JAMES PATTERSON & MAXINE PAETRO QUALCUNO MORIRÀ (The 5th Horseman, 2006) PROLOGO A MEZZANOTTE 1 La pioggia batteva forte...
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JAMES PATTERSON & MAXINE PAETRO QUALCUNO MORIRÀ (The 5th Horseman, 2006) PROLOGO A MEZZANOTTE 1 La pioggia batteva forte sui vetri quando al San Francisco Municipal Hospital iniziò il turno da mezzanotte alle otto. Nel reparto di terapia intensiva Jessie Falk, trent'anni, galleggiava in un mare di antidolorifici e luci soffuse, addormentata nel suo letto d'ospedale. Stava facendo un sogno bellissimo. Era insieme alla luce dei suoi occhi, la figlia di tre anni, Claudia, nella piscina del giardino della nonna. La bambina sguazzava nuda nell'acqua, sorretta da un paio di braccioli rosa, con il sole che si rifletteva sui riccioli biondi. «Sei leggera come una farfalla, Claudia. Vola!» «Così, mamma?» E tutte e due scoppiavano a ridere, piroettando e tuffandosi con la testa sott'acqua. All'improvviso un dolore lancinante trapassò il petto a Jessie. Si risvegliò con un grido, balzò a sedere sul letto e si strinse le due mani sul cuore. Cosa le stava succedendo? Perché sentiva così male? Poi si ricordò che si trovava in ospedale e capì che doveva esserle venuto un altro attacco. Ricordò il proprio arrivo, dopo la corsa in ambulanza, e il dottore che le diceva di non preoccuparsi, che le sarebbe passato tutto. Ricadde semisvenuta sul cuscino e tastoni riuscì a trovare il campanello al proprio fianco, che però poi le scivolò di mano e finì oltre la sponda del letto, tintinnando contro il metallo. Oh, mio Dio, non riesco a respirare. Che cosa mi succede? Soffoco. È orribile! Sto malissimo. Girando disperatamente la testa da una parte e dall'altra, Jessie scrutò la stanza semibuia finché gli occhi non le si posarono su un'ombra ai margini del campo visivo. Era una persona che conosceva. «Grazie a Dio», balbettò. «La prego, mi aiuti. Il cuore...»
Tese le braccia in avanti, debolissima, ma l'ombra rimase dov'era. «Per favore», implorò Jessie. L'ombra non si mosse di un passo, non accennò ad aiutarla. Che cosa stava succedendo? Quello era un ospedale, quella persona avrebbe dovuto essere lì per assisterla. Jessie vide una miriade di puntini neri davanti a sé mentre una nuova fitta di dolore la costringeva a espirare di colpo tutta l'aria che aveva nei polmoni. Il suo campo visivo si restrinse di colpo a un solo minuscolo punto di luce bianca. «Per piacere, mi aiuti. Sto m...» «Sì, stai morendo, Jessie», disse la figura nell'ombra. «È bello osservare il tuo trapasso.» 2 Le mani si agitarono fluttuando come ali di un uccellino sul lenzuolo, poi si fermarono di colpo. Jessie non c'era più. L'ombra si avvicinò al letto e si chinò. La pelle di Jessie era chiazzata e livida, sudaticcia, le pupille erano fisse, il polso completamente assente. Nessun segno vitale. Dove si trovava Jessie a quell'ora? All'inferno, in paradiso, nel nulla? L'ombra raccolse il campanello caduto, rassettò le coperte, le sistemò i capelli biondi e il colletto della camicia da notte e con un fazzoletto di carta le asciugò le labbra bagnate di saliva. Con delicatezza sollevò la foto in cornice posata sul comodino accanto ai telefono: quant'era stata bella, la giovane mamma con la bambina in braccio! Claudia. La figlia di Jessie si chiamava così, giusto? L'ombra posò la foto, chiuse gli occhi della paziente e le mise sulle palpebre due bottoni di ottone, simili a monete, con il caduceo, il simbolo della professione medica: due serpenti avvolti a una verga alata. Sussurrò un addio che si mescolò al rumore di un'auto che passava sull'asfalto bagnato cinque piani più in basso, in Pine Street. «Buonanotte, principessa.» PARTE PRIMA PREMEDITAZIONE 3
Ero seduta alla scrivania davanti a una montagna di pratiche, diciotto casi di omicidio, quando Yuki Castellano mi chiamò al mio numero personale. «Mia madre ci vuole invitare a pranzo all'Armani Cafè», disse la giovane avvocatessa che era anche l'ultimo acquisto del Club Omicidi. «Devi conoscerla, Lindsay. È una donna davvero affascinante: convincerebbe un serpente a spogliarsi della sua pelle. In senso buono, naturalmente.» Dunque, che cosa mi conveniva scegliere? Caffè freddo e insalata con il tonno in ufficio o un bel pranzetto mediterraneo -che so, carpaccio su un letto di rucola con scaglie di parmigiano e un bicchiere di merlot - in compagnia di Yuki e di quell'incantatrice di serpenti di sua madre? Sistemai le pratiche in una bella pila, dissi alla segretaria di turno, Brenda, che sarei stata via un paio d'ore e uscii dalla corte di giustizia con l'idea di tornarci per la riunione che avevo in programma alle tre. Era una nitida giornata di settembre, la prima dopo un lungo periodo di pioggia, nonché una delle ultime belle giornate prima che su San Francisco scendessero l'umidità e il freddo autunnali. All'aperto si stava divinamente. Trovai Yuki e sua madre, Keiko, davanti a Saks nella lussuosa zona commerciale di Union Square, vicino al parco del Golden Gate, e subito ci avviammo chiacchierando in Maiden Lane, dirette verso Grant Avenue. «Voi ragazze troppo moderne», disse Keiko nel suo inglese un po' approssimativo. Era una signora molto graziosa, minuta, vestita e pettinata in maniera impeccabile, carica di pacchi e pacchetti. «Nessun uomo vuole donna troppo indipendente», sentenziò. «Mamma, ti prego! Risparmiaci queste prediche, okay?» implorò Yuki sorridendo. «Siamo nel Duemila e viviamo in America.» «Ma guardati, Lindsay!» continuò Keiko ignorando la figlia e toccandomi un braccio. «Giri armata.» Yuki e io scoppiammo a ridere, mentre Keiko protestava che «Nessun uomo vuole donna con pistola». Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano. Intanto ci eravamo fermate al semaforo in attesa del verde. «Un fidanzato però l'ho trovato», le feci notare. «E che fidanzato!» confermò Yuki, pronta a lanciarsi in un panegirico sul mio amore. «Si chiama Joe ed è un bellissimo uomo di origini italiane. Come papà. È un pezzo grosso del dipartimento della Sicurezza Nazionale,
a Washington.» «Ti fa ridere?» mi chiese Keiko, per nulla impressionata dalla carriera di Joe. «Sì. A volte ridiamo a crepapelle.» «Ti tratta bene?» «Mooolto bene, gliel'assicuro», risposi sorridendo. Keiko annuì con aria di approvazione e disse: «So cosa vuol dire tuo sorriso: hai trovato uomo che sa fare con le mani». Yuki e io scoppiammo di nuovo a ridere. Da come le brillavano gli occhi, intuii che Keiko si divertiva un mondo a farmi il terzo grado. «E quando pensa di darti anello, questo Joe?» A quel punto arrossii. Keiko aveva messo il dito nella piaga. Joe viveva a Washington, io a San Francisco, e non potevo trasferirmi. In realtà non sapevo come sarebbe andata a finire, fra noi. «Non siamo ancora alla fase dell'anello», le dissi. «Ma tu lo ami?» «Da morire», confessai. «E lui ti ama?» La mamma di Yuki mi guardava dal basso in alto con aria divertita, quando tutto a un tratto il suo viso si immobilizzò, come impietrito. Gli occhi così vivaci si velarono e girarono all'insù e le ginocchia le cedettero di colpo. Feci per sorreggerla, ma arrivai troppo tardi. Keiko si accasciò sul marciapiede con un gemito. Avevo il batticuore, non riuscivo a credere ai miei occhi, a capire che cosa fosse successo. Le era forse venuto un infarto? Yuki lanciò un urlo, si accucciò e cominciò a dare schiaffi alla madre gridando fra le lacrime: «Mamma, mamma, svegliati!» «Yuki, fammi vedere un momento. Keiko! Keiko, mi sente?» Con il cuore in gola, posai le dita sulla carotide di Keiko e le contai i battiti controllando la lancetta dei secondi sul mio orologio. Respirava, ma il polso era così debole che lo sentivo a stento. Presi il Nextel che avevo alla cintura e chiamai la centrale. «Sono il tenente Boxer, distintivo ventisette ventuno», urlai. «Mandate un'ambulanza all'incrocio tra Maiden Lane e Grant Avenue. È urgente!» 4
Il San Francisco Municipal Hospital è enorme, una città nella città. Ex ospedale pubblico, pur essendo stato privatizzato da alcuni anni, accoglie ancora una quota non trascurabile di poveri e di malati respinti da altri ospedali, trattando in media più di centomila pazienti all'anno. In quel momento Keiko Castellano si trovava dietro una tenda, in uno dei numerosi lettini del grande e rumoroso pronto soccorso. Io ero nella sala d'attesa, seduta accanto a Yuki, che era sotto choc, terrorizzata al pensiero che sua madre potesse morire. In quel momento ebbi un flash dell'ultima volta che ero stata in un pronto soccorso. Mi tornarono in mente le mani dei medici che mi toccavano come da molto lontano, il cuore che mi batteva forte, la paura di non riuscire a sopravvivere. Quella sera non ero in servizio, ma avevo accompagnato un collega in un appostamento senza pensare che quella che sembrava una missione di routine si potesse trasformare da un momento all'altro in un dramma. Neanche il mio amico e collega, l'ispettore Warren Jacobi, se lo aspettava. Invece ci eravamo beccati due pallottole a testa in mezzo a una strada. Lui era privo di conoscenza e io avevo già perso molto sangue quando, non so nemmeno come, avevo trovato la forza di rispondere al fuoco. Avevo preso bene la mira. Fin troppo bene, forse. È inquietante, quando l'opinione pubblica simpatizza con i delinquenti che sparano alla polizia anziché con la polizia che spara ai delinquenti. La famiglia delle sedicenti vittime mi aveva fatto causa e io avevo rischiato di perdere tutto ciò che avevo. All'epoca conoscevo appena Yuki Castellano. Eppure lei, avvocatessa giovane e brillante, appassionata del suo lavoro ed estremamente in gamba, mi aveva aiutata nel momento del bisogno. Gliene sarei stata per sempre grata. Mi voltai a guardarla. Con la voce rotta dall'ansia e il viso corrucciato per la preoccupazione, stava dicendo: «È assurdo, Lindsay. L'hai vista anche tu. Ha solo cinquantacinque anni ed è una forza della natura, santo Iddio! Che cosa può esserle successo? Perché non mi dicono niente? Perché non me la lasciano almeno vedere?» Non sapevo che cosa risponderle, ma anch'io stavo cominciando a perdere la pazienza. Dove diavolo erano i medici? Era inammissibile che ci mettessero così tanto tempo! Stavo per alzarmi ed entrare nel reparto a chiedere notizie quando final-
mente un medico si affacciò sulla porta, si guardò intorno e chiamò Yuki. 5 La targhetta sul taschino del camice bianco diceva DOTT. DENNIS GARCIA, PRIMARIO PRONTO SOCCORSO. Non potei fare a meno di notare che era un bell'uomo, tra i quaranta e i cinquanta, alto e robusto, con le spalle larghe, in buona forma fisica. Di origini spagnole, a giudicare dagli occhi neri e dai folti capelli scuri che gli cadevano sulla fronte. La cosa che mi colpì di più, tuttavia, fu che era teso, aveva una postura rigida e mentre parlava faceva scattare ripetutamente, nervosamente, il cinturino del Rolex come a dire: «Ho da fare. Sono un uomo importante, molto occupato, non ho tempo da perdere». Non so perché, ma non mi piacque. Si presentò a Yuki dicendo: «Sono il dottor Garcia. Sua madre ha avuto un episodio neurologico, probabilmente un TIA, un attacco ischemico transitorio, ovvero un lievissimo ictus. In parole povere, al cervello sono mancati momentaneamente sangue e ossigeno e forse ha avuto anche un attacco di angina pectoris, una manifestazione algica causata dalla stenosi coronarica». «È grave? Come sta adesso? Quando posso vederla?» Yuki sparò a raffica le sue domande, finché il dottor Garcia non le fece cenno di fermarsi con un gesto della mano. «È ancora confusa. La maggior parte dei pazienti si riprende nel giro di mezz'ora, ma alcuni ci mettono anche ventiquattro ore e sua madre potrebbe essere una di questi. La stiamo tenendo in osservazione e al momento non può ricevere visite. Vediamo come passa la notte, poi ne riparliamo.» «Ma guarirà, vero? Tornerà come prima?» chiese Yuki. «Signorina Castellano, si calmi. Appena avremo notizie, le farò sapere», replicò secco il dottore. La porta del pronto soccorso si richiuse e Yuki tornò a sedersi pesantemente su una sedia di plastica, si prese la testa fra le mani e cominciò a singhiozzare. Non l'avevo mai vista piangere e mi dispiaceva da morire non poter fare nulla per consolarla. Non mi restò che metterle un braccio sulle spalle e dirle: «Va tutto bene, tesoro. Tua madre è in buone mani. Sono sicura che si riprenderà prestissimo, vedrai».
Poi le accarezzai la schiena, mentre lei continuava a piangere, piccola e spaventata come una bambina. 6 La sala d'attesa era senza finestre e solo il ticchettio dell'orologio sopra la macchina del caffè segnava il lento trascorrere del tempo, il passaggio dal pomeriggio alla sera e dalla mezzanotte fino all'indomani mattina. Il dottor Garcia non tornò, né ci mandò a dire nulla. In quelle lunghissime diciotto ore Yuki e io, a turno, passeggiammo avanti e indietro nel corridoio, bevemmo caffè, andammo nel bagno. Per cena mangiammo due panini presi al distributore automatico, ci scambiammo riviste e, nel silenzio irreale sotto le luci al neon, ascoltammo il suono del nostro stesso respiro. Verso le tre del mattino Yuki si addormentò con la testa sulla mia spalla. Dopo una ventina di minuti si svegliò di soprassalto. «È successo qualcosa?» «No, cara. Dormi ancora un po'.» Ma non riuscì a riprendere sonno. Rimanemmo sedute una accanto all'altra in quello stanzone poco accogliente, troppo illuminato, mentre intorno a noi si avvicendavano facce sempre diverse: una coppia che si teneva per mano con lo sguardo fisso nel vuoto, famiglie con bambini piccoli in braccio, un uomo anziano solo. Ogni volta che la porta del reparto si apriva, tutti gli occhi si giravano in quella direzione. A volte compariva un medico. Echeggiavano urla e pianti. Erano quasi le sei del mattino quando una dottoressa molto giovane, con lo sguardo stanco e il camice macchiato di sangue, si affacciò e chiamò Yuki, storpiandone il cognome. «Come sta mia madre?» chiese Yuki alzandosi di scatto. «Adesso è più lucida, e questo è buon segno», rispose la dottoressa. «La terremo in osservazione ancora qualche giorno. Appena l'avremo sistemata in una camera, potrà vederla.» Yuki la ringraziò e si voltò a guardarmi con un sorriso molto più radioso di quanto fosse ragionevole, considerate le scarne novità che le aveva appena comunicato la dottoressa. «Oh, mio Dio, Lindsay, meno male! La mamma sta bene! Non so come
ringraziarti per avermi tenuto compagnia tutta la notte», mi disse. Mi prese le mani e, con gli occhi lucidi, continuò: «Non so come avrei fatto senza di te. Sei stata la mia salvezza, Lindsay». L'abbracciai forte. «Yuki, siamo amiche. Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, non devi nemmeno chiedere. Lo sai, vero? Qualsiasi cosa. E ricordati di chiamarmi, mi raccomando.» «Il peggio è passato», disse lei. «Non preoccuparti per noi, Lindsay. Grazie. Grazie infinite.» Mentre mi avviavo verso l'uscita del pronto soccorso, mi voltai a guardare indietro. Yuki era ancora lì in piedi che mi sorrideva e mi salutava con la mano. 7 Per mia fortuna, fermo davanti all'ospedale c'era un taxi libero. Salii e mi abbandonai sul sedile posteriore, esausta. Quando si è ragazzi passare una notte in bianco è uno scherzo, ma alla mia età la stanchezza si sente, eccome. Grazie al cielo il taxista era un tipo taciturno e attraversammo la città all'alba fino a Potrero Hill in silenzio. Pochi minuti dopo infilai la chiave nella serratura della graziosa villetta vittoriana azzurra riconvertita in tre appartamenti in cui vivevo e feci le scale a due gradini alla volta. Il mio border collie, Martha, mi aspettava dietro la porta come se fossi stata via per un anno. Sapevo che Karen, la dog-sitter, l'aveva portata fuori e le aveva dato da mangiare perché mi aveva lasciato il conto sul tavolo della cucina, ma Martha aveva sentito lo stesso la mia mancanza, così come io avevo sentito la sua. «La mamma di Yuki è finita all'ospedale», le dissi e, in un moto di sentimentalismo, l'abbracciai e mi lasciai leccare la faccia. Poi andai in camera. Avrei avuto voglia di buttarmi sotto il piumone e dormire per otto o nove ore di seguito, ma mi feci forza e, infilata una vecchia tuta della Santa Clara University, portai Sua Altezza a fare una bella corsa nella nebbia che il sole non aveva ancora disperso sulla baia di San Francisco. Alle otto in punto ero in ufficio e osservavo dalla mia postazione i colleghi del turno di giorno che entravano alla spicciolata.
La pila di dossier sulla mia scrivania era cresciuta, dall'ultima volta che l'avevo vista, e sul telefono la spia rossa dei messaggi lampeggiava furiosamente. Stavo per cominciare a occuparmi delle varie scocciature quando vidi un'ombra posarsi sulla scrivania e sul caffè che non avevo ancora toccato. Sulla porta c'era un uomo grande e grosso, con una calvizie incipiente e una faccia che conoscevo quasi quanto la mia. L'ispettore Warren Jacobi aveva la tipica aria un po' sciupata del poliziotto che ha passato la cinquantina. Nei suoi occhi infossati lo sguardo aveva una luce più dura, da quando gli avevano sparato addosso in Larkin Street. «Sembri una che ha passato la notte su una panchina ai giardini pubblici, Boxer», mi disse. «Grazie del complimento, caro.» «Te la sei spassata, spero.» «Da morire. Cosa c'è, Jacobi?» «Un morto. Hanno chiamato una ventina di minuti fa», rispose. «Una donna, pare molto bella. Trovata morta su una Cadillac nell'Opera Plaza Garage.» 8 L'Opera Plaza Garage è un enorme parcheggio coperto adiacente a un complesso di edifici a destinazione mista che ospitano un cinema multisala, uffici e negozi in una zona commerciale molto frequentata. In quella mattina di un giorno feriale Jacobi fermò la macchina lungo il marciapiede, oltre la fila di autopattuglie che bloccavano l'accesso al garage su Golden Gate Avenue. Dal parcheggio non entrava né usciva alcun veicolo. Nel vedere la piccola folla che si era radunata per la strada Jacobi borbottò: «La gente capisce subito quando succede qualcosa di grosso e si agita». Mentre ci facevamo largo per passare, sentimmo gridare frasi tipo: «Ehi, cosa succede?» «Come mai è tutto bloccato?» «Devo andare a riprendermi la macchina: ho una riunione importantissima tra cinque minuti!» Mi chinai per passare sotto il nastro e mi piazzai sulla rampa di ingresso al parcheggio da dove, forte del mio metro e settantasette di statura, mi identificai e a nome del dipartimento di polizia mi scusai per il disturbo. «Vi prego di avere pazienza: purtroppo all'interno del parcheggio è stato
commesso un grave reato. Vi garantisco che cercheremo di fare il più presto possibile in maniera che il parcheggio torni a essere agibile quanto prima.» Cercai di rispondere ad alcune domande impossibili, poi sentii dei passi che si avvicinavano alle mie spalle e qualcuno che mi chiamava e mi voltai. L'ispettore Rich Conklin, che adesso lavorava in coppia con Jacobi, stava venendo verso di noi. Conklin mi aveva fatto buona impressione fin dalla prima volta che l'avevo visto, ai tempi in cui era un semplice agente. Molto in gamba e motivato, grazie al suo notevole coraggio e al numero eccezionale di arresti effettuati, a soli ventinove anni era stato promosso. Da quando portava il distintivo dorato da ispettore, Conklin riscuoteva molta ammirazione fra le donne che lavoravano alla corte di giustizia. Forse anche perché era alto più di uno e ottantacinque, castano di occhi e capelli e aveva l'aria del bravo ragazzo che scoppia di salute, una via di mezzo tra un campione di baseball e un incursore della Marina. Era anche uno che si teneva molto. Lungi da me far caso a queste cose, però... «Cosa succede?» gli chiesi. Mi guardò dritto negli occhi con espressione seria e rispettosa. «La vittima è una donna, tenente. Bianca, ventuno o ventidue anni, con un segno tutto intorno al collo che a me sembra di un laccio.» «Testimoni?» «Per il momento nessuno, purtroppo.» Poi, indicando con il pollice l'impiegato alla cassa del parcheggio, un giovanotto con i capelli lunghi e arruffati, disse: «Quel tizio laggiù, che si chiama Angel Cortez, ha fatto il turno di notte, ma naturalmente non ha visto nulla. Tipico. Era al telefono con la fidanzata quando una cliente è arrivata di corsa urlando. La cliente si chiama...» Conklin aprì il bloc-notes «...vediamo... Angela Spinogatti. Aveva lasciato la macchina nel parcheggio ieri sera e stamattina, quando è venuta a riprendersela, ha visto il cadavere sulla Cadillac. Tutto qui. Non ci ha saputo dire altro.» «Hai controllato la targa della Cadillac?» chiese Jacobi. Conklin fece di sì con la testa e sfogliò gli appunti. «Il proprietario è un dentista, un certo Lawrence P. Guttman. Nessun precedente, nessuna pendenza. Stiamo cercando di contattarlo.» Ringraziai Conklin e gli raccomandai di farsi consegnare tutti i tagliandi e i video delle telecamere a circuito chiuso.
Poi Jacobi e io ci avviammo su per la rampa. Avevo dormito decisamente troppo poco, tuttavia mi stava entrando in circolo una scarica lenta ma costante di adrenalina. Ancor prima di averla vista, provai a immaginare la scena del delitto chiedendomi come poteva aver fatto una ragazza bianca a finire strangolata in un parcheggio pubblico. Dal piano di sopra proveniva il rumore dei passi dei miei colleghi già sul posto. Lungo la rampa circolare di cemento contai almeno una dozzina di uomini del dipartimento di polizia di San Francisco. C'erano agenti che frugavano persino nei cestini della spazzatura in cerca di indizi, prima della riapertura del parcheggio. Jacobi e io arrivammo al quarto piano e vedemmo la Cadillac incriminata, una Seville nera lucidissima, senza un graffio. Era posteggiata con il muso verso il Civic Center Garage di McAllister Street. «Da zero a cento in cinque secondi», mormorò Jacobi esibendosi poi in una passabile imitazione dell'accompagnamento musicale degli spot televisivi della Cadillac. «Comportati da persona seria, ti prego», dissi. Charlie Clapper, il direttore della Scientifica, aveva il suo solito nonsorriso sulle labbra e la giacca spigata disinvoltamente intonata ai capelli sale e pepe. Posò la macchina fotografica sul cofano di una Subaru Outback e disse: «'Giorno, tenente. Salve, Jacobi. Vi faccio vedere la vittima. Non sappiamo nulla di lei». Mi infilai un paio di guanti di lattice e lo seguii. Il bagagliaio della Cadillac era chiuso, perché non era lì che si trovava la morta. Era seduta davanti, con le mani in grembo, gli occhi chiari sbarrati fissi sul parabrezza. Sembrava che stesse aspettando qualcuno. «Ma porca miseria», esclamò Jacobi, indignato. «Una bella ragazza così, tutta elegante... Non potrà più andare da nessuna parte, ormai, poveraccia.» 9 «Non vedo nessuna borsetta», mi stava dicendo Clapper. «I vestiti non li ho toccati. Li ho lasciati per il medico legale. Roba di lusso, da ricchi. Cosa dici?»
Provai un moto di tristezza e di rabbia nel guardare il volto sognante della vittima. Aveva la pelle chiara, uno strato leggero di fondotinta sul viso e un accenno di fard sulle guance. I capelli, biondi e mossi, erano tagliati alla Meg Ryan, e le unghie erano curate. Tutto in lei faceva pensare a una vita privilegiata, piena di agi e di lussi, da cui era stata strappata con violenza. Con il dorso della mano le toccai una guancia: la pelle era ancora tiepida. Dedussi che era morta da poco. «Non sono certo stati Stanlio e Ollio a farla fuori, mi pare evidente», commentò Jacobi. Annuii. Appena cominciato a lavorare alla Omicidi, avevo scoperto che in genere le scene del crimine si dividono in due tipologie. Ci sono quelle caotiche, con sangue dappertutto, oggetti rotti, bossoli sparsi qua e là, cadaveri scomposti. E poi ci sono quelle del secondo tipo, come quella lì: ordinatissime, pianificate con cura. Che rivelano grande premeditazione. I vestiti della vittima erano in ordine, senza sgualciture, perfettamente abbottonati. La ragazza aveva addirittura la cintura di sicurezza allacciata. L'assassino aveva forse avuto paura che cadesse? O tutto quell'ordine era un messaggio per chi l'avesse trovata? «La portiera è stata aperta con un grimaldello, senza apparenti segni di scasso», ci informò Clapper. «Tutte le superfici sono state ripulite: non ci sono impronte né dentro né fuori. E guardate là.» Clapper ci indicò una telecamera dell'impianto a circuito chiuso montata su un pilastro di cemento, puntata non verso la Cadillac, ma verso la rampa in discesa. Con un cenno del capo ce ne mostrò poi un'altra, puntata sulla rampa che saliva al quinto piano. «Non credo che i filmati dell'impianto a circuito chiuso ci aiuteranno», disse. «L'auto si trova nell'unico punto morto.» Quello che mi piace di Charlie è che sa quello che fa, ti spiega quello che vede, non ha manie di protagonismo e ti lascia lavorare. Puntai il fascio di luce della torcia nell'abitacolo della Cadillac, facendo mentalmente l'inventario dei particolari importanti. La vittima aveva l'aspetto di una persona sana, doveva pesare una quarantina di chili ed essere alta uno e cinquanta o uno e cinquantacinque.
Non portava fede né anello di fidanzamento. Al collo aveva una collana di cristallo, leggermente più bassa del segno dello strangolamento. Quest'ultimo era poco profondo e irregolare, come se fosse stato lasciato da qualcosa di morbido. Non vidi né tagli né ecchimosi sulle braccia e dedussi che non aveva cercato di difendersi. A parte il segno intorno al collo, non notai nessuna traccia di violenza. Non sapevo come o perché quella ragazza fosse stata uccisa, ma a occhio e croce avrei detto che non era morta su quell'auto. Dovevano avercela messa una volta morta, in posa, quasi volessero farla ammirare a qualcuno. Dubitavo di essere io, quel qualcuno. Anzi, speravo proprio di non esserlo. 10 «Hai fatto le foto che volevi?» chiesi a Clapper. C'era poco spazio per lavorare e volevo dare un'occhiata più da vicino alla vittima. «Abbastanza per fare un book», rispose. «La signorina è molto fotogenica.» Ripose la Olympus digitale nella valigetta e la chiuse. Io mi sporsi dentro l'abitacolo e con cautela tirai fuori le etichette del cappotto rosa chiaro e del vestito da sera nero della ragazza per leggere la marca. «Il cappotto è Narciso Rodriguez», gridai a Jacobi. «E il vestito è di Carolina Herrera. Una mise da cinque o seimila dollari, insomma. Senza contare le scarpe.» Da quando era di moda Sex and the City, in fatto di scarpe l'unico nome che contava era Manolo Blahnik: riconobbi subito ai piedi della vittima un paio delle sue décolleté con cinturino. «Si sente persino il profumo dei soldi», commentò Jacobi. «Hai il naso fino, amico.» Il profumo della ragazza aveva un fondo dolciastro che faceva pensare a feste da ballo e fiori di magnolia, o magari a incontri d'amore al chiaro di luna sotto alberi secolari. Ero quasi certa di non averlo mai sentito prima, però. Forse era una marca molto esclusiva, costosissima.
Stavo per chinarmi ad annusare di nuovo quando, scortato da Conklin, vidi arrivare in cima alla rampa un uomo non molto alto, sulla quarantina, bianco, con una gran testa di capelli ricci e gli occhi piccoli, nerissimi, che guizzavano di qua e di là. «Sono il dottor Lawrence Guttman», disse a Jacobi sbuffando, indignato. «E sì, quella è la mia macchina. Che cosa state facendo?» Jacobi gli mostrò il tesserino e ribatté: «Venga, dottor Guttman, le do un passaggio fino in centrale con la mia auto. L'ispettore Conklin e io avremmo un paio di domandine da farle, ma sono sicuro che chiariremo tutto». Fu in quel momento che Guttman vide la ragazza morta nella sua Seville. Sbatté gli occhi e si voltò di nuovo verso Jacobi. «Mio Dio! Chi è quella? È morta! C-che cosa...?» balbettò. «Non crederete che l'abbia ammazzata io, vero? Solo perché è nella mia macchina... Guardate che non... Voglio il mio avvocato!» La voce di Guttman fu sovrastata dal rombo di un motore che saliva la rampa. Con un gran stridore di pneumatici, un van Chevrolet nero affrontò l'ultima curva e si fermò a cinque o sei metri da noi. La portiera del guidatore si aprì e scese una donna. Nera, di poco più di quarant'anni, imponente da tutti i punti di vista, Claire Washburn si presentò con la dignità che le veniva dalla sua posizione e la sicurezza di sé della donna molto amata. Era arrivato il medico legale. 11 Claire è la direttrice dell'Istituto di medicina legale di San Francisco, è una patologa molto in gamba e piena di intuito, discreta violoncellista, moglie e madre felice e, non ultimo, è la mia migliore amica. Ci conoscemmo quattordici anni fa davanti a un cadavere e da allora abbiamo passato insieme più tempo di molte coppie sposate. Probabilmente, andiamo anche più d'accordo. Manifestammo il reciproco affetto con un caloroso abbraccio lì, nel bel mezzo del parcheggio, poi Claire si mise le mani sui fianchi e osservò la scena. «Allora, Lindsay, di chi si tratta questa volta?» «Per il momento chiamiamola N.N. Sembrerebbe che sia stata uccisa da qualche maniaco perfezionista, perché non ha un capello fuori posto. Stiamo aspettando il tuo parere, però.»
«Be', vediamo.» Claire si avvicinò alla Cadillac con la sua valigetta e scattò velocemente una serie di foto per documentare lo stato della vittima da tutte le angolazioni possibili, quindi le avvolse mani e piedi con sacchetti di carta che chiuse accuratamente con lo scotch. Alla fine mi chiamò. «Lindsay, vieni a vedere.» Mi insinuai nello stretto spazio che rimaneva tra Claire e la portiera, mentre lei sollevava il labbro superiore della ragazza e poi abbassava quello inferiore per mostrarmi, alla luce della sua piccola torcia, che aveva le gengive contuse. «Guarda qui, tesoro: ti risulta che sia stata intubata?» mi domandò. «No. Quelli dell'ambulanza non l'hanno nemmeno toccata. Abbiamo aspettato te.» «Allora questo è un artefatto del trauma. Guarda la lingua. Sembra che ci sia una lacerazione.» Claire spostò il fascio di luce sul solco intorno al collo della ragazza. «Strano segno, per uno strangolamento», disse. «Anch'io l'ho pensato. Niente emorragie petecchiali», replicai, usando il gergo degli esperti. «Strano, vero? Se strangolamento è stato...» «È tutto strano, amica mia», disse Claire. «I vestiti sono immacolati: non capita spesso con un cadavere abbandonato. Quasi mai, anzi.» «Causa del decesso? Ora del decesso?» «Direi che è morta più o meno intorno a mezzanotte. Il rigor mortis è appena cominciato. A parte questo, so solo che è deceduta. Ti saprò dire di più dopo averla esaminata con una luce più adatta.» Claire si raddrizzò e si rivolse al suo assistente. «Okay, Bobby. Tiriamola fuori dalla macchina. Piano, mi raccomando.» Andai sino in fondo al parcheggio e mi affacciai a guardare, oltre i tetti degli edifici più bassi, il traffico che procedeva lento in Golden Gate Avenue. Quando mi parve di essere un po' più calma, chiamai Jacobi al cellulare. «Ho lasciato andare Guttman», mi disse. «Era appena sbarcato da un aereo da New York, aveva lasciato la macchina nel parcheggio prima di partire.» «Alibi?» «L'alibi quadra. È stato qualcun altro a piazzargli la ragazza nella Cadillac. Lì a che punto siete?» Mi voltai e vidi Claire e Bobby che avvolgevano la vittima in due teli,
uno dopo l'altro, prima di chiuderla nell'apposito sacco. Il rumore della cerniera, sgradevole come quello del gesso quando stride sulla lavagna, e la definitività di quei gesti sono sempre un pugno nello stomaco, per quante volte uno vi abbia assistito. Mi resi conto io stessa di quanto suonava triste la mia voce quando dissi a Jacobi: «Stiamo per chiudere». 12 Erano le sei del pomeriggio. Erano passate dieci ore da quando avevamo trovato il cadavere della ragazza della Cadillac. Sulla scrivania avevo l'elenco delle 726 automobili che erano passate per l'Opera Plaza Garage la notte precedente. Durante il giorno avevamo controllato sul nostro database tutti i numeri di targa e i libretti di circolazione senza trovare nulla di interessante o anche solo vagamente promettente. Nemmeno dalle impronte digitali della vittima avevamo scoperto niente. Non era mai stata arrestata, non aveva mai insegnato né fatto il militare o lavorato per qualche ente governativo. Mezz'ora prima avevamo diffuso alle agenzie stampa una sua foto digitale che, compatibilmente con quanto altro stava accadendo nel mondo, l'indomani mattina sarebbe finita su tutte le prime pagine dei giornali. Mi tolsi l'elastico per sciogliermi la coda, scossi i capelli ed emisi un sospiro che fece fremere i fogli che avevo davanti. Poi chiamai Claire, che era ancora in obitorio. Le chiesi se aveva fame. «Ci vediamo giù tra dieci minuti», mi rispose. La trovai di fianco al suo Pathfinder in McAllister Street, dove aveva un posto macchina riservato. Premette un tasto del telecomando e io aprii la portiera dalla parte del passeggero. La valigetta di Claire era sul sedile, insieme a un paio di stivaloni, un casco di protezione, una carta geografica della California e la sua vecchia 35 mm Minolta. Trasferii i suoi ferri del mestiere sul sedile posteriore e, stancamente, salii in macchina. Claire mi studiò un attimo e scoppiò a ridere. «Cosa c'è da ridere, Butterfly?» «Hai una faccia da terzo grado», mi disse. «Ma non è il caso che mi torturi per farmi parlare, cara. Ho qui tutto quello che vuoi sapere.» Mi sventolò sotto il naso alcuni fogli che poi ficcò nella borsa di cuoio.
C'è chi pensa che Claire sia stata soprannominata Butterfly perché, come Muhammad Ali, è «leggera come una farfalla e punge come un'ape». Non è vero. Claire Washburn ha una bella farfalla monarca color oro tatuata sul fianco sinistro. La guardai dritto negli occhi ed esclamai: «Non vedo l'ora di sentire il tuo verdetto!» Finalmente smise di fare la preziosa. «È un omicidio, non c'è dubbio», decretò. «Il livor mortis era incompatibile con la posizione seduta, quindi deve essere stata spostata. E ho trovato leggere ecchimosi sulle braccia, sul petto e sulla gabbia toracica.» «Causa e modalità del decesso?» «Il metodo Burke, direi.» Sapevo a cosa si riferiva. Intorno al 1820 due fidanzati, di nome Burke e Hare, che di mestiere fornivano cadaveri per uso scientifico alle scuole di medicina di Edimburgo, si erano accorti che, anziché riesumare corpi dalle tombe, era più facile produrre cadaveri freschi prendendo persone vive e sedendosi loro addosso in modo da soffocarle senza lasciare tracce. Il soffocamento è tuttora una pratica assai diffusa. Le madri che soffocano un figlio appena nato sono molto più numerose di quanto si pensi, purtroppo: basta mettere il bambino tra la rete e il materasso e sedercisi sopra. Se la gabbia toracica non ha lo spazio per espandersi, è impossibile respirare. Mi allacciai la cintura mentre Claire usciva dal parcheggio in retromarcia e si dirigeva verso Susie's. «La povera ragazza ha fatto una fine atroce, Lindsay», mi disse. «Secondo me, mentre uno degli assassini le stava seduto sul petto, un altro le ha infilato un sacchetto di plastica in testa e l'ha soffocata, attorcigliando il bordo del sacchetto e tenendolo stretto. Ecco il perché dello strano segno intorno al collo. Forse nello stesso tempo le ha anche premuto una mano sul naso e sulla bocca.» «Dici che gli assassini sono due?» «Secondo me, non può essere andata che così.» 13 Guardai scorrere dal finestrino le strade del centro di San Francisco mentre Claire si districava nel traffico dell'ora di punta serale. Per qualche
minuto rimanemmo in silenzio a riflettere sulla sinistra fine di quella povera ragazza e, nel cercare di ricostruire il macabro puzzle, rividi immagini frammentarie della scena del delitto. «Due assassini», dissi alla fine a Claire. «Due complici che prima uccidono e poi mettono in posa la vittima a bordo di un'auto. Che senso ha? Che cosa vuol dire?» «Che agiscono a sangue freddo», rispose lei. «Ma anche che sono dei maniaci. L'hanno violentata?» «Ho mandato in laboratorio i tamponi e i vestiti. Sull'orlo della gonna c'era una macchia di sperma.» «Allora la risposta è sì?» «Le lacerazioni o ecchimosi a livello vaginale che si trovano normalmente nei casi di violenza carnale non ci sono», replicò Claire meditabonda. «Bisognerà aspettare i risultati delle analisi biologiche.» Si fermò al passaggio a livello della metro MUNI e insieme guardammo passare il treno. Stava scendendo la sera su San Francisco e i pendolari tornavano a casa. Avevo in testa un turbine di domande che non mi lasciavano requie. Chi era la ragazza della Cadillac? Chi l'aveva uccisa? Come aveva incontrato i suoi assassini? Era stata uccisa per motivi personali o si era trattato di un omicidio occasionale? E, in quest'ultimo caso, il colpevole era un serial killer, qualcuno che si divertiva a commettere omicidi con una componente rituale? L'assassino avrebbe colpito di nuovo? Claire svoltò a sinistra appena si aprì un varco nel flusso di veicoli che venivano verso di noi e, un attimo dopo, parcheggiò abilmente lungo il marciapiede di Bryant Street, proprio davanti a Susie's. Spense il motore e si voltò a guardarmi. «C'è dell'altro», disse. «Non farti pregare, Butterfly.» Claire rise, per prendere tempo e farmi soffrire ancora un po' prima di soddisfare la mia curiosità. «Le scarpe», disse. «Sono del trentotto e mezzo.» «Non è possibile. Una ragazza così minuta...» «Ti giuro che sono del trentotto e mezzo. Hai ragione a dire che non è il numero giusto: portava il trentacinque. Quindi non erano sue. Inoltre le suole erano nuove, non avevano mai toccato terra.» «Per la miseria», esclamai. «Allora, se non erano sue le scarpe, forse non erano suoi nemmeno i vestiti.» «È quello che ho pensato anch'io. Non so che cosa voglia dire, ma che
sono nuovi è certo: non ci sono tracce di sudore né di altro materiale biologico. Quella poveretta è stata vestita con gran cura, anzi, direi ad arte, quando era già morta.» 14 Era ancora piuttosto presto quando Claire e io entrammo da Susies, il vivace, a volte addirittura chiassoso, locale caraibico dove più o meno una volta alla settimana andavo a cena con le mie amiche. La band reggae non era ancora arrivata. Meglio così, perché quando Cindy ci salutò con la mano dal «nostro» tavolo le si leggeva chiaramente in faccia che aveva qualcosa di grosso da raccontarci. Raccontare è la sua specialità. Cindy è la cronista di nera più gettonata del San Francisco Chronicle. Ci eravamo conosciute quattro anni prima, mentre indagavo sulla morte violenta di una serie di sposini e lei, con la sua parlantina, era riuscita a intrufolarsi sulla scena di uno dei delitti nonostante tutti i divieti. La sua faccia tosta e la sua insistenza sulle prime mi avevano irritata moltissimo, ma alla fine avevo apprezzato la sua grande determinazione, che si era rivelata preziosa per inchiodare e far condannare a morte io spietato assassino. La seconda volta che Cindy si era presentata sul luogo di un delitto su cui stavo indagando avevamo fatto amicizia. Adesso sarei pronta a fare qualunque cosa per lei. Be', insomma, non proprio qualunque cosa. Cindy è pur sempre una giornalista. Claire e io ci sedemmo di fronte a lei, che aveva un look da ragazzina e nello stesso tempo un po' maschile, in jeans, maglia lilla e giacca nera da uomo. Cindy ha gli incisivi centrali leggermente sovrapposti, ma le donano: il suo sorriso, quando te ne regala uno, è contagioso. Attirai con un cenno l'attenzione di Loretta e ordinai una caraffa di margarita, spensi il cellulare e dissi a Cindy: «Stai tramando qualcosa? Te lo si legge in faccia». «Hai indovinato. Complimenti!» rispose con un sorriso, leccandosi il sale che le era rimasto sul labbro superiore e posando il bicchiere. «Ho ricevuto una soffiata su una notizia bomba», disse Cindy. «E credo di essere l'unica a saperla, almeno per il momento.» «Sputa il rospo», la invitò Claire. Cindy rise e si lanciò nel suo racconto. «Ho sentito per caso due avvocati che parlavano tra loro in ascensore.
Mi hanno incuriosita e così ho indagato un po'», cominciò ammiccando. «Fortuna che il mondo è pieno di pettegoli!» commentai, versando da bere per Claire e per me e riempiendo di nuovo il bicchiere di Cindy. «Sono la mia categoria preferita», approvò Cindy sporgendosi verso di noi. «Allora, vi anticipo lo scoop. Sta per partire una causa per negligenza professionale contro uno dei maggiori ospedali di San Francisco», ci confidò. «In questi ultimi anni numerosi pazienti passati per il pronto soccorso e apparentemente in via di guarigione sono morti pochi giorni dopo il ricovero e, stando a quel che ho sentito nel tragitto dal pianoterra al quarto piano del tribunale della Civic Center Plaza, sarebbero morti perché gli hanno somministrato il farmaco sbagliato.» Osservai Cindy da dietro l'orlo del mio bicchiere. Avevo una sensazione sgradevole, una specie di nodo alla gola, che speravo si dissolvesse a mano a mano che lei raccontava. «C'è questa avvocatessa di grido, una certa Maureen O'Mara, che ha fatto causa all'ospedale. Rappresenta i familiari di alcune delle vittime», continuò Cindy. «Quale ospedale? Me lo puoi dire?» chiesi. «Certo, Lindsay: il San Francisco Municipal Hospital.» Sentii Claire esclamare «Oh, no!» Il mio brutto presentimento si stava aggravando. «Ho passato la notte al Municipal Hospital a tenere la mano a Yuki. Sua madre è stata ricoverata al pronto soccorso ieri pomeriggio.» «Cerchiamo di mantenere la calma», disse Cindy a bassa voce. «È un ospedale enorme. Nel mirino c'è un solo medico, un certo Garcia. Pare che sia stato lui a ricoverare la maggior parte di quelli che poi sono morti.» «Oh, maledizione», balbettai, mentre la pressione mi saliva a mille. «Lo conosco! Ha ricoverato lui la madre di Yuki!» Proprio in quel momento sentii uno spostamento d'aria alle mie spalle. Una ciocca di morbidi capelli mi sfiorò il viso e una bocca mi baciò sulla guancia. «Stavate parlando di me?» chiese Yuki, sedendosi nel posto libero accanto a Cindy. «Che cosa mi sono persa?» «Cindy sta per fare uno scoop.» «Su una cosa che devi sapere», disse Claire. 15
Yuki era curiosissima, ma tutto a un tratto Cindy pareva restia a parlare. «Di me ti puoi fidare», le disse Yuki. «So che cosa vuole dire 'in via confidenziale'.» «Non si tratta di questo», rispose Cindy. Nel frattempo arrivò Loretta, salutò Yuki e depositò sul tavolo un vassoio di pollo e costolette di maiale alla griglia, grondanti salsa. Dopo varie false partenze e qualche sorso di margarita, Cindy ripeté a Yuki quel che aveva appena raccontato a noi sulla causa intentata da Maureen O'Mara contro il San Francisco Municipal Hospital. Quando Cindy ebbe finito di parlare, Yuki disse: «Per la verità so già molte cose al riguardo. È quasi un anno che la O'Mara raccoglie materiale per questa causa». «Davvero? Non me lo dire... E come fai a saperlo?» esclamò Cindy. «Ho un'amica che lavora nello studio Friedman, Bannion & O'Mara e faceva ricerche per Maureen O'Mara. Dietro a quel genere di causa c'è un lavoro enorme, bisogna districarsi tra una marea di dati medici. Sarà un processo molto seguito. È vero che Maureen O'Mara non perde mai, ma questa volta ha mirato veramente in alto», spiegò Yuki. «Non si può vincere sempre», fece notare Claire. «Lo so, ma Maureen O'Mara sceglie con cura le cause in cui sa di potercela fare», insistette Yuki. Sembrava proprio che alla nostra amica stesse sfuggendo il punto della conversazione, per cui mi sentii in dovere di ribadirlo a chiare lettere. «Yuki, non sei preoccupata del fatto che tua mamma sia al Municipal Hospital?» «No. Il fatto che Maureen O'Mara voglia fargli causa non significa mica che l'ospedale sia in torto: la regola numero uno degli avvocati è che chiunque può far causa a chi vuole per qualsiasi cosa.» Parlando come al solito a raffica, Yuki esclamò: «Sul serio, ragazze! Mi sono fatta togliere l'appendice lì, due anni fa. Sono stata curata da un medico in gambissima e ho avuto un'assistenza impeccabile per tutta la degenza». «A proposito, come sta tua madre?» chiese Claire. «Si è ripresa alla grande», rispose Yuki e rise. «Indovinate come faccio a saperlo: sta cercando di farmi fidanzare con il cardiologo. Che è pelato, ha quarant'anni, le mani piccolissime e l'alito cattivo.» Scoppiammo tutte quante a ridere, mentre Yuki raccontava spiritosamente la scena. Era così brava a imitare la madre che sembrava di vedere e
sentire Keiko in persona. «Le ho detto: 'Non mi piace, mamma', e lei mi fa: 'Yuki. Bellezza non conta. Il dottor Pierce è uomo perbene. Bravo uomo. Bellezza conta solo su riviste di moda'. Allora le ho detto: 'Scusa, ma che discorsi fai? Papà assomigliava a Frank Sinatra'.» «Allora, pensi che ci uscirai o no?» domandò Cindy facendoci sbellicare di nuovo. Yuki scosse la testa. «Se me lo chiede, intendi? Se mia madre gli inserisce di soppiatto il mio numero di cellulare in rubrica?» Ridevamo così forte che la band dovette alzare un po' il volume per farsi sentire. Una ventina di minuti più tardi Yuki si alzò da tavola, rinunciando al caffè e alla torta al cioccolato perché voleva arrivare da sua madre prima della fine dell'orario di visita. Nonostante le battute e le risate, quando ci salutò aveva l'espressione preoccupata. 16 Maureen O'Mara si sentiva pulsare le tempie. Possibile? Sì, era proprio vero: era agitata. Aprì una delle pesanti porte di acciaio e vetro del tribunale del Civic Center ed entrò. L'atrio era grigio e fresco. Era giunto il gran giorno. E la protagonista era lei. Porse la valigetta all'addetto alla sicurezza, che la passò ai raggi X e ne controllò il contenuto mentre lei passava nel metal detector. L'uomo la salutò con un cenno del capo e sorridendo le restituì la valigetta, una Louis Vuitton da settecento dollari che Maureen considerava un portafortuna. «In bocca al lupo per oggi, avvocato.» «Crepi. Grazie, Kevin.» Maureen O'Mara incrociò le dita e le mostrò alla guardia, quindi si fece largo tra la folla nell'atrio e si diresse agli ascensori. Mentre camminava, ripensava a come i suoi soci presuntuosi e pieni di sé le avevano detto che era una follia sfidare un ospedale così grande e ben protetto e cercare di riunire venti richieste di risarcimento individuali in una causa collettiva per negligenza professionale. Ma era un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. I primi pazienti le erano capitati per caso, poi lei aveva notato le somiglianze tra le varie vicende e in breve tempo la cosa aveva preso corpo e si era ingigantita, finché non si era ritrovata a essere l'avvocato cui si rivol-
gevano tutti coloro che si ritenevano danneggiati da parte del Municipal Hospital. La preparazione del processo era stata un po' come radunare un branco di cavalli selvaggi stando in sella a una moto e facendo contemporaneamente giochi di destrezza con delle bocce da bowling, ma alla fine ce l'aveva fatta. Negli ultimi quattordici mesi aveva sgobbato parecchio per mettere insieme tutto il materiale probatorio, raccogliere le innumerevoli deposizioni, preparare i settantasei testimoni fra periti medici, dipendenti presenti e passati dell'ospedale, e mettere d'accordo i suoi assistiti, familiari delle venti vittime. Maureen O'Mara aveva un motivo molto personale per impegnarsi in maniera così totale e indefessa, ma nessuno doveva saperlo. Nessuno doveva sapere perché teneva tanto a quella causa. Condivideva le sofferenze dei suoi assistiti come fossero le sue: quello era un motivo più che sufficiente. Doveva convincere anche la giuria, adesso, se voleva riuscire finalmente a far soffrire anche l'ospedale, nell'unico modo in cui era possibile farlo soffrire, e cioè obbligandolo a sborsare i milioni e milioni di dollari di risarcimento richiesti dai suoi clienti. 17 Maureen O'Mara affrettò il passo per prendere uno degli ascensori del tribunale e trasalì nel vedervi entrare un uomo alto, vestito di grigio scuro, un attimo prima che le porte si chiudessero. Lawrence Kramer le rivolse un bel sorriso, si chinò leggermente e premette il tasto del quarto piano. «Buongiorno, avvocato. Come va?» disse. «Benissimo», rispose Maureen garrula. «E lei?» «Ottimamente. Stamattina oltre alle uova ho mangiato circa un chilo di carne cruda. Una prima colazione da campioni», rispose Kramer. «Non credo sia l'ideale per il cuore», replicò Maureen guardando in tralice l'avvocato che coordinava la difesa dell'ospedale. «Ma lei ha un cuore, Larry?» Kramer rovesciò la testa all'indietro e rise, mentre l'ascensore partiva con uno scossone. Mio Dio, quanti denti! E pure sbiancati! pensò Maureen.
«Certo che ho un cuore. E in aula, grazie a lei, farò una bella seduta di cardio-fitness.» Lawrence Kramer, quarantaduenne, era un difensore di grande successo: brillante, bello, elegante e molto telegenico. Maureen O'Mara lo aveva visto varie volte a Hardball, intervistato da Chris Matthews a proposito di uno dei suoi clienti, un giocatore di football accusato di violenza carnale. Kramer aveva tenuto testa a Matthews con grande bravura e Maureen non si era sorpresa: Kramer era un grande oratore. Adesso si apprestava a difendere il San Francisco Municipal Hospital in una causa che rischiava di far finire il nosocomio in amministrazione controllata o addirittura di farlo chiudere. E, cosa ancora più importante, lo avrebbe difeso contro di lei. L'ascensore si fermò al secondo piano ed entrarono altre tre persone. Maureen si trovò costretta ad avvicinarsi ancora di più a Kramer, nella cabina rivestita di mogano, benché trovarsi gomito a gomito con l'uomo che si accingeva a cercare di distruggere sia lei sia i suoi assistiti non le piacesse. Ebbe un attimo di dubbio, un brivido di paura. Se la sarebbe cavata? Non aveva mai affrontato un caso così complesso, né conosceva qualcuno che avesse mai tentato un'impresa simile. Era un processo senza precedenti, per lei come per Larry Kramer. Arrivato al quarto piano, l'ascensore si fermò e Maureen uscì prima del suo avversario: le pareva quasi di sentire sulla schiena il suo sguardo, come se dagli occhi di Kramer partissero potenti scariche elettriche. Guardando ognuno dritto davanti a sé, i due legali si incamminarono uno accanto all'altro nell'ampio corridoio. I loro passi riecheggiavano sul marmo. Maureen si concentrò. Benché Kramer avesse dieci anni di più, si sentiva alla pari con lui: anche lei era laureata a Harvard, anche lei aveva una bella parlantina. E, al contrario di Kramer, aveva anche ragione. Sono nel giusto, sono nel giusto. Ripetersi quel mantra le faceva bene quanto una bella doccia fresca e rilassante, le dava tono prima del processo più importante di tutta la sua carriera. Il processo per cui forse sarebbe stata invitata anche lei a Hardball. Giunse sulla porta aperta dell'aula pochi secondi prima del suo avversario. Vide che era già affollatissima.
