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I Longobardi nelle Marche. Problemi di storia dell'insediamento e delle istituzioni (secoli VI-VIII) 1. Il problema delle fonti Le fonti sulla presenza dei Longobardi entro un quadro geografico marchigiano, relative al periodo della loro dominazione in Italia, sono estremamente scarse. L'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che rimane la principale fonte narrativa sulla storia del regno longobardo da Alboino a Liutprando, prende in considerazione la Flaminia, il Piceno e le province circostanti solo per ricordare eventi di importanza militare, qualificando così quest'area come zona di attrito tra Longobardi e Romani (termine, quest'ultimo, col quale si indicavano allora i sudditi dell'Impero d'Oriente). Dal punto di vista istituzionale lo storico dei Longobardi, meglio al corrente delle vicende concernenti il ducato friulano, la corte di Pavia e il ducato di Benevento, si interessa del ducato di Spoleto, che includeva buona parte delle attuali Marche, unicamente per registrare alcuni avvicendamenti nella carica ducale. Si diffondono di più sulle prime fasi dell'invasione longobarda nell'Italia centrale le fonti romane utilizzate dallo stesso Paolo, vale a dire, per citare le più importanti, le epistole e i Dialogi di Gregorio Magno e le biografie dei pontefici raccolte nel Liber pontificalis. Gregorio I fu testimone a distanza dei momenti più drammatici dell'occupazione longobarda della penisola, nonché l'iniziatore dell'opera di conversione di quel popolo al cattolicesimo e fautore della pace tra Longobardi e Romani. Il suo punto di osservazione rimane però Roma, mentre i suoi interlocutori sono rappresentati in primo luogo da esponenti delle chiese locali, quindi da magistrati cittadini, funzionari e comandanti militari dell'esarcato d'Italia: individui orientati secondo una visuale romana e antibarbarica, sconcertati perciò di fronte alle profonde tràsformazioni in atto nei territori occupati dal nemico. Anche il Liber pontificalis espone i principali eventi politici, diplomatici e militari - che toccarono marginalmente, alla fine del secolo VI e quindi nell'VIII, I'area pentapolitana - con decisa pregiudiziale antilongobarda, rivelando altresì una crescente ostilità nei confronti della stessa corte di Costantinopoli. Le fonti geografiche greche e latine si dimostrano le più insicure in tema di geografia politica marchigiana, o perché poco o per nulla aggiornate rispetto ai testi dai quali dipendono oppure perché malamente interpolate con dati di dubbia valenza amministrativa e di difficile datazione. A loro volta le fonti documentarie non sono in grado, a causa della loro assoluta penuria, di colmare i vuoti delle altre fonti scritte. Anche nel campo della produzione documentaria l'invasione longobarda determinò nei territori conquistati una rottura significativa rispetto alla preesistente tradizione giuridica e scrittoria, mentre nella Romània sembra che non si registri soluzione di continuità nella redazione dei documenti e, più in generale, nella pratica scrittoria: al punto che lo iato nella produzione documentaria nella Langobardia dalla seconda metà del VI fino al pieno secolo VIII - pur con l'eccezione di alcune aree circoscritte in cui i documenti ricompaiono già verso la metà del VII appare come uno dei caratteri distintivi di quest'area rispetto ai territori bizantini. Il cospicuo fondo arcivescovile ravennate, da cui provengono i papiri documentari magistralmente pubblicati dal Tjader, le pergamene e il Breviarium (meglio noto come "Codice Bavaro"), sta a confermare tale assunto. Ovviamente a beneficiare di tali fonti è quasi unicamente lo studio del settore pentapolitano, ivi comprendendo anche Rimini, Gubbio e Perugia. Un quadro ben diverso presenta l'Italia longobarda, nella quale l'eccezione è rappresentata da Lucca, dal cui archivio arcivescovile sono stati tratti ben 156 dei 266 documenti editi nei primi due volumi del Codice diplomatico longobardo dallo Schiaparelli per il periodo che va dal 685 al 774. Non è il caso di affrontare in questa sede l'analisi delle cause, legate ad ogni modo alla persistenza dell'urbanesimo antico, che determinarono così diversi atteggiamenti culturali tra Romània e Langobardia. Converrà piuttosto far rilevare come il territorio marchigiano sia probabilmente rimasto per lungo tempo estraneo alla rinascita della cultura scritta verificatasi precocemente nella Tuscia Langobardorum. Gli scarsi documenti, riguardanti in qualche modo territori marchigiani toccati dall'insediamento longobardo, sono infatti costituiti da due diplomi regi di Desiderio e Adelchi, redatti rispettivamente a Pavia e a
Brescia; inoltre da pochi altri documenti farfensi già editi più di un secolo fa da Giorgi e Balzani ne Il Regesto di Farfa, alcuni dei quali ripubblicati da H. Zielinski nei successivi volumi del Codice diplomatico longobardo. Per completare il quadro delle fonti scritte del periodo si aggiungerà che anche l'apporto delle epigrafi marchigiane è piuttosto modesto. Il campo delle fonti non scritte si presenta più ricco, ma non per questo rneno problematico. Premesso che il lavoro storiografico debba necessariamente prevedere l'esercizio combinatorio di fonti di vario genere, ivi compresi i relitti linguistici (in particolare i toponimi, ma anche le dedicazioni delle chiese) e i resti manufatti, va ribadito che l'utilizzo di queste testimonianze si presenta irto di insidie. Alcuni studiosi marchigiani hanno battuto la strada della toponomastica, ma i dati tratti da una ricerca di questo tipo si rivelano insicuri se non sorretti da un più variegato contesto di fonti. Diverse voci germaniche si sono fissate sul territorio lungo un arco di tempo assai ampio, a volte dopo la fine del regno longobardo. Esse perciò non presuppongono di necessità un insediamento longobardo risalente alle prime fasi della conquista o ad una qualche fase databile sulla sola base linguistica. L'unico settore della ricerca longobardistica da cui si attendono ancora risultati e sorprese è quello dell'archeologia 1. Bisogna però notare con rammarico che, dalla scoperta della necropoli di Castel Trosino nel 1893 ad oggi, non si è fatto molto nelle Marche per sviluppare la ricerca sul campo. D'altronde le prospettive future sembrano in gran parte compromesse dagli effetti devastanti di un uso distorto del territorio urbano e rurale (espansione edilizia, lavori agricoli in profondità), un processo che negli ultimi decenni è proceduto in questa regione con ritmi impressionanti. 2. L’assetto amministrativo della regione alla vigilia dell'inuasione longobarda Va premesso che l'attuale regione delle Marche costituisce in questa sede un mero quadro di riferimento geografico, non corrispondendo ad alcuna ripartizione amministrativa dell'Impero romano. Questo settore dè`1 versante adriatico, pur rivelando notevole uniformità dal punto di vista fisico, ha conosciuto sin da fasi protostoriche un netto confine etno-linguistico tra area gallica e area picena, confine che correva all'incirca all'altezza di Ancona e che fu fissato dalle autorità romane sul fiume Esino. A nord di tale fiume l'imperatore Augusto pose la regio V7 (Umbria et ager Gallicus) 2, mentre a sud si estendeva la regio V (Picenum) 3. Con la riforma amministrativa di Diocleziano le due regioni furono unite nell'unica provincia della Flaminia et Picenum 4, nella quale, però, ognuna delle due parti conservava il proprio coronimo. Ma al più tardi all'inizio del secolo V avvenne lo smembramento della regione in Flaminia et Picenum annonarium includente anche Ravenna, e Picenum suburbicarium, il quale si estendeva fino ad Adria e Penne, con confine di nuovo all'Esino 5. Tale divisione, oltre a riflettere l'antico confine etno-linguistico, ricalcava anche i confini di una frattura economica e sociale fra Italia settentrionale, gravitante attorno a Milano e Ravenna e caratterizzata dall'assetto annonario in virtù della sua importanza militare ed economica, e Italia centro-meridionale, gravitante su Roma e che aveva mostrato più precocemente i segni di un declino economico e demografico 6, quantunque alcuni indizi rivelino che la produzione agraria e silvo-pastorale del Piceno riuscisse a conservare in quest'ambito una sua autosufficienza 7. Ma questa situazione di relativa floridezza mutò radicalmente durante la guerra goto-bizantina quando scontri, assedi e devastazioni investirono in maniera particolarmente intensa il settore adriatico da Rimini ad Ascoli, producendo «il collasso economico di una regione agricola» 8. 3. I primi momeni dell'occupazione militare Questa rapida puntualizzazione delle differenziazioni esistenti tra Nord e Sud dell'area marchigiana, rilevabili per il periodo che precede immediatamente la data del 568-69, torna utile quando si affronta il tema specifico dell'insediamento longobardo nelle Marche. I dati delle fonti narrative utilizzabili per ricostruire le fasi e le modalità dell'ingresso dei Longobardi nelle province Flaminia
et Picenum annonarium e Picenum suburbicarium sono assai lacunosi e si prestano ad interpretazioni divergenti. Tuttavia gli eventi ai quali essi si riferiscono sono concentrati in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, gli ultimi tre decenni del secolo VI; per cui è pensabile che gruppi germanicu siano effettivamente penetrati in alcune vallate marchigiane in questo periodo. D'altronde anche i materiali della necropoli di Castel Trosino sembrano confermare tale cronologia 9. L'unico evento sul quale l'Historia Langobardorum si diffonde è la vittoria sui Bizantini conseguita a Camerino da Ariulfo, secondo duca di Spoleto, attorno al 591 10. Ma ciò che colpisce l'autore non è tanto il fatto militare in sé, quanto le sue implicazioni di carattere religioso: la prodigiosa apparizione del martire Sabino accanto al ducaspoletino durante lo scontro e il riconoscimento del celeste protettore da parte di Ariulfo nella basilica a questo dedicata in Spoleto 11. Perciò Paolo Diacono potrebbe aver ignorato o passato sotto silenzio altri eventi militari accaduti negli anni precedenti o seguenti la battaglia di Camerino. Il nome del condottiero e il luogo dello scontro, come anche l'attacco alla fortezza di Petra Pertusa al passo del Furlo riferito da Andrea Agnello ai primi anni del pontificato di Pietro seniore vescovo di Ravenna (c. 570-578) 12, fanno ritenere che i Longobardi provenissero dalla zona appenninica. D'altronde il ducato di Spoleto rappresentava nel 591 una forza reale, seppure dai contorni istituzionali ancora in via di definizione. Significativo è il fatto che proprio in quegli anni Gregorio Magno attesti l'interruzione della Flaminia, la via fondamentale per i collegamenti tra Roma e la costa adriatica, pro interpositione hostinm 13. Oal suo epistolario si apprende che i Longobardi avevano catturato alcuni cittadini di Fano, città adriatica posta su un punto nodale del medesimo percorso 14. Si suppone che nello stesso torno di anni sia stata occupata Osimo, di cui lo stesso pontefice ricorda la restituzione all'Impero per effetto della tregua del 598 15. È presumibile che anche Fano sia stata abbandonata dagli occupanti negli anni precedenti la stipulazione della tregua o per effetto di essa. Sulla base del testo di Paolo Diacono non è possibile, per i motivi detti poc'anzi, appurare se i Longobardi spoletini si siano aperta la strada verso il versante adriatico proprio grazie al successo di Camerino. Alcuni dati farebbero pensare che un episodio analogo a quello fanese (cattura di uomini e loro liberazione a seguito di pagamento di riscatto) si fosse già verificato a Fermo attorno al 580 16 e, d'altro canto, non si può escludere una direttrice di penetrazione più meridionale, per esempio lungo la via Salaria verso Ascoli e Castel Trosino. Ammettendo tuttavia che le schiere longobarde fossero nel 591 padrone della zona di Camerino, collegata al tratto umbro della Flaminia attraverso il passo di Colfiorito-Plestia, è lecito ipotizzare che di lì riuscissero a penetrare nell'alta valle dell'Esino 17 - un territorio che farà poi parte del gastaldato di Castel Petroso - e che quindi, attraverso la zona di Sentinum (presso l'odierna Sassoferrato), entrassero nell'alta valle del Cesano. Ed è probabile che l'incursione verso Fano sia stata attuata discendendo lungo quest'ultima vallata, e non lungo il Metauro dove, grazie alla presenza di gole e della strettoia fortificata del Furlo, era possibile bloccare la Flaminia in caso di avanzata nemica, come dimostrano alcuni episodi della guerra goto-bizantina 18. Altre possibili direttrici di penetrazione da Camerino sono le vallate fluviali del Potenza, che i Longobardi potrebbero aver scorso per giungere fino a Osimo e lungo la quale è attestato un altro gastaldato, quello di Settempeda 19, e del Chienti. 4. La Pentapoli In tali frangenti ciò che in queste regioni rimaneva dell'antico ordinamento provinciale fu definitivamente spazzato via. Cominciavano ad emergere due nuove realtà politico-istituzionali, la Pentapoli e il ducato di Spoleto, nel quadro della divisione della penisola italica in due grandi aree: quella occupata dai Longobardi (Langobardia) e l'altra rimasta sotto il dominio dell'Impero (Romaria). Nei territori romanici si avviò un riassetto amministrativo che, rispondendo alle necessità di una efficiente difesa militare, mirava all'accentramento delle funzioni civili e militari nelle stesse mani, mediante la subordinazione dei funzionari civili ai comandanti militari 20, Si trattava, nondimeno,
di una riforma svolgentesi nell'alveo della tradizione tardo-romana, quindi in sostanziale continuità con l'organizzazione economico-fondiaria e con l'intera vita sociale delle popolazioni, che continuavano a far perno sulle città 21, Già negli anni 80 del secolo VI appare costituito l'esarcato d'Italia 22, da cui dipendeva tutta l'Italia bizantina, fatta eccezione per le isole maggiori. Della provincia della Pentapoli, invece, si ha notizia soltanto dal 649 23, ma la sua istituzione dovrebbe essere coeva o di pochi anni posteriore a quella dell'esarcato 24, Compilare un elenco di città e centri minori facenti parte della Pentapoli, per cercare di intuirne l'estensione spaziale, è compito assai arduo 25, poiché una fonte geografica, come Giorgio di Cipro 26, Si riferisce a momenti non determinabili con sicurezza, ponendo altresì seri problemi di identificazione dei toponimi; mentre altre, come il Geografo Ravennate, sembrano rifarsi ad assetti anteriori al 568 quando intercalano città pentapolitane a municipi, a volte scomparsi, della Langobardia 27 Non meno ingannevole è l'elenco di città e castelli restituiti da re Astolfo a seguito del nuovo foedus di Pavia del 756, di cui l'abate Fulrado, incaricato da Pipino, prese possesso per consegnarli al beato Pietro e al suo vicario 28. Sembra tuttavia assodato che Rimini occupasse una posizione preminente all'interno della provincia, data la presenza in questa città di un dux, attestato nel 591 e poi ancora nel secolo VIII 29. Altre città lungo la costa adriatica, il cui governo sarebbe stato di norma affidato a un tribunus 30, dovettero essere Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona e Numana. In effetti dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del sinodo romano del 680 risultano quali città pentapolitane Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e Osimo, mentre ne è esclusa Jesi, il cui vescovo sottoscrive immediatamente dopo il presule di Spoleto e prima di quello di Camerino 31: ciò non apparirà strano, qualora si ponga mente al fatto che i Longobardi si erano incuneati nella valle dell'Esino già alla fine del VI secolo. Espressioni del tipo civitates urarumque Pentapoleos o Decapolis, rare nelle fonti dell'VIII secolo 32, le quali più sovente attestano la dizione unitaria di Pentapolis, non vanno intese come un riferimento alla divisione o sdoppiamento della provincia: esse rappresentano, sul piano letterario, il tentativo di approssimarsi alla consistenza poleografica della stessa. Le città della provincia pentapolense o ducatus Pentapolitanus non furono perciò cinque, e probabilmente nemmeno dieci, in quanto tali cifre sono state dedotte da termini puramente convenzionali esemplati dalla geografia del mondo antico 33. Pertanto la tesi circa l'esistenza di due distinte Pentapoli, l'una marittima e l'altra interna o annonaria, non risulta a mio avviso suffragata dalle fonti di età longobarda 34. Ci si dovrà chiedere, semmai, per quale ragione questo raggruppamento di città, le quali insistono all'incirca sul territorio della tardo-romana provincia della Flaminia, non abbia conservato quest'ultimo coronimo, come avrebbe imposto quel rispetto programmatico del mondo antico caratteristico della cultura medievale 35. L'unica spiegazione plausibile del cambiamento di denominazione è che la Flaminia avesse perso, per effetto dell'occupazione di alcune aree e della minaccia di ricorrenti incursioni da parte dei Longobardi, la sua originaria estensione e quindi la sua continuità territoriale. Occorreva pertanto un nome nuovo per indicare una realtà amministrativa assolutamente inedita: un sistema di città spesso private di un proprio territorio e funzionanti, quelle marittime, come teste di ponte per le comunicazioni da e per il mare; quelle interne, come fortezze lungo i percorsi stradali che collegavano la capitale esarcale Ravenna a Roma 36. Si può ben comprendere, allora, come sia parimenti arduo o forse impossibile, date l'incerta appartenenza di città e castelli e la fluidità della situazione nel corso di due secoli, tracciare precisi confini del ducato pentapolitano in un dato momento. Nel tentare l'impresa, il DieLl attribuì eccessivo territorio a «le Città» 37 (questo il significato storico-geografico di Pentapolis), mentre di recente il Baldetti, pur intuendo la vera natura della provincia, ha probabilmente ecceduto in senso contrario, oltre che nella ricostruzione particolareggiata 38. 5. I caratteri dell'insediamento longobardo La sottolineatura urbana del termine Pentapoli suggerisce un raffronto con i mutamenti intervenuti nel Piceno occupato dai Longobardi e con i caratteri dell'insediamento attuato da questo popolo. A
tutta prima appare in evidenza il fenomeno della scomparsa, o decadenza, dei centri urbani nelle Marche longobarde, mentre nella parte settentrionale della regione si registra la persistenza del fenomeno urbano. Fermo restando che tale persistenza costituisca uno dei principali tratti distintivi dell'intera area esarcale rispetto alla Langobardia 39, occorre meglio precisare i termini del confronto per non trarne deduzioni fuorvianti. Vi è da tener presente, innanzitutto, che il declino demografico e la crisi dell'urbanesimo sono fenomeni che hanno, nell'Italia antica, origini e cause assai lontane 40; inoltre che gli stessi fenomeni si manifestarono in modo più accentuato nelle regioni suburbicarie della penisola 41. I1 Piceno suburbicario è stato visto in questo senso come una regione a vocazione agricola. Già prima dell'invasione longobarda si verificava in alcune sue parti, come l'area compresa fra l'Aso e il Tesino 42 o come il territorio montano a nord-ovest di Ascoli 43, la scarsità o l'assenza di centri municipali. Per questi motivi sarebbe semplicistico incolpare i Longobardi della scomparsa di 12 città picene e di altre situate entro il frammentario dominio bizantino della Pentapoli, molte delle quali, rovinate durante la guerra goto-bizantina, apparivano in grave crisi nella seconda metà del VI secolo 44. D'altro canto tali vicende rivelano pure aspetti contraddittori poiché, se è vero che le città vescovili delle Marche di dominio longobardo rimasero appena tre (Camerino, Fermo e Ascoli), va aggiunto che soprattutto due di esse, Fermo e Camerino, assunsero nel corso dell'alto medioevo un ruolo politico-istituzionale ben più incisivo rispetto alle città pentapolitane, quasi che questi centri avessero polarizzato su di sé la vita e le istituzioni cittadine dell'intera regione picena. Ma vi è un altro aspetto sul quale conviene soffermarsi, l'altrettanto evidente decadenza delle città dell'area pentapolitana. Alcune di esse furono abbandonate (Cupra Montana e Planina nella valle dell'Esino, Ostra nella valle del Misa, Suasa nella valle del Cesano, Pitinum Mergens nella valle del Metauro-Candigliano, Pitinum Pisarense nella valle del Foglia); altre subirono una netta perdita di importanza (soprattutto Tifernum Mataurense e, in maniera meno accentuata, Forum Sempronii nella valle del Metauro) 45. Da quel poco che ci dicono le fonti si ricava l'impressione che nemmeno la situazione delle città marittime, e di quelle situate lungo il collegamento stradale Roma-Ravenna, fosse molto diversa 46. Ma queste ultime furono tenute in vita dalle autorità bizantine per esigenze strategico-militari e preservate così dal rischio di estinzione. Il loro carattere di piazzeforti risalta dal fatto che gran parte di esse vengono ormai equiparate a dei castra 47. E fu per la stessa ragione strategico-militare che i Longobardi abbandonarono al loro destino le città della costa a sud di Numana, ritenendole ormai indifendibili da attacchi dal mare, mentre le caratteristiche del loro insediamento e la cultura di cui essi erano portatori non lasciavano adito a interventi di rivitalizzazione delle morenti città dell'interno 48. Sul piano dell'evidenza archeologica il caso di Castel Trosino suggerisce l'ipotesi di un insediamento longobardo per castra nelle Marche 49; un'ipotesi che riceve conferma dall'ordinamento territoriale, se è vero che Castel Petroso (l'odierna Pierosara), sito alla confluenza dell'Esino con il suo affluente Sentino, divenne in seguito il centro di un gastaldato 50. Allo stesso modo che in altre regioni, i Longobardi si limitarono probabilmente ad occupare centri fortificati già esistenti, organizzati dall'Impero nel periodo in cui le prime incursioni barbariche avevano acuito l'esigenza della difesa territoriale in Italia 51. Un'ulteriore conferma della tendenza all'insediamento accentrato in luoghi naturalmente o artificialmente muniti è data dall'intenso processo di incastellamento che si manifesterà nei territori marchigiani di antico dominio longobardo almeno a partire dal secolo X. Tuttavia, se una caratteristica fondamentale di tale forma di insediamento consisteva nell'utilizzo di strutture già esistenti più che nella creazione di nuove, fermo restando il criterio di scelta strategicomilitare agli invasori si sarà offerta l'opportunità dell'occupazione di ville e fattorie, di villaggi rurali 52 e, da ultimo, delle città superstiti. Queste ultime, del resto, in quanto luoghi fortificati garantivano un ruolo non secondario nel contesto della difesa e del controllo dei territori su cui i Longobardi estesero il dominio. Esse poi, con il passaggio graduale dall'occupazione militare
all'insediamento stabile e con la trasformazione dei liberi longobardi in possessores e cives, ricominciarono ad esercitare nell'intera Langobardia un'attrazione verso la popolazione rurale 53. I relitti linguistici non offrono un contributo decisivo all'individuazione degli insediamenti barbarici nelle Marche. Presenti nella toponomasticama in misura piuttosto esigua se raffrontata con quella di altri territori del ducato di Spoleto - le voci longobarde fara e sala 54, Si nota invece una larghissima diffusione dei toponimi del tipo gualdo (dal germanico wald “bosco”) 55, il che potrebbe significare una prevalenza delle attività silvo-pastorali su quelle agricole, ma anche il perdurare di preoccupazioni di ordine strategicomilitare e giuridico-amministrativo, che non avrebbero consentito ai nuovi dominatori di familiarizzare con territorio e popolazione locale 56, Va notato d'altronde che queste tre voci sono attestate, nella stessa proporzione, anche nel Nord della regione, in particolare in quelle zone in cui la lontananza dai porti pentapolitani e dalle vie di comunicazione tra Ravenna e Roma consentirono una stabile occupazione longobarda. Ad esse si aggiungono qui i toponimi derivanti dall'etnico bulgaro 57, i quali hanno fatto discutere storici e linguisti, in quanto alcuni ne sostengono l'origine da burgus, altri li mettono in relazione con stanziamenti di foederati dell'Impero 58. Tuttavia la loro localizzazione per lo più in aree caratterizzate dalla presenza di toponimi di origine germanica nonché da strutture economicofondiarie tipiche della Langobardia fanno propendere, nel nostro caso, per la tesi che vede nei Protobulgari di razza mongolica una popolazione guerriera alleata dei Longobardi 59. La riprova che il criterio strategico-militare fosse seguito, pur con differenti risultati, da entrambi i contendenti nel valutare il ruolo dei centri urbani è fornita dal singolare caso di Cagli, che ascese al rango di città proprio nel periodo di transizione tra tarda antichità e alto medioevo 60. I1 toponimo Callis è inequivocabilmente legato alla viabilità montana: la sua ubicazione sulla Flaminia, prima che la strada si infili fra le due dorsali appenniniche del monte Falterona e del Catria superando una barra trasversale al passo della Scheggia, faceva risaltare l'importanza che il controllo di questo territorio rivestiva 61, Cagli del resto, era collegata al castrum di Luceolis, la cui prima attestazione è significativamente in relazione con la liberazione, da parte dell'esarco Romano nel 592, del ramo occidentale della Flaminia, la via Amerina 62. Da Luceoli, situata nei pressi di Pontericcioli a sud della dorsale del Catria e quindi in posizione opposta a quella di Cagli, si staccava appunto la via Amerina. Città e castello formavano dunque un unico sistema di controllo del punto chiave in cui la Flaminia, dopo aver valicato l'Appennino, si staccava dal suo ramo orientale, caduto nelle mani dei Longobardi spoletini. Ancor più singolari furono, sul fronte opposto, le circostanze che avrebbero favorito il sorgere della diocesi di Montefeltro, I'odierna San Leo. Conquistato dai Longobardi di Arezzo nel primo ventennio del VII secolo, quando questi invasero la media e alta valle del Tevere, questo castello divenne poco dopo, secondo il Lombardi 63, sede vescovile con il preciso compito di intraprendere un'azione missionaria tra i Longobardi ariani in un territorio compreso fra la riva destra dell'alto Savio e la sponda sinistra dell'alto Foglia. 6. Il ducato di Spoleto e le sue articolazioni periferiche in area marchigiana Poiché, tra i Longobardi, furono gli Spoletini i protagonisti del conflitto che li oppose, al di qua e al di là dell'Appennino umbro-marchigiano, all'Impero dei Romani fin dagli anni 70 del secolo VI, è opportuno richiamare brevemente la questione della fondazione del ducato di Spoleto. Su di essa intervenne nel dopoguerra G.P. Bognetti, formulando una tesi originale sui tempi e sui modi di una tale genesi 64. La quale tesi non è senza conseguenze sulla visione complessiva dell'insediamento longobardo nelle Marche, poiché coloro che hanno sviluppato l'idea bognettiana fanno derivare la fondazione del ducato da un ripiegamento di federati barbarici ribelli dalla costa adriatica, dove sarebbero stati stanziati dai Bizantini, e non da una avanzata dei Longobardi di Alboino da nord lungo la dorsale àppenninica 65. Stante tuttavia l'assoluta carenza di dati relativi al complesso degli eventi, una tesi siffatta ST muove su un piano in larga parte congetturale traendo spunti da notizie troppo frammentarie, di cui cerca di forzare l'interpretazione. La si può accettare, con riserva, solo
per ciò che riguarda la cronologia della presenza di contingenti longobardi nell'Italia centrale (dal 576) e per la consideràzione del carattere autonomo e disordinato delle conquiste compiute in quel frangente dagli stessi invasori. In quest'ottica l'insuccesso dell'offensiva guidata dal curopalate Baduario nel 575-576, posto come evento determinante la ribellione di Faroaldo e dei gruppi longobardi federati, sposterebbe di qualche anno più avanti la fondazione del ducato spoletino 66, mentre la tradizione storiografica ne scorgeva le origini già al tempo del regno di Alboino (571) 67. Le vicende del ducato, sulle quali cala il silenzio delle fonti per ciò che attiene al secolo VII, si svolsero comunque sulla linea della completa autonomia dal regno longobardo almeno sino al re Grimoaldo, il quale riuscì a porre in Spoleto un duca di sua fiducia, Trasmondo, già conte di Capua 68. Più che una certa dinamica istituzionale ancora legata alle strutture tribali dei Longobardi, era la collocazione geografica di Spoleto, separata dal regnum da barriere naturali e da sia pur frammentari domini bizantini, a fomentare la tendenza all'autonomismo. È legittimo, allora, chiedersi quale sia stata la posizione dei duchi spoletini di fronte alle tregue o alle paci sottoscritte dagli esarchi e dai sovrani longobardi. Se la restituzione di Osimo lascia intendere che la tregua del 598 impegnasse anche Spoleto, un'epistola di Gregorio Magno chiarisce a questo proposito che Ariulfo, il quale aveva già raggiunto un accordo col pontefice nel 592 ricevendone probabilmente forti somme di denaro 69, giurò il mantenimento della tregua separatamente dal re e ponendo condizioni particolari 70. Perciò il pontefice aveva motivo di dubitare della fides di Ariulfo: scrivendo infatti alla fine del medesimo anno al re Agilulfo, lo esortava ad ordinare ai duchi, et maxime in bis partibus constitutis, di rispettare la pace 71. È parimenti dubbio che, dal 603 fino alla pace del 680, con analoghi accordi di tregua sia stata garantita la cessazione di ogni sorta di ostilità fra ducato ed esarcato 72. La conquista di Jesi da parte dei duchi di Spoleto nel corso del VII secolo, anteriormente al 680, presuppone nuove ondate offensive degli Spoletini ai danni delle città della Pentapoli 73. In seguito, la notizia, riferita da Paolo Diacono (e sulla quale in verità è stato espresso più di un dubbio) 74 circa la temporanea presa di Classe, forse nel 712-713, daparte del duca Faroaldo II 75, rappresenta comunque un indizio del protrarsi, o della ripresa, di uno stato di guerra nell'Italia centrale nonché una prova della consapevolezza che i Longobardi del regno avevano dell'autonomia spoletina e dell'estraneità del ducato ai trattati e accordi che impegnavano i loro sovrani. Fu soltanto con Liutprando che la monarchia longobarda riuscì ad aprire reali prospettive di controllo politico e militare se non, in maniera stabile, sulla stessa sede ducale, almeno sul settore spoletino ad est dell'Appennino e sulla Pentapoli 76. Prima di allora i rapporti dei gruppi longobardi insediatisi in territori marchigiani con il regnum dovettero essere assai limitati, mentre emergono indizi di legami politico-istituzionali con Spoleto e con il resto del ducato. Il Geografo Ravennate chiama provincia Spolitium Sanciensis il settore adriatico a ridosso della Pentapoli pertinente al ducato longobardo. Lo Schnetz ha proposto la correzione dell'attributo Sanciensis in Savinensis (=Sabinensis) 77. Altro indizio della presenza spoletina nel Piceno è offerto dalla dedicazione di due chiese del Fermano a san Savino, il santo patrono dei Longobardi spoletini, durante il pontificato di Gregorio Magno 78. Tale agionimo, d'altronde, è assai diffuso su tutto il territorio marchigiano. Bisogna attendere la documentazione farfense relativa al pieno secolo VIII per avere utili elementi onde tentare di delineare la struttura periferica del ducato e le sue articolazioni in ambito marchigiano. Da fonti così tarde è arduo farsi un'idea del peso esercitato dalle strutture tribali dei Longobardi, prima fra tutte la fara 79, sull'evoluzione istituzionale dell'entità politica spoletina, dalle forme di insediamento, nei castra e nelle civitates, sino alla definizione di competenze territoriali dei funzionari ducali. Alcuni comites risultano presenti in qualità di testimoni in un documento redatto nel palazzo ducale di Spoleto nel 748: uno di questi, Rabenno, era con tutta probabilità conte di Fermo 80. Sono noti altri due comites aventi sede in città marchigiane, Lupo di Fermo e un altro Lupo di Ascoli nel 776 81, quando reggeva ancora il ducato il longobardo Ildeprando. Mancano invece dati sicuri sulla contemporanea esistenza di gastaldi nella regione.
