «È ora di dar da mangiare alle ragazze,» annunciò Amanda avviandosi verso la vasca. «Poi torniamo a casa e ci prepariamo qualcosa per cena.» Prese Elizabeth per mano, le si mise di fronte e disse: «Sono contenta che tua mamma ti abbia dato il permesso di dormire qui». Elizabeth annuì e rispose: «Anch'io». Max stava in piedi sulle rocce guardando il mare. «Mi domando dove sia papà,» disse. «Si sta facendo tardi.» «È sulla via del ritorno.» Amanda si augurò che nella sua voce ci fosse più convinzione di quanta non ne sentisse lei stessa. «Metteremo i posti a tavola anche per lui e per Tall.» Dettero da mangiare ai leoni marini, rimisero nel refrigeratore i pesci avanzati e sistemarono nel capannone le palle di plastica, i triangoli, gli
anelli e gli altri attrezzi che servivano per l'addestramento. Elizabeth fu l'ultima a lasciare il capannone. Mentre si chiudeva la porta dietro le spalle, avvertì una leggera vibrazione nell'aria, simile a quella di una voce. Si guardò attorno ma non poté individuarne la fonte, così chiuse la porta. Il suono era attutito, ora, e lo si udiva appena: «Base Osprey, qui è Mako Osprey... rispondete Base Osprey...» Quando raggiunsero la cima della collina, Max guardò in basso e vide l'airone ritto nella pozza lasciata dalla marea. «Dovrei andare a dar da mangiare a Capo Joseph,» osservò. «Ci penserà Tall,» disse Amanda. «Ma può essere che lui torni tardi. Io posso...» «No,» tagliò corto lei, e si rese conto di essere nervosa... Non spaventata, perché non c'era niente di cui avere paura, ma preoccupata, in ansia... ma per che cosa? Non lo sapeva. Sorrise a Max e abbassò la voce. «A Tall piace farlo. È come un rito, per lui.» Proseguirono verso la casetta dove abitava Amanda. La signora Bixler stava inchiodata contro lo schienale del sedile di guida della barca, e teneva il volante con i piedi nudi. Il mare era liscio come l'olio, e la barca, impennata, lasciava una scia dritta come una lama nell'acqua tranquilla. Si sentiva giovane, libera e felice. Questo era il suo passatempo preferito, l'ora preferita della giornata per andare in barca nel sole al tramonto. Già la torre dell'acquedotto e le case bianche della città stavano diventando rosa e sarebbero presto state grigio-blu. Il tempo di arrivare a terra e sarebbero passate a quel grigio scuro che annuncia la notte. Qualcosa nell'acqua davanti a lei colpì la sua attenzione. Mise giù i piedi dal volante, si rimise a sedere dritta e tenne il volante con una mano. Una pinna dorsale, alta e perfettamente triangolare, procedeva a zigzag nell'acqua. Dietro di lei, una coda a forma di mezzaluna batteva l'acqua a destra e a sinistra. Uno squalo? E cosa ci faceva uno squalo da quelle parti, a quell'ora? Uno squalo bello grosso anche, lungo forse cinque metri. Girò la barca e si mise a seguire la pinna. Lo squalo sembrava comportarsi in modo strano. Pur non essendo certo un'esperta, ne sapeva abbastanza, per aver ascoltato Simon e Tall e aver guardato i video, da sapere che questo squalo non si stava solo spostando da una parte all'altra. Stava pasturando o si accingeva a farlo. Era a caccia. Quando gli si fece più vicino, vide uno scintillio metallico dietro la sua
pinna dorsale: un'etichetta. Era il grande squalo bianco di Simon. All'avvicinarsi della barca, lo squalo si immerse e sparì. La signora Bixler aspettò un momento, ma lo squalo non emergeva, e lei fece di nuovo rotta verso la costa. Non vedeva l'ora di dirlo a Simon. Sarebbe stato affascinato, eccitato, elettrizzato persino, all'idea che il suo squalo si era fatto vedere di nuovo. Ora che aveva recuperato il sensore, poteva localizzarlo e... C'era qualcos'altro nell'acqua, proprio in direzione della prua. Un uomo. Stava nuotando. Almeno, sembrava un uomo, sebbene fosse più grosso di qualsiasi uomo lei avesse mai visto, e nuotava come un delfino, arcuando il torso possente fuori dall'acqua e battendo con i piedi uniti. Maledetto imbecille, pensò. Nuotare da solo, qui al largo, al tramonto. Si rese conto che l'uomo era ciò che lo squalo stava cacciando. Accelerò in direzione dell'uomo, pregando di riuscire a raggiungerlo prima dello squalo, pregando di essere forte abbastanza per tirarlo a bordo, pregando... All'improvviso era sparito anche lui. Immerso, proprio come lo squalo. Fermò il motoscafo e si guardò attorno, aspettando che emergesse di nuovo. Doveva tornare in superficie, non poteva non farlo. Doveva pur respirare. A meno che lo squalo non lo avesse già assalito. O che non fosse già annegato. Che cosa poteva fare, allora? L'uomo non ricompariva e la signora Bixler fu presa dalla paura. Era un terrore vago ma profondo, la paura di qualcosa che non riusciva a identificare. Ingranò la marcia, spinse in avanti la leva del gas e diresse la prua della barca verso la terraferma. 44 Si riempì i polmoni e si immerse. Quando il rumore del motore si affievolì, si girò e scrutò l'oscurità alla ricerca dello squalo. Le sue cellule cerebrali si stavano riprendendo come in una esplosione di scintille, e da ogni esplosione acquistava una sempre maggior coscienza di se stesso. Per questo non aveva paura, anzi, era galvanizzato. Non si sentiva minacciato, ma sfidato. Era per questo che era stato creato, per cui era stato programmato: per combattere e per uccidere.