Al tavolo dell'accusa, sulla destra, il suo collega e codifensore Bobby Perlstein stava rivedendo i propri appunti e l'assistente Karen Palmer stava preparando documenti e prove. Entrambi si voltarono a guardarla e le sorrisero. Anche Maureen sorrise, andando verso i colleghi. Passò vicino a molti dei suoi clienti, che salutò chi con un sorriso, chi con una strizzatina d'occhio, chi con la mano. I loro sguardi pieni di gratitudine la rincuorarono. Sono nel giusto, sono nel giusto. Non vedeva l'ora che il processo avesse inizio. Il grande giorno era arrivato e lei era pronta. 18 Era lunedì e Yuki si trovava al pianoterra del tribunale al 400 di McAllister Street per depositare un atto, quando le venne in mente che stava per cominciare il processo di Maureen O'Mara contro il San Francisco Municipal Hospital. In quanto avvocato, era molto interessata. Guardò l'orologio, aggirò il gruppetto di persone in attesa davanti agli ascensori e imboccò le scale. Poco dopo, con un leggero affanno, entrò nell'aula in fondo al corridoio del quarto piano. Vide che l'udienza era presieduta dal giudice Bevins. Bevins, settantenne, portava i lunghi capelli bianchi raccolti in una coda di cavallo ed era considerato giusto ma umorale, imprevedibile. Mentre si sedeva in un posto libero vicino alla porta, Yuki notò un uomo bruno, in pantaloni beige, giacca scura, camicia rosa e cravatta classica, dall'altra parte dell'aula. Sembrava in preda all'ansia e giocherellava nervosamente con il cinturino dell'orologio. Le ci volle un attimo per riconoscerlo e dargli un nome: era Dennis Garcia, il medico che aveva ricoverato sua madre al pronto soccorso. È logico: sarà uno dei testimoni, pensò. Smise di osservare Garcia, perché un improvviso brusio l'avvertì che Maureen O'Mara si era alzata e stava per prendere la parola. Era alta e portava un tailleur pantaloni di Armani e scarpe nere dal tacco basso. Yuki calcolò che doveva essere una taglia 46. Aveva un bel viso determinato e folti capelli rosso tiziano, che le scendevano sulle spalle e ondeggiavano a ogni suo movimento. La bella avvocatessa si rivolse alla corte, salutò i membri della giuria, si
presentò e cominciò l'esposizione introduttiva sollevando una grossa fotografia montata su un cartone, la prima di una pila che era posata sul tavolo davanti a lei. «Vi prego di osservare bene questa foto. Questa giovane donna si chiamava Amanda Clemmons», esordì Maureen O'Mara mostrando il ritratto di una bionda con le lentiggini di circa trentacinque anni. «Nel maggio scorso, Amanda Clemmons si trovava nel giardino della sua casa a giocare a basket con i suoi tre bambini, tre maschi», continuò Maureen O'Mara. «Simon Clemmons, suo marito nonché padre dei suoi figli, era morto in un incidente d'auto soltanto sei mesi prima. Amanda non era molto brava a basket, ma sapeva di dover fare sia da madre sia da padre ai tre ragazzi, Adam, John e Chris. E ci riusciva molto bene. Cercate di immaginare questa donna coraggiosa», disse Maureen accingendosi a rievocare la scena. «Indossa un paio di short bianchi e una maglietta blu e oro dei Warriors e corre con la palla, smarcandosi dai figli, per tirare al canestro fissato al muro del garage. John Clemmons mi ha raccontato che la sua mamma rideva e li prendeva in giro quando, tutto a un tratto, inciampò e cadde. Mezz'ora dopo arrivò un'ambulanza e la portò al pronto soccorso, dove le fecero una radiografia e le diagnosticarono una frattura alla gamba sinistra. Sarebbe dovuto essere un incidente come tanti altri nella vita di Amanda Clemmons», proseguì Maureen O'Mara. «Amanda era una donna giovane, forte e robusta. Una donna abituata a combattere, un'autentica Madre Coraggio. Invece quel ricovero al San Francisco Municipal Hospital fu per lei l'inizio della fine. Vedete questa foto? È quella che i suoi parenti usarono per il funerale.» 19 Maureen sentì la propria rabbia crescere esponenzialmente a mano a mano che raccontava la storia di Amanda Clemmons. Benché non l'avesse mai conosciuta di persona, le sembrava di parlare di una sua cara amica. Tenuto conto di quanto lavorava, Maureen non aveva molti amici. Provava gli stessi sentimenti per tutti i clienti di quel processo, per tutte le vittime dell'ospedale, come soleva chiamarle, di cui aveva imparato a conoscere l'ambiente e le famiglie. E di cui sapeva esattamente come erano morte, al San Francisco Municipal Hospital. Porse la foto di Amanda Clemmons alla sua assistente, si voltò di nuovo
verso i giurati e lesse loro negli occhi che trovavano quella storia molto interessante e non vedevano l'ora di ascoltare il resto. «Il pomeriggio in cui Amanda Clemmons si ruppe la gamba, fu portata al pronto soccorso del Municipal Hospital, dove le vennero fatte prima una radiografia e poi l'ingessatura», riprese. «Una procedura di ordinaria amministrazione. Poi fu trasferita in una stanza dove passò la notte. Dopo la mezzanotte, e prima dell'alba, le fu somministrata una dose letale di ciclofosfamide, un farmaco per chemioterapia, anziché di Vicodin, un antidolorifico che l'avrebbe aiutata a dormire meglio. In quella notte terribile, Amanda morì di una morte dolorosa e assurda, signore e signori, ed è nostro dovere chiederci perché. Perché questa donna fu strappata prematuramente alla vita? Durante questo processo, vi parlerò di Amanda e di altre diciannove persone che morirono in seguito ad analoghi errori farmacologici. Posso spiegarvi sin d'ora il vero motivo della loro morte, tuttavia essa fu il risultato di un peccato di avidità, della logica del profitto. Queste persone morirono perché il San Francisco Municipal Hospital mette sistematicamente l'efficienza dei costi davanti alle esigenze sanitarie dei pazienti. Vi racconterò molte cose sul Municipal Hospital che preferireste non sapere», annunciò Maureen O'Mara passando in rassegna con lo sguardo la giuria. «Vi parlerò di procedure violate ripetutamente, di personale poco qualificato, mal pagato e costretto a fare orari impossibili. Tutto questo per motivi di bilancio, per far quadrare i conti, per mantenere margini di profitto fra i più alti di tutte le aziende ospedaliere di San Francisco. Purtroppo, i venti pazienti deceduti da me rappresentati sono solo la punta dell'iceberg...» Kramer balzò in piedi. «Discutibile, vostro onore! Finora ho avuto pazienza, ma le argomentazioni dell'accusa sono eccessivamente polemiche e diffamatone...» «Obiezione accolta. Non mi provochi, avvocato», disse il giudice Bevins a Maureen O'Mara, scuotendo la testa. «La prossima volta che esagera, le darò una multa. E le sanzioni successive saranno ancora più severe.» «Chiedo scusa, vostro onore», disse Maureen O'Mara. «Starò più attenta.» Ma in realtà era molto soddisfatta. Aveva detto quel che voleva dire e Kramer non poteva farci nulla, ormai. La giuria aveva sicuramente recepito il messaggio. Il Municipal Hospital è un posto pericoloso, scandalosamente pericoloso. In piedi davanti al banco della giuria, salda come una roccia, le dita in-
trecciate, Maureen riprese: «Sono qui in rappresentanza dei miei clienti, dei morti e dei loro parenti, vittime della negligenza professionale degli operatori sanitari, dell'incuria e dell'avidità del Municipal Hospital». Poi si voltò verso il pubblico in aula e disse: «Per favore, alzi la mano chi ha perso una persona cara al Municipal Hospital». Nell'aula si alzarono decine di mani e si levò un brusio. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto per fare in modo che questi cosiddetti 'incidenti' non si ripetano più.» 20 Quando il giudice Bevins ebbe riportato il silenzio, Yuki staccò lentamente lo sguardo da Maureen O'Mara e lo spostò sul dottor Garcia, seduto dall'altra parte dell'aula. Sperava di leggergli in faccia indignazione e rabbia, ma non ve ne trovò traccia. Piuttosto, sulle labbra gli affiorava una specie di sorrisetto sarcastico e nel complesso la sua espressione era gelida come un panorama artico. Di colpo Yuki si sentì attanagliare dalla paura e per un momento che le parve lunghissimo non riuscì neppure a muoversi. Aveva commesso un errore terribile! Ti prego, fa' che non sia troppo tardi. Si alzò, aprì la porta dell'aula e non appena fu nel corridoio accese il cellulare e compose il numero dell'ospedale. Il menu registrato le offrì varie opzioni. In preda a un'ansia crescente, premette i numeri che le venivano indicati. Keiko era nella camera 421 o 431? Non se lo ricordava più! Aveva un'amnesia. Premette lo zero e, in attesa di un operatore, dovette sorbirsi una versione annacquata della Ragazza di Ipanema. Doveva assolutamente parlare con sua madre. Doveva assolutamente sentire la sua voce. «Vorrei parlare con Keiko Castellano», disse all'operatore quando finalmente le rispose. «È una paziente. Mi passi la sua camera, per favore. È la numero 421 o 431.» Il segnale di libero venne interrotto quasi subito dalla voce allegra di Keiko, solo leggermente disturbata. Yuki si coprì un orecchio con la mano e si premette il cellulare sull'altro. Il corridoio si stava riempiendo di gente: il giudice aveva concesso una
pausa. Yuki e Keiko continuarono a parlare, anzi, a litigare, ma alla fine fecero la pace come sempre. «Sto bene, Yuki. Smettila di preoccuparti», disse Keiko. «Okay, mamma, okay. Ti richiamo più tardi.» Mentre premeva il tasto di fine chiamata, si sentì chiamare per nome. Si voltò e vide Cindy, agitatissima, che si faceva largo sgomitando tra la folla. «Yuki!» le disse con il fiatone. «Eri in aula? Hai sentito l'arringa della O'Mara? Che cosa ne pensi, dal punto di vista professionale?» «Be', gli avvocati amano dire che i processi si vincono o si perdono alle primissime battute», le rispose Yuki con le orecchie che le pulsavano. «Aspetta un momento», disse Cindy scrivendo in gran fretta sul suo taccuino. «Questa mi piace. La userò come inizio del mio articolo. Continua pure...» «E l'introduzione di Maureen O'Mara è stata ottima, in effetti», riprese Yuki. «Ha sferrato un attacco all'ospedale di cui difficilmente la giuria si dimenticherà. Non me ne dimenticherò nemmeno io, ti confesso. Ha accusato il Municipal Hospital di ricorrere a personale malpagato, che lavora male, somministra i farmaci sbagliati e perciò causa la morte dei pazienti. Cristo! Mi ha messo una paura tale che ho chiamato mia madre e le ho proposto di trasferirsi al Saint Francis.» «Veramente?» «Sì, ma lei non ne vuole sapere. Anzi, si è incavolata», raccontò Yuki in tono incredulo. «'Yuki, vuoi farmi prendere colpo? Qui io trovo benissimo. Dottore mi piace, stanza mi piace. Portami bigodini e camicia da notte rosa con draghi.'» Yuki rise e scosse la testa. «Giuro che si comporta come se fosse alle terme. Stavo per dirle: 'Mamma, per caso vuoi che ti porti anche la sedia a sdraio e la crema abbronzante?' Non volevo spaventarla, ma la O'Mara mi ha messo una paura terribile. Hai visto quanta gente ha alzato la mano? Mi è venuta la pelle d'oca.» «Perché non fai comunque un salto all'ospedale a vedere come sta?» chiese Cindy. «Sì, ci ho pensato. Ma se ci vado e davvero le faccio 'prendere colpo'?» Cindy annuì, comprensiva. «Quando la dimettono?» «Il dottor Pierce ha parlato di giovedì mattina. Prima le devono fare la risonanza. 'Dottor Pierce molto bravo. Dottor Pierce uomo perbene!'» «Ah, già! È quello con cui ti vuol fare fidanzare?»
«Proprio lui.» «Sei più tranquilla, ora?» «Sì. Più tardi la vado a trovare, così le tengo un po' compagnia.» «Cerchi una scusa per startene in giro tutto il giorno?» «In effetti dovrei tornare in studio», disse Yuki poco convinta. «Ma voglio sentire anche la dichiarazione introduttiva di Kramer. Non posso perdermela!» 21 Cindy osservò affascinata Larry Kramer che si alzava, elegantissimo nel suo bel vestito grigio, per andarsi a piazzare al centro dell'aula. Con i capelli castani pettinati all'indietro a sottolineare il mento volitivo, sembrava un marinaio che scruta l'orizzonte con il vento che gli soffia sulla faccia. Un uomo che guarda sempre avanti, pensò Cindy. Kramer salutò la corte, quindi rivolse un sorriso affabile ai giurati, ringraziandoli di aver accettato di pronunciarsi su quel caso. «Su una cosa l'avvocato O'Mara ha ragione», disse poi posando le grandi mani sulla balaustra davanti ai giurati. «È verissimo che questo processo nasce da un peccato di avidità. Solo che si tratta dell'avidità dei suoi clienti. Non nego che la morte di persone innocenti sia una tragedia», continuò. «Tuttavia, i loro familiari si sono rivolti a questa corte con una sola cosa in mente: il denaro. Vogliono rifarsi della morte dei loro cari. Vogliono un sacco di soldi.» Kramer si appoggiò alla balaustra e guardò in faccia i giurati. «Alla maggior parte della gente questo potrà sembrare cinico, o vendicativo, o mercenario, ma la colpa non è interamente dei litiganti.» Kramer si allontanò dalla balaustra per spostarsi al centro dell'aula, apparentemente assorto nei suoi pensieri. Poi si girò nuovamente verso la giuria. «So che cosa significa perdere una persona cara. Mio padre e mio figlio sono morti entrambi in ospedale. Mio figlio a soli tre giorni di vita: mia moglie e io ci vedemmo strappare appena nato quel dono, quella benedizione. Mio padre era il mio migliore amico, il mio mentore, il mio più accanito sostenitore. Non passa giorno senza che io li ricordi entrambi con enorme nostalgia.» L'espressione tetra di Kramer si ammorbidì leggermente e l'avvocato difensore cominciò a camminare avanti e indietro, a ritmo ipnotico, sotto gli
occhi dei giurati. «Sono sicuro che abbiamo vissuto tutti la triste esperienza della perdita di una persona cara. È naturale, in questi casi, essere tentati di dare la colpa a qualcuno», riprese Kramer. «Ci si dispera, ci si infuria e, dopo un po', si trasforma la rabbia in qualcosa di positivo, ricordando i momenti felici che si sono passati insieme allo scomparso. Ci si riconcilia con il fatto che l'amore non può tutto, che la vita talvolta è ingiusta, o che le vie del Signore sono infinite e misteriose. E, in un modo o nell'altro, si ricomincia. Si torna a vivere. Volete sapere perché i querelanti non ci stanno riuscendo?» domandò Kramer posando di nuovo una mano sulla balaustra e concentrando tutta l'attenzione sui giurati. «Non riescono a elaborare il lutto perché qualcuno li ha portati sulla cattiva strada, una strada indegna di loro. Lo studio legale Friedman, Bannion & O'Mara. Il loro avvocato, Maureen O'Mara.» Puntò il dito contro la sua avversaria. «Per causa sua, questi sventurati hanno finito per considerare le loro tragedie personali come un'opportunità di guadagno. Avete presente nei film, quando il rapinatore dice: 'Fuori i soldi? Ecco a che cosa equivale questo processo farsa. Ecco perché tante persone hanno alzato la mano poco fa.» 22 Cindy si coprì la bocca con la mano per trattenere un'esclamazione, esterrefatta per l'attacco così virulento e personale di Kramer nei confronti di Maureen O'Mara e del suo studio. E pensare che quella era soltanto la prima udienza! Maureen O'Mara scattò in piedi. «Obiezione!» gridò. «Vostro onore, l'affermazione della difesa è provocatoria e pregiudizievole, oltre che personalmente offensiva. Chiedo che sia cancellata dagli atti.» «Obiezione accolta», disse il giudice. «Signora Campbell, per cortesia cancelli l'ultima battuta dell'avvocato Kramer. Avvocato Kramer, chi va con lo zoppo...» «Vostro onore?» «Moderi i toni e continui, avvocato. Avrei potuto imporle un'ammenda, se non peggio.» Kramer annuì, mormorò: «Sì, vostro onore» e con un sorriso tirato si rivolse nuovamente alla giuria. «Signore e signori, durante questo processo vi verranno presentate ab-
bondanti prove del fatto che il San Francisco Municipal Hospital è un'istituzione molto seria e rispettata», continuò Kramer. «Vi verrà spiegato che ha adottato procedure e protocolli più severi della media degli ospedali statunitensi e che li applica rigorosamente. Ciò non significa che l'ospedale sia perfetto. Il personale è costituito da esseri umani, i quali talvolta commettono errori umani. Ma denunciarne gli errori è un conto, parlare di malasanità e negligenza professionale un altro.» Kramer fece una pausa a effetto, che utilizzò per guardare di nuovo negli occhi i giurati, uno per uno, come se parlasse a ciascuno di loro di qualcosa di molto personale. «Temo che questo processo susciterà forti emozioni, perché riguarda la morte di numerose persone, ma il giudice vi spiegherà che non potete lasciarvi confondere dall'uso dell'emotività che farà l'accusa. Soppesate con cura i fatti che vi verranno presentati: è questo il compito per il quale siete stati scelti. E in base all'esame dei fatti vi convincerete che l'ente da me rappresentato non è colpevole di negligenza professionale e, anzi, svolge un servizio straordinariamente prezioso per la nostra città.» Mentre Kramer ringraziava la giuria e tornava a sedersi, Cindy immaginò il titolo del suo articolo in prima pagina: MALASAN1TÀ: IL SAN FRANCISCO MUNICIPAL HOSPITAL SOTTO PROCESSO, con le foto delle venti vittime subito sotto e il rimando a pagina tre per gli approfondimenti. Era una vicenda da cui si sarebbe facilmente potuto trarre un romanzo o un film. Erano morte venti persone. E, che l'ospedale fosse colpevole o meno, il materiale probatorio avrebbe scandalizzato l'opinione pubblica. La gente si sarebbe immedesimata e chiunque fosse ricoverato in quell'ospedale avrebbe tremato. Che diavolo, era venuta paura anche a lei, assistendo alla prima udienza. 23 Era metà mattina, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere sulla Cadillac all'Opera Plaza Garage. Ero appena tornata da una riunione con il mio capo, Tracchio, che mi aveva annunciato che intendeva autorizzare il trasferimento di alcuni dei miei collaboratori della Omicidi. Non aveva chiesto il mio parere, mi aveva semplicemente informata.
Nell'appendere la giacca dietro la porta, lo rivedevo che mi enumerava i motivi di quella decisione contando sulla punta delle dita. Tagli di bilancio. Troppi straordinari. Bisogna rinforzare il dipartimento tale e talaltro. È solo temporaneo, Boxer. Tutte balle, avrei voluto rispondergli. Ero frustrata. E avevo anche mal di testa, un dolore pulsante dietro l'occhio destro. «Raccontami qualcosa di bello», dissi a Jacobi quando entrò nel mio ufficio e si sedette pesantemente sulla mia seconda scrivania, quella addossata al muro. Poco dopo arrivò anche Conklin che, incrociati i piedi, si appoggiò con grazia felina allo stipite della porta. Mi ci volle un certo sforzo per non mettermi a fissarlo con occhi sognanti. «Non farti illusioni», borbottò Jacobi. «Okay, Warren. Non mi aspetto niente di niente. Spara.» «Abbiamo trasmesso i dati relativi alla ragazza della Cadillac a tutte le forze di polizia che aderiscono al National Crime Information Center.» Jacobi fu costretto a interrompersi da un colpo di tosse, strascico della ferita al polmone destro riportata durante la sparatoria in cui eravamo rimasti coinvolti entrambi. «Statura, peso, età approssimativa, abbigliamento, colore di capelli, occhi eccetera», aggiunse. «Ci è giunta una serie di segnalazioni, che abbiamo debitamente controllato», disse Conklin con un lampo di ottimismo nello sguardo. «E cosa avete scoperto?» domandai. «Solo un paio di corrispondenze approssimative, che poi sono risultate irrilevanti. Una buona notizia c'è, però. Il laboratorio ha trovato un'impronta su una delle scarpe della vittima.» Drizzai le orecchie. «Un'impronta parziale», precisò Jacobi. «Ma è già qualcosa. Se riuscissimo a trovare a chi o cosa corrisponde... Il problema è che per ora non risulta niente.» «Allora come pensate di muovervi?» «Ho pensato che la ragazza della Cadillac aveva una testa niente male. Fra taglio e colore, doveva esserle costata almeno trecento dollari di parrucchiere», disse Conklin. Annuii. «Già.» Che cosa ne sapeva lui di tagli di capelli da trecento dollari? «Pensavamo di fare il giro dei parrucchieri di lusso. Magari qualcuno la
riconosce. Se sei d'accordo, naturalmente.» «Fa' vedere la foto», dissi tendendo la mano. Conklin mi porse un ritratto della morta: viso angelico, capelli biondi che ricadevano morbidi sul lettino di acciaio inossidabile dell'obitorio, lenzuolo che la copriva fino alle clavicole. Mio Dio! Chi era quella ragazza? Come mai nessuno ne aveva denunciato la scomparsa? Perché, a quattro giorni dal decesso, non avevamo ancora neppure l'ombra di un indizio? Appena i due investigatori furono usciti dal cubo di vetro che mi serviva da ufficio, chiamai Brenda, che si sedette pronta a prendere appunti. Cominciai a dettarle un resoconto della riunione con Traccino, ma facevo fatica a concentrarmi. Avrei voluto fare qualcosa, qualcosa di veramente utile. Avrei voluto essere fuori, insieme a Conklin e Jacobi, andare anch'io a mostrare la foto della ragazza della Cadillac ai parrucchieri di lusso e a indagare nei quartieri giusti per trovare indizi che portassero a qualcosa. Mi sarei consumata volentieri le suole delle scarpe, pur di risolvere quel caso. Stare dietro una scrivania a dettare insulsi memorandum che non servivano a nessuno mi sembrava una perdita di tempo. 24 Quella sera verso le sette e mezzo mi telefonò Claire. «Lindsay, scendi un momento, per piacere. Voglio farti vedere una cosa.» Posai il Chronicle con l'articolo sul processo contro l'ospedale firmato da Cindy, decisa a chiudere bottega per quel giorno, e scesi di corsa all'obitorio sperando in una svolta, in un cambiamento o comunque in qualche novità. Quando entrai, una delle assistenti di Claire, una ragazza molto in gamba di nome Everlina Ferguson, stava chiudendo nella cella frigorifera la vittima di una sparatoria. Non era un bello spettacolo. Claire si stava lavando le mani. «Mezzo minuto e sono da te», mi disse. «Anche uno intero», risposi. Mi guardai intorno finché non trovai le foto della ragazza della Cadillac attaccate al muro con le puntine da disegno. Quel caso mi ossessionava. «Che cosa hai scoperto sul profumo?» gridai. «Stranamente, ne abbiamo trovato tracce solo nella zona dei genitali»,
rispose Claire. Poi chiuse il rubinetto, si asciugò le mani, tirò fuori dal piccolo frigorifero sotto la scrivania due bottiglie di Perrier, le stappò e me ne porse una. Quindi riprese: «Tra le ragazze è di moda profumarsi anche la passerina, quindi normalmente non l'avrei neppure citato nel referto, ma questa si era profumata solo lì: non c'era traccia di profumo né nella scollatura, né ai polsi o dietro le orecchie». Facemmo tintinnare le due bottiglie e bevemmo un lungo sorso d'acqua ciascuna. «Mi è sembrato strano, così ho mandato un campione al laboratorio», continuò Claire dopo un po'. «Purtroppo però non sono riusciti a identificare il profumo e me lo hanno rimandato, dicendo che non avevano né l'attrezzatura, né il tempo per analizzarlo.» «Insomma, non hanno tempo per risolvere il caso», commentai di malumore. «Qui da noi è sempre così: non si riesce a fare tutto», disse Claire cercando tra i mucchi di fogli sulla scrivania. «Però mi hanno mandato i risultati delle altre analisi. Aspetta un attimo. Eccoli qui.» Con gli occhi che brillavano, prese una busta beige, ne estrasse un foglio e, puntandovi sopra l'indice, spiegò: «La macchia sulla gonna era effettivamente di liquido seminale e corrispondeva a uno dei due tamponi vaginali». Seguii il dito di Claire che scorreva i risultati delle analisi tossicologiche e si fermava sulla sigla ETOH, alcol etilico. «Ecco la cosa che volevo mostrarti. Aveva zero uno tre di alcol nel sangue.» «Era sbronza», dissi. «Già, e non solo. Guarda qua. Era positiva anche alle benzodiazepine. È raro trovare alcol e Valium in circolo contemporaneamente, per cui ho chiesto che ripetessero le analisi del sangue per capire di che sostanza si trattava esattamente, e hanno trovato tracce di Roipnol.» «Oh, no! La droga degli stupratori.» «Sì. La poveretta non si rendeva conto di dov'era, chi era, né di che cosa le stava succedendo, e forse addirittura nemmeno che le stava succedendo qualcosa.» I pezzi del macabro puzzle cominciavano ad andare a posto, ma ancora non riuscivo a vedere il quadro completo. La ragazza della Cadillac era stata drogata, violentata e assassinata con un'abilità e un'efficienza inconcepibili. Claire si voltò a guardare le foto sulla parete. «Non mi stupisce che non
avesse ecchimosi vaginali o ferite da difesa, Lindsay. Non avrebbe potuto difendersi nemmeno se avesse voluto. Non aveva chance, poverina.» 25 Salii sulla mia Explorer e tornai a casa. Era buio e ripensavo alla vittima della Cadillac da donna, non da poliziotto. Dovevo cercare di vedere il mondo con i suoi occhi per capire che cosa le era successo. Ma era spaventoso immaginarla così vulnerabile, così inerme di fronte alla volontà di due esseri tanto violenti, più animali che uomini. Staccai il Nextel dal gancio alla cintura e chiamai Jacobi per aggiornarlo su quel che mi aveva riferito Claire. Rispose al primo squillo. «Probabilmente i due vogliono andare a letto con lei. Lei non ci sta, loro insistono», dissi mentre frenavo per fermarmi a un semaforo. «Lei continua a respingerli e allora uno dei due le mette il Roipnol nello chardonnay.» «Ho capito», fece Jacobi. «Così lei non può più opporre resistenza, magari sviene e loro la spogliano, la profumano e se la scopano.» «Dopo viene loro paura che la ragazza si ricordi tutto», dissi continuando il ragionamento del mio ex collega. «Magari completamente stupidi non sono. Anzi, forse sono furbi e decidono di ammazzarla senza lasciare troppe tracce. Uno le si siede addosso, l'altro le mette un sacchetto di plastica in testa per sicurezza. Un omicidio pulito, senza spargimento di sangue.» «È molto verosimile, Boxer. Magari, dopo che è morta, se la sono scopata di nuovo: un po' di necrofilia non guasta mai», commentò Jacobi. «E poi? Perché le hanno messo addosso cinquemila dollari di vestiti e l'hanno trasferita sulla Seville di Guttman?» «Quella è la parte più assurda», dissi. «Soprattutto la faccenda dei vestiti. Non capisco proprio. I vestiti non mi quadrano.» «Claire non ti ha dato i risultati del test del DNA?» «Non li ha ancora. Sai com'è, se la ragazza della Cadillac fosse la moglie del sindaco, a quest'ora qualcosa sapremmo. Invece, dato che nessuno ne ha nemmeno denunciato la scomparsa...» «Era talmente bella...» disse Jacobi. Percepii nella sua voce una traccia di tristezza, che forse era un'ammissione di solitudine. «Prima o poi qualcuno dovrà pur accorgersi che è scomparsa.»
26 Aprii la porta di casa e fui accolta con grandi effusioni, peraltro ricambiate, da Martha. «Ciao, tesoro! Come va?» Abbaiando e scodinzolando, la mia border collie mi accoglieva con l'entusiasmo riservato di solito ai reduci dal fronte. L'abbracciai e, benché fossi esausta, mi accinsi a portarla fuori: la gioia di correre con il mio cane era il miglior incentivo che esistesse a tenermi in forma. Le misi il guinzaglio e poco dopo attraversammo di corsa Missouri Street. Facemmo un lungo giro e, dopo una discesa e una salita, sentii che le endorfine mi erano entrate in circolo e finalmente cominciai ad avere una visione un po' più ottimistica delle indagini sull'omicidio della ragazza della Cadillac. In quel preciso momento il DNA del colpevole veniva analizzato in laboratorio. C'erano poliziotti che battevano la città con la foto della vittima in mano. Qualche speranza c'era. Forse a giorni qualcuno avrebbe denunciato la sua scomparsa alla polizia. Oppure si sarebbe fatto avanti un testimone che l'aveva riconosciuta nella foto pubblicata sul Chronicle o sul nostro sito web. Una volta che fossimo riusciti a darle un nome, avremmo avuto anche la chance di risolvere il caso. Soprattutto, avremmo potuto smettere di chiamarla «la ragazza della Cadillac». Mezz'ora dopo ero di nuovo a casa. Tracannai una birra fresca e mangiai un tramezzino di pane a lievitazione naturale con gruviera e maionese davanti al televisore, guardando le ultime notizie dal mondo trasmesse da CNN, CNBC e FOX. Poi mi spogliai, aprii il rubinetto della doccia e controllai la temperatura dell'acqua con la mano. In quel momento squillò il telefono. Manco a farlo apposta. Cosa c'è adesso? Un altro omicidio? Oppure no, meglio, una svolta nelle indagini. Vidi il nome sul display e con il cuore che mi batteva fortissimo risposi con apparente nonchalance: «Oh, ciao». «Mio Dio quanto sei bella.» «Non ho il videotelefono, Joe.» «Ma io so come sei, Lindsay.»
Risi. «Da come ridi, direi che sei nuda», continuò il mio compagno. Non era chiaroveggente: aveva sentito lo scroscio della doccia. Chiusi il rubinetto e mi infilai l'accappatoio. «Ti trovo estremamente perspicace», dissi. A quel punto anch'io me lo immaginavo nudo. «Cara la mia donna nuda, ti ho chiamata per avvertirti che corre voce che sarò nella tua città il prossimo weekend. Tutto il weekend.» «Mi fa molto piacere, perché ho voglia di vederti», dissi con voce improvvisamente sensuale. «E di recuperare un po' del tempo perduto.» Continuammo su questo tono finché non mi ritrovai tutta sudata e ansimante. Prima di salutarci, ci mettemmo d'accordo su quel che avremmo fatto insieme nel fine settimana. Mi tolsi l'accappatoio, entrai nella doccia e, con l'acqua calda che mi sferzava piacevolmente la pelle, cantai a gola spiegata My Guy, trovando una notevole soddisfazione per il modo in cui la mia voce riecheggiava sulle pareti piastrellate del mio studio di registrazione privato. Uao! Un bell'applauso per la pop star Lindsay Boxer! Per la prima volta da parecchi giorni, riuscii a dimenticare il lavoro. Mi sentivo bene, almeno per il momento. E mi sentivo anche bellissima. Molto presto avrei rivisto il mio amore. 27 Il capo rimase visibilmente sorpreso quando bussai alla porta semiaperta del suo ufficio, una grande stanza con i muri rivestiti di pannelli di legno scuro e una gigantografia del Golden Gate Bridge che occupava quasi tutta la parete di fronte alla scrivania. «Boxer», esordì con la faccia seria. Poi, sorridendo, aggiunse: «Entra, entra». Mi ero preparata il discorso durante la notte, me l'ero ripetuto per tutta la mattina e avevo le prime parole bell'e e pronte, già sulla punta della lingua. «Capo, ho un problema.» «Prendi una sedia e accomodati, Boxer. Sentiamo.» Accettai l'invito, ma, appena fui seduta e guardai Tracchio in faccia, dimenticai le frasi che mi ero preparata con cura, i convenevoli e gli abbellimenti, e sputai subito il rospo.
«Non mi piace fare il capo: voglio tornare a fare indagini a tempo pieno.» Del sorriso iniziale di Tracchio non restava più neanche l'ombra. «Come, scusa? Non ti capisco.» «Mi sveglio alla mattina, mi ricordo che devo dare ordini a un sacco di gente e mi sento male. Non mi piace fare il tenente, stare in ufficio», spiegai. «Preferisco il lavoro sul campo, le pattuglie, i pedinamenti: lo sai anche tu che oltre tutto mi riescono pure meglio. È la verità, e tu lo sai.» Per un paio di secondi Tracchio rimase talmente impassibile che mi venne addirittura il dubbio che non avesse sentito quello che dicevo. In realtà, speravo che stesse pensando a tutti i casi che avevo contribuito a risolvere. Alla fine, però, diede un pugno sulla scrivania con tanta forza che, senza volere, indietreggiai di un paio di centimetri, con la sedia e tutto. Con la schiuma alla bocca, cominciò a farmi la predica: «Non so che cos'hai fumato, Boxer, ma quel lavoro è tuo e tu lo devi fare. Zitta! Non interrompermi! Sai quanti uomini hai scavalcato, con quella promozione? Sai quanti colleghi maschi ce l'hanno con te ancora adesso perché gli sei passata avanti? Ti abbiamo promosso perché hai il dono della leadership, Boxer. Sei responsabile della squadra Omicidi, perciò fai il tuo lavoro e taci. Fine della conversazione». «Ma, capo...» «Cosa c'è? Fai in fretta, per favore, che ho da fare.» «Sul campo rendo di più. Riesco a risolvere i casi, a trovare gli assassini: dal curriculum si vede, no? In ufficio invece mi sembra di girare a vuoto. Se ci sono un sacco di colleghi che vorrebbero essere al mio posto, perché non promuovi uno di loro? È meglio che il mio lavoro lo faccia uno che è contento di farlo, ti pare?» «Okay, visto che hai sollevato l'argomento, ti dirò un paio di cosette», replicò Tracchio. Aprì un cassetto della scrivania, tirò fuori un sigaro, ne tagliò la punta con una specie di ghigliottina in miniatura e lo accese, cominciando a emettere sbuffi di fumo azzurrino. Rimasi in attesa, con il fiato sospeso. «Hai ancora spazio per crescere in questo lavoro, Boxer. Il nostro dipartimento è l'ultimo in classifica, per numero di casi risolti. L'ultimo di tutti gli Stati Uniti! Questo significa che devi sviluppare le tue competenze dirigenziali, aiutare i colleghi con la tua esperienza, contribuire a migliorare l'immagine del dipartimento. Devi diventare un esempio di professionalità
al servizio del bene comune, partecipare alle attività di reclutamento e formazione. Da questo punto di vista sei uno zero, Boxer. E non ho finito! Non molto tempo fa hai avuto quell'incidente in cui per un pelo non lasciavi le penne. Abbiamo rischiato di perderti definitivamente. Quella sera non eri nemmeno in servizio. Non hai avuto un briciolo di autocontrollo: Jacobi ti propone di accompagnarlo in un appostamento e tu accetti come se niente fosse?» Tracchio si alzò, girò su se stesso, posò le mani sullo schienale della poltrona e mi guardò esasperato. «Vuoi sapere una cosa? Non capisco proprio cos'hai da protestare. Tu fai vita facile. Che cosa diresti, se fossi al mio posto?» Cominciò a elencare i vari dipartimenti uno per uno, contando sulle dita grassocce. Io lo osservai impassibile. «Omicidi, Rapine, Narcotici, Antimafia e Reati Speciali. A me toccano tutti. Mi tocca anche trattare con il sindaco e il governatore, e se credi che sia come la passeggiata sul tappeto rosso la notte degli Oscar...» «Ho capito, capo. Sei stato fin troppo chiaro.» «Senti, fammi un favore, a me, a te stessa e a tutti quanti: piantala di brontolare. La tua richiesta è stata respinta, tenente. Non ho altro da dire.» Mortificata come una bambina, mi alzai e uscii. Ero umiliata e incavolata quanto bastava per dare le dimissioni, ma ero anche abbastanza lucida da rendermi conto che non era il caso: Tracchio aveva ragione, le cose che aveva detto erano tutte vere. Avevo ragione anch'io, però. Partecipare alle attività di reclutamento e formazione? Sviluppare le mie competenze dirigenziali? Non era per questo che ero entrata in polizia. Volevo tornare a lavorare nelle strade di San Francisco. 28 Cindy Thomas era seduta in ultima fila, nell'aula 4A del tribunale del Civic Center, tra un giornalista del Modesto Bee e un corrispondente del Los Angeles Times. Era attentissima, concentrata e animata da una buona dose di competitività nei confronti dei colleghi di fuori: quella era la sua città, il suo scoop. Con il portatile acceso sulle ginocchia, cominciò a prendere velocemente appunti: il primo testimone di Maureen O'Mara stava prestando giuramento. «Buongiorno, signor Friedlander», cominciò l'avvocatessa. I lunghi ca-
pelli rossi risaltavano, lucidissimi, sulla giacca del tailleur di panno blu. Sotto aveva una camicia bianca con il colletto molto semplice. Non portava né collane né anelli, solo un orologio d'oro al polso sinistro. «Se non sono indiscreta, quanti anni ha?» chiese poi O'Mara al teste. «Quarantaquattro.» Cindy rimase sorpresa. A lei Stephen Friedlander, con il viso pieno di rughe e i capelli brizzolati, sembrava quasi un sessantenne. «Può raccontare alla corte che cosa successe la notte del 25 luglio scorso?» chiese Maureen O'Mara. «Sì», rispose Friedlander. Poi si schiarì la voce e cominciò: «Mio figlio Josh ebbe una crisi epilettica» «Quanti anni aveva?» «Diciassette. Ne avrebbe compiuti diciotto questo mese.» «Quando lei arrivò all'ospedale, vide suo figlio?» «Sì. Era ancora al pronto soccorso. Il dottor Dennis Garcia mi portò a vederlo.» «Josh era sveglio?» Friedlander scosse la testa e mormorò: «No». Maureen O'Mara invitò il teste a parlare più forte, in modo che la stenografa potesse prendere nota della sua risposta. «No», ripeté a voce molto più alta Stephen Friedlander. «Il dottor Garcia però lo aveva visitato e mi disse che nel giro di un paio di giorni si sarebbe ripreso e sarebbe potuto tornare a scuola.» «Lei rivide Josh dopo quella visita al pronto soccorso?» domandò l'avvocatessa. «Sì, lo vidi il giorno dopo», rispose Friedlander con un sorriso lievissimo sulle labbra. «La sua ragazza era andata a trovarlo e insieme scherzavano con il vicino di letto. L'atmosfera festosa che regnava nella stanza mi colpì. L'altro ragazzo si chiamava David Lewis.» Anche Maureen O'Mara sorrise, ma subito tornò seria e gli rivolse la domanda successiva. «E come stava Josh quando lei tornò a trovarlo l'indomani mattina?» «L'indomani mattina mi portarono a vedere il cadavere di mio figlio», rispose Friedlander con la voce rotta. Si sporse in avanti, stringendo con entrambe le mani la balaustra del banco dei testimoni, e si sentirono le gambe della sedia che strisciavano all'indietro. Rivolse al giudice e ai giurati uno sguardo di una tristezza incommensurabile e, con le guance rigate di lacrime, disse: «Se n'era andato così, da un giorno all'altro. Lo toccai.
Era freddo. Mio figlio era morto». Maureen O'Mara gli posò una mano sul braccio, con un gesto commovente che parve del tutto sincero. «Vuole che interrompiamo un attimo?» gli chiese porgendogli una scatola di fazzoletti di carta. «No, ce la faccio», rispose il teste. Si schiarì di nuovo la voce, si asciugò gli occhi e bevve un sorso d'acqua. «Sto bene.» Maureen O'Mara fece di sì con la testa, quindi gli domandò: «Le fu data una spiegazione dell'improvviso decesso di suo figlio?» «Mi dissero che aveva avuto un inspiegabile calo glicemico. Quando chiesi come mai, il dottor Garcia mi rispose che non riusciva a farsene una ragione», rispose il teste sforzandosi di non lasciar trapelare il tremito nella voce. «Nemmeno io ci riuscivo», continuò poi. «Le condizioni di Josh il giorno prima erano stabili. Aveva mangiato normalmente, era andato in bagno da solo. Poi, durante la notte, era entrato in coma ed era morto. In ospedale! Era inconcepibile.» «Josh fu sottoposto ad autopsia?» domandò Maureen O'Mara. «Fui io a pretenderla», rispose Friedlander. «La faccenda era sospetta...» «Obiezione, vostro onore», sbraitò Kramer dal proprio posto. «Il teste ha tutta la nostra comprensione, ma la prego di invitarlo a limitarsi a rispondere senza fare commenti.» Il giudice annuì e, rivolto al testimone, disse: «Signor Friedlander, ci dica soltanto ciò che accadde, per cortesia». «Chiedo scusa, vostro onore.» Maureen O'Mara fece un sorriso di incoraggiamento e riprese: «Signor Friedlander, i risultati dell'autopsia le vennero consegnati?» «Dopo un po' di tempo, sì.» «Che cosa diceva il referto?» Friedlander divenne improvvisamente paonazzo ed esclamò: «Che nel sangue di Josh c'era un livello spropositato di insulina! Gli era stata somministrata con una flebo durante la notte, per errore. La causa del decesso era quella: un errore commesso dall'ospedale». Maureen O'Mara lanciò una rapida occhiata alle facce sgomente dei giurati prima di formulare la domanda successiva: «Mi dispiace doverglielo chiedere, signor Friedlander, ma che cosa provò quando fu informato di tale errore?» «Che cosa provai?» esclamò Friedlander. «Fu come se mi avessero
strappato il cuore dal petto...» «Capisco. Grazie, signor Friedlander.» «Josh era il nostro unico figlio... L'ultima cosa che immaginavamo era di dover vivere senza di lui. È un dolore insopportabile...» «La ringrazio, signor Friedlander. Mi dispiace d'averla dovuta costringere a parlarne di nuovo, ma la sua testimonianza è stata utilissima. A lei, avvocato», concluse Maureen O'Mara, facendo un cenno in direzione di Kramer. Il teste prese una manciata di fazzoletti di carta dalla scatola e si coprì la faccia, singhiozzando. 29 Lawrence Kramer si alzò e si abbottonò lentamente la giacca in modo da lasciare al teste un po' di tempo per riprendersi, pensando che il poveraccio aveva dovuto seppellire un figlio e meritava compassione. Il suo compito era cercare di neutralizzare gli effetti di quella straziante testimonianza senza inimicarsi la giuria e, se possibile, trasformare Friedlander in un testimone per la difesa. Poi andò verso Stephen Friedlander e lo salutò cortesemente, quasi come se lo conoscesse o fosse un amico di famiglia. «Signor Friedlander, innanzitutto la prego di accettare le mie condoglianze per la tragica fine di suo figlio», esordì. «Grazie.» «Vorrei chiarire alcuni punti, ma le prometto che cercherò di essere il più conciso possibile. Lei ha detto di aver conosciuto David Lewis, il ragazzo che era ricoverato nel letto accanto a suo figlio quando andò a trovare Josh il 26 luglio.» «Si. Lo vidi solo quella volta. Era un ragazzo molto simpatico.» «Sapeva che David è diabetico?» «Credo di sì. Sì.» «Signor Friedlander, sa qual era il numero del letto di suo figlio in ospedale?» Friedlander, che era seduto chino in avanti, di colpo si spostò all'indietro e si appoggiò allo schienale. «Il numero del letto? Non capisco.» «Vede, signor Friedlander, per convenzione in ogni camera di ospedale il letto più vicino alla finestra è chiamato 'letto numero uno', mentre quello
verso la porta è il 'letto numero due'. Ricorda in quale dei due letti era Josh?» «Ho capito. Il letto numero uno, perché era vicino alla finestra.» «E sa perché i letti sono contrassegnati da un numero?» domandò Kramer. «Non ne ho idea», rispose il teste con voce tesa, cominciando a innervosirsi. «I letti sono numerati perché gli infermieri distribuiscono i medicinali in base al numero della camera e del letto», spiegò Kramer. Dopo di che chiese: «A proposito, ricorda se ordinò delle trasmissioni televisive a pagamento per suo figlio?» «No, doveva rimanere in ospedale un giorno solo. Perché me lo chiede?» Stringendosi nelle spalle con aria contrita, Kramer replicò: «Glielo chiedo perché David Lewis fu dimesso il giorno in cui lei lo conobbe, dopo pranzo. Suo figlio Josh morì la notte successiva nel letto numero due. Josh era nel letto di David quando morì, signor Friedlander». «Dove vuole andare a parare?» esclamò Friedlander con le sopracciglia inarcate e la bocca distorta dalla collera. «Dove diavolo vuole arrivare?» «Cercherò di spiegarmi con altre parole», disse Kramer mentre, con il linguaggio corporeo, cercava di comunicare ai giurati che stava semplicemente facendo il proprio lavoro e non ce l'aveva con il teste. «Sa perché suo figlio fu trovato nel letto numero due?» «No.» «Be', per via della TV. Josh scese dal proprio letto vicino alla finestra e si trasferì nell'altro portando con sé l'asta della flebo per poter guardare un film. Vediamo...» Kramer consultò i propri appunti. «Ordinò un film su Showtime.» «Io non ne so nulla.» «A me risulta così», replicò Kramer in tono comprensivo, quasi paterno, nella certezza che Friedlander non stesse capendo nulla, che continuasse a non riuscire a spiegarsi né che cosa era successo esattamente al figlio né perché era morto. «Signor Friedlander, cerchi di capire. Suo figlio Josh ricevette, per errore, l'insulina destinata a David Lewis. Il certificato di dimissione di David Lewis non era ancora arrivato agli infermieri del reparto. Sono cose che possono succedere in un ospedale grande come il Municipal. Si può capire che un infermiere non si renda conto che il paziente è cambiato. David e
Josh avevano più o meno la stessa età. L'infermiere portò l'insulina per il paziente del letto numero due e la iniettò nella sacca della flebo del ragazzo che dormiva in quel letto. Se Josh fosse rimasto al suo posto...» Kramer si voltò nell'udire il grido di angoscia che si era levato tra il pubblico. Un'esile signora vestita di scuro si era alzata in piedi vicino alla balaustra e, nascondendosi il viso tra le mani, gridava: «Nooo!» Friedlander, dal banco dei testimoni, sollevò un braccio verso di lei. «Eleanor! Eleanor, non dargli retta! Sono tutte bugie! Non è stata colpa di Josh...» Lawrence Kramer ignorò sia il clamore che riecheggiava nell'aula sia il giudice che batteva insistentemente il suo martelletto e, chinando rispettosamente la testa, disse: «Ci dispiace molto, signor Friedlander. Condoglianze». 30 Erano le otto appena passate quando arrivai in cima a Potrero Hill con il fiatone, di ritorno dal mio giro di jogging serale. Correndo, non avevo fatto altro che pensare alle indagini e ai colleghi che investigavano sui vari casi mentre io stavo in ufficio a fare raccomandazioni, dare ordini, riempire moduli, preparare mandati, dirimere controversie e detestare con tutte le mie forze quel lavoro frustrante. Di solito il ritmo cadenzato delle suole di gomma che battevano sull'asfalto mi calmava, ma quella sera no. E la colpa era del mio capo, Tracchio. La sua predica mi aveva colpita nel vivo. Mentre stringevo i denti correndo controvento, ripensai a ognuna delle decisioni che avevo preso fino a quel momento nel caso della ragazza della Cadillac e con il senno di poi mi colse il timore di aver deluso tutti quanti, compresa me stessa. Martha, ignara dei miei problemi, correva allegramente avanti a me. Ogni tanto tornava indietro e mi abbaiava, come è giusto che faccia un border collie. «Piantala, Martha», le dicevo ansimando, ma era inutile: i cani da pastore sono fatti per radunare le greggi e io per lei ero e restavo una pecora ritardataria. Una ventina di minuti più tardi ero a casa - dolce casa - e profumavo di shampoo alla camomilla dopo una bella doccia rinfrescante.
Mi infilai il mio pigiama preferito, che era di flanella azzurra, misi un CD di Al Green e stappai una birra. Bevvi un lungo sorso. L'Anchor Steam fredda è una delizia. Mentre facevo saltare in padella la pasta per riscaldarla e per la prima volta in tutto il giorno cominciavo a sentirmi quasi normale, sentii suonare alla porta. Maledizione. Gridai al citofono «Chi è?» e una voce cordiale e familiare mi rispose: «Sono io, Lindsay. Posso salire un momento?» Era Yuki. Le aprii il portone e, mentre saliva le scale, apparecchiai la tavola per due e tirai fuori due bicchieri per la birra. Un minuto dopo Yuki entrò in casa soffiando e sbuffando come un piccolo ciclone. «Oh! Ti sta benissimo!» le dissi esaminando il ciuffo di capelli biondo platino che aveva sulla fronte. Fino a pochi giorni prima era bordeaux. «Con te, siete in due ad approvare», ribatté lei lasciandosi cadere su una poltrona. «Mia madre ha detto: 'Con quei capelli sembri hostess di aereo!'» Scoppiò a ridere. «Sarebbe stato il suo sogno, che facessi la hostess. Mmm, che profumino! Cosa stai cucinando di buono, Lindsay?» «Haute cuisine à la Boxer», risposi scherzando. «Non fare complimenti. Ce n'è in abbondanza.» «Non faccio complimenti: ho pianificato con cura l'improvvisata per arrivare giusto in tempo per sedermi a tavola!» Risi. Brindammo facendo tintinnare i due boccali ed esclamando all'unisono: «Alla tua, cara!» Poi servii la cena. Stavo quasi per confidarle i miei crucci lavorativi, quando mi resi conto che il mio malumore era praticamente sparito. Mentre mangiavamo la squisita stracciatella al cioccolato Edy's accompagnata da un sano decaffeinato, Yuki mi aggiornò sullo stato di salute di sua madre. «I medici erano un po' preoccupati perché è troppo giovane per aver avuto un TIA», mi spiegò. «Adesso però le hanno fatto un sacco di accertamenti e l'hanno trasferita dalla terapia intensiva a una camera singola.» «E quando te la potrai riportare a casa?» «Domani mattina. Non appena il suo salvatore personale, il dottor Pierce, avrà firmato il foglio di dimissione. Dopo di che le regalerò una crociera sulla Pacific Princess in compagnia della sottoscritta. Lo so che è quanto di più scontato, ma un albergo galleggiante con tanto di casinò e
centro benessere è esattamente quello che le ci vuole in questo momento», si giustificò Yuki. «A parte il fatto che, francamente, anch'io ho bisogno di una vacanza.» «Ti invidio», dissi posando il cucchiaio e sorridendole. Era la verità. Mi ci vedevo benissimo, in crociera in mezzo al mare con una pila di libri interessanti, una comoda sdraio e il rollio leggero delle onde che mi cullava ogni sera. In compagnia di Joe, naturalmente. Niente riunioni. Niente omicidi irrisolti. Niente stress. «Beata te, e beata la tua mamma. Siete proprio fortunate!» commentai. 31 Di ritorno da casa di Lindsay, Yuki era in Eighteenth Street, quasi all'entrata della I-280, quando sentì suonare il cellulare nella borsa posata per terra davanti al sedile del passeggero. «Merda. Ci avrei scommesso.» Mise la freccia per accostare sulla destra e, reggendo il volante con la mano sinistra, con l'altra cercò di recuperare il telefonino. Un grosso SUV color bronzo suonò il clacson mentre Yuki frugava nella grossa borsa fra riviste, nécessaire per il trucco e portafogli. «Scusa, scusa», borbottò e, al terzo squillo, riuscì a pescare il cellulare. «Mamma?» disse. «Signorina Castellano?» Era una voce di uomo che non riconobbe. Tenendo fermo il volante con il gomito, chiuse i finestrini e spense l'autoradio per sentirci un po' meglio. «Sì, sono io.» «Andrew Pierce.» Yuki cercò di far mente locale. Andrew Pierce? Ah, già, il dottor Pierce! Ebbe un tuffo al cuore. Non era mai successo che il dottor Pierce la chiamasse. Perché proprio in quel momento, a quell'ora? «Dottor Pierce, c'è qualcosa che non va?» La voce del medico, sovrastata dal rumore del traffico, era metallica. Yuki si premette il cellulare sull'orecchio per riuscire a sentire. «Sua madre ha avuto una complicazione, Yuki. Sto andando all'ospedale in questo momento.» «Come? Cosa? Che cosa le è successo? Aveva detto che stava bene!» Yuki aveva gli occhi fissi sulla strada davanti a sé, ma non vedeva nulla.
«Ha avuto un ictus», le disse il dottor Pierce. «Un ictus? Non capisco, dottore.» «Sta reggendo bene», continuò il dottor Pierce. «Ce la fa a venire all'ospedale?» «Sì, sì, certo. Tra dieci minuti sarò lì.» «Bene. Sua madre è in rianimazione al terzo piano. Ha una fibra forte, per fortuna.» Yuki buttò il cellulare sul sedile accanto a sé, mentre una valanga di parole e immagini le si affollavano nella mente. Un ictus? Quattro ore prima sua madre mangiava il gelato, chiacchierava e rideva. Stava benissimo! Si sforzò di concentrarsi sulla guida e si accorse di aver mancato l'uscita per l'ospedale. «Accidenti!» Accelerò disperatamente e proseguì sulla I-280 fino al termine, in Berry Street, passò con il giallo al semaforo e svoltò bruscamente in Third Street. Con il cuore che batteva all'impazzata, puntò il muso della piccola Acura verso nord, in direzione di Market Street. Era un percorso più lento, con più traffico, più semafori e più pedoni, ma a quel punto non aveva alternative. Ripensò alla breve conversazione avuta con il dottor Pierce. Aveva sentito giusto? «Sta reggendo bene», le aveva detto. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Sua madre era forte, lo era sempre stata, era una che non si arrendeva. Anche se fosse rimasta paralizzata... Nulla sarebbe riuscito a fermarla. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e, visualizzando mentalmente tutti gli incroci e i semafori che la separavano dal San Francisco Municipal Hospital, premette il pedale dell'acceleratore. Resisti, mamma. Sto arrivando. 32 Sforzandosi di vincere il panico, Yuki uscì dall'ascensore del San Francisco Municipal Hospital al terzo piano, seguì le frecce svoltando angoli e superando varie porte e arrivò alla sala d'attesa della terapia intensiva. Bussò alla porta della sala infermieri. «Sono venuta per parlare con il dottor Pierce», disse con voce chiara all'infermiera seduta dietro la scrivania.