Secondo il Gasparri la figura del comes spoletino rappresenterebbe semplicemente uno sviluppo tardivo e contraddittorio del gastaldo, il quale rimane, pur con alcune eccezioni, difficilmente associabile a un determinato territorio 82. I1 Bertolini collega la ripresa e la sistemazione dell'istituto comitale all'avvento in Spoleto del duca Lupo attorno al 745. Da allora i comites furono preposti a grandi circoscrizioni amministrative, con sede stabile nei rispettivi capoluoghi e con funzioni che spaziavano dall'ambito civile a quello militare 83. Anche Camerino potrebbe essere stata la sede di qualcuno di quei comites dell'VIII secolo, di cui le fonti farfensi non specificano il luogo di appartenenza 84: in questa città è comunque attestata la presenza del gastaldo in età carolingia 85. Oltre ai gastaldati-contee delle tre città picene, solo nel secolo X si ha menzione di altri gastaldati, i quali trovano sede in alcuni castra. Si tratta appunto del gastaldato di Castel Petroso, di cui tuttavia si può supporre l'esistenza già in età carolingia 86, mentre il suo ambito territoriale ricadeva nell'alto bacino dell'Esino e nelle valli degli affluenti Sentino e Giano, affacciandosi nell'alto Misa e coprendo in definitiva l'estremo lembo settentrionale della diocesi di Camerino 87; e del gastaldato Subtempidano il quale, pur traendo il nome dalla decaduta città di Septempeda, aveva probabilmente il suo centro nel vicino castello qui dicitur ad Sanctum Severinum (San Severino Marche), contestualmente documentato 88. Esso si distendeva lungo il fiume Potenza e sempre entro la diocesi di Camerino, occupandone presumibilmente l'estremità orientale in direzione dello sbocco vallivo. Questi particolari inducono a ritenere che si tratti di due gastaldati minori 89, organizzati attorno a luoghi fortificati (llvenutl, si Ignora quando precisamente, centro della circoscrizione. La circoscrizione di castello è ad ogni modo un organismo riscontrabile altrove per l'età longobarda 90 non esclusi i territori romanici (esempi vicini sono costituiti da Luceoli 91 e da Conca nel Riminese 92): la sua esistenza appare connessa con un sistema di difesa limitanea che possa nel contempo costituire la premessa per future azioni di conquista dei territori vicini. In questo caso, tuttavia, potrebbe trattarsi di suddivisioni del territorio di Camerino inglobanti alcune zone appartenute a civitates decadute o scomparse (Attidium e Tuficum per Castel Petroso e Septempeda per il gastaldato omonimo), su cui la città aveva in seguito esteso la sua giurisdizione. Il Baldetti e, sia pur in forma dubitativa, il Villani 93, prendono in considerazione un terzo organismo territoriale, il gastaldato Frisiano che, menzionato in un unico documento del 1066 94 sembrerebbe situato nel comitato di Nocera ai confini con il gastaldato di Castel Petroso ed estendentesi su alcuni lembi del territorio marchigiano. Tuttavia il suddetto documento è spurio e non anteriore al secolo XII: il che lo rende sospetto, poiché la creazione di una circoscrizione poteva in quel momento rispondere agli interessi di un comune (o di un monastero) impegnato in qualche conflitto territoriale o patrimoniale. Il Baldetti ipotizza inoltre un'origine regia dei tre gastaldati di Castel Petroso, di Settempeda e Frisiano; ma ciò non sembra fondato, se si considera, per esempio, che il territorio di Castel Petroso è compreso nel ducato di Spoleto ancora nel secolo XI, come dimostrano decine di carte dell'abbazia di San Vittore delle Chiuse 95. Se la tendenza del ducato, nel corso dei secoli dall'alto al pieno medioevo, è quella di perdere - e non di acquistare - i territori a est dell'Appennino, sarebbe davvero strano che verso la fine dell'età longobarda o durante l'età carolingia Spoleto riuscisse ad espandere la sua influenza su aree controllate, secondo l'ipotesi del Baldetti, dalla monarchia longobarda fin dal regno di Autari o di Agilulfo, senza nel contempo scontrarsi con la politica di Carlo Magno e dei suoi successori, assai diffidenti nei confronti di un ducato periferico ed impegnati a ridimensionarne l'ambito territoriale mediante suddivisioni che favorivano proprio il distacco dei distretti fermano e camerte. Ancora più controversi sono i ministeria del territorio fermano, attestati dalla fine dell'età carolingia sino alla metà del secolo XII. La Taurino ha creduto di scorgervi una persistenza della distrettuazione minore di età longobarda 96, ma altri studiosi hanno proposto ipotesi diverse circa la natura e soprattutto i tempi di costituzione di tali organismi, che sarebbero molto più tardi 97. 7. Gli interventi dei sovrani longobardi e l'istituzione dei ducati marchigiani
Gli interventi dei sovrani longobardi nella regione, attuati a seguito di spedizioni organizzate di conquista nel corso dell'VIII secolo, produssero sostanziali modificazioni nell'assetto giuridicoamministrativo sia del settore pentapolitano, dove i re erosero, fino ad eliminarle, le ultime sopravvivenze dell'amministrazione esarcale e bizantina, sia del Piceno spoletino. Qui comincia a farsi strada la tendenza al distacco da Spoleto e alla formazione di ducati di gastaldati-contee nei centri nevralgici delle Marche longobarde, vale a dire Fermo e Camerino. Liutprando, approfittando del moto di ribellione suscitato dall'estensione all'Occidente del decreto iconoclasta di Leone III l'Isaurico, attuò nel 727 un piano che mirava alla conquista del triangolo strategico Ancona-OsimoNumana, attraverso il quale erano soliti afiluire via mare dall'Oriente rifornimenti e truppe per l'esarcato 98. Qui - ma le fonti non sono così esplicite al riguardo 99 - egli avrebbe istituito i due ducati indipendenti di Ancona e di Osimo 100. L'altro obiettivo che il re si proponeva era infatti quello di sbarrare la strada ad ogni ulteriore velleità espansionistica dei duchi di Spoleto a nord del Musone 101, mettendo così in chiaro che la Pentapoli sarebbe stata, d'ora in avanti, terreno di conquista della monarchia longobarda. Più tardi lo stesso sovrano, pur incontrando resistenze da parte dei Romani e degli Spoletini, marcia alla testa delle sue truppe tra Fano e Fossombrone, proprio lungo il ramo principale della Flaminia 102 e, durante una sosta nella Pentapoli, riceve doni e benedizioni da parte degli abitanti e delle chiese del luogo 103. Risulta dunque assodato che la monarchia longobarda, di cui Liutprando rappresenta la massima espressione, riuscì ad infliggere colpi durissimi all'autonomismo spoletino, imponendo di fatto la nomina ducale da parte del re 104. Emblematiche, a questo riguardo, la deposizione, dopo alterne vicende, del duca Transamondo II da parte dello stesso Liutprando nel 742 e la sua sostituzione con il nipote del re Agiprando 105. Quest'ultimo non riuscl a reggersi dopo la morte dello zio (744), ma il suo successore Lupo fu uno dei duchi più legati a Pavia 106. È in questa fase che ritroviamo a Fermo il conte Rabenno, ancora legato al palatium di Spoleto 107. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, I'evoluzione dei rapporti fra duca spoletino e territori marchigiani procedette in direzione del distacco di questi ultimi dall'antica sede ducale. Sotto il regno di Astolfo un Bacaudanis exercitalis chiese all'arcivescovo Sergio di Ravenna sei once di tre fondi situati nel territorio di Osimo 108. Il documento, unica testimonianza d'età longobarda relativa a un exercitalis 109 insediato in territorio marchigiano, costituisce altresì una spia della presenza regia in questo settore strategico della Pentapoli, oltre che dei buoni rapporti instauratisi fra il sovrano longobardo e il presule ravennate all'indomani della conquista della capitale dell'esarcato da parte dello stesso Astolfo 110. Ancor più esplicita è l'iscrizione di Falerone del 770, datata ai tempi di Tasbuno duca di Fermo posposto agli anni di regno di Desiderio e di Adelchi 111: si tratterebbe pertanto della più antica testimonianza relativa al ducato di Fermo, istituito nell'ambito del regnum Langobardorum e operante sotto la diretta autorità del re. Nel 772 Adelchi, nel confermare i possessi del monastero di San Salvatore di Brescia, accennava alle possessiones et curtes provenienti dal fisco regio e ducale, situate anche nel Fermano e nell'Osimano 112: il diploma riconosce un posto preminente, nella geografia politica longobarda, ai fines Firmani e Ansemani, dal momento che li equipara a quelli spoletini e beneventani. Come si vede, l'istituto ducale si diffonde ora in città marchigiane appartenenti ad entrambi i settori geo-politici della regione. E ancora, fonti documentarie ci mostrano un certo Sergio duca di Senigallia e suo figlio Tommaso, che non è più duca, quali donatori di terre situate nel territorio di quella città a favore di due monasteri settentrionali, San Michele Arcangelo di Brondolo presso Chioggia e Santa Maria di Sesto nel Friuli, negli anni 800, 808 e 809 113. Si hanno fondati motivi per ritenere che Sergio, noto anche alla cronachistica veneziana 114, discenda da una stirpe longobarda friulana, o comunque austriana, insediata nella città pentapolitana da Ratchis o, più probabilmente, da Astolfo 115. La sua famiglia sarebbe riuscita a resistere a due successivi interventi di Desiderio, nel 764 circa e nel 772, contro Senigallia e altre città pentapolitane, o comunque a ritornarvi a seguito della sconfitta di Desiderio ad opera di Carlo Magno e della fine del regno longobardo indipendente l16.
Spregiudicatezza politica e autonomismo locale furono i due fattori che animarono, nelle Marche e altrove, lo scenario di una delicata fase di transizione dalla dominazione longobarda alla renovatio Imperii carolingia. Il duca Ildeprando ne è l'esempio più clamoroso 117. Ma la sottomissione al papa dei rappresentanti dell'aristocrazia spoletina, allorché si profilava la disfatta di Desiderio, fu immediatamente seguita da quella dei Longobardi dei ducati di Fermo, Osimo e Ancona 118. Si ha l'impressione che questo scarno elenco di ducati - agli occhi della curia romana i più importanti dal punto di vista politico e militare e oggetto delle più recenti rivendicaziopi da parte dei papi - sia puramente indicativo e che nasconda una più larga diffusione di organismi grandi e piccoli nati dalla dissoluzione dell'amministrazione bizantina al nord e da spinte centrifughe al sud della regione. Tali spinte sembrano temporaneamente frenate negli anni 776-781, se si tengono presenti i documenti attestanti di nuovo la presenza dei comiles a Fermo ed Ascoli, nonché il loro legame con la corte di Spoleto 119; ma ciò dovrebbe essere il risultato della politica accentratrice dell'ultimo duca longobardo Ildeprando, che dalla tradizione spoletina traeva motivi per rivendicare il controllo dei territori orientali del ducato; e costituisce altresì la riprova che i ducati marchigiani rispondevano all'interesse della monarchia longobarda di ridimensionare l'autorità ducale di Spoleto 120. Non appena, però, la monarchia franca ebbe preso le misure nei confronti del ducato e dopo l'insediamento del primo duca franco a Spoleto, venne sancita la separazione, gravida di conseguenze per i futuri assetti politico-amministrativi della Marca medievale, fra i ducati di Spoleto e di Fermo 121. 8. Verso la Marca Il ducato di Fermo, che diventerà marca fermana in età postcarolingia, fu la più importante eredità lasciata dai Longobardi alla regione, denominata Marca fino agli inizi del secolo scorso. Il primato della scuola di questa città, sottolineato dal capitolare olonense di Lotario I dell'825 122, rispecchia quindi una consolidata preminenza di Fermo sugli altri centri delle Marche meridionali, inclusa la stessa Camerino 123. Basti osservare che le scuole ivi menzionate trovano sede nelle città politicamente più importanti dell'Italia longobarda, cominciando da Pavia per finire a Forum Iulii. A1 termine dei due secoli longobardi l'aristocrazia funzionariale, di cui l'omonimo figlio del conte Rabenno e sua moglie Alerana rappresentano - pur nel coinvolgimento in tragici eventi 124 l'espressione matura, si avviava a divenire aristocrazia fondiaria, grazie ai suoi legami con l'abbazia di Farfa, un'istituzione monastica protetta dai duchi di Spoleto, poi dai re longobardi e quindi dalla monarchia franca 125, e con altri enti ecclesiastici, fra cui la stessa chiesa vescovile fermana. La penuria di fonti non permette di andare oltre nell'indagine sulla società longobarda della regione. Ma i successivi documenti vi testimoniano la presenza di famiglie di possessores di estrazione longobarda e, infine, l'organizzazione di strutture di potere signorile che da questi prese origine. ROBERTO BERNACCHIA
1 P DELOGU, Longobardi e bizantini in Italia, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all'età contemporanea, 11/2, Torino 1986, PP. 145-169, Cfr. PP. 149-151. 2 R THOMSEN, The Italic Regions from Augustus to the Lombard Invasion, Copenaghen 1947, PP.120-124.
3 THOMSEN, op. cit., PP. 109-112; N. ALFIERI, La regione V dell'ltalia augustea nella Naturalis historia, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario, Como 1982, PP.199219. 4 THOMSEN, op. cit., PP.217-221; N. ALFIERI, Le Marche e la fine del mondo antico, in Istituzioni e società nell'alto medioevo marchigiano, Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche,86 (1981), Ancona 1983, PP.934, cfr. pp. 10-11; A. CHASTAGNOT Notes chronologiques sur l'Histoire Auguste et le Laterculus de Polemius Silvius, Historia IV (1955), PP.173-188, cfr. in part. le pp. 176-180 e ID., L'administration du Diocèse Italien au BasEmpire, «Historia», Xll (1963), PP.348-379, in part. le pp. 360-362. 5 THOMSEN, Op. cit., PP. 221-230; ALFTERT, Le Marche cit., pp. 13-14; G. CLEMENTE, La creazione delle province di Valeria e di Picenum suburbicarium, «Rivista di filologia e di istruzione classica», 96 (1968), PP. 439-448 e ID., Ancora sulle province di Valeria e Flaminia et Picenum «Rivista di filologia e di istruzione classica», 97 (1969), PP. 179-184. 6 A CARTLE, Dal Vall'VIII secolo, in Storia della Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna 1976, PP. 333-363, cfr. pp. 333-337; P.M. CONTI, Il ducato longobardo di Spoleto e la storia istituzionale dei Longobardi, Spoleto 1982, PP. 12-15. 7 ALFIERI, Le Marche cit., pp. 20-21. 8 Ibidem, p. 29. 9 O. VON HESSEN, Alcuni aspetti della cronologia archeologica riguardanti i Longobardi in Italia, in Atti del 6° Congresso internazionalc di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1980 PP. 123-130, ID., Testimonianze archeologiche longobarde nel ducato di Spoleto, inAtti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, PP. 421-428, cfr. p. 425. Si veda in proposito in questi atti la relazione di L. Paroli. 10 PAULT Historia Langobardorum, IV, 16, edd. L. Bethmann et G. Waitz, in M.G.H Script. rer. Lang et Ital., Hannoverae 1878, PP. 121-122; cfr. B. FELTCTANGELT, Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia nel secolo VI. Appunti di corografia storica, Camerino 1908, 11 GASPARRT, I duchi longobardi, Roma 1978, p. 75. 12 AGNELLI QUI ET ANDREAS Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 95, ed. O. HolderEgger, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 338; cfr. FELTCTANGELT, op. cit., pp. 10-ll. 13 GREGORII I PAPAE Registrum epistolarum, il, 28, edd. R Ewald et L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., I, 23ed., Berolini l9S7, pp. 124-125: v.a. II, 7 (pp. 105-106), II, 32 (pp. 128-129) e II, 33 (pp. 129-130). 14 Reg. ep., II, 45, ed. Cit., pp. 143-146; cfr. FELCIANGELI, op. cit., pp. 71 -73, e R. BERNACCHIA, L'assetto territoriale della bassa valle del Cesano nell'alto medioevo, in Istituzioni e società Cit. (a nota 4), pp. 683-714, a p. 704. 15 Reg. ep., IX, 66, 67, 99 e 1OO, ed. L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., II, 2° ed. Berolini 1957, pp. 85-88 e 108-109; PAULT Hist. Lang., IV, 8, 9, 12, ed. cit., pp. 118-120 e 121 16 GREGORTT Reg. ep., IX, 51 e 52, ed. cit., II, pp. 76-77; cir. FELCIANGELI, op. cit., pp. 29-30. 17 N. ALFTERT, La Pentapoli bizantina d'ltalia, «Corsi di cultura sull'arte ravennate e bizantina», XX (1973), pp. 7-18, cfr. p. 16: l'A. mette in rilievo «il punto critico della linea del confine bizantino» nel territorio di Fabriano e nell'alto bacino dell'Esino. Sulla via della 8pina, che collegava direttamente Spoleto aPlestia, e sull'importanza nevralgica di quest'ultimo centro di valico cfr. G. SCHMIEDT, Contributo della foto-interpretazione alla conoscenza della rete stradale dell'Umbria nell'alto medioevo, in Aspetti dell'Umbria dall'inizio del secolo VIII alla fine del secolo Xl (Atti del III Convegno di studi umbri), Perugia 1966, pp. 177-210, part. pp. 192-195. 18 PROCOPIO DI CESAREA, La guerra gotica, II, 11 e IV, 28, a cura di D. Comparetti, II, Roma 1896, pp. 69-74; III, Roma 1898, pp. 218-219. 19 Sul percorso stradale Nuceria-Ancona v. K. MILLER, Itineraria Romana. Romische Reisewage an derHandder TabulaPeutingeriana, Roma 1964, col.305, G. RADKE, Viae publicae Romanae, Bologna 1981, pp. 235-239, cfr. FELCIANGELI, op. cit., p. 45 e ALFIERI, La Pentapoli Cit., p. 16. Secondo E. BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza nell'alto medioevo, in E BALDETTI et al., Le basse valli del Musone e del Potenza nel medioevo, Recanati 1983, pp. 7 -18, cfr. p. 8, i Longobardi conquistarono il basso Potenza già attorno al 580. 20 Ch. DIEHL, Études sur l'administration byzantine dans l'exarchat de Ravenne (568 751), Paris 1888, pp.7-23; CARTLE, Dal VII VIII secolo cit., pp.346-351, V. VON FALKFNHAUSEN, I Bizantini in Italia, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 1-136, cfr. pp.32-36.Si rimanda a T.S. BROWN, The Interplay between Roman et Byzantine Traditions and Local Sentiment in the Exarchate of Ravenna, in Bisanzio, Roma e l'ltalia nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XXXIV), II,Spoleto 1988, pp.127-160, in part.alle pp.127-131 per la bibliografia sull'esarcato e alle pp. 135-137 sulla costituzione dell'esarcato e la militarizzazione della società. 21 Un efficace inquadramento sul ruolo delle Città e sull'emergere di una aristocrazia rnilitare in età esarcale è ora in A. CARTLE, Materiali di storia bizantina, Bologna 1994, pp. 93 22 CARTLE, Dal V all’VIII secolo Cit., p. 347 (fra 572 e 582); VON FATKENHAUSEN, op. cit., pp. 12-13 (primi anni dell'imperatore Maurizio); BROWN, op. cit., p. 135 (attorno al 584). 23 MIGNE, P.L., 87, coll. 103-106 (Mauri, Ravennatensis archiepiscopi, epistola unica, ad Martinum pontificem Romanum adversus monothelitarum haeresim), part. col. 103 (greco) e col. 104 (latino). 24 DIEHL, Op. cit., pp. 24-26; A. GUILIOU, Régionalisme et indépendance dans l'Empire byzantin au VIIe siècle. L'exemple de l'Exarchat et de la Pentapole d'ltalie, Roma 1969, pp. 147-149; ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 11. 25 Il DIEHL, OP. cit., pp. 60-62, distingueva 1'Auximanum, separato dalla Pentapoli e comprendente Osimo e Numana, la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro Fano, Senigallia Ancona), la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi,
Cagli, Gubbio) e, collegata a quest'ultima la provincia castellorum (S. Marino, Montefeltro, Pennabilli, Petra Pertusa Luceoli, Tadinum-Validum, Acerrengium, Serra e Conca). Il GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 56-58 redige un elenco assai confuso di civitates, castra e altre località (nel quale appaiono identificazioni piuttosto discutibili), in parte riprendendo dal Diehl, ma senza specificare la loro provincia di appartenenza. Più cauto l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp.11-12, che già rilevava la non corrispondenza numerica delle città della Pentapoli marittima e l'incertezza sulle civitates e castella della Pentapoli interna. Ritorna all'attribuzione all'originaria Pentapoli marittima delle cinque città portuali già indicate dal Diehl E. BALDETTI, Per una nuova ipotesi sulla conformazione spaziale della Pentapoli. Rilievi topografico-storici sui toponimi di area pentapolitana, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 779-894, cfr. pp. 842-843 e 857 mentre (pp. 860-861, v.a. nota 213) assegna alla Pentapoli mediterranea Sarsina, Città di Castello, Urbino, Fossombrone e Gubbio, pur con il dubbio riguardante Città di Castello la quale, agli inizi del sec. VIII (periodo nel quale si sarebbe costituita questa seconda Pentapoli) poteva essere già sede di gastaldato longobardo: in questo caso la quinta città dovrebbe ricercarsi in Cagli. ll Baldetti ritiene altresì possibile che la seconda denominazione di Pentapoli possa essere stata coniata ad imitazione della precedente e non corrispondere necessariamente a un complesso di cinque città. 26 GEORGII CYPRI Descriptio orbis Romani, ed. H. Gelzer, Lipsiae 1890, pp. 31-32, Le Synekdèmos d'Hiéroblès et l'opuscule geographique de Georges de Chypre, texte, introduction, commentaire et cartes par E. Honigmann, Bruxelles 1939, pp. 53-54, cfr. PM. CONTI, L'Italia bizantina nella "Descriptio orbis Romani" di Giorgio di Cipro, estratto da «Memorie della Accademia lunigianese di scienze "G. Cappellini"», XL (1970), La Spezia 1975, pp. 11-12 e 21-26: le città che sarebbero entrate a far parte della Pentapoli vengono assegnate, insieme ad altri centri dell'Italia bizantina, alla provincia detta Annonaria comprendente, al tempo di Tiberio II, la regione nord-adriatica della penisola. L'opera di Giorgio di Cipro, che sarebbe anteriore alla costituzione dell'esarcato d'ltalia, si riferirebbe infatti a tale periodo. 27 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia (IV, 31 e V, 1) et GUIDONIS Geographica (21 e 69-70), ed. J. Schnetz, Lipsiae 1840, pp. 68 e 84, 117 e 129. 28 Le Liber pontificalis (Stephanus II, 252-254), texte, introduction et commentaire par L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 453-454. 29 GREGORII Reg. ep., I, 56, ed. cit., I, p. 80, cfr. DIEHL, op. cit., pp. 9 e 25-26. Sul duca Maurizio dell'anno 769 v. Liber pontificalis, Stephanus III, 282, ed. cit., p.477, cfr. A. CARILE Continuità e mutamento nei ceti dirigenti dell'esarcato fra VII e IX secolo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 115-145, a p. 120. Si riscontra un altro duca, Martino, a Rimini in due registrazioni del Breviarium Ecclesiae Ravennatis (Codice Bavaro). Secoli VII-X a cura di G. Rabotti, Roma 1985, p. 23 n. 39 e pp. 39-41 n. 76, databili, con qualche dubbio, al sec. VIII, ma che CARILE, Continuità e mutamento cit., p. 141, data all'850-878. 30 CARILE, Continuità e mutamento cit., pp. 127-131. 31 J.D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 301 -304, 311-314, 773 e 775. O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, Rivista di storia della Chiesa in Italia, VIII (1954), pp. 1-22, part. p. 19, non considera il vescovo di Jesi fra i nove provenienti dal ducato di Spoleto, trascurando però il fatto che nei succitati atti tutti e dieci i vescovi delle diocesi spoletine sottoscrivono in ordine compatto subito dopo il presule di Spoleto, mentre i sei vescovi "provinciae Pentapolis" formano un altrettanto compatto raggruppamento. Questo particolare non è preso in considerazione nemmeno da A. CHERUBINI, Presenza longobarda nel territorio jesino, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp.515550, che pure ammette l'avanzata longobarda spoletina lungo la vallata dell'Esino alla fine del VI o agli inizi del VII secolo, mentre Jesi sarebbe stata recuperata dai Bizantini in seguito alla tregua del 680, dopo la quale sarebbe iniziata una sorta di coesistenza pacifica tra i due settori nei quali era rimasto diviso il territorio jesino. 32 Liber pontificalis, Zachanas, 213, ed. cit., p. 429, M.G.H. Epist., III, Epistolae Merowingici et Karolini aevi, 2a ed., Berolini 1957, p. 580 n. 55; MIGNE, PL., 89, col. 519. 33 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 7-8 e 10-11. 34 Lo sdoppiamento della Pentapoli, postulato dal DIEHL, op. cit., pp. 60-62, il quale aggiunge l'Osimano come circoscrizione specifica, è stato più o meno accettato dai successivi studlosl e, per ultimo, anche dal BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 859-861. Si nota in Baldetti, come anche in F.L. LOMBARDI, Il Montefeltro nell'alto medioevo. Congetture sull'origine della diocesi, «Studi montefeltrani», 2 (1973), pp. 21-59, cfr. pp. 26-32, la tendenza a forzare l'interpretazione di un passo della Cosmographia dell'Anonimo Ravennate, IV, 29, ed. cit. pp. 65-66 (item Annonaria Pentapolensis est super ipsam Pentapolim id est provincia castellorum, quae ab antiquis ita vocabatur), per trovarvi la prova concreta dell'organizzazione di una ben distinta Pentapoli interna. La migliore interpretazione del suddetto passo, prima che esso subisse ulteriori passaggi nel corso della tradizione manoscritta, ad onta delle arbitrarie integrazioni dello Schnetz è stata data proprio da Guido ravennate (sec. XII), 66, ed. cit., p. 128: Quinta provinciarum Italiae Annonica Pentapolensis est, super quam regio est quae castellanorum appellata est ab antiquis; dal cui testo risulta evidente che esiste una sola Pentapoli, geograficamente contigua ma distinta da una regio castellanorum (la provincia castellorum del Ravennate). Quest'ultima andrebbe identificata con la provincia delle Alpi Appennine, estendentesi dalle Alpi Cozie al Montefeltro, di cui parlano il Catalogus provinciarum Italiae, in M.G.H., Script. rer. Lang. et Ital. cit., pp. 188-189, anche in Itineraria et alia geographica, Turnholti 1965 (C.C.S.L., CLXXV), pp. 366-368, part. p. 367, il De terminatione provinciarum Italiae, in Itineraria et alia geographica cit., pp. 347-363, part. p. 355, e PAULI Hist. Lang., II, 18, ed. cit., p. 83.