Conosceva i propri limiti e la propria forza. In acqua era vulnerabile solo in superficie. Sott'acqua, non aveva eguali. Dapprima percepì la presenza dello squalo, un aumento di pressione nell'acqua. Poi vide la forma grigia, la testa a forma di cono, la bocca spalancata. Ciò nondimeno, non aveva paura, perché sapeva di avere un vantaggio. Aveva un cervello capace di elaborare. Quando lo squalo attaccò, inesorabile ma senza pensare, l'essere si tuffò e cacciò l'aria dai polmoni. Confuso dall'esplosione di bollicine, lo squalo esitò; poi si mise in verticale esponendo il ventre bianco. L'essere fletté le dita e si lanciò in avanti, affondando gli artigli nella carne soffice e tirando forte verso il basso. La carne si squarciò. Gli artigli spinsero più a fondo, e ora il sangue usciva copioso dai dieci tagli nel ventre. Il corpo dello squalo si contrasse, si contorse, e a ogni movimento la sua carne si lacerava di più. Le viscere si gonfiarono e uscirono dalle ferite. Gli artigli lasciarono la presa. Lo squalo rimase per un attimo sospeso nell'acqua, poi cominciò ad affondare. Un dolore bruciante invase i polmoni dell'essere, ma si sforzò di guardare finché lo squalo non fu scomparso. Poi tornò in superficie, tirò un respiro profondo e salutare e assaporò il trionfo. Si sentiva stanco ma la stanchezza era alleviata dall'ebbrezza. Era tornato, adesso era di nuovo completo. Era Der Weisse Hai. Ora doveva andare a terra, dove poteva nascondersi e cacciare. Usando le mani palmate, nuotò lentamente in cerchio, finché non identificò il suo obiettivo: una luce su un'isola solitaria, non molto lontano. 45 Era quasi buio quando Chase e Tall Man raggiunsero l'isola. Una striscia di luce rosata illuminava ancora l'orizzonte a ovest, ma il cielo sovrastante era una cupola blu scura, interrotta dai puntini d'oro delle prime stelle della notte. Le uniche luci dell'isola erano quelle delle finestre della casetta di Amanda. La marea era alta, così Chase poté tenere la barca vicino alla riva senza urtare contro rocce sommerse. Tall Man stava ritto a prua e illuminava con una potente torcia elettrica il terreno circostante. Tutto sembrava normale, indisturbato. Il raggio della torcia elettrica il-
luminò un procione intento a mangiare un pesce su una roccia piatta, e l'animale sussultò mentre gli occhi gli si accendevano di un riflesso rossastro. Una volpe si allontanò dalla luce, andandosi a nascondere nei cespugli bassi. Solo i leoni marini sembravano agitati. Raggruppati all'entrata del loro rifugio, si dondolavano avanti e indietro. «Forse ha girato a nord,» disse Tall Man. «Napatree gli sarebbe stata più vicina di qui.» «Lo spero,» ribatté Chase. «Comunque voglio portare Amanda e i ragazzi in città, non si sa mai.» «Non accetterà di andarsene senza i suoi leoni marini.» «Non intendo darle una possibilità di scelta.» Chase aveva preso una decisione, mentre venivano dalla Block: se c'era una probabilità, magari una possibilità remota, che quella cosa arrivasse a Osprey, avrebbe evacuato l'isola. Sarebbero tornati il giorno dopo, alla luce del sole, con la polizia e tutto l'armamento pesante che avessero potuto mettere insieme, e avrebbero setacciato l'isola da cima a fondo. Dopo aver fatto il giro dell'isola e visto che non c'era niente di irregolare, nessun animale morto e nessuna traccia fresca, Chase tornò al porto e fece dondolare il Mako al suo ormeggio. Spense il motore e salì sul molo. «Resta qui,» disse passando la cima d'ormeggio intorno a una bitta. «Li vado a prendere.» E si avviò su per il sentiero. Tall Man rimase sul molo ad ascoltare i rumori della notte: grilli, richiami di uccelli, lo sciacquio lento delle onde sulla sabbia. All'improvviso ebbe la sensazione che qualcosa fosse fuori posto, o mancasse. Gli ci volle un momento per comprendere di che cosa si trattava. L'airone. Dov'era Capo Joseph? Normalmente a quell'ora avrebbe dovuto stare dritto in acqua vicino al molo, a chiedere cibo con il suo sguardo irascibile. Guardò oltre il bordo del molo, ma l'insenatura era assolutamente buia, non poteva distinguere niente, e così ritornò alla barca, andò a prendere la torcia elettrica e ne diresse il fascio di luce sulla pozza d'acqua lasciata dalla marea. L'uccello non era lì. Dov'era andato? Spostò il fascio di luce sui sassi, poi sulla spiaggia. In mezzo a un intrico di cespugli vide una penna, lunga, di colore blu grigio. Camminò lungo il sentiero, entrò fra i cespugli e li spostò con le mani. I rami erano appiccicosi, e quando si illuminò le dita con la torcia elettrica vide del sangue. Strappò via un cespuglio dalle radici, liberando uno spazio. Lì, in mezzo al terriccio, c'era la testa dell'airone. Era stata strappata dal collo e le orbite