«E si chiama?» Yuki le diede nome e cognome e tornò nella sala d'aspetto. Poco dopo arrivò il dottor Pierce e, con espressione molto preoccupata, le indicò due sedie dallo schienale diritto. «Al momento non posso dirle un granché», esordì. «Molto probabilmente dalle pareti arteriose si è distaccata della placca che è andata a ostruire uno dei vasi che portano sangue al cervello. Sua madre è sotto anticoagulanti...» «Mi dica solo quante probabilità ha di farcela.» «Lo sapremo presto», rispose il medico. «Mi rendo conto che è difficile...» «Devo vederla, dottor Pierce. La prego», disse Yuki, prendendolo per un polso. «La prego.» «Per trenta secondi. Non di più.» Yuki lo seguì oltre la porta e si trovò nel piccolo vano delimitato da tende in cui era stata trasferita sua madre. C'erano cavi e tubicini che collegavano il suo corpo a una batteria di apparecchi raccolti intorno al letto come un gruppo di amici preoccupati per la sua salute. «È priva di sensi, ma non soffre», disse il dottor Pierce. 'Come fa a esserne così sicuro?' avrebbe voluto gridargli Yuki. «Mi può sentire?» domandò invece. «Ne dubito, Yuki, ma può anche darsi di sì.» Yuki si chinò e mormorò con foga all'orecchio della madre: «Mamma, sono io. Sono qui. Resisti, mamma. Ti voglio bene». Sentì che il dottor Pierce le stava dicendo qualcosa, ma come se fosse a mille chilometri di distanza. «Rimarrà ad aspettare qui fuori? Yuki? Se non la trovo, la chiamo al cellulare...» «Non vado via, resto qui. Non mi allontanerò per nessun motivo.» Yuki uscì dalla terapia intensiva senza vedere nulla, si sedette su una sedia e rimase a fissare dritto davanti a sé, concentrata con tutte le sue forze su un unico pensiero tra mille ipotesi terrificanti, sulla sola conclusione che le pareva ammissibile. La sua mamma ce l'avrebbe fatta. 33 Keiko Castellano non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Sentì la puntura di un ago sul dorso di una mano. Poi udì un bip bip rit-
mico, insistente, e il fruscio di varie macchine che entravano in funzione. C'erano mormorii intorno a lei, ma erano voci che non la riguardavano. Ebbe un attimo di lucidità, un flash. Si trovava in ospedale. Aveva avuto un incidente, qualcosa di grave. Sentì una pressione dentro la testa che le impediva di ragionare. Si rivide bambina alla parata carnevalesca di Dontaku, in una strada piena di gente in costume che suonava samisen e tamburi. Migliaia di lanterne di carta galleggiavano sull'acqua e il cielo era solcato da aquiloni con code di carta rossa e fuochi d'artificio. Keiko sentì che la pressione dentro la testa aumentava, nubi temporalesche le si addensavano nella scatola cranica, scure, fredde e molto minacciose. Il temporale si avvicinava con un rombo cupo, che sovrastava ogni altro suono. Era giunta la sua ora? No, non voleva andarsene! Immersa in quel buio che non era sonno, tutto a un tratto udì la voce di Yuki, vicina ma lontanissima. Yuki le stava parlando, era lì con lei. «Mamma, sono io. Sono qui. Resisti, mamma. Ti voglio bene.» Cercò di rispondere. Itsumademo ai shiteru, Yuki. Ti vorrò bene per sempre, figlia mia. Ma le infilarono in bocca un grosso tubo e non riuscì a parlare. E si sentì sprofondare all'indietro, nel buio sempre più buio. Per un attimo riuscì a riemergere in superficie, a difendersi dalla tempesta. C'era qualcuno nella stanza. Qualcuno che era venuto ad aiutarla? Udì rumore di passi intorno al letto, sentì tirare la flebo sul dorso della mano. Il cuore accelerò il battito! Non era un sogno. C'era qualcosa che non andava. Quella persona non era venuta ad aiutarla. Una fitta lancinante le esplose dentro la testa. Non vedeva più nulla, non sentiva più nulla. Lanciò un grido di terrore, ma dalla bocca non le uscì alcun suono. Allora capì che cosa le stava succedendo: la stavano uccidendo. I suoi pensieri si dissolsero e sprofondò nel vuoto. Non sentì il contatto freddo, metallico, con le due monete che le vennero
posate sulle palpebre, una dopo l'altra. Non udì le parole che le vennero bisbigliate all'orecchio. «Queste monete sono il tuo viatico, Keiko. Buonanotte, principessa.» PARTE SECONDA MORTE IN OGNI DOVE 34 Yuki si svegliò al buio, con il cuore che batteva fortissimo, e di colpo ricordò tutto con insolita chiarezza: il dottor Pierce che le faceva le condoglianze nella sala d'attesa dell'ospedale, Lindsay che l'accompagnava a casa, la metteva a letto e le teneva compagnia finché finalmente lei non si addormentava. Eppure continuava a non credere a quel che le era successo. Ancora il giorno prima sua madre stava benissimo! E adesso era morta. Guardò l'orologio: erano quasi le sei e un quarto. Fece il numero del San Francisco Municipal Hospital e, scelte le opzioni adatte nel menu preregistrato, finalmente riuscì a parlare con un operatore che le passò il reparto di terapia intensiva. «Può venire quando vuole, signorina Castellano, ma sua madre non è qui. È nel seminterrato», le disse l'infermiera di turno. Yuki, in preda a una collera tanto improvvisa quanto accecante, si mise a sedere ritta nel letto. «Come sarebbe a dire 'è nel seminterrato'?» «Mi scusi, stavo solo cercando di dirle che non possiamo tenere i pazienti deceduti qui in terapia intensiva...» «L'avete portata all'obitorio? Chi vi ha autorizzato...?» Yuki buttò giù il telefono e, subito dopo, lo riprese per chiamare un taxi. Non se la sentiva di guidare in quello stato. Si infilò velocemente un paio di jeans, un cardigan, scarpe da ginnastica e giubbotto di pelle e si precipitò fuori. Nel breve tragitto tra Jones Street e l'ospedale cercò di digerire quella situazione assolutamente inconcepibile. Sua madre non c'era più. Keiko era uscita dalla sua vita. Arrivata all'ospedale, si fece largo tra la gente nell'atrio e salì di corsa le scale che portavano alla terapia intensiva. Si affacciò sulla porta della sala infermieri e guardò ora uno ora l'altro dei presenti, ma quelli continuarono
a chiacchierare tra loro come se lei non esistesse. Prese una cartella clinica e la sbatté con forza sul bancone. A quel punto la guardarono. «Sono Yuki Castellano», disse a una delle infermiere, che aveva il camice sporco di briciole. «Ieri sera mia madre era qui. Voglio sapere che cosa le è successo.» «Come si chiama sua madre?» «Keiko Castellano. Una paziente del dottor Pierce.» «Lei ha una delega?» le domandò l'infermiera. «Come, scusi?» «La legge sulla privacy, ha presente? Siamo autorizzati a darle informazioni su sua madre solo se ha una delega.» Yuki si sentì avvampare di rabbia. «Sta scherzando, vero?» Che cosa c'entrava la sua richiesta con le norme sui diritti del malato? Sua madre era morta e lei aveva tutti i diritti di sapere perché. Sforzandosi di controllare la voce, chiese: «C'è il dottor Garcia?» «Se vuole glielo chiamo, ma nemmeno il dottor Garcia le potrà dire nulla, signorina Castellano. Le norme sulla privacy valgono per lui, come per tutti gli altri operatori sanitari.» «Ma per favore... Mi faccia parlare con il dottor Garcia!» «Okay, okay. Stia calma», disse l'infermiera fissandola con occhi grandi e inespressivi in cui si leggeva però chiaramente che la considerava una povera squilibrata. «Vado a vedere se c'è ancora.» 35 Il dottor Garcia era nel suo studio, austero e senza finestre, quando Yuki bussò alla porta aperta. Alzò la testa e la guardò con aria ostile, infastidito. Dopo un attimo di esitazione, Yuki pensò: che stronzo! Entrò ugualmente, gli si sedette di fronte e andò dritta al punto: «Voglio sapere perché è morta mia madre. Non riesco a capire. Che cosa le è successo?» Garcia si toccò il cinturino dell'orologio. «Sono certo che il dottor Pierce glielo abbia già spiegato, signorina Castellano. Sua madre ha avuto un ictus. Sa che cos'è, vero? Un trombo, un coagulo, le è arrivato al cervello impedendo l'afflusso di sangue. Le abbiamo somministrato subito degli anticoagulanti, ma non siamo riusciti a salvarla.» Posò le mani aperte sulla scrivania come a dire: «Tutto qui. Non c'è altro
da aggiungere». «So che cos'è un ictus, dottor Garcia. Quello che non capisco è come mai mia madre all'ora di cena era in ottima forma e a mezzanotte era morta. Durante un ricovero ospedaliero! E voi non avete fatto niente per salvarla. C'è qualcosa che non quadra, dottore.» «Moderi i toni, per favore», ribatté Garcia. «Signorina Castellano, il corpo umano non è una macchina e i medici non fanno miracoli. Mi creda, abbiamo fatto il possibile per sua madre.» Allungò un braccio e posò la mano su quelle di Yuki. «È uno choc, lo so, e mi dispiace», disse. Fu un gesto stranamente intimo, che la colse di sorpresa e le diede i brividi. Yuki si ritrasse con un movimento istintivo e Garcia ritirò la mano. «A proposito, prima di andarsene, dovrebbe passare un momento dall'infermiera Nunez», aggiunse poi Garcia, ritrovando la consueta freddezza. «Sua madre dovrà essere trasferita presso un'impresa di pompe funebri privata entro ventiquattr'ore. Mi dispiace, ma non possiamo tenerla qui più a lungo.» Yuki si alzò di scatto, rovesciando la sedia su cui era seduta. «Non finisce qui», disse. «Faccio l'avvocato. Indagherò a fondo e scoprirò che cosa è successo veramente a mia madre. Non spostatela finché non ve lo dirò io, chiaro? E, già che ci sono, dottor Garcia, le ricordo che non è così che ci si comporta con i congiunti dei pazienti deceduti in ospedale.» Si voltò verso la porta e, nello scavalcare la sedia rovesciata, inciampò, rischiando di cadere lunga distesa per terra. Si appoggiò alla parete e inavvertitamente premette l'interruttore, facendo precipitare nel buio lo studio. Senza dire una parola, né accennare a riaccendere la luce, uscì barcollando e fuggì nel corridoio e giù per le scale, correndo a perdifiato finché non si ritrovò in strada. L'aria era umida, pesante. Ebbe un giramento di testa. Si sedette sul marciapiede sotto un albero e si mise a guardare la gente che andava a lavorare come se quello fosse un giorno qualunque. Ripensò all'ultima volta che aveva visto sua madre: spiritosa e piena di brio, Keiko mangiava un gelato seduta sul letto e dispensava con grande autorevolezza improbabili consigli esistenziali. Yuki si ricordò quanto avevano riso insieme quel giorno e in mille altre occasioni. Non avrebbero mai più riso insieme.
Non era giusto! «Mamma, non è stata un'uscita molto dignitosa, lo so, ma l'ho lasciato al buio, quello stronzo!» disse ad alta voce. Poi rise tra sé, immaginando quanto sarebbe piaciuta quella scena a sua madre. Yuki, ti sembra comportamento da signorina perbene? L'angoscia l'assalì di colpo. Yuki si abbracciò le ginocchia e se le strinse al petto. Con la schiena appoggiata al tronco dell'albero, piegò la testa e pianse, singhiozzando come una bambina. 36 Era troppo presto, solo le sette del mattino, quando mi accostai al marciapiede davanti a una vecchia casa in stile Tudor in Chestnut Street. Un grande albero sempreverde proiettava l'ombra dei suoi rami sull'erba tra la villa e il garage. Nel prato c'era già un gruppetto di poliziotti. Chiusi la portiera dell'Explorer che avevo comprato tre anni prima, mi abbottonai la giacca beige perché l'aria era fredda e mi incamminai con passo deciso sul prato ben rasato. Jacobi e Conklin, in piedi davanti al portone, stavano interrogando una coppia sulla settantina. In pantofole e vestaglia a righe, avevano l'aria stravolta di due che hanno appena preso la scossa. L'anziano signore protestava con voce stridula: «Come fate a essere sicuri che non abbiamo bisogno della protezione della polizia? L'avete letto nella vostra sfera di cristallo?» Jacobi si voltò con aria rassegnata e mi presentò Robert Cronin e signora. «Buongiorno», dissi stringendo la mano a entrambi. «Mi dispiace moltissimo: cercheremo di disturbarvi il meno possibile.» Intervenne Conklin per informarmi: «Sta per arrivare la Scientifica. Se credi, posso procedere io all'interrogatorio». Era un modo per chiedermi il permesso e nello stesso tempo farmi capire che era più che pronto a procedere. «Va bene, fa' pure. Arrivederci, signori Cronin.» Mi allontanai con Jacobi per andare verso la Jaguar XK-E decappottabile, blu scuro, ferma con la capote abbassata nel vialetto davanti alla casa. Era un'auto stupenda, il che non faceva che peggiorare le cose.
Quando Jacobi mi aveva chiamata, una ventina di minuti prima, sapevo già cosa mi aspettava. Tuttavia, nel vedere in faccia la vittima ebbi un tuffo al cuore. Come la ragazza della Cadillac, anche questa era bianca, sui vent'anni, di corporatura minuta, con splendidi capelli biondi che le ricadevano morbidi sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri ben aperti, rivolti verso Chestnut Street. Come la ragazza della Cadillac, anche lei era stata sistemata in modo da sembrare ancora viva. «Oh, mio Dio, Jacobi, di nuovo!» esclamai. «Ci toccherà chiamarla la ragazza della Jaguar.» «La notte scorsa la temperatura è scesa intorno ai dieci gradi», mi informò lui. «Se la tocchi, è fredda. E anche lei ha vestiti di gran classe.» «Dalla testa ai piedi.» La vittima aveva infatti un top di seta azzurro, una gonna svasata scozzese sui toni dell'azzurro e del grigio e un bel paio di stivali di Jimmy Choo con la cerniera dietro: una tenuta che, in tutto, doveva essere costata l'equivalente di tre mesi di stipendio da poliziotto. C'era un particolare che stonava, però. I gioielli, un braccialetto e orecchini coordinati, erano bigiotteria da pochi soldi. Come mai? In quel momento si udirono due sirene. Mi voltai e vidi arrivare un'ambulanza e il furgone della Scientifica, che si fermarono vicino alla fila di autopattuglie parcheggiate lungo la strada. Conklin andò verso l'ambulanza. Sentii che diceva: «Mi dispiace, ragazzi, ma avete fatto un viaggio a vuoto». L'autista dell'ambulanza ingranò la retromarcia, mentre Charlie Clapper scendeva dal furgone con la sua valigetta e la macchina fotografica in mano. Venne verso di noi e disse: «Giorno che va, cadavere che viene». Poi ci chiese cortesemente di farci da parte. Jacobi e io ci spostammo di qualche metro, mentre Clapper scattava le sue foto. Sapevo già che cosa avrebbe trovato: un segno sul collo, niente borsetta, niente documenti e nemmeno l'ombra di un'impronta in tutta l'auto. «Hai notato il profumo?» chiese Jacobi. Da lontano si sentiva appena, ma lo avevo riconosciuto: un aroma dolciastro che ricordava la magnolia. «È lo stesso della ragazza della Cadillac», dissi. «La prima volta potreb-
be essere un dettaglio personale, ma la seconda? Come ce la spieghiamo? Un'altra ragazza fisicamente molto simile alla prima, un'altra scena del crimine assolutamente immacolata... Questa è gente che ci prova gusto, Jacobi. Ammazzano per divertimento.» Rimanemmo a guardare i collaboratori di Clapper che, in silenzio, cercavano impronte sull'auto. Sia io sia Jacobi stavamo rimuginando sugli stessi interrogativi: chi erano le due ragazze? Chi erano gli psicopatici che le avevano uccise? Qual era il movente? Per quale motivo le avevano messe così elegantemente in posa? «Questi non hanno paura di niente e di nessuno, Boxer», commentò Jacobi mentre arrivava il furgone dell'Istituto di medicina legale. «Mettere le vittime in mostra in questo modo... Non lo fanno solo per divertirsi, ma anche per prenderci per i fondelli.» 37 Risposi al primo squillo, in ufficio, quando vidi che era Claire. «Ho i primi risultati degli esami sulla ragazza della Jaguar», mi disse. «Vuoi che venga giù a vedere?» «Vengo su io fra un momento. Ho bisogno di cambiare un po' aria.» Arrivò preceduta da un buon profumo di origano e peperoni, con una scatola da pizza in mano e due lattine di Coca Cola Light e annunciò: «Il pranzo è servito, tesoro. Ti ho portato il cibo più perfetto che natura ci offra: la pizza». Liberai una sedia ingombra di fascicoli, feci spazio sulla scrivania spostando altre scartoffie su uno scaffale e tirai fuori tovaglioli di carta e posate di plastica. «Ho preso le scale, invece dell'ascensore...» cominciò Claire accingendosi a tagliare a fette la pizza. «Be', ricordati di restituircele. Ne abbiamo bisogno.» Ridendo, esclamò: «Spiritosa! Quello che stavo cercando di dirti prima della tua orrenda battuta è che ho fatto le scale a piedi. Tre piani saranno circa cento calorie, ti pare?» «Più o meno. Direi che dovrebbero compensare circa un quarto di fetta del cibo più perfetto che natura ci offra.» «Lasciamo perdere», disse Claire ridacchiando. Mi servì un trancio fumante. «Sono contraria a dichiarare guerra al cibo. La pizza non è un nemico.»
«Concludiamo una tregua, allora.» «E tregua sia. Alla salute», brindò Claire toccando la mia lattina con la sua. «Alla tregua e ai quattro formaggi», replicai. Mi misi a ridere con Claire. La sua risata lunga e sonora era uno dei suoni che preferivo al mondo. Ogni volta che ci capitava un caso particolarmente pesante e macabro, cercavamo di sdrammatizzare così. In dieci minuti, mentre Claire mi aggiornava sull'ultimo cadavere non identificato che ci eravamo ritrovate fra le mani, spazzolammo una delle pizze migliori di Pronto Pizza. «Tenendo conto della bassa temperatura della scorsa notte, direi che è morta intorno alla mezzanotte», disse lanciando la lattina vuota nel cestino. «I vestiti erano di marca, ma non della sua taglia», continuò. «Il top era troppo piccolo e la gonna le stava larga in vita. In compenso stavolta le scarpe erano della misura giusta.» «E nuove di zecca, vero?» «Suole immacolate. Come la ragazza della Cadillac, anche lei aveva il profumo solo sui genitali.» «Quando le farai l'autopsia?» «Appena torno giù.» «Vuoi che ti tenga compagnia?» Telefonai nell'ufficio di Tracchio per avvertire che non sarei andata alla riunione. Mi stavo ribellando all'autorità dei miei superiori? Ebbene sì. Uscendo, invitai Jacobi a venire con me e, mentre scendevamo di corsa le scale per andare all'obitorio, lo aggiornai. 38 Ogni volta che andavo all'obitorio, posto di lavoro abituale per Claire, venivo colta da un senso di sgomento davanti al biancore dei cadaveri sotto la luce implacabile dei neon, ai teli che nascondevano la devastazione dei corpi, ai volti inespressivi, al forte odore di disinfettante. Non so come, la ragazza della Jaguar restava bellissima anche in quelle circostanze. Anzi, mi parve addirittura più giovane e più vulnerabile di quando l'avevo vista tutta in ghingheri sulla macchina. Il segno violaceo intorno al collo e l'alone bluastro sulle braccia sembravano uno sfregio sulla pelle altrimenti perfetta. Le ore passate all'obitorio le avevano rovinato un po' la pettinatura, però.
Guardai la mia amica che si preparava all'esame autoptico infilando cuffia, camice, grembiule di plastica e guanti. «Anche questa sembra una morte incruenta», disse. «Niente coltelli, né armi da fuoco.» Impugnò il bisturi e si accinse a praticare il profondo taglio a Y, che andava da una spalla all'altra all'altezza dello sterno della vittima e da lì scendeva verticalmente fino al pube. Si mise la mascherina, abbassò la visiera e, mentre incideva i muscoli sottoioidei, cominciò a dettare al microfono. Con una pinza sollevò un lembo di pelle del collo e mostrò a Jacobi e a me una chiazza bruna che aveva la forma dell'impronta di un pollice. «La signorina è stata soffocata da due pazzi assassini», dichiarò. «Come nell'altro caso, non c'è emorragia petecchiale, il che significa che una persona molto forzuta l'ha tenuta ferma e le si è seduta addosso premendole su questo punto del collo con il pollice. Qualcun altro intanto la strangolava con quello che potrebbe essere un sacchetto di plastica arrotolato, a giudicare dall'impronta irregolare che ha lasciato. Probabilmente le ha anche tappato naso e bocca con una mano per completare l'opera.» Non potei fare a meno di osservare il corpo steso sul tavolo e immaginare quella scena terrificante. «Mi viene da pensare che si tratti della messa in atto di una. qualche fantasia erotica», commentai. «Altro che peep-show, riviste o siti internet, questo per un maniaco è un vero sballo: pigli una ragazza in carne e ossa, la droghi, la violenti, ti diverti a vestirla e ci fai tutto quello che ti pare.» «Non c'è alcun segno di resistenza da parte della vittima», disse Claire. «Quindi, pur non avendo ancora i risultati delle analisi tossicologiche, mi azzarderei a dire che sì, è stata drogata pure lei.» «Che vigliacchi...» esclamò Jacobi indignato. «Abbiate fiducia», stava dicendo intanto Claire. «Quelli del laboratorio mi devono un favore. Chissà che non mi facciano i test del DNA d'urgenza.» Mi avvicinai al tavolo e guardai di nuovo il volto senza vita della vittima, poi allungai una mano e le abbassai le palpebre sugli occhi azzurri, velati. «Li prenderemo, quei bastardi», le promisi. 39 Claire accompagnò alla porta Lindsay e Jacobi dicendo che sperava di
aver dato loro un contributo utile per le indagini. Si augurava che riuscissero presto a dare un nome a quella povera ragazza. Telefonò al laboratorio per il DNA e ottenne il solito «Certo, dottoressa Washburn, provvederemo al più presto», promessa accompagnata da un implicito «Si rende conto di quanto tempo ci vuole per questi esami? Sa quanti casi ci sono prima del suo?» «Sul serio», insistette Claire. «È urgentissimo, un caso con priorità assoluta.» «Okay, ho capito», rispose il responsabile del laboratorio. Claire stava chiudendo la ragazza della Jaguar nella cella frigorifera quando le squillò il cellulare. Era Yuki. «Yuki! Carissima, come va?» disse. «Vuoi che ti passi a prendere, o vieni da sola? Edmund muore dalla voglia di conoscerti. E stasera fa il risotto con i funghi.» «Claire, mi dispiace, ma non posso. Non posso vedere nessuno al momento.» Claire, discreta, lasciò passare un istante, poi disse: «Certo, cara. Capisco». «Però ho bisogno di un favore», riprese Yuki, con un gran sospiro. «Qualsiasi cosa.» «Potresti fare l'autopsia a mia madre?» Claire ascoltò attentissima il racconto del colloquio con Garcia e della spiegazione assolutamente insoddisfacente che il medico le aveva dato della morte della madre. Per rispetto nei confronti di Yuki, si trattenne dal sospirare anche lei. «Sei sicura di volere l'autopsia? Sei pronta ad accettare i possibili risultati?» «Sì, sono sicurissima. Ho assolutamente bisogno di sapere se si poteva evitare che morisse. Devo sapere che cosa le è successo.» «Capisco. Prenderò accordi con l'ospedale perché domani mattina la portino qui.» A Yuki si incrinò la voce mentre diceva: «Sei una vera amica». «Stai tranquilla, tesoro. Tua madre è come una persona di famiglia per me. Ci penso io.» 40 Il pomeriggio del giorno dopo Yuki era in casa di sua madre e mangiava
una fetta di pane tostato in cucina, in piedi davanti al lavandino. Tutto quanto continuava a sembrarle assolutamente irreale. Dopo aver passato la notte in bianco a telefonare agli amici della madre, a guardare album di fotografie e ricordi, a rimpiangere il passato, si sforzò di tornare al presente e cominciò a chiedersi quando le avrebbe telefonato Claire e che cosa le avrebbe detto. Quando finalmente squillò il telefono, si precipitò a rispondere. «Come stai, cara?» le chiese Claire. «Bene», rispose Yuki, ma non era vero: le girava la testa e le faceva male la pancia. L'ansia di conoscere il parere di Claire sulla causa della morte di sua madre era talmente insopportabile che chiese subito: «Hai scoperto qualcosa?» «Sì, cara. Prima di tutto, il dottor Garcia aveva ragione quando ti ha detto che tua madre ha avuto un'embolia cerebrale. Quello che non ti ha detto è che devono essere passate almeno tre ore prima che qualcuno si accorgesse che stava male. Avrebbero dovuto farle una risonanza per verificare le dimensioni dell'ematoma, invece l'hanno riempita di streptochinasi, che è un anticoagulante.» «In effetti ha detto qualcosa di una terapia anticoagulante.» «Già. La streptochinasi non è il farmaco più nuovo che ci sia, ma va benissimo, se usato come si deve. Il problema è che non è stato così», continuò Claire. «Tua madre aveva già un'emorragia cerebrale e non c'era spazio per tutto quel sangue. Per questo è morta. Mi dispiace tantissimo dovertelo dire, non sai quanto.» Per Yuki quella notizia fu come un pugno nello stomaco. Keiko aveva un'emorragia cerebrale in corso da ore e nessuno se n'era accorto? Cosa diavolo succedeva in quell'ospedale? E perché a sua madre era venuto un ictus emorragico? «Yuki? Yuki? Ci sei ancora?» «Sì, sì, ci sono.» Salutata Claire, Yuki posò il telefono, andò in bagno e vomitò. Poi si spogliò, entrò nella doccia piastrellata di rosa e verde e, sotto il getto di acqua calda, pianse amaramente con la testa appoggiata alla parete. A quel punto, decise che cosa fare. Mezz'ora dopo, con indosso vestiti di sua madre - un paio di pantaloni neri con l'elastico in vita e una maglia di ciniglia rossa - prese la macchina e andò in Bryant Street. All'altezza del numero 800 parcheggiò davanti a un'agenzia di pegni di fronte alla corte di giustizia.
Entrò nel grande palazzo di granito grigio fermandosi al bancone per fornire le proprie generalità alle guardie. Si era data una missione, aveva deciso e non intendeva tornare indietro. Prese l'ascensore e salì al terzo piano, dove si trovavano gli uffici della divisione Sud del dipartimento di polizia di San Francisco. Lindsay l'aspettava, quando arrivò. Le mise un braccio sulle spalle e l'accompagnò nel proprio ufficio, piccolo, ma separato dagli altri da pareti di vetro. Yuki si sedette davanti alla scrivania, con la faccia tesa e un groppo alla gola. Lindsay la guardava preoccupata. Yuki pensò che le dispiaceva fare una richiesta simile a una così buona amica, ma non aveva altra scelta. «Voglio sporgere denuncia contro il San Francisco Municipal Hospital», annunciò. «Qualcuno in quel maledetto ospedale ha ammazzato mia madre.» 41 Colma è una località della California detta «città dei morti»: situata a una decina di chilometri a sud di San Francisco, ospita il cimitero della città, con oltre un milione di tombe distribuite in vari camposanti ben curati, ed è l'unico posto negli Stati Uniti in cui il numero dei morti supera quello dei vivi nella misura di dodici a uno. Mia madre era sepolta nel Cypress Lawn Cemetery e adesso anche la madre di Yuki stava per raggiungerla. Quel sabato ci ritrovammo in una settantina intorno alla fossa di Keiko, con una brezza leggera che increspava i pannelli di tela bianca e deformava il sottile filo di fumo che si alzava dal vaso pieno di incenso posato accanto al ritratto dei genitori di Yuki, Bruno e Keiko Castellano. Yuki teneva un braccio sulle spalle di un giapponese piuttosto basso di statura, con un vestito nero un po' impolverato, che era lo zio Jack, fratello gemello di sua madre. In un inglese incerto e con voce rotta questi disse: «Mia sorella era donna speciale. Grazie per... per onore che fate a nostra famiglia». Yuki lo abbracciò e, con un lieve sorriso sul viso stanco, cominciò a parlare della madre. «Alla mamma piaceva raccontare che, quando arrivò a San Francisco per la prima volta, individuò subito i luoghi più significativi: il Golden Gate Bridge, Saks, I. Magnin, Gump's e Nordstrom. Non necessariamente
nell'ordine in cui ve li ho elencati io.» La gente rise a mano a mano che Yuki rievocava la figura della madre. «Mi portava a fare shopping con lei, all'uscita dalla scuola, e mentre correvamo come due pazze da un negozio di vestiti all'altro mi diceva: 'Yuki, devi imparare a diventare signora'. Non credo di esser mai diventata una signora, però», continuò ridendo. «Mi piaceva ascoltare la musica ad alto volume, portavo le gonne corte... Lo so, mamma, anche quella che ho oggi è troppo corta! Lei voleva che mi trovassi un marito avvocato e invece io l'avvocato lo faccio di mestiere. Non faccio la vita che forse lei avrebbe desiderato per me, lo so. Ma mi ha sempre voluto bene, mi ha sempre sostenuta, mi ha sempre dato tutto. Eravamo una bella coppia, la mamma e io: siamo sempre state amicissime. Adesso, qui insieme a mio zio, non riesco neppure a immaginare il mondo senza di lei. Mamma, ti vorrò sempre bene e non ti dimenticherò mai.» Le tremavano le labbra. Yuki abbassò la testa e poi, insieme allo zio, si voltò verso la bara. Stringendo una specie di rosario di pietre dure tra le mani, Yuki recitò con lo zio una preghiera in giapponese, cui presto si unirono le voci di amici e parenti. Poi fece un inchino davanti alla bara. Io presi per mano Claire e Cindy, una alla mia destra e l'altra alla mia sinistra, e mi sforzai di non piangere nel vedere le lacrime che correvano lungo le guance di Yuki. «Che tristezza!» disse Claire. 42 Per trovare la tomba di mia madre dovetti camminare per una decina di minuti in direzione est e poi sud, con tanto di piantina del cimitero alla mano, superando statue di leoni e angeli e imponenti mausolei, fino ad arrivare alla semplice lapide che portavo sempre con me nel mio cuore. La scritta incisa nel granito si era annerita e coperta di licheni, ma le parole erano ancora leggibili e indelebili: HELEN BOXER 1939-1989. LA RICORDANO IL MARITO MARTIN E LE FIGLIE AMATISSIME LINDSAY E CATHERINE. Rividi una scena di quando ero piccola, una mattina che la mamma preparava la colazione prima di andare al lavoro, con i capelli biondi raccolti, e si era scottata le dita nel tirare fuori dal tostapane due fette per me e Cat
e, per farci ridere, si era messa a ululare. Nei giorni come quello, durante la settimana, la rivedevamo soltanto alla sera. Io e mia sorella, che era più piccola di me, tornavamo da scuola da sole. A volte ero io a preparare la cena. Di notte ci capitava di venire svegliate dalla voce della mamma che diceva a papà di smettere di gridare e di lasciarci dormire. Ricordai anche il periodo dopo che mio padre se ne andò di casa: il breve e meraviglioso senso di libertà di nostra madre, finalmente affrancata dal pugno di ferro con cui lui ci aveva sempre controllate. Si era tagliata i capelli e aveva cominciato a prendere lezioni di canto da Marci Weinstein, una vicina di casa. Aveva avuto sei o sette anni «di respiro», come diceva lei, prima di soccombere a un devastante tumore al seno. Avevo ricordi confusi del giorno in cui l'avevamo sepolta in quel cimitero, senza un briciolo della grazia o dell'eloquenza dimostrata da Yuki quella mattina. Io non avevo aperto bocca, in preda a una rabbia incontenibile, concentrata unicamente nello sforzo di tenere la testa girata in modo da non dover vedere mio padre. Adesso, seduta a gambe incrociate sull'erba accanto alla tomba, osservai i colori autunnali delle colline a sud di San Francisco, mentre un aereo dell'Alaska Air passava sopra la mia testa. Avrei voluto che mia madre potesse vedere che Cat e io stavamo bene e andavamo di nuovo d'accordo, che Cat era forte e aveva due figlie sane e intelligenti. Avrei tanto voluto dirle che il lavoro di polizia aveva dato un senso alla mia vita. Non ero mai stata molto sicura di me, ma adesso ero diventata la donna che mia madre sperava diventassi. Passai la mano sulla lapide e dissi una cosa che raramente ammettevo persino a me stessa: «Mi manchi tanto, mamma. Vorrei che fossi qui con me. Vorrei essere stata più gentile con te quando eri viva». 43 Con pensieri che alternavano tra amore e morte, tornai da Colma a San Francisco. Guidando, ripensai alle persone che avevo amato e che non c'erano più. Quando entrai in città si stavano accendendo le luci sul Bay Bridge. Percorsi le strade strette, in salita, che portavano a Potrero Hill e parcheggiai la Explorer poco lontano da casa. Avevo voglia di passare una serata tran-
quilla, pensando alle piccole incombenze e alle cose piacevoli che mi aspettavano. Avevo già le chiavi in mano e stavo per aprire la porta quando sentii abbaiare. Era Martha, sì, ma abbaiava da fuori! Non era possibile: ero sicura di averla lasciata in casa, quella mattina! Che fossi impazzita? O forse Martha era sgattaiolata fuori senza che me ne accorgessi quando ero uscita per andare al funerale? Mi girai di scatto, tesissima, cercandola disperatamente con gli occhi. Alla fine la vidi: era affacciata al finestrino di un'automobile nera che si era appena fermata dietro la mia macchina. Ebbi un moto di profonda gratitudine per il buon samaritano che l'aveva trovata e me l'aveva riportata a casa. Guardai dentro l'auto per ringraziare lo sconosciuto benefattore e... mi venne un colpo. Come potevo essermene dimenticata? Era Joe. 44 Joe scese dalla macchina carico di sacchetti della spesa e io lo abbracciai e baciai, con Martha che mi saltava intorno facendomi le feste. «Quando sei arrivato?» chiesi. «Stamattina alle dieci, come previsto.» «Oh, no!» «Ho passato una bella giornata. Ho guardato un po' di football alla televisione, ho fatto un riposino con Martha e poi l'ho portata con me a fare la spesa.» «Oh, mio Dio, Joe!» «Ti sei dimenticata che dovevo arrivare?» «Accidenti! Scusami, sono proprio una frana...» «Chiedere scusa non basta, mia cara. Questa volta no.» «Lascia che ti spieghi.» «Ti conviene avere una buona giustificazione. E non inventarti delle scuse», mi ammoni lui. Risi, gli cinsi la vita con un braccio e, insieme a Martha, salimmo le scale. «Mi farò perdonare.»
«Sarà meglio», mi disse burbero. Ma poi mi abbracciò forte. In cucina, posò la spesa sul bancone e mise il gelato nel freezer, poi si sedette su uno degli sgabelli, incrociò le braccia e mi guardò severo, in attesa di spiegazioni. «È morta la madre di Yuki», annunciai. «C'è stato il funerale oggi, a Colma.» «Oh, Lindsay, mi dispiace!» «È stata una cosa improvvisa. Pensa che Yuki voleva portarla in crociera la settimana prossima!» Joe allargò le braccia e io gli andai vicino. Per una decina di minuti parlammo di Yuki e di quanto era legata a sua madre. Gli dissi che forse all'ospedale avevano combinato un pasticcio, le avevano dato le medicine sbagliate. Con voce tesa gli raccontai anche della visita alla tomba di mia madre che avevo fatto quel pomeriggio. «Mi dispiace da morire, Joe. Sapessi quanto avrei voluto averti vicino oggi... Mi sei mancato.» «Quanto?» chiese, con una luce negli occhi da cui capii che mi aveva perdonata. «Tanto così», dissi allargando le braccia più che potevo. Joe mi attirò a sé, mi abbracciò forte e mi diede un bacio lungo e appassionato. Rimanemmo stretti l'uno all'altra a lungo, io con una mano fra i suoi bei capelli folti, guancia contro guancia, mentre lui mi cingeva con le braccia forti. Fu bellissimo. Camminando all'indietro, mi portò in camera continuando a stringermi forte, eccitato. Mi depositò sul letto, mi si sdraiò accanto e mi scostò i capelli dal viso. Era così bello, il mio Joe. «Anche tu mi sei mancata», disse. «Non ci credo.» Gli presi una mano e me la posai sul cuore. «Senti?» «Lo sai che ti amo, Lindsay.» «Anch'io ti amo.» Joe mi slacciò la gonna, mi baciò, mi sbottonò la camicetta e mi tolse il fermaglio dai capelli, spogliandomi poi poco alla volta finché non mi ritrovai nuda. Ero emozionata e, sì, lo ammetto, molto eccitata. Abbracciai i cuscini mentre Joe buttava su una sedia i miei vestiti e i suoi. Nessuno dei due parlava più. Quando non stavo più nella pelle per l'eccitazione, sollevò le coperte, mi
strappò di mano i cuscini e si sdraiò nudo accanto a me. Gli buttai le braccia al collo, puntai i piedi contro i suoi, incollai le labbra sulle sue e mi sciolsi nel suo profumo, nel suo sapore, nella meravigliosa sensazione che mi dava la sua vicinanza. Mi schiuse con le mani e con la bocca, poi mi penetrò. Oh, mio Dio. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che avevamo fatto l'amore dimenticando ogni altra cosa al mondo... 45 Joe e io eravamo su un traghetto che rientrava lentamente da Sausalito a San Francisco. Joe era pensoso. Mi chiesi come mai. Ripensai alla bella giornata trascorsa: ci eravamo alzati pigramente verso le undici e avevamo preso il traghetto per andare a pranzo al Poggio, un ottimo ristorante con vista sul mare. Davanti a uno squisito piatto di pasta fumante, ci era sembrato quasi di essere stati trasportati per magia in Italia, in qualche località della riviera. Una vera goduria. Strinsi il braccio a Joe. Quei sei mesi insieme erano stati meravigliosi. Avevamo rimediato alla lontananza telefonandoci e scrivendoci spesso e, una o due volte al mese, avevamo passato insieme un weekend idilliaco come quello. Purtroppo presto sarebbe finito. Una vera ingiustizia. Di lì a mezz'ora io sarei stata a casa mia e Joe sulla strada per l'aeroporto, per tornare a Washington a bordo di un aereo militare. «Dove sei con la testa, Joe? Sembri già lontanissimo.» Mi mise un braccio sulle spalle e mi avvicinò a sé. Cercai di assaporare quegli ultimi momenti insieme, i gabbiani che volteggiavano sulla scia del traghetto, gli spruzzi sul viso, la morbidezza del suo maglione sulla guancia. «Non posso andare avanti così, per la miseria», disse tutto a un tratto. «A fare l'amore cinque volte in ventiquattr'ore. Ho quarantacinque anni, sai?» Alzai la testa e risi. «L'aerobica fa sempre bene.» «Cosa ci trovi di tanto divertente? Perché tu ti diverti, vero? Guarda che è in gioco la mia virilità.» Lo strinsi forte, mi alzai in punta di piedi e gli diedi un bacio sul collo,
poi ancora un altro. «Non ricominciare, biondina. Sono spompato.» «Sul serio, Joe. C'è qualcosa che non va?» «Sul serio? Be', se lo vuoi proprio sapere, ho un sacco di pensieri, ma non ho ancora trovato il momento o il modo adatto per parlartene.» «Sarà meglio che me ne parli ora», dissi. Mentre il traghetto si preparava alla manovra di attracco, Joe mi guardò con i suoi occhi azzurri e disse: «Penso che dovremmo passare più tempo insieme, Lindsay. Questi fine settimana sono straordinari, ma...» «Lo so. È difficile tornare alla realtà dopo tante emozioni.» Joe lasciò passare un attimo di silenzio prima di dire: «Te la sentiresti di trasferirti a Washington?» So che devo aver fatto una faccia scioccata. Immaginavo che prima o poi avremmo parlato del nostro futuro, ma non mi aspettavo che succedesse proprio quel giorno. Come potevo andare a vivere a Washington? Vidi l'effetto della mia sorpresa su Joe. «Okay, non prenderla così. La cosa si può vedere anche da un altro punto di vista», disse, e cominciò a raccontarmi cose che già sapevo, ovvero che a Los Angeles vengono sbarcati tutti i container di merci importate negli Stati Uniti via mare da Hong Kong, il porto in cui viene movimentato il maggior numero di container al mondo. Poi mi illustrò il punto di vista del dipartimento della Sicurezza Nazionale. «Esiste il timore, purtroppo fondato, che i terroristi possano introdurre nel Paese un ordigno nucleare - per esempio dalla Corea del Nord - nascosto in uno dei container che da Hong Kong arrivano a Los Angeles. Attualmente, le probabilità che noi scopriamo un ordigno del genere sono pari a zero, perché non disponiamo dei sistemi adatti. Secondo me, però, la possibilità di mettere in sicurezza il porto esiste. Potrei fare un lavoro importante, a Los Angeles.» Il comandante mise i motori in retromarcia e la grossa imbarcazione di legno accostò al pontile. Tutto a un tratto ci trovammo in mezzo alla ressa dei passeggeri, che ci spinsero verso la passerella. Dovemmo lasciarci andare le mani e smettere di parlare. La limousine ci aspettava al molo, nera e lucidissima. Joe mi fece salire tenendo gentilmente aperta la portiera e chiese all'autista di portarci al parcheggio dove avevamo lasciato la mia macchina.
«So che si tratta di cose su cui occorre riflettere bene», mi disse poi. «Joe, vorrei tanto parlarne con calma. Mi dispiace che tu te ne debba andare, mi dispiace davvero, soprattutto così.» «Anche a me, Lindsay. Ma troveremo una soluzione, vedrai.» La limousine si fermò nel parcheggio. Scendemmo tutti e due e io mi appoggiai alla fiancata scaldata dal sole della mia fida Explorer. Quando ci abbracciammo e ci dicemmo ancora una volta «Ti amo», mi vennero le lacrime agli occhi. Augurai a Joe buon viaggio e ci demmo l'ultimo, appassionato bacio. La giornata che si stava per concludere era stata bellissima e andava ad aggiungersi a molte altre che avevamo passato insieme. Sentivo ancora le sue labbra sulle mie e il pizzicore della salsedine sulle guance mentre le sfregavo contro quelle rasate di lui. Lo sentivo ancora, come se fosse dentro di me. Ma Joe era già partito. PARTE TERZA DONNE E MOTORI 46 Dopo aver pranzato con Cindy, tornai in ufficio e, passando tra le scrivanie dei colleghi, mi sentii osservata insistentemente. Stavo pensando che era passata una settimana da quando era stata pubblicata sul Chronicle la foto della ragazza della Cadillac e che adesso le sarebbe stata pubblicata accanto anche quella della ragazza della Jaguar. L'idea di dover sperare in segnalazioni e soffiate da parte della gente era frustrante, mi faceva arrabbiare. Possibile che non ci fossero indizi? Perché c'erano così poche prove materiali? Che cosa ci stavamo lasciando sfuggire? Dove stavamo sbagliando? Feci segno a Jacobi e Conklin di raggiungermi nel mio ufficio, chiusi la porta e appesi la giacca. Conklin si mise comodo con i piedi sulla mia scrivania e Jacobi, come al solito, si appoggiò all'altra, da una parte. Dissi loro che avevo fatto avere ai giornali la foto della ragazza della Jaguar e chiesi se avevano novità. «Il mio socio ha una cosa da dirti, Boxer», esordì Jacobi tutto serio. È un
tipo che non ride facilmente, ma vidi che nel suo sguardo impassibile brillava una scintilla di soddisfazione e di orgoglio. «Sì, forse abbiamo fatto un passo avanti nelle indagini», annunciò Conklin mettendosi a sedere composto sulla sedia. «Mi sembra un'ottima notizia.» «Sono arrivati i risultati del test del DNA ricavato dal tampone vaginale della ragazza della Cadillac.» «Perfetto. E cosa dicono?» «Il DNA corrisponde a un campione presente nei database della polizia, che purtroppo però è di donatore ignoto», mi rispose Conklin. Tutte le mie speranze furono stroncate sul nascere. Conklin posò sulla scrivania un foglio stampato e lo girò verso di me, poi mi spiegò tutto quanto lentamente, con pazienza, come facevo io quando avevo la sensazione che i miei capi non ci arrivassero. «Il campione nel database proviene da una donna ritrovata morta due anni fa in un campo vicino a Los Angeles», disse. «Aveva poco più di vent'anni ed era stata violentata e poi strangolata. Non aveva documenti e non fu mai identificata. Quelli del dipartimento di Los Angeles pensano che fosse una di passaggio.» «Come era vestita?» domandai. Rispose Conklin: «Niente di firmato. Era mezza nuda, aveva solo una maglia di poliestere tirata su, intorno al collo. Che non avessimo fatto il collegamento è normale, visto che il modus operandi è tutto diverso, rispetto alle ragazze che abbiamo ritrovato sulle auto di lusso. La vittima di Los Angeles non era stata rivestita, né messa in posa. Però, visto che il DNA è lo stesso, vuol dire che quello che due anni fa si è scopato lei adesso si è scopato anche la ragazza della Cadillac». «Forse quella era la prima volta, dopo di che l'assassino ha perfezionato il metodo», suggerì Jacobi. «Oppure si è trovato un complice dotato di più immaginazione», dissi io, formulando ad alta voce una nuova teoria. 47 Leo Harris stava chiudendo la cassa del suo negozio di articoli per fumatori, Smoke and Joke, quando sentì suonare il campanello. «Mi dispiace, ho appena chiuso la cassa», disse senza voltarsi. «Torni domani mattina. Grazie.»
Sentì che il cliente si avvicinava comunque al bancone trascinando i piedi e facendo frusciare i pantaloni. «Ho detto che siamo chiusi.» «Mi servono delle sigarette», disse una voce maschile un po' impastata, bassa, giovane. «Ha delle Camel?» «Provi al Searchlight Market, qui all'angolo con Hyde Street», rispose Harris, che era nero e aveva sessantasei anni. Chiuse il cassetto del registratore di cassa e si voltò a guardare il cliente controluce, aspettando che se ne andasse. «Metti i soldi sul bancone, vecchio», disse la voce. «Poi mettiti con la faccia al muro e tieni le mani in alto, così forse non ti faccio del male.» Di colpo Harris fece caso a tutti i rumori: il respiro un po' affannoso del ragazzo, il ronzio dell'insegna al neon nella vetrina, il clangore metallico del tram che passava all'incrocio tra Union e Hyde Street. «Okay, okay», ribatté. «Faccio come dici tu. Dammi solo il tempo di riaprire la cassa. Ho cento dollari sotto il cassetto. Che diavolo, prenditi anche una stecca di sigarette e...» «Togli le mani da quel pulsante!» gridò il ragazzo. «Sto solo aprendo la cassa.» Harris premette il pulsante dell'allarme nascosto sotto il bancone e in quello stesso momento sentì tintinnare il collare di Midnight, che scendeva di corsa le scale dall'appartamento soprastante. Il suo primo pensiero, nel sentir ringhiare il cane fu: oh, no! Subito dopo udì lo scatto della pistola e il ragazzo che urlava spaventato al cane: «Cazzo, stammi lontano, bestiaccia!» Ci fu un'esplosione, una detonazione, poi Leo Harris gridò: «Midnight!» Subito si udì un altro sparo e sembrò che tutto nel negozio tremasse. Harris si portò le mani al petto e cadde, trascinando per terra stecche di sigarette e accendini. Sentì i passi del rapinatore che scappava di corsa, la porta che sbatteva, il campanello che tintinnava... Poi pensò al povero cane che da dodici anni viveva con lui e che adesso uggiolava di dolore fra i vetri rotti, mentre per terra continuavano a cadere oggetti con un gran fracasso. «Aiuto! Aiuto! Ci hanno sparato!» 48 Leo Harris si svegliò steso su un fianco, con la faccia verso il muro. Sen-
tì il muso di Midnight vicino al collo, il suo fiato caldo sulla guancia, poi una voce di uomo che chiedeva: «Tutto bene, signor Harris? Sono l'agente Larry Petroff. Mi sente?» «Il mio cane... Credo che abbiano sparato a Midnight.» «Sì, il suo cane è qui. Sembra ferito all'anca. Si è trascinato fin da lei. Qui, da brava... non ti faccio niente. Le dica di star buona, signor Harris.» «Ferma, Midnight. Brava.» «Ho chiamato un'ambulanza per lei, signor Harris, e il mio collega e io porteremo il cane al pronto soccorso veterinario. Andrà tutto bene, vedrà, Midnight tornerà come nuova.» Leo Harris perse di nuovo conoscenza. Quando rinvenne, lo stavano caricando sull'ambulanza. Sentì una voce che diceva: «Pronto soccorso? Parla Colomello, abbiamo un uomo sui sessantacinque con una ferita da arma da fuoco all'emitorace destro. Pressione cento/centoquaranta, frequenza cardiaca centocinquanta. Ipoventilazione all'emitorace destro. Non alterazioni grossolane del ritmo cardiaco. Nessun'altra ferita evidente. Ve lo portiamo. Infusione rapida di soluzione fisiologica». «Tu guarda che stronzo, sparare a un cieco», disse l'agente Larry Petroff al suo collega. «Ufficialmente cieco», gridò Leo Harris da dentro l'ambulanza. «Questo non significa che io non veda proprio nulla.» «Mi scusi, signor Harris. Ma adesso non si preoccupi. Al Municipal Hospital ci sono degli ottimi medici e, traffico o non traffico, fra tre minuti sarete là. Anche Midnight se la caverà. Vi è andata bene, a tutti e due.» «Sì, oggi è il mio giorno fortunato», disse Leo Harris. 49 L'infermiera Noddie Wilkins era furibonda. Anche se fosse salita in macchina in quel preciso momento, sarebbe comunque arrivata con mezz'ora di ritardo all'appuntamento con Rudolpho. Quel lavoro schifoso le stava rovinando la vita! Per non parlare del fatto che quei tirchi bastardi dell'amministrazione dell'ospedale non perdevano occasione per sganciare meno soldi. Spalancò la porta della camera 228 spingendola con il fianco, facendo attenzione a non rovesciare quello che aveva sul vassoio. L'unica luce nella stanza proveniva dal televisore acceso. «Ehi, Mister Man», disse ad alta voce, visto che i tifosi dei Forty Niners stavano sbraitando chissà cosa.
Posò il vassoio sul braccio girevole del comodino tenendosi a una certa distanza dal paziente. Il signor Harris aveva sessantasei anni ed era stato ricoverato per una ferita da arma da fuoco, ma se Noddie non avesse fatto così, cieco o non cieco, avrebbe sicuramente cercato di toccarla con il braccio sano. Era un brav'uomo, però, un vecchietto gentile che voleva un gran bene al suo cane, Midnight. «Le ho portato la cena, signor Harris, e i suoi due gelati. Prima però devo misurarle la pressione.» Si voltò e andò a prendere lo sfigmomanometro nell'angolo. Si aspettava di sentire il solito: «Per piacere, mi aggiusta il cuscino? Grazie, cara, così va bene». Si girò verso di lui ed ebbe un tuffo al cuore. C'era qualcosa che non andava. «Signor Harris! Signor Harris!» Lo prese per un braccio e gli diede una scrollatina. La testa di Harris si piegò di lato e dagli occhi gli caddero due monete. Una rotolò per terra e tintinnando andò a finire in un angolo dove si fermò, piatta, sul linoleum. Oh, Gesù mio, ci risiamo! Di nuovo quelle terribili monete, questa volta sulle palpebre del signor Harris. 50 Per la terza mattina di seguito, Yuki aprì la pesante porta di vetro e acciaio del tribunale del Civic Center. La sua era diventata ufficialmente un'ossessione, una fissazione quasi patologica. Mostrò il documento di identità alla guardia e prese l'ascensore per andare nell'aula 4A. Aveva preso qualche giorno di permesso e, se non andava in tribunale tutti i giorni, si sentiva impazzire dal dolore e dalla collera. L'unica cosa che la spingeva ad alzarsi dal letto alla mattina era la prospettiva di seguire Maureen O'Mara nella sua crociata contro il Municipal Hospital. Quando entrò nell'aula gremita, l'udienza era già cominciata. Vide un posto libero al centro e, facendo alzare una decina di spettatori, riuscì ad andarsi a sedere. «Scusi», mormorò a ognuno. Poi si mise ad ascoltare attentissima le testimonianze di persone che raccontavano storie strazianti. Tutte, in seguito a negligenza professionale, avevano perso una persona cara al Municipal Hospital.
Il lutto di Yuki era così recente che doveva farsi forza per non mettersi a piangere insieme ai testimoni, ma ce la metteva tutta per seguire il processo con occhi da avvocato. La situazione era esattamente come gliel'aveva descritta Cindy poco più di una settimana prima da Susie's. Tutti i pazienti erano stati portati al pronto soccorso e da lì trasferiti in terapia intensiva, dove si erano temporaneamente ripresi per poi morire a causa di qualche imprevisto. Proprio come era successo a sua madre. Se solo avesse potuto tornare indietro nel tempo e portarla via da quell'ospedale... Perché non l'aveva ricoverata da un'altra parte? Sentì Lawrence Kramer congedare una madre in lacrime alla fine della deposizione. «Non ho domande da rivolgere alla teste, grazie.» Sentendo quella poveretta che singhiozzava, anche Yuki si asciugò gli occhi con il fazzoletto. Sospirò, e vide Maureen O'Mara chiamare a testimoniare il dottor Lee Chen. 51 Yuki si sporse in avanti sulla sedia per osservare meglio il testimone convocato dall'accusa. Il dottor Chen era un uomo con la faccia seria e gli occhiali dalla montatura nera, che parlava con il fervore controllato della persona in gamba che non vuole sembrare troppo intelligente. Yuki lo capiva benissimo: capitava sempre anche a lei. Il dottor Chen elencò i propri titoli: laurea in medicina a Berkeley, dodici anni di esperienza professionale al pronto soccorso del San Francisco Municipal Hospital. Rispondendo alle domande di Maureen O'Mara, raccontò la vicenda di una trentenne di nome Jessica Falk, arrivata al pronto soccorso una sera in cui lui era di turno. «La signora Falk aveva avuto un giramento di testa mentre stava facendo il bagno in piscina e aveva chiamato il pronto intervento. Al suo arrivo in ospedale era in fibrillazione ventricolare. Procedemmo alla defibrillazione e il cuore tornò in ritmo sinusale. La paziente era stabilizzata e stava bene», spiegò alla giuria. «La trasferimmo in terapia intensiva.» «La prego, continui, dottor Chen», disse Maureen O'Mara.
«Io la conoscevo personalmente, perché le nostre figlie frequentano la stessa scuola, e quindi prima di smontare, circa sei ore dopo, andai a vedere come stava. Chiacchierammo un po'. Mi disse che si sentiva bene, che era solo dispiaciuta di essere lontano dalla figlia. Il giorno dopo, però, quando controllai la sua cartella clinica, vidi che aveva avuto degli episodi aritmici, probabilmente dovuti a disturbi della conduzione, ed era morta.» «Le parve una cosa sorprendente?» «Be', sì, tenuto conto della sua età e del fatto che aveva sempre goduto di buona salute.» «E allora che cosa fece?» «Chiesi un'autopsia e una revisione del caso da parte della commissione interna.» «E quali furono i risultati dell'autopsia?» «A Jessica Falk era stata somministrata epinefrina. Non si sa bene perché, visto che nessuno gliel'aveva prescritta.» «Che effetti può avere l'epinefrina su un paziente cardiopatico di quel tipo?» «Be', l'epinefrina è adrenalina in forma sintetica», spiegò il teste. «La signora avrebbe avuto bisogno di lidocaina, un agente antiaritmico che le avrebbe regolarizzato il battito cardiaco. Somministrarle epinefrina fu come darle della cocaina: una sostanza fatale per un paziente cardiopatico.» «Quindi si trattò di un errore molto grave, vero, dottor Chen? Che cosa disse la commissione interna, dopo aver esaminato il caso?» «Non prese nessun provvedimento», rispose il medico scandendo seccamente le parole. «Nessun provvedimento?» «Be', non per quanto riguarda Jessica Falk. A me invece venne rescisso il contratto con due settimane di preavviso.» «Per il fatto che aveva denunciato il problema?» «Obiezione! L'accusa cerca di influenzare il teste», disse Kramer balzando in piedi. «Riformulerò la domanda, vostro onore. Dottor Chen, perché le venne rescisso il contratto dopo dodici anni di servizio?» «Mi dissero che era 'un problema di bilancio'.» Maureen O'Mara chinò la testa senza commentare, lasciando che le parole del medico facessero il loro effetto, poi lo guardò in faccia e disse: «Un'ultima domanda, dottor Chen. Chi decise di trasferire Jessica Falk dal pronto soccorso alla terapia intensiva?»