35 Il coronimo Flaminia è usato dal Geografo Ravennate per designare l'Esarcato in senso stretto o provincia Ravennate, mentre viene recuperato l'attributo Annonaria per accompagnare il termine Pentapoli o un suo derivato: RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., pp. 65-66; v.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128. Non convincente appare la tesi del LOMBARDI, Il Montefeltro cit., p.31, secondo cui la nuova provincia si sarebbe chiamata "annonaria" in quanto in essa le "annonae" erano destinate al mantenimento dei soldati. Considerando la qualità e l'antichità delle fonti di cui il Ravennate disponeva, come non vedere in questo termine un preciso ricordo del Picenum annonarium: 36 Liber pontificalis, Gregorius, 113, ed. cit., p. 312; PAULI Hist. Lang., IV, 8, ed. cit., p. 118. Cfr. ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 17. 37 DIEHL, Op. cit., pp. 59-63: i confini erano costituiti secondo l'A. dal Marecchia a nord, dal Musone e dall'Esino a sud, dallo spartiacque appenninico a ovest, ma includendo Gubbio e, in certi momenti, Perugia. Segue sostanzialmente queste indicazioni l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 13- 18. 38 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 807-821, ma v.a. p. 859, dove l'A. precisa che la Pentapoli si componeva di tre o quattro gruppi di città fra loro separati: Rimini-Sarsina, Pesaro-Fano-Fossombrone-Urbino, Ancona-OsimoNumana e, forse, Città di Castello-Gubbio-Perugia, mentre Senigallia era completamente isolata. 39 V FUMAGALLI, "Langobardia" e "Romania": l'occupazione del suolo nella Pentapoli altomedioevale, in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" (Codice Bavaro) Roma 1985, pp. 95-107. 40 Ph. JONES, L'ltalia agraria nell'alto medioevo: problemi di cronologia e di continuità in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XIII) Spoleto 19óó, pp. 57-92, cfr. pp. 65-73; P DELOGU, Longobardi e romani: altre congetture, in Langobardia, a cura di P Cammarosano e S. Gasparri, Udine 1990, pp.111167, cfr. pp.145-157. 41 V. nota 7. 42 G. PACI, Considerazioni storiche sul territorio compreso tra i fiumi Aso e Tronto «Archeopiceno», a. I-II, n. 4-5 (ottobre-dicembre 1993/gennaio-marzo 1994), pp. 3-ó. 43 ALFIERI, La Marche cit., p. 24. 441bidem, pp. 24-29. 45 V. LANCIARINI, ll Tiferno Mataurense e la provincia di Massa Trabaria, Roma 1895, pp. 105-127: la città sarebbe stata distrutta durante la guerra goto-bizantina e subito dopo sarebbe stato costruito sulle sue rovine il castello di S. Angelo in Vado (affermazione, questa, che l'A. non può provare in alcun modo). Di Tifernum non si conosce alcun vescovo, mentre la diocesi di S. Angelo in Vado fu istituita da Urbano VIII nel 1636 (ibidem, pp. 792-798). Su Forum Sempronii che, sita nel fondovalle sulla Flaminia, fu progressivamente abbandonata e trasferita su un colle soprastante, v. A. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, I, Fossombrone 1903, pp. 126-130 e 139-140. Non si conoscono vescovi della chiesa locale tra Paolino (a. 555) e Leopardo (a. 826): PB. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873, p.698, cfr. VERNARECCI, op. cit., pp.141-142. È possibile che la non menzione di Forum Sempronii nell'elenco di città restituite al beato Pietro nel 756 (v. nota 28) rispecchi una situazione di crisi corrispondente alla fase di trasferimento del centro dal fondovalle all'altura. 46 Le città a nord del Conero, già colpite dalla crisi demografica e provate dalle precedenti invasioni, subirono gli effetti della guerra goto-bizantina (ALFIERI, Le Marche cit., p. 29). PROCOPIO, La guerra gotica, III, 11, ed. cit., II, pp. 275-276, ricorda l'incendio delle case di Pesaro e Fano, per le quali usa il termine “polismata” ("cittadine"), ad opera di Vitige, che aveva abbattuto anche le mura dei due centri. Le mura di Pesaro furono poi ricostruite in tutta fretta da Belisario nel 545. Lo stesso PROCOPIO, La guerra gotica, IV, 23, ed. cit., III, p. 174, chiama “corion” ("località") Senigallia, la quale sarà poi designata come “Kastron” nella Descriptio orbis Romani, ed. cit., p. 32. Ed ancora PROCOPIO, La guerra gotica, II, 11 e IV, 23, ed. cit., II, p. 70 e III, p. 172, qualifica Ancona come castello (“frurion”). L'incendio che distrusse Fano nel 565, causando la morte di numerosi cittadini, è collocato da Agnello ravennate (Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 90, ed. cit., p. 336) in un contesto di eventi prodigiosi che avrebbero accompagnato la morte dell'imperatore Giustiniano, ciò nonostante il fatto potrebbe essere realmente avvenuto, quantunque il cronista sembri enfatizzarne le conseguenze. Sull'abbandono della città antica e sulla probabile vacanza della cattedra vescovile a Fossombrone in età longobarda v. nota precedente. 47 G. RAVEGNANI, Kastron e Polis: ricerche sull'organizzazione territonale nel Vl secolo, «Rivista di studi bizantini e slavi», 2 (1982), pp. 271-282, cfr. part. Ie pp. 280-282, A. CARILE Introduzione alla storia bizantina, Bologna 1988, pp. 68 e 76-77. 48 N. ALFIERI, L'insediamento urbano sul litorale delle Marche durante l'antichità e il medioevo, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d'Occident (Colloques internationaux du Centre national de la recherche scientifique, n. 542), Paris 1977, pp. 87-96, cfr. p. 93. Circa le ripercussioni dell'invasione longobarda sulla vita delle città cfr. DELOGU, Longobardi e romani cit., pp. 157-160, il quale sottolinea la coincidenza tra aree di crisi delle città e frontiere longobardo-bizantine. 49 G.P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in ID., L'età longobarda, II, Milano 1966, pp. 11-673, cfr. pp. 131-132. 50 Sulla struttura di Castel Petroso, il cui impianto è fatto risalire al tardo-antico, v. A. FIECCONI, Luoghi fortificati e strutture edilizie del Fabrianese nei secoli XI-XIII, «Nuova rivista storica», LIX (1975), pp. 1-54, part. pp. 32-48. 51 F. SCHNEIDER, Die Reichsvermaltung in Toscana von der Grundung des Langobardeureiches bis zum Ausgang der Stanfer (568-1268), I, Die Grundlagen, Rom 1914 pp. 36-38. Sulle fortificazioni d'origine antica e altomedievale,
sul limes bizantino e sui sistemi difensivi longobardi v. G. SCHMIEDT, Le fortificazioni altomedievali in Italia viste dall'aereo, in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XV), II, Spoleto 1968, pp. 859-927, part. pp. 893-918. 52 DELOGU, Il Regno longobardo, in P. DELOGU-A. GUILLOU-G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 1-216, cfr. pp. 72-75. 53 Ibidem, pp. 107-110. 54 F. SABATINI Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell'ltalia mediana e meridionale, Atti dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XXVIII (19631-964), pp. 123-249, cfr. pp. 146-158; C.A. MASTRILLI, Tracce linguistiche della dominazione longobarda nell'area del ducato di Spoleto, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, II, Spoleto 1983, pp. 655-667, cfr. p. 660. 55 SABATINI, op. cit., pp. 171-] 84. 56 MASTRILLI, Op. cit., p. 662. 57 SABATINI, op. cit., pp. 166-167; MASTRILLI, op. cit., p. 660, BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 793794. 58 GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 98-108. 59 Le fonti sul possibile ingresso (in due distinti momenti: con la spedizione di Alboino nel 568-69 e sotto la guida di Alzeco poco prima del 668) dei Protobulgari in Italia sono: PAULI Hist. Lang., II, 26 e V, 29, ed. cit., pp. 86-87 e 154; THEOPHANIS Chronographia (297) rec. C. de Boor, I, Lipsiae 1883, p.357, NICEPHORI, Opuscula historica, ed. C. de Boor, Lipsiae 1880, p. 34; LANDOLFI SAGACIS Historia Romana, XXI, 19, a cura di A. Crivellucci, II, Roma 1913, pp. 153-154. Riferendosi alla grande Bulgaria ticinese F. SCHNEIDER, Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien. Studien zur historischen Geographie, Verfassungs- und Sozialgeschichte, Berlin 1924, pp.3435, ritiene la testimonianza di Paolo Diacono attendibile. Secondo BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelsepno cit., pp. 336, 338 e 342-343, i Bulgari entrati in Italia non facevano parte dell'esercito di Alboino ma, venuti al servizio dei Bizantini nel sec. VII, avrebbero tradito l'Impero passando dalla parte di re Grimoaldo, che li avrebbe fatti stanziare in molti luoghi strategici, dal Comasco al Molise. Per una disamina della Bulgaria ticinese e delle questioni connesse v. A. CAVANNA, Fara sala arimannia nella storia di un vico longobardo, Milano 1967, pp. 75-118, il quale, accogliendo in parte le osservazioni linguistiche del Serra, ritiene impossibile che i numerosi toponimi italiani del tipo Bulgaro e Bulgaria abbiano tutti una origine etnica, e del resto un gruppo barbarico esiguo (come i Bulgari del condottiero Alzeco al tempo di Grimoaldo) non avrebbe potuto essere disperso su un'area così vasta, ma solo nel Sannio e, in misura minore, nell'Esarcato: va notato tuttavia che l'A. espone con dovizia di particolari una serie di caratteristiche del distretto fiscale e militare (a quanto pare acefalo e dotato di una catena di castra) oggetto del suo studio, le quali mostrano significative analogie con la Bulgaria della bassa valle del Cesano, per la quale v. BERNACCHIA, L'assetto territonale cit., pp. 683-714. 60 Gli itinerari romani pongono sulla Flaminia la mutatio ad Calem, definita vicus nell'Antoniniano: MILLER, Itineraria Romana cit., col. 306, RADKE, Viae publicae Romanae cit., pp. 230-232. Si registra nel contempo il silenzio delle fonti su un municipio di Callis postulato dagli storici locali. Soltanto nel 359 è attestato il vescovo Grecianus a Calle (MIGNE PL., 10, col. 697), che F. LANZONI, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I, Faenza 1927, pp. 188-189 e 494, assegna a Calvi in Campania; nel contempo Servio equipara Cagli in Flaminia ad una civitas (SERVI GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, II, rec. G. Thilo, Hildesheim 1961, p. 188). 61 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 16-17. 62 V nota 36. Cfr. anche O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati di Spoleto e di Benevento, I, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VI (1952), pp. 1-46, a p. 17. 63 LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp. 21-59: la tesi qui esposta è stata sostanzialmente ribadita in ID., Storicità e antistoricità di un territorio di confine: il Montefeltro, in Territori, strade e comunità d'insediamento attraverso la lunga durata (Atti del 4° Convegno di storia territoriale, Pavullo nel Frignano (Mo), 20-21 ottobre 1984), Modena 1986, pp. 77-87, cfr. pp. 83-86. 64 G.P BOGNETTI, Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, in ID., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 439-475: v.a. nello stesso volume Il ducato longobardo di Spoleto pp. 485-505. La tesi del Bognetti è stata accolta da C.G. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell’Umbria alto-medioevale, in Aspetti dell'Umbria cit. (a nota 17), pp.103-125; ma a sostegno di essa lo studioso friulano non ha recato un grosso contributo limitandosi a segnalare (pp. 105-111) i titoli "romani" assunti dai duchi e alcuni aspetti peraltro controversi, dell'ordinamento territoriale come caratteristici della formazione politica spoletina. 65 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 29-31. 66 BOGNETTI, Tradizione longobarda cit., pp. 459-463. 67 La tradizione risale a C. SIGONIO, Historiarum de regno Italiae libri quindecim, Bononiae 1580, p. 19; per le opinioni degli altri eruditi e studiosi v. F. FELICIANGELI, op. cit., pp. 5-ó. 68 PAULI Hist. Lang., V, 16, ed. cit., p. 151, cfr. CONTI, Il ducato di Spoleto cit., p. 305; F. GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto. Istituzioni, poteri, gruppi dominanti, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1983, pp. 77-122, part. pp. 83-84.Il BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VIII (1954), pp. 1-22, part. pp. 4-12, pur ammettendo un comprensibile atteggiamento ostile del precedente duca Atto nei riguardi della spedizione a
Pavia di Grimoaldo, ancora duca di Benevento, nel 662, giudica infondata l'ipotesi del BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelseprio cit., p. 521, che parla di segrete intese tra papa Vitaliano e il suddetto duca al tempo dello sbarco a Taranto di Costante II nel 663 poiché non risulta una vera defezione di Atto dopo che Grimoaldo divenne re, né si ha notizia dl una sua morte violenta o di sua deposizione. Pare invece che sia Grimoaldo che Trasmondo di Capua trovassero amicos et adiutores nello Spoletino e nella Tuscia nel corso della spedizione di cui sopra. 69 GREGORII Reg. ep., V, 36, ed. cit., I, pp. 317-320 (giugno 595); V, 39, ed. cit., I, pp. 326-329 (l giugno 595); cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 11-13 e 30-31. 70 GREGORII Reg. ep., IX, 44, ed. cit., II, pp. 70-72 (ottobre 598), cfr. FELICIANGELI, Op. cit., pp. 41-45, BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-36, e GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 75. 71 GREGORII Reg. ep., IX, 66, ed. cit., II, pp. 85-86; cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-38. 72 Suppone razzie di Longobardi spoletini in territorio emiliano nel corso di tregue fra esarcato e regno longobardo CARILE, Dal V all’VIII secolo cit., p. 35, anche LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp.31-32, vede un perdurare della guerra fra Bizantini e Longobardi oltre la fine del sec. VI, nonostante le tregue e i trattati di pace, specie nei distretti montani, con inevitabili continue variazioni della linea di frontiera. 73 v nota 31. 74 O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, III, Rivista di storia della Chiesa in Italia, IX (1955), pp. 1-57, part. pp. 1012, ritiene l'evento possibile. Al contrario il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 308-309, considera la notizia dell'impresa di Faroaldo II come il riflesso di un'aspirazione politico-ideale, la quale legasse il nome di costui alla città che l'omonimo fondatore del ducato aveva un giorno tenuto. 75 PAULI Hist. Lang., VI, 44, ed. cit., p. 180. 76 DELOGU, Il Regno longobardo cit., pp. 152-163. 77 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., p. 66. V.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128: «provincia Picinum Spoletii Sauciensis». 78 GREGORII Reg. ep., IX, 58, 59 e XIII, 18, ed. cit., II, pp. 81, 82 e 385, cfr. E ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano per un dramma di amore e di morte, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 961-1116, part. pp. 981-982, P. BOGLIONI, Spoleto nelle opere di Gregorio Magno, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 267-318, alle pp. 314 e 315. 79 Nei riguardi del significato tecnico di fara come presidio di un castrum o castellum o di località avente comunque valore strategico esprime perplessità O. BERTOLINI, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in Ordinamenti militari cit. (a nota 51), pp. 429-607, alle pp. 508-510, pur accettando l'ipotesi che i Longobardi, nei primi decenni della conquista e degli stanziamenti, combattessero in gruppi formati sulla base dei legami parentali detti appunto farae; il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 86-93, dalla dislocazione delle fare m tutta Italia, nonché dalla loro costante connessione con castra e castella, trae la convinzione che questa fondamentale struttura demica dei Longobardi «divenisse altresì la struttura basilare del loro dominio militare e quindi politico», nel mentre respinge l'interpretazione del termine nel senso di "corpo di spedizione". Sulla collocazione delle fare cfr. anche CAVANNA, Fara sala arimannia cit., pp. 82-83. 80 Codice diplomatico longobardo, V/1, a cura di H. Zielinski, Roma 1988, pp. 48-53 n. 11, e IV/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1981, pp. 112-115 n. 38: «Rabenno, fil(ius) quondam Rabennonis comitis civ(itatis) Firmane» (a. 787). 81 Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 78-83 n. 28. 82 GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 89-93, sulla dialettica comes-gastaldus cfr. G.P BOGNETTI, Il gastaldato longobardo e i giudicati di Adaloaldo, Arioaldo e Pertarido nella lite fra Parma e Piacenza, in ID., L'età longobarda, I, Milano 1966, pp. 219-274, alle pp. 262-270. Su posizioni vicine a quelle del Gasparri, riguardo ai comites, è CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 49-50, il quale, tuttavia (pp. 42-49), crede piuttosto a un ordinamento territoriale del ducato spoletino imperniato sui gastaldati. 83 BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 484-487. 84 Nel doc. del 748 (cit. a nota 80) accanto a Rabenno sottoscrivono come testimoni altri due conti, Ansualdo e Teutprando. Al giudicato di Ildeprando del 776 (cit. a nota 81) presenzia anche “Halo com(es)”. Quest'ultimo, di cui non si specifica mai l'appartenenza territoriale, potrebbe identificarsi con «Alo» presente con «Lupo ... comites» ad un altro giudicato di Ildeprando del 777 (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 83-87 n. 29) e con «Halone, Lupone ... gastald(iis) et comitib(us)» figuranti nel 781 fra gli iudices di un giudicato dello stesso duca (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 99-104 n. 35). 85 I placiti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, I, Roma 1955, pp. 74-77 n. 24 (a. 811) e pp. 123-125 n.39 (a. 829). Sui gastaldi, poi conti, di Camerino nel sec. IX cfr. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell'Umbria cit., pp. 121123, il quale si rifà tuttavia a date diverse rispetto ai succitati documenti. Il BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza cit., pp. 16-17, avanza l'ipotesi dell'esistenza, nell'ultima età longobarda, del gastaldato di Osimo, fondandosi sulla peticio libelli che Giovanni gastaldo rivolge ad un arcivescovo ravennate di cui non si conosce il nome, per un suolo di terra entro la città di Osimo (Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 79-80 n. 146). Pur essendo questa registrazione priva di elementi di datazione, lo stesso Baldetti ammette che essa si riferisce ad un periodo immediatamente successivo al 774 e, dal momento che si ignora la natura dei poteri eventualmente esercitati da tale gastaldo, appare azzardato risalire da questo al gastaldato longobardo. D'altronde nemmeno la peticio del gastaldo Radigisi all'arcivescovo Valerio (806-810), relativa a 4 once di terra del fondo Lotaciano nel territorio di Osimo
(Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 75 n. 135), ci aiuta a risolvere il problema, rivelandoci generiche tracce di una presenza e influenza dei Longobardi nell'Osimano. 86 E. ARCHETTTI GIAMPAOLINI, Aristocrazia e chiese nella Marca del Centro-Nord tra IX e XI secolo, Roma 1987, pp. 40-42. 87 FIECCONI, Luoghi fortificati cit., pp. 2-3 nota 5; V. VILLANI, Nascita di un comune. Serra dei Conti nel comitato di Senigallia (sec. X-XIII), [Serra de' Conti] 1980, pp. 6-15, ID. Serra de' Conti. Origine ed evoluzione di un'autonomia comunale (secoli X-XV), [Serra de' Conti] 1995, pp. 64-71; BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 840-841 e 850852. 88 Archivio capitolare di S. Severino Marche, Chiese diverse, cas. XXXV, n. 1 (a. 944). Il doc. è pubblicato in G. CONCETTI, La canonica di S. Severino in Sanseverino Marche, 944-1586, Falconara M. 1966, Appendice, pp.193195 n. I, e in R. PACIARONI, Qualche ipotesi sull'evoluzione della pieve di Settempeda, «Miscellanea settempedana», V (1991), pp. 133-152, Appendice, pp. 148-149 n. 1. 89 Sui gastaldati minori nello Spoletino v. E. TAURINO, L'organizzazione territonale della contea di Fermo nei secoli VIII-X. La persistenza della distrettuazione minore longobarda nel ducato di Spoleto: i gastaldati minori, «Studi medievali», s. III, XI (1970), pp. 659-710, part. pp. 699-710; E. SARACCO PREVIDI, Lo sculdhais nel territono longobardo di Rieti (sec. VIII e IX). Dall'amministrazione longobarda a quella franca, «Studi medievali», s. III, XIV (1973), pp. 627-676, part. pp. 661-667 J.-P. BRUNTERC'H, Les circonscriptions du duché de Spolète du VIIIe au XIIe siècle, in Atti dei 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 207-230, part. pp. 212225. 90 Per una panoramica sui castelli longobardi e bizantini con proprio distretto amministrativo si veda SCHNEIDER, Burg und Landgemeinde cit., pp. 3-69. Sul distretto del Seprio v. BOGNETTTI, S. Maria f. p. di Castelseprio Cit., pp. 80-90. 91 V. nota 36. 92 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 39-41 n. 76 (registrazione di peticio forse del sec. VIII), cfr. A. CARILE, Katholikà / Catholica / La Catolga, in A. CARILE-M.L. DE NICOLÒ Cattolica / Katholikà. Un arsenale dell'Esarcato, Milano 1988, pp.7-23, part. pp. 10-14; ID. Materiali Cit., pp. 240-241. Conca e Luceoli rientrano nell'elenco di civitates che l'abate Fulrado consegnò al beato Pietro nel 756 (Liber pontificalis, Stephanus II, 254, ed. cit., p. 454). Su di esso v.a. F. V. LOMBARDI, "Crustumium a quo oppidum". (Note storiche sul fiume e sul castello di Conca), in Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di P Méldini-P.G. Pasini-S. Pivato. [Cattolica-Rimini] 1982, pp. 145-163. 93 V. nota 87. 94 Carte di Fonte Avellana, a cura di C. Pierucci e A. Polverari, 1 (975-1139), Roma 1972, pp. 55-57 n. 22. 95 R SASSI, Le carte del monastero di S. Vittore delle Chiuse sul Sentino, Milano 1962. 96 TAURINO, op. cit., pp. 659-710. 97 La SARACCO PREVIDI, op. cit., pp. 666-667, è del parere che in età carolingia si possano cogliere i primi spunti di un'articolazione del territorio che si attuerà nella sua pienezza solo in età postcarolingia; D. PACINI, I "ministeria" nel territorio di Fermo (secoli X-XII), «Studi maceratesi», 10 (1974), pp. 112-172, part. pp. 116-117, avanza l'ipotesi che i ministeria siano distretti amministrativi della diocesi fermana organizzati dalla fine del sec. X in coincidenza col passaggio dal potere comitale a quello vescovile; secondo G. FASOLI, La Pentapoli fra il papato e l'Impero nell'alto medio evo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 55-88, cfr. p. 62, la denommazlone di ministerium sa più di carolingio che di longobardo o di bizantino. 98 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 842-843. 99 Liber pontificalis, Gregorius ll, 184-185, ed. cit., pp. 404-405, PAULI Hist. Lang., VI 49, ed. cit., p. 181. Un indizio sull'esistenza dei ducati longobardi di Ancona e di Osimo verso la metà del sec. VIII è dato dall'assenza delle due città, oltre che di Numana, dall'elenco dei centri restituiti al beato Pietro nel 756, per cui v. qui a nota 28. L'elenco delle civitates da restituire alla res publica è il risultato di trattative intercorse tra Romani Franchi e Longobardi (O. BERTOLINI, Astolfo, re dei Longobardi, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp.467-483, cfr. pp.477-478): questi ultimi apparirebbero perciò interessati a mantenere il controllo del triangolo strategico costituito dalle tre città pentapolitane. Del resto la loro conquista, come fa osservare O. BERTOLINI, Roma di fronte a Bizanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, p. 574, non era stata opera di Astolfo, bensì risaliva appunto ai tempi di Liutprando: per questa ragione esse furono escluse in un primo tempo dalle trattative, divenendo solo in seguito oggetto di rivendicazione da parte della Chiesa di Roma. Sulla permanenza di Ancona Osimo e Numana nelle mani dei re longobardi dopo la seconda pace di Pavia v. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 60-61. 100 BERTOLINI Roma di fronte a Bisanzio cit., p. 684; FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 59-60. Tuttavia, secondo lo stesso BERTOLINI, I papi cit., III, pp. 33-40, la resa volontaria di Osimo avrebbe permesso ai guerrieri di Liutprando di valicare il Musone e di impadronirsi anche di Numana e di Ancona. Le schiere del re, pertanto, sarebbero penetrate da sud - e non da nord - nella Pentapoli, occupandone soltanto l'estremità meridionale. L'A. ritiene anche (p. 37 nota 63) che queste operazioni non comportassero il passaggio delle truppe regie nei territori del ducato di Spoleto (due affermazioni che risultano, a mio avviso, difficilmente conciliabili. 101 BERTOLINI, I papi cit., III, p. 48. 102 PAULI Hist. Lang., VI, 56, ed. cit., p. 185.