erano vuote. Un'ondata di panico invase il petto di Tall Man. Girò su stesso e corse verso la casa. 46 «Perché non abbiamo fucili,» disse Chase ad Amanda. «Non mi piacciono i fucili e non ne ho mai tenuti in casa.» Erano in cucina. Max ed Elizabeth stavano seduti sul pavimento; giocavano a «guerra» con due mazzi di carte. «Non posso abbandonare i leoni marini, Simon,» obiettò Amanda. «Sono come dei figli. Non potrei mai farlo.» «Lo devi fare. Non possiamo difenderci qui. Se quella cosa viene qui a terra...» «Non me ne voglio andare. Tu porta i ragazzi in città, e lascia Tall Man qui con me. Possiamo portare la barca grande fino al molo, cercherò di far salire le ragazze a bordo, e...» La porta della cucina si spalancò di colpo. «È qui!» disse Tall Man, entrando e chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Max sussultò e ripeté a Elizabeth le parole di Tall Man. «Dove?» chiese Chase. «Non lo so, ma ha ucciso Capo Joseph. È qui, Simon, da qualche parte.» Chase guardò i ragazzi. «Non possiamo dare l'allarme. Il telefono è guasto: la mareggiata della scorsa settimana ha messo a dura prova il cavo sottomarino; probabilmente la corrente gli ha dato il colpo di grazia. Di andare giù alla radio non se ne parla neppure. E non possiamo neanche andare via.» «Perché no?» «Non possiamo correre il rischio. Potrebbe essere dappertutto. Supponi che stia in mezzo ai cespugli, vicino al molo.» «Mi sarebbe saltato addosso,» disse Tall Man. «Non è detto, forse sei troppo grosso per lui, ma è sicuro come l'inferno che salterà addosso a uno dei ragazzi.» Amanda si avviò alla porta. «Dove pensi di andare?» le domandò Chase. «A prendere le ragazze, a portarle qui.» «Sei impazzita?» «Mi verranno dietro. Farò presto.»
«Non me ne importa. È buio pesto là fuori. Trecento metri ad andare e trecento a tornare. Non ce la farai mai.» «Devo farlo.» Amanda girò la chiave nella serratura. «Mi terrò allo scoperto. Lo vedrò arrivare.» «Sono solo animali, Amanda!» esclamò Chase. «Non per me.» Amanda indicò Max ed Elizabeth. «E neanche per loro.» «Non te lo permetterò.» «Non puoi impedirmelo.» «Sì che posso.» Chase fece un passo verso di lei. «Se sarà necessario, ti legherò alla sedia.» «Basta, Simon,» disse Amanda. Poi aprì la porta e corse fuori nella notte. Chase si precipitò alla porta e guardò fuori, ma Amanda aveva già girato l'angolo della casa e correva giù per il prato. «Merda,» esclamò Tall Man. Afferrò un coltello da macellaio da una rastrelliera sopra il lavello, se lo cacciò nella cintura e prese la torcia elettrica dal bancone dove l'aveva appoggiata. «Cosa credi di fare?» gli chiese Chase. «Forse avevi ragione, Simon, forse non darà addosso a due metri di Terminator dalla pelle rossa.» Tall Man uscì dalla porta e sparì nel buio. Dopo aver chiuso la porta, Chase si voltò a guardare Max ed Elizabeth. Avevano smesso di giocare a carte e stavano seduti fianco a fianco, pallidi, tenendosi per mano. Si inginocchiò accanto a loro, mise una mano sulle loro e disse: «Andrà tutto bene. Forse si nasconde da qualche parte. Appena farà giorno chiameremo la polizia, e...» «Ma, papà...» lo interruppe Max. «Cosa succede se...» lasciò in sospeso il resto della frase. Chase non rispose perché non c'erano risposte. Invece si sforzò di sorridere. «Ehi, Max, te lo immagini qualcosa che possa avere la meglio su Tall Man?» La sua mente correva passando velocemente da una possibilità all'altra, come una zanzara in mezzo alla folla, cercando di decidere dove posarsi. Se l'essere avesse trovato Tall o Amanda, se Tall Man non l'avesse ucciso, cosa avrebbero potuto fare? Non potevano sparargli, non potevano colpirlo con il coltello, non potevano fuggire lontano da lui. Non c'erano soluzioni, ma già Chase sapeva con certezza una cosa: avrebbe fatto qualsiasi cosa, compreso sacrificare se stesso, ma Max ed Elizabeth dovevano uscirne vivi. Si alzò in piedi, si girò e, guardando attraverso la porta del soggiorno, gli