«Il dottor Dennis Garcia.» «Che lei sappia, il dottor Garcia fece una visita di follow-up alla signora Falk durante il ricovero in terapia intensiva?» «Sulla cartella clinica c'era la sua firma.» «Grazie. Non ho altro da chiederle, dottore.» 52 Quando Kramer si alzò in piedi per il controinterrogatorio del dottor Chen, Yuki cercò nell'aula il dottor Garcia. Era seduto tre file avanti a lei, quel verme. Lo vide alzarsi e andare verso la porta, ravviandosi con la mano i capelli scuri. Yuki si sentì montare il sangue alla testa. Dove vai, bastardo? Torna qui, e sta a sentire cosa diranno adesso. Anche lei prese la valigetta in mano e si alzò. Scusandosi con le persone cui pestò i piedi e urtò le ginocchia, uscì dall'aula più veloce che poté. Quando arrivò nel corridoio, però, di Garcia non c'era più neanche l'ombra. Vide che le porte dell'ascensore si stavano chiudendo: corse avanti, premette il pulsante e le riaprì. Ma l'ascensore era vuoto. Arrivò nell'atrio appena in tempo per riconoscere la giacca blu del dottore. Garcia, con passo deciso, stava uscendo. Lo seguì di corsa, senza sapere nemmeno lei perché. Non le era mai successo di comportarsi così, pensò aprendo la pesante porta e ritrovandosi di colpo fuori al sole. Di solito non era così impulsiva. Anzi, era una donna organizzata, disciplinata. Invece in quel momento si sentiva in balia di qualcosa di più forte di lei, un'ossessione che montava, in un crescendo, come in un film di Hitchcock. Si guardò intorno e vide Garcia sul marciapiede di McAllister Street. Camminava a testa alta, facendosi largo tra la gente, diretto verso il Civic Center. Lo seguì, un po' camminando e un po' correndo, e quando lo ebbe raggiunto rallentò il passo e lo chiamò: «Garcia!» Il dottore si fermò e si voltò a guardarla, strizzando gli occhi contro il sole. Yuki si avvicinò, fermandosi abbastanza distante da non dovergli stringere la mano. «Sono Yuki Castellano.»
«Lo so. Quello che non capisco è perché mi segue.» «Ho chiesto che mia madre venisse sottoposta ad autopsia», disse Yuki. Garcia si sforzò di nascondere la propria sorpresa. «Se questo la fa sentire più tranquilla...» «Sì, dottore, mi fa sentire molto più tranquilla. Almeno saprò di non essere pazza. Sono furibonda, però. Mia madre è morta per colpa di uno sbaglio commesso da lei, dottore. Uno dei tanti.» «Uno sbaglio commesso da me? È sicura?» «Non mi prenda in giro, per favore. Mia madre è morta!» «Il medico che ha effettuato l'autopsia mi manderà sicuramente il referto. Vedrò di leggerlo, se mai.» Con quelle parole, Garcia si voltò e si diresse verso una Mercedes nera parcheggiata poco lontano e aprì la portiera. Prima di salire, si voltò a guardare Yuki. «Se è tanto sicura, perché non mi fa causa? Non sarebbe né la prima né l'ultima, sa?» 53 Erano le sei e un quarto di un mercoledì pomeriggio e Claire e io eravamo sedute al nostro tavolo preferito da Susie's. La calypso band stava eseguendo una canzone di Jimmy Buffett e noi avevamo ordinato due birre alla spina in attesa di Yuki e Cindy. Accennammo un brindisi e continuammo a parlare delle nostre piccole disavventure quotidiane, di quegli inconvenienti che sono come le pulci per un cane: nulla di tragico, ma fastidiosissimi. «Hai presente Bob Watson?» disse Claire. «Chi? Il tuo assistente?» «Sì. Il mio caro, forte, volenteroso, intelligente, instancabile assistente. Be', si trasferisce a Boston. Così mi tocca sostituirlo. Con la nipote ventiduenne del sindaco.» «Raccomandata?» «Altroché. Ho le mani legate...» si lamentò Claire. «Pensa che è a malapena in grado di sollevare la tazza del caffè. La voglio proprio vedere alle prese con un cadavere di cento e passa chili. Si chiama Bunny. Si ostina a cambiarmi CD, figurati: io metto Sostakovic, lei lo toglie e mi rifila musica hip-hop. 'E più adatta, dottoressa Washburn.' Ma certo, cara, tanto il defunto riposa in pace comunque.» Risi, facendomi andare la birra di traverso. In quel momento arrivò Cindy trafelata.
«Salve, ragazze.» «A te la linea, cara la nostra corrispondente», disse Claire. «E Yuki? Dov'è?» «L'ho lasciata poco fa davanti al tribunale. Vi manda le sue scuse e i suoi saluti.» «Sta ancora così male?» «Sì, purtroppo. Però il processo la tiene occupata. Lo segue quasi più lei di me», rispose Cindy. Loretta ci portò il menu e un cestino di banane fritte. Cindy, intanto, ci raccontò quel che era successo negli ultimi giorni in tribunale. «Oggi è saltato di nuovo fuori il nome del dottor Dennis Garcia. Una bambina di dieci anni è rimasta orfana perché la madre ha ricevuto un'overdose del farmaco che le era stato prescritto. È entrata con le sue gambe ed è uscita in posizione orizzontale. Indovinate chi l'ha ricoverata? Garcia. A furia di sentire le storie che raccontano i testimoni, ti viene voglia di prendere a pugni qualcuno.» Cindy strappò l'involucro di carta di una cannuccia e continuò: «Se solo è possibile, conviene stare alla larga da quell'ospedale. Lì dentro muore più gente per errori medici che per tumore al seno, AIDS o incidenti stradali». «Non esagerare!» «Lindsay, gli errori medici sono una delle prime dieci cause di morte negli Stati Uniti. Mi sono documentata anche su Garcia e statisticamente si difende bene, ve l'assicuro.» «Dicci tutto», fece Claire. «In tutti i posti in cui ha lavorato - Cleveland, Raleigh, Albany e adesso qui - dopo che lui è stato assunto la mortalità è salita.» «Se le cose stanno così, è uno scandalo nazionale», osservò Claire, posando con forza il boccale. «Com'è possibile che medici incompetenti passino da un ospedale all'altro senza che nessuno abbia il coraggio di licenziarli? Vogliono evitare grane legali, d'accordo, però...» Cindy approvò con grandi cenni del capo. «È così che i cosiddetti angeli della morte fanno decine e a volte addirittura centinaia di vittime prima di venire scoperti. Ammesso che vengano scoperti.» «Non mi stupisco che Yuki si sia fissata su Garcia e sia così convinta che sua madre è morta per colpa sua», commentai io. «Una cosa ve la posso dire di sicuro», aggiunse Cindy. «Qualcuno in quell'ospedale è responsabile della morte di Keiko. A quest'ora lei dovrebbe essere a casa a prendere il tè e a dispensare consigli a Yuki su come ve-
stirsi e chi sposare.» 54 Quella mattina il traffico dell'ora di punta aveva fatto perdere un quarto d'ora a Cindy che, aprendo la porta, trovò l'aula del tribunale già piena. Salutò con la mano Yuki, seduta vicino alla balaustra, poi fece scalare tutti nella fila riservata alla stampa per prendere posto anche lei. Davanti allo scranno del giudice era in corso un conciliabolo, apparentemente piuttosto animato, tra O'Mara e Kramer. Il giudice, dopo averli ascoltati per un po', scosse la coda di cavallo, si aggiustò le lenti bifocali sul naso e disse: «Non vedo il problema, avvocato Kramer. Tornate ai vostri posti e cominciamo». Kramer si allontanò e Maureen O'Mara andò al leggio, scosse gli splendidi capelli rossi - forse in segno di vittoria - e chiamò a deporre un teste. Mentre la bella donna sulla quarantina prestava giuramento, nell'aula si levò un brusio. Aveva i capelli corti biondo platino, un tailleur attillato color verde oliva, firmato da uno stilista europeo, e una camicia bianca di taglio maschile. Nell'insieme, dava un'impressione di grande eleganza e sicurezza di sé. «Cosa succede?» bisbigliò Cindy al giornalista seduto accanto a lei, che assomigliava a Clark Kent: sulla trentina, capelli scuri, occhialuto, piuttosto carino, ma con l'aria da imbranato. «Piacere. Sono Whit Ewing del Chicago Tribune», le disse. «Oh, scusa. Io sono Cindy Thomas.» «Del Chronicle?» «Esatto.» «Ho letto i tuoi articoli. Niente male.» «Grazie. Allora, di cosa stavano discutendo poco fa con il giudice?» «Maureen O'Mara ha chiamato a deporre uno dei testimoni della difesa. È una tattica molto astuta, perché Kramer non può controinterrogare i suoi stessi testimoni...» «E così lei si trova in vantaggio finché non tocca a Kramer chiamarlo.» «Brava!» «Grazie. Ti devo un favore.» «Ci sarà l'occasione, vedrai», rispose lui sorridendo. Un colpo secco del martelletto del giudice Bevins riportò l'ordine in aula.
«Declini le sue generalità, per favore», disse Maureen O'Mara alla teste. «Sonja Engstrom.» «Dottoressa Engstrom, che lavoro svolge al San Francisco Municipal Hospital?» «Sono la direttrice della farmacia interna.» «Ci siamo. Ora ne sentiremo delle belle», disse Whit Ewing a Cindy. 55 Sonja Engstrom elencò brevemente le sue credenziali, disse che lavorava al Municipal Hospital da sette anni ed era responsabile dei sistemi e delle risorse umane per la distribuzione dei farmaci. Sembrava piuttosto sicura e soddisfatta di sé. Maureen O'Mara le chiese: «Può illustrare alla giuria in che cosa consistono tali sistemi, dottoressa?» «Certo. Abbiamo un sistema automatizzato, un computer collegato a un dispositivo di erogazione dei farmaci.» «Che cosa ci può dire riguardo all'affidabilità del sistema?» «Direi che è blindato al novantanove virgola nove per cento.» «Si spieghi meglio, per cortesia.» Cindy prese nota di tutto sul suo portatile. Il medico inseriva nel computer i risultati delle analisi e la diagnosi, il software gli presentava un menu di farmaci indicati e lui sceglieva quale prescrivere. L'infermiere di turno, quindi, immetteva nel computer il nome del paziente e il proprio codice di accesso. «Si tratta di una password, vero? Ogni infermiere ha il suo codice personale?» intervenne Maureen O'Mara. «Esatto.» «Continui, la prego.» «Nel momento in cui un infermiere digita il codice di accesso, uno dei nostri farmacisti verifica la prescrizione e immette l'ordine relativo al paziente, azionando la macchina che eroga i medicinali.» «Praticamente avete una sorta di distributore automatico di medicine.» «Sì», rispose la teste, che pareva soddisfatta, oltre che di sé, anche del fatto che Maureen O'Mara avesse capito alla prima. «L'infermiere preleva il farmaco richiesto dall'apposito scomparto e procede a somministrarlo al paziente.» «Un sistema 'blindato', ha detto?»
«Be', il software non può essere alterato e i codici di sicurezza garantiscono la tracciabilità di ogni operazione.» «Capisco», disse Maureen O'Mara. Poi tornò al proprio tavolo, consultò alcuni appunti e si girò di nuovo verso la testimone. «È possibile che uno degli addetti carichi nell''apposito scomparto' il farmaco sbagliato?» «Immagino possa succedere.» «Per piacere, risponda sì o no.» «Sì.» «È possibile che un infermiere prelevi il farmaco dalla macchina, ma non lo somministri al paziente? Per esempio per farne uso personale?» «Sì.» «Se il medico sbaglia la diagnosi, al paziente possono venire somministrati farmaci sbagliati?» La teste sbatté più volte gli occhi. Sembrava innervosita, pensò Cindy, ma più che altro addolorata: addio affidabilità al novantanove virgola nove per cento. «Sì, ma...» «Grazie», disse Maureen O'Mara senza lasciarla finire. «Mi dica: è vero che il numero di decessi per cause correlate a farmaci è triplicato, da quando il Municipal Hospital è stato privatizzato tre anni fa?» «Guardi che la cosa preoccupa anche me. Ho fatto di tutto per capire come mai», replicò la dottoressa Engstrom con voce tremante. Da quando aveva iniziato a deporre, era la prima volta che sembrava nervosa. «Coraggio, dottoressa Engstrom, risponda alla mia domanda. Lei è la direttrice della farmacia ospedaliera, fa parte del consiglio di amministrazione dell'ospedale. È vero che i decessi per cause correlate a farmaci si sono triplicati negli ultimi tre anni?» «Sì, ma... D'accordo, sì.» «Lei contesta che i congiunti dei miei assistiti siano deceduti a causa di errori farmacologici?» «No, non posso contestarlo», rispose con un filo di voce. «In tal caso, che tali decessi siano stati causati da difetti del suo blindatissimo sistema di distribuzione dei medicinali o da un errore umano poco importa, giusto? Voglio dire, in un caso o nell'altro, le morti sono dovute a negligenza sua e dell'ospedale.» Kramer balzò in piedi. «Obiezione! La domanda ha un intento polemico!»
A Cindy venne la pelle d'oca. Whit Ewing, al suo fianco, emise un leggerissimo fischio. «Accolta», disse Bevins. «Ritiro la domanda», disse Maureen O'Mara, poi si girò verso i giurati e, osservandoli uno per uno, concluse: «Vostro onore, l'accusa non ha altri testimoni». 56 Mi avevano detto che era una magnifica giornata autunnale, ma non avrei certo potuto giurarci: ero chiusa nel mio ufficio senza vista con un panino al formaggio e prosciutto quando bussò alla porta l'ispettore Conklin. «Entra», gli dissi. Conklin era in maniche di camicia e sorrideva sotto i baffi. Non sapevo perché, ma la cosa mi incuriosiva. «Lou, c'è una persona in cucina che dovresti conoscere. Anche subito, se puoi.» «Di chi si tratta?» Conklin era già pronto ad andarsene. «Vieni con me», disse avviandosi a grandi passi nel corridoio. «Conklin?» Posai le bozze del rapporto che stavo rivedendo e lo seguii nella stanza ingombra in cui si trovavano il forno a microonde e un vecchio frigorifero Kenmore a disposizione del personale per la pausa pranzo. Jacobi era seduto al tavolo di fronte a una ragazza di poco più di vent'anni, carina, con una camicia azzurra di pile e pantaloni stretch. Aveva i capelli lunghi, raccolti in una treccia. Alzò la testa e vidi che aveva gli occhi rossi e il trucco sfatto. Era chiaro che aveva pianto. Jacobi aveva la faccia da «zio Warren». Non sorrideva, ma gli lessi negli occhi che era contento. «Tenente, la signorina Barbara Jane Ross», mi disse. «Ha notato questa mentre buttava via dei giornali.» Spinse verso il centro del tavolo una pagina di giornale con la foto della ragazza della Jaguar seduta come una mannequin sulla decappottabile di Chestnut Street. Da quando quella foto era uscita sul Chronicle, avevamo ricevuto un mare di segnalazioni inutili. A giudicare dalla faccia di Jacobi, però, Bar-
bara Jane Ross aveva da fornirci informazioni preziose. Le strinsi la mano, che era gelata. «Posso vedere?» chiesi indicando la foto che stringeva nella sinistra. «Certo», rispose. Nell'istantanea riconobbi sia lei sia la ragazza della Jaguar, tutte e due in bikini e cappello di paglia, con i capelli raccolti in una treccia, sorridenti. «Era la mia compagna di camera al college», spiegò. Fece una smorfia per non rimettersi a piangere. «Non posso credere che sia finita così! Povera Sandy...» 57 Porsi una scatola di fazzoletti di carta a Barbara Jane e, mentre si soffiava il naso, guardai prima Jacobi e poi Conklin. Finalmente avevamo scoperto qualcosa sulla ragazza della Jaguar! «Barbara, come si chiama di cognome la sua amica?» «Wegner. Ma Sandy usa anche altri nomi, e non li so tutti.» «Fa l'attrice?» «No, l'entraîneuse.» Rimasi di sasso. Sandy Wegner faceva la vita. Com'era possibile che le sue impronte non fossero nel database della polizia? «Anche lei fa l'entraîneuse?» le domandò Conklin. «Assolutamente no! Io faccio l'insegnante di sostegno, qui a San Francisco.» Jacobi si alzò a preparare il caffè mentre Barbara Jane Ross ci raccontava di quando lei e Sandy frequentavano la University of California a Santa Barbara e dividevano una stanza. «Ai tempi dell'università, quando aveva bisogno di un po' di soldi in più, Sandy accettava di fare qualche 'servizio' per un'agenzia di accompagnatrici. Tante ragazze lo fanno. Da studenti non si hanno mai abbastanza soldi», disse. «Sandy non lo faceva spesso, ma lo trovava divertente, eccitante. Le piaceva avere una vita segreta. E non era l'unica, ripeto.» «Le accennò mai a qualche partner che le avesse dato dei problemi?» chiesi. «Che fosse diventato possessivo, o violento?» «No, mai», rispose Barbara. «Me lo avrebbe sicuramente raccontato, perché ci confidavamo tutto. Mi parlava anche del suo lavoro.» «Aveva un fidanzato, qualcuno che possa aver scoperto che faceva queste cose per arrotondare?»
«No, non aveva un ragazzo fisso. Se lo avesse avuto, avrebbe smesso di fare il secondo lavoro», rispose Barbara. «Era una ragazza seria. So che sembra assurdo, ma vi assicuro che non era una puttana. Oh, mio Dio! I suoi genitori non sapranno niente. Vivono a Portland.» «Sa come si chiamano? Ha per caso il numero di telefono?» Barbara Jane frugò nella borsa e tirò fuori un computer palmare. «Sentite, mi è venuto in mente per chi lavorava. Un'agenzia che si chiama Top Hat, se non sbaglio», disse. «Grazie. Lei ci è stata di grande aiuto. Può fermarsi ancora un momento, per favore? L'ispettore Conklin ha un altro paio di domande da farle.» Mentre uscivo, Conklin si sedette al mio posto. Barbara Jane Ross lo guardò e gli sorrise. 58 Il condominio, tre piani, intonaco beige, si trovava in California Street, ai margini del Financial District. Mostrai il tesserino al portiere, che disse al citofono: «C'è una persona del dipartimento di polizia di San Francisco che desidera parlarle, signora Selzer». Udii distintamente, per quanto disturbata, la voce della donna che rispondeva: «Non sono in casa. Non ho visto niente. Non so niente. Vivo da reclusa e non mi immischio negli affari degli altri». «Che commediante!» commentò Jacobi rivolto al portiere. «Andiamo.» Salimmo le scale e trovammo una donnetta esile sulla porta di uno degli appartamenti. Non arrivava a un metro e mezzo di statura, aveva lunghi capelli lucidi fissati con un pettine di tartaruga, rossetto chiaro, una maglia di seta nera con lo scollo a V e un paio di pantaloni di raso. Lì per lì pensai che avesse più o meno trentacinque anni, ma guardandola meglio notai le zampe di gallina attorno agli occhi: o era molto più vecchia, oppure faceva una vita di stravizi. Probabilmente tutte e due. «Signori, io gestisco un'agenzia per cuori solitari, con tanto di regolare licenza», esordì senza neppure salutare. «Le dispiace se entriamo un attimo? C'è troppa corrente qui sul pianerottolo», disse Jacobi mostrandole il distintivo. La donna sospirò esasperata, ma indietreggiò di un passo e ci fece accomodare. Da un atrio con le pareti a specchio si passava in un soggiorno con tappezzeria e intonaco in varie sfumature di grigio. Alle pareti erano
appese foto in bianco e nero di Helmut Newton. La seguimmo verso una poltroncina girevole rossa e una scrivania laccata nera sotto la finestra. «Sono il tenente Boxer, e questo è l'ispettore Jacobi. Squadra Omicidi.» Misi sul tavolo le foto di Sandy Wegner e della ragazza della Cadillac: i loro due visi terrei spuntavano da sotto il lenzuolo che non arrivava a nascondere gli orribili lividi sul collo. «Riconosce queste due ragazze?» La signora Selzer inspirò profondamente, quindi puntò il dito su una delle due foto. «Questa è Sandra Wegner. Si fa chiamare Tanya. L'altra non la conosco. Mi state dicendo che è morta?» «Che cosa ci può dire di Sandy?» «Di persona l'ho vista una sola volta, poi ci siamo sempre parlate per telefono. Molto spiritosa, con un corpicino da modella. Avrei potuto farla lavorare tutte le sere, ma le interessava solo il part time. Senta, non penserà mica che io abbia qualcosa a che fare con questa roba, vero?» disse rivolta a me, indicando la foto. «Sandy lavorava per lei la sera del 15 settembre?» domandai. La signora Selzer si sedette sulla poltroncina girevole e digitò una serie di comandi al computer, restando poi ad aspettare con il mento appoggiato sulle mani che sullo schermo scorressero i dati. «Sì. Aveva appuntamento con un certo Alex Logan. Adesso mi ricordo. Telefonò dall'hotel Triton dicendo che era a San Francisco per una sera e voleva una bionda minuta che lo accompagnasse a teatro. A vedere l'Enrico V. Non so come mai mi è rimasto impresso.» «È un cliente abituale?» «No, era la prima volta che chiamava.» «Lei mandò la ragazza a un appuntamento con uno sconosciuto?» Il tono di Jacobi era severo e indignato, com'era giusto che fosse. La signora Selzer si ritrasse istintivamente. «Controllai la carta di credito, non c'era nessun problema. Controllai anche nome e indirizzo su AnyWho.com e telefonai all'albergo, dove risultava registrato. Era tutto a posto.» «Il signor Logan si è mai più fatto sentire?» «No. Ma è raro che i clienti occasionali lo facciano.» «Quanto gli chiese per la serata?» domandai. «Il solito: mille dollari. Trattenni la mia percentuale e versai il resto sul
conto di Sandy. Eventuali mance erano sue.» «Qualcuno l'ha mai seguita, infastidita? Sandy le riferì mai di aver avuto problemi con qualche cliente?» chiese Jacobi. «Ci dia una mano.» «No, non mi disse mai nulla. Eppure non era una ragazza timida: penso proprio che, se le fosse successo qualcosa, me ne avrebbe parlato», rispose la donna sulle difensive. «Il giorno dopo la chiamai, ma non mi rispose né mi richiamò. Perciò pensai che avesse deciso di smettere e mi irritai non poco. Mi toccò cancellare tutte le sue prenotazioni.» Jacobi la fulminò con un'occhiata e disse: «Non mi faccia perdere la pazienza, signora Selzer». L'espressione indignata della donna svanì. «Per carità. Mi dispiace, mi dispiace davvero. Secondo voi ho commesso un errore? Sinceramente, non so che cos'altro avrei potuto fare.» Si tolse il pettine dai capelli e scosse la testa, lasciandoseli cadere sulle spalle: forse le pareva, più o meno inconsciamente, che l'unico modo per difendersi fosse giocare la carta della seduzione. Ma quella mossa non distrasse affatto Jacobi, che disse: «Lei non ha commesso un errore. Lei ha mandato una ragazza a un appuntamento con un assassino». La signora Selzer si nascose la faccia tra le mani. «Ci dia tutti i dati di Logan», ordinò Jacobi. La donna scrisse i numeri di telefono su un post-it. Jacobi lo prese e, in cambio, le diede il suo biglietto da visita. «Dovesse farsi vivo di nuovo, gli dia appuntamento con una ragazza inventata e mi chiami immediatamente. Chiaro? A qualsiasi ora del giorno e della notte. Le ho scritto anche il mio numero di cellulare.» Eravamo quasi sulla porta quando la signora Selzer disse: «Sentite, mi dispiace tantissimo per Sandy. Davvero, sono desolata. E spero che prendiate il suo assassino». «Sì, faremo del nostro meglio per liberarla dai sensi di colpa», le gridò Jacobi di rimando. 59 Fu Conklin ad aprirci la porta quando arrivammo a casa di Sandy Wegner. Salutai Charlie Clapper, che stava uscendo dal bagno con una serie di sacchetti, in cui aveva messo una spazzola, vari farmaci e lo spazzolino da denti della vittima. «Mi sa che non è morta qui, tenente», mi disse Conklin. «La porta era
chiusa a doppia mandata e non ci sono segni di colluttazione.» «Cos'avete scoperto?» «Che per cena aveva mangiato uno yogurt. Sul letto ci sono dei vestiti, forse quelli che si era provata prima di uscire. Un asciugamano usato sul portasciugamani. A proposito, il guardaroba è curato, ma non extralusso. La spia della segreteria telefonica lampeggiava e c'erano due messaggi. Uno della madre e uno della biblioteca che le ricordava di restituire un libro perché il prestito era scaduto. Ho preso il nastro. Ho controllato l'ultima chiamata fatta, che era alle previsioni del tempo. Probabilmente ha chiamato prima di uscire quella sera.» «Ottimo lavoro», dissi a Conklin, poi chiesi a uno dei tecnici della Scientifica: «Come va?» «Abbiamo fatto un po' di fotografie, tenente.» Mi guardai intorno. L'appartamento di Sandy Wegner era poco luminoso, come il mio ufficio, senza vista da nessuna delle finestre. Doveva piacerle lo stile dei negozi Pottery Barn, a giudicare dall'arredamento e dagli oggetti, compreso l'arazzo appeso sopra il divano. Sul davanzale c'era un vaso di fiori secchi e sugli scaffali, oltre a libri di testo - matematica, fisica, storia dell'arte - c'erano romanzi contemporanei e biografie di personaggi storici. La camera da letto era molto piccola, dipinta di un bell'azzurro tendente al lilla con rifiniture bianche. Sopra il letto erano appesi alcuni acquerelli firmati da Sandy. Sono sempre i dettagli personali a commuovermi di più. Aprii la porta a due ante della cabina armadio e vidi che Sandy era molto ordinata e teneva con cura i vestiti. Alcune magliette di Agnès B. appese a grucce imbottite, vestiti, tailleur e pantaloni chiusi nei sacchetti della lavanderia. Le scarpe erano in fila, pulite, con i tacchi in buone condizioni. Un guardaroba di gusto, ma di qualità decisamente normale. Non c'era nulla di paragonabile ai capi esclusivi che le erano stati trovati addosso da morta. Jacobi frugava nei cassetti del comò, aprendoli e chiudendoli uno dopo l'altro. Si fermò e mi chiamò a vedere quando arrivò a quello della biancheria intima: reggiseni a balconcino di pizzo, tanga e slip trasparenti in colori vivaci, un vibratore. Potevano essere ferri del mestiere. O forse facevano parte della vita sentimentale di una ragazza disinibita. Frugammo in tutte le quattro stanze di cui era composto l'appartamento senza trovare nulla: né una rubrica, né un diario, né nulla di più forte di
un'aspirina. Ne ricavai l'impressione che il lavoro serale di Sandy Wegner occupasse una parte molto limitata della sua vita. Chiesi a Conklin di tornare in ufficio e cercare in tutti i database il nome di Alex Logan, poi Jacobi e io apponemmo i sigilli all'appartamento e ce ne andammo. Fuori il cielo era di uno spento grigio acciaio. Erano le sette meno un quarto di sera. Il sole ormai tramontava presto e aveva lasciato sopra la città un alone sinistro. O forse era solo una mia impressione. «Stiamo cercando due psicopatici ossessivi», dissi a Jacobi mentre metteva in moto. «Se Sandy era un'entraîneuse, probabilmente lo era anche la ragazza della Cadillac. E questo significa che il DNA...» «Mi hai letto nel pensiero», disse Jacobi immettendosi nel traffico di Columbus Avenue. «Il liquido seminale può essere dell'assassino, ma anche di un altro cliente, o di un fidanzato.» «Di chiunque», conclusi. «Il procuratore dirà che non è prova attinente l'omicidio.» 60 Ma forse qualche prova stavamo per trovarla. All'hotel Triton quella sera c'era parecchia gente, ma era sempre molto frequentato. Si affacciava su Union Square, a pochi passi dalla fermata del tram e vicinissimo a Chinatown, aveva uno stile allegro, tipo Cirque du Soleil, e prezzi di medio livello. Jacobi passò avanti alla fila di gente in attesa alla reception, mostrò il tesserino all'impiegato e gli intimò in tono burbero di chiamare il portiere di notte. «Forza! Svelto, si sbrighi!» Dall'ufficio dietro il bancone spuntò un uomo robusto, sulla quarantina, con una targhetta sulla giacca che diceva: JON ANDERSON, DIRETTORE. Ci salutò con un cenno del capo e chiese se c'era qualche problema. «Sì che c'è un problema, e anche grosso. Stiamo indagando su un omicidio», gli dissi. «Abbiamo bisogno dei dati relativi a tutti i clienti che alloggiavano in questo hotel il 15 settembre e soprattutto su un certo Alex Logan.» «Ci servono anche le registrazioni di quella telecamera», aggiunse Jacobi indicando la telecamera dietro il bancone. «E di quella al piano della stanza di Logan il 15 settembre.»
Il direttore, stizzito, ribatté: «Immagino che abbiate un mandato...» «Se vuole, ce ne procuriamo subito uno e le facciamo chiudere l'albergo per una perquisizione generale.» Jon Anderson rifletté velocemente sulle possibili conseguenze di una perquisizione approfondita e disse: «Le videocassette vengono riciclate e riregistrate ogni quarantotto ore. Del 15 settembre non ci resta più niente». «Ma queste persone erano di turno quella sera», disse Jacobi indicando i cinque ragazzi, probabilmente studenti universitari, al lavoro alla reception. «I registri me li vado a cercare anche da solo. Vede come sono collaborativo?» Era stato un ragazzo magro e distratto, di nome Gary Metz, ad accogliere il signor Alex Logan e ad assegnargli la stanza numero 2021. «Mi sembra di ricordarmelo», ci disse tamburellando le dita sul bancone e guardando verso la hall, oltre le mie spalle. Poi mi fissò e aggiunse: «Era con un uomo». Credo di aver smesso di respirare per un attimo, tanto quell'informazione accese le mie speranze. «Se non sbaglio, era alto più o meno come me, corporatura normale. Forse era cinese», continuò il giovane impiegato. «Alex Logan? Cinese?» «Credo di sì. In parte, perlomeno. L'altro era un bestione alto quasi due metri, sui cento chili, biondo. Voleva una camera per fumatori. La mia impressione è che non fossero gay.» «Perché lo dice?» «Perché hanno chiesto una doppia con letto matrimoniale, ma non erano abbastanza ben vestiti per essere gay. Il biondo aveva i capelli tagliati malissimo, come se se li fosse tagliati da solo.» «Ricorda se avevano bagagli?» «Quello grande e grosso aveva un valigione con le rotelle. Lo notai perché era di pelle, forse marca Tumi. Di lusso, comunque.» «Grazie, signor Metz», dissi facendo del mio meglio per non lasciar trapelare l'emozione. «Adesso abbiamo bisogno di vedere la camera.» 61 La camera 2021 era la terza a partire dall'ascensore ed era arredata nello stesso stile eccentrico della hall: letto con testiera in tessuto a quadretti bianchi e neri, sedie con tre gambe, moquette blu notte con stelle gialle.
Gli attuali occupanti della camera erano stati fatti uscire in tutta fretta e avevano lasciato le valigie aperte sul letto e la loro roba nel bagno. Sul comodino c'era una mignon di whisky aperta. Cercai di immaginare come poteva essere avvenuto l'omicidio. Il cinese andava ad aprire la porta. Sandy Wegner si presentava, posava la giacca sulla sedia. Lui le metteva il Roipnol nel bicchiere. L'altro, il bestione, usciva dal bagno per ucciderla. Mi pareva di assistere di persona, di vedere Sandy Wegner che, indifesa, veniva violentata e poi uccisa dai due maniaci. Fui colta da un orrore indicibile mentre mi guardavo intorno in cerca di qualche particolare significativo, di qualcosa che saltasse all'occhio. Ma in quella stanza erano passate troppe persone, clienti e addetti alle pulizie, da quando vi era morta Sandy. «Detesto le camere d'albergo», dissi a Jacobi. «Nella moquette ci saranno milioni di peli pubici, e nessuno che corrisponda a niente.» «Grazie di avermi suggerito questa bella immagine romantica, collega.» In quel momento arrivò il direttore e ci comunicò che aveva spostato in una stanza migliore i signori della 2021, in modo da lasciarcela a disposizione per tutto il tempo che volevamo. Lo ringraziai, lo informai che noi ce ne saremmo andati entro breve, ma che sarebbero venuti quelli della Scientifica. «Magari troveranno un'impronta o, se ci va bene, un pelo o un capello con un frammento di cute», dissi a Jacobi. «La speranza non costa niente», ribatté. «Ed è sempre l'ultima a morire», conclusi io. 62 C'erano varie anatre appese per il collo nella vetrina dello Wong Fat, un ristorante cinese a cinque minuti dall'hotel Triton. «Questo posto mi ispira», dissi. L'interno del locale era luminoso, con i neon che si riflettevano sul pavimento di linoleum e sui tavoli di formica. Il menu, scritto in ideogrammi su strisce di carta rossa, era appeso alle pareti. Faceva piacere entrare finalmente in un posto caldo e bene illuminato. Il tè era bollente e la zuppa agrodolce ottima. Mentre aspettavamo il secondo, Jacobi tirò fuori la stampa del conto pa-
gato da Alex Logan al Triton. «Questa è la telefonata alla Top Hat», disse. «Quattro minuti e mezzo. Logan e il suo amico hanno anche svuotato il frigobar: champagne e noccioline, e si sono sbafati pure una scatola di Pringles. Alle nove hanno ordinato una trasmissione TV a pagamento. Football o film porno?» «Secondo me è tutto pianificato. Prenotano la stanza, prenotano la ragazza, la violentano e la uccidono in un posto che è, per definizione, una scena del crimine contaminata. Poi le fanno la doccia, eliminano qualsiasi fibra o pelo dal corpo.» «E la profumano.» «Giusto, grazie. Dunque, le spruzzano di profumo le parti intime, la rivestono, la pettinano e la truccano come una bambola.» «Il valigione con le rotelle serve per portare i vestiti all'andata e il cadavere al ritorno», disse Jacobi. «Il 'bestione' se lo trascina fino alla macchina come se niente fosse.» «Dopo di che la tirano fuori e la piazzano in un posto dove noi la troviamo.» Stavo per chiedermi ad alta voce dove compravano i vestiti, quando mi squillò il cellulare. Era Conklin. «Ho verificato il nome e il numero di carta di credito di Alex Logan. Senti questa: Alex Logan è una donna! Sono andato a controllare i dati della patente di guida: bionda, piccoletta, ventitré anni. Secondo me abbiamo trovato la ragazza della Cadillac.» «Che cos'altro hai scoperto?» «Sono andato a vedere dove stava, tenente. In un bel palazzo in Jones Street. Il portiere mi ha detto che è un po' che non la vede. Ho chiamato anche l'American Express e la carta di credito è attiva. Negli ultimi dieci giorni risulta un solo acquisto, fatto all'hotel Triton il 15 settembre.» «Chiamo la procura e mi faccio fare un mandato di perquisizione per l'appartamento. Richie?» «Sì, tenente?» «Diventerai famoso.» Finita la telefonata, guardai Jacobi, che mi osservava con la forchetta a mezz'aria. «Che cosa c'è, Boxer?» «Conklin l'ha trovata», gli risposi. «Gli assassini hanno usato la sua carta di credito per prenotare Sandy Wegner e pagare il conto dell'albergo. Alex
Logan è la ragazza della Cadillac.» 63 L'indomani mattina, entrando in ufficio, mi guardai intorno immaginando già di fare passi da gigante nelle indagini. Le ragazze che avevamo ritrovato sulle auto di lusso adesso avevano un nome e noi avevamo più probabilità di trovare un nesso tra le due e quindi risalire agli assassini. Da dietro il vetro della mia stanza vedevo Jacobi e Conklin che parlavano al telefono con i genitori delle due ragazze, quando davanti alla scrivania di Brenda comparve Claire, come un raggio di sole. Si affacciò alla mia porta seguita da una ragazza. Bussò e io le feci cenno di entrare. «Lindsay, ti presento Bunny Ellis.» «Piacere.» La nuova assistente di Claire aveva gli occhi grigi, leggermente strabici, e gli incisivi, di un bianco da pubblicità di dentifricio, un po' troppo distanziati. Quei due leggeri difetti fisici le davano una certa grazia, un che di commovente. «Bunny mi stava aiutando a preparare Sandy Wegner e Alex Logan per restituirle alle rispettive famiglie quando ha trovato...» cominciò Claire. Poi cambiò idea e invitò Bunny a continuare: «Racconta al tenente quello che hai raccontato a me, Bunny». «Ero così incuriosita da questi assassini, ma così incuriosita, sa? Due ragazze così giovani, fare una fine così...» «Non divagare, cara.» «Oh, mi scusi. Si tratta del profumo, tenente Boxer. L'avevo già notato quando sono arrivate, ma non sapevo che fosse importante.» «Mi dica», la incoraggiai, pensando al profumo pesante che gli assassini avevano spruzzato sui genitali delle due vittime. «È lo stesso che mi ha regalato mio marito per il mio compleanno», disse Bunny. «Si chiama Black Pearl. È un'esclusiva di Nordstrom.» Guardai Claire e poi Bunny. «Nel senso che non lo si trova in nessun altro negozio?» La ragazza scosse energicamente la testa. «No, solo da Nordstrom.» Un moto di speranza mi fece salire di colpo l'adrenalina. Qualcuno aveva comprato quel profumo esclusivo da Nordstrom. Forse da quell'acquisto
saremmo potuti risalire a un numero di carta di credito, a un nome, o a un identikit affidabile. «Bunny, vede quei due ispettori là nell'angolo?» «Quello con i capelli grigi e l'ispettore Conklin?» Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo: Bunny lavorava con Claire da pochissimo tempo, eppure era già in grado di riconoscere Rich Conklin anche da lontano. Annuii. «Se va da loro e gli ripete quello che ha detto a me sul Black Pearl, li farà felici.» 64 Jacobi e Conklin erano appena partiti per la «missione profumo» da Nordstrom, quando Brenda mi chiamò all'interfono. «Tenente, c'è una signora al telefono che dice di aver bisogno di protezione. Insiste per parlare con qualcuno della Omicidi, e nessun altro.» «Qual è il suo nome?» «Anita Haggerty. Chiama dal Municipal Hospital. Dice che è ricoverata là.» La donna parlava a voce bassa, poco più di un sussurro. «Tenente Boxer?» «Sono io. Che cosa posso fare per lei?» «Ha mai avuto così paura da dover vomitare? Be', io mi sento così.» «Un momento, signora Haggerty. Cominci dal principio.» «Okay, ma può darsi che a un certo punto debba mettere giù di colpo.» Mi feci dire il numero della camera e la esortai a venire al dunque. «Quattro anni fa fui ricoverata in un ospedale di Raleigh per trauma cranico. Ero in camera con una signora che aveva un'ulcera gastrica. Si chiamava Dottie Coombs. Stava per essere dimessa, ma a seguito di un attacco di convulsioni finì all'altro mondo. La vidi con i miei occhi.» «Continui, signora Haggerty.» «Nessuno si aspettava che morisse, tant'è vero che le infermiere che le misero il paravento erano stupefatte: 'Com'è potuto succedere?' E il medico disse loro una cosa che mi ricorderò finché campo. Quelle parole mi sono rimaste impresse per sempre.» «Mi dica.» «Disse: 'Certi giorni soffia un vento cattivo'.» «E secondo lei che cosa intendeva dire con questo?»
«Intendeva qualcosa tipo Venerdì 13, o Nightmare. Dal profondo della notte. Non lo so, tenente, ma so che la mia vicina di letto era morta e il suo medico aveva reagito in maniera strana. E adesso è qui! L'ho rivisto! Si è affacciato sulla porta della mia camera e ho paura che si ricordi di me. Domani mi devono operare di ernia. Dovrebbe essere un intervento semplice, ma ho paura di morire, lo giuro su Dio.» La signora Haggerty aveva il fiato corto. Ebbi un brutto presentimento. Sudando freddo, mi premetti il ricevitore all'orecchio e le chiesi: «Si ricorda il nome di quel medico?» «Non me lo dimenticherò mai», rispose Anita Haggerty. «Si chiama Garcia. Dennis Garcia.» PARTE QUARTA LA RAGAZZA DEL SALONE 65 Certi giorni soffia un vento cattivo. Quella frase sinistra, sommata alla paura che trapelava dalla voce della signora Haggerty, mi aveva fatto venire i brividi. In sottofondo mi pareva di sentire anche la voce di Yuki. Qualcuno in quel maledetto ospedale ha ammazzato mia madre. Presi la macchina e partii per l'ospedale dicendomi che non ci andavo per svolgere indagini, ma semplicemente per informarmi. Insomma, per una specie di visita di cortesia. Il San Francisco Municipal Hospital sembra un'enorme fortezza di pietra circondata da un muro basso e da alberi. Lasciai la macchina nel parcheggio ed entrai nell'atrio semibuio, dal pavimento di marmo. Presi l'ascensore, andai al terzo piano e, seguendo le apposite frecce, cercai la stanza 311. Stavo per aprire la porta della camera privata di Anita Haggerty, quando arrivò un'inserviente con le braccia cariche di lenzuola. Aspettai che si allontanasse ed entrai. In base al suono della voce mi ero immaginata che la signora Haggerty fosse una donna robusta, bruna, magari con i capelli tinti con l'henné. Quel che non avevo immaginato neppure per un attimo era di trovare il letto vuoto. Rimasi sulla soglia a sbattere stupidamente gli occhi davanti a quel che
non vedevo, poi mi girai di scatto a guardare nel corridoio. L'inserviente aveva ficcato le lenzuola in una sacca su un carrello e stava per andarsene. «Aspetti», le dissi prendendola per un braccio. La donna trasalì e mi guardò esterrefatta. Mi parve un po' troppo tesa per il lavoro che faceva. «Giù le mani», esclamò. «Mi scusi», feci mostrandole il distintivo. «Sono il tenente Boxer, del dipartimento di polizia di San Francisco. Sono venuta a trovare la signora Haggerty, nella camera 311.» «Be', è arrivata troppo tardi.» «Troppo tardi? Le ho parlato al telefono poco fa. Che cos'è successo?» Con gli occhi della mente rividi la paziente curva sul telefono, terrorizzata. Le avevo appena parlato! «Ha firmato e se n'è andata, contrariamente al parere del suo medico. L'ho accompagnata adesso adesso giù nel portone e l'ho aiutata a salire su un taxi. Yellow Cab, se le interessa. Posso andare ora?» Feci di sì con la testa e la ringraziai. L'inserviente si allontanò, lasciandomi sola nel corridoio. Mi stavo avviando verso l'uscita, quando un'infermiera con il camice azzurro mi fece un cenno da una camera dall'altra parte del corridoio. Era una nera dalla pelle piuttosto chiara, di circa venticinque anni, viso tondo, qualche sfumatura rossiccia nei capelli. Appesa alla catenina aveva una targhetta che diceva: NODDIE WILKINS, INFERMIERA DIPLOMATA. «È della polizia?» mi chiese sottovoce, in tono allarmato. «Devo parlarle. Ho delle cose da dirle. Che richiedono l'intervento della polizia.» 66 Decidemmo che era meglio parlare fuori dall'ospedale e poco dopo Noddie Wilkins e io ci ritrovammo sedute sulla mia macchina, con due bicchieri di polistirolo colmi di caffè. «In questo ospedale sta succedendo qualcosa di strano», mi disse Noddie. «Me ne sono accorta la settimana scorsa, quando ho trovato morto uno dei miei pazienti. Si chiamava Harris. Era arzillo, si stava preparando a tornare a casa, non certo a morire. Un arresto cardiaco? Che io sappia, aveva il cuore sanissimo.»
«Le è parsa una morte sospetta?» «Sì. Per non parlare del fatto che, quando l'ho trovato morto, aveva due monete sulle palpebre.» «Monete? Che genere di monete?» domandai. «Cioè, non erano proprio monete. Voglio dire, lo sembravano, ma in realtà erano bottoni. Con un disegno, ma non inciso, il contrario...» «Un disegno in rilievo? A sbalzo?» «Sì, in rilievo. Un simbolo medico: ha presente i due serpenti intrecciati intorno a un bastone con due ali in cima?» «Il caduceo?» «Esatto. Il caduceo.» Mi sentii come se avessi messo un piede in un tombino aperto e stessi precipitando nell'abisso. Gli occhi di un paziente morto erano stati chiusi con un simbolo. Non poteva che essere la firma di un assassino. «Brutta storia, eh?» disse Noddie notando la mia espressione scioccata. «Ma non finisce qui.» Mi fissò con i grandi occhi spalancati e l'aria di chi si è tenuto tutto dentro troppo a lungo e non vede l'ora di sfogarsi. «Mi era già capitato di trovarli sugli occhi di un altro paziente, circa sei mesi fa, e quella volta avevo pensato a un rito, magari un po' macabro. Tipo i soldi per pagare il viaggio nell'aldilà, sa?» aggiunse. «Ma quando ho trovato morto il signor Harris, ho lanciato un grido dallo spavento. E mi sono anche arrabbiata, perché gli ero affezionata e lui era affezionato a me. Che cosa ci facevano quei due affari sugli occhi di un povero vecchio? Qui c'è sotto qualcosa, mi sono detta. C'è qualcosa che non quadra, tenente.» «Perché non ha chiamato subito la polizia?» le chiesi. Era simpatica, ma non mi sembrava molto sveglia. «Sono andata a dirlo alla caposala. Secondo lei, bisognava avvertire Whiteley, il direttore sanitario.» Avevo il cuore che batteva a mille. Com'era possibile che l'ospedale fosse riuscito a mantenere il silenzio per tanto tempo su un fatto così bizzarro e sinistro? «Bisognerebbe che lei mi rilasciasse una dichiarazione giurata», dissi, ma Noddie indietreggiò, appoggiandosi con le spalle alla portiera. «Per piacere, non mi metta in mezzo. Non posso: ho bisogno di lavorare, ho due figli piccoli da tirare su e sono sola...» «Ho capito. Userò la massima discrezione», la rassicurai. «Ha parlato
con il direttore sanitario?» «Sì. È stato molto scostante», mi rispose la ragazza scuotendo la testa al ricordo del colloquio. «Mi ha detto che le due monete erano una specie di scherzo e che era meglio non dirlo in giro, perché l'ospedale rischiava di rimanere danneggiato e in quel caso avrebbe dovuto fare dei tagli. Insomma, mi ha minacciata di licenziarmi. Così ho lasciato perdere. Che cos'altro potevo fare? Adesso ho sentito dire che anche altri hanno visto queste cose e hanno fatto finta di niente. Per mesi non è successo niente. Poi, ultimamente, hanno ricominciato a morire pazienti con monete sugli occhi uno dopo l'altro.» «Quanti, Noddie? Quanti pazienti morti avete ritrovato con quei bottoni sugli occhi?» «Non lo so. Guardi, mi viene la pelle d'oca solo a pensarci», mi disse mostrandomi un braccio. «Cioè, se era una specie di scherzo, come ha detto il signor Whiteley, non le sembra che stiano un po' esagerando?» 67 Sedevo impaziente su una poltroncina imbottita, con una folta moquette sotto i piedi e un numero di Fortune in bella mostra su un tavolino di noce chiaro, nella sala d'attesa ovattata di Carl Whiteley, direttore sanitario del Municipal Hospital. La segretaria posò il telefono e mi informò che il signor Whiteley era pronto a ricevermi. Entrai in un ufficio con molte finestre e un signore dai capelli grigi e dalle guance rosee, con un paio di occhiali di metallo sul naso, si alzò da dietro la scrivania. Era una via di mezzo tra un senatore repubblicano e un Babbo Natale senza barba. Gli strinsi la mano e gli mostrai il tesserino pensando che ero sola, senza un mandato né un'inchiesta che lo riguardasse, spinta soltanto dai timori confidatimi da Noddie Wilkins e dal ricordo inquietante della madre di Yuki. «Non capisco, tenente», mi disse Whiteley sedendosi, mentre io mi accomodavo sulla sedia di fronte alla scrivania, con il sole negli occhi. «Qualcuno ha sporto denuncia alla polizia? Chi? A quale proposito?» «Si sorprende, signor Whiteley? Allora sono io che non capisco. È in corso un processo per negligenza professionale contro il suo ospedale.» «Quel processo è una farsa», ribatté Whiteley ridendo. «Questo è un ot-
timo ospedale, ma, come in tutti gli ospedali, ci sono pazienti che muoiono. Viviamo in un'epoca in cui la gente è pronta ad approfittare di qualsiasi cosa per farti causa.» «Ciononostante, avrei alcune domande da farle.» «D'accordo. Spari», disse intrecciando le dita dietro la testa e appoggiandosi comodamente allo schienale della poltrona. «Che cosa mi sa dire delle monete che i dipendenti del suo ospedale hanno trovato sugli occhi di alcuni pazienti deceduti? Da quanto tempo va avanti questo fenomeno?» «Monete...» ripeté Whiteley tornando a sedere diritto e guardandomi con grande condiscendenza. «Intende dire bottoni, vero?» «Monete, bottoni. Che differenza fa? Nel mio mestiere si chiamano indizi.» «Indizi di che cosa, tenente? I medici non ci mancano, qui, e sappiamo la causa del decesso di ogni paziente: nessuno è morto ammazzato. Vuole il mio parere? Quei bottoni sono uno scherzo, soltanto un macabro scherzo.» «Ed è per questo che lei non ha informato la polizia?» «E di cosa? I pazienti a volte muoiono. Non è mica stato commesso un reato!» Whiteley era estremamente arrogante e sicuro di sé e non mi piaceva affatto. Non mi piaceva la sua faccia liscia da bambino, non mi piaceva la sua risata asinina, né il modo in cui mi trattava e cercava di fare il furbo. «L'occultamento di prove è un reato, signor Whiteley. O lei mi parla di quei 'bottoni', o la nostra conversazione finisce qui e io la dichiaro in arresto per aver ostacolato il corso della giustizia e interferito con un'indagine di polizia.» «Dichiararmi in arresto? Un momento, tenente. Chiamo il mio avvocato.» «Faccia pure», ribattei. «E mentre lo chiama, rifletta su questo fatto: lei gode di una buona reputazione, ma che figura farà quando arriveranno le nostre macchine a sirene spiegate e io la porterò fuori in manette?» Whiteley sollevò il telefono e cominciò a comporre un numero, ma poi si fermò e lo rimise al suo posto con rabbia. «Senta, tutto questo è assurdo!» esclamò fulminandomi con lo sguardo. «Non abbiamo nulla da nascondere.» Aprì uno dei cassetti, tirò fuori una busta beige con il logo dell'ospedale nell'angolo in alto a sinistra e la lasciò cadere sulla scrivania.