103 PAULI Hist. Lang., VI, 54, ed. cit., pp. 183-184: qui l'A. vuol ricordare le poche sconfitte subite da Liutprando ad opera dei Romani, fra cui quella patita, in sua assenza, dal suo esercito in Rimini. Il particolare è notevole e orienta a ritenere che la via abituale percorsa dal re per penetrare nella Pentapoli fosse quella che scendeva da nord. 104 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 310-315. 105 PAULI Hist. Lang., VI, 57, ed. cit., p. 185. 106 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 144 e 3 l3-314. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 80-81, ritiene il duca Lupo (745-751) un partigiano di Ratchis, ma lo suppone ostile ad Astolfo, che probabilmente nel 751 prese ad esercitare in prima persona i diritti ducali nella regione. 107 V. nota 80. 108 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 74 n 132. Sull'antroponimo germanico Bacaudanis v. S. LAZARD, Studio onomastico del "Breviarium ", in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" cit. (a nota 39), pp. 33-61, part. p. 39. Altre tracce della presenza longobarda nell'Osimano, dal Breviarium Ecclesiae Ravennatis, sono il fondo Longobaldie (pp. 67-68 n. 119 [850c.-878 o 905c.-914]), il fondo Sala Rupta (p. 86 n. 163 [927-971] e p. 68 n. 120 [971-983]), la "casa et curte Honorii sculd(ascii)" (pp. 79-80 n. 146), Leopardo q(ui) voc(atur) Maripassus (pp. 80-81 n. 149 [850c.-878 o 905c.-914]): su questo ed altro si veda BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., p. 836. Sulla questione dei gastaldi e del presunto gastaldato di Osimo si rinvia a nota 85. 109 I più recenti studi sull'argomento sono tornati a riaffermare l'equivalenza dei termini exercitalis e arimannus nelle fonti d'età longobarda, equivalenza che era stata negata da BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 572-580. Essi hanno inoltre affermato l'infondatezza della teoria classica, elaborata dalla scuola storico-giuridica, che vedeva negli arimanni un ceto particolare di coloni-soldati insediati su terra fiscale, l'arimannia appunto, proponendo invece l'identificazione degli arimanni-exercitales con tutti indistintamente i membri del popolo-esercito dei Longobardi, con l'unica esclusione dei liberi homines romani. Non essendo questa la sede per riassumere i termini della vexata quaestio, mi limito a rimandare a quei lavori, comprensivi di bibliografia sull'argomento, che hanno marcato più profondamente gli ultimi sviluppi del dibattito: G. TABACCO, I liberi del re nell'ltalia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966; ID., Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, «Studi medievali» s. III, X (1969), pp. 221-268; S. GASPARRI, La questione degli arimanni, «Bullettino dell'lstituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», n. 87, Roma 1978, pp. 121-153. C'è da aggiungere, però, che dopo la svolta impressa all'impostazione del problema dai contributi del Tabacco il CONTI, II ducato di Spoleto cit., pp. 247-282, senza mettere in dubbio l'equipollenza semantica tra arimannus ed exercitalis è tornato a sostenere la tesi di un uso specifico dei due termini, che indicherebbero i membri delle sequele dei re e degli iudices, in ciò riavvicinandosi alle posizioni cosiddette prefeudali del Bertolini. 110 A. SIMONINI, Autocefalia ed Esarcato in Italia, Ravenna 1969, pp. 150-151, CARILE Dal V all'VIII secolo cit., p. 358. 111 P. RUGO, Le iscrizioni dei sec. VI-VII-VIII esistenti in Italia, IV, Cittadella 1978, p. 28 n. 8; cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 62; ALLEVI, Nell’alto medioevo fermano cit., pp. 1057-1062. 112 Codice diplomatico longobardo, III/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1973, pp. 251-260 (part. p. 256) n. 44. 113 A POLVERARI, Senigallia nella storia, 2, Evo medio, Senigallia 1981, Appendice documentaria, pp. 215-221 nn. 1-4; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, 11, a cura di B. Lanfranchi Strina, Venezia 1981, pp. 13-14 n. 1 (a. 800). Il monastero di S. Maria di Sesto era stato fondato da Erfo, Marco e Anto, figli del duca Pietro del Friuli, poco prima del 762: Codice diplomatico longobardo, II, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1933, pp. 98-109 n. 162. Particolarmente importante, quindi, si rivela il legame che unisce la famiglia di Sergio al monastero friulano e alla stessa stirpe ducale del Friuli. 114 ANDREAE DANDULI Chronica per extensum descripta aa. 46-1280 d.C., a cura di E. Pastorello, in RR.II.SS., n. ed., XII/1, Bologna 1938, pp. 1-327, part. pp. 124-125. Sulla cronachistica veneziana riguardante il duca Sergio e sulle cronache senigalliesi (in particolare su quella più antica di G.E Ferrari del 1564 circa) v. A. POLVERARI, Una Bulgaria nella Pentapoli. Longobardi, Bulgari e Sclavini a Senigallia, Senigallia 1969, pp. 21-24 e 30-31, inoltre ID., Senigallia nella storia cit., pp. 53-57: il Ferrari presenta Sergio, figlio del duca Arioldo, come l'ultimo di una quasi ininterrotta serie di duchi longobardi di Senigallia dalla fine del secolo VI alla fine dell'VIII, di questi duchi, però, Sergio rimane l'unico storicamente accertato. Diversa è invece la ricostruzione degli eventi in L. SIENA, Storia della città di Sinigaglia, Sinigaglia 1746, pp. 77-84, il quale fa iniziare la dominazione longobarda nella città con la spedizione di Liutprando del 727 considerando implicitamente Arioldo, di nazione longobarda, come il primo duca di Senigallia, confermato in questa carica dal pontefice romano. 115 Sull'egemonia dell'aristocrazia friulana nel periodo di regno di Ratchis e Astolfo v. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 32-34. 116 Liber pontificalis, Hadrianus, 303, ed. cit., pp. 491-492, Pauli Continuatio tertia, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 212. Sembrerebbe plausibile l'inimicizia tra il padre di Sergio (v. qui a nota 114), in quanto esponente dell'aristocrazia veneto-friulana, e Desiderio, che invece rappresenterebbe la reazione dell'elemento tosco-padano allo strapotere dei gruppi parentali dell'Austria: cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 34. 117 GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 84-85; CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 315-317. 118 Liber pontificalis, Hadrianus, 311-313, ed. cit., pp.495-496; cfr. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 63-64. 119 note 81 e 83. 120 GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 26.
121 M.G.H., Dipl. Karol., I, 2° ed., Berolini 1956, pp. 213-216 n. 158 (diploma di Carlo Magno al monastero di Montecassino, a. 787): «... intra ambobus ducatibus nostris Spoletino atque Firmano»; cfr. GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 114-122. 122M.G.H., LL., II, Capit. regg. Franc., I, Hannoverae 1883, pp. 326-327 n. 163. 123 La suprema autorità giusdicente in Camerino era, agli inizi del sec. IX, un gastaldo (v. nota 85): i placiti da questi presieduti sono datati agli anni di un duca (Eccideo e Gerardo), che non è quello di Spoleto. Tali duchi rinviano pertanto ad una sede ducale che, per i motivi suesposti, non è nemmeno Camerino, bensì Fermo. Altri due documenti camerinesi, dell'821 e 834, sono datati «temporibus gerardi ducis» e «temporibus escrotoni et garardi comitum, anno ducatus eorum in dei nomine j. » (Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, pubblicato da I. Giorgi e U. Balzani, II, Roma l879, p.210 n.254, p.230 n.279). Discutibile, a tal proposito, la definizione di "duchi a Camerino" proposta dal GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., p. 119, il quale pure ammette che un "duca di Camerino" come tale non è mai nominato nelle fonti. 124 ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano cit., pp. 1084-1115. 125 GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 102-112.
Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni 'post obitum' nel regno longobardo
DE THESAURO IN COELO COLLOCANDO Aurea regna tenet supero thesaurus in aevo; Illic angelica praefulgida vestis habetur. Incorrupta manens semper sine fine beatis. Illic gemma nitet, pendentia pallia lucent Anulus, armillue, torques, dextralia, mitra, Aurea cuncta micant, lucentia cuncta coruscant. (Versus quod Smaragdus ad unum de filii Ludovici Pii misit, xii b.)
1. I doni di Rottopert Nel 745 Rottopert vir magnificus di Agrate affida a un atto scritto il destino delle sue sostanze 1. La sua principale preoccupazione è di prefigurare alle numerose donne della sua famiglia un futuro che non pregiudichi l'integrità del suo patrimonio. Le sorelle Galla e Rodelinda, le figlie Anselda e Galla, riceveranno in usufrutto alcune terre soltanto se conserveranno l'abito religioso, e cioè se non daranno alla famiglia una discendenza indesiderata. Solo per una figlia, Gradana, Rottopert ha pianificato un futuro di madre e di sposa, e considera una sventura che essa rimanga in cabello, cioè nubile nella casa paterna 2. L'atto comprende anche una serie di donazioni fondiarie a enti ecclesiastici locali, ma non riguarda gli eredi legittimi di Rottopert, ai quali spettano le sostanze tramandate a Rottopert dall'eredità paterna. Oltre agli aspetti che riguardano direttamente la pianificazione del futuro del nucleo parentale, l'atto si volge parallelamente a prefigurare la posizione di Rottopert nell'aldilà: una serie di clausole precisa infatti il modo in cui egli desidera essere ricordato nel giorno della sua morte. Egli stabilisce che alcuni suoi oggetti preziosi, un bacile e un gorale, cioè un calice d'argento 3, siano spezzati e distribuiti ai poveri. La cintura d'oro di Rottopert, denominata ringa mea aurea, dovrà essere invece riscattata dal figlio al prezzo di cento soldi, ma se egli non la vorrà anch'essa dovrà essere spezzata e distribuita in elemosina. Il rituale della rottura e della distribuzione degli oggetti sarà amministrato dalla moglie di Rottopert, Ratruda, il giorno stesso della morte del marito: suo compito sarà anche di distribuire ai poveri metà del vestitum del defunto 4. Questo documento testimonia con eccezionale chiarezza una serie assai rilevante di aspetti: esso non ci fornisce solo un esempio di strategia patrimoniale familiare, volta a limitare i danni di un eccessivo numero di donne all'interno della stessa famiglia, ma ci informa che alcuni degli oggetti che componevano un secolo prima il corredo funebre dei defunti erano utilizzati come dono ai poveri pro anima. Infine che il rituale della distribuzione e il rituale funebre non sono, come si potrebbe sulle prime ritenere, amministrati da un ecclesiastico, bensì da una donna, la moglie di Rottopert. La donazione di Rottopert può quindi costituire un utile punto di partenza per esaminare il processo attraverso il quale le aristocrazie del regno longobardo utilizzarono i documenti scritti in previsione della morte e le modificazioni nel rituale funebre che ne scaturirono. L'atto di Rottopert riguarda per giunta il territorio di Trezzo sull'Adda, il sito di una delle più importanti necropoli di età longobarda venute alla luce nel secondo dopoguerra 5. Voglio qui presentare i risultati di una ricerca ancora in corso sugli atti di tipo testamentario effettuati nel regno dei Longobardi fino alla piena età carolingia. Lo scopo consiste nell'esaminare quali esigenze e quale tipo di rapporto essi tendano a esprimere sia nei confronti del patrimonio familiare, sia nei confronti degli enti ecclesiastici che risultano ricevere i beni, globalmente oppure soltanto in parte 6. L'aspetto che intendo sviluppare in questa sede si riferisce in particolare al ruolo dei mobilia elencati nelle donazioni dell'VIII secolo e dei mobilia che normalmente si rinvengono nelle sepolture della prima età longobarda in Italia. Fonti per questo lavoro sono le donazioni post obitum (aventi
cioè valore solo dopo la morte del donatore) redatte in Italia nel corso dell'VIII secolo e la composizione dei corredi funerari utilizzati dai Longobardi nei due secoli precedenti 7. Di solito si afferma che la scomparsa dei corredi con armi dalle tombe dei Longobardi è dovuta alla conversione al cattolicesimo di questi ultimi. Mi sembra tuttavia che le linee di tale mutamento necessitino di ulteriori riflessioni. Infatti, anche per i Longobardi, non solo la mort du crétien divenne mort chrétienne 8, ma al contempo le istituzioni ecclesiastiche svilupparono un linguaggio e delle strategie atti a cooptare i Longobardi stessi. In questo processo convergente, alla cristianizzazione della morte dei Longobardi si accompagnò una 'germanizzazione' del cristianesimo, vale a dire una modificazione delle forme e dei modi attraverso i quali il cristianesimo fu vissuto e interpretato 9. Così come i cambiamenti nel corredo funebre dei Longobardi non consistettero in un supino e passivo processo di acculturazione - cioè nel progressivo adattamento agli usi della popolazione locale 10 anche l'adozione dei riti cristiani della morte sottintende una prospettiva di utilizzazione di essi radicalmente nuova, derivata dal convergere degli interessi patrimoniali delle aristocrazie con quelli di affermazione delle gerarchie ecclesiastiche nel disciplinare il funzionamento della società. Complessivamente il mutamento dei rituali funerari dei Longobardi è parte integrante del mutamento dell'aristocrazia e delle forme di trasmissione della proprietà nella società longobarda nel suo insieme: le istituzioni ecclesiastiche furono in grado di indirizzare tale cambiamento perché si presentarono, e furono intese, quale strumento di rafforzamento patrimoniale dell'aristocrazia stessa. Anni fa, in un volume ancora stimolante, Jack Goody ha proposto una stretta connessione tra il cambiamento della struttura della famiglia, i mutamenti della politica patrimoniale nei confronti della discendenza, e infine l'adozione del testamento nella società anglo-sassone. Questi tre aspetti sono interpretati come il frutto di un'azione coercitiva e disciplinante della chiesa nei confronti dell'aristocrazia laica: limitando fortemente il matrimonio endogamico - attraverso il quale i gruppi parentali erano in grado di mantenere compatto il patrimonio fondiario - la chiesa sarebbe riuscita a convogliare verso di sé le donazioni fondiarie, presentandosi quale ente in grado di far fruttare i beni stessi su due piani e in due mondi distinti. Se nel mondo ultraterreno i doni alla chiesa avrebbero guadagnato al donatore la salvezza dell'anima, nel mondo dei vivi essi avrebbero assicurato uno stabile rapporto di patronage tra i gruppi familiari e gli enti ecclesiastici. La stabilità sociale dei laici sarebbe stata garantita dalle donazioni dirette a enti dai beni inalienabili, impedendo la dispersione del patrimonio stesso 11. Anche se il modello proposto da Goody prospetta una opposizione del tutto astratta tra gli interessi dei laici e quelli delle gerarchie ecclesiastiche, vedendo i due gruppi separati assai più rigidamente di quanto non fossero in realtà 12, nondimeno risulta convincente la prospettiva di ricerca che osserva nella loro reciproca connessione le strategie di rafforzamento patrimoniale, l'azione delle istituzioni ecclesiastiche nel definire i modelli di famiglia legittima e incestuosa, e infine i mutamenti nella trasmissione della proprietà. Se l'attenzione di Goody e di coloro che si sono soffermati in seguito a definire i fenomeni di mutamento sociale nell'Europa altomedievale si è concentrata prevalentemente sui beni fondiari e sulle strategie per conservarli all'interno del gruppo familiare, io mi soffermerò invece sul ruolo dei beni mobili e sul cambiamento della loro funzione in relazione ai rituali connessi alla morte. Osserverò cioè lo slittamento dell'investimento familiare dal donare al morto un ricco corredo di armi o di gioielli all'elencare per scritto degli oggetti da distribuire pro anima. 2. Le donazioni 'post obitum': caratteristiche formali e strutturali Vale anzitutto la pena di chiarire quali siano le caratteristiche della documentazione scritta presa in esame. Nonostante il tema della morte e dei testamenti sia stato molto à la page negli ultimi vent'anni 13, manca ancora uno studio di insieme, sia diplomatistico, sia strutturale, sugli atti fatti in previsione della morte nell'Italia altomedievale. Una delle ragioni di tale disinteresse è stata motivata per il fatto che, come spesso è stato evidenziato dagli storici del diritto 14, durante l'alto medioevo non si fece più ricorso al testamento romano, un istituto formalmente codificato da clausole specifiche quali l'istituzione dell'erede, la presenza di sette testimoni, la possibilità della revocabilità espressa dal
codicilium 15. L'abbandono del testamento romano non significò tuttavia il venir meno di ogni forma di documento scritto avente valore soltanto dopo la morte: il testamento fu infatti sostituito da atti di tipo 'paratestamentario', noti attraverso i nomi di donatio pro anima, donatio post obitum, charta iudicati. Anche se dal punto di vista giuridico le donazioni post obitum non sono veri e propri testamenti romani, questa non appare una buona ragione per non esaminare affatto le forme con cui l'aristocrazia, maschile e femminile, laica ed ecclesiastica, volle pianificare il futuro dei propri beni e lo status del proprio gruppo parentale. Tali documenti rappresentano anzi un aspetto caratteristico, anche dal punto di vista formale, della trasmissione dei beni durante l'alto medioevo, cosicché “accentrare l'indagine su[i testamenti romani] e ricordare marginalmente [gli atti paratestamentari] significa non solo coartare tale realtà, ma rinunciare a coglierne i motivi di fondo” 16. Gli atti testamentari sono inoltre uno straordinario strumento di analisi sociale, la cui peculiarità non è soltanto formale ma anche di sostanza. La prospettiva del testatario è infatti duplice, come abbiamo visto nel caso appena esaminato di Rottopert: il documento è contemporaneamente volto a stabilire ciò che succederà dopo la morte sia su un piano ultraterreno (le modalità attraverso le quali il defunto dovrà essere ricordato pubblicamente dalla famiglia), sia su un piano rigorosamente terreno, delineando non solo le prospettive patrimoniali e di carriera dei singoli figli ma anche formalizzando per scritto i rapporti che la famiglia stessa intrattiene con alcuni enti ecclesiastici. I testamenti, insomma, sono miroir de la mort e al contempo miroir de la vie 17. Occorre poi sottolineare che se tecnicamente le donazioni pro anima e le donazioni post obitum sono negozi a titolo gratuito 18, dal punto di vista concreto esse si configurano come vere e proprie transazioni economiche. A fronte dei doni indirizzati a un ente ecclesiastico e ad alcuni membri del proprio gruppo parentale, il donatore si aspetta di ricevere in cambio la salvezza della propria anima e il rafforzamento patrimoniale della sua discendenza. La volontà del testatario non riguarda allora la legittima linea successoria, che in base al diritto longobardo, viene automaticamente a spartirsi i beni famigliari 19, bensì è volta a stabilire delle eccezioni, soprattutto per i beni che sono stati da lui acquisiti durante la sua vita 20. Come ha ben rilevato Adriano Prosperi, i testamenti servono a creare delle eccezioni, si inseriscono negli interstizi lasciati liberi dalla legge per condizionare il futuro, cosicché “a chi muore preme soprattutto regolare la successione dei suoi beni al di fuori delle norme successorie che altrimenti entrerebbero automaticamente in vigore” 21. Occorre tuttavia precisare che nell'alto medioevo il numero di individui che decise di affidare a un atto scritto il destino dei beni famigliari è assai esiguo e socialmente ristretto all'aristocrazia: esso comprende non soltanto gli ecclesiastici, ma anche laici (uomini e donne) e vedove in particolare. Si può allora ritenere che la stessa scelta di redigere un testamento faccia parte integrante degli strumenti di differenziazione di stile di vita dell'aristocrazia ed esprima, insieme ad altri aspetti, il bisogno di distinzione delle élites 22. Dunque, le donazioni post obitum sono uno dei molteplici strumenti scritti che esprimono la volontà di rafforzare i legami consolidati da un gruppo parentale, proiettandoli anche nel futuro. Tali esigenze sono pienamente espresse dal punto di vista formale, nella produzione di un tipo documentario largamente aperto a variazioni locali, ma che presenta una ossatura costante. Essa si compone di un protocollo, variamente articolato, in cui il donatore specifica le circostanze che lo hanno spinto a redigere l'atto; la dispositio può essere incentrata sia sull'elenco dei singoli beni, specificando il destinatario per ciascuno di essi, oppure, all'inverso, avere come elenco prevalente quello dei destinatari, specificando per ognuno di essi quali sostanze egli verrà in possesso. Queste variazioni nella struttura dell'elenco sono un fattore importante da considerare, perché nel primo caso il testo appare indirizzato a formalizzare per scritto le peculiarità patrimoniali, nel secondo sono invece sottolineati le relazioni sociali e i legami del donatore: la prospettiva del primo elenco è di consolidamento dello status acquisito, quella del secondo appare volta invece a delinearne una possibile evoluzione. Parte integrante della dispositio, sono infine le modalità rituali con cui il donatore dovrà essere ricordato sia immediatamente dopo la sua morte, sia negli anni successivi; l'escatocollo comprende infine la proibizione a venir meno alla irrevocabile volontà espressa dal donatore, e, come di norma, la serie dei sottoscrittori e la sottoscrizione del redattore dell'atto.
Rispetto alla struttura diplomatistica dei testamenti transalpini di età merovingia, esaminata in una serie di lavori recenti 23 le carte italiane presentano una maggiore ricchezza nel formulario del protocollo in cui costantemente si precisa il motivo che ha spinto il donatore a far redigere l'atto: la partenza per la guerra 24, la mancanza di figli maschi 25 o più semplicemente il desiderio di assicurare a sé e ai propri defunti una posizione stabile nell'al di là 26, e assai più raramente il timore della morte imminente 27, o la malattia 28. Di recente si è supposto che tali puntualizzazioni siano una diretta spia della novità che per i Longobardi rappresentava il far uso di documenti scritti per stabilire le proprie volontà dopo la morte: nell'Italia meridionale bizantina, dove si continuò semplicemente la tradizione precedente, le motivazioni che avevano spinto il testatario a redigere l'atto non compaiono quasi mai 29. Tuttavia, il fatto che le donazioni post obitum appaiano molto raramente in connessione con l'imminenza della morte, pone in rilievo che il loro valore principale fosse quello di garantire al testatario, durante il resto della sua vita, l'usufrutto e la disponibilità di alcuni suoi beni al sicuro da contestazioni. Torneremo più avanti sul problema. Le donazioni post obitum presentano una sorprendente uniformità, anche al di là delle variazioni che ho prima sottolineato, nelle categorie dei beni menzionati, cioè quelli che sono giudicati rilevanti per qualificare lo status del donatore: all'elenco dei beni fondiari, segue costantemente la menzione degli animali, dei servi (di cui si ordina la liberazione nel giorno della morte del donatore), e infine dei mobilia o scherpa, che possono sia essere elencati con precisione mentre si stabilisce chi ne verrà in possesso, sia essere menzionati cumulativamente, riservandosi la facoltà di donarli pro anima 30. Terra, animali, servi e mobilia vengono dunque a comporre la peculiarità patrimoniale di un'élite, che trova nel testamento l'occasione di elencare per scritto i beni che definiscono la posizione sociale, affermando le proprie caratteristiche attraverso uno strumento destinato a durare nel tempo. Elencare, prevedere e condizionare furono le opportunità offerte ai Longobardi dalla parola scritta, le cui molteplici funzioni e potenzialità essi avevano imparato ad apprezzare e a utilizzare attraverso la mediazione degli ecclesiastici. 3. I rituali funerari e le loro variazioni in età longobarda Occorre anzitutto soffermarsi, in generale, sul significato sociale della morte e dei rituali ad essa connessi. Per società non strutturate gerarchicamente attraverso un cursus honorum pubblico, quale fu inizialmente quella del regno longobardo 31, il mantenimento di uno status privilegiato è affidato non al ricoprire una carica pubblica, come nel mondo romano, bensì a una continua negoziazione 32: nell'alto medioevo un dives non può permettersi di essere parsimonioso, poiché l'ostentazione e la spartizione della ricchezza con i propri sodali rappresentano gli strumenti di consolidamento e conferma della ricchezza stessa e della posizione di centralità sociale dell'individuo 33. In questo contesto di relativa instabilità, la morte di un individuo costituisce un momento di potenziale di crisi per il gruppo parentale: esso tende pertanto a sviluppare un rituale atto a ribadire lo status del defunto, trasferendone le peculiarità su di sé 34. Le variazioni nei rituali della morte sono perciò strettamente connesse con i modi di trasmissione del potere e della rilevanza sociale nella società dei vivi. In età romana, si sa, le élites demandavano la continuità familiare alle iscrizioni e alle tombe famigliari anche monumentali, nei confronti di un'audience soprattutto urbana 35. Invece sepolture senza evidenti segni della loro presenza nel territorio, prive del ricordo scritto dell'identità dei sepolti - se non forse cumuli di pietre e, in casi eccezionali e urbani, le pertiche ricordate da Paolo Diacono fuori Pavia 36 ma che contengono al loro interno un defunto riccamente abbigliato pongono chiaramente l'accento sul momento dell'interramento come momento chiave della trasmissione delle peculiarità del defunto a coloro che, amministrando il rituale funebre, si proclamano suoi successori. Il momento dell'interramento è cioè quello nel quale la comunità ha la possibilità di vedere il defunto riccamente abbigliato e una famiglia ha di proclamare la continuità del suo status. I corredi funebri di armi e gioielli sono la prova che, almeno fino alla metà del VII secolo, i Longobardi affidavano al momento della sepoltura e delle cerimonie a essa collegate un grande valore simbolico e celebrativo, volto ad assicurare ai discendenti le prerogative sociali del defunto espresse e definite attraverso il suo
corredo. Si tratta cioè di un rituale amministrato dal gruppo parentale, privo di forme esteriori durevoli nel tempo, che si indirizza a una comunità locale e affida alla tradizione orale il ricordo delle cerimonie funebri e la memoria del prestigio familiare 37. Le variazioni nelle componenti del corredo, attraverso il ricorso a oggetti più o meno suntuosi, in stile 'germanico' o 'bizantino', sono la spia più efficace di quanto mutevoli e soggetti ai modelli elaborati in sede locale fossero gli strumenti con cui lo status era affermato e percepito 38: gli elementi del corredo funebre non erano stabiliti rigidamente per sottolineare l'appartenenza etnica, ma scelti di volta in volta per ostentare il prestigio sociale negoziato localmente. Non c'è dubbio che lo stanziamento in Italia da parte dei Longobardi costituì un forte mutamento: come ha brillantemente sintetizzato Paolo Cammarosano, oltre che di un mutamento per la storia d'Italia si trattò di una importante frattura per la storia dei Longobardi stessi 39. Per l'aspetto che qui ci interessa, a partire degli ultimi anni del VI secolo e fino almeno al primo venticinquennio del VII secolo, essi accentuarono fortemente il carattere di ostentazione sociale delle sepolture con corredo, moltiplicando gli oggetti preziosi tesaurizzati 40. Si potrebbe dire che nel momento del radicamento territoriale nel mondo latino, le forme peculiari di sepoltura dei gruppi Longobardi furono ulteriormente enfatizzate e presentate come attributo distintivo delle élites. Rispetto alle deposizioni della Pannonia e del primo periodo italiano, le élites del III secolo sono seppellite con oggetti che si riferiscono a tre classi tipologiche: l'abito funebre (decorato da fibule, cinture, vesti di broccato d'oro), le armi (se si tratta di sepolture maschili), i gioielli (se si tratta di sepolture femminili) e infine gli oggetti riferibili al banchetto, generalmente deposti ai piedi. Questi ultimi comprendono recipienti di vetro, bacili e brocche di bronzo, e infine recipienti di ceramica. L'arricchimento del corredo può essere spiegato attraverso il processo di progressiva trasformazione dei mezzi di ostentazione sociale da parte dell'aristocrazia longobarda: il radicamento territoriale aveva infatti profondamente mutato i valori e le azioni in base alle quali un uomo libero poteva dimostrare e conservare la propria specificità in una società semi-sedentaria, quali l'abilità nella razzia e nel raccogliere un ricco bottino, e il diritto di partecipare all'exercitus. Con l'insediamento in Italia, la nuova condizione di proprietari fondiari, pur permanendo la partecipazione all'exercitus come attività principe dell'uomo libero, sembra aver comportato una ridefinizione e un arricchimento della social persona: le sole armi - la componente principale dei corredi maschili pannonici - non risultarono cioè sufficienti a definire la più ampia sfera di relazioni delle aristocrazie. Ricche vesti, guarnizioni da cintura di oro e di argento, cioè oggetti di ornamento personale, si accompagnarono sempre più frequentemente a oggetti relativi al banchetto che sottolineavano la prodigalità del defunto e della famiglia nello spartire le proprie ricchezze in occasioni collettive e conviviali, volte a consolidare la fama e il rispetto 41. La stessa selezione delle armi tesaurizzate si ampliò, venendo a comprendere anche armi difensive quali l'elmo e la corazza, e parimenti potenziando gli elementi decorativi delle armi tradizionali, la spada e lo scudo 42. Se questo processo di ostentazione e stravaganza funeraria sembra riguardare nel complesso le sepolture in Europa, specie tra quelle popolazioni che non avevano ancora instaurato uno stabile rapporto di collaborazione politica con le élites ecclesiastiche, è da notare come, a differenza di AngloSassoni 43, Alamanni 44 e Visigoti 45, i Longobardi tesero a sottolineare il proprio rango equestre: a partire dagli ultimi anni del VI secolo, compaiono infatti alcune sepolture in cui si può riconoscere l'intenzione di qualificare il sepolto come uomo armato a cavallo. Gli oggetti utilizzati si riferiscono all'equipaggiamento del cavaliere e alla bardatura del cavallo (gli speroni, le briglie, il morso del cavallo) e comprendono talvolta vere e proprie sepolture di cavalli, poste accanto a quelle umane, oppure in fosse separate 46. Se sicuramente i cavalieri ebbero una rilevante funzione militare oltre che uno status sociale elitario già nella fase pre-italiana dei Longobardi 47, le sepolture ritrovate in Pannonia, anch'esse con corredo, presentano soltanto in casi eccezionali gli arredi 'da cavaliere': il morso del cavallo e le guarnizioni delle briglie furono inoltre i principali oggetti utilizzati per definire tale condizione 48. L'esigenza di qualificare alcuni defunti come cavalieri sembra scaturire, o per lo meno essere accentuata, dallo stanziamento in Italia, quando il corredo tradizionale maschile (formato da una
semplice cintura con guarnizioni di ferro, spada e scudo) non risultò più adeguato a esprimere con la dovuta efficacia la peculiarità di un'élite di possessori armati 49. Il confronto con la cronologia europea della distribuzione spaziale e temporale delle tombe da cavaliere permette di proporre, se non altro come ipotesi di lavoro, l'interpretazione fornita da Klaus Randsborg per i corredi equestri che si diffusero, in soluzione di continuità con la tradizione precedente, nella Danimarca del X secolo: essi paiono infatti esprimere l'ostentazione di un nuovo strato sociale di leaders armati, formatosi in concomitanza al processo di distribuzione delle terre che accompagnò il consolidarsi del regno 50. L'ostentazione equestre sarebbe allora ricollegabile a forti mutamenti nella composizione sociale delle élites e coloro che tendono a manifestarla si presentano come veri e propri parvenus. Si è detto che i corredi equestri si accompagnano, di norma, con un apparato ridondante di corredo, che testimonia il notevole investimento effettuato dalla famiglia (anche in termini economici) nel dotare il morto di oggetti volti a caratterizzare appieno le qualità e il rilievo della sua social persona e del gruppo parentale. Vale la pena di notare che, parallelamente al cambiamento che si è finora delineato, se ne affiancò un secondo, finora non sufficientemente messo in rilievo. Mentre le deposizioni femminili pre-italiane e relative al periodo immediatamente successivo alla migrazione dei Longobardi presentano corredi assai semplici, in genere limitati a scarsi ornamenti di abbigliamento (in genere la coppia di fibule ad S 51) le tombe equestri sono puntualmente accompagnate da tombe femminili che presentano un parallelo carattere di eccentricità. Accanto ai monili trovano cioè posto offerte funebri del tutto simili, quantitativamente e tipologicamente, a quelle dei cavalieri. Se nel VI secolo appare assai problematico individuare, sulla sola base dei corredi femminili, dei caratteri precipuamente distintivi di diverso stato sociale, all'inizio del VII secolo pare manifestarsi l'intenzione di indicare con chiarezza un modello di deposizione femminile che potremmo chiamare 'le donne del cavaliere' intendendo con questa espressione gli elementi femminili collegati in vario modo (moglie, figlia, sorella) con il defunto. In questa fase di mutamento, le donne paiono poter utilizzare, condividere, ma soprattutto contribuire ad affermare i simboli di status del loro gruppo parentale 52. 4. La Chiesa e le donne E in questo contesto, in cui assistiamo alla formazione di un nuovo ceto di possessori, che si può inserire una variante in controtendenza. Narra la Vita di Gertrude, badessa del monastero regio di Nivelles e figlia di Pipino e Itta, scritta alla fine del VII secolo, che all'approssimarsi della morte ella volle che “in ipso sepulture loco nullum laneum nec lineum vestitum super se misissent praeter unum velum vile multum [...] et ipsum cilicium: in sepulcro, ubi in pace quiescit, nullo alio velamine cooperire, exceptis his duobus, cilicio, quae induta fuerat, et panno vetere, quod ipsum cilicium tegebatur. Dicebat autem quod res superflua nihil morientibus nec viventibus adiovare potuisset” 53. Per contrapposizione alle ricche sepolture con corredo che avevano, per esempio, accompagnato le sepoltura di Baltilde, badessa di Chelles, e di Teodechilde, badessa di Jouarre 54, Gertrude volle sottolineare 1'umilitas, il disprezzo per le forme di ostentazione dell'origine sociale, quali le ricche vesti funebri. Giustamente si è rilevato quanto tale atteggiamento minimalista fosse proficuo nel definire il nuovo orientamento dell'aristocrazia merovingia nei confronti della morte 55. L'ostentato disprezzo delle usuali forme di celebrazione del prestigio sociale sottolineava infatti, attraverso il ribaltamento dei comportamenti tradizionali, la continua rielabolazione delle celebrazioni della morte di un gruppo sociale alla costante ricerca e ridefinizione della propria specificità. Il nuovo orientamento, che negava esplicitamente ogni valore simbolico agli oggetti sepolti con il morto, appare come una risposta aristocratica alla diffusione generalizzata dei corredi funebri, nel frattempo sempre più frequentemente composti da oggetti che semplicemente evocavano quelli tesaurizzati nelle ricche deposizioni dell'inizio del secolo 56.