cadde lo sguardo sul cilindro d'acciaio imbullonato al pavimento. Max vide che guardava il cilindro e gli disse: «E la camera di decompressione... la chiamavi il dottor Frankenstein, no?» «E allora?» «Potremmo entrarci e chiuderla a chiave. L'essere non potrebbe mai entrarci.» «Non si può bloccare da dentro,» gli spiegò Chase. «L'unico modo...» Si fermò perché un'idea gli era balenata all'improvviso, confusa come una nuvola. Non le si precipitò addosso ma lasciò che prendesse forma finché non diventò una soluzione possibile. 47 Tall Man raggiunse Amanda a metà strada giù per la collina. L'aveva chiamata, le aveva gridato che stava arrivando e lei aveva smesso di correre. Mentre camminavano proiettava il fascio di luce della torcia da un lato all'altro del sentiero. Udirono un verso, poi un ruggire continuo, convulso, acuto, frenetico. «No!» gridò Amanda, e partì di corsa. Tall Man allungò una mano per fermarla, ma lei era più leggera di lui e più veloce, e tutto quello che riuscì a fare lungo il pendio sottostante fu di mantenere una distanza fra loro due di tre o quattro metri. Lei arrivò per prima alla vasca; lui le si fermò accanto. Potevano sentire i leoni marini ruggire, una cacofonia di grida stridule, ma non potevano vederli. Tall Man diresse il fascio di luce nella direzione del rumore. Due dei leoni marini si erano stretti contro un lato del capannone, dondolando sulle pinne, con le teste che sobbalzavano mentre ruggivano istericamente. Diresse il fascio di luce sulla destra. Qualcosa era accovacciato in mezzo alle rocce sul bordo della vasca, qualcosa di enorme, di un colore grigio biancastro. Potevano vedere soltanto la sua schiena massiccia, perché la testa era piegata in avanti e fuori dalla visuale. Ma quando il fascio di luce lo investì, si alzò in piedi e si voltò. Amanda urlò. Tall Man sentì il cuore saltargli nel petto e l'adrenalina scorrergli attraverso le braccia e le spalle. Era grosso come uno scimmione e grigio come la cenere. Attraverso il sangue che gli copriva la faccia videro lo scintillio dei denti d'acciaio, e attraverso i brandelli sanguinolenti che gli sgocciolavano dalle mani, lunghi
artigli d'acciaio. Il corpo era privo di peli; i tendini delle braccia e delle gambe sporgevano come nerbi di bue. Dove una volta c'erano stati i genitali, ora c'era soltanto un rattoppo crudelmente suturato di pelle screziata. Gli occhi, quando furono colpiti dalla luce, si accesero come riflettori. Dietro l'essere giaceva la carcassa, in parte divorata, di un leone marino. L'essere spalancò la bocca, emise un ruggito rauco e fece un passo in avanti. «Via!» urlò Tall Man ad Amanda. «Io... ma...» Lei rimase immobile, paralizzata dal terrore. «Vìa! Perdio, vai ad avvertirli! Vai!» Amanda fece un passo indietro, si voltò e corse via. Tall Man non si mosse. Pensò alla radio, ma l'essere gli sbarrava la strada. Guardò su verso il promontorio. Dietro l'essere non c'era altro che acqua, e non aveva certo intenzione di misurarsi con lui in acqua. Non dopo quello che aveva sentito sul suo conto. Estrasse il coltello dalla cintura, piegò le ginocchia e tenne il coltello davanti a sé, agitandolo piano avanti e indietro. L'essere inarcò le spalle, avanzò dondolando sulle piante dei piedi e distese le dita palmate, mettendo a nudo artigli lunghi e taglienti come bisturi. Se l'uomo ti ha fatto, pensò Tall Man muovendosi lentamente in circolo, l'uomo può distruggerti. 48 Chase rimosse l'ultima vite dal lungo specchio, lo tolse dal retro della porta della stanza da bagno e lo appoggiò sul pavimento. Misurò lo specchio sulla sua stessa altezza e dedusse che era lungo centottanta centimetri e largo una sessantina. Lo portò nella stanza di soggiorno, e lo sistemò accanto al portello della camera di decompressione. «Dovrebbe andare bene,» disse. «Appena appena.» Amanda crollò su una sedia accanto alla parete opposta della stanza, ancora tremante, il colorito cereo. «Stai perdendo tempo,» obiettò. «Non funzionerà mai.» «Almeno ho fatto qualcosa. Tu hai un'idea migliore?» «Cosa usi per mettere gli animali fuori combattimento?» «L'anestesia.» «E allora?»