«Sono bottoni che si possono comprare in qualsiasi negozio di forniture sanitarie degli Stati Uniti, tenente», spiegò. «Vede che sono disposto a collaborare? Questa inezia non può essere data in pasto ai media. Se lei si azzarda a fare qualcosa che possa nuocere alla reputazione dell'ospedale, sono pronto a sporgere querela contro il dipartimento di polizia e contro lei in particolare.» «Se non esiste rapporto di causa-effetto tra i bottoni e la morte dei pazienti, lei non ha nulla di cui preoccuparsi.» Con il batticuore, allungai la mano per prendere la busta, l'aprii e guardai dentro. C'erano decine di bottoncini con un piccolo gambo da una parte e, dall'altra, il simbolo in rilievo di un caduceo. I bottoni tintinnarono quando scossi la busta. Forse Whiteley aveva ragione: erano normalissimi bottoni per polsini di camici o giacche, senza niente di speciale. Ma entrambi sapevamo che ogni paio di quei bottoni rappresentava un paziente che era morto in quell'ospedale. «Mi serve un elenco di tutti i pazienti che sono stati trovati con questi cosi sugli occhi», dissi. «Glielo posso faxare in ufficio», propose Whiteley. «Grazie, preferisco aspettare qui», replicai incrociando le braccia. 68 Nel tornare alla corte di giustizia trovai il prevedibile traffico pomeridiano ed ebbi tutto il tempo di riflettere sull'astio che aveva caratterizzato il colloquio con Whiteley e sulla vista raggelante di tutti quei bottoni. Che cosa volevano dire? Chiudere gli occhi ai morti in quel modo mi pareva un gesto macabro, malato. Era solo uno scherzo di cattivo gusto, come sosteneva Whiteley, o il Municipal Hospital stava nascondendo qualcosa di veramente grave? L'elenco dei pazienti deceduti che mi aveva consegnato Whiteley era sul sedile, accanto a me. All'incrocio tra California e Montgomery Street mi fermai al semaforo e aprii la cartellina contenente una tabella di due pagine con i nomi di trentadue pazienti che erano stati trovati morti negli ultimi tre anni con bottoni sulle palpebre. Le intestazioni delle colonne della tabella erano NOME PAZIENTE,
MEDICO CURANTE, DATA DEL DECESSO, CAUSA DEL DECESSO. Scorsi velocemente la prima pagina, poi passai alla seconda. Trovai i nomi di Leo Harris e, nella riga sopra, Keiko Castellano. Mi si fermò il cuore nel leggere il nome della madre di Yuki. Rividi il suo bel viso e lo immaginai con gli occhi chiusi da quei due orrendi dischetti di ottone. I clacson delle macchine in coda dietro di me mi riscossero dalla trance. «Vado, vado!» dissi ingranando la marcia e accelerando di colpo. La macchina balzò in avanti, ma anche la mia mente correva. Whiteley aveva detto che non voleva che il particolare dei bottoni sugli occhi venisse rivelato ai media. Tuttavia, cercare di coprire una cosa del genere era soltanto un atto di vigliaccheria, non una prova di colpevolezza. E di omicidi veri su cui indagare ne avevamo già fin troppi, rispetto all'organico di cui disponevamo. Mi ci voleva qualcosa di più di una manciata di bottoni d'ottone e un elenco di nomi, prima di andare da Tracchio o dal procuratore. Se volevo delle risposte, me le sarei dovute procurare in via ufficiosa. E avrei dovuto chiedere un grosso favore a un amico. 69 Appena terminata la pausa per il pranzo, Yuki tornò al suo posto nell'aula. Larry Kramer aveva cominciato a chiamare i testimoni in difesa del Municipal Hospital e Maureen O'Mara ne aveva già controinterrogati spietatamente parecchi. Il contraddittorio era stato molto vivace e per i media si era trattato sicuramente di uno spettacolo avvincente, ma per Yuki quelle giornate erano state psicologicamente pesantissime, un vero e proprio strazio. Aveva osservato le facce dei giurati cercando di capire che cosa pensavano. Sembravano soddisfatti delle ultime testimonianze e approvavano con grandi cenni del capo le spiegazioni che medici e amministratori convocati da Kramer davano di decessi che non sarebbero mai dovuti avvenire. Aprì il blocco e rilesse gli appunti che aveva preso durante l'escussione di Carl Whiteley quella mattina. Nel rispondere alle domande di Kramer, il direttore sanitario del Municipal Hospital era stato eloquente e a tratti persino spiritoso. Maureen O'Mara aveva fatto anche a lui la domanda che aveva rivolto a
tutti gli altri: «Non è forse vero che il numero di decessi per cause correlate a farmaci è triplicato da quando il Municipal Hospital è stato privatizzato tre anni fa?» Whiteley aveva ammesso che era vero, ma non si era lasciato confondere come Sonja Engstrom e aveva minimizzato, snocciolando un sacco di dati statistici a livello nazionale che avevano disorientato completamente i giurati. «Ha ancora qualche domanda per il suo teste, avvocato Kramer?» disse il giudice. «Sì, vostro onore.» Kramer si alzò e si rivolse al testimone dal tavolo della difesa. «Le statistiche che ha citato, signor Whiteley, dicono che negli Stati Uniti muoiono per errori terapeutici da cinquantamila a centomila pazienti ogni anno. Si tratta di dati comunemente accettati?» «Sì. Secondo i competenti organi di vigilanza, muoiono settemila persone ogni anno per soli errori farmacologici.» Yuki prese nota di tutto. I dati erano scioccanti, ma non le interessava l'opinione di Whiteley, che era di parte e non poteva che difendere il sistema. Durante la pausa, Yuki aveva allungato l'occhio sul tavolo della difesa ed era riuscita a leggere l'elenco dei testimoni. Da una settimana aspettava di ascoltare il prossimo in lista. Non appena congedato Whiteley, infatti, Kramer avrebbe chiamato il dottor Dennis Garcia. 70 Kramer consultò alcuni fogli mentre Dennis Garcia prestava il giuramento di rito. Non sempre toccano i testimoni che uno vorrebbe. Bisogna prendere quello che viene. Alzò gli occhi giusto in tempo per vedere il medico che, innegabilmente bello ed elegante, si aggiustava la giacca di Armani e si sedeva. Garcia si tirò i polsini della camicia fatta su misura, accavallò le gambe e raddrizzò la schiena, apparentemente tranquillissimo. Sembrava più una star del cinema che un dottore che passava sessanta ore alla settimana a sporcarsi le mani in un pronto soccorso. Ma il problema non era quello. A preoccupare Kramer erano l'arroganza e l'imprevedibilità di Garcia, il quale si era rifiutato di prepararsi all'interrogatorio sostenendo che, dopo
ventidue anni di esperienza, era perfettamente in grado di rispondere alle accuse che venivano rivolte all'ospedale. Kramer sperava con tutte le sue forze che fosse davvero così, perché dalla testimonianza di Garcia dipendeva l'esito dell'intero processo. Era il momento cruciale. Sorrise a denti stretti e salutò il teste. «Dottor Garcia, è al corrente delle accuse che sono state rivolte all'ospedale in cui lei lavora?» «Sì, e desidero esprimere tutta la mia solidarietà alle famiglie.» «Le farò alcune domande specifiche sui pazienti che furono ricoverati al pronto soccorso in giorni in cui lei era di turno.» Kramer iniziò l'interrogatorio e si rincuorò nel vedere che il medico rispondeva spiegando i particolari dei singoli casi in tono pacato, credibile e autorevole. Pareva in gran forma. «Lei vede un nesso tra questi decessi, dottor Garcia? Individua un metodo dietro i vari episodi?» «Caso mai, un'assenza di metodo», replicò Garcia scostandosi dalla fronte i folti capelli. «I soliti, deplorevoli, errori casuali che si verificano ogni giorno in tutti gli ospedali del nostro Paese. E di tutto il mondo, se è per questo.» «La ringrazio, dottor Garcia. A lei il teste», concluse Kramer voltandosi verso Maureen O'Mara. Kramer guardò l'avversaria avviarsi verso il podio con un'espressione sul viso che fu una doccia fredda per quel po' di speranza che aveva sentito rinascere durante l'interrogatorio di Garcia. Conosceva bene Maureen O'Mara e si era già trovato varie volte a discutere cause in tribunale contro di lei: era sempre preparatissima, intelligente e molto in gamba negli interrogatori. Ma quel giorno aveva negli occhi una luce che gli fece addirittura paura. Sembrava impaziente di cominciare. 71 Yuki si sporse in avanti sulla sedia quando Maureen O'Mara si rivolse al teste e disse: «Dottor Garcia, ricorda Jessica Falk? Era sua paziente?» «Sì, certo.» Maureen O'Mara rammentò alla giuria: «Abbiamo accertato che la signora Falk fu ricoverata per un'aritmia cardiaca al Municipal Hospital, dove morì perché le fu somministrata per errore una dose di epinefrina che
provocò un arresto cardiaco». «Avvocato Kramer, lei è d'accordo?» chiese il giudice. «Sì, vostro onore.» «Allora possiamo procedere.» La tensione era palpabile nell'aria. Yuki immaginò quanta ansia e quanta paura doveva provare il vedovo di Jessie Falk, seduto tre file più avanti. «Dottor Garcia, come morì la signora Falk?» «Per un arresto cardiaco, come ha detto lei stessa.» «Sì, dottore. Ma quello che volevo da lei è che ci descrivesse come la signora trascorse i suoi ultimi istanti di vita, per darci un quadro più accurato della situazione.» Larry Kramer si alzò immediatamente. «Obiezione! Vostro onore, l'accusa sta cercando di influenzare la giuria in maniera inammissibile.» «Vostro onore, ho semplicemente chiesto come morì la paziente. È il motivo per cui si celebra questo processo.» «Sì, sì, certo. Dottor Garcia, risponda, la prego.» Yuki vide comparire un'espressione sorpresa sul viso di Garcia. Interessante. Poi il testimone si schiarì la gola e disse: «Be', la signora entrò in tachicardia ventricolare. Cioè il battito cardiaco accelerò moltissimo». «Possiamo dire che sentì dolore e si spaventò?» «Probabilmente sì.» «Cos'altro, dottore?» «Immagino che si sia agitata.» «Potrebbe essersi dibattuta nel letto?» «Probabilmente sì.» «Potrebbe aver cercato di chiamare qualcuno?» «Vostro onore!» intervenne Kramer. «Per rispetto alla famiglia della signora Falk...» «Sono commossa, avvocato Kramer. Adesso si preoccupa per i miei clienti...» ribatté Maureen O'Mara. «Obiezione respinta. Dottor Garcia, risponda.» «Può darsi che la signora abbia cercato di chiedere aiuto, ma non lo so: non ero presente.» «E, dal punto di vista medico, che cos'altro avvenne, dottor Garcia?» «Dalla tachicardia la signora passò alla fibrillazione ventricolare. Con la riduzione dell'afflusso di sangue al cervello, può aver avuto delle contrazioni cloniche - una specie di piccola crisi epilettica - sudorazione alle mani, vertigini e senso di debolezza, seguiti da choc. Il tutto può essere durato
due o tre minuti, prima della perdita di conoscenza.» «Dottore, sa cos'è l'orrore psichico?» Kramer balzò in piedi e, in tono sdegnato, esclamò: «Vostro onore, sono costretto a sollevare una nuova obiezione. L'accusa fa leva sull'emotività dei membri della giuria». «Obiezione respinta, avvocato Kramer. Parlare di orrore psichico in un simile contesto è più che legittimo. Dottor Garcia, la prego, risponda.» «Può ripetermi la domanda, per favore?» Maureen O'Mara scandì le parole una per una. «Dottore, lei sa cos'è l'orrore psichico?» «Sì.» «Può spiegarcelo, per favore?» Garcia si mosse sulla sedia, a disagio, e dopo un po' rispose: «È un'espressione che si riferisce ai pochi secondi che precedono la morte, alla consapevolezza dell'imminenza della morte e dell'impossibilità di evitarla». Maureen O'Mara intrecciò le mani dietro la schiena e disse: «Dottore, un esempio di orrore psichico è ciò che deve aver provato prima di essere decapitato il giornalista americano che era stato preso in ostaggio dai terroristi, giusto?» «Se vuole...» «Non pensa che, quando la sua frequenza cardiaca triplicò, Jessie Falk dovette provare una fortissima sensazione di panico? E che in quei due o tre minuti di dolore e terrore spaventoso, provò orrore psichico?» «È possibile.» «I minuti di dolore e terrore spaventoso furono solo due o tre?» Maureen O'Mara fece una pausa, lunga e piuttosto inquietante. Yuki osservò le lancette dell'orologio che giravano lente, ben sapendo che cosa voleva ottenere Maureen: voleva fare in modo che tutti, nell'aula, si rendessero conto di quanto ci aveva messo Jessie Falk a morire. 72 Anche Cindy assisteva all'udienza, seduta nella fila riservata alla stampa, e scriveva più veloce che poteva per tener dietro a Maureen O'Mara: il controinterrogatorio era secco, preciso, senza giri di parole e assolutamente spietato. Uno dei migliori cui avesse mai assistito. Questa donna è in gamba quanto Larry Kramer, se non di più.
«Dottore, lei ci ha detto che la morte di Jessie Falk fu un errore. Ci spieghi: come può essere stato commesso un errore di tale gravità?» «Non so come l'epinefrina sia finita nella sacca della fleboclisi della signora Falk. Non le era stata prescritta», rispose il medico sporgendosi in avanti con aria esasperata. «Però, senta, anche i medici e gli infermieri sono esseri umani. Di errori se ne fanno, la gente muore. Certi giorni soffia un vento cattivo.» Nell'aula si levò un brusio. Cindy smise per un attimo di scrivere. Che cos'aveva detto il teste? Certi giorni soffia un vento cattivo? Cosa voleva dire? Il brusio cessò e nell'aula scese il silenzio. Non un colpo di tosse, non un fruscio di vestiti, non uno scricchiolio di carta di caramella. Maureen O'Mara chiese, in tono estremamente neutrale: «Lei ha avuto qualcosa a che fare con questo vento cattivo, dottore?» Lawrence Kramer si alzò di scatto. «Obiezione! L'accusa assilla inopportunamente il teste. Ora basta!» «Respinta. Si sieda, avvocato Kramer.» «Di che cosa sono accusato?» chiese Garcia. «Non sta a lei fare le domande, dottor Garcia», ribatté Maureen O'Mara. «Quattordici delle venti persone decedute i cui familiari io rappresento furono trattate da lei, o morirono mentre lei era di guardia...» «Come osa?» disse Garcia indignato. «Vostro onore, per favore chieda al teste di rispondere.» «Dottor Garcia, risponda alla domanda che le è stata rivolta.» «Gliela ripeto con altre parole», propose Maureen O'Mara con voce atona, tesa. «Lei ha avuto qualcosa a che fare con il decesso di queste persone?» Garcia alzò la testa e guardò con odio la giovane avvocatessa. Se potesse le sparerebbe, pensò Cindy. «Mi appello al Quinto Emendamento», disse Garcia. «Come, scusi?» «Ho detto che mi appello al Quinto Emendamento.» I giurati rimasero a bocca aperta, scioccati, poi nell'aula si levò un gran vociare. Il giudice Bevins batté ripetutamente il martelletto. «Grazie», disse Maureen O'Mara con l'ombra di un sorriso sulle labbra. Lanciò una rapida occhiata a Larry Kramer, quindi concluse: «Non ho altre domande per il teste». «Ma io volevo dire...»
«L'interrogatorio è finito, dottor Garcia.» «Il teste torni pure al suo posto. L'udienza è sospesa fino a domani», annunciò il giudice battendo un'ultima volta il martelletto. Cindy salvò il file e ripose il computer nella borsa. Le incredibili affermazioni fatte da Garcia continuavano a riecheggiarle nella mente, mentre si avviava verso l'uscita insieme alla folla. Certi giorni soffia un vento cattivo. Mi appello al Quinto Emendamento. Il dottore aveva praticamente dettato ai giornali di tutto il Paese i titoli per gli articoli dell'indomani. Yuki l'aspettava sulla porta, con gli occhi sgranati e l'aria soddisfatta. «Cindy, hai sentito che cosa ha detto? Incredibile!» «Sì, ho sentito. Quell'imbecille si è rifiutato di rispondere per non autoincriminarsi!» Con la voce rotta per l'emozione Yuki aggiunse: «L'ha ammesso! Quel bastardo è colpevole, colpevole, colpevole!» 73 Quando aprii la porta di Susie's sentii profumo di bistecca, cipolle e banane fritte. Mi avvicinai al tavolo, dove le mie amiche stavano già parlando animatamente. Chiesi a Claire di farmi un po' di posto sulla panca e ordinai una birra. «Che cosa mi sono persa?» domandai. «Peccato che tu non fossi in tribunale oggi, Lindsay», disse Yuki, rossa in viso, animata e vitale per la prima volta da quando era morta sua madre. «Garcia si è tradito da solo», spiegò. «Incredibile!» «Raccontami tutto. Parola per parola.» Yuki doveva essere un po' brilla e, prendendo alla lettera la mia richiesta, cominciò a riferirmi il dialogo fra Maureen O'Mara e Garcia. Verbatim. Cindy si intrometteva, ma Yuki continuava senza lasciarle spazio. A me e a Claire non restò che starle a sentire. «Cioè, vi rendete conto? Avrebbe potuto semplicemente dire che non c'entrava niente con la morte di quei pazienti», disse Cindy. «E invece si è dato la zappa sui piedi appellandosi al Quinto Emendamento!» intervenne Yuki. Era indignata, ma nello stesso tempo anche soddisfatta. «Si può essere più stupidi?»
«Secondo me, l'ha fatto perché gli rimorde la coscienza», osservò Cindy. «Più indago sul suo conto, più brutture trovo.» «Me ne porteresti un'altra, per favore?» chiesi a Loretta indicandole il bicchiere vuoto. La cameriera arrivò con la birra e intanto ci porse i menu plastificati. «Per esempio, ha lavorato in un sacco di posti diversi e in molti casi il rapporto di lavoro si è interrotto in maniera non chiara. Non è stato licenziato, però si intuisce fra le righe che è stato invitato ad andarsene. In un caso, ha rischiato una denuncia per molestie sessuali.» «Non mi sorprende che sia un alzagonnelle», disse Yuki. «Detestabile bastardo narcisista.» Cindy annuì. «A parte questo, troppi suoi pazienti sono morti in circostanze misteriose. Se non sapessi quanto sono frequenti gli errori terapeutici, non ci crederei.» «È proprio questo che mi fa venire la pelle d'oca», disse Claire. «Solo un caso di malasanità su dieci viene denunciato. La maggior parte delle volte nessuno ci lascia la pelle, e quindi passi: il paziente sopravvive e se ne torna a casa. Il problema è che la gente considera i medici dei semidei e continua a pendere dalle loro labbra anche quando perdono inspiegabilmente qualche paziente.» «Non è il mio caso. Io ho cambiato idea», disse Yuki rabbuiandosi, come la luna durante un'eclissi. «Non credo affatto che Garcia sia un semidio, anzi. So che è un essere immondo!» 74 Yuki era sdraiata sul letto e osservava il gioco delle ombre sul soffitto. Si era svegliata tante volte, quella notte, che non sapeva nemmeno più se aveva dormito o no. Alle sei era sveglissima, come se le fosse scattato un allarme antincendio sotto il cuscino. Si alzò e andò alla scrivania, accese il computer e si collegò a Internet. Trovò l'indirizzo al primo tentativo. Quell'essere immondo abitava a meno di tre chilometri da lei. Si mise il Burberry sopra il pigiama di raso azzurro e scese nel garage con l'ascensore. Salì sulla sua Acura e si allacciò la cintura. In preda a un brivido entusiasmante, come se si trovasse sull'orlo di un baratro e si sporgesse per guardare giù, con il vento che le soffiava in faccia, imboccò la ripida discesa di Jones Street. Chi non risica non rosica,
giusto? Si fermò all'incrocio di Washington Street e tamburellando le dita sul volante guardò il tram sferragliare lungo i binari. Aspettò che lo scuolabus davanti a lei facesse salire un bambino e svoltò in Pacific Avenue. La percorse a velocità sostenuta, riflettendo che quando era morto suo padre non era stata così male. Eppure gli aveva voluto molto bene, aveva sofferto e non lo avrebbe mai dimenticato. Tuttavia, la morte di sua madre era stata diversa. Yuki si sentiva ferita nell'anima e oltre al lutto provava anche un forte senso di ingiustizia. Era stato un colpo da cui non si sarebbe mai ripresa. Quando imboccò Filbert Street la nebbia cominciava a salire. Controllò i numeri civici mentre guidava e trovò il 908 più o meno a metà strada. Era una casa di tre piani, bianca e gialla. Yuki vi parcheggiò di fronte e aspettò. Rimase lì per ore, sentendosi una pazza. Passarono un fattorino della Federal Express che doveva ritirare un pacco, una baby-sitter messicana con due gemelli su un passeggino, un cane al guinzaglio del suo padrone. Le attività quotidiane della gente la riempivano di tristezza, ormai. Poi il portellone del garage della casa bianca e gialla si aprì e ne uscì in retromarcia una Lexus nera. Eccolo, il detestabile bastardo. Yuki decise di seguirlo, più per istinto che per una scelta consapevole. Le due auto percorsero Leavenworth Street in coppia, svoltando agli stessi incroci, salendo su per le stesse salite e scendendo lungo le stesse discese, finché non arrivarono davanti al Municipal Hospital. Yuki mise la freccia per seguire la Lexus anche nel posteggio, ma poi vide nello specchietto retrovisore la sagoma di un'auto della polizia e inchiodò. Aveva forse superato il limite di velocità? Accostò al marciapiede e guardò fisso in avanti. L'auto della polizia passò oltre. Con le mani che le tremavano, spense il motore e aspettò che il battito del cuore le tornasse normale. Ma sei scema? Aveva il pigiama zuppo di sudore che spuntava da sotto l'impermeabile. Mio Dio! Che cosa avrebbe detto al poliziotto, se l'avesse fermata? Che stava seguendo Garcia?
I pedoni attraversavano la strada al semaforo poco distante, impiegati con la ventiquattrore in una mano e una tazza di caffè fumante nell'altra, infermiere e medici con il cappotto sopra il camice. Andavano tutti a lavorare. Yuki ripensò a due settimane prima, quando anche lei tutte le mattine andava in ufficio nel prestigioso studio legale in cui lavorava. Le era sempre piaciuto fare l'avvocato. Adesso, però, non riusciva nemmeno a immaginare di andare in studio. Era ossessionata da Dennis Garcia, l'uomo responsabile della morte di sua madre. 75 Notai la busta marroncina nella pila di posta in arrivo sulla mia scrivania. La presi e l'aprii con il tagliacarte che tenevo nel cassetto. Lessi il rapporto, poi lo rilessi per essere sicura di aver capito bene. Sui bottoni con il caduceo erano state rilevate migliaia di impronte parziali. Nessuna neppure lontanamente utilizzabile. Mi alzai e andai da Jacobi, che stava togliendo dall'involucro un tramezzino di insalata e uovo sodo con sottaceti. «Vuoi favorire?» disse dividendolo a metà. «Sì, grazie.» Presi una sedia, spostai un po' della roba che ingombrava la sua scrivania e mi accomodai. Mentre mangiavamo, gli confidai che Yuki pensava che sua madre fosse stata assassinata in uno degli ospedali più rinomati della città. Gli riferii i colloqui che avevo avuto con l'infermiera del Municipal Hospital e con Carl Whiteley, il direttore sanitario, e gli raccontai dei bottoni con il caduceo che mi aveva consegnato. Parlai a lungo, senza che Jacobi mi interrompesse. Quando arrivai al processo per negligenza professionale, aprì una scatola di ciambelle Krispy Kremes e me ne posò sul tovagliolo una ricoperta di cioccolato. «Ma tu cosa ne pensi, Boxer? Me ne stai parlando da mio superiore gerarchico o da collega e investigatore?» «L'unico referto autoptico che abbiamo è quello di Keiko.» «E Claire cosa dice?» «È incerta, per il momento. Attendiamo altre prove.» «Mi manca un pezzo, credo. Qual è il legame con Garcia? Esiste un legame, o siccome lo trovate brutto avete semplicemente deciso che è anche
cattivo?» «È tutt'altro che brutto, per la verità.» Gli spiegai che Keiko, come tutti i pazienti di cui si parlava al processo, era stata ricoverata attraverso il pronto soccorso, che era il reparto in cui lavorava Garcia. Ma questo succedeva anche ad altre migliaia di pazienti, che uscivano vivi dall'ospedale e, per quanto ne sapevo, erano felici e contenti. «Devo trovare qualcosa nell'elenco di medici, infermieri e inservienti del Municipal Hospital che riesca a dissipare i miei cattivi presentimenti, oppure a confermarli con certezza», dissi. «Okay. Ma cosa vuoi da me?» Appallottolò i tovaglioli di carta e li buttò nel cestino. «Che tu faccia un po' di straordinario.» «Stasera?» «Straordinario non pagato.» «Mi dispiace, tenente, ora che ci penso, proprio stasera ho dei biglietti per l'opera...» «Perché ho già usato tutti i fondi per gli straordinari, questo mese, e anche perché non so neppure se veramente è stato commesso un delitto.» Jacobi cedette, sapendo che io avrei fatto lo stesso per lui. Al cambio di turno, stavamo controllando uno per uno i seicento nominativi dei dipendenti dell'ospedale. Scoprimmo medici dal curriculum non proprio esemplare, inservienti con precedenti di violenza, aggressione, rapina a mano armata, tossicodipendenza e multe in quantità. Quando la mia stampante sputò fuori l'elenco delle persone trovate morte con i «bottoni» sugli occhi, lo lessi a Jacobi. «Tutti e trentadue i pazienti sono stati ricoverati al pronto soccorso negli ultimi tre anni e la metà risultano visitati da Garcia. Razze varie, pelle di tutti i colori dell'arcobaleno, età comprese fra i diciassette e gli ottantatré anni. Il decesso è avvenuto in momenti diversi del giorno o della notte.» «Dunque non esiste un profilo della vittima. Se i trentadue morti con i bottoni sugli occhi sono stati effettivamente uccisi, cosa che mi pare tutt'altro che accertata...» «Sì, hai ragione. Non ho in mano niente, a parte i bottoni. Ma mi sembrano proprio una 'firma' lasciata dall'assassino.» Jacobi si mise a tossire. Aveva spesso accessi di tosse, da quando era stato ferito al polmone nella sparatoria. Posò la pinzatrice sul fascio di fo-
gli e si alzò per infilarsi la giacca. «Nessuno ha parlato di omicidio a parte Yuki, dico bene? Perché dice così? Ce l'ha con il dottor Garcia?» «D'accordo, Warren, hai ragione. Ma ammetterai anche tu che quei bottoni devono voler significare qualcosa. Se sragiono dimmelo, perché a me non sembra affatto e non riesco a togliermi questo tarlo dalla testa.» 76 Continuai a pensare a quale mente malata potesse aver messo quei bottoni sugli occhi dei morti anche tornando a casa, quella sera. Mi chiedevo se Yuki e io fossimo paranoiche o avessimo ragione. Possibile che un misterioso killer avesse preso di mira i pazienti del Municipal Hospital? E che nessuno cercasse di fermarlo? Nessuno ci stava nemmeno provando. Arrivai sotto casa senza neppure rendermi conto di aver fatto la strada, feci un rapidissimo pit stop, dopo di che risalii in macchina e mi diressi all'ospedale. La scena del crimine, il luogo del delitto. Parcheggiai vicino al pronto soccorso, entrai e rimasi qualche minuto nella sala d'attesa a sfogliare un vecchio numero di Field and Stream, cercando di passare inosservata. Poi andai a fare due passi. Il corridoio era illuminato da neon bianchi. I pazienti camminavano lentamente, chi appoggiandosi al bastone, chi portandosi dietro l'asta della flebo. Tenni le mani in tasca e il berretto calato sugli occhi, sperando che nessuno notasse la Glock che portavo nascosta sotto il giubbotto. Non sapevo nemmeno io che cosa stessi cercando. Forse speravo che mi cadesse l'occhio su qualcosa che mi facesse venire un'illuminazione e confermasse che gli indizi sparsi e frammentari raccolti fino a quel momento facevano parte di un disegno criminoso, tra i più efferati della storia di San Francisco. Di certo non sarei dovuta essere lì a curiosare: ero un tenente della Omicidi, non un detective privato, e Tracchio me ne avrebbe dette di tutti i colori, se lo avesse saputo. Era proprio a questo che pensavo, quando da dietro l'angolo spuntò all'improvviso un uomo in camice bianco con i capelli scuri di media lun-
ghezza. Lo urtai e gli feci cadere di mano una cartellina. Cristo! «Mi scusi», dissi. Avevo il cuore in gola: sebbene pensassi a lui continuamente, non lo vedevo da quando era stata ricoverata la mamma di Yuki. Il dottor Garcia raccolse la cartellina e mi guardò negli occhi con aria di sfida. Provai l'impulso di sbatterlo contro il muro e ammanettarlo. La dichiaro in arresto perché è odioso, ha fatto andare in depressione la mia amica e perché la ritengo responsabile di morti sospette che forse sono omicidi ma forse no. È consapevole dei suoi diritti? Ma non lo feci: chiusi i pugni nelle tasche e rimasi dov'ero. «Io la conosco», disse Garcia. «È il tenente di polizia che conosce la signorina Castellano. Come sta la sua amica? Mi è sembrata un po' tesa. Fatica ad accettare la morte della madre.» «Sta bene, sta bene», risposi. «Lei, piuttosto?» Fece un sorriso da folle, che lasciò basiti tutti e due, finché non si sentì annunciare all'altoparlante: «Il dottor Garcia è atteso in pronto soccorso». Ci riscuotemmo da quella specie di trance. «Devo andare», fece Garcia. 77 Lauren McKenna prese fiato, bussò alla porta e rimase ad aspettare nel corridoio dell'hotel con lo stomaco stretto. Era stata una follia andare lì, una vera follia. Si guardò le scarpe dorate di finto coccodrillo che stavano benissimo con la gonna di seta e si chiese se lui l'avrebbe trovata elegante, poi ricominciò a rimpiangere di essere lì. Si disse che, se non le fosse piaciuto, avrebbe finto di aver sbagliato camera. La porta si aprì. L'uomo con cui aveva appuntamento sorrise. Aveva un che di orientale, era sulla trentina, snello, capelli scolpiti con il gel. Vestito in modo anonimo - camicia azzurra di cotone e calzoni marroni - ma bello, molto bello. Per un attimo si chiese se era abbastanza carina per uno così. Lui le strinse la mano e si presentò cordialmente: «Ciao, io sono Ken. Sei molto bella, Lauren, mi piace come sei vestita. Superi le mie aspettative, davvero. Vieni, accomodati».
Lauren lo ringraziò ed entrò nella lussuosa camera d'albergo, con il cuore che batteva all'impazzata. Ken le chiese: «Ti spiace? Vorrei guardarti in faccia» e le scostò i capelli dalla fronte. «Mi fai un sorriso?» disse. E le sorrise. Lauren, muta, si strinse la borsetta al petto e si guardò intorno. Il televisore era acceso, sintonizzato su Fear Factor, c'era un cestello con una bottiglia di champagne e... lui. Un perfetto sconosciuto. Come aveva potuto pensare di essere in grado di fare una cosa del genere? «Dai, fammi un sorriso» la esortò lui. Lauren glielo fece, a denti stretti, e Ken esclamò: «Hai l'apparecchio! Quanti anni hai, Lauren?» «Diciannove. Sono al secondo anno di università.» «Non l'avrei detto», osservò l'uomo, sorridendole di nuovo. Aveva i denti bianchissimi e una pelle stupenda e non era vecchio. Ma quello non era un appuntamento al buio... Era in una camera d'albergo con uno sconosciuto, che l'avrebbe pagata per le sue prestazioni. Quali? Lauren ripensò alle umiliazioni che aveva subito nel corso di quella settimana: le fughe per evitare il padrone di casa cui doveva i soldi dell'affitto, l'assegno scoperto alla libreria dell'università, i prestiti chiesti alle amiche. La sua compagna di stanza le aveva detto: «Chiama questo numero, vedrai che con l'aiuto di Margot ripagherai tutti i tuoi debiti senza nemmeno accorgertene». Senza nemmeno accorgersene? Era una follia... Ken l'aiutò a togliersi il cappotto di cammello. Lauren si fece coraggio. Pensa a quanti soldi ti dà, forza! Cerca di divertirti! Vide che Ken le osservava le lunghe gambe, il top trasparente, le spalline del reggiseno che spuntavano dalla scollatura. Si mise le mani sui fianchi, in posa come una modella, e rise nervosa nel vedere che Ken era divertito. Disse le cose che aveva sentito dire alle squillo nei film. «Vogliamo sistemare i conti subito, così poi non ci pensiamo più?» «Certo.» Ken tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni alcune banconote da cento dollari e gliene mise in mano dieci. «Contali, se vuoi, ma dovrebbero essere giusti. Tranquilla, sono una persona perbene.»
Lauren sorrise imbarazzata, infilò i soldi nella borsa Kate Spade e la posò vicino al televisore. Ken le indicò la poltrona accanto alla finestra, Lauren vi si sedette e accettò la coppa di Dom Perignon. Lo champagne le attenuò un pochino l'ansia. «Mi fai un favore?» le chiese Ken. «Posi i piedi per terra e scuoti piano la testa, come se avessi il vento nei capelli? Come fanno le modelle.» «Così?» «Perfetto. Rilassati, Lauren. Voglio che tu ti diverta, stasera.» Lauren si rilassò leggermente. La stanza con le tende di velluto era bella, accogliente, dalla finestra si godeva una vista spettacolare sul ponte illuminato. E poi Ken era un bell'uomo, gentile, non le faceva fretta, era educato. Lauren si versò un'altra coppa di champagne e disse: «Ti svelerò un segreto, Ken: questa è la prima volta per me». «Quale onore!» esclamò lui. «Si vede che sei una ragazza in gamba. A proposito, vorrei chiederti un consiglio.» Andò a prendere delle brochure dalla tasca del cappotto e gliele porse. «Stavo pensando di cambiare macchina. Quale ti piace di più? La Porsche, la BMW o la Mercedes?» Lauren guardò i dépliant, cominciando a sentirsi dell'umore giusto, quando udì aprirsi una porta. Le balzò il cuore in gola nel veder entrare con aria da padrone un uomo grande e grosso con i capelli biondastri. Lanciò un'occhiata allarmata a Ken. «Stavo proprio per dirtelo», sussurrò lui. «È il mio amico Louie.» 78 Le brochure le caddero di mano e si sparpagliarono per terra. Le vennero di colpo i sudori freddi e si sentì mancare il fiato, come in aereo quando c'è un vuoto d'aria. Guardò Louie a bocca aperta. Era muscoloso, con le spalle larghe, indossava pantaloni beige e maglietta rosa e aveva l'aria sportiva, anche se non era più giovanissimo. Forse faceva l'allenatore. La guardava ammirato. Esclamò: «Uao!» e continuò a guardarla. «Sentite», disse Lauren alzandosi di scatto, con la testa che le girava. Calcolò mentalmente quanto era distante la porta. «Nessuno mi ha avverti-
to che saremmo stati in tre. Non sono d'accordo.» «Non ti preoccupare», disse Ken alzando le mani e mostrandole i palmi. «Louie è un uomo come si deve. Dai, Lauren, è tutto a posto, non ti agitare. Quelli dell'agenzia non ti avrebbero mandata, se non avessero saputo che era tutto regolare.» «Ho sbagliato io ad accettare», ribatté Lauren incrociando le braccia. «Scusate, ma non posso proprio. Non ce la faccio...» «Louie, saluta Lauren, per cortesia», disse Ken. Il biondo si avvicinò e le tese la mano. Aveva lo sguardo dolce, timido. «Piacere, Lauren. Io sono Louie.» Ma Lauren non gli strinse la mano e si limitò a guardarlo negli occhi pensando di fargli un sorriso, prendere la borsa e darsela a gambe. Avrebbe dovuto restituire i soldi, prima. Be', poteva posarli sul televisore. E andarsene più in fretta che poteva. «Louie, perché non fai vedere a Lauren... sai tu cosa.» A Lauren sembrava che si stesse svolgendo tutto al rallentatore. Si aggrappò alla poltrona perché le girava la testa e guardò Louie che apriva l'anta dell'armadio. L'armadio? «Ha un cuore d'oro», assicurò Ken a bassa voce, come per non farsi sentire dall'amico. «Non sta con una donna da un anno, quando la sua ragazza l'ha lasciato. È uno a posto, ho la massima fiducia in lui.» Louie prese una valigia dall'armadio e la posò vicino al divano. «Sei una quarantadue, vero?» Ken le sorrise. «Ho chiesto una ragazza taglia quarantadue.» Lauren annuì. «È il suo compleanno», disse Ken. «E non volevo che lo passasse da solo.» Lauren stava cominciando a farsi un'idea di come doveva essere Louie: uno di quei bravi ragazzi che non ci sanno tanto fare con le donne. Lo osservò mentre apriva la valigia e ne tirava fuori un abito lungo per mostrarglielo. «Questo è per te, Lauren. Voglio che lo indossi stasera e poi lo tieni. Non c'è trucco, non c'è inganno.» Lauren guardò il vestito di pizzo blu, ricamato, con il collo impreziosito di gemme e la gonna scampanata che arrivava fino a terra. Era firmato Monique Lhuillier, costosissimo. Davvero poteva tenerlo? «Ho un conoscente che fa il grossista di abbigliamento», spiegò Louie. Lauren cominciò a pensare che poteva farcela. Non si sentiva più troppo tesa. In fondo, sembravano due brave perso-
ne... Bastava che li lasciasse fare e sarebbe riuscita a saldare i propri debiti, guadagnandoci pure un vestito bellissimo... Tutto a un tratto si sentì euforica. Ken reggeva una catena tempestata di brillantini che riflettevano la luce in maniera quasi ipnotica e intanto diceva: «È la tua serata fortunata». Lauren fece per avvicinarsi per dimostrargli che andava tutto bene, ma la testa prese a girarle vorticosamente. Vide tutto nero, le cedettero le gambe e cadde per terra, in preda alla nausea. Non riesco più ad aprire gli occhi! Cosa mi sta succedendo? Sentì che i due uomini la stendevano sul letto, le toglievano i vestiti, le abbassavano gli slip... Aveva le gambe posate sulle spalle di uno dei due, che la penetrava con forza... Che cosa le stavano facendo? Le scoppiavano i polmoni, un macigno le schiacciava il petto, non riusciva a respirare! «Per favore...» sussurrò. «Per favore, lasciatemi...» Risate. Aveva qualcosa intorno al collo, che la stringeva. Provò a liberarsi, ma non riusciva a muoversi... Fece per prendere fiato, ma qualcosa le aderiva al naso e alla bocca: plastica! Attraverso il sacchetto che la stava soffocando, vide il volto di Ken contratto in una smorfia orribile. Ma perché? Perché mi stai facendo questo? Non sarei dovuta venire. Oddio, mi state ammazzando! Fermatevi finché siete in tempo... Datemi un'altra possibilità, vi prego, non lo farò mai più... No! Non voglio morire! Vi prego! No, non così! 79 Jake Hadley guardò l'ora, come faceva ormai ogni trenta secondi. Mancava un quarto alle nove. Era in fila con i bambini fuori del centro congressi dalle sette e mezzo, quel sabato mattina, e sentiva la loro eccitazione dal modo in cui gli stringevano le dita e gli giravano intorno facendo «Brum brum» e chiedendogli continuamente «Quanto manca, papà?» Era un anno che aspettavano quel momento, l'inaugurazione del salone automobilistico internazionale. Finalmente, la fila si stava muovendo. «Papà! Hanno aperto, papà!»
Jake sorrise e tirò fuori dal taschino della camicia i biglietti per porgerli all'addetto davanti al tornello. «Buon divertimento», augurò loro il ragazzo. Aveva indosso una T-shirt rossa e nera con il logo della fiera sul petto. Jake pensò che ne avrebbe comprato due ai figli. «Grazie. Arrivederci», rispose, tenendo i bambini per mano. Appena entrati, furono avvolti da musica ambient, odore di cera e di pelle e aria condizionata. Che cosa guardare per primo? Su alcune piattaforme ruotavano concept car. Splendide ragazze in camicia inamidata e minigonna aderentissima, un misto di ricchezza e sensualità, decantavano i pregi delle varie auto. C'erano musica e luce dappertutto. Sedute dietro a lunghi tavoli, altre belle ragazze con una targhetta appuntata sul petto distribuivano brochure patinate. «Nel caso dovessimo perderci, ci ritroviamo qui», spiegò Jake, accucciandosi per guardare negli occhi i due gemelli di sei anni. «Memorizzate bene questo posto, okay?» «Va bene, papà», disse Stevie. «Allora ciao!» E si allontanò in direzione delle macchine europee nella sala centrale. «Vuole vedere le Ferrari», spiegò al padre il fratello Michael. «E le Masseratti.» Jake rise e si incamminò con Michael dietro all'altro figliolo. C'era tantissima gente e per un attimo Jake lo perse di vista. Poi lo vide su una piattaforma coperta di moquette, mentre il venditore stava scoprendo un'affusolata Ferrari 2007, grigia metallizzata. Chiamò il bambino. «Steven! Scendi giù di lì! È vietato salire sulle piattaforme!» Quando Stevie si voltò, Jake vide subito la sua espressione scioccata e provò un moto di paura. Strinse più forte la mano di Michael. «Vieni giù, Stevie. Forza!» «La signora sulla macchina, papà... Sta male?» Jake stava già per spiegare al figlioletto che quello sul sedile era un manichino, quando guardò dal vetro ed ebbe un tuffo al cuore. Era una ragazza, con gli occhi sbarrati e vacui e la testa piegata in modo innaturale. Aveva un grosso livido viola sul collo e indossava un abito da sera.
Ma che... «Steven!» urlò al bambino, prendendolo per un braccio. «Ti ho detto di scendere!» A quel punto anche altri avevano notato la ragazza a bordo della Ferrari, con le braccia immobili come quelle di una bambola, morta. L'incaricato fece allontanare tutti dall'auto da corsa da duecentomila dollari. Era pallido, aveva gli occhi fuori della testa e urlava: «Indietro, per favore. Indietro! Per favore, fate largo!» La folla sembrava avvicinarsi all'automobile e poi allontanarsi, come un'onda che si alzava e si abbassava intorno a Jake e ai suoi figli. Qualcuno gridò, i gemelli scoppiarono in lacrime e abbracciarono il padre, nascondendo la faccia sulle sue gambe. Con il battito a mille, Jake li prese in braccio tutti e due e si avviò verso l'uscita. Parlò in tono severo al ragazzo all'entrata. «C'è una donna morta, là dentro. Sarà meglio che chiamiate la polizia.» PARTE QUINTA ONE STOP SHOPPING 80 I visitatori del salone dell'automobile uscirono dal centro congressi con l'aria dei pendolari scioccati che hanno appena assistito a un incidente mortale. Jacobi mi aspettava subito dietro le grandi porte di vetro su Howard Street. «Ci risiamo», mi disse. «Raccontami tutto.» Mi aggiornò facendomi strada tra la folla, verso il fondo del salone. «Donna, bianca, fra i diciotto e i vent'anni, cinquanta chili a dir tanto, un livido intorno al collo, a bordo di una Ferrari.» «Mio Dio, questi sono malati! Con che coraggio...? Che faccia tosta! Guarda quanti bambini ci sono in giro!» «Ci prendono per i fondelli, Boxer», replicò Jacobi. «Si stanno facendo delle gran risate alle nostre spalle, te lo dico io.» Mi indicò alcuni poliziotti e tecnici della Scientifica in piedi tra i fast food e gli stand delle automobili europee. Oltre al nastro giallo per vietare
l'accesso ai non autorizzati, intorno alla scena del crimine era stato sistemato un paravento di compensato. Come se servisse a qualcosa. Oltrepassai il divisorio e vidi uno spettacolo che mi scioccò non poco: la vittima era vestita, pettinata e atteggiata come la classica bionda della pubblicità delle auto da corsa. C'era qualcosa di terribilmente macabro in questo. Un'altra ragazza giovane e carina era morta per il sadico piacere di un folle. «Dov'è il direttore?» chiesi a Jacobi. «Bisogna assolutamente chiudere al pubblico.» Chiamai il capo dal cellulare e gli chiesi di mandare al centro congressi tutto il personale disponibile. Occorreva avvertire il sindaco. Ben presto Howard Street si sarebbe riempita di giornalisti e cameraman e sarebbero arrivati persino gli elicotteri. Charlie Clapper smise un attimo di fotografare la scena e mi porse un paio di guanti di lattice. «Stiamo facendo quel che possiamo, Linsday, ma mi sa che dovremo portarci l'auto in laboratorio. Certe prove qui non si possono fare.» «Abbiamo identificato la vittima?» «Non ha borsetta, né portafogli. Nulla.» Mi sporsi dal finestrino e sfiorai la guancia della morta con il polso. Era ancora calda. La temperatura era sui venti gradi e l'ambiente era molto asciutto. Mi venne un'idea che, se ci fossimo sbrigati, poteva funzionare. «Charlie? Spruzziamo i vapori di colla qui.» I tecnici stavano già approntando tutto quando arrivò un uomo corpulento, paonazzo e chiaramente furibondo. La targhetta che aveva sulla giacca diceva: PATRICK LEROY, DIRETTORE ENTE FIERA. Mi urlò in faccia: «Non potete farci chiudere! Siete fuori di testa?» Mi urlò una serie di domande, con la schiuma alla bocca, senza aspettare risposta: avevo idea di quanti soldi avrebbero perso? Della pubblicità negativa che gli sarebbe piovuta addosso? Di che cosa rischiavo, personalmente, se davvero li obbligavo a chiudere? Fu un monologo lungo e pieno di improperi, che non mi piacque per niente. «Signor Leroy, si rende conto che c'è stato un omicidio? Il mio dovere è procedere alla raccolta delle prove per arrivare a individuare il colpevole,
lo capisce? Mentre lei dà in escandescenze, la gente continua ad andare su e giù e a lasciare DNA nei gabinetti. Prima il servizio d'ordine del centro ci aiuterà a chiudere il salone e a procedere con gli interrogatori dei testimoni, prima ci toglieremo dai piedi.» «E quanto tempo pensate di metterci?» chiese Leroy con il fiatone. «Il tempo che ci vorrà.» «Per favore! Devo pur dire qualcosa a questa gente.» Mi faceva quasi pena. Quasi. «Dieci o dodici ore, come minimo», risposi. «Un'intera giornata? Mi vuol far perdere tutto il sabato? Mandare in merda milioni di dollari? Milioni di dollari...» gridò digitando con rabbia sul suo cellulare. «Lei non si rende conto.» «In quella Ferrari c'è una donna morta», ribadii. Gli voltai le spalle, perché era arrivato Jacobi per dirmi che aveva recuperato i filmati delle telecamere a circuito chiuso, anche quelle dell'area scarico merci. Ci fermammo a guardare gli agenti che accompagnavano fuori la gente. Sembravano tutti piuttosto scontenti. «Se non prendiamo quei pazzi, chiedo il prepensionamento», borbottò Jacobi. «E non do manco la festa. Tu, Boxer, finisci a fare il metronotte, te lo dico io.» «Sai cosa pensavo?» mormorai. «Come avranno fatto a portare qui quella poveretta?» 81 Fregandomi le braccia per il freddo, continuavo a guardare la nostra ultima vittima non identificata nell'obitorio. Sembrava innocente e vulnerabile come una bambina che dorme. Claire mi salutò dalla scala su cui era salita per fotografare il cadavere dall'alto. Gli inservienti, sotto, guardavano esterrefatti la morta nuda. «Ehi, voi!» li richiamò Claire. «Smettetela! Uscite tutti, per favore. Tu no, Lindsay. Bunny? Prendi le scarpe, etichettale e mettile dentro un sacchetto. Dai tutto a Loomis, mi raccomando. E non ti scordare la collana. È lì sul tavolo.» Scese pesantemente dalla scala e orientò le luci in maniera da illuminare quattro deboli impronte che si allargavano a ventaglio sulla guancia sinistra della morta.
Impronte digitali. Non riuscivo a crederci. Finalmente avevamo qualcosa! «Sono del bambino che l'ha trovata», disse Claire, togliendomi ogni illusione. «Peccato», commentai. «Ehi, e questo cos'è?» Mi avvicinai per osservare qualcosa che luccicava nella bocca della morta. Un indizio? Un messaggio? «Una tristezza indescrivibile, ecco cos'è», rispose Claire. «Portava ancora l'apparecchio.» Ero senza parole. Quella ragazza era così giovane! Troppo giovane per morire, soprattutto a quel modo. Perché facevi la vita, ragazzina? Osservai Claire mentre raccoglieva quello che c'era sotto le unghie della vittima, gliele tagliava e infilava tutto quanto in apposite bustine, da sigillare e controfirmare. Prima una mano e poi l'altra. «Ho avuto il tossicologico», mi informò. «Sempre la stessa storia: livello alcolemico 0,10 e un quintale di Roipnol. Come le altre.» «Quindi hanno drogato anche lei. Ma certo: perché rischiare che opponesse resistenza? Com'è morta?» «Asfissiata, penso. Le si sono seduti sul torace impedendole di respirare e contemporaneamente l'hanno strangolata. Intorno a mezzanotte, presumo. È sicuramente un omicidio.» «Quei disgraziati sono metodici, eh? Immagino le abbiano fatto anche il bagno per eliminare tutte le tracce, come alle altre due.» «Pensi che l'abbiano ammazzata in un albergo?» «Sì. E che anche lei facesse la squillo. Peccato che, alla terza morta ammazzata, siamo ancora al punto di partenza.» Claire mi disse: «Credo che stavolta qualcosina ci sia». Si voltò verso l'assistente. «Bunny, mi aiuti a girarla, per cortesia?» Tirò il braccio destro della morta e la voltò su un fianco, aiutata da Bunny. «Guarda qua», mi disse, indicando un segno dietro il ginocchio sinistro. Mi chinai a guardare e notai le creste nitide di un'impronta rilevata con i vapori di colla. La ragazza aveva un abito da sera lungo fino ai piedi, le gambe coperte fino alle caviglie. Quell'impronta non poteva essere stata lasciata da un visitatore del salo-
ne. Mi voltai e sorrisi alla mia migliore amica. «L'assassino l'ha lavata. Ma ha dimenticato questa», mi disse lei con un sorriso altrettanto luminoso. 82 Jacobi aprì la porta dell'obitorio e annunciò: «So come hanno fatto a portare la vittima al salone». «Siamo tutte orecchi», risposi. Jacobi andò un attimo nell'ufficio di Claire e tornò con una bottiglietta d'acqua. «È tutto il giorno che vado avanti a hot dog», spiegò. «Serviti pure, prendi tutta quella che vuoi», disse Claire. Jacobi si sedette su uno sgabello. Aveva la faccia stanca, ma gli brillavano gli occhi. «Ascolta, Boxer. È arrivato un camion carico di moquette, l'autista si è fermato un attimo a fare pipì lungo Folsom Street. I mezzi pesanti non potrebbero fermarcisi, ma lo fanno sempre.» «E gli hanno fregato il camion?» «Più o meno. Pare che, mentre si svuotava la vescica, il nostro amico si sia sentito puntare una pistola alla testa.» Jacobi scoppiò a ridere. «Scusa, cosa c'è da sghignazzare?» «Niente, roba da uomini. Sei lì con l'uccello in mano e ti puntano addosso una pistola... Comunque, il tizio gli dice di far scendere anche il suo compare e, una volta giù, li stordisce tutti e due. Poi, con l'aiuto del complice, li carica dietro, li lega e li imbavaglia con il nastro adesivo.» «Così entrano tranquilli, perché è tutto regolare: sia la targa del mezzo sia la patente dell'autista», dissi. «Pensi che l'abbiano portata dentro con quel camion, allora? In qualche contenitore?» «Sei perspicace, tenente.» «Ho preso da te. Su, racconta il resto.» Jacobi annuì. «Entrano nella zona di carico e scarico merci, scaricano il contenitore con la morta dentro, aspettano il momento opportuno e la piazzano sulla Ferrari.» «Forse l'hanno messa in una valigia», dissi. «Grossa, di cuoio, con le rotelle.»
«Possibilissimo.» «Incredibile», osservò Claire. «Hanno avuto il coraggio di spostare un cadavere in piena vista e di sistemarlo in un'auto esposta in un salone!» «Se qualcuno l'avesse notata, avrebbe dato per scontato che fosse un manichino», disse Jacobi. «E comunque non l'ha notata nessuno. Ho controllato tutti i filmati. Ieri sera là dentro c'era il casino più totale, carrelli, macchine, centinaia di operai che montavano gli stand...» «L'autista del camion è in grado di riconoscerli? Il suo collega?» domandai. «Era buio, li hanno presi alla sprovvista e avevano un collant sulla faccia.» Jacobi si avvicinò alla morta. «Senti? Di nuovo quel profumo di magnolia...» «Black Pearl.» Mi si accese la classica lampadina. Era così semplice! Ovvio... Come avevo fatto a non capirlo prima? «One stop shopping! Hanno comprato tutto nello stesso posto», esclamai. «Come?» «Gli abiti firmati, le scarpe. Gli assassini hanno preso i vestiti direttamente dagli espositori senza nemmeno conoscere la ragazza che li avrebbe indossati e così non sempre hanno indovinato la taglia. Per comprare i gioielli veri, quelli preziosi, che sono sotto chiave, bisogna rivolgersi ai commessi, ma per la bigiotteria no.» «Anche il profumo che hanno spruzzato addosso alle vittime è costoso», commentò Jacobi capendo dove volevo arrivare. «L'hanno preso nello stesso negozio.» «Sì. Hanno comprato tutto quanto in un unico punto vendita», ribadii. 83 Alle otto del lunedì mattina ero al volante di una Lincoln nuova. Il capo era seduto vicino a me e non sembrava per niente contento. Era in divisa, aveva i capelli lisciati all'indietro con il gel e la faccia sudata. Andavamo su e giù per le strade di San Francisco, seguiti da una decina di volanti. Sembrava di essere sulle montagne russe. «Stiamo facendo incazzare un sacco di gente per una prostituta», disse Tracchio.
«Povera ragazza, glielo dobbiamo.» «Lo so, Boxer, lo so. È sempre così.» Tracchio abbassò i finestrini, lasciando entrare l'aria fredda. Sapevo perché sudava. Tracchio era diventato capo della polizia senza essere mai stato ispettore. Aveva ereditato uno dei dipartimenti con il maggior tasso di crimini irrisolti del Paese. Contava su di me. E io volevo dargli una mano. Sul sedile c'era una copia del Chronicle del giorno prima. Il titolo in prima pagina diceva OMICIDIO AL SALONE DELL'AUTO. In terza pagina c'era la foto della vittima, ormai soprannominata «la ragazza del salone». La cittadinanza era invitata a informare la polizia di qualsiasi particolare ritenesse utile. Letto l'articolo, erano arrivati disperati gli amici della vittima, che adesso aveva un nome. Lauren McKenna non aveva un ragazzo fisso, aveva la passione delle scarpe e, se anche ogni tanto si prostituiva, studiava a Berkeley full time. Aveva solo diciannove anni. La sua morte era tragica, senza senso. E i suoi assassini erano ancora in libertà, probabilmente intenti a pianificare il loro prossimo omicidio. Tracchio tamburellava sulla portiera. Svoltai in Union Square. Ripensai alla mia teoria. Certo, se era sbagliata, a farne le spese sarebbe stato Tracchio, ma continuavo a trovarla sensata: gli assassini lavoravano da Nordstrom. 84 Il grande magazzino più chic del Paese, nonché mio preferito, non era ancora aperto al pubblico, ma i dipendenti erano riuniti al piano principale. Il presidente, Peter Fox, era elegantissimo in polo Ralph Lauren, calzoni pied-de-poule e scarpe italiane da cinquecento dollari. Aveva un modo di fare calmo e compassato, ma mi accorsi che sudava e aveva lo sguardo preoccupato. Ci accompagnò in giro per il negozio. «Ho controllato attentamente l'elenco di articoli che mi avete inviato per fax», mi disse. «Ho provveduto personalmente. Avete ragione sul fatto che sono stati rubati, ma dubito che qualcuno dei miei dipendenti sia un assassino.» Le scale mobili che collegavano il piano principale a quelli superiori e al centro commerciale sottostante erano ferme.
Mentre salivo qualche gradino perché tutti mi vedessero oltre gli espositori e i banconi scintillanti, mi arrivò una zaffata di Black Pearl. Quando dissi chi ero e spiegai il motivo della nostra presenza, scese un silenzio di tomba. «Abbiamo trovato alcune impronte digitali sulle scarpe della vittima», dissi. «Vogliamo escludere dalla rosa dei sospetti chi ha toccato quelle scarpe perché lavora qui. Se non volete lasciare le vostre impronte o sottoporvi a un prelievo di saliva totalmente indolore, siete pregati di lasciare il vostro nominativo all'ispettore Jacobi, quel signore in giacca marrone che è laggiù, davanti al banco delle informazioni. Dopo, potete andare.» Si formarono tre lunghe file lungo i corridoi. Gli uomini di Clapper prelevavano i tamponi buccali, quindi spedivano i dipendenti del grande magazzino a un tavolo dove venivano controllati i documenti e prese le impronte digitali. Molly Pierson, il capo del personale, era a fianco a me. Aveva i capelli bianchissimi, corti, e occhiali verde mela. Spuntava i nomi dei dipendenti dagli elenchi, controllando che ci fossero tutti. «L'ho visto un minuto fa, sono certa che c'era», borbottò a un certo punto, guardandosi in giro nervosa. La sua ansia mi contagiò. «Di chi sta parlando?» chiesi. «Louis Bergin, il responsabile dell'ufficio acquisti. Non lo vedo più.» 85 «Louie era in fila davanti a me», disse un uomo magro con il pizzetto poco distante da noi. «Mi ha detto che doveva andare in bagno.» Indicò le toilette vicino all'ascensore. Vidi la freccia verso il basso illuminata e l'ascensore fermarsi al pianoterra, tre piani più in giù. «Com'è? Me lo descriva», chiesi, agitata. «Grande e grosso, biondo.» Mi voltai verso Tracchio. «Qui ci penso io, tu vai», mi disse. Gridai a McNeil e Samuels di controllare le toilette e a Lemke e Chi di bloccare tutte le uscite. «Che nessuno si allontani.» Conklin e Jacobi erano alle mie spalle. Corremmo giù per la scala mobile ferma e ci dividemmo nell'enorme centro commerciale. Dovetti fermarmi a causa della folla che entrava e usciva dai negozi più trendy come Godiva, Club Monaco, Bailey Banks & Biddle, Bandolino e Kenneth Cole.