Anche se riferita al peculiare contesto della società merovingia, ove la compenetrazione di ruoli e di interessi tra carriere laiche e carriere ecclesiastiche poteva certamente contare su una consuetudine di maggiore durata rispetto al caso italiano 57, la scelta di Gertrude può essere un utile punto di riferimento per comprendere in che termini si manifestò l'influenza ecclesiastica nel promuovere l'abbandono dell'uso del corredo tra i Longobardi, fenomeno ormai generalizzato durante il secolo VIII. Di recente Giovanni Tabacco ha sottolineato il peculiare rapporto che si era instaurato tra i Longobardi e le istituzioni ecclesiastiche locali, a partire dall'inizio del VII secolo. Nel regno dei Longobardi “le comunità monastiche si offrivano come ancora di salvezza religiosa, mezzo di acquietamento morale, garanzia di conservazione sociale per i possessori più trepidanti, mentre vescovi e abbaziati mantenevano aperte all'inquieta aristocrazia longobarda le vie della promozione individuale e parentale” 58: I'aggregazione attorno agli enti monastici dei gruppi parentali aristocratici non era però stata incentivata dall'intervento regio, così come era invece avvenuto nel regno dei Franchi, ma si era invece manifestata in modo del tutto spontaneo 59. Le istituzioni ecclesiastiche avevano cioè acquisito un ruolo non nel funzionamento del regno, bensì nel rafforzamento patrimoniale delle aristocrazie, esercitando una spontanea attrazione nei confronti dei laici grazie al rigore delle proprie tradizioni e alla gamma di strumenti culturali e di mezzi concreti di potenziamento che esse sole parevano offrire: il loro fascino risiedeva nell'essere rimasto un mondo governato da altre leggi, che aveva perpetuato lettura e scrittura come strumenti della propria specificità 60, Vi sono alcuni indizi per poter ritenere che tale 'fascino' si esercitò anzitutto sulle donne, offrendo ad esse, ai margini delle leggi consuetudinarie che regolamentavano i rapporti patrimoniali, l'opportunità di investire alcune delle loro sostanze come doni alla chiesa, salvaguardando sia una parte degli stessi beni per il proprio sostentamento sia la loro posizione in rapporto ai conflitti interni alla propria famiglia 61. L'esempio veniva dall'alto, come si può osservare dai rapporti epistolari intercorsi tra papa Gregorio Magno e la regina Teodelinda, e, successivamente, dalle donazioni fondiarie promosse dalle regine a favore di vari monasteri del regno 62. Il rapporto tra istituzioni ecclesiastiche ed elemento femminile della società si venne saldando grazie a una serie di rapporti di natura patrimoniale, che non furono necessariamente in antagonismo alle strategie patrimoniali parentali. Un censimento, recentemente effettuato, sull'andamento delle fondazioni monastiche femminili nell'Italia altomedievale, ha dimostrato che essi sono in grandissima parte fondati da laici, mentre i monasteri maschili presentano una percentuale assai più ampia di fondatori ecclesiastici 63: se in molti casi, come in quello di Rottopert e delle sue figlie, la monacazione serviva a orientare lo sviluppo famigliare e a limitare il numero dei discendenti, in altri la facoltà di donare alla Chiesa alcune sostanze poteva agire come strumento di rafforzamento individuale per le donne stesse. È infatti circa la possibilità di donare liberamente per le donne che l'Editto di Rotari interviene in maniera impositiva, quasi certamente sulla spinta delle pressioni di un conflitto esistente all'interno dei gruppi famigliari, stabilendo in modo irrevocabile il controllo maschile sulle attività patrimoniali delle donne 64. I contatti tra Chiesa e aristocrazia in Italia compresero, come è stato più volte sottolineato, una profonda modificazione culturale che consistette anzitutto nell'iniziazione alla parola scritta e al suo valore di testimonianza di prova nei conflitti, ma non solo. Dalla nostra angolazione ci interessa sottolineare che l'intensificarsi dei rapporti tra aristocrazia e gerarchie ecclesiastiche favorì, durante l'VIII secolo, l'immissione dei rituali funerari nell'ambito ecclesiastico, attraverso i crescenti rapporti che venivano stringendosi tra le donne e gli enti monastici. Ne derivò, anzitutto, un nuovo approccio alla commemorazione del defunto che interpretava la messa come mezzo per alleviare la sofferenza delle anime nell'aldilà e per espiare i peccati dopo la morte, favorendo la creazione di una serie speciale di messe commemorative, esplicitamente indirizzate a questo obiettivo 65. I riti funerari incominciarono cioè a orientarsi verso forme ecclesiastiche di celebrazione e di perpetuazione della memoria.
Il crescente peso dei monaci in questo ambito si manifestò su piani diversi: da un lato incoraggiò l'impiantarsi delle necropoli all'interno degli edifici ecclesiastici 66, dall'altro stimolò il ritorno della parola scritta come parte integrante della celebrazione della memoria individuale dei defunti, come testimoniano le numerose iscrizioni di regine e di aristocratiche pavesi, di recente riesaminate da Franca Ela Consolino 67; infine suggerì l'utilizzazione di alcuni mobilia come strumento di negoziazione del destino del defunto. Come la moglie di Rottopert, anche Ansa, moglie di Tenderacio di Rieti, ebbe dal marito il compito di distribuire pro anima caldaria II, concas de auricalco II, caballum maurum I et alium cavallum graum ed altri animali e servi, e di donare un cavallo ciascuno a tre preti minuziosamente indicati 68. Il rapporto tra figure femminili, enti monastici e celebrazione del rituale funerario risulta anche dal fatto che il compito di assolvere al rituale post mortem appare riservato alle donne anche nel caso che il testatario non abbia moglie o sorelle: è il caso di Anspaldo di Lucca che incarica Rattruda ancilla Dei parente mea, oltre che di reggere la chiesa di S. Maria fondata da Anspaldo stesso, anche di liberare i servi e di assegnare i monoilia (composti da ceramenta, ferramenta usitilia lignae) per la sua anima 69. Sembra allora che si possa supporre che le donne, tradizionali amministratrici del rituale funerario, abbiano contribuito in maniera non irrilevante nel promuovere una direzione ecclesiastica ai mutamenti nella celebrazione dei defunti, eleggendo i monasteri locali, e non i loro sepolcri personali, come i più efficaci custodi dei loro beni mobili. I rapporti tra donne e chiese locali si manifestarono anzitutto attraverso le donazioni dei propri beni individuali. Si tratta del morgencap, il dono che il marito faceva alla donna il giorno delle nozze, consistente in una serie di beni mobili 70 e beni fondiari 71, e del faderfio, cioè i beni famigliari donati alla donna dal padre come parte legittima dell'eredità in die votorum, il giorno in cui veniva stipulato il contratto matrimoniale 72. Sebbene più raramente, è attestata quale parte della donazione la quota ricevuta in eredità, alla morte del padre e della madre 73. Alcuni documenti, oltre a presentare la normale indicazione dei beni mobili indicati in modo globale con il nome di scherpa, presentano anche un elenco piuttosto dettagliato degli oggetti assegnati. Ne è esempio la serie di gioielli d'oro di abiti e di mantelli donati da Optileopa, moglie di Warnefrit, gastaldo di Siena nel 730, al monastero famigliare di S. Eugenio, fondato “pro redemptione animarum genitori et genitrici nostre et remedio anime nostre et pro animalus parentorum nostrorum qui iam fuere et qui per futura tempora fuerint” 74. In quest'occasione lo stesso Warnefrit coglie l'opportunità di elencare una serie di oggetti di metallo, di utensili di bronzo, di attrezzi agricoli che diventeranno in possesso del monastero 75, ponendo anche in rilievo la rarità di quegli stessi oggetti tra i normali utensili domestici 76. L'elenco scritto dei beni fondiari, dei mobilia, dei servi, degli animali, trasformava il testamento in un'occasione per elencare i beni stessi, ove cioè lista dei beni veniva ad assumere un valore altrettanto importante della loro destinazione, poiché definiva il rango del testatore stesso. Se non esiste alcuna proibizione a seppellire con un corredo funebre, esistono invece delle esortazioni precise ad affidare la continuità della famiglia non più nei doni al morto bensì in doni mediati dalla Chiesa, che si fa garante del patrimonio e del prestigio famigliare. La distribuzione dei mobilia in elemosina ai poveri viene ad assumere il valore di investimento per l'anima del defunto, ed è a volte sostituita, nella seconda metà dell'VIII secolo, con una quantificazione in moneta. Nel 765 il prete lucchese Risolfo si riservava 250 solidi dalle sue sostanze per ottemperare la commemorazione dei genitori: 150 per 1'anima del padre, solo 100 per la madre 77. Si noti in particolare l'affinità del rituale di rottura degli oggetti per l'elemosina funebre, utilizzato da Rottopert 78, con il rituale che aveva luogo al momento della monacazione: anche le regine merovingie Baltilde e Radegonda, al momento della loro entrata in monastero, deposero sull'altare alcuni oggetti preziosi stabilendo che il proprio “cingulum auri ponderatum fractum” fosse distribuito “in pauperum” 79. Sia per il defunto, sia per il monaco, il cambiamento di status è dunque sottolineato attraverso la privazione, la donazione e la distribuzione degli status symbols, quali anzitutto le cinture 80. Con le proprie preghiere, chierici e monaci si presentavano come ricettori efficacissimi di doni, poiché essi promettevano in cambio l'eternità e l'espiazione dei peccati: tra i compiti di Muntia,
Perterada e Ratperta, rispettivamente` madre, moglie e sorella di Ratperto di Pistoia, destinate alla monacazione presso il monastero dei SS. Pietro Paolo e Anastasio, vi è quello di pregare “pro anima mea gravata ponderis peccatis meis die noctuque” 81; Altiperga nel donare la sua casa alla chiesa di S. Salvatore di Valdottavo, chiede che il prete Lopardo dopo la sua morte “pro me peccatrice et indigna missas et orationes cottidie proficiscat” 82; Tenderacio, in partenza per la guerra, stabilisce che il monastero famigliare e i suoi beni siano destinati al monastero di Farfa, i cui monaci già “canunt pro antecessore nostro” affinché essi “pro anima nostra orent et pro nobis” 83. Tale rapporto si andava cioè strutturando in un organico scambio bilaterale di doni e di controdoni: da un lato i doni di terre e mobilia a chiese e monasteri permettevano alle aristocrazie di investire una parte delle loro sostanze in enti sotto il loro controllo; dall'altro, le donazioni incrementavano la credibilità degli enti stessi come efficaci intermediari con Dio 84, Il legame tra lo status sociale della famiglia, i riti funerari volti a perpetuarlo e il ruolo monastico nel suggerire le modalità più efficaci allo scopo, avrà come compiuta realizzazione, nella prima età carolingia, la disposizione scritta del luogo in cui si desidera essere sepolti: una voce che nelle carte longobarde non compare mai e fa la sua prima apparizione nel 768 a Rieti, quando il chierico Ilderico stabilisce che i suoi eredi “in ipsa ecclesia et in atrius ipsius ecclesie sepulturas sibi faciant”. La chiesa è quella di proprietà di Ilderico stesso, la donazione viene effettuata “pro anima fratris mei Valerini”, l'amministrazione dei beni della chiesa è affidata alla moglie Gutta “cum filiaLus suis”: si tratta dunque di un vero e proprio centro di commemorazione dinastica 85. D'altronde, proprio l'efficacia dell'investimento è l'elemento che viene costantemente e opportunamente utilizzato nelle arenghe delle donazioni. Esse, prendendo spunto da opportune citazioni evangeliche, esortano: “nolite thesaurizare vobis super terram, ubi furis effodiunt et furantur, sed thesaurizate vobis thesaurum in caelum, ubi fur, id est diabolus, non adpropinquat” 86, Come spiegare in modo più convincente a un longobardo, uso a concepire i doni come gli indispensabili strumenti delle proprie relazioni sociali, I'efficacia dei doni a Dio? Abbiamo già accennato che dal punto di vista del formulario i testamenti redatti nel regno dei Longobardi sono estremamente più ricchi e articolati di quelli transalpini: i notai e gli ecclesiastici che provvidero a redigerli esprimevano appieno, attraverso quel solenne e ridondante apparato di citazioni bibliche, le ragioni profonde che spingevano i testatori. 5. L’ambiguità delle vedove Lo stabile rapporto di protezione nei confronti di un ente ecclesiastico fungeva inoltre da involontario veicolo di autonomia per una categoria sociale molto diffusa anche in età longobarda, quella delle vedove. Come ha giustamente sottolineato Karl Leyser, l'altomedioevo è fitto di vedove attive, data la frequentissima forte disparità di età tra marito e moglie e il maggiore rischio di mortalità maschile che comportava l'esercizio dell'attività militare 87, In quasi ognuno degli atti post obitum che ho esaminato, le vedove compaiono o come diretto attore documentario, oppure risultano, in qualità di vedove a venire, usufruttuarie di una parte dei beni del marito 88, a patto che esse non si risposino per una seconda volta: in questo caso, si afferma, la donna torni in possesso del morgengap e dei suoi doni nuziali “et faciat quod vult” 89. Ma quest'ultima possibilità, a giudicare dalle carte coeve, non doveva risultare molto allettante, né fu frequentemente praticata, nonostante le comprensibili pressioni della famiglia di origine della vedova. È noto infatti che le donne sposate o laiche potevano intrattenere tali rapporti sociali soltanto attraverso la mediazione del proprio mundoaldo, che le rappresentava giuridicamente e pubblicamente: si è giustamente supposto che in tutte le carte ove compare una coppia di donatori (moglie e marito, più raramente padre e figlia, fratello e sorella) i beni donati siano quelli di proprietà della donna 90. Ben più fruttuoso, dal punto di vista dell'autonomia personale, risultava il discreto mundio ecclesiastico, grazie al quale le vedove sono di fatto in grado di avere rapporti sociali e di stringere legami clientelari 91 attraverso donazioni 92, vendite 93, permute e acquisti 94 di terra: le carte fatte redigere dalle ancillae Dei, non presentano infatti, in molti casi, la presenza di un componente maschile della famiglia di appartenenza che figuri acconsentire al negozio
stipulato 95; là dove tale certificazione formale è presente, le ancillae Dei compaiono comunque come attori documentari, appongono il proprio signum manus in testa alla lista dei sottoscrittori e sono denominate con gli appellativi che normalmente individuano la piena volontà e riconoscimento giuridico, traslati dal vocabolario maschile 96. L'esempio più noto, e forse più significativo nella sua eccezionalità, è d'altronde fornito dall'attività documentaria ed economica intrapresa dalla figlia del re Desiderio, Anselperga in qualità di badessa del monastero regio di S. Salvatore di Brescia, la quale, almeno dal punto di vista formale, appare come autonomo attore giuridico 97. Sullo stesso piano delle vedove compaiono poi le concubine di laici e di ecclesiastici, anch'esse designate quali usufruttuarie dei beni delle singole chiese, quando il donatore morirà 98. Lo stato di liminalità in cui le vedove si venivano a trovare comprendeva sia aspetti che ne accentuavano la debolezza, sia potenzialità di assicurare il proprio futuro. In particolare la possibilità di velarsi e di indossare la “nigram vestem quasi religiosam” 99, rimanendo non sposate, permetteva alle vedove di continuare a risiedere nella propria abitazione: esse risultavano di fatto sottratte alle pressioni dei gruppi parentali d'origine e d'acquisto, perché formalmente sottoposte all'autorità religiosa 100; d'altro canto l'impossibilità dell'obbligo a risiedere all'interno di un monastero permetteva loro una certa autonomia di vita, al riparo delle stesse costrizioni che la vita ecclesiastica imponeva 101. Nonostante le pressioni esercitate dall'autorità regia in età longobarda a non affrettare il momento della velatio e ad attendere almeno un anno dalla morte del coniuge 102, e poi inversamente dalle gerarchie episcopali carolingie a entrare in un monastero entro un mese 103, questi sforzi rimasero in gran parte inefficaci. Proprio l'ambito liminale della velatio entro la propria casa faceva delle vedove una categoria che l'autorità pubblica doveva proteggere ma anche tentare di controllare, poiché attirava su di sé il sospetto e l'antagonismo sociale: come intendere altrimenti il lungo capitolo 12 delle leggi di Arechi dedicato a reprimere con la monacazione entro un anno certe attività peccaminose delle muliercule velate di Benevento? Esse, si dice, “defunctis viris, maritalis dominaturae solutae” approfittano della loro condizione di libertà per recarsi alle terme, per pranzare e bere, per aggirarsi agghindate e truccate per la città, scatenando il desiderio di chi le vede. La promiscuità sessuale, seppur “non facile comprobatur”, viene allora indicata come una delle probabili conseguenze di tale fluida e flessibile condizione, esplicitando la profonda diffidenza e ostilità nei confronti dei comportamenti pubblici delle vedove, tanto da qualificarli come pestis execranda 104. Lo stato vedovile doveva riguardare molte donne ancora giovani (a giudicare dall'attrazione che esse esercitavano in pubblico) e fertili 105, la cui velatioimpediva al nucleo parentale nuovi collegamenti attraverso un secondo matrimonio. Non è un caso se tra tutte le carte redatte nell'Italia longobarda soltanto una volta assistiamo esplicitamente a seconde nozze e che l'esempio si riferisca a un elevatissimo grado sociale. Natalia clarissima femina, moglie dapprima di Alchis gasindio regio, e poi di Adelberto “antepor domne regine” 106 è infatti imparentata con una serie di personaggi collegati alla famiglia regia e specialmente alla clientela della regina Ansa 107: il suo matrimonio si può quindi collocare in una più ampia dimensione di alleanze patrimoniali direttamente correlate alla politica di rafforzamento della famiglia regia e degli enti ecclesiastici da questa controllati 108. Molto frequente è pertanto il caso di vedove che diventino ancillae Dei e che, attraverso le disposizioni pro anima del proprio marito, vengano a essere nominate usufruttuarie e reggenti di enti ecclesiastici: nel caso in cui il marito avesse disposto altrimenti, risultava perfettamente accettabile produrre una carta falsa in cui tale disposizione comparisse. È il caso di Ratruda, che riesce a vedere riconosciuta la propria autorità sullo xenodochio fondato dal marito nonostante l'opposizione del fratello del defunto. Infatti la donazione scritta (che Ratruda aveva probabilmente fatto confezionare) precisava che sarebbe stata lei stessa ad amministrare l'ente ove il vescovo di Pisa l'avesse retto indegnamente, e che sarebbe stato suo compito distribuire i mobilia del marito “in die obitus sui” 109. Le vedove ricorsero assai frequentemente a donazioni post obitum: non per il timore della morte imminente, ma per certificare attraverso un elenco scritto i loro possessi e il loro futuro sulla terra. Il momento della redazione dell'atto sembra cioè coincidere con la morte del marito stesso 110.
Il rapporto tra enti monastici e l'aristocrazia femminile si realizzava concretamente attraverso la normale procedura delle donazioni, specie quelle rivolte ai monasteri famigliari, che spesso destinavano al velo tutte le donne della famiglia: esse, di fatto, si trovavano perciò ad amministrare il patrimonio e le relazioni sociali dei monasteri stessi, attraverso le possibilità di usufrutto dei beni contenute nelle clausole delle donazioni stesse 111. Un esempio dell'elasticità con cui la vedova poteva agire, in accordo con il proprio gruppo parentale, nell'interpretare le donazioni, viene ancora una volta dalla famiglia di Natalia: sua madre, Radoara, dopo essere rimasta vedova dello strator Gisulfo e destinataria dell'usufrutto della metà dei suoi beni, chiede e ottiene da re Desiderio il permesso di vendere la metà della corte di Alfiano per potere ottemperare al suo dovere rituale di distribuire le elemosine a nome del marito. È il vescovo stesso di Lodi, nominato da Gisulfo esecutore testamentario, ad acconsentire a tale procedura: si tratta però, almeno in parte, di una vendita endogamica, poiché gli acquirenti sono il monastero regio di S. Maria e Arioald, fratello di Radoara; sottoscrivono all'atto i due fratelli e il genero di Radoara, indicando chiaramente il ramo della famiglia che sostiene la transazione 112, In altri casi, come quello di Magnerada di Campione, la donazione vedovile confluisce a rafforzare il patrimonio di monasteri privati, fondati dalla famiglia di origine della vedova, obbedendo a una logica di potenziamento interno l13. La debole condizione vedovile offriva, attraverso l'ambiguità della posizione sociale, gli strumenti per ottenere la protezione regia o ducale dalle pressioni esercitate dall'interno del nucleo parentale: Taneldis, vedova di Pando, ottiene dal duca di Spoleto Teodicio il permesso di donare al monastero di Farfa ciò che le era stato assegnato in usuirutto alla morte del marito. Il figlio Benedictus viene privato dell'eredità per il suo comportamento vessatorio nei confronti della madre, alla quale “multas (...) iniurias et amaritudines atque damnietates fecit, quod multis cognitum est” l14. La protezione monastica che Taneldis otteneva attraverso il dono di alcune terre, le permetteva cioè di raccordarsi direttamente con il più potente proprietario fondiario della zona e di liberarsi dall'invadenza di un figlio “rebellis et contrarius vel inobediens”. Il fascino ambivalente esercitato dalla chiesa, sia come rafforzamento del gruppo parentale, sia come veicolo di autonomia personale, è d'altronde direttamente visibile nelle fondazioni religiose femminili che numerose sorsero, specie all'interno delle mura urbane, nelle città longobarde 115: enti, si badi bene, sia fondati dalla coppia congiuntamente, ma anche da donne in prima persona. Detentrici del rituale funerario e svincolate, almeno formalmente, dall'autorità del gruppo parentale, le vedove 'di fatto' e le vedove probabili sembrano aver agito, come Rotruda, la moglie di Rottopert, sia in modo aperto e evidente, sia attraverso suggerimenti, come protagoniste dell'abbandono dei corredi prima per sé e poi per i loro famigliari, dimostrando loro l'efficacia pratica e ultraterrena di tale agire. D'altro canto, vedove, mogli e ancillae Dei costituirono per gli ecclesiastici un importante veicolo per la cristianizzazione dei rituali della morte e, infine, nella piena età carolingia, per giungere ad amministrare essi stessi il rituale, affiancandosi e poi sostituendosi alle donne 116. Il cambiamento nel rituale funerario fu dunque il frutto di una collaborazione tra élites ecclesiastiche e laiche, le quali si trovarono concordi nel sottolineare, come nel caso di Gertrude, la scelta di una morte austera, allo stesso modo in cui un secolo prima essi avevano invece ostentato la propria esuberante ricchezza. Lo straordinario elenco di 88 carte, composto da vendite, donazioni, permute, che documentavano l'attività economica di Alabis, fu consegnato da Tenspert di Pisa a Ghitta ancilla Dei e alle sue figlie, comprovando la legittimità dei possessi del monastero in cui Ghitta risiedeva. All'elenco delle carte, segue un elenco, purtroppo mutilo, di mobilia, dello stesso Alahis: accanto a monete, un petium de auro, troviamo anche le guarnizioni della cintura (“uno baltio cum banda et fibula de argento inaurato”) un armilla, cucchiai e speroni d'argento 117. Carte scritte e oggetti personali definivano compiutamente la personalità e lo status sociale della famiglia che Ghitta stessa, in quanto religiosa, doveva celebrare e perpetuare. 6. Conclusione
L'abbandono dei corredi funebri da parte dei Longobardi non comporta allora la perdita di valore dei mobilia, né il semplice passaggio di essi come doni alla Chiesa. I mobilia appaiono rivestire una funzione specifica che rimane m un primo tempo strettamente correlata all'ambito dei riti di passaggio all'aldilà, mantenendo anche la specifica caratterizzazione individuale dell'originario proprietario degli oggetti. La rottura delle cinture e la distribuzione pro anima ai pauperes individua nell'oggetto che più di ogni altro qualificava lo status sociale del suo proprietario, lo strumento di negoziazione della posizione del defunto nel mondo dei morti. In questa modificazione gli enti ecclesiastici appaiono non i diretti destinatari dei mobilia, bensì coloro che indirizzano, attraverso la cooperazione delle ancillae Dei, delle viduae santimoniales, e in generale, delle donne della famiglia del defunto, il rituale della morte a conformarsi ai riti che precedevano la monacazione. I1 cambiamento non fu né repentino né il frutto di un'azione coercitiva da parte della Chiesa, esplicitamente e consciamente progettata per inglobare nei propri 'tesori' gli oggetti preziosi. Tantomeno consistette nel passivo adattamento alle pratiche sociali della popolazione romana. Esso appare piuttosto come indicatore propositivo per il mutamento della società longobarda, che gradualmente si abituò a investire il proprio futuro in carriere laiche e carriere ecclesiastiche, utilizzando gli strumenti di continuità familiare come mezzo di scambio per l'eternità. La redazione delle liste scritte, attraverso le quali i donatori e le donatrici, oltre che designare i loro successori, potevano anzitutto elencare la serie dei loro beni, costituiva un'opportunità per elencare le aspettative individuali nei confronti del futuro sulla terra. CRISTINA LA ROCCA
1 Il documento, edito in CDL, I, 82 è conservato presso l'Archivio di Stato di Milano ed è tramandato in copia autenticata del XIII secolo. La sua struttura e il contesto sono stati analizzati, anche se sotto una prospettiva diversa da quella che qui si presenta, da AMBROSIONI LUSUARDI STENA 1986, pp. 175-179. 2 Cfr. Liutprandi Leges, 2, 3, 4, 14, 145. 3 E non una corazza, come proposto da AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 178-179: cfr. infatti quanto suggerito da RICHÈ 1972, nota 39 p. 43 e i garales facenti parte del paramentum capellae nostrae nel testamento di Everardo, conte del Friuli (863-864) edito in DE COUSSEMAKER (ed.) 1885, I. 4 “Si Ratruda conius mea me superadvixerit, in eius sit potestatem ipso (sc. argentum et aurum) frangendi et pauperibus pro anima mea et sua distribuendi habeat potestatem ex mea plenexima largidate, tam pro nostra anima quam et pro bone memorie Dondoni germano meo; et vestimento meo, omnia quod in illo tempore illo reliquero, omnia metietatem pauperibus distribuatur pro suprascripta Ratruda coniuge mea” (CDL, I, 82, p. 242). 5 La necropoli è pubblicata in ROFFIA (ed.) 1986, il nuovo sito di S. Martino è presentato da Silvia Lusuardi Siena in questo volume. 6 Per l'esame di un tipo particolare di donazione, diretta, secondo il modello pubblico carolingio, a suddividere equamente le sostanze tra i figli, cfr. il caso di Everardo conte del Friuli e di sua moglie Gisla (863-864) esaminata da LA ROCCA-PROVERO c.s. 7 Le carte sono edite in CDL, I, II,III/1, In presenza di carte conservate in originale o copta coeva, ho provveduto anche a controllare l'edizione sui vari volumi delle Chartue Latinae Antiquiores (ChLA, XXVI-XL). 8 FEVRIER 1987, pp. 881-883. 9 I più recenti lavori su questi temi, che non prendono però in esame l'Italia longobarda sono PAXTON 1990 e RUSSEL 1994. 10 Si veda, per esempio, l'interpretazione della necropoli di Castel Trosino presentata in questo volume da Lidia Paroli con le osservazioni in PAROLI 1995.