«Pensi che io possa andare abbastanza vicino a quell'essere per iniettargli una dose? Cristo, Amanda, per quanto ne so, potrebbe solo...» Si interruppe perché vide che i ragazzi stavano vicino alla finestra della stanza e cercavano di guardare giù dalla collina, e non li voleva spaventare. Ma la sua mente non poteva allontanare l'immagine che lo ossessionava da quando Amanda aveva fatto irruzione dalla porta: l'immagine di Tall Man steso morto in mezzo alle rocce. «Dammi una mano, vuoi?» poi si rivolse a Max. «Si vede qualcosa?» «Non ancora,» rispose Max. Amanda si alzò dalla sedia. Chase si chinò in avanti, entrò nella camera di decompressione e si girò per prendere lo specchio che Amanda aveva fatto scivolare attraverso il portello. Lo portò in fondo alla camera e lo appoggiò dritto contro la parete d'acciaio. Poi indietreggiò, controllò la propria immagine riflessa e si accovacciò, appena al di qua del portello, accanto all'apertura. «Cosa vedi?» chiese ad Amanda. «Ricordati che la luce sarà fioca.» «Va bene,» disse lei. «Ma, Dio santo, Simon, un bambino di sei anni potrebbe...» «Non è un bambino; è una cosa.» «Papà!» gridò Max. «Papà, arriva Tall!» Chase strisciò fuori dalla camera e si alzò in piedi. Max indicava fuori dalla finestra. Elizabeth stava accanto a lui e faceva schermo agli occhi con la mano, per ripararli dalla luce della stanza, sforzandosi di vedere nel buio. Chase emise un lungo sospiro di sollievo. «Era ora,» disse. E si diresse alla finestra. «Dio, ti ringrazio,» mormorò Amanda. In lontananza sul prato, vicino alla cresta della collina davanti alla vasca dei leoni marini, Chase vide una figura che veniva verso la casa. I suoi movimenti erano irregolari, barcollanti. «Tall sembra ferito,» disse. Stava per girarsi, per andare in cucina e poi uscire dalla porta fuori sul prato, quando, tutto a un tratto, vide il colore della figura, come un riflesso luminoso contro gli alberi scuri. «Gesù Cristo,» esclamò. «Quello non è Tall.» 49 Era stato ferito, lo capiva dalla sensazione di bruciore nella carne della
faccia, dal fatto che una delle gambe rispondeva con maggiore lentezza agli impulsi del cervello, e dall'intorpidimento delle mani. Si guardò una mano e vide che un dito pendeva, sostenuto dai filamenti di un tendine. Tirò il dito finché i tendini si spezzarono, poi lo gettò via e raccolse del fango che applicò intorno al moncherino sanguinante. Non si sentiva indebolito dalle ferite, si sentiva rinforzato, rinvigorito dall'ebbrezza del trionfo. Aveva incontrato un nemico degno di questo nome, non una preda ma un avversario, e l'aveva sconfitto. Le sue ferite non avevano importanza; sarebbe sopravvissuto e guarito. Non sentiva più il bisogno di difendersi, aveva dimenticato la prudenza, perché da qualche parte, nel profondo di lui stesso, era nata la convinzione di essere invincibile. Vide una luce in distanza, in cima al terreno in salita. Luce significava un rifugio e forse maggiori opportunità di distruggere un maggior numero di nemici. Col corpo inclinato verso la collina trascinò la gamba dolorante su per il pendio; si muoveva lentamente, girando da una parte all'altra, senza preoccuparsi del tempo. Il tempo non significava niente per lui. Lui era immortale. 50 «Ma non possiamo scappare?» chiese Max. Era pallido, tremava e sembrava sul punto di piangere. «Non può prenderci tutti, se ci sparpagliamo.» «No, Max.» Chase mise un braccio intorno a suo figlio e l'altro intorno a Elizabeth, che tremava debolmente ma sembrava impassibile, come se fosse preparata ad accettare qualsiasi cosa dovesse succedere. «Non voglio che prenda nessuno di noi, e, soprattutto, non voi due.» Andò alla finestra, fece schermo agli occhi con la mano e scrutò fuori nell'oscurità. Ora poteva vedere la cosa con maggiore chiarezza, una forma spettrale contro il buio. Quanto tempo avevano? Chase non poteva dirlo perché la cosa si muoveva lentamente, voltando a destra e a sinistra, come se fosse senza meta... quasi, ma non del tutto, perché a ogni breve cambiamento di direzione si avvicinava un poco di più alla casa. «Ci siamo,» disse Chase. Poi, rivolto ad Amanda: «Sei sicura che la sequenza ti è chiara, adesso?» «Sì. Ma ancora...» «Bene.» Chase prese i ragazzi per mano e li condusse a un piccolo ar-
madio che si trovava dietro la camera di decompressione. «Sarà buio ma voi sarete capaci di cavarvela, non è vero? Amanda sarà con voi.» Con uno sforzo i ragazzi annuirono ed entrarono nell'armadio. Chase stese la mano verso Amanda, le andò vicino e bisbigliò: «Se qualcosa, qualunque cosa, va storta, prendi i ragazzi e corri verso il Mako. Dovresti avere il tempo necessario. Il meno che possa fare è trattenere quel maledetto essere». «Simon...» D'impulso, Chase la baciò. «Dentro, adesso» disse; la spinse nell'armadio e chiuse la porta. Poi andò al pannello di controllo sulla parete e premette il pulsante principale che attivava la camera di decompressione. Si udì un ronzio quando l'impianto si mise in moto, e un sibilo mentre i serbatoi a pressione installati all'interno delle pareti cominciavano a riempirsi. Spense le luci nella stanza, tutte a eccezione della lampadina rosa a prova di pressione dentro la camera di decompressione. Poi entrò dal portello e si accoccolò, in attesa. 