Non sapevo dove guardare, da che parte girarmi. Non vedevo nessuno che fosse grande, grosso e biondo. In quel momento mi suonò il Nextel. Era McNeil, che mi informava che nel bagno non c'era nessuno. «Tu e Samuels prendete Fifth Street», dissi. «Eccolo», esclamò Jacobi. Anch'io lo vidi. Era senza giacca, in camicia bianca, e si stava allontanando in mezzo alla gente. Era alto un metro e novanta, cento chili, capelli biondastri, sigaretta in mano. Un colosso. Tirai fuori la pistola e lo chiamai ad alta voce perché mi sentisse nonostante il rumore. «Louis Bergin, siamo della polizia. Resti dov'è, per favore. Mani in alto.» 86 Louie Bergin si girò verso di me e mi guardò per una frazione di secondo. Gridai di nuovo: «Bergin, si fermi. Non mi costringa a sparare!» Il gigante si voltò e si mise a correre. Avevo l'adrenalina a mille mentre Conklin, Jacobi e io lo seguivamo di corsa cercando di districarci nella ressa, prendendo l'uscita sud-est e ritrovandoci in Market Street, affollatissima come sempre la mattina a quell'ora. Se Bergin era scappato, doveva avere la coda di paglia. Aveva commesso qualche altro reato o era l'assassino che stavamo cercando? Mi sforzai di stare attenta contemporaneamente alle macchine che sfrecciavano e ai pedoni per individuare un uomo in camicia bianca che correva tra la folla. Avevo il batticuore quando, dopo averlo perso, tutto a un tratto me lo ritrovai davanti a una trentina di metri di distanza, che attraversava con il rosso diretto verso Powell Street. «Eccolo!» gridai a Jacobi e Conklin. Bergin si stava facendo largo tra la folla vociante. I marciapiedi di Powell Street erano una sorta di gimkana fra pedoni, ambulanti e gente che aspettava il tram.
Ero già sicura di prenderlo e non vedevo l'ora di raggiungerlo e sbatterlo per terra, ma Bergin urtò un ambulante che vendeva oggetti di ceramica sul marciapiede e corse in strada lasciandosi dietro una scia di cocci. Accelerò ancora e, correndo a lunghe falcate, ci seminò. Anche l'uomo dinoccolato cui Bergin aveva rovesciato la bancarella si unì all'inseguimento, così come un gruppetto di stupidi ragazzini che ciondolavano vicino all'edicola. Alzai il distintivo e rivolsi a loro tutta la mia collera. «Toglietevi di mezzo! Rischiate di beccarvi una pallottola!» Jacobi, senza fiato, stava perdendo terreno. Correre in salita era troppo faticoso per lui, dopo l'incidente del maggio precedente. Gridai: «Warren, manda una squadra mobile in Union Square!» Vidi che Conklin si era fermato e si guardava intorno. E capii che avevamo perso il nostro uomo. Passai in rassegna le dieci o dodici botteghe lungo la strada. Se Bergin si era infilato in uno degli alberghetti o dei ristoranti lì intorno o - Dio ce ne scampi - era sceso nella stazione della metropolitana, non avevamo speranza. Poi con la coda dell'occhio vidi qualcosa che attirò la mia attenzione: Bergin correva lungo i binari del tram, usandolo come barriera fra lui e noi. «Conklin!» «L'ho visto, tenente!» Conklin correva veloce ed era palestrato quanto Bergin. Attraversò Powell Street e si lanciò all'inseguimento del tram gridando ai passanti di farsi da parte. Ma non riusciva a raggiungerlo. Lo vidi afferrare la ringhiera del tram e salirci sopra per farsi portare per un breve tratto e quindi saltare addosso a Bergin, atterrandolo. Bergin cadde sul marciapiede, ansante. Avevo il fiatone ed ero stanchissima. Pensavo che mi stesse per scoppiare il cuore, ma ce l'avevamo fatta. Tenendo la Glock puntata contro la testa di Bergin gridai, affannata: «A terra, bastardo! Tieni le mani davanti a te e non muovere neanche un dito». 87 Ancora con il fiatone, comunicai a Jacobi dove ci trovavamo e amma-
nettai Louie Bergin. Nella caduta si era graffiato i palmi delle mani e la guancia destra. Ma stava zitto. E non si ribellava. Riflettendo, cominciai a preoccuparmi. Contro di lui avevamo soltanto «resistenza a pubblico ufficiale», il che significava che sarebbe potuto tornare libero con una piccola cauzione. Bastava che tirasse fuori mille dollari e se ne sarebbe potuto tornare a casa nel giro di poco. All'ora di cena sarebbe potuto essere a Vancouver e da lì sparire per sempre. Conklin mi lesse nel pensiero. «Tenente, l'abbiamo visto tutti reagire con violenza.» Feci una faccia stupita. Reagire con violenza? Bergin era immobile come un tonno in pescheria. «Mi ha colpito», insistette Conklin, massaggiandosi la mascella. «Mi ha dato un pugno, prima che io lo atterrassi. Questo gorilla ha preso a pugni un pubblico ufficiale!» «Mi spiace non averlo fatto», borbottò Bergin, steso sul marciapiede. «Te l'avrei rotta volentieri, la mascella.» «Sta' zitto, per favore», gli disse gentilmente Conklin. «Ti dico io quando puoi parlare.» Capii che stava accusando Bergin di minacce e lesioni, un reato più grave della resistenza a pubblico ufficiale, per far salire la cauzione. Era una scorrettezza, ma eravamo disperati: avevamo bisogno di tempo per capire se era stato lui a uccidere quelle ragazze. Conklin gli lesse i suoi diritti e lo fece salire su una volante. Jacobi accostò e mi offrì un passaggio. Durante il tragitto, gli dissi che non vedevo l'ora di interrogare Bergin, farlo confessare, dare un nome al suo complice e sbattere in galera i due serial killer. «Stai bene, Boxer? Mi sembri un po' agitata.» «Sì, sono agitata», risposi. «Pensavo: e se Louis Bergin non è il nostro uomo, che cosa facciamo? Non saprei proprio da che parte cominciare...» 88 Jacobi e io aspettammo impazientemente nel mio ufficio che venissero scattate le foto segnaletiche e rilevate le impronte digitali all'arrestato.
«Dovreste interrogarlo tu e Conklin», disse Jacobi. «Sei tu che ti stai occupando del caso», replicai. «Dovresti farlo tu.» «Vediamo come se la cava Conklin, Boxer. Io sto dietro il vetro.» Louis Bergin era seduto a capo chino al tavolo della sala due. Conklin e io ci sedemmo di fronte a lui e rivedemmo le scarse informazioni che eravamo riusciti a tirare fuori dai nostri database. «Ci risulta che lei è un cittadino perbene, signor Bergin», esordii. «Ha la fedina penale pulita, buone referenze professionali. Non dovremmo metterci molto.» «Meno male. Perché appena esco di qui, vi faccio causa per arresto illegale. E a lei per abuso di potere.» «Si calmi. Lei ha guardato troppa televisione, mi sa. Tenga, si dia una ripulita», disse Conklin porgendogli un fazzoletto di carta. Bergin lo fulminò con un'occhiata e si pulì la faccia e le mani, appallottolò il fazzoletto e se lo tenne in mano. Conklin cominciò: «Ci dica, signor Bergin, perché è corso via?» «Io corro tutti i giorni. Per tenermi in allenamento.» «Senta, stiamo cercando di aiutarla. Le stiamo concedendo il beneficio del dubbio.» Bergin scoppiò a ridere. «Ah, siete dalla mia parte, allora?» «Sì», replicò Conklin. «Magari ha rubato dei vestiti e se li è rivenduti. Ma a noi il furto non interessa, vero, tenente? Noi siamo della squadra Omicidi.» «Avreste potuto chiedermelo gentilmente, pezzi di merda, invece di portarmi in centrale per 'resistenza a pubblico ufficiale'.» Conklin si alzò in piedi con aria feroce e Bergin si protesse il volto con le braccia. Conklin lo colpì alla nuca e il fazzolettino sporco di sangue cadde sotto la sedia. «Mostri un po' più di rispetto per i tutori dell'ordine pubblico, per favore», disse Conklin. «Specie di fronte a una signora.» Poi si chinò e si infilò il fazzoletto nella tasca dei pantaloni. «Se continua ad alzare le mani, la denuncio per percosse. Non avete un cazzo contro di me. Quindi, o mi lasciate andare, oppure mi chiamate un avvocato. Io non ho niente da dire.» Mi suonò il cellulare, nel momento meno opportuno. Guardai il display. Era Joe. «È il sindaco», annunciai estraendo il telefono dalla custodia. «Devo rispondere, scusate.»
«Sissignore, lo stiamo interrogando.» Voltai le spalle a Conklin e Bergin. Era bello sentire la voce del mio uomo. «Sono in volo per Hong Kong, biondina», mi disse, capendo al volo. «Torno il prossimo weekend. Potrei fare un salto a San Francisco.» «Sissignore. Sembra pronto.» «Riesci a liberarti?» «Assolutamente sì.» «Non ti scordare, mi raccomando.» «Parola d'onore.» Mi guardai un istante allo specchio e, benché mi venisse da sorridere, cercai di fare la faccia corrucciata. «Ti amo, Lindsay.» «Ci credo. Sissignore, la terrò aggiornata.» Chiusi la comunicazione e ritornai al presente dopo quel romantico interludio. «Ha visto, signor Bergin? Il sindaco è molto interessato a lei.» «Mi fa piacere», replicò lui con un sorriso soddisfatto. Bergin aveva ragione: non avevamo niente contro di lui. Appena si fosse procurato un avvocato, saremmo tornati a morderci la coda. Qualcuno bussò. Uscii un attimo e vidi Jacobi nel corridoio. «Hai sentito? Bergin vuole un avvocato.» «Gli converrà trovarselo bravo», osservò. «C'è corrispondenza fra le sue impronte e quella sul ginocchio di Lauren McKenna.» Mi strizzò l'occhio. «Penso che resterà dentro un bel po'.» Mi sembrava di volare, tanto ero contenta. Feci un gran sorriso, battei cinque con Jacobi e mi trattenni a stento dal buttargli le braccia al collo e baciarlo. Aprii la porta e chiamai Conklin. «Le impronte corrispondono a quella sul cadavere della ragazza del salone: a te l'onore di comunicarglielo, Richie.» Ero al suo fianco, quando Conklin annunciò: «Signor Bergin, la informo che non è più in stato di arresto per resistenza a pubblico ufficiale, ma per l'omicidio di Lauren McKenna». 89 Toccai il calcio della pistola perché mi portasse fortuna e poi entrai con
Conklin e Jacobi nel condominio Keystone Apartments passando dall'ingresso su Hyde Street. Era un edificio di sette piani con mattoni a vista, vicino alla funicolare, proprio sopra Nordstrom Square. Il vecchio portinaio di colore ci disse che la donna che abitava con Louie Bergin era in casa. «Fa la pittrice ed è sempre a casa, di giorno.» Prendemmo il piccolo ascensore cigolante e salimmo all'interno 7F. Suonai il campanello e bussai alla porta. «Polizia!» Sentii dei passi, ma la porta rimase chiusa. Bussai di nuovo, questa volta con il calcio della pistola. Il rumore rimbombò nell'angusto pianerottolo, ma la porta continuava a rimanere chiusa. Provai ad aprirla, invano. «Buttiamola giù», dissi. Conklin vi si gettò contro con tutto il suo peso e la sottile porta di legno si incrinò e poi si ruppe del tutto. Entrò per primo Jacobi. Lo seguii in un soggiorno piuttosto piccolo, con un divano di pelle marrone e, appesi alle pareti, una serie di disegni che raffiguravano modelle su auto d'epoca. Vicino alla finestra vidi una busta, indirizzata a Louie. «Polizia!» gridai. «Venite fuori con le mani alzate.» Presi dalla tasca il mandato di perquisizione e attraversai il soggiorno buio con la pistola in pugno. Riconobbi il profumo un secondo prima che Jacobi dicesse: «Aroma di magnolia». Conklin, alle nostre spalle, accese la luce. La camera da letto era in fondo al corridoio. Posai la mano sulla vecchia maniglia di vetro e aprii la porta. Spinsi il battente con la spalla e osservai il letto disfatto, cosparso di vestiti. La finestra era aperta. Guardai meglio, perché la scena che avevo davanti era incredibile. Una donna orientale di età indeterminata era accucciata sul davanzale. Indossava una vestaglia bianca, semitrasparente, che brillava nella penombra. Le maniche e i capelli neri le fluttuavano nel vento. Aveva un'espressione infantile e fiduciosa, che mi colpì, forse anche per il contrasto con lo squallore della stanza. «Sono il tenente Boxer», dissi a bassa voce, abbassando la pistola e sperando che Jacobi e Conklin seguissero il mio esempio. «Come ti chiami?» chiesi. «Scendi, così parliamo.»
Le brillarono gli occhi, come se le fosse venuta in mente una cosa spiritosa. Mentre la guardavo, arricciò le labbra coperte di rossetto come per mandarmi un bacio. «Brum brum», disse. Accadde tutto molto in fretta. Mi lanciai verso di lei, ma era troppo tardi. Precipitò nel vuoto. Per un secondo, mi parve di vederla ancora accucciata sul davanzale, prima che spiccasse il volo. La sua immagine mi rimase impressa nel cervello. Quando Jacobi e Conklin mi raggiunsero, il corpo toccò terra. 90 Le prime ventiquattr'ore di Louie Bergin in carcere non dovevano essere state piacevoli: aveva i vestiti tutti sgualciti e la faccia non rasata e stravolta di chi non ha chiuso occhio. Lo sguardo era rabbioso. E adesso aveva un legale, Oscar Montana, un giovane ribelle con la faccia spigolosa che faceva l'avvocato d'ufficio. Lo conoscevo e mi era abbastanza simpatico. Bergin sarebbe potuto cascare peggio. «Che cosa avete contro il mio cliente?» domandò Montana posando la valigetta Halliburton color bronzo sul tavolo per aprirla. «Abbiamo perquisito il suo appartamento questa mattina e ci abbiamo trovato una ragazza molto graziosa», spiegò Conklin. «Cherry Chu. È la tua donna, Louie?» «Cherry non c'entra», borbottò questi. La sua voce sembrava il rombo di un vulcano, minacciosa e piena di furia. Conklin avvicinò la sedia e si sistemò a pochi centimetri da lui. «Davvero? Be', nulla ci impedisce di parlartene. Penso che ti riserverà delle sorprese. Anzi, lo ha già fatto.» Bergin strinse i pugni e scosse la testa con aria strafottente. «Non dirà mai nulla contro di me.» «Non c'è bisogno che parli. La sua defenestrazione parla da sé», continuò Conklin. «Sai cos'è una defenestrazione, Louie?» «La smetta, ispettore, non sia così sadico!» esclamò Montana. Louie pareva perplesso. «Io non ho mai defenestrato nessuna donna.» Conklin si appoggiò allo schienale. «Allora non sai cosa vuol dire: la tua donna si è lanciata dalla finestra, Louie. Abbiamo cercato di impedirglielo,
ma non ci siamo riusciti. Condoglianze.» Louie emise un gemito e contrasse tutti i muscoli. Poi, con forza erculea, premette i palmi sul tavolo e fece per alzarsi in piedi. Conklin gli posò le mani sulle spalle e lo costrinse a restare seduto. «Avvocato, dica al suo cliente di controllarsi, altrimenti lo farò ammanettare.» «Non reagire alle provocazioni, Louie. Ascolta e basta.» Anch'io ascoltavo. E tenevo gli occhi bene aperti. Conklin era molto pronto, sapeva gestire un interrogatorio. Ed era anche coraggioso. Vidi che Jacobi era fiero di lui. Anch'io approvavo. «C'è una cosa molto strana», continuò Conklin. «Quando il medico legale me l'ha detta, non ci volevo credere. Per la miseria, una così bella ragazza!» Guardai Bergin in faccia mentre Conklin gettava due patenti di guida sul tavolo come fossero state carte da gioco. Le fotografie erano sorprendenti. Se si guardava prima l'una e poi l'altra, si vedeva chiaramente che occhi, zigomi e bocca erano gli stessi. «Per crederci, ho dovuto vedere queste due foto. Kenneth Guthrie, Cherry Chu. La stessa persona... Immagino che quando andavate in giro ad ammazzare ragazze venisse Ken, giusto? Che poi, a casa, diventava Cherry Chu, la tua ragazza. Be', insomma, ragazza per modo di dire», fece Conklin. «Era un uomo.» 91 Vidi che Bergin da paonazzo diventava bianco come un cencio. Cominciò a dare testate contro il tavolo, emettendo una specie di ululato, finché Montana non si alzò e lo prese per le spalle, scuotendolo. L'avvocato mi guardò malissimo e capii che non scherzava. «Cosa sta cercando di fare il suo ispettore, tenente? Avete prove contro il mio cliente? Perché, se non le avete, ci vediamo all'udienza preliminare.» «Le sue impronte corrispondono a quelle trovate su una delle ragazze uccise», dissi. «Stiamo facendo anche il test del DNA. Aspettiamo il risultato a momenti.» «Il signor Bergin vi ha fornito il suo DNA?» «Non proprio. Diciamo che ce l'ha messo involontariamente a disposi-
zione», risposi sedendomi vicino a Bergin. «Senti, Louie, fammi capire per quale motivo tu e Cherry avete ucciso quelle ragazze. L'ispettore Conklin e io vogliamo conoscere la tua versione dei fatti. Potresti avere delle attenuanti...» «Va' a cagare.» «Mi sa che avevi ragione, Richie», dissi a Conklin. «Louie ce l'ha con le donne, anche se ho la sensazione che sessualmente lo attraggano. Cosa ne dici?» «Ken gli serviva per questo», disse Conklin, dandomi corda. «Gli procurava le femmine. È così, Louie? Le stupravate e poi le toglievate di mezzo. Dopo averle violentate che cosa facevate tu e lui? Ve la spassavate, eh? I giurati non apprezzeranno affatto.» «Non rispondere, Louie. Non dire una parola», intervenne Montana. «Io invece ti consiglio di parlare», dissi a Bergin. «Ti conviene vedertela con noi, piuttosto che con una giuria. Tieni anche conto di questa.» Posai sul tavolo una busta bianca, indirizzata a Louie in inchiostro nero, in modo che Bergin potesse vederla, ma non prenderla in mano. Nel riconoscere la grafia sbatté le palpebre. Ci contavo. «Cherry ha fatto una fine migliore di quella che farai tu», dissi. «Pensaci. Vent'anni nel braccio della morte ad aspettare l'iniezione letale...» «Basta così, tenente», mi interruppe Montana, chiudendo la ventiquattrore. «Il signor Bergin non è neppure stato rinviato a giudizio...» «Lo sarà, per triplice omicidio», dissi, senza lasciarlo finire. «Ma io voglio essere generosa e quindi gli offro questa possibilità.» «Ovvero?» chiese Montana. «Quale possibilità?» «Due anni fa venne ritrovato il cadavere di una donna in una piazzuola dell'autostrada nei pressi di Los Angeles», spiegai. «Il DNA estratto dal tampone vaginale corrisponde a quello del liquido seminale delle vittime del suo cliente. Se confessa, parleremo con il procuratore e cercheremo di evitargli la pena di morte.» «Le faremo sapere», disse Montana. «Andiamo», fece poi al suo cliente. «L'offerta ha una scadenza», li avvertii, posando la mano sulla busta. «Posso leggerla?» domandò Louie, quasi vergognoso, fissando la lettera. Aveva cambiato espressione, sembrava smarrito. I suoi occhi erano rossi e lucidi. «È una prova. Se vuoi, te ne leggo due o tre righe», risposi guardandolo in faccia.
Aprii la busta che avevo trovato nel suo soggiorno e ne estrassi cinque fogli di carta sottile, scritti fittamente con grafia arrotondata. «Penso che avesse appena finito di scriverla», dissi. «Vedi, la firma è tutta sbavata, l'inchiostro era ancora bagnato.» Louie aveva la bocca aperta, il respiro affannoso, gli occhi fissi su di me. «Cherry qui dice: 'Scusami, amore mio, ma senza di te non posso vivere. Sei stato l'unico mio sogno mai diventato realtà...' Roba privata», commentai, ripiegando i fogli per rimetterli dentro la busta. «Mi si spezza il cuore.» Louie affermò: «Mi dica che cosa devo fare e la faccio». «Ascoltami», lo interruppe Montana, mettendogli una mano sul braccio. «Non dire una parola. Lasciami fare il mio lavoro. L'unico testimone che hanno è morto.» La situazione ci sfuggì improvvisamente di mano. Louie mollò un pugno al suo avvocato, sbattendolo per terra e facendogli uscire il sangue dal naso. Io balzai in piedi, gli afferrai i polsi scuotendolo. Lui si mise a gridare istericamente. «Non capisci, stronza? Non me ne frega niente di vivere o morire! La mia vita è finita. Non la rivedrò mai più!» Mi fissò con occhi di fuoco. «Che cosa ti devo dire, per avere questa cazzo di lettera?» «Devi dirmi tutto quello che hai fatto.» «Okay. Te lo dirò.» Mi sentivo euforica, mi sarei messa a cantare dalla felicità, ma mi sforzai di rimanere impassibile. Uscii dalla stanza per assicurarmi che la telecamera stesse riprendendo tutto. Quando rientrai, Conklin stava aiutando Montana a rimettersi in piedi. «Chiamo il procuratore», dissi a Louie. «Avrai copia della lettera dopo che avrò sentito la tua confessione.» 92 Anche Jacobi era felicissimo che Louie Bergin fosse crollato. Eravamo fieri di aver contribuito a prendere quello squilibrato. Anzi, quegli squilibrati. Ma erano le otto di sera e il mio collega stava ancora lavorando: c'era un altro pazzo da inchiodare, forse ancora più pericoloso, il peggiore in tutta la storia di San Francisco.
Jacobi stava percorrendo Leavenworth Street dietro la Lexus metallizzata di Dennis Garcia. Spirali di nebbia si alzavano dall'asfalto nella pioggia. Si fermò al semaforo all'incrocio con Clay Street e osservò l'alone rosso delle luci di posizione pensando che Garcia faceva una gran bella vita. Doveva essere proprio matto, per rischiare di rovinarsela seminando la morte nelle corsie del Municipal Hospital. Le macchine che procedevano nel senso opposto illuminarono l'interno dell'auto che aveva davanti: al volante dell'Acura fra la sua vettura e la Lexus di Garcia c'era Yuki Castellano! Cosa diavolo ci faceva? Scattò il verde e Jacobi accelerò per non perdere di vista nessuna delle due macchine. La sorpresa iniziale si trasformò in assoluta certezza: l'Acura stava proprio seguendo la Lexus. Jacobi rifletté, quindi accese luci e sirena. La vecchia Crown Vic si trasformò di colpo in un demonio appena uscito dagli inferi. La giovane avvocatessa guardò nello specchietto retrovisore e accostò. Jacobi si fermò dietro di lei, chiamò in centrale e affidò l'inseguimento della Lexus a un collega. Poi si tirò su il bavero della giacca e scese. Si avvicinò all'Acura dalla parte del passeggero e puntò la torcia elettrica sul viso di Yuki. «Patente, per favore.» «Un attimo che la prendo. Ho commesso qualche infrazione?» «Patente.» «Subito.» Yuki si riparò gli occhi dalla luce. Si voltò a frugare nella borsa, facendo cadere degli spiccioli e una carta di credito. Sembrava tesa, agitata. Non era in sé. Alla fine trovò la patente e gliela porse. Jacobi la prese e tornò alla propria macchina fingendo di controllare l'esattezza dei dati, per darle tempo di riflettere. Quindi si riavvicinò e le chiese di scendere. Pioveva fortissimo. «Vuole che scenda dalla macchina?» «Esatto. Posi le mani sul cofano. Voglio dare un'occhiata dentro, se non le dispiace. Ha armi? Sostanze illegali?» «Warren? Ma sei tu? Sono Yuki, non mi riconosci? Che cosa c'è?» «Vorrei saperlo io, cosa c'è.» Yuki, bagnata fradicia e con i capelli sugli occhi, sembrava uno Yorkshire. Indossava un paio di pantaloni della tuta, una T-shirt sottile e pantofole senza calze. Batteva i denti. Jacobi diede un'occhiata nell'abitacolo dell'Acura, quindi disse: «Okay,
puoi risalire». La guardò mentre si allacciava la cintura, le restituì la patente e disse: «Ti seguivo da un po', Yuki. Mi spieghi cosa stavi facendo?» «Mi seguivi?» «Rispondi alla mia domanda, per favore.» «Un giro. Facevo un giro.» Yuki stava cominciando ad arrabbiarsi. «Non mi prendere per i fondelli, Yuki. Stavi pedinando una Lexus.» «No. Sì, è vero. Non posso? Cioè... voglio dire... non è niente...» «Rifletti prima di parlare!» ribatté Jacobi alzando lievemente la voce per scrollarla, per metterle paura. «Se quell'uomo è un assassino come tu sei convinta che sia, non hai paura che cerchi di toglierti di mezzo? Yuki, per favore, pensa a quello che fai.» La donna aprì la bocca, ma non disse niente. «Non mi diverto mica a trattarti così, sappilo. Non è da te fare una cosa del genere. Sei troppo intelligente, troppo in gamba. Cerca di non cacciarti nei guai.» Yuki si asciugò la faccia con le mani e annuì. «Lo dirai a Lindsay?» «Dipende da te.» «Okay, adesso torno a casa senza fermarmi nemmeno a fare benzina. Va bene?» «Okay. A proposito, devi fare la revisione annuale: il bollino è scaduto. Mi raccomando, provvedi.» «Grazie, Warren.» «Di niente. Mi raccomando, Yuki, non fare stupidaggini.» Jacobi tornò alla macchina pensando al proprio lavoro. Aveva una gran voglia di mangiare qualcosa nella tavola calda sotto casa e guardarsi la partita dei Forty Niners. Ma, quando aprì la portiera, sentì che lo stavano chiamando via radio. 93 Jacobi accostò dietro la Ford azzurra all'angolo fra Taylor e Washington Street e scese di nuovo sotto l'acquazzone. Si avvicinò a Chi e Lemke e scambiò due parole con loro. Quando la Ford ripartì, Jacobi attraversò la strada per andare a ripararsi sotto la tenda nera con la scritta dorata RISTORANTE VENTICELLO. Salì i gradini ed entrò nel locale. Fu investito da una folata di aria calda e profumata di aglio e origano. Gli brontolava già lo stomaco.
A destra della porta d'ingresso, la guardarobiera gli chiese se voleva lasciare la giacca. Jacobi rispose di no. Rimase lì un momento, zuppo di pioggia, a osservare il bar a forma di L, la scala alla sua sinistra che scendeva al piano di sotto e quella che invece saliva al piano di sopra, dove si trovava la sala principale del ristorante. Si sedette al bancone e ordinò una Buckler's. Si tolse la giacca e la posò sullo sgabello accanto al suo. Poi chiese al cameriere dov'era la toilette. Scese una decina di scalini moquettati ed entrò in una sala rettangolare dalle alte vetrate, con un grande caminetto e una decina di tavoli occupati. Il dottore era seduto vicino al fuoco. Dava le spalle a Jacobi ed era in compagnia di una bella donna che gli sorrideva. Stavano bevendo vino rosso. Jacobi passò accanto al loro tavolo e urtò la sedia del dottore, godendo come un riccio quando quello si voltò e lo guardò male. Jacobi si scusò. «Mi scusi, mi scusi.» Poi andò in bagno e tornò di sopra, al bar. Bevve la sua birra analcolica e ne sorseggiò un'altra, pagando ogni volta. Quando il dottore e la sua accompagnatrice gli passarono vicino diretti al guardaroba, lasciò un'altra banconota da cinque dollari sul banco. Uscì un attimo prima di loro nella serata inclemente. Mise in moto la macchina, accese i tergicristalli e comunicò all'operatore la propria posizione. La Lexus metallizzata uscì dal parcheggio e imboccò Taylor Street. Jacobi la seguì, questa volta a distanza ravvicinata, confidando nel brutto tempo e nel fatto che il dottore era distratto dalla bionda, che gli stava appiccicata e lo baciava sul collo mentre lui guidava. Svoltò in Pacific Avenue, poi imboccò Leavenworth e quindi Filbert Street. Jacobi lo vide entrare nel vialetto di casa sua e nel garage, che aveva aperto con il telecomando. Superò la villetta bianca e gialla, arrivò in fondo alla strada, fece inversione e tornò indietro, parcheggiando dall'altra parte per poter tenere d'occhio la casa. Gli faceva male un'anca e doveva andare in bagno. Stava meditando se scendere a svuotarsi la vescica dietro la macchina quando le luci al pianterreno si spensero. Un quarto d'ora dopo, si spensero anche quelle al piano di sopra. Jacobi chiamò Lindsay sul Nextel e le disse che aveva pedinato Garcia
da quando era uscito dall'ospedale. Sì, aveva fatto lo straordinario. Gratis. «Non è manco passato con il rosso, Boxer. Ha cenato con una bella bionda sui quaranta, tenendole la mano a tavola. Mentre guidava, si sono strusciati per benino. Per quel che ne so io, l'unico reato di cui si può accusare il dottore è avere una fidanzata.» 94 Tenevo d'occhio il corridoio antistante l'unità di terapia intensiva del Municipal Hospital quando mi chiamò Jacobi, dicendomi che Garcia era andato a dormire. Mi sedetti su una seggiola di plastica azzurra nella sala d'attesa a pensare che era stata un'idiozia far fare gli straordinari al mio collega in una notte così inclemente. Nello stesso tempo, non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione che Garcia avesse la coscienza sporca. Mi veniva in mente la mamma di Yuki, Keiko, quando le erano cedute le ginocchia e si era accasciata sul marciapiede, e non riuscivo a credere che quella donna così allegra e piena di vita fosse morta. Pensavo ai bottoni di ottone sulle sue palpebre chiuse e sugli occhi di altri trentun cadaveri. Che cosa significavano quei maledetti bottoni? Perché l'assassino ce li metteva, se nessuno ne capiva il significato? Ripensai all'arroganza dell'uomo responsabile di quei pazienti, il medico che aveva detto: «Certi giorni soffia un vento cattivo». E, per l'ennesima volta, mi chiesi se Dennis Garcia fosse un serial killer tipo Swango, il chirurgo dell'Ohio, o Charles Cullen; medici impazziti, assuefatti all'ebbrezza di togliere la vita. Mi spostai sulla sedia e urtai la tazza del caffè, rovesciandolo per terra. Osservai la chiazza marrone che si allargava intorno alle mie Nike. «Cavolo, Lindsay, come puoi pensare di beccare il colpevole se non riesci manco a bere un caffè senza combinare disastri?» Asciugai il pavimento con un foglio di giornale e gettai la tazza nella pattumiera pensando che la giornata era finita. Garcia era a letto, anch'io sarei dovuta andare a dormire. Mi stavo chiudendo il giubbotto quando sentii suonare il cellulare. «Tenente?» disse una voce di donna. «Sono Noddie Wilkins, l'infermiera del Municipal Hospital. Mi aveva detto di chiamarla... È morto un altro paziente e c'erano i bottoni su...»
Mi venne la pelle d'oca. «Quando è successo?» «Adesso.» «Come si chiama la vittima?» «Anthony Ruffio. È ancora in terapia intensiva.» Corsi verso le scale chiedendomi quanta gente fosse morta in quell'ospedale, a quanti pazienti fossero stati posati sulle palpebre i bottoni d'ottone. Questa volta, però, era diverso. Ero sul posto e presumibilmente anche l'assassino era ancora lì. 95 Salii i gradini a due a due. In quell'ospedale poteva esserci un killer spietato e quello poteva essere il momento giusto per prenderlo. Mostrai il distintivo all'infermiera all'ingresso del reparto e rimasi ad aspettare mentre lei chiamava il medico di guardia. Il dottor Daniel Wassel si materializzò poco dopo. Era magro, sui trent'anni, con il naso lungo e sottile e gli occhi assonnati. Mi presentai e gli spiegai che stavo svolgendo alcune indagini: mi serviva l'elenco di tutto il personale presente in reparto all'arrivo del paziente Anthony Ruffio, ammesso in terapia intensiva dopo un intervento. Gli dissi anche che volevo vedere subito il paziente. Il medico si allarmò e sgranò gli occhi rossi. «Non capisco, tenente. Perché la polizia indaga sulla morte di Ruffio?» «Diciamo che è considerata una morte sospetta.» «Incredibile», fu il suo commento. Aprì una porta e accese la luce. Il neon lampeggiò. La prima cosa che vidi fu il morto. Provai un brivido nel togliergli il lenzuolo dal volto. Ruffio aveva l'espressione scioccata, la bocca aperta, la pelle chiara quasi trasparente. Intorno alle narici c'era del sangue rappreso e vicino alla bocca c'erano ancora tracce del cerotto con cui era stato fissato il tubo endotracheale. Abbassai ulteriormente il lenzuolo e scoprii la ferita chirurgica ancora fresca, i punti lungo lo sterno e fino all'ombelico. Lo ricoprii. Mi voltai e sul comodino vidi due bottoni di ottone con il caduceo. Mi frapposi tra i bottoni e il dottor Wassel.
«Da questo momento qui non entra più nessuno», dissi. «Sta per arrivare la Scientifica. Quando i tecnici avranno finito, il signor Ruffio verrà sottoposto ad autopsia.» «Devo informare la direzione.» «Faccia pure.» Presi dalla tasca del giubbotto un paio di guanti di lattice e una bustina per le prove e vi infilai i bottoni, prima che sparissero. Poi telefonai alla Scientifica e chiesi che mi mandassero due tecnici di turno. Quindi chiamai Jacobi, tirandolo giù dal letto. Mentre aspettavo l'arrivo dei rinforzi, cominciai il mio sopralluogo. Mi pareva di essere al timone di un motoscafo in un mare tempestoso. Mostrai il distintivo a un buon numero di medici, infermieri e inservienti chiedendo a tutti dove si trovavano quando Anthony Ruffio era entrato in ospedale e quando era morto. Li osservai attentamente, alla ricerca di un gesto, di un segnale, di qualcosa che mi dicesse che erano colpevoli. Ma non trovai niente di niente. 96 Il medico di turno in pronto soccorso quella sera era la dottoressa Marie Calhoun. Aveva fra i trenta e i trentacinque anni, era castana, riccia, frenetica e si mangiava le unghie. Era a fianco a me, insieme a un gruppetto di infermieri del pronto soccorso, e parlava a raffica, senza guardarmi negli occhi, cercando di spiegarmi come era morto Anthony Ruffio. «Mentre tornava da Ginevra via New York con la gamba sinistra ingessata, si è sentito male in aereo. Dispnea. È stato ricoverato appena atterrato.» «Lei era presente?» «Sì. Gli abbiamo fatto una serie di esami e abbiamo scoperto una severa embolia polmonare e un trombo nella gamba fratturata. Gli abbiamo somministrato eparina, un anticoagulante, e l'abbiamo ricoverato in terapia intensiva, mettendolo in ventilazione assistita. Improvvisamente ha avuto un'ematemesi, cioè ha vomitato sangue, ed è entrato in uno stato di choc.» «La causa?» «Siccome lì per lì non siamo riusciti a spiegarcela, l'abbiamo portato urgentemente in sala operatoria e abbiamo scoperto un'ulcera gastrica. L'e-
morragia non si fermava per via dell'eparina e...» La dottoressa scosse la testa. Sembrava non capacitarsi neppure lei della morte del paziente. «L'ha operato Bill Rosen, che è un ottimo chirurgo. Ha cercato di arrestare l'emorragia. Gli abbiamo fatto diverse trasfusioni, ma non coagulava, l'emorragia era inarrestabile. Aveva già gravi problemi a respirare e non ha retto all'intervento.» «Ovvero?» «Ha avuto un arresto cardiaco in sala operatoria, Rosen l'ha rianimato e stabilizzato, ma quando è arrivato qui è sopravvissuto solo una ventina di minuti.» Ebbi un orribile déjà vu. Anche Keiko Castellano era morta a causa di un anticoagulante, la streptochinasi. «Perdoni la mia ignoranza, dottoressa, ma è frequente che con l'eparina un paziente 'non coaguli'?» Marie Calhoun mi guardò con gli occhi neri duri come l'onice. «Che domande mi fa?» «È possibile che a Ruffio sia stata somministrata troppa eparina?» «Tutto è possibile. Ma c'è una spiegazione più plausibile per la sua morte ed è questa che scriverò nel referto», mi rispose Marie Calhoun determinata. Sembrava quasi che digrignasse i denti. «Il tasso alcolemico del paziente all'ammissione era 2.6. Questo vuol dire che era ubriaco fradicio. Chissà che non si fosse anche procurato la frattura sciando da bevuto.» «Mi scusi, non afferro.» «L'ulcera è comune fra gli alcolisti. Il signor Ruffio non ci aveva detto di averla, forse perché si vergognava», spiegò la dottoressa. «Non per niente si fa l'anamnesi ai pazienti.» «Dunque secondo lei Ruffio è morto perché non vi ha detto che soffriva di ulcera?» «Esattamente. Abbiamo finito?» «Non ancora», risposi. In quel momento portarono un ragazzo steso su una barella, con una ferita di arma da fuoco a una gamba. Urlava. Mi parai di fronte alla dottoressa prima che mi sfuggisse. «Il dottor Garcia era di turno quando avete ricoverato Ruffio?» «Non lo so. Non mi ricordo. Perché non lo chiede a lui?» «Lo farò certamente. Sa che sugli occhi di Ruffio sono stati trovati due
bottoni con il caduceo?» «Non so di che cosa parli, tenente. Ma so che Ruffio non è morto a causa di un paio di bottoni: aveva un'ulcera perforata.» 97 La mattina dopo, salii sulla mia Explorer scalcagnata e ripensai alle lunghe ore trascorse con Jacobi e i tecnici della Scientifica vicino al corpo di Anthony Ruffio. Guardavo la pioggia che cadeva sortile e argentea alla luce dei fanali, mentre il cielo cominciava a rischiararsi. Uscii dal parcheggio chiedendomi se davvero Ruffio era morto per i motivi che mi aveva spiegato la dottoressa Calhoun e non per colpa dell'ospedale. Non riuscivo a togliermi dalla testa l'espressione con cui aveva detto che Ruffio «non coagulava». Una cosa era certa: c'erano almeno sessanta persone nel reparto di terapia intensiva quando Ruffio era lì, in coma, attaccato a una macchina. Una di loro, per esempio Garcia prima di uscire, poteva avergli iniettato una dose eccessiva di eparina prima o dopo l'intervento. Ma c'era una cosa che continuava a darmi da pensare. Come aveva fatto Garcia a mettere i bottoni sugli occhi del morto? 98 Cindy era alla sua scrivania al Chronicle e stava rileggendo il suo pezzo, apportando le ultimissime modifiche. Doveva consegnarlo a momenti, ma si rallegrò lo stesso quando il telefono squillò e lesse il numero sul display. Prese la chiamata soddisfatta, pensando già di uscire a pranzo con la sua amica. «Cindy, cosa cazzo succede?» urlò Lindsay al telefono. «Ti avevo chiesto di non scrivere niente di Garcia! Me l'avevi promesso!» «Non potevo fare diversamente», si scusò Cindy a voce bassa perché i colleghi non la sentissero. «La mia fonte al Municipal Hospital mi ha detto che era stato convocato dalla commissione interna e...» «Questo non prova niente, Cindy.» «Hai letto l'articolo? Ho scritto: 'Pare che sia stata aperta un'inchiesta interna sul primario del pronto soccorso, Dennis Garcia'. Sottolineo la parola
pare. Dopo il colpo di scena della settimana scorsa al processo, non potevo non scrivere niente!» «Ma se fosse colpevole di qualcosa di più che semplice negligenza professionale? Se si comincia a parlare di lui sui giornali, c'è il rischio che si spaventi e si dia alla macchia, ti pare? Cosa facciamo se prende su armi e bagagli e lascia la città?» «Qualcosa di più che semplice negligenza professionale? Che cosa intendi?» «Non lo so neanch'io», rispose Lindsay secca. «Ci sto lavorando.» «Anch'io», ribatté Cindy. «Senti, tu non mi hai detto niente. Le cose che ho scritto le ho scoperte da sola. Non puoi prendertela con me perché faccio il mio lavoro.» Seguì un silenzio carico di tensione. Cindy sentiva scorrere il tempo, la testa piena di cose che non voleva dire. Ma, alla fine dei conti, era proprio così: Lindsay stava approfittando della loro amicizia, aveva torto. Torto marcio. «Lindsay, sono uscite decine di altri articoli su questa faccenda. Che la scriva io o qualcun altro, la storia di Garcia sui giornali ci finisce comunque.» Lindsay sospirò, poi disse: «Speravo di avere un po' più tempo». «Be', speravi male.» Si salutarono freddamente. Cindy chiuse la comunicazione e guardò il bloc-notes, rileggendo l'appunto che aveva appena preso: qualcosa di più che semplice negligenza professionale. 99 La notte passata al Municipal Hospital mi aveva lasciata esausta e sconsolata. Gettai il giornale nel cestino della spazzatura sotto la mia scrivania, abbastanza sicura che il prossimo articolo firmato da Cindy sarebbe stato sugli omicidi del Municipal Hospital e sul fatto che la polizia brancolava nel buio. Era giunta l'ora di abbandonare la mia «iniziativa personale» e di aprire una vera e propria inchiesta sul caso dei bottoni con il caduceo, prima che si scatenasse un putiferio. Presi il telefono e chiamai il capo. «Tony, ho bisogno di vederti. Urgentemente.»
Il Flower Market Café all'incrocio fra Brannan e Sixth Street è vicino all'imbocco della 280 South e a pochi isolati dalla corte di giustizia. In altre circostanze mi sarei goduta l'atmosfera calda e intima, il pavimento di mattonelle, i rivestimenti in legno scuro e la vista sul mercato dei fiori. Non quel giorno, però. Tracchio e io ci sedemmo a un tavolino rotondo e ordinammo dei tramezzini. «Dimmi tutto, Boxer.» Mi resi conto che mi faceva piacere raccontargli tutta la storia, dalla mamma di Yuki ai trentatré morti con i bottoni di ottone sugli occhi, dalle voci ai dati statistici fino al processo per negligenza professionale in corso contro il Municipal Hospital. Gli raccontai anche dei trascorsi poco chiari di Garcia e di come la sera prima, fuori servizio, Jacobi aveva pedinato Garcia e io avevo interrogato vari dipendenti dell'ospedale sulla morte di un paziente. «Ruffio era nel reparto di terapia intensiva, in attesa di essere trasferito all'obitorio», dissi. «E qualcuno gli aveva posato due bottoni con il caduceo sugli occhi.» «Bah», bofonchiò il capo. «Garcia è smontato alle sei, il paziente è morto dopo le otto. Ma non posso escludere il suo coinvolgimento», aggiunsi. «Se non c'era, come fa a essere coinvolto?» «Può entrare e uscire dall'ospedale in qualsiasi momento. Potrebbe aver somministrato l'eparina al paziente prima di andarsene. Magari ci vuole un po' prima che faccia effetto. Oppure ha un complice. O forse non è affatto l'assassino», ammisi. «Se lo fosse, però, sarebbe un mostro, Tony! E, secondo me, lo è. In ogni caso, prima che la faccenda esca sui giornali, ci conviene intervenire. Il Chronicle ne parlava già stamattina.» Il capo spinse il piatto da una parte e ordinò un altro caffè. «Yuki ha sporto denuncia?» «Sì, ma dall'autopsia risulta solo che la dose di farmaco era eccessiva, non che sua madre è stata assassinata. Immagino che con Ruffio succederà la stessa cosa.» «Dunque alla fine dei conti non abbiamo in mano niente.» «Di concreto, no. Ma l'istinto mi dice che la situazione è brutta. Anzi, bruttissima.» «Cosa vorresti fare?» Avendo trovato gli assassini delle ragazze, potevo chiedere qualsiasi co-
sa. O quasi. «Voglio piazzare agenti in tutto l'ospedale, anche qualcuno della Narcotici», risposi. «Bisogna tenere d'occhio Garcia ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e infiltrare qualcuno anche nella farmacia dell'ospedale.» Tracchio bevve il caffè, riflettendo se era il caso o meno di mobilitare tanta gente solo in base al mio istinto. «Per quanto tempo?» «Non lo so.» Tracchio chiese il conto e mi disse: «Ti do quattro persone per una settimana. Poi faremo il punto sulla situazione. Tienimi aggiornato, Lindsay: voglio sapere tutto. Non mi nascondere niente». Gli strinsi la mano. «Non potrei mai, neanche se volessi.» 100 Jacobi occupava il posto del passeggero su una macchina grigia e guardava la villetta bianca e gialla di Filbert Street pensando che il dottor Garcia era a casa da mezz'ora e probabilmente stava per mettersi a letto, quando vide aprirsi il portellone del garage. Ne uscì sgommando una Mercedes nera. Rich Conklin, seduto al volante, si riscosse dal torpore. Jacobi chiamò il codice trentatré e comunicò alla centrale la loro posizione. Conklin contò fino a cinque e partì su per Filbert Street, tenendosi a una ventina di metri dalla Mercedes. «Non correre rischi inutili», gli raccomandò Jacobi. «Abbiamo un sacco di rinforzi.» «Perché mai?» replicò Conklin. «Manco sappiamo se Garcia è su quella macchina.» «Vuoi tornare a controllare la casa?» «No, voglio clonarmi.» Jacobi sbuffò. «Pensi che il mondo sia pronto per due Conklin?» Poi sorrise, ripensando a quando era giovane come lui e si emozionava ogni volta che pedinavano un sospetto. Nonostante la stanchezza, gli succedeva ancora. Conklin svoltò a sinistra in Jones Street e inchiodò allo stop di Greenwich Street, per poi passare davanti alla Yick Wo Elementary School. Jacobi chiamò la centrale: «Mercedes coupé nera, Whisky Delta Foxtrot
Tre Nove Zero in Jones Street direzione nord». Attraversarono Lombard Street e Francisco Street senza rispettare gli stop, frenarono bruscamente in Columbus Avenue e richiamarono. La radio gracchiò che un'altra volante aveva avvistato la Mercedes in Columbus Avenue. «Pare si stia dirigendo verso Cannery South.» Conklin accese le luci, girò a destra a forte velocità e prese una traversa alternativa a Columbus Avenue per arrivare in Ghirardelli Square, la probabile meta di Garcia. Jacobi disse a Conklin di parcheggiare in Beach Street, all'angolo con Hyde Street. «Dovrebbe passare di lì a momenti.» Il traffico era lento, essendo ora di punta, e i marciapiedi erano affollati di persone che guardavano le bancarelle sul lungomare. «Eccolo», fece Conklin. Jacobi vide la Mercedes Roadster accostare al marciapiede e parcheggiare, poi l'uomo scendere dall'auto in cappotto di cachemire Armani e capelli scuri al vento. Con sgomento, si accorse che tornava indietro, verso la loro macchina. Maledizione! Garcia gli bussò al finestrino. Jacobi lo abbassò e rivolse al dottore uno sguardo annoiato. «Un attimo, ispettore. Torno subito», gli disse Garcia. Attraversò la strada e i binari del tram ed entrò in una palazzina beige con l'insegna al neon rossa che diceva Buena Vista. Jacobi lo vide oltre le vetrate che parlava con il barista. «Che cosa...?» esclamò Conklin incredulo. «Non solo ci ha beccati, ma ci piglia pure per i fondelli! Brutta storia...» Jacobi sentì che gli stava per venire l'emicrania. Non era nei piani che Garcia si accorgesse di loro. Che cosa potevano dirgli? «Sì, non è una bella cosa. Ma la partita è ancora tutta da giocare», rispose al collega. Osservò tetro Garcia che usciva dal caffè, aspettava che scattasse il verde e ritornava verso la loro macchina. Bussò nuovamente sul vetro e porse a Jacobi due tazze di caffè. «Nero e forte», disse. «Sarà una nottataccia.» «Grazie, molto gentile», replicò Jacobi. «A buon rendere.» Lo guardò risalire sulla Mercedes, azionare la freccia e immettersi nel traffico. Chiamò la centrale e chiese che mandassero un'altra volante a proseguire l'inseguimento. «Il sospetto sta percorrendo Hyde Street in direzione sud, rispettando i segnali.»
Rimise a posto il microfono. «Commetterà qualche sbaglio, prima o poi», disse a Conklin con più convinzione di quanta ne provasse veramente. «Gli stronzi arroganti come lui prima o poi sbagliano sempre.» Prese uno dei caffè, ci versò una bustina di zucchero e ne bevve un sorso, guardingo. 101 Erano le nove meno un quarto di sera e i corridoi dell'ospedale erano semivuoti. Garcia era smontato molte ore prima e mi aveva salutato con la mano come fossimo vecchi amici, facendo una smorfia mentre usciva in strada. Si divertiva? Controllando le sale fra il pronto soccorso e l'unità di terapia intensiva, avevo riflettuto. Forse l'assassino non era lui. Forse sembrava soltanto colpevole. Ma, se non era stato lui a uccidere, chi era stato? Curiosavo in quella parte dell'ospedale da tanti di quei giorni che ormai mi conoscevano tutti. Per cambiare un po', salii al terzo piano, al reparto di oncologia. Ero appena arrivata sul pianerottolo, quando vidi una cosa che mi fece accapponare la pelle. Un uomo sui trent'anni, un metro e ottanta, sessantacinque chili, capelli biondi e berretto da baseball, calzoni larghi e felpa grigia, parlava con un'infermiera bianca dall'aria affaticata nel corridoio. L'uomo aveva un che di strano nella postura, scambiava sguardi furtivi con l'infermiera, comunicava con lei in una maniera che mi fece pensare che c'era qualcosa di losco. Cappy McNeil era un professionista di provata esperienza, che aveva lavorato per anni con Jacobi e adesso era di stanza al piano di sotto. Lo chiamai con il Nextel e lo incontrai un minuto dopo sulla porta della stanza 386, nel momento esatto in cui il giovanotto con la felpa grigia entrava furtivo nella stanza. Tenni aperta la porta e gli gridai di fermarsi dov'era, mostrai il distintivo e lo afferrai per un braccio. Lo voltai e lo sbattei contro il muro con violenza. Cappy, alle mie spalle, bloccò l'uscita con la sua mole.
«Come si chiama?» chiesi all'uomo. «Alan Feirstein. Che cosa succede?» «Tenga le mani contro il muro, signor Feirstein. Ha qualcosa in tasca? Sostanze illecite? Siringhe? Armi?» «Uno spazzolino da denti», rispose. «Le chiavi della macchina. E un pacchetto di caramelle.» Gli tastai le tasche, che erano ben dieci. «Le tolgo il portafogli», dissi. «Tesoro?» Feirstein si voltò, guardando implorante la donna distesa sul letto. «Sei sveglia?» Dalle braccia della donna partiva un groviglio di tubi e fili. «È mio marito», disse una vocina flebile. «Alan è mio marito.» Controllai la patente di Feirstein, con un nodo allo stomaco. Quell'uomo non era armato e non aveva bottoni nelle tasche. Cazzo, aveva persino il tesserino dell'associazione per la donazione degli organi nella patente! «Che cosa fa qui?» chiesi debolmente. «La notte a mia moglie», rispose lui. «Carol ha un linfoma in fase terminale.» Deglutii. «Mi spiace, è stato un errore, mi scusi», gli dissi. Assentì senza fare storie, cosa di cui gli fui grata. Imbarazzatissima, rivolsi un saluto alla donna nel letto. E uscii con Cappy nel corridoio. «Mi sento una merda», gli confidai. «Ho avuto l'impressione che complottasse con l'infermiera perché aveva i modi furtivi. Come ho potuto?» «Succede, capo», fece Cappy con un'alzata di spalle. «Siamo al punto di partenza.» Tornò alla sua postazione e io alla sala d'attesa del pronto soccorso. Ero dispiaciuta e contrita, ma soprattutto mai come in quel momento avevo avuto la sensazione di brancolare nel buio. Carl Whiteley, il diplomatico direttore dell'ospedale, aveva ripetutamente dichiarato che il tasso di mortalità al Municipal Hospital era paragonabile a quello di altri ospedali simili e che i bottoni con il caduceo erano uno scherzo. Io avevo convinto Tracchio a intervenire basandomi sul mio istinto e poco più. Era un rischio grosso. Per tutti e due. I distributori automatici nell'angolo della sala d'attesa del pronto soccorso ronzavano, pronti a erogare involucri colorati di golosità in quel tetro
squallore. Infilai una moneta nella fessura, premetti il bottone e guardai il pacchetto di Smarties scendere nel cassetto. Sarei stata lì tutta la notte. Volevo credere che stavamo per smascherare un efferato assassino e salvare la vita alle sue prossime vittime. Ma c'era il rischio che mi stessi sbagliando di grosso. Se pensavo a quel poveretto e a sua moglie... Che disastro! PARTE SESTA IL VERDETTO 102 Proprio quel giorno doveva arrivare in ritardo? Cindy si aggiustò la grossa borsa, spostò la valigetta con il portatile sulla spalla sinistra e si diresse di buon passo verso il tribunale della Civic Center Plaza pensando che non si era persa un giorno del processo, iniziato quattro settimane prima. Ormai testimonianze, interrogatori e controinterrogatori erano conclusi. Quel giorno, gli avvocati di accusa e difesa avrebbero pronunciato le loro arringhe. E lei era in ritardo. Maledizione! Se un altro giornalista avesse preso il suo posto... Non ci voleva nemmeno pensare! Attraversò McAllister Street con il rosso, dirigendosi verso il palazzo di pietra chiara che dava sull'incrocio con Polk Street. Si rallegrò nel vedere che i portoni erano ancora chiusi. Ai margini della folla assiepata sulla scala, vide Yuki che stringeva la ventiquattrore con tutte e due le mani e guardava nel vuoto, apparentemente spersa. Era preoccupata per lei. Era dimagrita, sembrava sempre più fragile e da quando era morta sua madre non era più andata a lavorare. Il processo la stava consumando. E si vedeva. Salì le scale e chiamò l'amica. Yuki la vide e disse: «Che cosa è successo? Ero preoccupata per te!» «Un guasto lungo la linea della metropolitana», spiegò Cindy. «Siamo rimasti bloccati per mezz'ora tra una fermata e l'altra. Ho creduto di im-
pazzire.» Le guardie aprirono i pesanti portoni di metallo e Cindy e Yuki entrarono insieme alla marea di gente ansiosa di assistere all'udienza. Salirono strette come sardine sull'ascensore che le portò al quarto piano, dove lungo il tragitto fino all'aula 4A si separarono. Cindy corse a prendere posto nell'ultima fila, riservata alla stampa, si diede un'occhiata in giro e accese il portatile. E cominciò a scrivere. Maureen O'Mara indossava un tailleur Oscar de la Renta rosso pomodoro, un colore aggressivo, un look che non passa inosservato, scrisse. 103 Il giudice Carter Bevins scosse l'orologio da polso e si voltò verso Maureen O'Mara, chiedendole se era pronta a procedere. «Sì, vostro onore», rispose lei, alzandosi per prendere posizione vicino al leggio. Vi posò gli appunti, di cui in realtà non aveva alcun bisogno, avendo provato l'arringa con i colleghi la sera prima, memorizzandone i punti chiave e decidendo quali toni usare. Aveva messo tutta se stessa in quel caso, da cui dipendeva il suo futuro. Fino a quel punto le cose erano andate molto bene, e lo sapeva. Doveva concludere in bellezza. Prese fiato, sorrise alla giuria e cominciò. «Signore e signori, tre anni fa il San Francisco Municipal Hospital è stato privatizzato, rilevato da una corporation. Da quel momento il numero di decessi dovuti a errori nella somministrazione di farmaci è triplicato. Perché? Suppongo che una delle cause sia il personale, sovraccarico di lavoro o poco competente. Negli ultimi tre anni quasi il settantacinque per cento dell'organico del Municipal Hospital è stato sostituito con personale meno esperto, disposto ad accettare orari di lavoro più lunghi a fronte di stipendi più bassi. In questo modo gli utili dell'azienda ospedaliera aumentano. Sì, ma a che prezzo? Lo avete sentito dalle testimonianze sulla morte dolorosa e insensata di venti pazienti dell'ospedale. È una tragedia, uno scandalo. Di quelle morti sono responsabili gli amministratori del Municipal Hospital, che mettono il paziente all'ultimo posto e il profitto al primo.» Maureen O'Mara smise di andare avanti e indietro lungo il banco della giuria e posò le mani sulla balaustra, guardando negli occhi i giurati.