11 GOODY 1983, pp.95,103,209. 12 Cfr. le osservazioni di DAUPHIN et al. 1986. NELSON 1990b, pp. 330-332, NELSON 1995, PP.83-90; e in particolare ROSSETTI 1986, PP.166-170. 13 L'interesse sul tema si è esplicitato in un'amplissima bibliografia, riferibile al periodo compreso tra l'XI secolo e l'età contemporanea. A titolo puramente indicativo, occorre almeno ricordare come studio quantitativo EPSTEIN 1984; come esempio di studio orientato a cogliere le peculiarità religiose RIGON 1985; esamina invece gli aspetti istituzionali il lavoro di CHIFFOLEAU 1980; una rassegna storiografica sugli orientamenti interpretativi è BERTI 1988. 14 AMELOTTI 1966, P. 15; GIARDINA 1971, PP. 727-748; VISMARA 1988, PP. 109-146. 15 AMELOTTI 1970, PP. 18-25; VACCARI 1971, PP. 231-233. 16 AMELOTTI 1970, PP. 15-17. 17 CHIFFOLEAU 1980, PP. 36-38, RIGON 1985, PP. 44-45. L’accento sulle relazioni sociali espresse in tali donazioni è sviluppato da WHITE 1988, PP. 16-17, 26-34. 18 Cfr. ad esempio, GIARDINA 1971, PP. 727-748. 19 Il problema è esaminato da DELOGU 1977, PP. 77-82, con le fonti ivi citate. 20 Il divieto a diseredare la discendenza legittima è espresso in Edictum Rothari, 168 successivamente modificato in Liutprandi Leges, 6. 21 PROSPERI 1982, p. 404 22 Gli strumenti di distinzione delle élites rurali dell'Europa alto medievale sono oggetto del lavoro di WICKHAM 1994. 23 NONN 1972; SPRECKELMEYER 1977; GEARY 1985; KASTEN 1990. 24 CDL, II, 230 (769, Pisa); CDL,V, 52 (768, Rieti). 25 CDL,I, 90 (747, Lucca); 96 (748, Pistoia); CDL, II, 163 (763, Pavia); 171 (763 Pisa). 26 CDL, II, 133 (769, Gurgite); CDL,V, 100 (786, Rieti): “considerantes simulque expavescentes voracitatem ignis”. 27 CDL, II, 287 (773, Lucca) 28 CDL, II, 171 (763, Pisa); CDL,V, XVI (785, Benevento). 29 SKINNER 1993, pp. 135-136. 30 Esempi di esplicita esclusione dei mobilia dalla donazione post mortem sono: CDL II, 157 (761, Gurgite): donazione di Pettula alla chiesa di S. Paolo di Lucca “excepto scherpa mea quod pauperibus vel sacerdotibus pro anima mea potestatem habeam dispensandi”. Cfr inoltre ChLA, XL, 1158 (797); 1164 (798); 1166 (798); 1180 (800); ChLA, XXXIX, 1145 (795); ChLA, XXXVIII, 1089 (783); 1102 (786); 1114 (787); ChLA, XXXVI, 1045 (773) 1057 (776); n. 1059 (777). Nel 771 il chierico lucchese Guntelmo permette alla figlia Rachiperga “si ipsa filia mea de res mobile vel ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret”: CDL, II, 254 (771, Lucca); così anche in CDL, II, 230 (Pisa, 769), 287 (Lucca, 773). La scherpa è definita da locuzioni del tipo “omnem schirpas meas, pannos usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos” (ChLA, XXXVIII,1102 (786) p. 26); CDL, I, 73 (740, Lucca), p. 220: “omnia usitilia, seo scherpam meam, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis”; CDL, II, 293 (774, Bergamo): “mobilia vero rebus meis, hoc est scherpa mea, aurum et argentum, simul et vestes atque caballi”. 31 L'evoluzione dell'apparato statale longobardo è stata delineata da GASPARRI 1990 pp. 237-305. 32 La differenza della funzione delle cariche pubbliche nel mondo romano e nei regna dell'alto medioevo è lucidamente precisata da WICKHAM 1984, pp. 23-25. 33 Il tema è stato di recente riproposto da WICKHAM 1994; LE JAN 1995, pp. 60-76. 34 MORRIS 1987, pp.29-42 con la relativa bibliografia. 35 Cfr. HOPKINS 1983, pp.235-253. 36 PAULI Historia Langobardorum, V, 34. 37 Studi recenti sul valore politico delle cerimonie e dei rituali funebri sono ARCE 1988; CANNADINE-PRICE (eds.) 1987, ma soprattutto, sul ruolo dei mobilia, HEDEAGER 1992, pp.31-70. 38 Mi riferisco, in particolare alla situazione della Toscana, e dunque al contributo di Carlo Citter, in questo volume, e ai recenti ritrovamenti all'interno della fase di VII secolo nello scavo romano della Crypta Balbi che documentano la produzione a Roma di parti di armi e guarnizioni da cintura sia con agemina sia con decorazioni 'a virgola', presentati da Marco Ricci in questo volume, e parzialmente presentati da RICCI 1994, pp. 19-22; SAGUI’-MANACORDA 1995, pp. 121-134. Queste osservazioni hanno precisi riscontri nell'ltalia meridionale longobarda, ove la caratterizzazione 'etnica' della dominazione politica si configurò, dal punto di vista dei corredi funebri, con caratteristiche del tutto peculiari e locali: PEDUTO 1990, pp. 307-373. 39 CAMMAROSANO 1990, pp. X-XIII. 40 Indicazioni in questò senso sono generalmente osservabili in tutte le necropoli rinvenute in Italia e databili in questo arco cronologico: cfr., per esempio, i casi di Nocera Umbra e Castel Trosino, di recente riesaminati da RUPP 1995 e da PAROLI 1995. Per il Veneto cfr. LA ROCCA 1989; per il Friuli, TAGLIAFERRI 1990, PP. 364-475. 41 Cfr. PAULI Historia Langobardorum, 1, 24; Il, 28; V, 2, 5; VI, 8, 35 3 8, e le osservazioni di LE JAN 1995, PP. 62-63, 85-86. Si veda infine lo studio specialistico li ENRIGHI 1988. 42 Una recente analisi sul rapporto tra armi tesaurizzate nelle tombe e armi utilizzate in vita è COUPLAND 1990. 43 HARKE 1990,pp.22-43; HARKE 1993,pp. 433-436. 44 Sintesi quantitativa in FEHRING 1991, PP. 57-79, fig. I ]. 45 RIPOLI 1993, PP. 301-327 con la bibliografia precedente.
46 Un esame complessivo delle sepolture equestri tra V e VII secolo è in GHENNE DUBOIS 1991, PP. 23-70, a cui occorre aggiungere lo straordinario contesto ritrovato a Campochiaro (Campobasso), esaminato, seppur in via preliminare, da CEGLIA 1990, PP. 213-217, GENITO 1991, PP. 335-338. 47 Cfr. GASPARRI 1983. 48 Cfr. MENKE 1990 e la rapida sintesi, con bibliografia locale, di BONA 1990. 49 Per i casi italiani di sepoltura equestre, cfr. anche lo straordinario esempio di Campochiaro, che presenta cavallo e uomo sepolti nella stessa fossa in ben 10 casi: cfr. GENITO 1991. I. Ahumada Silva sta preparando uno studio complessivo sulle sepolture con cavallo rinvenute in Italia. 50 Cfr. RANDSBORG 1980, PP. 129-132; RANDSBORG 1981, PP. 112-117. 51 cfr. BONA 1990, P. 19; MENKE 1990, PP. 98-103 entrambi con la relativa bibliografia. 52 Vale la pena di notare che anche nei casi danesi si è riscontrato un analoga condivisione di status symbols tra uomini e donne nella fase delle sepolture equestri del X secolo: cfr. RANDSBORG 1981; HAEDEGER 1992, PP. 154-156. 53 Vitue sanctue Geretrudis, p. 461. 54 VIERCK 1978, PP. 521-570. 55 YOUNG 1986, PP. 379-407, che è un lavoro fondamentale su questo tema. 56 Sulle caratteristiche dei corredi della seconda metà del VII secolo, cfr. BIERBRAUER 1984, PP. 473-489 57 Un recente riesame dei rapporti tra élites laiche ed ecclesiastiche nel regno merovingio è WOOD 1994, PP. 102-119, sulla produzione agiografica, riflesso della compenetrazione di interessl e carriere, FOURACRE 1990, PP. 3-38. 58 TABACCO 1990, PP. 382-387 (citazione a p. 382). 59 GASPARRI 1980, pp. 433 -441. 60 PETRUCCI-ROMEO 1992, pp. 35-56. 61 NELSON 1990b, p. 331, mette opportunamente l'accento sulla flessibilità dei diritti femminili sulla proprietà, e la maggiore possibilità per i gruppi famigliari di negoziarli a seconda delle situazlom e delle opportunità. 62 L'epistolario di Gregorio Magno a Teodelinda è edito in GREGORII MAGNI Registrum, IV, 4, 33, 37; V, 52; IX, 68, XIV, 12. Sui rapporti di mutua collaborazione tra il papa e la regina, cfr. da ultimo GASPARRT, c.s. I diplomi delle regine longobarde sono in gran parte perduti. Cfr. CDL, III/1, n. 24 (749-751): donazione di Astolfo alla Chiesa di Modena su richiesta della regina Giseltruda “gloriosissima atque praccellentissima (...) dilecta coniux nostra”; CDL, V, VII (766, Benevento), in cui si menziona il diploma perduto di Scaniperga e Llutprando per il monastero di S. Vincenzo al Volturno; sono anche perduti i diplomi di Ansa per ll monastero di S. Salvatore di Brescia (CDL, IIV1, pp. 274-275), di Teodelinda per la chiesa di S. Giovanni di Monza e di S. Dalmazzo di Pedona (CDL, III/1, pp. 289, 300~, di Rotari e Gundiberga per il monastero di Bobbio e la chiesa di S. Giovanni Domnarum a Pavia (CDL, III/1, pp. 298, 309), di Rachi e Tassia al monastero dei SS. Silvestro e Nonnoso sul Monte Soratte (CDL, IIV1, p. 302) e di Tassia e la figlia Ratruda (CDL, III/I, p. 311). 63 VERONESE 1987, pp. 355-416. 64 Cfr. Edictum Rothari, 204. La sintassi delle leggi longobarde in materia di donazioni sarà oggetto di una mia prossima ricerca, dal titolo Les femmes et la /oi et la loi pour les femmes; m ambito anglosassone è fondamentale WORMALD 1995. Sul mundio femminile, cfr. da ultimo POHL RESL 1993, pp. 201-211. 65 ANGENENDT 1983, pp. 153-221; PAXTON 1990, pp. 66-69, con le fonti ivi citate. 66 Cfr., per esempio, i casi piemontesi illustrati da Egle Micheletto e Luisella Pejrani, e quello di S. Martino di Trezzo studiato da Silvia Lusuardi, esaminati in questo volume. 67 CONSOLINO 1987, pp. 166- 170. 68 CDL, V, 52 (768, Rieti), p. 187. 69 CDL, II, 175 (764, Lucca). Sul ruolo delle donne nella commemorazione dei defunti in età carolingia NE~soN 1990a, pp. 53-78; GEARY 1994, pp. 51-73. 70 Un elenco dei beni che componevano il morgencap è in CDL, 1, 70 (739, Lucca): “In primis lectum de soledos decem, Magnifredulu, Magnitrudola et Fermusiula pro soledos tricenta, tunica de soledus dece, mantus de soledos dece, nauri de soledos tricenta, caballum stratum pro soledos centum et pro centum soledos casa Valentiniani in Veturiana”. 71 CDL, I, 30 (722, Lucca): Urso dona alla chiesa da lui fondata “casas duas in Novole de morgincaput mulieri meae”; CDL, I, 67 (738, Lucca): Anstrualda Dei ancilla, dona alla chiesa di S. Giorgio di Montecalvoli, da lei fondata, una casa che “data est morgangab per domino bone memorie Barutta iocale meo”; CDL, I, 120 (755, S. Cassiano): Cleonia, ancella di Ostripert, offre alla chiesa di S. Cassiano da lei fondata “tertia portione ex omnibus rebus mois quod morghincap mihi datum est”. 72 Gradana, figlia di Rottopert di Agrate, riceverà in die uotorum le case tributariae di Trezzo e di Clapiate, “300 solidos in auro ficurato e vestito vel ornamento eius atque frabricato auro”, ma se il denaro sarà già stato precedentemente lasciato agli eredi maschi, essa riceverà in cambio la casa tributaria “in fundo Rocelle” (CDL, I, 82 (74s, Monza)); CDL, I, 73 (740, Lucca): l'arciprete Sichimund dona alla chiesa di S. Pietro di Lucca anche “res illas qui fuet quondam Sindi socero meo qui mibi oLvinet per coniuge mea Auria, tam casas, terra, vinea oliveta, cultis et incultis”; CDL,I, 104 (7s2): Arnifredo abita “in pecunia de socero meo Mastalone cuius filia mihi in coniugio sociabit”; CDL, II, 162 (762): i fratelli Erfo e Auto donano al monastero friulano di Sesto in Silvis terra e case :etti in metallo prezioso dei sepolcreti longobardi in Italia, in La civiltà dei Longobard~ in Europa, Roma, pp. 157-184. DE MARCHI 1988 - PM. DE MARCHI, 11 territorio bergamasco: ritrovamenti dall' Ottocento alla prima metà del Novecento, in M.P DE MARCHI S. CINI, I reperti altomedievali nel Civico Musco Archeologico di Bergamo, Bergamo, 1988, pp. ] 1-116. DENNISON 1918 — W. DENNISON, A gold tresaure of the Late Roman period from Egypt, in Studies in East Christian and Roman art, University of Michigan Studies, XII, pp. 87166. EFFENBERGER 1976—A. 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Tecniche orafe di età longobarda
Le analisi microscopiche e microchimiche eseguite su di un gruppo di oltre 120 manufatti di oreficeria longobarda conservati presso il Muso dell'Alto Medioevo in Roma hanno consentito di evidenziare, oltre agli aspetti composizionali archeometallurgici, una sorprendente molteplicità di tecniche, utilizzate tra l'altro con grande perizia, disinvoltura e padronanza dell'arte orafa. Gli oggetti analizzati provengono per la più parte dalla necropoli di Castel Trosino e, in numero più limitato, da quella di Nocera Umbra 1. La metallotecnica orafa archeologica è nel suo complesso fortemente conservativa: le fusioni, lo stampaggio con matrici, la punzonatura, la toreutica (sbalzo e cesello), la filigrana, la granulazione e perlinatura, i collegamenti meccanici e termici (saldature), la placcatura e le dorature, le agemine ed il niello, ecc. possono variare qualitativamente e quantitativamente nei diversi ambienti e momenti storico-culturali, a seconda del livello raggiunto dalle varie scuole, botteghe ed artigiani orafi; in rapporto ai momenti di crisi economica o di benessere sociale oltre che della disponibilità di materie prime nel ben noto rapporto domanda/offerta, ma rimangono comunque ancorati a procedure di carattere tecnico collaudate dall'esperienza, tramandate o addirittura "standardizzate" nel tempo. È innegabile che alcune tecniche orafe abbiano raggiunto vertici di eccellenza straordinaria presso alcune culture ed in particolari momenti storici: ad esempio la granulazione finissima "a pulviscolo" etrusca arcaica, la filigrana godronata greca classica ed ellenistica, l'esaurimento superficiale in oro della "tumbaga" precolombiana, il traforo (opus interassile) tardo romano, lo sbalzo ad altorilievo su argenti romani e sasanidi. Tuttavia si tratta soltanto di perfezionamenti particolari di metallotecniche già ben note in precedenza, per esigenze decorative legate al gusto del momento o di ordine semplicemente pratlco. Lo stesso cloisonné, diffusamente e magistralmente utilizzato nelle diverse oreficerie barbariche, attinge ad una tradizione orafa già largamente diffusa e collaudata nell'antico Egitto. Lo stesso può dirsi per gli smalti, noti almeno dal II millennio in area egeo-cipriota. Potrebbe quindi destare sorpresa l'utilizzazione nell'oreficeria longobarda dell'Italia centrale di alcuni procedimenti tecnici che possiamo definire "innovativi", almeno rispetto a quanto si conosce finora in materia di oreficeria antica alto-medioevale, dove i controlli analitici e le indagini tecniche sono spesso ancora ad uno stadio embrionale. Queste novità tecnologiche avevano presumibilmente lo scopo primario pratico di accelerare la prassi costruttiva di gioielli ed ornamenti di grandi dimensioni, vistose e talvolta assai complessi in quanto costituiti, per alcune categorie, da un gran numero (anche varie decine) di pezzi prefabbricati assemblati progressivamente. Tali sono le grandi fibule circolari in oro a cloisonnè, gli anelli d'oro a castoni romboidali e, per quanto riguarda le dimensioni, le guarnizioni auree delle selle e delle impugnature di spade e sax. I metalli e le leghe I gioielli e gli ornamenti in oro analizzati (fibule circolari, anelli, orecchini a cestello e a pendenti, placche e puntali di selle e briglie, fibbie e decorazioni di cinture e baltei) sono caratterizzati costantemente (con una sola eccezione per una piccola fibula circolare della tomba I di Castel Trosino inv. n. 1240) da una lega ad alto titolo di fino, in cui la percentuale in Au varia tra il 90% ed il 98%. Gli altri elementi fondamentali in lega sono l'argento, con percentuali che oscillano tra 1,7% e 8%, e il rame che solo in due casi isolati supera il 7%, per rimanere costantemente attestato tra il 2,5% e 0,3%. Fanno eccezione alcune crocette di lamina che rivelano percentuali in Au comprese tra il 98% e il 99%, con Ag tra 1,7% e 0,5%, mentre una matassa di filo piatto da Nocera Umbra (tomba 2) raggiunge il 99,2% in Au. In quest'ultimo manufatto la percentuale in argento si riduce a meno dello 0,6%, mentre il rame è rilevabile solo a livello di tracce.
L'uso di leghe di oro a più alto titolo nelle crocette e nel filo piatto risponde certamente ad una deliberata scelta da parte degli orafi, motivata dalla necessità di disporre di metallo particolarmente duttile a comportamento plastico, destinato ad essere cucito sulle vesti o addirittura tessuto in un broccato. Nei diversi oggetti di oreficeria presentano notevole interesse gli elementi in tracce riscontrati, il cui studio sistematico ed approfondito potrà forse in futuro fornire qualche precisazione circa la provenienza geologicogeografica di almeno parte dell'oro utilizzato. In particolare si è rilevata quasi costantemente in tutte le categorie di manufatti in oro la presenza di platinoidi (platino, iridio, osmio), sotto forma di micro o criptogranuli indisciolti nelle leghe di oro, distribuiti spesso selettivamente in piccoli raggruppamenti a motivo della loro più elevata densità e dei punti di fusione troppo alti che ne impedivano l'amalgamazione intima con l'oro e gli altri componenti in lega (Tav. Ia). Vale la pena sottolineare che le microinclusioni di platinoidi sono sempre localizzate in punti od aree particolari del gioiello, corrispondenti con ogni probabilità in origine, prima della lavorazione toreutica vera e propria, alle superfici basali dei lingotti e delle pastiglie di lega già predisposti per la fusione. La densità più elevata provocava nel fuso uno smistamento ed un accumulo per gravità dei microgranuli verso il fondo dei crogioli, prima della solidificazione. La presenza di inclusioni ed impurezze di platinoidi nelle oreficerie archeologiche è nota da tempo; tali elementi forniscono in primo luogo dati archeometallurgici sulle temperature di fusione per la preparazione di leghe di oro, che non dovevano superare i 1700 °C (punto di fusione del platino: 1772 °C). Secondariamente consentono di presumere che venisse utilizzato anche oro di giacitura secondaria alluvionale che può contenere platinoidi, a differenza dell'oro estratto da giacimenti primari che normalmente ne è privo. Nel caso delle oreficerie longobarde analizzate la presenza di platinoidi, finora mai segnalata, pone alcuni problemi non trascurabili in merito alla provenienza dell'oro utilizzato. I depositi alluvionali (placers) italici di sabbie aurifere sfruttabili (Pianara Padana, per lo più) non contengono platinoidi; bisogna quindi ipotizzare che, pur nei miscugli normalmente in uso per l'oro di diverse provenienze e giacimenti, gli orafi longobardi di Castel Trosino e di Nocera Umbra abbiano utilizzato, almeno in parte, polveri e pepite di giacimenti auriferi alluvionali transalpini iberici e gallici o addirittura esteuropei (Transilvania) e medioasiatici (Asia Minore, Caucaso od Urali), spesso platiniferi. Altre ipotesi sono tuttavia parallelamente sostenibili, almeno allo stato attuale della conoscenze; non si può affatto escludere che gli orafi longobardi in Italia abbiano riutilizzato nelle fusioni preliminari oreficerie più antiche romane, etrusche o persino greco-italiote, recuperate o rapinate da tesori sepolti e necropoli. Anche manufatti bizantini in oro, coevi o penecontemporanei, potrebbero essere stati rifusi per procurarsi oro lavorabile già raffinato. Tutte queste oreficerie di possibile rifusione contengono abbondanti inclusioni di platinoidi. A questo punto nasce spontanea la supposizione, tutta da verificare analiticamente, che anche grandi quantità di solidi d'oro bizantini, quasi costantemente caratterizzati da platinoidi, siano stati rifusi, selezionando gli esemplari in migliore stato di conservazione per incastonarli “sic et simpliciter” nei pendenti di collane come gioielli monetali. Se si considera che le numerosissime analisi disponibili di solidi bizantini rivelano titoli di fino altissimi, che superano quasi sempre il 97-99% di Au in un arco cronologico di almeno quattro secoli (dal V al IX secolo), è possibile una ulteriore considerazione circa una più che logica alterazione dei titoli nei gioielli longobardi analizzati, con l'aggiunta di argento e rame. Ciò con la normale finalità non soltanto di risparmiare oro, quanto di rendere il manufatto più resistente all'uso cui era destinato. Come si è già detto, tanto le oreficerie più varie di eventuale rifusione, quanto e soprattutto i solidi bizantini, contengono frequenti ed abbondanti microinclusioni di platinoidi; esse potevano venire quindi tranquillamente "trasferite" intatte e concentrate nei nuovi prodotti, a causa delle basse temperature di fusione delle leghe di oro, insufficienti per provocarne la miscelazione minima e completa. Tra gli elementi in tracce finora riscontrabili nelle oreficerie longobarde di Castel Trosino e Nocera Umbra figurano anche l'arsenico, che compare con una certa frequenza, il selenio già più raramente osservabile ed il tellurio, solo episodicamente presente. Queste tracce non vanno sottovalutate, anche
se il loro reale significato andrà verificato meglio in futuro su di uno spettro di campioni più ampio e diversificato, in quanto potrebbe documentà`re l'impiego di quantità di oro ricavate da solfuri, quali arseniuri, seleniuri e tellururi d'oro, con ogni probabilità già utilizzati in età romana imperiale e più tardi in epoca bizantina ed altomedioevale. Tracce di selenio sono state rilevate dallo scrivente in un anello d'oro di produzione ostrogota, rinvenuto in una sepoltura intatta presso Ladispoli sul litorale romano. I giacimenti da cui provengono questi minerali auriferi erano situati in Germania e nei Carpazi orientali, più precisamente in Transilvania dove avevano cominciato ad essere sfruttati con la conquista romana della Dacia, se non addirittura in precedenza nell'oreficeria della Tracia ellenistica. Con tutte le riserve e la prudenza d'obbligo, questi primi risultati potrebbero confortare sia l'una che l'altra delle ipotesi sollevate, relative la prima all'utilizzazione di quantitativi di oro importato dall'Europa centro-orientale, la seconda al recupero ed alla rifusione di oreficerie più antiche e di oro monetato. I gioielli e gli ornamenti di argento (grandi fibule ad arco, fibbie e puntali di cinture, morsi equini) sono caratterizzati da leghe in cui il titolo di fino varia tra il 95% ed il 73% circa, con percentuali di rame comprese tra il 5% ed il 25% circa, con piccole quantità di piombo (2,4-0,9%) ed occasionalmente modeste quantità di zinco. Tra gli elementi in tracce sono state rilevate talora p.p.m. di oro, di iridio e di antimonio. La presenza di piombo non intenzionalmente aggiunto in lega (% inferiore al 3%) fa pensare ad argento estratto da galena argentifera (solfuro di piombo) od anche da cerussite (carbonato di piombo spesso argentifero), minerali che del resto hanno rappresentato sempre le principali fonti di approvvigionamento del metallo prezioso nell'antichità, come del resto ai giorni nostri. Anche le piccole percentuali di zinco talora riscontrate inducono ad ipotizzare l'utilizzazione parallela di solfuri misti argentiferi quali sfalerite e wurtzite, oltre che di carbonato di zinco (smithsonite) anch'esso caratterizzato spesso da significativi contenuti in argento sfruttabile. Maggior interesse rivestono le tracce di oro e soprattutto di iridio talora rilevate; non si può far a meno di notare una analogia archeometallorgica con argenterie sasanidi più o meno caratterizzate proprio da questi microelementi in tracce. Le tecniche di lavorazione a freddo La preparazione delle lamine in oro di vario spessore è caratterizzata da martellatura su incudini o masselli, cui fa seguito la normale tecnica toreutica con sbalzo a mano libera nei dischi delle fibule circolari; al contrario tutte le piastre e le placchette per guarnizioni di selle e finimenti, i puntali e le piastrine di cinture e baltei sono ricavati in serie per battitura a stampo su matrici in bronzo ad incavo con motivi ornamentali predisposti. La rifinitura dei manufatti stampati era completata a cesello nei dettagli debolmente improntati o poco definiti, fino alla punzonatura con fustelle circolari, al punteggio con bulini a testa variabile (tonda, piramidale, tranciante a scalpello). Tale procedura è documentabile dall'esame micromorfoscopico dei diversi motivi decorativi sul dritto delle lamine e dalle misure micrometriche lineari degli omologhi tratti e punti, indagine che tra l'altro conferma l'assoluta identità delle decorazioni stampate con la medesima matrice sulle diverse lamine di uno stesso gruppo di manufatti, cui si sovrappongono gli interventi a mano libera in grado di migliorare la definizione e in un certo senso di "personalizzare" ogni singola placca o piastrina (Tav. IIa-b). Matrici da stampo in bronzo per lamine metalliche sono state ritrovate a Roma nell'ergasterion altomedievale della Crypta Balbi; alcune di esse presentano straordinarie analogie con i manufatti di Nocera Umbra e Castel Trosino. Bisogna sottolineare che gli orafi longobardi non si accontentavano di un effetto d'insieme, che poteva risultare già benissimo dal semplice stampaggio della lamine d'oro, ma perseguivano anche un minuzioso approfondimento nella definizione del particolare, se si tiene conto delle dimensioni ridotte dei motivi decorativi sulle singole placchette e puntali. Le lamine sottili delle numerose crocette auree rivelano a luce radente, su di una delle facce, microglifi a creste e solchi discontinui diversamente improntati, ereditati dalla martellatura su incudini metalliche rettificate con abrasivi a grana fine (Tav. IId).