51 Era più vicino, adesso, poteva vedere del movimento all'interno della casa: ombre scure contro la luce che brillava attraverso le finestre. Non era diffidente, né preoccupato; avvertiva un senso di sfida. Potevano vederlo, o forse no, comunque non potevano fermarlo. Poi la luce si spense, svanita, come risucchiata dalla notte. Si arrestò per assorbire il cambiamento, per assicurarsi che quel fatto non dipendesse da lui. No, poteva vedere delle forme: il profilo scuro della casa contro il nero ardesia del cielo. Quando i suoi occhi si misero a fuoco nell'oscurità, vide anche una debole luminescenza dentro la casa. Riprese la marcia, e si trovò presto sul lato dell'edificio. Gli girò attorno con deliberata lentezza, cercando l'entrata. Trovò una porta, una struttura sottile di legno e vetro, e fece scattare in avanti un braccio per distruggerla. 52 Sopra il ronzio della macchina, Chase sentì infangersi il vetro e il legno
che andava in pezzi, poi un suono basso e gutturale. Attraverso l'ingresso entrò nell'ampia stanza, mettendo a fuoco lo sguardo sulla debole luminescenza rosa. Sentì il rumore di un macchinario, e vide un grosso oggetto oblungo nel centro della stanza. La luce veniva dal suo interno. Si trascinò verso l'oggetto e si avvicinò all'estremità dove un portello rotondo era aperto e inclinato verso il basso. Alla luce fioca, vide all'altra estremità dell'oggetto un umano, simile a quello che aveva appena sconfitto, solo più piccolo, più debole, spaventato. Una preda, una facile preda. Entrò. Chase sentì un odore acre, salino, putrido. Non osava guardare in basso, non osava fare il minimo movimento per non alterare l'immagine riflessa nello specchio. La cosa gli passò accanto, e ora poteva vedere la pelle eburnea e glabra delle gambe e delle natiche, la membrana in mezzo alle dita, gli artigli d'acciaio ricurvi e macchiati di sangue. Chase cominciava a sentire dei crampi alle gambe. Si impose di restare immobile, e pregò che l'essere andasse avanti. Ancora due passi, pensò, soltanto due e poi avrebbe potuto... L'essere si fermò. Era confuso, qualcosa non andava. L'umano era lì ma nello stesso tempo non c'era, e lui vedeva qualcos'altro, qualcosa che non riconosceva. All'improvviso capì. Stava guardando se stesso. Con un ruggito di rabbia si voltò. 53 Chase si alzò di scatto dal pavimento della camera di decompressione e si tuffò attraverso l'apertura. Atterrò sulle ginocchia, si voltò di scatto e afferrò il portello. Era pesante, più pesante di quanto non ricordasse. La creatura fece un passo verso di lui e si tuffò in avanti. Chase fece ruotare il portello e ci si appoggiò contro. Vide una mano che veniva verso di lui e diventava sempre più grande.
Il portello si chiuse con fragore. «Ora!» urlò Chase. «Ora!» Girò il volantino di bloccaggio, e una luce rossa cominciò ad accendersi e a spegnersi, segnalando così che la camera era chiusa ermeticamente. Sentì una serie di colpi contro la porta d'acciaio. Udì aprirsi la porta dell'armadio, e i passi di Amanda che si avvicinava di corsa al pannello di controllo. Aveva preregolato i comandi e non le restava altro da fare che premere i pulsanti. Si udì il rumore dell'aria compressa che irrompeva nella camera attraverso una dozzina di ugelli. Fredda e asciutta, quando si mischiò con l'aria calda della camera, si trasformò in nebbia. «Abbassala,» ordinò Chase ad Amanda. «Al massimo e più in fretta possibile.» Si spostò poi su un lato del cilindro e guardò dentro attraverso l'oblò. L'essere aveva abbandonato il portello d'acciaio ormai bloccato, sentiva di essere caduto in trappola e cercava una via d'uscita. Vide un buco coperto di vetro, e sferrò un pugno per fracassarlo. Una fitta di dolore gli attraversò la testa all'improvviso, un dolore che non aveva mai provato, come fuoco, come se il cervello venisse spremuto in una massa incandescente. Si premette le mani ai lati della testa e cominciò a urlare. Sebbene non potessero vedere molto attraverso la nebbia che si muoveva in volute nella camera di decompressione, udirono il rumore... l'urlo lancinante di un animale in agonia. «Gli stanno saltando i timpani!» esclamò Chase. «Non mi stupisce,» replicò Amanda. «Ho pressurizzato la camera a sessanta metri in cinque secondi; le sue orecchie non possono compensare abbastanza in fretta. Deve avergli fatto un male terribile.» Il gemito si acquietò. «Devono essergli saltati i timpani,» disse Chase. «Il che significa che il dolore è finito. Ora è sordo ma è equalizzato.» Amanda guardò il manometro sul pannello di controllo. Qualcosa sbatté contro l'oblò. Una ragnatela di fenditure sottili apparve sul vetro. «Presto,» gridò Chase. «Cristo... vuole rompere l'oblò; e, se ci riesce, la camera esplode come una bomba.» Si voltò verso Max ed Elizabeth, che stavano ritti in piedi accanto ad Amanda. «Uscite,» ordinò. «Presto.» «Ma...» Max sembrava confuso. «Dove andiamo?»