«Abbiamo sentito il dottor Garcia, la settimana scorsa», continuò. «Il dottor Garcia lavora al pronto soccorso del Municipal Hospital da tre anni e non nega che in questo lasso di tempo la percentuale di decessi di pazienti ricoverati attraverso il pronto soccorso è salita vertiginosamente. Ci ha anche spiegato perché. Certi giorni soffia un vento cattivo. Signore e signori, il vento cattivo non deve esistere, in un ospedale. E neppure l'incuria, il mancato rispetto dei requisiti di sicurezza minimi, quella che con termine tecnico si definisce negligenza professionale. Quando ho chiesto al dottor Garcia se avesse nulla a che fare con la morte di quei pazienti, si è appellato al Quinto Emendamento. Capite? Si è rifiutato di rispondere per tema di autoincriminarsi. Così facendo non ci ha dato comunque una risposta? Secondo me sì, e anche molto chiara.» Nell'aula non si sentiva volare una mosca. Maureen O'Mara andò avanti, guardando a turno tutti i giurati. «Questo non è un processo penale. Il dottor Garcia non è inquisito per un reato specifico, nonostante il suo bizzarro rifiuto di rispondere. Noi vi chiediamo di dichiarare il Municipal Hospital responsabile di questo vento cattivo. Vogliamo che il Municipal Hospital sia punito per aver messo il profitto davanti al benessere dei pazienti. E chiediamo cinquanta milioni di dollari di risarcimento per le vittime di questo scandalo: si tratta di una somma che, pur non arrivando neanche lontanamente a ripagare venti preziosissime vite umane, è in grado di mettere in difficoltà l'ospedale. Signore e signori, il Municipal Hospital deve smetterla di giocare alla roulette russa con la vita dei suoi pazienti. Voi potete fermarlo. Chiedetevi se portereste al Municipal Hospital un vostro caro bisognoso di cure mediche. Vi fareste ricoverare in quell'ospedale, voi? Lo prendereste anche solo in considerazione, dopo ciò che avete sentito? Rifletteteci, quando sarete in camera di consiglio. E pronunciatevi a favore dei miei clienti e di tutti coloro che hanno perso qualcuno al Municipal Hospital. Concedete loro il massimo del risarcimento. Io vi ringrazio da parte loro.» 104 Yuki, in fila per andare alla toilette, con le braccia conserte e gli occhi bassi rifletteva su quanto era stato efficace il discorso di Maureen O'Mara e si chiedeva per l'ennesima volta perché non aveva strappato sua madre alle grinfie di quel bastardo di Garcia. La coda procedeva lentissima e, quando Yuki entrò finalmente in bagno,
l'udienza stava per riprendere. Aprì l'acqua fredda e si sciacquò la faccia, poi cercò a tastoni le salviette di carta. Si asciugò, aprì gli occhi e vide Maureen O'Mara che si ritoccava il trucco davanti allo specchio. Rimase piacevolmente sorpresa di vederla lì. Le fece i complimenti per l'arringa e si presentò: «Lavoro per lo studio Duffy & Rogers, ma sono qui perché mia madre è mancata poco tempo fa al Municipal Hospital». «Mi dispiace», disse l'avvocatessa con un cenno del capo. Poi ritornò a guardarsi nello specchio. Yuki ci rimase male, ma poi pensò che probabilmente Maureen O'Mara era troppo concentrata, in attesa dell'arringa di Kramer. Forse temeva che la giuria non fosse abbastanza convinta. Appallottolò la salvietta di carta e lanciò un'altra occhiata a Maureen O'Mara e alla sua immagine riflessa. Il tailleur era davvero molto bello, i denti erano bianchissimi e i capelli sembravano usciti da una pubblicità di shampoo. Questa donna si prende cura di sé, pensò Yuki con inspiegabile fastidio. Si rese conto che lei non si tagliava i capelli da un secolo e alternava due tailleur blu, sempre gli stessi. Si vestiva automaticamente: era più facile. Da quando era morta sua madre, aveva smesso di badare al suo aspetto. Maureen O'Mara si ripassò il rossetto sulle labbra, si tolse un capello dal colletto e uscì, senza degnare di uno sguardo Yuki. Una donna alquanto robusta chiese permesso e prese il sapone. «Mi scusi.» Yuki si allontanò dal lavandino e pensò che non le importava se Maureen O'Mara era un'arrogante che si dava un sacco di arie. Voleva comunque che vincesse la causa. E che vincesse alla grande. 105 Lawrence Kramer riordinò i propri appunti mentre il giudice saliva in cattedra e l'usciere invitava tutti al silenzio. Si sentiva bene, pronto a pronunciare il suo discorso. Quella mattina aveva fatto otto chilometri di jogging e aveva usato il tempo della corsa per ripassare i punti salienti.
Era preparatissimo. Se non fosse stato per quel cretino di Garcia, non avrebbe avuto dubbi sull'esito del processo. Al medico quell'exploit sarebbe costato il posto in ospedale, ne era certo, ma quella sarebbe stata una ben magra consolazione per lui, nel caso avesse perso. Si alzò in piedi nel sentirsi chiamare dal giudice. Si abbottonò la giacca blu e salutò con calore i giurati, come se li conoscesse da anni. «Vi è una bella differenza fra errore umano e negligenza professionale», esordì. «Pensate ai ritmi di lavoro in un pronto soccorso. Gente che arriva ferita, sofferente, reduce da cadute, incidenti, traumi, a volte talmente sotto shock da non riuscire neppure a parlare. Pensate alla velocità con cui un medico deve prendere decisioni che possono voler dire vita o morte per pazienti che non conosce, di cui non sa nulla, senza il tempo per compiere opportuni accertamenti diagnostici. Quando occorre agire in fretta per salvare una vita umana, spesso un medico si trova costretto a prendere decisioni azzardate. Vi faccio un esempio. Supponiamo che arrivi una donna di sessantacinque anni, come le nostre madri, con un attacco ischemico transitorio. Ha avuto un piccolo ictus, il battito è irregolare e, se non riceve adeguate terapie, rischia di morire. Un medico può decidere di prescriverle un anticoagulante, un altro di impiantarle un pacemaker. Sono entrambe decisioni valide e al tempo stesso rischiose, perché la paziente può morire sotto i ferri oppure a seguito della terapia anticoagulante...» «Kramer, ehi! Dico a lei, bastardo! Lei sta giocando sulla morte di mio figlio!» Poche file dietro il tavolo della difesa un uomo si era alzato in piedi e si era messo a urlare. Era Stephen Friedlander, il padre del ragazzo morto per aver ricevuto la dose di insulina destinata al suo compagno di stanza ormai dimesso. Aveva la faccia grigia, ma le gote rubizze, e puntava un dito accusatore contro Kramer. «Bastardi!» urlò. Si buttò verso il tavolo della difesa e puntò il dito contro i colleghi di Kramer, due uomini e una donna, che lo guardavano scioccati. «Siete tutti dei bastardi!» Il giudice ordinò all'usciere di fermarlo prima ancora che Kramer gli chiedesse di intervenire. «Vostro onore, l'accusa utilizza tattiche scorrette! Questa sceneggiata è stata orchestrata con cura!»
Maureen O'Mara ribatté: «Sarebbe colpa mia, secondo lei? Ma la smetta!» «La seduta è sospesa», ordinò Bevins. Kramer udì un altro grido, si voltò e vide Friedlander che sbiancava e faceva una smorfia di dolore. Respirava a fatica e agitava le braccia, in preda a un improvviso malore. Si aggrappò alla donna al suo fianco e le cadde in grembo, prima di accasciarsi per terra. «Chiamate un'ambulanza!» urlò Bevins a una guardia. «L'udienza riprenderà alle due del pomeriggio. Usciere, riaccompagni i giurati in camera di consiglio.» Nell'aula intanto era scoppiato il finimondo. Kramer vide un uomo con gli occhiali, un reporter del Chicago Tribune, lanciarsi verso l'uscita di emergenza azionando l'allarme. Mentre la sirena ululava, arrivarono di corsa i paramedici. 106 Cindy era nervosa e distratta, quando l'udienza riprese alle due del pomeriggio. Continuava a ripensare a Friedlander che si alzava strepitando e poi si accasciava al suolo, al suo nuovo amico Whit Ewing del Chicago Tribune che spalancava l'uscita di emergenza facendo scattare l'allarme. Il giudice batté il martelletto e il brusio nell'aula si acquietò. «Ho interrogato i giurati uno per uno per accertarmi che il loro giudizio non fosse stato influenzato dalla vicenda di stamane.» Guardò verso il tavolo della difesa e continuò: «Avvocato Kramer, è pronto a riprendere la sua arringa?» «Sì, vostro onore.» Kramer si avviò verso il leggio con un sorriso tirato. Cindy si protese in avanti e posò una mano sulla spalla di Yuki. «Ci siamo», le bisbigliò. «Signore e signori, ho qui una nota in cui mi si dice che il signor Friedlander è stato prontamente curato e si riprenderà dall'attacco cardiaco che l'ha colpito. Proviamo tutti molta pena per lui, che ha perso un figlio e soffre in maniera indicibile. Ciononostante, compito dei giurati è esprimere un verdetto sulla base dei fatti, non delle emozioni. Come ho già detto, vi è differenza fra errore umano e negligenza professionale. Se un'infermiera sbaglia farmaco o un medico dimentica di fare un'annotazione sulla cartella di un paziente perché distratto da un'emergenza, commette un errore. Affinché si possa parlare di negligenza professionale, occorre che questa
sia una prassi generalizzata. Ve ne fornisco alcuni esempi che, badate bene, sono accaduti veramente. Pazienti lasciati in sala operatoria da medici andati in banca a fare un versamento, garze dimenticate nella pancia degli operati, medici che esercitano in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, o che rifiutano le cure sulla base di pregiudizi o antipatie personali, o che prescrivono deliberatamente terapie inutili. Questa è negligenza professionale.» Kramer si allontanò dal leggio per andare verso il banco della giuria. «Ciò che è accaduto alle persone oggetto di questo processo è tragico. Non c'è bisogno di sottolinearlo, perché già lo sapete. Ma, in ciascuno dei casi esaminati, medici, infermieri e pazienti hanno commesso una serie di errori che purtroppo accadono comunemente negli ospedali di tutto il Paese. Errori umani, commessi in assoluta buonafede. Sarebbe bello che i medici fossero infallibili, ma è irragionevole aspettarsi una cosa simile da essere umani. E medici e infermieri sono esseri umani, che si impegnano quotidianamente per il bene degli altri. L'anno scorso centocinquantamila pazienti sono stati presi in carico al Municipal Hospital, per malattie e infortuni. Hanno ricevuto terapie adeguate, come in qualsiasi altro ospedale della città. Vi invito a lasciare da parte la retorica della controparte e a concentrarvi sulla differenza fra errore e negligenza professionale, e a prosciogliere il Municipal Hospital da ogni accusa. La città di San Francisco ha bisogno di questo ospedale.» 107 Yuki e Cindy erano appoggiate contro il freddo muro di marmo nel corridoio mentre la gente usciva a poco a poco dall'aula. Cindy, emozionata, chiese: «Allora? Che cosa ne pensi?» In quel momento passò loro davanti un gruppo di avvocati e di medici dell'ospedale, che parlavano del processo. Un signore anziano in completo grigio di tweed stava dicendo: «Kramer è stato bravissimo. Speriamo di farcela». Dietro c'erano Maureen O'Mara, impassibile, e il suo codazzo di ammiratori. L'avvocatessa si diresse verso l'ascensore che quasi magicamente si aprì al suo arrivo. «Yuki?» disse Cindy. «Qual è il tuo parere professionale? Cosa deciderà la giuria, secondo te?» Yuki sentì l'ansia nella sua voce, vide il suo sguardo fisso sugli avvocati
e capì che anche lei voleva andare a intervistarli sugli scalini del palazzo di giustizia. «Sono stati molto bravi tutti e due», rispose. «Nei processi civili, come tu ben sai, il 'ragionevole dubbio' non esiste e la giuria decide sulla base della 'preponderanza delle prove'. Quindi l'esito del processo dipende da cosa ciascun giurato riterrà pre...» «Ma secondo te quale sarà il verdetto?» «Non lo so proprio, Cindy. La giuria potrebbe addirittura non raggiungere l'unanimità.» Cindy la ringraziò, le disse che l'avrebbe raggiunta dopo e partì di corsa verso le scale. Yuki aspettò l'ascensore, vi entrò e osservò i numeri accendersi in successione, dal quattro all'uno. Giunta nell'atrio, oltrepassò il bancone e uscì nell'aria fresca di ottobre. C'erano due folti gruppi di reporter armati di microfoni e telecamere fuori del palazzo, uno intorno a Larry Kramer e l'altro a Maureen O'Mara. Indipendentemente dall'esito del processo, sia l'uno sia l'altra si erano fatti un'enorme pubblicità. Yuki passò oltre, pensando al suo ultimo processo e a quanto era stata brava. Allora era intorno a lei che si assiepavano i giornalisti. Le aveva fatto piacere, all'epoca. Quante cose erano cambiate in quelle ultime settimane! Quella mattina aveva posteggiato a tre isolati da lì. Il ticket era scaduto: prese la multa dal parabrezza e la infilò nella borsa. Poi salì in macchina, mise in moto e restò per un po' lì a osservare le auto e i pedoni che le passavano accanto, tutti presi dalle loro attività quotidiane. Quel mondo non la riguardava più. Non aveva più un posto dove andare. Fu investita da un'ondata di tristezza talmente improvvisa che non seppe darle un nome. Posò le braccia sul volante, abbassò la testa e scoppiò in singhiozzi. 108 Claire e io eravamo da Susie's e il profumo di maiale alla griglia e banane fritte mi fece venire l'acquolina in bocca. Mentre aspettavamo le altre, Claire mi raccontò un caso che le era appena capitato e che l'aveva turbata moltissimo. Ci aveva lavorato su tutta la notte. «Una ragazza di diciannove anni, apparentemente suicida, impiccata a
una prolunga avvolta intorno alla porta del bagno...» «Una prolunga avvolta intorno a una porta?» «Esatto. Per la precisione, legata alla maniglia, passata sotto, poi sopra e quindi intorno al collo della vittima.» «Macchinoso. E come ha fatto?» «È questo il mistero», replicò Claire versando un bicchiere di birra per me e uno per sé. «Il suo ragazzo, un mezzo delinquente di ventotto anni con precedenti di violenza, è l'unico testimone. Naturalmente. Chiama il 911, dice che la sua donna ha tentato il suicidio. La tira giù, cerca di rianimarla. Ah, dimenticavo: la ragazza è incinta.» «Oh, no!» «Oh, sì. I primi ad arrivare sono i vigili del fuoco che, per salvare il bambino, tentano di rianimarla. Poi arriva l'ambulanza e, di nuovo, il medico cerca di rianimarla. Ci riesce, la portano al pronto soccorso e le fanno un cesareo d'urgenza. Insomma, per fartela breve, mi arriva piena di lividi e di lesioni sul mento, sulla schiena, dappertutto E io come faccio a sapere chi glieli ha procurati, dopo tutto quello che le è successo? Potrebbe averla ammazzata di botte il fidanzato, inscenando poi il suicidio per farla franca, ma potrebbe anche essersi davvero impiccata da sola ed essere ridotta in quelle condizioni per via dei tentativi di rianimazione...» «E il bambino?» «Troppo piccolo. Era un feto di ventisei settimane. È sopravvissuto solo pochi minuti.» Loretta ci portò i menu e una ciotola di patatine. Disse a Claire che il blu le stava d'incanto e a me che avevo l'aria di una che ha bisogno di una vacanza. La ringraziai, le dissi che avremmo aspettato Cindy e Yuki prima di ordinare e le chiesi se ci portava un po' di pane. Poi mi rivolsi di nuovo a Claire. La mia amica sospirò e riprese: «Duplice omicidio o suicidio? È troppo presto per dirlo. Devo ricostruire i fatti, parlare con i vari testimoni e accertarmi dello stato in cui era quando l'hanno trovata...» Si interruppe, vedendo entrare Cindy. Aveva un maglione grigio che faceva risaltare le guance rosee e il biondo dei capelli. Le lessi in faccia che era preoccupata. Probabilmente non sapeva come comportarsi con me, dopo la discussione che avevamo avuto per telefono. Mi alzai e le andai incontro per abbracciarla.
«Scusa», dissi. «Avevi ragione tu. Avevi tutti i diritti di scrivere un articolo su Garcia. È il tuo lavoro. Ho avuto una reazione esagerata.» 109 Poco dopo, seduta al nostro tavolo, Cindy ci raccontò elettrizzata, tesa, forse anche un po' spaventata, gli ultimi sviluppi del processo contro il Municipal Hospital. Yuki arrivò trafelata, in ritardo, con l'aria ancor più sconvolta di me. Si sedette vicino a Cindy, che le strinse una mano con fare protettivo. «Sei arrivata al momento giusto», le disse. «Per cosa?» «Per la notizia bomba che sto per annunciare.» Se Cindy era piena di energia, Yuki pareva completamente svuotata. Aveva i capelli spenti, gli occhi cerchiati e la camicetta di seta color avorio senza un bottone. Mentre Cindy posava un registratore sul tavolo, io chiesi a Yuki, sottovoce: «Come stai?» «Mai stata meglio», mi rispose con un sorrisetto tirato. «Sarebbe quella la bomba?» chiese Claire a Cindy. Cindy sorrise. «Non posso fare nomi», disse, trafficando con il registratore. «Vi dico solo che è un'infermiera del Municipal Hospital. Ascoltate.» Fui colta da un bruttissimo presentimento. Speravo di sbagliarmi. Dal registratore si alzò una voce di donna, disturbatissima. Noddie Wilkins ci aveva riprovato, questa volta con il Chronicle. «Li ho visti con i miei occhi», diceva. «In piena notte. Pazienti morti nelle loro camere, con questi bottoni sulle palpebre chiuse.» «Mi faccia capire», diceva la voce metallica di Cindy, in tono incredulo. «Sulle palpebre dei morti vengono messi dei bottoni?» «Non a tutti. Solo a qualcuno. Io ne ho visti tre. Ma anche altre persone li hanno visti.» «Avrei mille domande da farle, ma cominciamo dalle più importanti. Che tipo di bottoni?» «Di metallo, delle specie di monetine, con il caduceo sopra. Non si sa chi ce li metta.» «Quanti pazienti sono stati trovati con questi bottoni sugli occhi?» «Non lo so. Un po'.»
«Lei ha riconosciuto un modello? Circostanze particolari? Caratteristiche comuni fra i pazienti, che so, razza, età, tipo di malattia?» «Io ne ho visti tre, e non mi sembra che avessero niente in comune. Senta, adesso devo andare...» «Aspetti. Un'ultima domanda: ha parlato a qualcuno di tutto questo?» «Sì, ne ho parlato con il mio capo, ma secondo lui è solo uno scherzo macabro. Mi dica lei. Non è spaventoso?» La voce di Noddie cambiò timbro, come se avesse posato una mano sul ricevitore. La si sentiva parlare con un'altra persona. Poi tornò alla telefonata e la voce si fece nuovamente più chiara. «Devo andare. Sono di turno, c'è da fare. C'è carenza di personale, si sa.» «Mi richiami, dovesse mai...» Cindy spense il registratore e guardò le nostre facce scioccate. Poi fissò me in particolare. «Dimmi una cosa, Lindsay: l'ospedale sta coprendo una serie di omicidi?» Serrai le labbra e mi scostai leggermente dal tavolo. Avevo mille pensieri per la testa. Mi ero appena scusata con Cindy per averle chiesto di non pubblicare un articolo che aveva tutti i diritti di scrivere. Come potevo chiederle di nuovo la stessa cosa? «Lindsay, tu lo sapevi...» Yuki mi aveva letto nel pensiero. «Sapevi già di questi bottoni, vero?» «Non posso parlarne.» Cindy, strabiliata, esclamò: «Lindsay! Sapevi già dei bottoni? Dimmelo, ti prego. E dimmi che cosa significa!» «Te lo dico io», intervenne Yuki con foga. «Quei pazienti sono marcati. Forse dalla stessa persona che li uccide. Che deve essere molto arrogante e malata. Ti viene in mente nessuno, Lindsay?» Sospirai e mi guardai intorno alla ricerca di Loretta per ordinare un altro giro di birra. Yuki mi afferrò per un braccio. «Ti prego, non lasciare che quel porco di Garcia la faccia franca un'altra volta!» La guardai negli occhi, che erano scuri, tristi. L'anno precedente Yuki mi aveva salvata, nel momento del bisogno. E poi le volevo molto bene. «Stiamo indagando», le risposi. «Se Garcia è colpevole di qualcosa, qualsiasi cosa, ti prometto che lo beccheremo.»
110 Il post-it rosa che Brenda mi aveva appiccicato sul telefono diceva: «Il capo vuole vederti ASAP», seguito da tre punti esclamativi. Che cos'altro era successo? Feci le scale e mi inoltrai nel labirinto che portava all'ufficio di Tracchio, con pareti rivestite di legno e vista sulle agenzie di pegni di Bryant Street. Appena mi vide entrare, buttò giù il telefono e mi sventolò un foglio sotto il naso. «Vedi questo, Boxer? Il dottor Dennis Garcia sostiene che tu lo hai indebitamente molestato e minaccia di farci causa e chiederci un sacco di soldi di risarcimento. Cosa mi dici?» «Che, se ci fa causa, perde.» «Fammi il piacere, Boxer, non menare il can per l'aia. Perché Garcia è così furioso?» Si parla di indebita molestia quando a una persona vengono arrecati danni psicologici senza motivo legittimo. Io avevo un motivo più che legittimo per molestare Garcia. E poi avevo dormito solo quattro ore e mangiato una ciotola di cereali e nient'altro in tutto il giorno. Insomma, ero sfinita. E quando sono sfinita, il mio autocontrollo va a farsi benedire. «Garcia attacca perché si sente messo alle strette», gridai. «Che faccia tosta! Quello è un pazzo, te lo dico io! Devi sostenermi, lasciare che io segua il mio istinto.» «Quanti milioni di dollari hai in banca, Boxer? Vuoi finire un'altra volta in tribunale?» Mi zittii e guardai Tracchio negli occhi, cercando di trattenermi. «Cos'abbiamo contro di lui?» mi domandò Tracchio. «Fammi capire.» «Niente.» «Adesso lo chiamo e gli parlo io. Che cosa pensi che mi dirà?» «Che Jacobi e io gli abbiamo fatto la posta davanti a casa la notte scorsa. E stamattina l'abbiamo seguito fino al lavoro.» Tracchio scosse la testa. Andai verso la porta, ma un attimo prima di uscire mi voltai e gli dissi: «A proposito, il Chronicle ha scoperto la storia dei bottoni».
«Oh, Cristo!» «Per ora non è ancora uscito niente, ma prepariamoci, perché la bomba sta per esplodere.» Tracchio prese in mano il telefono. «Chiami Garcia?» «No, il sindaco di LaJolla. Per sentire se quell'offerta di lavoro che mi aveva fatto è ancora valida», sbuffò Tracchio. «Vattene, va'!» Sissignore. Mentre mi allontanavo, lo sentii chiedere alla segretaria di chiamargli Garcia. 111 Yuki era sotto le coperte, quando il telefono le squillò nell'orecchio. Era Cindy, che urlava: «La giuria è uscita dalla camera di consiglio! Dormivi, Yuki? Sono le undici e un quarto!» «Sono sveglia.» «Be', allora sbrigati e vieni qui.» Venti minuti dopo Yuki entrò nell'aula 4A e si fece largo nella ressa per raggiungere l'unico posto libero. Vi si sedette e si fece più piccola che poteva. Il giudice Bevins disse: «Desidero avvertirvi che esigo il massimo silenzio durante la lettura del verdetto. Eventuali disturbatori saranno arrestati. Perciò, se temete di non riuscire a trattenere le emozioni, siete pregati di uscire adesso. Bene. Allora, se il portavoce della giuria vuole consegnare il verdetto al mio assistente...» L'assistente del giudice era un uomo corpulento fra i cinquanta e i sessant'anni, con la faccia di chi ha preso molto sole nella vita e grossi occhiali dalla montatura nera. Indossava camicia bianca impeccabilmente stirata, calzoni beige, giacca da golf e scarpe di camoscio. Yuki ne dedusse che doveva essere un conservatore, un tipo che aborriva il disordine e gli «errori», e lo considerò un buon auspicio per il verdetto. Il giudice Bevins impiegò un tempo che parve interminabile per leggere i fogli che gli erano stati consegnati, quindi si voltò verso il portavoce e chiese: «Il verdetto espresso dalla giuria è unanime?» «Sì, vostro onore.» «Avete giudicato negligente la condotta del San Francisco Municipal Hospital nei confronti di Jessica Falk?»
«Sì, vostro onore.» «Avete riconosciuto un danno alla querelante?» «Sì.» «Lo avete quantificato?» «Sì, vostro onore. Duecentocinquantamila dollari a titolo di risarcimento.» «Avete stabilito anche una somma che l'ospedale dovrà versare a titolo punitivo?» «Sì, vostro onore.» «Qual è l'ammontare?» «Cinque milioni di dollari.» Nell'aula si alzò un brusio sbigottito. Il giudice batté il martelletto e guardò truce il pubblico finché non tornò il silenzio. Quindi ripeté il ritornello per tutti gli altri diciannove querelanti, rivolgendo al portavoce della giuria le stesse domande e ricevendo le stesse risposte. A ciascuno dei ricorrenti fu riconosciuto un risarcimento di duecentocinquantamila dollari, più altri cinque milioni a titolo punitivo. Yuki provò un senso di vertigine. Il Municipal Hospital era stato dichiarato colpevole. In ognuno dei casi oggetto del processo. Nonostante l'avvertimento del giudice, dal pubblico si alzarono grida ed esclamazioni di gioia. Bevins cercò di ristabilire l'ordine battendo ripetutamente il martelletto, ma i querelanti si strinsero attorno a Maureen O'Mara per abbracciarla e baciarla, fra lacrime e singhiozzi. Anche Yuki era in preda a una grande emozione. Mentre il giudice ringraziava la giuria e la congedava, si sentì chiamare da Cindy, che dalla porta le sorrideva e le faceva segno di raggiungerla. «Dovrei essere neutrale, ma questo è un verdetto straordinario», disse mentre uscivano insieme nel corridoio. «Maureen O'Mara è al settimo cielo. Quanto le tocca? Diciotto milioni di dollari? Oh, Yuki!» Yuki cercò di darsi un contegno fingendo un accesso di tosse, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. Ansimava e per un attimo temette di crollare lì, in mezzo alla folla. «Non è da me», disse piangendo. «Non sono più io.» 112
Jamie Sweet piangeva disperato. Quei singhiozzi facevano stringere il cuore ai genitori, Melissa e Martin Sweet, che guardavano preoccupati il figlioletto di cinque anni nel lettino. L'orario di visita era quasi al termine: entro pochi minuti avrebbero dovuto lasciarlo solo. «Non voglio rimanere qui! Vi prego, vi prego!» strepitava il bambino. Aveva il mento graffiato, un incisivo rotto e un taglio nel labbro inferiore. Oltre al braccio fratturato. «Perché non posso tornare a casa? Per favore, portatemi a casa.» «Dai, Jamie», disse Melissa stringendoselo al petto. «I dottori vogliono che resti qui stanotte per poterti dare la medicina se hai troppo male. Ti veniamo a prendere domani mattina presto presto. Te lo prometto, Jamie. Guarda che cosa ti abbiamo portato, su!» gli disse il papà. Melissa si asciugò gli occhi con il dorso della mano e porse al piccolo una borsa di plastica coloratissima, che conteneva qualcosa di voluminoso. «Non vuoi vedere cos'è?» I singhiozzi si placarono lievemente, quando Jamie vide la mamma scartare una scimmia di peluche con un paio di calzoncini a pois e una canottiera a righe. «Si chiama Clacson», disse Melissa. «Clacson?» «Prova a schiacciargli la pancia.» Il bambino, vinto dalla curiosità, allungò il braccino sinistro, minuscolo in confronto al destro, che era chiuso in un voluminoso gesso. Jamie prese la scimmietta e le schiacciò la pancia. «Poti-poti», fece una vocina metallica. «Abbracciami!» Il bambino sorrise. L'antidolorifico stava cominciando a fare effetto: aveva gli occhi a mezz'asta. Sulla soglia comparve un'infermiera. «Scusate, ma l'orario di visita è terminato», disse, con un lieve accento delle Indie occidentali. «Nooo!» protestò Jamie. «Non ve ne andate!» «Fai il bravo, Jamie. Vedrai che andrà tutto bene. Dormi, adesso. Sei un bambino coraggioso», gli disse il papà, ma si sentiva male all'idea di doverlo lasciare solo. Rimpiangeva di aver tanto insistito per togliere le rotelle dalla bicicletta. Jamie non era ancora pronto, ma lui voleva che provasse il brivido di pedalare come «un bambino grande». Gli sembrava di rivederlo, mentre si gi-
rava per vedere se lui era lì a guardarlo e andava a sbattere contro la cassetta della posta, cadeva dalla bici e si rompeva il braccio. Com'era stato egoista! E stupido! «È solo per stanotte, tesoro», gli ripeté Melissa, baciandolo sulla guancia bagnata di lacrime. «Sono la tua scimmietta!» disse Clacson. Jamie scoppiò a ridere e abbracciò il peluche nuovo. Suo padre gli diede un bacio. «Sei proprio un bambino coraggioso», esclamò. «Poti-poti!» fece la scimmietta. Ma Jamie non sorrideva già più, quando i genitori si fermarono sulla porta a salutarlo per l'ultima volta con la mano prima di uscire. 113 Un'ombra guizzò lungo il corridoio, nel cuore della notte. La preoccupazione per la presenza della polizia era minore del bisogno di agire comunque. Era un bisogno irresistibile, più forte della paura di essere colti in flagrante. La porta della stanza 268 era chiusa e il bambino, solo, dormiva sotto l'effetto delle medicine. L'ombra aprì la porta e osservò il piccolo nel letto, illuminato dalla luce proveniente dalla strada, la pelle abbronzata che sembrava ancora più scura per contrasto con il lenzuolo bianco. Il lettino pareva galleggiare nell'oscurità. L'ombra raccolse un peluche a forma di scimmia che era caduto per terra, lo sistemò nel letto e si protese oltre le sbarre per aspirare il profumo dolce del bambino. Jamie Sweet. Un nome adattissimo per una creatura così dolce, un frugoletto di cinque anni dalle lunghe ciglia e dalla boccuccia rosea, con il braccio ingessato, che pareva proprio un angelo con un'ala spezzata. Povero Jamie! Non ci sarebbero più state partite di baseball, per lui, né cadute dalla bicicletta. Il suo destino era segnato, ormai. Jamie Sweet stava per morire. Era il suo triste fato.
L'ombra riempì la siringa, si infilò la boccetta vuota nella tasca e iniettò una dose mortale di morfina nel tubicino della flebo che Jamie aveva al braccio sinistro. Era stata prescritta al paziente della stanza 286, un vigile del fuoco di cento e passa chili con ustioni di primo grado e una mano fratturata, il quale stava per passare una brutta nottata. Passarono i minuti. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio del traffico nella strada sottostante e dal respiro di Jamie. L'ombra aprì gli occhi del bambino e notò che le pupille erano già minuscole come capocchie di spillo. Il respiro di Jamie era diventato affannoso, irregolare, le guance arrossate, la fronte sudata. A un certo punto cominciò ad agitarsi, a inarcare la schiena, a muovere la bocca come per lanciare un urlo silenzioso. Poi gli crollò la testa ed esalò un respiro che sembrò sgorgargli dalla gola. L'ultimo. L'ombra gli tastò la carotide, controllò il polso e quindi tirò fuori da una tasca due bottoni metallici, che posò sulle palpebre del bambino sussurrando: «Buonanotte, principino. Sogni d'oro». 114 Brenda mi chiamò sul cercapersone. «Tenente, ha una chiamata sulla linea tre. Non mi ha voluto dire il nome, ma dice che vi conoscete e che è una cosa urgente.» Premetti il pulsante e mi presentai. Riconobbi la voce di Noddie, nonostante la linea disturbata e i singhiozzi. «Un bambino!» diceva piangendo. «Aveva solo un braccio rotto... ed è morto! Non doveva morire, davvero. L'ho sentito dire in mensa. Aveva i bottoni con il caduceo sugli occhi.» Chiamai Tracchio e gli spiegai cosa avevo intenzione di fare e di che cosa avevo bisogno. Quindi mi sorbii una marea di avvertimenti e raccomandazioni: ero proprio sicura? Mi rendevo conto delle conseguenze, se avessi sbagliato? Risposi che sì, me ne rendevo conto. E non per mettere semplicemente a tacere il mio capo. Sapevo benissimo che colpire alla cieca sarebbe servito a scatenare il panico e basta: non c'erano né prove, né sospetti, né niente di niente. La gente ci avrebbe tempestati di telefonate piene di indignazione, sarei stata messa in croce per la mia incoscienza, perché non si agisce solo sulla base
dell'istinto, e con me sarebbe stato messo in croce tutto il dipartimento, incapace di proteggere i cittadini come meritavano. Ma non c'era tempo per mettere a punto un piano alternativo. Era morta un'altra persona. Un bambino di cinque anni. Tracchio alla fine mi diede l'okay e io radunai la squadra. Arrivarono tutti come uno stormo di uccelli: Jacobi e Conklin, Chi e Rodriguez, Lemke, Samuels, McNeil e altri colleghi con cui lavoravo da anni e su cui sapevo di poter contare. Cercai di non farmene accorgere, ma ero molto in ansia. Spiegai che al Municipal Hospital era morto un bambino in circostanze misteriose, che dovevamo cercare di raccogliere più prove possibili e arrestare l'efferato assassino. Mi accorsi che erano preoccupati, ma che si fidavano di me. «Domande?» chiesi. «Nessuna, tenente.» «Siamo pronti.» Mi diedero coraggio. 115 Quarantacinque minuti dopo la telefonata con Traccino, avevo i mandati in mano e un nutrito gruppo di ispettori e agenti, alcuni presi in prestito dalla sezione Antirapine, dall'Anticrimine e dalla Narcotici. Con luci e sirene accese, partimmo a tutta birra per il Municipal Hospital. Lasciammo le auto in Pine Street e, una volta dentro l'ospedale, ci dislocammo secondo un piano prestabilito con cura. Jacobi e io salimmo in ascensore fino agli uffici dei dirigenti. Mostrai il distintivo alla segretaria di Carl Whiteley e passai oltre. Con Jacobi al seguito, aprii la porta della sala conferenze, dove era in corso una riunione del consiglio di amministrazione. Whiteley era seduto a capotavola. Aveva la faccia tirata, grigia, lo sguardo vitreo e l'aria di chi è prigioniero di un incubo. Non si era neppure fatto la barba. Anche le altre persone sedute al suo tavolo avevano l'aria stravolta. «È stata denunciata una morte sospetta in ortopedia. Dobbiamo perquisire l'ospedale: questi sono i mandati», dichiarai, posando i fogli sul tavolo. «Si accomodi, tenente», disse Whiteley alzandosi in piedi di scatto. Col-
pì inavvertitamente la tazza che aveva davanti rovesciando il caffè. «Questo non è più un problema mio.» «E di chi, allora?» domandai. Whiteley alzò gli occhi. «Suo, direi.» 116 Jacobi e io scendemmo nel seminterrato con un cigolante ascensore di servizio e ci ritrovammo in un dedalo di corridoi dalle pareti di nudo cemento. Seguimmo le indicazioni per l'obitorio. Davanti a noi c'era un infermiere che spingeva rumorosamente una barella. Lo seguimmo fin dentro il reparto freddissimo. Appena entrati, vedemmo un uomo di mezz'età con una pancia grossa come un pallone da basket che gli sporgeva dal camice. Posò una cartellina vicino a uno dei cadaveri e ci venne incontro. Ci presentammo. Il dottor Raymond Paul era il primario di anatomia patologica. Ci stava aspettando. «Quando ci avete chiamato, Jamie Sweet era già stato portato qui e la sua stanza era stata pulita», mi comunicò. Sospirai delusa: la mia speranza era proprio scoprire qualche indizio sulla scena del crimine. Seguimmo il dottor Paul nella cella frigorifera, dove controllò un elenco e aprì uno dei cassetti metallici, producendo un ronzio. Sollevai il lenzuolo e vidi ciò che Noddie Wilkins mi aveva descritto per telefono. Il corpo nudo del bambino sembrava piccolissimo, inerme. L'ingessatura al braccio rendeva ancor più tragica la sua morte. Chi lo aveva ucciso? Si poteva morire per una frattura a un braccio? Jacobi chiese al dottore: «Che cosa è successo?» «Secondo la cartella clinica, aveva una frattura all'omero e l'ulna destra lievemente incrinata», disse Paul. «Era caduto dalla bicicletta, pare.» «E poi?» incalzò Jacobi. «Che io sappia, per un braccio rotto non si muore. Per lo meno negli altri ospedali.» «Mi è stato chiesto di non toccarlo», ci disse il medico. «Dunque non posso sapere come è morto.» «Okay, ci rivolgeremo all'Istituto di medicina legale», replicai.
117 Erano solo le nove del mattino ed erano passate più o meno nove ore dalla morte di Jamie Sweet nel suo lettino di ospedale, in un luogo dove avrebbero dovuto curarlo, invece che farlo morire. Lasciai Jacobi, esasperato, insieme a Charlie Clapper e i suoi uomini, al secondo piano. Dovevano controllare quel che restava della scena del crimine, recuperare le lenzuola dalla lavanderia, cercare impronte su tutte le superfici e prendere tutto quello che era rimasto nella camera, spazzatura compresa. I due bottoni con il caduceo erano stati messi in un bicchiere vuoto quando il bambino era stato portato via. Mentre uscivo, vidi i miei colleghi interrogare medici e infermieri del reparto di ortopedia, cercando di farsi un quadro della situazione. Chi aveva visto vivo il bambino e quando? Che terapia gli era stata prescritta? Chi era di turno quella notte? Chi l'aveva trovato morto? Incontrai i genitori di Jamie nell'affollata sala d'attesa. Dimostravano poco più di trent'anni e stavano in un angolo, vicini vicini, in preda alla rabbia e allo choc. Avrebbero preferito credere a qualsiasi cosa, piuttosto che alle mie parole. «Stronzate!» mi urlò a un certo punto Martin Sweet, paonazzo. «Jamie si era rotto un braccio. Aveva una semplice frattura! Ammazzerei tutti, ammazzerei.» «La capisco», replicai. «Davvero? Be', se mi capisce, mi aiuti a trovare il colpevole.» La mamma di Jamie piangeva. Si era graffiata tutta la faccia per la disperazione e ripeteva con voce strozzata «Voglio morire» nascondendo il viso contro il petto del marito. «Signore, prendimi ora!» «Faremo esaminare vostro figlio dal medico legale», dissi con delicatezza, cercando di non mettermi a piangere anch'io. «Non appena avrà accertato di che cosa è morto, ve lo faremo sapere. Vi prego di accettare le mie condoglianze.» 118 Certi giorni soffia un vento cattivo... Una guardia mi accompagnò nell'ufficio del dottor Garcia al pianoterra, vicino al pronto soccorso.
Nell'anticamera c'era una donna di una magrezza aggressiva, con le sopracciglia disegnate e lunghi artigli color fucsia, che stava usando il fax. Cercando di controllarmi e di respirare normalmente, le mostrai il distintivo e le chiesi di vedere Garcia. «Il dottore era qui fino a poco fa, ma adesso è uscito», mi rispose, occhieggiando la mia pistola nella fondina sotto l'ascella. «Sarà andato a casa. Vuole che provi a chiamarlo?» Le porsi i fogli che avevo in mano. «Ho un mandato di perquisizione. Mi dia le chiavi.» La donna mi guardò male, aprì la porta dell'ufficio di Garcia e accese la luce. Poi si diresse verso il mobile in fondo e aprì un antico portasigarette d'argento. Era vuoto. «Di solito tiene qui le chiavi dell'archivio», si scusò la donna. «Stranissimo: non ci sono.» Chiesi alla guardia di forzare le serrature e cominciai la perquisizione. C'erano cartelle cliniche, riviste ancora avvolte nel cellophane, documenti, grafici, appunti. Controllai tutto, alla ricerca di qualcosa che potesse farmi venire un'illuminazione, o anche solo un'idea. Invano. Estrassi il cassetto dalla scrivania, spargendo penne e matite ovunque. Frugai tra la cancelleria sperando di mettere le mani su qualche bottone di ottone, gioiello, bracciale ospedaliero, souvenir o altro trofeo da serial killer. Niente di niente. Dietro la porta era appesa una sacca. L'aprii: dentro c'erano una giacca blu taglia cinquantadue, un paio di calzoni grigi, una cintura nera Coach, due camicie, una rosa e una azzurra, della biancheria di ricambio e un portacravatte in cuoio. Trovai un astuccio nero e aprii anche quello: conteneva un kit per la glicemia, completo di flaconi di insulina e siringhe. Garcia era diabetico. C'era anche un'altra bustina con dentifricio, rasoio, collutorio, un blister di antidolorifici e pillole contro la disfunzione erettile. Perché c'era quella sacca nel suo ufficio? Garcia teneva pronto un cambio per andare in tribunale? Per quando si fermava a dormire dalla fidanzata? Qualsiasi fosse il motivo, non si trattava di una prova incriminante.
Stavo controllando in tutti gli angoli, tasche e taschine, quando mi suonò il Nextel. Risposi affannata. «Sono nello spogliatoio delle infermiere», annunciò Jacobi tossendo. Poi mi disse una cosa che mi fece venire voglia di chiamare il mio primogenito Warren. «Raggiungimi, Boxer. Ho fermato il presunto assassino.» 119 Il presunto assassino? Allora tutto il nostro impegno e duro lavoro non erano stati vani... Ma chi era il mostro che uccideva in ospedale? Nello spogliatoio c'era un gran numero di infermieri e ausiliari ammassati contro un muro. Alcuni si lamentavano perché erano stati lesi i loro diritti civili, altri protestavano con i poliziotti che stavano forzando le serrature degli stipetti. Jacobi, grande e grosso e con l'aria truce, sembrava più un buttafuori che un poliziotto. Era accanto a una donna scura di pelle, con il camice blu e le mani dietro la schiena, seduta fra due file di stipetti. Era ammanettata. Non mi sembrava di averla mai vista. Aveva una quarantina d'anni, il viso ovale e senza rughe e i capelli corti, stirati. Al collo portava una catenina con un ciondolo d'oro a forma di angelo. Vedendomi arrivare, abbassò la testa e borbottò qualcosa fra sé. Mi conosceva? Era lei l'assassina? «Ho chiesto a questa signora di seguirci in centrale per rispondere a due o tre domande e lei ha tentato di scappare», mi spiegò Jacobi. Poi mi mostrò una scatoletta di plastica piena a metà di bottoni con il caduceo. La presi in mano e osservai quei tondini di ottone lucido, stupendomi che oggetti dall'aspetto tanto innocuo potessero aver assunto un significato così inquietante. Mi concessi un sorrisetto trionfante e guardai Jacobi. «Erano sulla mensola più alta dello stipetto della signora, tenente», mi disse. «Ho spedito Conklin e Samuels a chiedere un mandato di perquisizione per la sua casa.» «Come si chiama?» domandai alla donna. «Marie St. Germaine», mi rispose, con un lievissimo accento che mi parve delle Indie occidentali. Sulla targhetta era scritto che era infermiera diplomata di secondo grado.
Gli infermieri con quella qualifica si spostano spesso da un piano all'altro ed entrano nelle camere dei pazienti per somministrare farmaci. Possibile che quella donna avesse ammazzato più di trenta persone? «L'ispettore Jacobi le ha letto i suoi diritti?» «Sì, ma adesso lo farà di nuovo, davanti a testimoni», disse Jacobi, avvicinandosi fino a pochi centimetri dalla faccia della donna. «Ha diritto a non rispondere. Se parla, ogni cosa che dirà potrà essere usata contro di lei. Ha diritto a un avvocato. Se non è economicamente in grado di ingaggiarne uno, gliene verrà nominato uno d'ufficio. Ha capito i suoi diritti?» «Lasciatela in pace! Non ha fatto niente!» urlò qualcuno in fondo alla stanza. «Mollatela!» Diverse altre infermiere si unirono a quello che ormai era diventato un coro: «Mol-la-te-la!» «Basta!» gridai, battendo il pugno sull'anta di uno stipetto. Le voci si abbassarono a poco a poco. «Ha capito i suoi diritti?» ripeté Jacobi. «Sì.» «Perché è scappata, Marie?» «Ho avuto paura.» «Di cosa?» «Della polizia», rispose. Io intanto pensavo che la procura, già oberata di lavoro, ci avrebbe risposto picche: non avevamo prove sufficienti per trattenere quella donna. «Cos'hai trovato, oltre ai bottoni?» chiesi a Jacobi. «Questi», mi disse, indicandomi una pila di abiti e articoli da toeletta ammucchiati sulla panca accanto alla donna. L'oggetto più letale del mucchio era un romanzo di Danielle Steel. Aprii la borsa di Marie St. Germaine e vi trovai un vecchio portafogli, una borsina di trucchi, una bolletta telefonica scaduta e una bambolina di lana grossa come il mio dito pollice. Era una bambolina rozza, fatta di filo nero e perline colorate. «Cos'è questa?» domandai. «Un portafortuna.» Sospirai, rimisi la bambolina nella borsa e dissi: «È pronta, signora St. Germaine?» «Per tornare a casa?» Mentre Jacobi e io accompagnavamo Marie St. Germaine in centrale, pensavo a cosa sarebbe successo nelle quarantotto ore successive. Speravo
che Claire scoprisse qualcosa facendo l'autopsia al piccolo Jamie Sweet, che il serial killer avesse finalmente fatto un passo falso, e mi chiedevo se e in che modo Marie St. Germaine fosse collegata a Dennis Garcia. Speravo con tutto il cuore che confessasse. Non riuscivo a crederci: finalmente avevamo fermato qualcuno. 120 Il Chronicle era già in tutte le edicole con l'articolo di Cindy intitolato MISTERIOSI SIMBOLI DI MORTE in prima pagina, quando Jacobi e io varcammo le porte della corte di giustizia insieme a Marie St. Germaine. Il capo aveva finalmente qualcosa da comunicare ai giornalisti, ma con il passare delle ore mi venne quel senso di nausea che coglie quando si gira in tondo. Jacobi e io eravamo chiusi con Marie da quattro ore in una stanza oltre i cui finti specchi erano radunati diversi ispettori della Omicidi, il capo e il procuratore distrettuale. Da circa un'ora c'era anche il sindaco di San Francisco. Marie St. Germaine aveva dichiarato di essere nata a Haiti, di non essere cittadina statunitense ma di risiedere negli Stati Uniti da quasi vent'anni. A parte questo, ci aveva detto poco o niente. China sulla sua seggiola, ripeteva fra le lacrime: «Non ho ammazzato nessuno. Non ho mai fatto niente di male. Sono una brava persona». «La smetta di piagnucolare», disse Jacobi, battendo il pugno sul tavolo. «Ci spieghi cosa sono quei bottoni, ci faccia capire. Altrimenti chiamo l'Immigrazione e la rispedisco a Port-au-Prince in manette.» Era una minaccia assurda, ma lo lasciai fare. Marie St. Germaine cominciò a tremare, si coprì la faccia con le mani e singhiozzò: «Non voglio più parlare con voi, tanto non mi credete». Se avesse aggiunto «Voglio un avvocato», avremmo dovuto smettere immediatamente. «Okay, okay», dissi. «L'ispettore Jacobi non voleva spaventarla. Vogliamo solo arrivare alla verità, lei capisce. Ci dica tutto quello che sa.» La donna annuì. Prese un fazzolettino di carta e si soffiò il naso. «Perché teneva quei bottoni nel suo stipetto, Marie? Cominciamo da lì.» Si rivolse a me, dando le spalle a Jacobi, e mi guardò negli occhi. Non sembrava un'assassina, né come aspetto né come modo di fare, ma l'abito non fa il monaco. «Lo facevamo anche alla scuola per infermiere», disse. «Mettevamo su-
gli occhi dei morti dei bottoni o delle conchiglie per aiutare le persone nel viaggio per l'aldilà. Vuole controllare? Le do il nome della scuola?» Con voce più sicura, continuò: «Sono stata io a trovare il bambino morto, stamattina. Non era la sua ora e così l'ho segnato per Nostro Signore. Che gli riservasse un trattamento speciale». Avvicinai la sedia alla sua e, con un certo sforzo, le presi le mani. «Li ha aiutati a morire, Marie? Pensava che il bambino soffrisse troppo? Gli ha dato qualcosa per farlo dormire?» Marie St. Germaine ritirò le mani dalle mie, facendomi temere di aver perso il contatto. «Mi sarei ammazzata, piuttosto che far morire quel bambino!» rispose. Girai gli occhi verso lo specchio e vidi il riflesso della mia faccia stanca. Sapevo che le persone che stavano lì dietro a guardare erano convinte che, al mio posto, sarebbero riuscite a farla parlare. Presi dalla tasca l'elenco che mi aveva dato Carl Whiteley e lo girai leggermente perché la donna potesse leggere i trentadue nomi di quella terrificante lista di morti. «Guardi qui, Marie. Ha messo i bottoni sugli occhi di queste persone?» Nel silenzio, la donna scorse con il dito l'elenco di nomi, leggendoli a voce bassa. «Sì», rispose alla fine. Si drizzò sulla sedia e mi guardò fisso negli occhi. «Ma, giuro su Dio, non sono stata io a far loro del male. Credo che qualcuno sia stato, però, e volevo che Dio lo sapesse. E che anche qualcuno su questa terra lo sapesse.» Jacobi diede un calcio alla sedia, alle mie spalle, mandandola a sbattere contro il muro e rovesciandola di lato. «Ispettore!» lo ammonii, solo per finta. Riportai lo sguardo su Marie. «Stia tranquilla e mi ascolti bene: perché non ha chiamato la polizia?» «Non posso permettermi di perdere il lavoro, sa?» replicò indignata. «E comunque, a che cosa sarebbe servito? Nessuno le ascolta, le persone come me. Neanche lei mi crede, glielo leggo negli occhi.» «Io voglio crederle», dissi. «Mi aiuti.» Marie St. Germaine si protese verso di me e mi parlò in tono confidenziale. «Mi ascolti, allora. Parli con la direttrice della farmacia dell'ospedale, la dottoressa Engstrom. Con lei dovrebbe parlare, non con me. Io sono una brava persona. Lei no.»
121 Non so come, ma la dottoressa Engstrom riusciva a far sembrare un normalissimo camice un capo di alta moda. Aveva i capelli biondo platino pettinati all'indietro, portava una catenina di oro bianco con un solitario al collo ed era truccata con un tocco di cipria iridescente e un velo di rossetto rosa. Si alzò in piedi e mi strinse la mano. Le presentai Jacobi. Ci sedemmo. Notai che le carte sulla sua scrivania erano ordinatamente impilate, le penne e le matite nel portapenne di smalto tutte rivolte dalla stessa parte e i diplomi appesi alla parete perfettamente allineati. Fu solo il modo in cui i suoi occhi grigi guizzavano da me a Jacobi e da Jacobi a me a lasciarmi intuire che la sua vita non si esaurisse in quell'ospedale. Stavo guardando Jacobi quando gli vidi strizzare gli occhi e fare una strana espressione. Lavoravo con lui da troppo tempo per non capire che cosa volesse dire quella faccia. L'aveva riconosciuta. La dottoressa Engstrom non se ne accorse. Si posò il mento sulle mani e cominciò a parlare, senza che noi glielo avessimo chiesto. Ci disse che da quando era stato reso noto il verdetto del processo in ospedale erano tutti agitatissimi e che lei stessa era rimasta molto scossa. «Rischiamo il posto di lavoro», disse. «L'ospedale potrebbe chiudere. Tutto è possibile, dopo la sentenza di ieri.» «Teme che la licenzino?» le domandai. «Lo temo da anni, per la verità. Queste morti inspiegabili mi tormentano», disse, passandosi le mani fra i capelli lucidissimi. «Ho messo a parte delle mie preoccupazioni Carl Whiteley. Gli ho parlato diverse volte», ci informò. «Ho persino scritto un rapporto sugli errori farmacologici. Sia Carl sia l'ufficio legale comunque mi hanno assicurato che non era colpa del nostro servizio. Secondo loro, era uno scherzo di qualcuno, all'interno dell'ospedale, che prima o poi sarebbe stato beccato. Da una parte, mi sono sentita sollevata. So benissimo che il nostro sistema informatico è a prova di errore e che non era proprio possibile che...» Si voltò verso la finestra e lasciò la frase a metà. «Dottoressa Engstrom, io sono un tipo all'antica, sa? Probabilmente se ne sarà accorta. Non mi intendo di informatica, capisce?» disse Jacobi.