Il taglio delle lamine (rifilatura marginale) è caratterizzato, come nella più parte delle oreficerie archeologiche classiche e preclassiche, dall'uso di taglierini affilati a mano libera, fatti scorrere con movimento orizzontale, in assenza di forbici o tronchesi che segnano invece caratteristicamente le superfici di taglio con facce a doppia curvatura convessa convergente e striature verticali (Tav. IIc). È interessante notare che anche molte monete auree incastonate nei pendenti di collane sono state rifilate lungo i bordi, presumibilmente non tanto per adattarle ai castoni (che venivano predisposti in anticipo in base ai diversi diametri delle monete), quanto per recuperare, con una vera e propria tosatura monetale, un certo quantitativo di oro ad altissimo titolo. La foratura delle diverse lamine sagomate di vario spessore per il passaggio di fili, chiodi, perni, rivetti o ribattini, è sempre eseguita in modo speditivo per semplice pressione o percussione con punte metalliche di vario calibro e forma, operazione del resto facilitata dall'elevata duttilità dell'oro ad alto titolo. Tra le tecniche orafe definibili come "innovative" emerge l'uso di "fettucce" stampate a onde oblique, ottenute per sagomatura di sottili nastri di lamina aurea tra due rotelle scanalate ruotanti in senso inverso (Tav. IIIa). Una prima ipotesi che poteva prevedere la semplice battitura a stampo di interi fogli di lamina su piastre metalliche scannellate, da cui sarebbero state ricavate con taglierini affilati le singole "fettucce", ha dovuto essere abbandonata in quanto mancano ai bordi delle strisce ondulate a 45° deformazioni per compressione e tagli con trascinamento tipici di questo procedimento. Bisogna precisare inoltre che l'operazione di taglio avrebbe provocato gravi ed irreparabili danni alle "fettucce" stesse, con schiacciamenti e guasti del motivo a onde prestampato. Si tratta comunque di una lavorazione metallotecnica originale e veloce per motivi ornamentali a strisce saldate su fibule circolari, capace di realizzare notevoli effetti di chiaroscuro. Questa tecnica, che non è stato finora possibile documentare in nessun'altra tradizione orafa antica archeologica, è verificabile facilmente in base alla costante, rigorosa "lunghezza d'onda" delle creste e depressioni sagomate, oltre alle impronte ereditate dalle rotelle matrici metalliche. Anche l'esecuzione di un vero e proprio "scatolato" 2 ante litteram, in uso per i castoni a doppia losanga vuota degli anelli matrimoniali in oro, si prospetta come tecnica nuova, destinata ad ottenere elementi geometrici cavi prefabbricati, sia singoli che doppi, battuti su di una unica matrice a rilievo, da saldare successivamente alla fascia-cerchio (Tav. IIIb). Tra le tecniche orafe decorative a freddo (o al massimo con riscaldamento preliminare della base metallica) si evidenzia l'agemina su manufatti in ferro quali sgabelli pieghevoli, morsi equini, speroni e punte di lancia. Il procedimento, antichissimo, si ritrova sistematicamente nell'oreficeria celtica, greco-romana, anglosassone, gota e longobarda; la tecnica è ben nota e consisteva nell'applicazione di un metallo o di una lega più duttili e plastici (oro, argento, subordinatamente rame e "ottone") e di colore contrastante con il substrato entro solchi e cavità incisi su di un metallo o lega di base (per lo più ferro, acciaio e bronzo). Le incisioni ad intaglio venivano praticate con bulini affilati e taglienti, realizzando sedi entro le quali il metallo ageminato era inserito a pressione per martellatura. È probabile che il substrato venisse opportunamente riscaldato per sfruttarne la dilatazione termica specifica durante l'inserimento delle decorazioni, che rimanevano più saldamente ancorate per il successivo raffreddamento e contrazione, anche qualora il solco non fosse stato realizzato in sottosquadro. Nei manufatti longobardi di Gastel Trosino e Nocera Umbra la tecnica dell'agemina si osserva spesso su oggetti in ferro: gli sgabelli pieghevoli e morsi equini da Nocera Umbra sono arricchiti da una finissima decorazione in sottile filo di argento ad elevato titolo di fino. La grande punta di lancia a cannone in ferro da Castel Trosino evidenzia invece una ricca ornamentazione ad agemina in lega rame-zinco ("ottone") che doveva risaltare con il suo colore giallo-oro sull'originaria tonalità grigio-acciaio lucido dell'arma. Anche gh sperom della stessa necropoli sono caratterizzati da una complicata agemina in filo di argento e di "ottone". A questa tecnica si associa spesso sui medesimi oggetti una incrostazione (o placcatura) piana o a leggerissimo rilievo; a differenza dell'agemina, essa consisteva nell'applicare superficialmente a battuta una sottilissima foglia di argento ad altissimo titolo sul substrato metallico opportunamente
preparato a punteggio obliquo o a graffiatura parallela incrociata, così che il metallo plastico della decorazione "aggrappasse" solidalmente sui leggerissimi rilievi creati dall'incisione. Si tratta di un procedimento di incrostazione metallica tipicamente orientale, identico al cosiddetto koftgarì di origine persiana ed al nunome giapponese, in uso almeno dal XIII secolo. In più rari casi la lamina del metallo di incrostazione è semplicemente "rimboccata" sotto i margini in sottosquadro di un debole rilievo predisposto nel substrato. Particolare interesse riveste una speciale tecnica innovativa definibile come "falso traforo", largamente utilizzata per le guarnizioni ed i fornimenti aurei di spade e sax, oltre che nelle piastre e placchette di sella prestampate su matrici. I rilievi risultanti sul rovescio delle lamine battute a stampo sono stati tagliati di netto, o meglio "rasati" tangenzialmente con lame affilate a rasoio, aprendo m tal modo con estrema rapidità e sicurezza una serie di fori a giorno all'interno dei motivi decorativi (Tav. IVa). L'utilizzazione sistematica di questo metodo intelligente e speditivo, finora`mai documentato, è provata dai microglifi isorientati da taglio e trascinamento orizzontali visibili microscopicamente intorno ai fori sul rovescio della lamine, impronte lasciate dal filo delle lame adoperate. Si tratta di una tecnica di lavorazione orafa "a giorno" che non ha nulla a che vedere con l'autentico traforo (opus interassile) tanto diffuso in epoca tardoromana e bizantina, procedimento che prevedeva l'impiego di seghetti o di scalpelli taglienti azionati verticalmente rispetto alla superficie della lamina, seguendo il perimetro dei motivi decorativi programmati. Tra le tecniche a freddo rientra anche la preparazione di fili d'oro a sezione circolare eseguita per la massima parte con la ben nota procedura antichissima del "tiraggio a torsione elicoidale" di sottili fettucce o quadrelli di lamina ritagliata. Le tracce di questa lavorazione sono sistematicamente riscontrabili nei vari tipi di filo a livello microscopico, sotto forma di sottili "cicatrici" regolarmente spaziate ed inclinate di circa 45° rispetto all'asse di allungamento (Tav. IVb). Non mancano tuttavia fili che presentano ad un esame micromorfoscopico finissime striature parallele apparentemente prodotte dal passaggio attraverso trafile o filiere tradizionali; i fili di maggiore diametro mostrano poi deformazioni strutturali da tiratura a martello, cui si sovrappongono talora sfaccettature irregolari dovute a burnitura successiva. Molto varia è la tipologia dei fili godronati destinati alla decorazione di moltissimi gioielli (fibule circolari, anelli, orecchini a cestello, ecc.). Dal tipo a "nodi", a sfere e a dischi differentemente spaziati, si passa a quello a "tronchi di cono" in sequenza a cannocchiale, fino al modello a rocchetti larghi o serrati. Spesso il filo godronato presenta tratti lisci od incompleti ed i diversi modelli sagomati sono frequentemente associati nel medesimo oggetto, talora assemblati e ritorti con fili lisci a elica o a falsa treccia, per lo più in direzioni opposte (Tav. Ib). I vari fili sono applicati sulle lamine seguendo un disegno preliminare già graffito sul fondo a punta finissima, del quale rimangono talora tracce esposte a causa di lacune nel saldante adoperato, per distacchi posteriori o per piccolissime deviazioni inconsapevoli dal tracciato prestabilito. Nelle piastre e placchette auree ricavate per stampaggio su matrici si nota spesso una "falsa godronatura" trasferita direttamente dallo stampo e talvolta perfezionata sul diritto con il bulino in alcuni dettagli poco definiti, così come negli altri particolari prima ricordati (Tav. Va-b). Le tecniche di lavorazione a caldo In questa categoria di interventi metallotecnici rientrano ovviamente, oltre alle fusioni in matrici e a cera persa, la saldatura (saldobrasatura) eseguita nel caso di lamine, fili e setti del cloisonné con leghe altofondenti (oltre 800 °C) di rame-oro e oro-argento, sotto forma di paglioni 3 preparati in serie, applicati per punti e fusi con il cannello ferruminatorio a bocca 4 (Tav. VIa). L'impiego di un sottile dardo di fiamma mirato esclusivamente sui punti di saldatura è documentabile microscopicamente dai numerosi fori irregolarmente sfrangiati con bordi di fusione arrotondati e caruncolati a gocce,
rilevabili nei punti di applicazione dei paglioni lungo i contatti delle diverse parti metalliche; tali fori imponevano spesso veri e propri immediati "interventi di restauro" (o meglio di rattoppo), eseguiti sul rovescio dell'oggetto con frammenti di sottile lamina di oro ritagliata (Tav. VIb). Una saldatura colloidale a sali di rame ("crisocolla" l.s.) con più basso punto di fusione (600°-700° C) 5 è stata invece adoperata per fissare elementi strutturali più delicati e minuscoli quali granulazione e perlinatura, relativamente poco diffuse e sempre piuttosto grossolane nelle oreficerie longobarde analizzate, ma tuttavia presenti in alcuni dettagli decorativi di fibule circolari, anelli a castoni romboidali ed orecchini a cestello o a pendente. La lavorazione a "cloisonné" è troppo nota nelle oreficerie altomedievali per parlarne diffusamente; tuttavia si può sottolineare che nelle fibule circolari longobarde di Castel Trosino e Nocera Umbra i setti di nastro aureo sono saldati alle lamine di fondo piuttosto sommariamente soltanto per punti singoli con paglioni di lega oro-argento. Inoltre la forma dei castoni delimitata dai setti è sempre diversa e talora estremamente irregolare; ciò induce ragionevolmente a credere che le gemme (in massima parte granati rossi) inserite venissero tagliate in precedenza in formati simili ma mai identici l'uno all'altro ed i castoni settati costruiti in funzione delle gemme stesse. Tale prassi poteva tra l'altro consentire di limitare al massimo lo sfrido di materiale gemmologico raro, prezioso e costoso, in maniera quasi analoga a quanto si verifica ai giorni nostri per rubini e zaffiri birmani o thailandesi, tagliati nei luoghi d'origine con forme e sfaccettature irregolari in funzione della caratura del grezzo di partenza, allo scopo di non perdere peso sprecando materia preziosa. Sul fondo di molti castoni di fibule ad arco e ad S in argento dorato si riscontrano laminette d'oro e di argento finemente lavorate a punteggio o a graticcio, tagliate a misura e presumibilmente bloccate in sede da mastici e collanti. La funzione di tali minuscole superfici metalliche zigrinate sotto le lastrine pianoparallele di granati rossi trasparenti, era probabilmente quella di diffondere uniformemente la luce riflessa attraverso la gemma migliorandone, esaltandola, la colorazione e attenuando nel contempo il lampo di luce concentrato e violento emesso da una lastrina metallica liscia lucida. Per quanto concerne la doratura di parti di gioielli in argento e di ornamenti in bronzo è stato possibile rilevare sia l'uso della tecnica a fuoco con amalgama di mercurio (grandi fibule ad arco in argento), sia l'applicazione di sottilissima foglia di oro per placcatura (umboni- di scodo in bronzo); quest'ultima era ottenuta sfruttando gli intervalli termici di fusione dei diversi metalli e leghe (saldatura autogena o bollitura) senza alcun saldante interposto ed esercitando pressione e stiramento penecontemporanei della foglia d'oro con burnitoi, di cui rimangono talora tracce isorientate. Sotto il profilo tecnologico assume notevole interesse la stagnatura di alcuni ornamenti in bronzo (fibule simmetriche a bracci uguali, placchette e fibbie per cinture) tramite rivestimento delle superfici in vista con una sottile pellicola di stagno metallico; le tracce di mercurio rilevate consentono di ipotizzare ragionevolmente che tale stagnatura venisse applicata per evaporazione a fuoco di amalgama, come nell'analoga doratura, ma a temperature molto più basse. Questi ornamenti "stagnati" sono un'autentica esemplificazione di "bigiotteria" ante litteram, destinata a coprire le richieste di particolari manufatti da parte dei ceti meno abbienti; gli effetti coloristici del tipo oro-argento erano ottenuti sfruttando i contrasti cromatici tra il bronzo giallo-rosa`to e lo stagno argenteo. Una successiva decorazione a punzonatura con fustelle cave circolari (cerchietti concentrici) e ad incisione (linee a zigzag) veniva eseguita sulle superfici trattate a stagno, interrompendo localmente la continuità della pellicola di rivestimento e riportando in luce nei solchi il sostrato bronzeo con effetti di colore puntiformi e lineari. Sul piano strettamente archeometallurgico vale la pena sottolineare come il rivestimento di stagno abbia svolto una funzione protettiva nei riguardi della sottostante lega di rame, in quanto le superfici stagnate sono di regola tra le meglio conservate, ancora lucide, levigate e quasi prive dei prodotti minerali di corrosione del bronzo. Tra le tecniche a caldo si pone in risalto particolare il largo uso del niello su fibule ad arco in argento. Le decorazioni a triangolini punzonati sono colmate con una miscela che ha rivelato alle microanalisi una composizione molto prossima a quella di un solfuro di argento e piombo, con modestissime ed irregolari tracce di rame (Tav. VIIa-b). Tenendo conto dei complicati processi di alterazione ipogea,
smescolamento ed esaurimento non solo superficiali delle leghe metalliche di scavo archeologico, si può presumere che le piccole e variabili quantità di rame riscontrate nel niello provengano dal substrato in argento delle fibule stesse. È noto da tempo che gli elementi meno nobili in lega (in questo caso il rame contenuto nell'argento) sono soggetti a formare precipitati intermetallici; il rame più alterabile e corrodibile può essere mobilizzato a subire una parziale "migrazione" verso le superfici esterne del manufatto, ove spesso si mineralizza in composti autonomi (solfuri, ossidi, carbonati di rame). Nella fattispecie è possibile che ioni rame in quantità variabili si siano infiltrati nella composizione del niello, formato in origine da solo solfuro di argento e piombo. In margine a questa breve sintesi tecnologica, non sembra superfluo puntualizzare l'intensa usura d'uso subìta da moltissimi gioielli, anche tenendo conto dell'alto titolo di fino di buona parte delle leghe di oro e di argento utilizzate. Si tratta di gioielli d'ornamento personale, portati certamente molto a lungo "in vita", anche nel corso di più generazioni e soggetti quindi ad un logorio selettivo di tutte le parti aggettanti ed esposte a continui insulti di carattere meccanico, quali semisfere in lamina di fibule circolari, filigrana e perlinatura delle medesime, cerchi ed appiccagnoli di orecchini, punzonature, dorature a niello di fibule in argento, con appiattimento ed obliterazione per abrasione reiterata di moltissimi dettagli, perdita di definizione e caduta di elementi saldati, in molti casi fino allo sfondamento da erosione d'uso dei castoni vuoti di anelli. Al contrario i fornimenti in oro delle impugnature di spade e sax, le piastre e le placche di sella, numerosi puntali di cinture e baltei non mostrano segni di usura o logorio sistematico delle superfici esposte; sembra logico supporre che ciò sia imputabile alla funzione puramente decorativa da parata occasionale dei manufatti a cui le guarnizioni auree erano destinate. L'orafo di età longobarda a Castel Trosino e Nocera Umbra era essenzialmente uomo pratico, dotato di inventiva e di risorse tecniche innovative, pur nel filone di una tradizione metallotecnica consolidata da millenni; talora apparentemente poco attento ad una rigorosa precisione geometrica del proprio lavoro. Ciò andava tuttavia a vantaggio, salvo casi isolati, della personalizzazione del singolo gioiello, che rappresenta sempre un unicum (anche quando eseguito in coppia, come nel caso di orecchini e fibule ad arco), caratterizzato proprio da alcune piccole irregolarità ed imperfezioni esecutive individuali, capaci tuttavia di conferire particolare "vita e calore" al manufatto. GUIDO DEVOTO
1 Sono felice di ringraziare anche in questa sede la cara amica Dr.ssa Lidia Paroli, che mi ha non soltanto stimolato entusiasticamente ad intraprendere lo studio tecnico delle oreficerie longobarde del Museo dell'Alto Medioevo in Roma, ma mi è stata paziente e preziosa consigliera durante l'intero percorso della ricerca. 2 Lo scatolato è una tecnica orafa moderna che si avvale di lamina vuota profilata e presagomata in forma di solidi geometrici (parallelepipedi, prismi, elementi cavi anche curvi a sezione quadrata o rettangolare, ecc.) utilizzati da soli od assemblati in gioielli compositi. 3 Residui di paglioni di leghe saldati indisciolti sono talora riscontrabili microscopicamente in vari punti di saldatura dei diversi manufatti.
4 Un cannello ferruminatorio a Roma nell'ergasterion della Crypta Balbi. 5 Le analisi microchimiche di alcune saldature di grani e sferette rivelano costantemente incrementi altissimi del rame.
Bibliografia DEVOTO 1985 - G. DEVOTO, Geologia applicata all'archeologia, NIS, Roma ELUÈRE 1990 - C. ELUÈRE, Les secrets de l'or antique, Bibliothèque des Arts, Paris. AA.VV 1985 - M.W, L'or monnayè I; Purifications et alteration de Rome a Byzance, Ed. Centre National Recherche Scientifione, Paris HARPER 1981 - PO. HARPER, Silver Vassel of the Sassanian Period, vol. I, Metropolitan Museum of Art, New York, Princeton Univ. Press. OGDEN 1982—J. OGDEN, Jemellery of the Ancient World, Trefoil Books, London.