«Da qualunque parte... ma andate!» I due ragazzi corsero verso la porta della cucina. «La pressione è a cento metri,» disse Amanda. Veloce come era venuto, il dolore era scomparso, e ora l'essere sentiva soltanto un senso di pesantezza nella testa. Anche se non poteva sapere che cosa gli stava succedendo, poteva identificare la causa del dolore: l'umano che lo guardava attraverso il vetro. Cambiò la messa a fuoco. Non pensava più alla sopravvivenza, ora bramava la vendetta. Colpì con un piede qualcosa di duro. Si chinò, raccolse l'oggetto, lo sollevò e lo abbatté contro il cerchio di vetro. «Ha preso una chiave inglese!» gridò Chase arretrando mentre la pesante estremità dello strumento d'acciaio percuoteva pesantemente l'oblò. Nuove incrinature si formarono nel vetro. «Duecento metri,» disse Amanda. «Sei e cinquanta.» «Dobbiamo farlo, dobbiamo farlo adesso.» «Ma non sappiamo...» «Funzionerà,» disse Chase. «Deve funzionare.» Premette il viso sull'oblò e si sforzò di guardare attraverso la nebbia. Vide la creatura accovacciata, il braccio alzato, la mano che impugnava la chiave inglese come una clava. «Adesso!» gridò. «Arriva,» disse Amanda, e premette una serie di pulsanti. Si udì il rumore assordante dell'aria che veniva spinta fuori con impeto, e la nebbia nella camera formò un vortice e cominciò a dissiparsi. Chase vide che l'essere si tendeva, vide attraverso la nebbia grigiastra il bianco dei suoi occhi e il bagliore d'acciaio dei suoi denti. L'essere scattò verso l'oblò. 54 L'essere sembrò arrestarsi a mezz'aria, come se fosse stato colpito da una saetta. Il corpo si contorse, gli si sbarrarono gli occhi, crollò sul pavimento della camera e si affondò gli artigli nella carne. «Centottanta metri...» disse Amanda. «Centocinquanta...» «Funziona,» esclamò Chase. Non riusciva ad allontanare lo sguardo dall'oblò. «Mio Dio...» Con la camera pressurizzata a più di duecento metri, la morsa sull'essere,
sui suoi bronchi e sui suoi polmoni, sullo stomaco e su qualsiasi altra cavità del suo corpo che contenesse aria, era stata di più di cento chili per centimetro quadrato. Ora, mentre Amanda riportava la camera alla pressione della superficie, l'aria contenuta nel corpo dell'essere fuoriusciva con la velocità e la violenza di un pallone che esplode. Non poteva vedere, non poteva sentire, non poteva respirare. Le giunture e i tendini erano in fiamme. Sembrava che lo stomaco volesse riempirgli tutto il torace, che il torace gli si gonfiasse fin dentro la testa, che la testa gli volasse in pezzi. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, non poteva sapere che l'aria dentro di lui si stava decomprimendo a una velocità molto maggiore di quella che il corpo potesse sopportare, che bolle di azoto si stavano sparpagliando dappertutto nei suoi tessuti, fissandosi dovunque e ingrandendosi in modo inesorabile, fino a lacerarli. Disperatamente si strinse forte con le braccia, come se volesse tenere insieme il corpo deforme. Chase guardava affascinato l'essere che rimbalzava da una parte all'altra della camera di decompressione. Perdeva sangue dalla bocca e dalle orecchie, gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite, e sollevò una mano come se volesse tenerli al loro posto. Ma prima che la mano potesse toccare la faccia, un occhio schizzò fuori dall'orbita, come un acino d'uva spremuto fuori dalla buccia, e dondolò in modo grottesco, sostenuto da strisce rossastre di fibre muscolari. La scena era surreale: una figura che si contorceva dal dolore, pulsava, si gonfiava; una figura che avrebbe potuto essere stata creata da uno scultore stravagante e azionata da un burattinaio pazzo. «Ottanta metri,» disse Amanda. «Sessanta... cosa sta succedendo?» «È in ginocchio,» rispose Chase. «È... oh merda!» La creatura esplose. Una spessa nebbiolina rossastra riempì la camera; schizzi di sangue e brandelli di carne colpirono l'oblò e ci rimasero attaccati. 55 Chase stava in piedi nell'atrio dell'ospedale aspettando un ascensore, e guardava l'orologio. Era in ritardo di più di un'ora.