«È molto semplice, ispettore. Il nostro computer è programmato per erogare i farmaci sulla base delle diagnosi che vengono immesse nel sistema. È impossibile prescrivere un farmaco sbagliato, perché la macchina non permette di accedere a medicine che non corrispondono alle diagnosi immesse.» «E non si può bypassare il programma?» chiese Jacobi. «Cioè, non c'è nessuno che ha la password?» «I miei sottoposti possono immettere la diagnosi così com'è scritta, non possono cambiare i dati. Io sono l'unica che è autorizzata a farlo e ho una password biometrica.» «Mi scusi?» fece Jacobi. «La mia password è la mia impronta digitale.» «E non potrebbe un medico immettere una diagnosi sbagliata?» domandai. «Questo è possibile, no?» «In teoria, si. Nella realtà, però, non succede. Le diagnosi vengono controllate prima dagli stessi medici e poi dai miei sottoposti. Il computer non permette manomissioni di nessun tipo. E poi io sono molto metodica. Controllo e ricontrollo che le prescrizioni corrispondano alle cartelle cliniche, non solo quelle di cui mi occupo personalmente, ma anche tutte quelle dei miei sottoposti. Pensate che mi prendono in giro, per quanto sono pignola.» Dissi: «Mi faccia capire: dipende tutto dalla diagnosi?» «Sì.» «Dunque, lei potrebbe modificare la diagnosi di un medico... Dico bene?» Engstrom mi guardò e quindi sbottò: «Lei mi offende! È una follia. Sono pronta a sottopormi a un test della macchina della verità. Anche subito». «Magari in seguito», risposi. «Per adesso, possiamo continuare a parlare normalmente. Conosce Marie St. Germaine?» «No. Chi è?» «Conosce bene il dottor Garcia?» «È il primario del nostro pronto soccorso», rispose la dottoressa. «Siamo entrambi dirigenti...» Jacobi si alzò e tirò un pugno sulla scrivania, facendo saltare graffette e matite. «Vogliamo smetterla di dire fesserie, dottoressa?» esclamò. «Lei e il dottor Garcia vi conoscete piuttosto bene, mi risulta.» La donna sbiancò.
Anch'io ero sorpresa. Come faceva Jacobi a saperlo? Mi venne in mente quella serata di pioggia in cui mi aveva telefonato dopo aver seguito Garcia in un ristorante italiano e poi fin sotto casa. Mi aveva detto che era in compagnia di una bionda sui quaranta. Per quel che ne so io, l'unico reato di cui si può accusare il dottore è avere una fidanzata. Alla dottoressa Engstrom vennero improvvisamente gli occhi lucidi. «Oddio», esclamò. «Oddio.» 122 La dottoressa Engstrom stava crollando e a me risuonavano mille allarmi nella testa: Garcia ed Engstrom? Una perfetta coppia di assassini, efficienti e organizzati come l'ufficio della dottoressa. Dovevo assolutamente riuscire a farla continuare a parlare. «Dottoressa, stia tranquilla. Ha la possibilità di tirarsi fuori da questo orribile pasticcio, adesso. Se ci dice tutta la verità l'aiuteremo, glielo assicuro. Il dottor Garcia l'ha sfruttata, vero? Ha accesso al computer?» Vidi che la donna era spaventata. Lentamente, di malavoglia, annuì. Rabbrividii. Avevo i capelli dritti, quando lei disse: «L'ho lasciato accedere al computer un paio di volte». «Un paio di volte?» «Sì, occasionalmente. Ma non è come pensate voi... Il dottor Garcia è un ottimo medico, molto coscienzioso. Come me. Il fatto è che quelle morti inaspettate ci hanno fatto perdere la testa. Dennis voleva controllare se c'erano delle discordanze fra diagnosi e prescrizioni. E io ero d'accordo.» «Ne avete trovate?» domandai. «No, mai. Pensiamo che gli errori siano stati commessi nel reparto. Che sia stata qualche infermiera a sbagliare somministrando al paziente il farmaco sbagliato. Insomma, che sia successo dopo l'erogazione da parte della farmacia interna. La verità è questa.» «Lei era presente quando il dottor Garcia ha avuto accesso al computer, come diceva?» chiese Jacobi. «Certamente. Occorreva la mia impronta digitale. Se volete sapere se sono stata lì tutto il tempo, però, la risposta è no.» La dottoressa si allarmò appena capì dove voleva andare a parare Jacobi. Aveva tutti i muscoli del collo contratti. Si appoggiò alla scrivania e cercò di darsi un contegno.
«Dennis non farebbe mai del male a un paziente. È un ottimo medico.» Jacobi borbottò: «Be', da come ne parla, sembra innamorata di lui. Ha una relazione con il dottor Garcia?» «L'ho avuta, ma adesso è finita», rispose in tono amareggiato. «Ho scoperto che aveva un'altra. Dennis ora sta con Maureen O'Mara. Avete presente?» Annuii, scioccata. Maureen O'Mara aveva appena vinto una causa contro il Municipal Hospital. Come faceva a essere l'amante di Garcia? Volevo guardare Jacobi, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da Sonja Engstrom. «La vedo sorpresa, tenente. Non lo sapeva?» mi disse la dottoressa. E con un'amara risata aggiunse: «Ci ho messo un po' anch'io, prima di rendermene conto. Strana coppia, non trova? Dennis Garcia e Maureen O'Mara... Non oso pensare a cosa possono combinare insieme quei due». 123 Uscii dall'ospedale insieme a Jacobi, con la mente in subbuglio. Garcia e Sonja Engstrom. Garcia e Maureen O'Mara. Nemmeno io osavo pensare a che cosa potessero combinare insieme. Salimmo in macchina. Jacobi si mise al volante e accese il motore. Mi sentivo carica, come quando si ha la sensazione di essere vicinissimi a qualcosa di grosso o quando, a un concerto, viene voglia di salire sul palco e cantare. Era una sensazione esaltante. «Cindy ha assistito all'udienza in cui ha deposto Garcia», dissi a Jacobi. «Maureen O'Mara gli ha chiesto se avesse avuto a che fare con la morte di quei pazienti e lui si è appellato al Quinto Emendamento. Te ne rendi conto?» «Non ha senso», commentò Jacobi svoltando in Leavenworth Street. «Non era mica sotto processo!» «Infatti. Anche Cindy è rimasta sorpresa e si è chiesta che cos'abbia da nascondere quest'uomo. Secondo lei, è in quel momento che si sono decise le sorti del processo. La strategia difensiva dell'ospedale è andata a farsi benedire.» «Dici che Maureen O'Mara lo ha fregato? O ha fatto tutto da solo?» «Domanda interessante, Jacobi. Non so chi abbia fregato chi, per la veri-
tà. Entrambe le donne di Garcia sono coinvolte nel processo.» Mi aggrappai al cruscotto, mentre Jacobi svoltava in Filbert Street. «Gli elementi ci sono tutti, ma non riesco a metterli insieme. Se è stato Garcia ad ammazzare tutte quelle persone, il collegamento dov'è?» Jacobi parcheggiò davanti alla villetta bianca e gialla di Garcia e spense il motore. «Andiamolo a chiedere direttamente al dottore», fece. 124 Jacobi grugnì, scendendo dalla macchina. Lo raggiunsi sul marciapiede, riparandomi gli occhi dal sole abbagliante. Guardammo la casa a tre piani con il prato curatissimo e il vialetto lastricato che conduceva al portone. Stavo pensando a Garcia, chiedendomi che rapporto ci fosse fra lui e l'infermiera haitiana di nome Marie St. Germaine, quando Jacobi si chinò e mi disse: «Guarda un po' qua». Mi stava indicando alcune macchie di sangue sul lastricato, che arrivavano fino alla porta d'ingresso. Anche il pomo di ottone era sporco di sangue. «È ancora fresco», osservò Jacobi. Smisi di colpo di rimuginare. Che cosa era successo in quella casa? Suonai il campanello e, contemporaneamente, impugnai la pistola. Jacobi fece lo stesso. Sentimmo il trillo del campanello, ma nessun rumore di passi. Nessuno ci venne ad aprire. Bussai. «Aprite! Polizia!» «Date le circostanze...» mi giustificai con Jacobi. In realtà era un caso limite. Le forze dell'ordine hanno diritto di entrare in una casa privata solo se hanno un mandato o se c'è qualcuno in pericolo. Il sangue non era tanto, poteva averlo lasciato qualcuno che si era tagliato un dito, ma io avevo la fortissima sensazione che fosse successo qualcosa di ben più grave. E volevo entrare in quella casa a tutti i costi. Sganciai il Nextel dalla cintura e chiesi rinforzi. Jacobi annuì, si guardò intorno e alla fine decise per un grosso portavaso di cemento. Lo rovesciò, svuotandolo della terra e dei gerani che conteneva, e lo imbracciò come un ariete per sfondare uno dei pannelli di legno
del portone. Subito infilai la mano nel buco, cercai a tastoni la maniglia e aprii. 125 Gridai di nuovo: «Polizia! Stiamo per entrare». Nessuna risposta. Sembrava che in casa non ci fosse nessuno. Jacobi e io passammo dall'atrio a un salotto che in origine doveva essere stato degno di una rivista di arredamento, ma adesso era completamente devastato: i mobili erano rovesciati e c'era una gran quantità di sangue dappertutto. «Lasciamelo dire. Non è stato un lavoro da professionisti», fece Jacobi, osservando quel caos con aria sospettosa. Ero senza fiato. Le pareti chiare erano coperte di spruzzi di sangue rosso vivo, che scendeva a rivoletti fin sullo zoccolo. Il soffitto era punteggiato di costellazioni scarlatte e sul tappeto davanti al divano c'era una grossa macchia umida di un marrone rossastro. Orme insanguinate erano impresse qua e là sul pavimento e il caminetto era imbrattato di impronte rossastre. Immaginando il terrore e la furia che dovevano essersi scatenati in quella stanza poco tempo prima, mi si accapponò la pelle. Chi era stato? Ero lì, attonita, che non riuscivo a riscuotermi. Ci pensò Jacobi: «Boxer, andiamo». Controllammo le stanze al pianoterra, coprendoci l'una con l'altro. Seguendo la scia di sangue arrivammo al lavello in cucina, dove trovammo un coltello da bistecca con la lama da venti centimetri e il manico sporco di sangue. Salimmo al primo e secondo piano, guardando in tutte le camere, aprendo armadi e tirando tende. Controllammo persino sotto i letti. «Niente», borbottò Jacobi. «Non c'è nessuno.» La camera da letto principale era arredata con mobili pesanti, di mogano, moquette e tende azzurre e lenzuola in tinta. Le coperte erano state strappate via e non erano neanche più nella stanza. Riponemmo le pistole e tornammo nel salotto. Fu solo allora che notai il vaso di cristallo posato su un fianco vicino al caminetto. «Jacobi? Vieni a vedere.» Mi si avvicinò con passi pesanti e si chinò a osservare il vaso rovesciato
e sporco di rosso. «Con un affare così, fracassi la testa a chiunque», fu il suo commento. «Hai visto qui?» chiesi, indicando i capelli rimasti appiccicati al bordo seghettato del pesante vaso di cristallo. Erano scuri, lunghi una decina di centimetri. Nel giro di qualche giorno le analisi di laboratorio mi avrebbero confermato ciò che già sapevo. «Questi sono capelli di Garcia», dichiarai. 126 L'ululato delle sirene in Leavenworth Street era sempre più forte: le pattuglie stavano svoltando in Filbert Street. «Io aspetto fuori», disse Jacobi. Eravamo nella villetta da pochi minuti, ma a me sembrava fosse passata un'eternità. Mi piazzai nell'atrio, in una posizione da cui vedevo tutto il salotto. Ripassai mentalmente la scena del crimine cercando di trovare una logica in prove e indizi che sembravano privi di senso. Non credevo che Garcia avesse sorpreso un ladro a rubare, perché le porte erano tutte chiuse e l'unico segno di effrazione era il portone sfondato da Jacobi. Probabilmente qualcuno aveva suonato il campanello come noi e Garcia gli aveva aperto. Sì, ma chi? La poltrona rovesciata, la lampada rotta, gli oggetti sparsi per terra facevano pensare a un diverbio degenerato in violenza. Forse l'aggressore sconosciuto aveva colpito Garcia alla testa con il vaso di cristallo e dalla ferita era uscito molto sangue. Forse Garcia era crollato a terra e si era poi rialzato appoggiandosi al camino. Il suo aggressore doveva essersi spaventato, nel vederlo gravemente ferito ma ancora vivo, e probabilmente era passato di colpo dal rimorso per aver esagerato al desiderio di finirlo a ogni costo. C'erano macchie di sangue sullo stipite della porta della cucina, dove l'assassino aveva preso il coltello. Gli schizzi sul soffitto indicavano che Garcia era stato pugnalato ripetutamente mentre era ancora vivo. L'assassino doveva averlo bloccato da dietro e avergli tagliato la gola, facendo schizzare sangue dappertutto. La scia di sangue sul tappeto faceva pensare che Garcia non fosse rimasto a terra, ma avesse cercato di raggiungere la porta, spinto dall'istinto di
sopravvivenza. Le ferite mortali dovevano però averlo rallentato e alla fine era crollato davanti al divano, dove era morto dissanguato. Qualcuno lo odiava al punto da infliggergli una simile violenza. Qualcuno che lui conosceva abbastanza bene da lasciare entrare in casa sua. La stessa persona che doveva averlo poi portato via di lì, richiudendo la porta. Sì, ma chi? Le sirene erano ormai assordanti. Le volanti erano arrivate davanti alla casa. Uscii e mi apprestai a chiamare la procura per far emettere un ordine di sequestro. Charlie Clapper mi si avvicinò e mi salutò con un cenno. Un attimo dopo, lo sentii esclamare: «Porcaccia...» Jacobi uscì dal garage e mi venne incontro. «Garcia aveva due auto», disse. «Il SUV è ancora qui, la Mercedes no. Vicino al SUV c'è un'altra macchina, una BMW con targa personalizzata. E indovina cosa dice? Redhead. Chi conosciamo con i capelli rossi?» 127 Davanti alla villetta di Garcia c'erano una decina di automobili della polizia e un furgone della Scientifica. Il nastro giallo ondeggiava nel vento e si era aggrovigliato sulla ringhiera della scala esterna. Sotto il sole abbagliante, strizzavo gli occhi per guardare Jacobi, pensando che la mia ricostruzione dei fatti a quel punto era certamente tutta sbagliata. Che cosa ci faceva l'automobile di Maureen O'Mara nel garage di Garcia? Era stata lei a ucciderlo? Possibile che fosse riuscita a caricare il cadavere sulla Mercedes? O lei era la vittima e Garcia l'assassino? Maureen O'Mara poteva averlo colpito con il vaso di cristallo e lui aver reagito con violenza assassina. In ogni caso, avevamo zero cadaveri, una macchina che mancava all'appello e l'auto di Maureen O'Mara nel garage, oltre a una quantità di sangue spaventosa sulla scena del crimine. «Okay», dissi a Jacobi. «Dov'è la rossa O'Mara?» Lasciammo alcuni agenti a interrogare i vicini e perlustrare il quartiere e tornammo in ufficio. Jacobi chiese che ci venisse segnalata immediatamente la Mercedes di Garcia, appena fosse stata avvistata, io chiamai lo studio di Maureen O'Mara. Mi rispose l'assistente, Kathy, con la bocca piena. «È in ferie per una settimana, mi dispiace. Ne aveva bisogno.»
«Lo credo. È fuori città? Dov'è andata?» domandai con una certa tensione nella voce. Stavo cercando di controllare il panico. «Perché me lo chiede, scusi?» «È in corso un'indagine, Kathy.» «Non mi ha detto dove andava. Se vuole, le do tutti i numeri di telefono.» «Grazie.» Provai a chiamare Maureen O'Mara sul cellulare e trovai la segreteria telefonica. Le lasciai il mio numero anche sul cercapersone, provai a casa e trovai occupato. Sempre. Jacobi immise il suo nome nel nostro sistema informatico e ottenne i dati seguenti: «Maureen Siobhan O'Mara, bianca, nubile, nata il 15.8.1973, altezza un metro e settantaquattro, peso sessantotto chili. Robustella», commentò. Ruotò lo schermo dalla mia parte perché potessi vedere foto e indirizzo. «In un quarto d'ora siamo là», disse. «Anche dieci minuti. Forza, andiamo.» Jacobi uscì dal posteggio e partì sgommando. Accesi luci e sirena e percorremmo Leavenworth Street a tutta velocità, diretti a Sea Cliff, dove abitava Maureen O'Mara. 128 Il civico 68 di Seaview Terrace corrispondeva a una villetta in stile mediterraneo color mango con vista mozzafiato sulla baia, il ponte, Sausalito e forse anche Honolulu. Gli uccellini cinguettavano fra i rami. Jacobi e io ci avviammo verso il portone. Non riuscivo a togliermi dalla testa il caos e il sangue a casa di Garcia. Mille interrogativi turbinavano nella mia mente. Ti prego, Maureen, fatti trovare in casa. Suonai il campanello, che riecheggiò forte nella casa. Non sentii rumore di passi. Gridai: «Polizia!» Premetti di nuovo il campanello e feci un passo indietro per lasciare che Jacobi battesse il pugno sulla porta. Nessuna risposta. Niente di niente. Dai, Maureen. Ebbi un nuovo terribile presentimento e un brivido mi corse lungo la schiena, come se la morte mi stesse suonando lo xilofono sulla colonna
vertebrale. Maureen O'Mara non c'era e la sua segretaria non sapeva dove fosse. Avevamo già rischiato una volta, entrando impunemente in una casa. Tanto valeva farlo una seconda. «Sento odore di gas», mentii. «Vacci piano, Boxer. Non vorrei finire a fare la ronda alla mia età.» «La casa di Garcia è un macello, Warren, e la macchina di Maureen O'Mara è parcheggiata nel suo garage. Se facciamo una cazzata, ne rispondo io.» Posai la mano sulla maniglia e mi resi conto che la porta era aperta. La lasciai ruotare sui cardini, come se fosse stato il vento a spalancarla. Tirammo fuori la pistola. Di nuovo. «Polizia! Stiamo entrando.» L'ingresso dava su un salotto molto luminoso, con un'immensa vetrata, arredi etnici e grandi quadri coloratissimi alle pareti. Mi guardai in giro, ma non vidi tracce di colluttazione. Controllammo il pianoterra, coprendoci a vicenda. «Via libera!» «Tutto a posto!» «Okay.» Entrammo in tutte le stanze, una più luminosa dell'altra, tutte vuote e in perfetto ordine. Salendo le scale, sentii un profumo che mi parve pot-pourri e lo seguii fino alla camera da letto principale. Era color pesca, con un letto enorme e, di fronte, un dipinto a olio che raffigurava un amplesso. Personalmente, non capisco perché ci si debbano appendere in camera da letto quadri erotici, ma a molti piace e a quanto pareva Maureen O'Mara faceva parte di questa categoria. Alla sinistra del letto c'era una vetrata da cui si godeva una vista spettacolare. Sulla parete opposta c'era un armadio colossale, con tutte le ante a specchio aperte. I vestiti erano sparsi dappertutto. Che cosa era successo? E quanto tempo prima? Per terra c'erano numerose scarpe alla rinfusa e sul muro strisciate grigie da cui si capiva che vi erano state scagliate contro. I cosmetici sul comò erano tutti sparsi e sul parquet c'erano i cocci di una boccetta di profumo. Nel bagno, sul piano di marmo verde, c'erano i resti di un telefono cord-
less andato in mille pezzi. Ecco perché trovavamo sempre occupato... Che Maureen O'Mara avesse ricevuto una chiamata che l'aveva fatta infuriare? La mia radio cominciò a gracchiare: finalmente una segnalazione. La Mercedes di Garcia era stata avvistata sulla 101 in direzione sud. La pattuglia che l'aveva notata procedeva nella direzione opposta e aveva fatto inversione appena aveva potuto, ma l'aveva persa di vista. Una cosa, comunque, era chiara: pochi minuti prima la Mercedes di Garcia stava andando verso l'aeroporto. 129 Dennis Garcia teneva le mani strette sul volante e gli occhi fissi sulla mezzeria. Aveva la bocca semiaperta e i riflessi rallentati. Sapeva di essere in stato di choc, ma provava anche una grande rabbia, oltre al malessere e all'incredulità. Le cose che erano successe quel giorno continuavano a sembrargli totalmente assurde. Si era svegliato benissimo, poi la giornata aveva preso di colpo una brutta piega. Quella stronza di Maureen... Avevano concordato fin dall'inizio che, dopo il processo, lui voleva prendere la sua quota e andarsene all'estero, mentre lei sarebbe restata a San Francisco per incassare i suoi milioni e diventare la principessa del foro. Non era questo il suo sogno? Come mai aveva cambiato idea? Che cosa si era messa in testa? Avevano avuto una relazione memorabile, avevano messo a segno un colpo magistrale ed erano diventati ricchi. Che cosa potevano volere di più? Perché Maureen non si accontentava? «Non l'ho fatto per i soldi», gli aveva detto quella mattina, piangendo. «I soldi non contano niente per me. Io l'ho fatto per te, Dennis! L'ho fatto perché volevo stare con te!» Avrebbe scosso la testa disgustato, se non fosse stato per quel terribile senso di vertigine.
Strinse il volante con ancora più forza, poi con la lingua si toccò il dente che gli dondolava e si sentì pulsare di nuovo la testa. Gli tornarono in mente varie immagini. Incredibili. Impensabili. Prima il litigio con Maureen, poi la serie di eventi che ne era scaturita. Gli sembrava di sentire ancora le urla. Rivedeva il sangue, sangue dappertutto, finché le urla non erano finalmente cessate. Si forzò di tornare al presente. Doveva mantenere il controllo, dimenticare l'accaduto e fuggire da San Francisco. Rispettando i limiti di velocità, imboccò l'uscita di South Airport Road e seguì le indicazioni per il parcheggio lunga sosta. Con le mani che gli tremavano, ritirò il biglietto e lasciò l'auto vicino alla recinzione di rete metallica, sul lato ovest del brutto spiazzo polveroso, fra due automobili americane. Addio. Addio a tutto quanto. Addio agli Stati Uniti. Si vedeva già atterrare a Rio, la splendida città sul mare circondata da alture verdeggianti, con la statua del Cristo che dominava il panorama. Avrebbe risolto tutto una volta arrivato in Brasile. Spense il motore e la scosse per svegliarla. Inutile trattarla con delicatezza, ormai. «Su, andiamo», disse. «Forza. Le valigie te le devi portare da sola.» Scese, aprì il portellone e tirò fuori i suoi bagagli. Poi la chiamò di nuovo. «Mi hai sentito, Maureen? La navetta sta per partire. Se perdiamo questo aereo, ce l'abbiamo nel culo.» 130 Insistetti per guidare io fino all'aeroporto. Jacobi accettò, facendomelo cadere dall'alto. «Che problema c'è, Boxer? Cos'hai?» «Niente. Voglio solo guidare io. In fondo, sono un tuo superiore.» «Va be', se ci tieni tanto...» Guidai veloce, fra le auto che si facevano da parte nel sentire la sirena. Alzai il volume della radio sperando in un aggiornamento. Ero preoccupata, perché dopo il primo avvistamento la Mercedes di Garcia non era più stata vista. Due domande si rincorrevano nella mia testa. Chi c'era sulla Mercedes di Garcia?
Chi era stato pugnalato a morte in casa sua? Girai a destra per le partenze, mentre Jacobi si sbracciava verso il sergente Wayne Murray della sede aeroportuale, che ci faceva segno di dirigerci al terminal A. Lo facemmo salire in macchina. Ci fece prendere l'entrata di servizio del terminal. Da lì, lo seguimmo a piedi attraverso porte senza indicazioni e su per scale di servizio fino all'ufficio del tenente Frank Mendez. Era un uomo magro, sul metro e settantacinque, più o meno della mia età, gentile ma molto indaffarato. Si alzò per stringerci la mano e ci invitò ad accomodarci di fronte a lui. Quindi ci spiegò che il jet dell'American Airlines era a cento metri dal gate 12 da un'ora, con le porte chiuse. Gli era stato negato il decollo. «Il nome del dottor Garcia figura nella lista dei passeggeri», ci disse. «E anche quello di Maureen O'Mara. Sono diretti a Rio, via Miami. Non so per quanto tempo ancora potremo impedire al pilota di partire, però.» Indicò la macchinetta del caffè sul mobile lì vicino e uscì. I suoi telefoni squillavano senza interruzione. Appena fuori dell'ufficio, una serie di monitor visualizzava passeggeri ai varchi di controllo e bagagli su nastri trasportatori. Entrarono e uscirono diversi uomini in divisa, mentre Jacobi e io facevamo da babysitter al fax, in attesa che sputasse fuori i documenti che ci servivano. Mi chiedevo se Garcia e Maureen O'Mara credevano davvero che il ritardo fosse dovuto a un guasto tecnico. Stavano forse bevendo un cocktail e leggendo il Financial Times? Finii il caffè e gettai il bicchierino di plastica nella spazzatura. Jacobi tossì, si coprì la faccia con le mani, disse: «Maledizione» e tossì di nuovo. Alle 18.05 il fax fece un ruttino e cominciò a rigurgitare un foglio di carta intestata della procura, con il mandato che aspettavamo. Quando anche l'ultimo foglio terminò il suo traballante viaggio, Mendez rientrò nell'ufficio, prese il fax e lo lesse. «Okay», disse. «Partiamo. Adesso è tutto legale.» 131 Avevo il battito a mille mentre mi infilavo il giubbotto nero con la scritta POLICE davanti e dietro insieme ad altri quindici poliziotti. Control-
lammo le armi e scendemmo i quattro piani di scale che portavano al garage. Salii con Mendez sulla prima auto e partimmo velocemente. Mendez contattò la torre di controllo. Urlò alla radio: «Chiudete la pista. Immediatamente». Ero in ansia, ma non solo: ero eccitatissima. Avevo una gran voglia di prendere Garcia. Talmente tanta che mi faceva star male. Un enorme jumbo della United cominciò a sollevarsi nel vento, emettendo un rombo assordante. Il jet dell'American era ancora fermo sulla pista con la scaletta a lato. Le auto si fermarono intorno all'aereo, le portiere si aprirono quasi simultaneamente. Corremmo verso l'aereo nel crepuscolo. Avevo l'adrenalina alle stelle quando salii la scala con Mendez, Jacobi e il resto della squadra, pestando sui gradini di metallo. Bussai sul portellone con il calcio della pistola. Si aprì subito. Feci segno alla hostess di non parlare e farsi da parte. Entrammo nell'ala riservata alla prima classe da dietro. Vidi subito la testa di Garcia. Era nella terza fila, a destra, lato corridoio. Fra i capelli gli si intravedeva una brutta ferita rossastra. Accanto a lui, dalla parte del finestrino, era seduta una donna con i capelli rossi. Maureen O'Mara. Subito dopo vidi che avevamo un problema. E non da poco. Nel corridoio c'era il carrello con le bevande. Fra noi e Garcia c'erano due hostess e un centinaio di chili di metallo e bottiglie. Garcia ci sentì arrivare, si voltò e strizzò gli occhi. «Lei!» esclamò guardandomi. Maureen O'Mara gli toccò la mano e mormorò: «Tranquillo, Dennis. Non c'è da preoccuparsi». Dissi: «Dennis Garcia. Maureen O'Mara. Ho un mandato che mi consente di trattenervi in quanto testimoni». «Non se ne parla neanche», urlò Garcia, frugandosi nella tasca della giacca. Si alzò e uscì nel corridoio. Maureen O'Mara gridò: «No, Dennis, no!» Fulmineo come un serpente, Garcia afferrò una delle hostess per i capelli e le tirò indietro la testa, avvicinandola alla sua. Nella mano gli brillava qualcosa: una siringa!
Teneva il pollice sullo stantuffo, l'ago sulla pelle della ragazza. La poveretta lanciò un urlo terrorizzato che riecheggiò per tutta la cabina. «Lasciatemi andare. Altrimenti le inietto una dose di insulina che la farà crepare prima ancora di cadere per terra.» Il suo viso un tempo bello era irriconoscibile, livido, tumefatto. Garcia aveva le pupille dilatate, la bocca contratta in una smorfia, lo sguardo da folle. Era folle. «Dipende da voi», disse. «A me non me ne frega niente, che viva o che muoia.» Gli risposi dopo un po': «Questo lo sappiamo». 132 Nel vedere gli occhi da pazzo di Garcia, mi sentii gelare. Maureen O'Mara era in ginocchio sul sedile che lo guardava inorridita, come se neanche lei lo riconoscesse più. Sudavo freddo mentre i passeggeri, presi dal panico, si accalcavano e spintonavano per rintanarsi in fondo alla cabina. Davanti a me, i pochi rimasti si erano rannicchiati con le braccia sopra la testa per proteggersi. Gli uomini della squadra facevano muro alle mie spalle, i fucili appoggiati sullo schienale dei sedili. Garcia dava le spalle alla cabina di pilotaggio. Non si poteva muovere né in avanti né indietro, ma poteva fare del male praticamente a chiunque di noi, in quello spazio ristretto. Prima fra tutte alla hostess che teneva per i capelli. Glieli strinse con ancora più forza. Vidi una goccia di sangue scivolare sul collo della ragazza e macchiare il colletto bianco della camicia. La hostess gemette, in punta di piedi. Lessi il nome che aveva sulla targhetta. «Tranquilla, Krista», le dissi, guardandola negli occhi pieni di lacrime. «La lasci, Dennis. Lei non ammazzerà nessuno. Usciremo tutti di qui sani e salvi.» In quel momento, la porta della cabina di pilotaggio si aprì con un sibilo alle spalle di Garcia e spuntò un giovane assistente di volo con una mazza in pugno, sollevata sopra la spalla. Garcia si voltò, allentando leggermente la presa sulla hostess, che si di-
menò cercando di liberarsi. In quella frazione di secondo, agii. Presi la mira e premetti il grilletto colpendo la spalla di Garcia con una scarica da cinquantamila volt, sufficiente a mettere fuori combattimento un rinoceronte. Garcia lanciò un urlo e cadde, rannicchiato in posizione fetale. Gli andai vicino, puntandogli il Taser alla testa, mentre Jacobi lo ammanettava. «Lei è in arresto per tentato omicidio», dissi a Garcia, che mugolava ai miei piedi. «Ha diritto a non rispondere. Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei.» E lo sarà certamente. 133 Erano le nove passate, quando Jacobi e io portammo Dennis Garcia e Maureen O'Mara in centrale, ammanettati. «La caduta degli dei», sentenziò Jacobi. Ero stanca morta, allo stremo delle forze, ma l'eccitazione mi teneva su: avevamo arrestato Garcia per tentato omicidio, porto di arma letale, resistenza a pubblico ufficiale. Non poteva più uccidere i pazienti del Municipal Hospital. E nemmeno abbronzarsi sulle spiagge di Rio. Maureen O'Mara era accusata di associazione per delinquere, ma era un bluff e lei lo sapeva. Non avevamo nessuna prova che avesse assistito a un reato o anche solo visto il sangue a casa di Garcia. Venti minuti dopo il nostro arrivo, leggeva tranquillamente un libro, rifiutandosi di aprire bocca, in attesa che uno dei soci del suo studio formalizzasse le pratiche per il rilascio su cauzione. Ma noi non avevamo ancora finito con lei. Mi tremavano ancora un po' le ginocchia. Andai in bagno, mi lavai mani e faccia e mi sistemai i capelli. L'ultima volta che avevo mangiato risaliva a subito dopo che Noddie Wilkins mi aveva chiamata per dirmi che era morto Jamie Sweet: una barretta ai cereali. Mi sembrava fosse passata una settimana. Raggiunsi Jacobi nel mio ufficio. Avevamo appena ordinato una pizza extralarge con le polpette, quando Sonja Engstrom mi richiamò. Anche lei stava facendo le ore piccole sul lavoro. «Stiamo controllando l'archivio del computer della farmacia ospedaliera
byte per byte», mi annunciò con il suo tono sicuro. «L'ospedale è attivamente impegnato nella ricerca della verità.» «Mi fa piacere.» «Se Dennis ha manomesso il sistema informatico, è un assassino che agiva da solo. La polizia se lo può pure tenere», disse. «Siamo più che disponibili a collaborare con le forze dell'ordine.» Non avevamo nessuna prova che Garcia avesse ucciso qualcuno al Municipal Hospital. Avrei tanto voluto che potessimo controllare noi il computer dell'ospedale, ma sapevo già che cosa mi avrebbe risposto il procuratore. Vuole che scandagliamo tre anni di dati? Chi ci mandiamo, tenente? Non abbiamo mica tempo, soldi e personale per simili partite di pesca, sa? Se l'ospedale l'avesse sostenuta, però, forse la dottoressa Engstrom ci avrebbe potuto aiutare. Le dissi: «Sonja, per favore non bruci, cancelli, distrugga o alteri nulla. Se individua un modello o trova qualcosa, posso andare dal procuratore. Mi raccomando». Avevo appena finito di augurarle buon lavoro, quando arrivò la telefonata di Conklin. Aveva la voce trionfante. «Tenente, ho davanti a me la macchina di Garcia.» 134 Mi chinai in avanti e battei la mano sulla scrivania per attirare l'attenzione di Jacobi, poi attivai il vivavoce. «La Mercedes di Garcia è nel parcheggio lunga sosta dell'aeroporto», disse Conklin. «Non l'abbiamo toccata.» «Perfetto. Che cosa hai visto?» «Dentro non c'è niente, a parte un giornale per terra, davanti al sedile dalla parte del passeggero. Portiere e bagagliaio sono chiusi.» «Resta dove sei e non toccare niente», gli dissi. «Seguiamo il regolamento alla lettera.» Avevo alcuni amici in procura e ne trovai uno abbastanza giovane, convincente e coraggioso da essere disposto a chiamare un giudice dopo l'ora di cena. Tre quarti d'ora dopo avevo un mandato di perquisizione. Chiamai Conklin. «Apri il bagagliaio», gli dissi. «Io resto in linea.» Lo sentii parlare un attimo con McNeil, quindi mi arrivarono il rumore
del grimaldello che faceva scattare la serratura e l'imprecazione di McNeil. «Oh, merda!» «Conklin? Conklin?» Avevo afferrato il bordo della scrivania e stringevo talmente che avevo le nocche bianche. Quando mi rispose, Rich era senza fiato. «C'è un cadavere, tenente. Avvolto in una trapunta.» Guardai Jacobi. Non ebbi bisogno di dire che cosa pensavo, perché sapevo che lo pensava anche lui. Avevamo trovato il morto. Ma chi era? «Hai controllato il polso?» «Sì, tenente. È morto. Maschio, bianco, capelli castani, sulla trentina. Coperto di sangue dalla testa ai piedi.» «Chiudete la zona al traffico e restate lì finché non arrivano medico legale e Scientifica», dissi. «La macchina va ai laboratori. Rich, mi raccomando, che la trattino come un bambino.» 135 Erano le undici di sera di una delle giornate più lunghe della mia vita e Jacobi e io eravamo con Garcia nella sala degli interrogatori. Puzzavamo tutti e tre di sudore. La luce sopra di noi faceva danzare le ombre sulle mattonelle grigie alle pareti. Se io ero stravolta, Garcia non era da meno. Sembrava un gargoyle: con la faccia feroce, deforme, e muto come la pietra. Lo odiavo talmente che avevo voglia di dargli un pizzicotto e fargli del male, farlo gridare di dolore. Invece gli diedi un Tylenol, un bicchier d'acqua e del ghiaccio da mettersi sulla spalla, che si stava gonfiando. Lui, in cambio, non mi aveva ancora dato nulla. Con un'arroganza incredibile, si rifiutava nella maniera più assoluta di collaborare, nonostante gli avessimo trovato un cadavere in macchina. «Dovresti pensare un po' più a te stesso, sai, Dennis», dissi, dandogli del tu perché sapevo che gli dava fastidio. «Dovrei fare una lastra.» «Già.» «Sono abbastanza sicuro che la mascella sia rotta. Potrei avere anche una commozione cerebrale.» «E come te la saresti procurata?» intervenne Jacobi, tamburellando la
matita sul tavolo e producendo un suono fastidiosissimo, oltre che vagamente minaccioso. Pensai che, se l'avessi lasciato solo con Garcia, forse l'avrebbe sbattuto contro il muro. Magari gli avrebbe fatto la pelle. Presi una sedia e mi sedetti. «Immagino che il tipo sia venuto per scambiare due parole con te», continuò Jacobi. «Che cosa ti ha detto? 'Hai ammazzato mio figlio'? 'Il mio bambino è morto per colpa tua'? E poi ti ha dato quel vaso sulla testa e tu hai perso il controllo?» «Voglio un medico», disse Garcia con voce impastata. «Sto male. Ho bisogno di un medico.» «Certamente», feci io. «Nessun problema. Devi sapere che abbiamo trovato del sangue sulle suole delle scarpe di Maureen, però.» Mentivo. «Appena arriverà il procuratore distrettuale, Maureen racconterà tutto quello che è successo a casa tua stamattina, che lei è arrivata e ti ha sorpreso a commettere un omicidio. Ammetterà il concorso nel reato e testimonierà contro di te al processo. Se la caverà con un paio di anni di carcere. Tu, invece, rischi l'iniezione letale. È questo che vuoi? O preferisci darci la tua versione adesso, magari spiegandoci che è stata legittima difesa? Perché se parli adesso, terremo conto del fatto che hai collaborato. E forse riuscirai a salvare la pellaccia.» «Sul serio?» gracchiò Garcia. «Sì, non sto scherzando.» Pensavo a Martin Sweet, a quando, in preda alla disperazione, aveva gridato: «Ammazzerei tutti, ammazzerei». Dennis Garcia lo aveva preceduto. «Scusatemi», mormorò Garcia con un filo di voce. Poi si alzò e si guardò in giro. Stavo per prenderlo per il bavero e spingerlo di nuovo a sedere, ma si inginocchiò e vomitò nel cestino della carta straccia. Dopo che i conati si furono calmati, alzò la testa e dichiarò: «Voglio un avvocato». Jacobi e io ci scambiammo un'occhiata disgustata. L'interrogatorio era finito. Mi alzai in piedi, spingendo con un piede la sedia, che si bloccò contro la gamba del tavolo. L'afferrai e la spostai rumorosamente. Mi resi conto che stavo per trascendere: non mi interessava più che di là del vetro mi stessero guardando. Mi chinai, posai le mani sulle ginocchia, avvicinai la faccia a quella di
Garcia e gli sputai addosso tutto quello che volevo dirgli da un pezzo. «Io lo conoscevo, quello che hai ammazzato a coltellate, schifoso pezzo di merda! Ci siamo parlati dopo che aveva perso suo figlio per una banalissima frattura. L'hai visto tu, quel bambino, quando è stato ammesso al pronto soccorso? Pesava sì e no venti chili. L'hanno trovato morto con due bottoni di metallo sugli occhi.» «Non so di cosa stia parlando», fece Garcia. «Non sa di cosa sto parlando», dissi a Jacobi, mentre Garcia tornava al suo posto barcollando, ammanettato. «Non sa niente dei bottoni. E nemmeno del cadavere di Martin Sweet nel bagagliaio della sua macchina. Non sa nemmeno quanto sappiamo essere tenaci noi, però. Non sa che non ci arrendiamo tanto facilmente.» «Chiamo un'ambulanza», annunciò Jacobi. Io sbattei il cellulare sul tavolo, davanti a Garcia. «Ecco qua, chiama il tuo avvocato. Digli che sei stato arrestato per l'omicidio di Martin Sweet e dagli appuntamento al pronto soccorso del Municipal Hospital, dove ti troverà ammanettato alla barella e piantonato da un agente. Digli che abbiamo abbastanza prove per farti condannare a cento processi. Digli che ti stiamo per inchiodare.» Mentre mi mettevo la giacca, Garcia trafficava con la pulsantiera del mio Nextel, sbagliava, ricominciava. Lo lasciai lì insieme a Jacobi. Prima di uscire, sentii che piangeva. 136 Avevo ancora davanti agli occhi la faccia pesta di Garcia, mentre tornavo a casa rammaricandomi che Yuki non fosse stata dietro quel vetro a vedere Garcia vomitare e piangere come un bambino. Per paura? Autocompassione? Non me ne fregava niente. Speravo che soffrisse. Era un bastardo, un assassino che aveva già cercato di scappare. Gli avrebbero fissato una cauzione esorbitante, ma non era escluso che il lunedì mattina potesse essere già fuori. Avrebbe passato un umiliante fine settimana ammanettato in un letto di ospedale e tutti i suoi colleghi avrebbero visto il suo lato più oscuro. Sarebbe stato un lunghissimo weekend, per il dottor Garcia. Per me, invece, sarebbe passato in un baleno.
Percorsi Sixteenth Street e svoltai in Missouri Street, passai davanti alle belle case vittoriane di Potrero Hill, illuminate dalla luna, e pensai alla lunga doccia che mi sarei fatta appena tornata a casa, seguita da sei ore filate di sonno per farmi trovare pronta e riposata da Joe. Sorrisi al pensiero di passare un po' di tempo con lui, pregustando già di posargli la testa sulla spalla e tenerlo per mano, immaginando i nostri baci sempre più appassionati. Avremmo parlato di tante cose... Non vedevo l'ora di raccontargli quella terribile giornata, per esempio, le diciotto ore con l'adrenalina a mille conclusesi con l'arresto dell'assassino. Parcheggiai a quattro portoni dal mio e arrancai su per la salita e la scala che portava alla mia casetta con vista sulla baia. Sotto la doccia parlai un po' con Martha e le confidai quanto mi pesava non avere una vita privata. Lei mi rispondeva e facemmo una bella conversazione. Avrei giurato che si stesse lamentando che la sua dog-sitter le voleva più bene di quanto gliene volessi io. Cercai di rassicurarla. Una ventina di minuti dopo mi stesi nuda sotto le coperte e mi apprestai a spegnere la luce. Fu allora che notai che la spia della segreteria telefonica lampeggiava. Per un attimo fui tentata di lasciar perdere, ma poi mi imposi di premere PLAY, sapendo che altrimenti la lucetta intermittente mi avrebbe disturbato il sonno. «Ciao, Lindsay, sono io», esordì la voce registrata di Joe. Sospirai, ripensando alla sua faccia e percependo il suo tono dispiaciuto. Non dovevano essere belle notizie. «Tesoro, scusami. Ho preso il volo prima per arrivare presto e farti una sorpresa, ma è successo un pasticcio, l'aeroporto era chiuso, ci hanno dirottato su un'altra città. Nel frattempo mi hanno chiamato dalla sede dicendo che c'era stato un cambiamento di programma e adesso sono in volo per Hong Kong.» Sentii in sottofondo la voce del pilota che avvertiva i passeggeri di spegnere i cellulari. La voce di Joe diceva: «Ti richiamo appena atterro, così ci mettiamo d'accordo per quando ci vediamo. Presto, vedrai, e per più tempo. Non ti arrabbiare con me, Lindsay. Ti amo». Un clic, poi scattò il segnale di occupato. Riascoltai il messaggio, la voce di Joe. Ci sarebbe stato da ridere, se non
mi fosse venuto da piangere: il «pasticcio» all'aeroporto di cui parlava Joe ero io che arrestavo Garcia. 137 Quel sabato sera Claire, Cindy e io andammo al Bix, un ristorante seminascosto in Gold Street, noto oltre che per la sua cucina, per gli arredi in stile liberty, che ricordavano gli spacci clandestini dei tempi del proibizionismo e le eleganti navi a vapore degli anni '30 e '40. Avevamo scelto il nostro tavolo preferito in un séparé nel mezzanino, da cui si godeva una vista interessante sul piano sottostante, dove c'era il bar. Avevo spento il cellulare e mi stavo godendo un martini cocktail perfetto. Erano passate venti ore da quando avevamo arrestato Garcia e Maureen O'Mara, ed ero ancora stanca morta. Ero anche molto preoccupata per Yuki, che era in ritardo di mezz'ora. Claire, seduta vicino a me, mi stava prendendo in giro. «Mi sembri a corto di vitamine, ragazza mia: dovresti prenderne un po'. Quand'è che ti viene a trovare il tuo stallone?» Risi. «Abbiamo giurato di tenerci liberi il prossimo weekend. Cadesse il mondo, il prossimo fine settimana lo passeremo insieme. Hai doti paranormali, Butterfly?» «Sì», rispose Claire. «Anche se non mi consentono di capire che fine ha fatto il dottor Garcia. Dai, raccontaci tutto. Non dobbiamo per forza aspettare Yuki.» Capii che non mi avrebbero dato scampo: Cindy e Claire mi guardavano fisso negli occhi. Bevvi un sorso, posai il bicchiere e cominciai a raccontare alle mie amiche l'arresto rocambolesco all'aeroporto. «Maureen O'Mara è disposta a patteggiare», spiegai. «Lei e Garcia erano d'accordo, al processo contro il Municipal Hospital. Avevano programmato tutto: quando lui ha invocato il Quinto Emendamento...» «Erano complici?» domandò Cindy. «Già. Garcia aveva il compito di mettere i giurati contro l'ospedale, in maniera che Maureen O'Mara ottenesse il risarcimento. Naturalmente poi hanno diviso il bottino. In più, lei era innamorata del bel dottore.» «Va contro ogni logica...» mormorò Claire. «Ti capisco. Ma, nella sua mente malata, Maureen sognava di fuggire con lui e vivere per sempre felici e contenti.»
«Invece Garcia l'ha scaricata», concluse Cindy tirando a indovinare. «Ci ha provato», la corressi. «Era bello e pronto per partire, quando si è ritrovato in casa Martin Sweet, incazzato come una belva, che deve avergli dato un vaso di cristallo sulla testa.» «Ahia!» fece Cindy. «Infatti. Così anche Garcia si è incazzato e l'ha fatto fuori. Quante coltellate gli ha dato, Butterfly?» chiesi a Claire. «Quarantadue. Gli ha praticamente staccato la testa dal collo.» Annuii, pronta a continuare il mio racconto. «Maureen ha raccontato che, quando Garcia le ha dato il benservito, lei ha preso la macchina ed è andata da lui sperando di fargli cambiare idea. E l'ha trovato che cercava di nascondere il cadavere di Martin Sweet nel bagagliaio della sua macchina. Così si è guadagnata un posto sull'aereo per il Brasile con Garcia.» «Il quale, appena arrivati, le avrebbe fatto la pelle, immagino», osservò Cindy. «Lo credo anch'io. Probabilmente, le abbiamo salvato la vita.» «E chi è l'assassino del Municipal Hospital? State ancora indagando?» domandò Cindy. «Non ufficialmente», risposi io. «Ho un'idea, però. Una pista che promette bene.» Spiegai che Sonja Engstrom ci stava dando una mano. «Ha ingaggiato un team di informatici esperti di sicurezza, che stanno rivoltando come calzini i loro computer. Per Garcia la situazione non può che peggiorare. Maureen O'Mara verrà radiata dall'albo. È colpevole di truffa, associazione per delinquere, corruzione di testimoni e chi più ne ha più ne metta.» «Hai fatto un ottimo lavoro, Lindsay», disse Claire. «Incredibile», le fece eco Cindy scuotendo la testa di riccioli biondi. «Siamo fiere di te.» «Non ho mica fatto tutto da sola! Non è solo merito mio se...» «Ma smettila! Sei la migliore!» esclamò Claire, alzando il bicchiere per brindare alla mia salute. Mentre le mie amiche continuavano a congratularsi con me, mettendomi in imbarazzo, arrivò Yuki. Mi si sedette vicino, ma io quasi non la riconobbi. 138 Yuki era in forma smagliante.
Aveva i capelli lucidi, la pelle luminosa e si era messa un abito nero piuttosto scollato che la rendeva più sexy del solito. Si scusò per il ritardo, le era successa una cosa proprio all'ultimo e non era riuscita ad avvisarci. Dopo la cena, mentre prendevamo il caffè e mangiavamo il dessert, mi resi conto che mi sentivo meglio ed ero più rilassata: la compagnia delle mie amiche mi faceva bene. Avevo appena infilato il cucchiaio nella mousse al cioccolato quando Yuki disse, un po' intimidita: «Ho una grande notizia». «Sentiamo», la spronò Cindy. Yuki sorrise e rimase un attimo in silenzio, prima di cominciare. «Mi sono licenziata dallo studio Duffy & Rogers. Ho cambiato lavoro.» La tempestammo di domande. Yuki scoppiò in una risata che non le sentivo fare da tanto tempo. «Sono stufa di fare l'avvocato difensore. Voglio passare dall'altra parte della barricata e fare il pubblico ministero», spiegò. «Voglio mandare in galera i criminali. Da lunedì comincio a lavorare in procura. È ufficiale. Volete vedere il cartellino?» L'applaudimmo, fra abbracci e congratulazioni. Ero felicissima per la mia amica: sarebbe stato un cambiamento importante nella sua vita ed ero certa che le soddisfazioni del nuovo lavoro avrebbero più che ripagato il fatto che avrebbe guadagnato di meno. Yuki sarebbe diventata un ottimo procuratore e avrebbe fatto una bella carriera. «A Yuki», dissi, alzando la tazzina del caffè. Le mie amiche si unirono al brindisi. «Mandiamoli tutti in galera!» Cominciò la musica e la bella cantante del piano bar intonò Sentimental Journey. Mi appoggiai allo schienale, godendomi quel momento di pura felicità. Dopo un attimo, smisi di seguire la musica e mi ritrovai a pensare a Dennis Garcia. Era un uomo estremamente complicato. Che avesse una doppia personalità? Un lato oscuro capace di uccidere sia selvaggiamente come nel caso di Martin Sweet sia in modo tanto subdolo da impedirci persino di accertare oltre ogni dubbio che quelle del Municipal Hospital fossero morti violente? Forse non l'avremmo mai scoperto. Un'idea, però, ce l'avevo. Chissà che non portasse a qualcosa. «A cosa stai pensando, Lindsay?» mi chiese Claire.
«Niente, scusa, ero distratta», risposi. Lei mi prese per mano. «Dai, dimmelo.» «Stavo pensando a Garcia e al suo sguardo da pazzo», ammisi. «Ha cinquant'anni e morirà in galera. Non farà più del male a nessuno.» Yuki mi abbracciò forte. «Non so come ringraziarti», mi disse. «Hai preso veramente a cuore la storia di mia madre. Grazie di aver arrestato Garcia.» Prese fiato, poi sospirò e aggiunse: «Quando tornò dalla guerra, mio padre era molto diverso da prima... Raccontò a mia madre dei quattro cavalieri dell'Apocalisse: Carestia, Morte, Epidemia e Guerra, sapete? E disse che secondo lui ce n'era un quinto, l'Uomo, che era il più pericoloso di tutti. Tu l'hai preso, Lindsay. Garcia era il quinto cavaliere dell'Apocalisse». EPILOGO UNA QUESTIONE ANCORA IN SOSPESO 139 Stava per iniziare il turno da mezzanotte alle otto, al Peachtree Hospital di Atlanta. L'infermiera entrò nella camera singola del reparto di cardiologia e al buio si avvicinò alla paziente, che non riusciva a dormire. Accese la luce sul comodino. «Come va, cara?» «Come ieri. Sono depressa», rispose Melinda Cane, una signora di mezz'età, bianca, con le mèche bionde, che presto si sarebbe fatta un lifting o almeno qualche iniezione di botulino. «Ora che Frank è morto e i ragazzi sono andati a stare per conto loro, posso pure andarmene all'altro mondo anch'io.» Giocherellava con la vera al dito, quasi in tal modo potesse riportare in vita il marito. «Vede? Non ho nemmeno un fiore. Nessuno pensa a me.» «Non si preoccupi», disse l'infermiera. «Le ho portato qualcosa per dormire.» «Luz, mi tiene compagnia, mentre mi addormento?» chiese la signora Cane. «Va bene. Ora prenda la medicina. Io faccio il giro dei pazienti e poi torno qui.» Melinda Cane sorrise, prese le pastiglie e le buttò giù tutte insieme con
un bicchiere d'acqua. L'infermiera rimboccò le coperte alla malata, pensando che la sua nuova identità le piaceva moltissimo. Era stato fin troppo facile procurarsi dei nuovi documenti. Le erano costati solo 175 dollari. Non che i controlli sul personale infermieristico fossero mai troppo accurati, però... Si allontanò con il carrello e fece il giro del reparto, controllando i pazienti, dando loro la terapia e la buonanotte. Poi tornò da Melinda Cane. Chiuse la porta e si avvicinò al letto: la donna stava cominciando a respirare affannosamente. Melinda Cane tese una mano verso di lei, facendole segno che si sentiva male. «Mi manca l'aria», rantolò. «Mi aiuti, Luz!» L'ombra nella notte la prese per mano. «Tranquilla, cara. Sono qui.» Melinda Cane era tutta contratta nello sforzo di riempirsi di aria i polmoni e stringeva fra le dita il lenzuolo. L'oppiaceo le stava bloccando il sistema nervoso centrale. Guardava l'infermiera allibita. Cercò di liberarsi la mano per premere il pulsante delle emergenze. L'infermiera glielo allontanò, ma rimase con lei tutto il tempo, accarezzandole i capelli. Quando arrivarono gli spasmi, non perse la calma e rimase a guardare. Nel giro di pochi attimi, Melinda Cane si immobilizzò. Luz Santiago era il nuovo nome di Marie St. Germaine, che prima si era chiamata anche Yamilde Ruiz e LaRaine Johnson, il nome con cui era stata battezzata a Pensacola, in Florida. Era un dono, il suo: avere potere di vita e di morte e anche sapersi rendere invisibile. Compose la salma, sistemò le coperte e quindi tirò fuori dalla tasca una bambolina nera. Era lì che nascondeva i bottoni, dentro la bambolina di lana grezza. Ne estrasse due e li posò sulle palpebre della morta, ammirando il simbolo che vi era raffigurato, i serpenti avvolti sulla verga alata, l'emblema della medicina. «Buonanotte, principessa», sussurrò. «Buonanotte.» Uscì nel corridoio. E trovò ad aspettarla la polizia. Erano in cinque o sei, e c'era anche il tenente della California. Se la ricordava. La mano sulla spalla la sorprese ancor di più della vista dei poliziotti. Si voltò e vide Melinda Cane. Era viva e vegeta, e aveva in mano una pistola.
«Mani in alto, Luz, o comunque ti chiami. Sei in arresto per tentato omicidio. A proposito, piacere. Ispettore Cane.» La poliziotta della squadra Omicidi di Atlanta sorrise. «Ricorderai il tenente Lindsay Boxer di San Francisco. È stata lei a scoprire chi eri.» RINGRAZIAMENTI La nostra gratitudine e i nostri ringraziamenti vanno al dottor Humphrey Germaniuk, medico legale della contea di Trumbull, Ohio, per averci aperto le porte dell'arte e della scienza della patologia forense, al capitano Richard Conklin del Bureau of Investigations di Stamford, Connecticut, e al nostro consulente medico, il dottor Allen Ross di Montague, Massachusetts. Desideriamo inoltre ringraziare gli avvocati Philip R. Hoffman, Kathy Emmett e Marty White per averci aiutato con la loro esperienza legale e giuridica. Un grazie particolare, infine, a Lynn Colonnello, Ellie Shurtleff e Yukie Kito, ottime ricercatrici, e all'insostituibile Mary Jordan. FINE