Avrebbe voluto essere lì per le due, ma era rimasto attaccato al telefono con Rollie Gibson e Nate Green, e aveva dovuto mantenere la promessa di dare a Nate, per il giornale, un resoconto dettagliato ed esclusivo di quanto era accaduto sull'isola. Poi, quando era arrivato a terra, Rudi Franks lo stava ad aspettare, da solo e con un regalo: una vecchia fotografia in bianco e nero, tutta spiegazzata, di Ernst Kruger e Jacob Franks che lavoravano sul corpo di Heinrich Guenther. Per finire, c'era stata confusione in banca. Si era fermato per incassare un assegno, e uno degli impiegati aveva voluto parlargli a proposito di qualcosa che non aveva alcun senso per Chase, probabilmente un errore. Arrivò l'ascensore. Chase uscì al quarto piano e si avviò verso l'infermeria. «Te la sei presa con calma,» gli disse Ellie Bindloss, una donna bassa e robusta che era stata alle scuole superiori con Chase. «Non siamo equipaggiati per occuparci di gorilla da trecento chili, da queste parti, lo sai.» «Mi dispiace,» disse Chase. «Dov'è?» La donna gli indicò il fondo della sala. «Non puoi sbagliarti,» chiese. «Lo sentirai prima ancora di vederlo.» Mentre Chase si avvicinava a una porta aperta in fondo alla sala, sentì la voce di Tall Man che gridava: «Mi dispiace! Cosa vuol dire mi dispiace? Mi hai appena tirato una stoccata, e l'hai fatto apposta». Poi la voce di Max che diceva ridendo: «Sei forte, capo. Muovi il tuo uomo». Chase si fermò un attimo fuori dalla porta non sapendo cosa lo aspettava, poi entrò nella stanza. «Salve,» disse. «E tu puoi fare a meno di salutarmi,» lo apostrofò Tall Man. «Questo essere perverso che è tuo figlio mi ha battuto per quattro mani una dopo l'altra. Dovremmo gettarlo in pasto ai pesci.» Si mise a ridere, poi fece una smorfia e tenne strette le bende che gli fasciavano il petto e gli tenevano un braccio fermo contro un fianco. «Cristo,» disse, «ridere non è divertente. Ma è sempre meglio che tossire.» Max stava seduto ai piedi del letto. Fra lui e Tall Man c'era un tabellone coperto di carte di plastica e di pedine colorate. Amanda stava seduta su una sedia vicino al letto con un giornale in grembo. Chase non vedeva Tall Man da due giorni e mezzo, da quando cioè era arrivato lì con lui in un elicottero della polizia e lo aveva fatto ricoverare in
camera di rianimazione a New London. Tall Man era coperto di sangue e di sporcizia, il suo colorito era di un grigio terreo, il respiro rantolante e debole. C'erano volute due ore perché i medici fermassero l'emorragia, suturassero e rivitalizzassero i polmoni feriti e cominciassero la prima di una serie di trasfusioni. Avevano messo Chase fuori dalla camera di rianimazione, e quella sera stessa, quando erano stati certi che Tall Man se la sarebbe cavata, lo avevano esortato ad andare a casa a dormire. Chase non sapeva ancora con certezza cosa fosse successo a Tall Man. Aveva cominciato a cercarlo nell'oscurità, ma non lo aveva trovato che due ore più tardi, alla luce delle fotoelettriche della polizia, arrivata in forze quando aveva lanciato l'allarme per radio. Era incastrato fra due grossi sassi, privo di conoscenza. Tall Man diceva di non ricordare molto, solo che aveva colpito la creatura con il coltello molte volte, e poi si era sentito colpire al fianco destro e alla spalla, sollevare da terra e scaraventare sugli scogli. Aveva una protuberanza purpurea sulla fronte, e una serie di punti che andavano dal sopracciglio sinistro fino alla tempia. «Non sembri poi così male,» disse Chase, facendo un passo verso il letto. «Tutto sommato.» «Sì, lo so, sembro una strada dissestata. E che non ti venga in mente di toccarmi. Mi sento come se fossi uscito da un disastro ferroviario.» Chase sorrise. «Pronto ad andare via?» «Puoi giurarci. Se resto ancora un po' qui, mi faranno morire di fame o trafiggendomi con i loro aghi... o tutti e due.» Tall Man si sporse in avanti, buttò le gambe oltre il bordo del letto e rimase in piedi, appoggiandosi al muro per sostenersi. Chase lo aiutò a infilarsi i pantaloni e gli coprì le spalle con la camicia. Comparve Ellie Bindloss spingendo una sedia a rotelle. «Siediti,» ordinò. «Mai,» replicò Tall Man. «Posso camminare...» «Siediti prima che ti stenda io con un pugno.» Tall Man sorrise, poi si mise a ridere e tossì. «Sei una donna dura, Ellie Bindloss,» disse, e si lasciò andare sulla sedia a rotelle. Max spinse la sedia giù per la sala. Ellie camminava di lato e Chase e Amanda li seguivano. Chase le parlò della fotografia che Rudi le aveva dato, poi le disse: «Dovremmo fermarci in banca, tornando a casa. C'è qualcosa che devo chiarire».
Amanda ebbe un attimo di esitazione prima di rispondere. «Chiarire che cosa?» «Non lo so, una faccenda maledettamente strana. Uno degli impiegati mi ha detto che i miei certificati di proprietà dell'isola non sono più presso la banca. Ha detto che li hanno venduti.» «Davvero?» «A una società. Per un attimo ho pensato che mi avessero fregato, e li avessero venduti a Finnegan o a qualcun altro che volesse rilevare l'isola. Ma poi il tipo ha detto che io ero uno dei soci.» Amanda non parlò, continuò semplicemente a camminare, guardando davanti a sé. «Hai mai sentito parlare di una cosa chiamata il Gruppo dei Pinnipedi?» «Deve essere nuovo,» commentò lei. «Che razza di nome è mai il Gruppo dei Pinnipedi? Sai cosa sono i pinnipedi?» «Sicuro.» «Sono...» Chase si fermò, e mentre gli si chiariva il senso di quello che stava per dire, comprese di non essersi mai sentito così stupido in vita sua. «Leoni marini. Un pinnipede è un leone marino.» Amanda sorrise e lo prese per un braccio. «Parleremo più tardi dei dettagli,» disse. «Abbiamo un sacco di tempo.» FINE