Le sepolture in urbe nella norma e nella prassi (tarda antichità - alto medioevo)
L'oggetto di questo intervento è rappresentato da un'analisi delle possibili valenze del fenomeno dell'inurbamento delle sepolture, con particolare riferimento a quanto prescritto dalla normativa giuridica e a quanto documentato dall'evidenza archeologica. Per il secondo aspetto l'esemplificazione sarà limitata all'Italia annonaria, in quanto area indagata in modo più sistematico da chi scrive 1. La specificità del seppellimento in urbe consiste nel suo stesso manifestarsi, presentandosi come aperta violazione a disposizioni giuridiche e superamento di consuetudini di tradizione secolare, che, almeno formalmente, risultano ancora in vigore nella tarda antichità e rispettate anche a cristianesimo diffuso 2, La prima testimonianza del divieto di seppellire nella città è rappresentata, come è noto, dal testo della Legge 1, X del corpus delle XII Tavole - che si datano alla metà del V secolo a.C. - riportato da Cicerone nel De Legibus (Tab. 1, 1) 3. Si tratta di una chiara prescrizione di ordine pubblico, non priva di implicazioni profilattiche, verosimilmente resasi necessaria a causa dello sviluppo della vita urbana. Inserita nel primo codice romano, essa appare in opposizione ad un costume precedente, del quale esistono tracce nelle fonti (Tab. 1, 6) 4 ed in alcune attestazioni archeologiche, quali le sepolture di VIIIVI secolo a.C. che coesistono con le prime capanne dell'area del Foro romano s La novità della regola viene rafforzata da un secondo passo contenuto nella medesima legge ed in cui si coglie meglio la preoccupazione del legislatore verso l'igiene pubblica, là dove si stabilisce la distanza minima delle tombe dalle abitazioni private (Tab. 1, 2) 6, La base giuridica della norma che prescriveva per Roma e per"tutte le città soggette al suo diritto che le sepolture venissero realizzate al di fuori del pomerium, ad una distanza misurata in cento piedi dalla linea di cinta 7, pare rappresentata dal carattere di res religiosa attribuito ai sepolcri ed al concetto di locus purus contrapposto a quello di locus religiosus. La condizione perché un seppellimento fosse considerato legale era posta dal fatto che esso avvenisse dove non erano mai state praticate sepolture (locus purus); la deposizione di resti umani - incinerati o inumati 8_ conferisce al sito, infatti, il carattere di locus religiosus 9. Poiché il pomerio è un luogo sacro per definizione e ab initio, ne consegue l'impossibilità di sfruttarne l'area a fini sepolcrali. I successivi richiami alla citata legge repubblicana - sempre rubricati sotto il titolo De sepulcro violato - non sono più espliciti di quanto lo sia il primo testo circa la natura dei principi che li hanno ispirati, ma il loro comparire nei codici romam m momenti diversi prova che a più riprese l'antica norma venne disattesa e che, sia pure in condizioni che ci sfuggono, il fenomeno non ebbe un carattere isolato ed occasionale, poiché questo non avrebbe giustificato l'intervento del legislatore. Il primo richiamo è rappresentato da un rescritto adrianeo (Tab. 1, 3) 10, che, oltre ad attestare una violazione del diritto sepolcrale vigente - trasgressione evidentemente non ignorata da alcuni magistrati - è particolarmente illuminante di un diverso regime giuridico applicato nei municipi e che l'intervento imperiale tende ad allineare con quello dell'Urbe. Il testo dimostra implicitamente che nella mentalità comune permaneva il desiderio di seppellire i propri morti il più vicino possibile alle aree abitate, in modo da potersi garantire un'assidua frequentazione dei sepolcri, anche a dispetto di pur necessarie norme igieniche o a scelte di carattere insediativo, che Imponevano di destinare gli spazi propriamente urbani alla vita civile e produttiva, con gli edifici e le strutture di servizio che essa comportava, piuttosto che ad aree funerarie non più altrimenti recuperabili alla vita attiva 11. Per i successivi due secoli e mezzo non si hanno tracce giuridiche del problema, fino al noto editto teodosiano emanato nel 381 (Tab. 1, 4) 12, in cui si rilevano due elementi nuovi rispetto alle più antiche prescrizioni. Il primo è dato dall'accento, difficilmente casuale, posto sul fatto che solo le sepolture che ingombrano il sopraterra debbano essere rimosse e trasportate extra urbem: l'ordinanza sembra voler sottolineare che l'interesse dello stato in materia è volto unicamente ad evitare un'indebita occupazione di suolo pubblico mediante l'installazione di monumenti sepolcrali 13. Il
secondo elemento - che evidentemente non poteva essere presente nelle norme anteriori alla definitiva affermazione del cristianesimo - è il riferimento alle reliquie di apostoli e martiri, che cominciavano ad essere trasferite all'interno delle città e di cui alcuni fedeli cercavano la vicinanza post mortem, nel quadro della nascente pratica delle sepolture ad sanctos. Il legislatore, considerandolo un pretesto per contravvenire alle norme giuridiche, ne conferma di fatto la crescente diffusione, attestata, oltre che da precoci manifestazioni in Africa settentrionale, note da fonti letterarie ed archeologiche, anche dalle contemporanee riflessioni agostiniane circa la liceità e l'opportunità di tale pratica 14. Il testo teodosiano, emanato a Costantinopoli, si riferisce ad una situazione in atto almeno in Oriente, mentre per l'Occidente non si hanno prove per affermare che già alla fine del IV secolo la presenza di reliquie in chiese urbane vi abbia attratto delle sepolture 15; ma che il fenomeno fosse in larga espansione lo conferma anche l'articolo IX, XVII, 7 del 386, complementare al precedente, in cui il divieto di rimozione delle tombe viene contemplato non più nel quadro di una generica violatio sepulchri - che pur è sottintesa nella natura stessa della disposizione - bensì nella specifica casistica di un trasferimento di corpi santi (Tab. 1, 5) 16. Il Codice Giustinianeo, redatto a distanza di circa centocinquant'anni, non contiene più alcun riferimento esplicito al seppellimento in urbe e si limita a riprendere dal corpus teodosiano il divieto di commerciare le reliquie e di trasferire altrove i corpi già inumati (Tab. 1, 7) 17. I contemporanei editti emanati dai sovrani ostrogoti, raccolti nelle Variae di Cassiodoro, contemplano una sola citazione relativa a problemi di ordine funerario, priva peraltro di alcun legame con la posizione dei cimiteri rispetto alla città 18, Agli inizi del IX secolo, infine, una Novella dell'imperatore Leone V Armeno sancisce l'avvenuto superamento delle antiche leggi in merito alla collocazione delle sepolture (Tab. 1, 8) 19. Non diversamente da quanto avvenne per il potere civile, gli interventi delle autorità ecclesiastiche riguardo ai costumi funerari furono volti più a correggere degli abusi che a codificare dei riti 20, Nei Canoni Conciliari che si occupano della materia - mai anteriori al VI secolo - non compare alcun riferimento alle sepolture urbane, né in termini di riprovazione, né di accettazione di tale pratica: essi si limitano infatti a ribadire la proibizione del seppellimento all'interno delle chiese e dei battisteri; a vietare il riuso delle tombe; a regolamentare la consacrazione degli altari, che deve avvenire solo in presenza di reliquie di corpi santi 21. Sono dunque i due articoli di legge teodosiani dell'ultimo quarto del IV secolo a costituire l'anello di congiunzione tra inumazioni urbane e pratica delle deposizioni ad sanctos, in un nesso che viene implicitamente accettato nei primi contributi dedicati al fenomeno 22; ma se è chiaro che le sue origini possono essere inscritte anche entro questa prospettiva, i caratteri della sua evoluzione sono ancora ben lontani dall'essere definiti, soprattutto per quanto riguarda l'ampia casistica delle tombe prive di alcun rapporto diretto con edifici di culto. *** Fin qui la scarna normativa in materia di sepolture in urbe; veniamo ora ad esaminare alcuni dati relativi alla prassi, quali sono emersi dallo studio sull'introduzione delle tombe nelle città dell'Italia del nord 23, L'arco cronologico scelto è compreso tra la costituzione delle diocesi e gli inizi dell'VIII secolo, momento in cui le pratiche funerarie subiscono dei mutamenti tali da annullare il carattere di eccezionalità precedentemente rivestito dall'inumazione all'interno dell'abitato 24, Dal punto di vista geografico si è privilegiato il territorio dell'Italia Annonaria, che nel periodo esaminato risulta interessata da avvenimenti storici simili e relativamente ben documentati: sono state dunque analizzate le civitates che tra il IV ed il VII secolo assunsero il ruolo di sede episcopale, con l'esclusione di quelle città che sono scomparse precocemente o il cui assetto urbanistico tardo antico è risultato troppo lacunoso ai fini della ricerca 25. Nell'area presa in considerazione, la pratica delle sepolture in urbe è attestata in 33 città su 42 (78%) - in 6 casi con incertezza (14%) -, ma i dati di cui si dispone attualmente rivelano delle cifre
sicuramente per difetto 26; il fenomeno, inoltre, interessa le diverse località secondo modalità e cronologie che variano sensibilmente. Per quanto riguarda il rapporto tra le sepolture intramuranee e gli elementi della topografia urbana, va tenuto presente, in primo luogo, che l'esistenza di cinte murarie erette nel corso del basso impero o della tarda antichità, o i restauri operati sulle mura di epoca anteriore, sono attestati in 14 casi (33%), mentre 16 città (38%) sembrano essere sprovviste di fortificazioni. L'estensione del tracciato è conosciuta interamente, o per una superficie che ne permette una ricostruzione sufficientemente verosimile, solo per 7 città (17%): Albenga, Aquileia, Bologna, Milano, Ravenna, Rimini e Verona. In alcuni casi resta aperta la possibilità di un uso prolungato delle mura romane tardo repubblicane o degli inizi dell'età imperiale: tale continuità sembra sicura nelle città di Aosta, Novara, Torino e Trieste; in altre, alcuni settori del territorio che in origine erano extra muros hanno potuto divenire parte integrante della città imperiale, per venirne nuovamente esclusi in seguito, in occasione di una contrazione dell'abitato: è il caso di tre città dell'attuale Emilia Romagna -Bologna, Reggio Emilia e forse Parma-, dove questo restringimento ha assunto la forma di una vera e propria “enceinte réduite” in rapporto alle superfici sulle quali in precedenza, e talvolta in contemporaneità, è attestata una buona consistenza insediativa 27. Compatibilmente con i già citati limiti delle attuali conoscenze, la posizione relativa tra le tombe registrate e le mura è la seguente: interna in 18 città (55%); interna - ma con incertezza - in 5 (15%); non identificabile in 5 (15%). Nelle rimanenti S i dati topografici o di scavo sono insufficienti per ogni valutazione. La cronologia delle sepolture urbane, conosciuta solo per il 62% dei casi e in termini spesso approssimativi, indica il prevalere del fenomeno nel corso del VI-VII secolo, anche se non mancano alcune manifestazioni più precoci (Tab. 2). L'analisi del rapporto reciproco tra le diverse tombe di una città e di queste con gli eventuali edifici di culto ha dato i seguenti risultati: sepolture isolate, talvolta organizzate in piccoli gruppi, sono attestate in 20 città su 33 (61%) - di cui 3 incerte (9%) -; sepolture associate ad edifici di culto in 25 (76%) - di cui 6 incerte (18%) -. In 12 centri (36%) si è verificata la coesistenza di inumazioni isolate e di sepolture legate ad un edificio di culto. In questo quadro, le tombe poste in relazione a strutture del gruppo episcopale sono le più numerose: nelle 25 città citate solo 4 fanno eccezione (Tab. 2). Dall'insieme dei dati risulta che sulla totalità delle città che presentano sepolture all'interno dell'abitato il 43% è interessato da sepolture privilegiate; il 19% dalla duplice presenza di inumazioni privilegiate e comuni; il 19% da inumazioni comuni; le 19% da sepolture di carattere indeterminabile 28. Per quanto riguarda le inumazioni episcopali urbane, ritenute un importante indicatore degli usi funerari di questo periodo 29, le fonti di cui si dispone sono, ancora una volta, molto lacunose e di natura tale da limitare fortemente l'interpretazione: nell'Italia del nord si hanno segnalazioni per 11 città - Brescia, Classe, Genova, Ivrea, Lodi, Milano, Modena, Pavia, Ravenna, Torino, Verona -, con una cronologia compresa tra l'ultimo quarto del V secolo e la seconda metà dell'VIII. Va tuttavia osservato che, nella maggior parte dei casi, non si dispone di indicazioni precise circa la collocazione originaria delle iscrizioni funerarie alle quali è legata principalmente la conoscenza di tali deposizioni e che le fonti letterarie ricordano talvolta degli edifici oggi difficilmente identificabili dal punto di vista archeologico e topografico 30. Se dunque si può accettare con cautela la possibilità che in alcuni centri le prime sepolture vescovili siano più precoci, queste sembrano affermarsi prevalentemente nella seconda metà del VI secolo, pur mantenendo, anche a questa data, un carattere di eccezionalità. Il numero delle tombe episcopali in urbe finora note, infatti, non è mai superiore alle due unità e in nessun caso i personaggi sono identificabili come fondatori o santi patroni della diocesi. Una volta ammessane l'antichità, resta inoltre oscuro se la pratica della deposizione vescovile urbana sia dovuta ad una scelta personale di singoli presuli o all'iniziativa della comunità, indotta dal prestigio del proprio pastore a conferirgli sepoltura nell'edificio-simbolo del suo ministero 31. In conclusione si può osservare che nell'Italia del nord il fenomeno delle sepolture urbane si manifesta, in particolare, dal V-VI secolo. Tale pratica, se pure attesta il superamento dell'antico
diritto in materia sepolcrale, è comunque limitata a situazioni riconducibili, di volta in volta, alle trasformazioni socio-economiche di un centro, con conseguente destrutturazione urbana, o all'acquisizione di uno specifico privilegio da parte di qualche membro della comunità. Al momento sembra da escludere una valenza etnica, poiché nella valutazione distributiva e quantitativa delle sepolture in urbe non si è rilevata un'apprezzabile differenza tra le civitates che risultano mantenere più a lungo un legame con la tradizione romana e quelle che, invece, sono interessate dalla presenza stabile di popolazioni di cultura diversa (cfr. Tab. 2). Esaminando infine la posizione dei luoghi di inumazione tradizionali extra-urbani, si verifica che nella maggior parte dei casi si ha una vera e propria continuità tra le necropoli romane ed i cimiteri della tarda antichità: talvolta si è avuta una contrazione verso l'abitato o una riduzione nel numero dei siti a destinazione funeraria, ma tutti i dati - anche se imprecisi sulla quantità delle tombe e la loro cronologia - sembrano indicare che le antiche aree sepolcrali furono mantenute in uso fino alle soglie dell'alto medioevo. Quanto alle sepolture urbane, del resto, il loro numero è talmente esiguo che si deve ammettere, forzatamente, che nell'epoca considerata si è continuato ad inumare la maggior parte delle persone all'esterno dell'abitato: se per alcuni centri è probabile un calo demografico in rapporto all'età romana imperiale e se i risultati di scavi spesso avvenuti in anni lontani non forniscono che un quadro estremamente parziale della situazione reale, il numero delle tombe sicuramente attestate inferiore alle 300 unità ripartite su 33 città e su tutto il periodo esaminato - è evidentemente insufficiente a provare un radicale cambiamento di mentalità e di abitudini. CHIARA LAMBERT
1 Cfr. LAMBERT 1992, PP. 145-158; EADEM 1994 e c.s. Per uno studio puntuale del fenomeno nel territorio urbano di Roma, cfr. MENEGHINI SANTANGELI VALENZANI 1993, per una recente analisi dell'ideologia delle sepolture urbane cfr. CANTTNO WATAGHIN C.S. 2 Cfr. KOTTING 1965, PP. 10-12. 3 CICERO, De Legibus, II, 23, S8. Il testo fu in seguito confermato e rinnovato fino all'età dioclezianea (in proposito cfr. BRIDE 1941, col. 1888, con rimando a MANY 1904, P. 233, n. 138). Cfr. inoltre DYGGVE 1952, P. 147; O5BORNE 1984, P. 291. 4 Cfr. DE VISSCHER 1963 P. 60, dove, a margine della citata legge delle XII Tavole, è riportato il passo di SERVIUS, Aieneidem, VI, 152. 5 Cfr. DYGGVE 1952, PP. 147-149; GJERSTAD 1952, PP. 13-29; TOYNBEE 1971, PP. 39-42. 6 CICERO, De Legibus, II, 24, 61. Cfr. inoltre DE VISSCHER 1963, PP. 61; 147. 7 Cfr. BLUMENTHAL 1952, coll. 1867-1876, TESTA 1990, PP. 78, 83. Per una disamina aggiornata sulla nozione di pornerium, cfr. MAGDELAIN 1990, PP. 155-191. 8 Circa la coesistenza dei due riti anche in epoca repubblicana, cfr. TOYNBEE 1971, pp. 9 Per le nozioni giuridiche citate, cfr. LONGO 1964a, pp. 137-144 e ID. 1964b, pp. 342352; TESTA 1990, pp. 77-78. 10 Cortus luris Civilis, vol. I, Digesta, XLVII, 12.
11 Una conferma di tale mentalità è offerta da aree di minor radicamento della cultura urbana: in alcuni ambiti rurali della Gallia sono state individuate tombe ad incinerazione della prima metà del I secolo d.C. al di fuori delle necropoli tradizionali ed in stretto rapporto con l'abitato, talora entro il cortile di villue aristocratiche. In proposito cfr. LAFoN-ADAM 1993, pp. 113-120. 12 Codex Theodosianus, lib. IX, tit. XVII, lex 6. 13 Orienta in questo senso anche il commento del De Visscher: “L'interdiction de transfert subsiste, bien entendu, en ce qui concerne les corps et cendres placés "sous terre" en ville fussent ils renfermés dans des sarcophages ou des urnes” (DE VIS5CHER 1963, p. 313). 14 Circa le sepolture ad sanctos cfr. KOTTING 1965 ed i più recenti e fondamentali DwAr 1988 e 1991; PICARD 1992, pp. 21-33; 38-45. 15 Cfr. CANTINO WATAGHIN 1992, p. 29. 16 Codex Theodosianus, lib. IX, tit. XVII, lex 7. Cfr. DE V~sscH~R 1963, pp. 311-314. 17 Corpus luris Civilis, vol. II, Codex lustinianus, lib. 1, tit. IT, lex 3 e lib. III, tit. XLIV, lex 14. Cfr. BRIDE 1941, col. 1888; DE VTSSCHER 1963, p. 312. 18 Cassiodori Senatoris Variae, IV, 34, a. 507/511. Il testo riguarda la proibizione di deporre monete nelle tombe. 19 Novellae ad calvem Cod. Iustinianus, LIII, cit. in BRIDE 1941, col. 1888. 20 Cfr YOUNG 1977, P 9 21 Si tratta rispettivamente del concilio di Braga, a. 563, canone XVIII (cfr. HEFELE-LECLERCQ 1909, P. 180); del sinodo di Auxerre, a. 561-605, canone XIV-XV (Conc. Gall., II, A. 511-A. 695, p. 267); del concilio di Nantes, a. 658 (?), canone VI (cfr. HEFELE-LECLERCQ 1909, p. 297); del concilio di Macon, a. 58S, canone XVII (Conc. Gall., II A. 511-A. 695, p. 246); di un concilio svoltosi in un luogo incerto, in un anno imprecisato ma posteriore al 614, canone II (Conc. Gall., II, A. 511-A. 695, p. 287). 22 Cfr. in part. BERNARD 1933, p. 16; SAEIN 1952, pp. 33-36; DYGGVE 1952, pp. 150153; ID. 1953, pp. 137-141. 23 Questa sezione del testo ripropone nelle linee essenziali quanto presentato da chi scrive al Colloque "Vie et mort du cimetière cArétien"' Orléans 29 sept. - ler oct. 1994, per il quale cfr. LAMBERT C.S. 24 Cfr. PICARD 1987, pp. 33-48; ID. 1987a, pp. 35-38; ID. 1988. 25 Si sono escluse le città di Adria, Altino, Asolo, Belluno, Brescello, Ficuclue, Oderzo, Treviso, Vibo Valentia, per le quali cfr. CANTINO WATAGHIN 1989, PP. 22-23, 31. Per i limiti cronologici scelti, non si è trattato in questa sede del caso di Vada Sabatia, dove ricerche recenti hanno rimesso in luce una necropoli del periodo bizantino, datata tra la metà del IV e la metà del VII secolo; la città divenne diocesi solo nel IX secolo e non è attestata come civitas nell'antichità. In proposito cfr. LANZONI 1927, PP. 844-845 e, per i dati archeologici, VARALDO 1990, PP. 129-138; ID. 1992. 26 I dati che si presentano nel testo e nelle Tab. 4-5-6 sono aggiornati al 1994; essi vanno letti, pertanto, tenendo conto, oltre che delle possibili lacune del censimento, anche delle eventuali scoperte archeologiche più recenti. 27 Cfr. CANTINO WATAGHIN 1989, PP. 35-37; DEMEGETO 1992, PP. 1-4. 28 Il carattere privilegiato delle sepolture è dedotto dal loro rapporto con un edificio di culto e/o, più raramente, dalla loro tipologia o dalla presenza di un corredo significativo. 29 Cfr. PICARD cit. a n. 24. 30 Cfr. LAMBERT 1992, pp. 150-151; EADEM 1994. 31 A questo proposito si veda il caso di S. Vaast, deceduto ad Arras nel 540: malgrado una differente scelta personale, egli fu seppellito in ecclesia ad dextro cornu altaris, ubi ipse pontificale cathedrale fingebat officio (Vita Vedastis episcopi atrebatensis, p. 412, cfr. inoltre E. SATIN 1952, pp. 34-35; 361).
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Archeologia funeraria e insediativa in Piemonte tra V e VII secolo
Le riflessioni sulle vicende dell'insediamento nel territorio dell'attuale Piemonte tra il V ed il VII secolo proposte in questo contributo si fondano sui risultati di una serie di ricerche in corso, tra le quali si segnalano in particolare la stesura della Carta archeologica del Piemonte 1, che ha fornito l'occasione per una generale revisione della bibliografia e dei documenti dell'archivio della Soprintendenza, ed il riscontro dei materiali del Museo di Antichità di Torino nell'imminenza dell'allestimento della nuova sezione relativa al territorio. Le fonti considerate sono quindi essenzialmente archeologiche e comprendono i dati, anche inediti, di molte indagini recenti o non ancora concluse 2. Sull'attendibilità del quadro generale che emerge da questo primo spoglio, si deve considerare che gli interventi di scavo degli ultimi due decenni hanno subito vistosi incrementi, determinati dall'adozione di criteri di tutela uniformi per tutta la regione. Ne risultano quindi ridimensionate le tradizionali riserve sulla casualità delle scoperte, cui viene spesso imputata la disomogeneità di distribuzione dei ritrovamenti. Indubbiamente ben diverse conclusioni si potrebbero trarre da studi territoriali sistematicamente impostati su tutte le fonti disponibili, con l'ausilio della toponomastica e delle raccolte di superficie 3, ma in attesa che maturino le condizioni per avviare nuovi specifici programmi di ricerca interdisciplinare, pare comunque utile un primo confronto della situazione piemontese con i temi discussi nel Convegno. In particolare si è affrontato il problema della riconoscibilità e attendibilità dei resti materiali direttamente riferibili all'occupazione longobarda in Italia nell'ambito più generale della documentazione archeologica altomedievale. Proprio nella consapevolezza dell'ampio dibattito sorto sul significato dei corredi funebri di età longobarda 4 Si è tentato di valutare il maggior numero possibile di componenti, tra le quali è compreso, ma non sopravvalutato, lo stesso corredo delle sepolture che comunque dovrebbe essere, per quanto ancora possibile, confrontato ed integrato con i risultati delle analisi antropologiche. Su questo fronte di ricerca si attende a breve un primo bilancio condotto su consistenti campioni demografici, analizzati nell'ambito del programma di studio integrale delle sepolture indagate nel corso dell'ultimo quindicennio, relative a tutte le epoche, fino ai cimiteri subattuali 5. Sulla carta della regione (Fig. 1), nella quale è evidenziata la principale rete stradale di età romana, con i centri urbani - in lettere minuscole le città precocemente abbandonate - sono indicate tutte le emergenze archeologiche databili tra il V ed il VIII secolo con l'inclusione di alcuni complessi di poco più tardi e di rilevante interesse come l'abbazia di Novalese: i cimiteri con inumati privi di corredo e le tombe isolate, gli edifici religiosi rurali di età paleocristiana e altomedievale accertati archeologicamente, le epigrafi (per lo più funerarie) e gli insediamenti. Questi ultimi assommano ad un numero ancora esiguo di casi, molto diversificati tra loro tipologicamente. Si sono invece esclusi i centri urbani, da cartografare con criteri diversi per la complessità dei ritrovamenti, ed i siti documentati esclusivamente da materiale scultoreo altomedievale, in assenza di verifica archeologica. In primo luogo risulta immediatamente percepibile la diversa distribuzione delle presenze, pur essendo ancora da valutare appieno in quali termini esse si pongano rispetto all'evoluzione del quadro insediativo tra la media e la tarda età imperiale, che nel Piemonte meridionale presenta segni precoci di crisi, tale da condurre in tempi diversi all'abbandono di molte città 6. Risalta la maggior concentrazione dei ritrovamenti lungo tutta la fascia prealpina, anche in profondità nei solchi vallivi a nord, con una rarefazione dell'insediamento nella pianura e nell'area collinare del Monferrato e di nuovo una discreta concentrazione nella piana cuneese, dove le ricerche degli ultimi anni stanno modificando il quadro delineato dalle vecchie indagini, anche per i periodi più antichi 7. Ancora recentemente infatti si è posto l'accento sulla fondazione dei municipi romani del Piemonte meridionale in un territorio caratterizzato da una presenza umana rarefatta, che costituirebbe la prova
indiretta di una sorta di errata valutazione per eccesso della pianificazione dei centri urbani e la premessa inevitabile della loro decadenza 8, mentre pare ormai provato che le tappe della romanizzazione, sviluppatesi lungo direttrici commerciali preromane, non abbiano rappresentato che la riorganizzazione degh insediamenti delle popolazioni indigene alleate 9. Alba, Pollenzo, Forum Fulvii, Libarna, Tortona e forse Augusta Bagiennorum si sovrapposero o giustapposero anch'esse, non diversamente da quanto si verifica per l'area settentrionale, a nuclei "protourbani" ben più antichi, peraltro già indiziati dalla stessa toponomastica. In ogni caso la persistenza di una maggiore vitalità nel Piemonte transpadano anche in età tardoantica sembra ulteriormente confermata dalla marcata disparità nel numero degli edifici religiosi paleocristiani, ormai frequentemente attestati nel territorio delle diocesi di Vercelli e Novara, in più diretto rapporto con l'area milanese. Diversità di origine e di funzioni - chiese private, fondazioni missionarie, chiese battesimali sorte per iniziativa del clero diocesano - sembrano emergere dalle peculiarità dei singoli edifici di culto, dalla loro durata nel tempo e dalle eventuali trasformazioni medievali. In continuo incremento risultano i casi di chiese sorte nell'ambito di ville tardoromane: a quelli già noti di Ticineto 10 e di Centallo, che si approfondirà in seguito, si aggiungono gli esempi ancora inediti di S. Apollinare a Carpignano (No), dove un intervento di scavo limitato ha potuto accertare l'impostazione di un edificio di culto absidato su precedenti strutture di età romana, e di Sizzano, sempre nel novarese, oggetto di indagini sistematiche che hanno rivelato, nelle ultime campagne di scavo, l'inserimento di una chiesa nell'ambito di una villa rustica, probabilmente rimasta in uso durante il primo periodo di vita della chiesa stessa 11. Il tema di questo lavoro impone di non proseguire con la rassegna di tutte le chiese paleocristiane, battesimali o no, indagate in ambito rurale nel territorio regionale, ma preme sottolinearne almeno il numero relativamente elevato, rispetto ad esempio alla limitrofa Lombardia 12, e l'attendibilità della documentazione archeologica, frutto per la maggior parte di scavi recenti, condotti per quanto possibile in estensione. Questa precisazione è particolarmente importante per la corretta valutazione delle aree cimiteriali connesse agli edifici di culto, che nella maggior parte dei casi comprendono soltanto sepolture prive di corredo e di complementi di vestiario, ma non per questo indatabili o non analizzabili antropologicamente. Valga per tutti l'esempio, quantitativamente più rilevante, costituito dalla vasta area cimiteriale di Ticineto, datata fra il VI secolo e l'età carolingia 13, dove l'esplorazione di 160 sepolture associate alla chiesa non ha restituito nessun elemento di corredo o accessori di abbigliamento. Il dato è stato ulteriormente confermato dalla recente ripresa delle indagini, che ha interessato anche nuovi settori del cimitero 14. Per quanto riguarda le altre chiese paleocristiane individuate in ambito rurale, l'avvio dei relativi cimiteri non pare, allo stato attuale delle ricerche, fenomeno precoce o comunque contemporaneo alla creazione degli edifici di culto stessi 15. Questi riflettono l'impostazione di un'evangelizzazione delle campagne che nelle sue fasi iniziali probabilmente innestò le proprie strutture, almeno in parte, al di fuori della maglia insediativa esistente, in posizioni decentrate e al servizio di più villaggi o di un abitato sparso, ancora dotati di proprie aree funerarie. Tale caratteristica, già da tempo evidenziata per la distribuzione e la localizzazione delle pievi medievali in relazione agli insediamenti 16, potrà rivelarsi di origine ben più antica se si moltiplicheranno i casi come quello della chiesa battesimale di Mergozzo, fondata nel V-VI secolo in posizione isolata sul Montorfano, ma a breve distanza da importanti strade e vie d'acqua 47. Data la complessità e variabilità dei casi finora indagati archeologicamente sarebbe comunque prematuro cogliere nella diversa distribuzione delle tombe presso le chiese rurali l'indizio di funzioni specifiche e alternative per chiese funerarie o battesimali, improntate su modelli urbani e suburbani 18. Inoltre risulta attualmente ancora problematica l'individuazione e la valutazione delle aree funerarie tardoantiche, in parte sviluppatesi in continuità nell'ambito delle necropoli di età imperiale
sia rurali, sia urbane, come indicano i casi dei cimiteri di Tortona, in particolare quelli di corso Repubblica e di via Emilia 19, di Alba 20 0 di Vercelli 20, ma altre volte insediatesi per archi cronologici ristretti in siti diversi, precedentemente non occupati 22. Pur con le cautele rapidamente esposte, è parso indispensabile considerare e localizzare tutte le sepolture ascrivibili al periodo in esame come indicatori di insediamento, analogamente a quanto si verifica per le tombe con elementi di corredo. Per quanto riguarda il materiale epigrafico, quasi esclusivamente funerario, esso risulta comunque molto significativo, anche nell'incertezza della sua originaria collocazione, per i riferimenti cronologici, sociali e amministrativi che offre. Evidenze insediative vere e proprie per i secoli V-VII sono rappresentate da un numero ancora modesto di casi che, se per il momento non consentono generalizzazioni o l'individuazione di modelli, aprono tuttavia incoraggianti prospettive di ricerca. Nella val Curone (A1), a partire dalla fine del IV secolo si costituirono nuovi abitati rurali, rilevati a seguito di ricerche di superficie, due dei quali, nelle frazioni S. Giorgio e Frascata di Brignano Frascata, sono stati indagati esaustivamente 23. Nel primo sito l'abitato tardoromano si inserì in un'area già occupata da un insediamento rustico del I sec. d.C., con fasi comprese tra la prima e la media età imperiale. Le capanne presentano un impianto rettangolare, con massicciata in ciottoli ed elevato in pisè, confrontabili con quelle del tardo IV secolo recentemente individuate a Ind?~stria 24. Anche a Frascata modeste strutture con basi in ciottoli a secco si addossarono alle murature superstiti di un solido fabbricato, per il quale si è proposta l'identificazione con un deposito di merci o di derrate agricole. A breve distanza si impiantò una capanna circolare. Per entrambi i siti, si ipotizza un abbandono definitivo nel corso del VI secolo. A Mombello, nella val Cerrina (A1), nell'area della cascina "del Piovano" del Molino Nuovo di Gambarello, lungo il tracciato collinare di collegamento tra Industria e Vardacate, nei pressi della quale si localizza la pieve di S. Michele di Meda (ad Meidias), presente in documenti del X sec. ~s, si sono recentemente messe in luce strutture di età tardoromana alle quali si sovrapposero murature in pietre e ciottoli, con alzato probabilmente ligneo e palificate interne, che definiscono parte di un grande ambiente quadrangolare a destinazione abitativa e artigianale 26. A1 loro esterno, a pochi metri di distanza, sono emerse due tombe terragne con orientamento est-ovest. Tra i materiali, in prevalenza della fine del VI-VII secolo, si segnalano un tremisse a nome di Maurizio Tiberio, di I tipo 27, pettini in osso decorato insieme a ceramica riconosciuta come longobarda 28 e invetriata, mentre notevoli quantità di pietra ollare caratterizzano i livelli di abbandono, datato al VII secolo. L'importanza del sito è evidente, in ordine soprattutto al problema della continuità di insediamento, che pare attuarsi tuttavia con una trasformazione radicale delle precedenti strutture, più che con il loro riadattamento. A queste significative testimonianze si devono aggiungere i pochi esempi sinora indagati in Piemonte di abitati d'altura, che non consentono per il momento schematizzazioni tipologiche, come il Castelvecchio di Peveragno (Cn) e Belmonte (To), ai quali si dedica una trattazione specifica nei paragrafi seguenti e S. Stefano Belbo (Cn) che documenta, sulla sommità dell'altura che domina l'attuale centro, nell'area del castello medievale del quale rimangono la torre, una cisterna ed un tratto del muro di cinta datati al XIII secolo, l'esistenza di un abitato articolato in più fasi ed una fucina metallurgica attiva nel V secolo 29. L'area artigianale fu precocemente interessata da ristrutturazioni ed in particolare da un vistoso taglio nel terreno, che determinò una sorta di terrazzamento, sul quale venne realizzato un ampio focolare in lastre di pietra. In un momento ancora successivo, verosimilmente nel corso del VI secolo, questo settore dell'insediamento, ai margini della scoscesa pendice dell'altura, venne annullato dalla costruzione di una poderosa struttura in tecnica mista, con travi lignee alternate a parti murarie in pietre legate da malta, interpretata come cinta difensiva 30. La contiguità di bassi- fuochi, o fuochi di forgia, a focolari con probabile uso domestico è stata verificata pure nel caso della fucina riconosciuta in un vecchio scavo nella grotta valsesiana della Ciota Ciara, oggetto di una recentissima revisione 31. I materiali metallici ed il significativo contesto ceramico di questo sito, datato tra la fine del V e la metà del VI secolo, documentano in Piemonte,
analogamente a quanto avviene in altre regioni 32, la rioccupazione delle grotte dal periodo tardoantico in momenti di particolare instabilità politica, ma anche in connessione con un diverso sfruttamento delle risorse. Nella carta alla Fig. 2 sono indicate le poche evidenze archeologiche gote, già segnalate nel loro complesso nei noti lavori di Bierbrauer 33, ora arricchite dal ritrovamento recentissimo di una fibbia in argento da Peveragno, databile alla prima metà del VI secolo, di cui rimane solo la placca rettangolare con bordura articolata da un motivo a onda e con quattro almandini negli angoli sporgenti dal profilo; nella parte centrale aperta è inserita, dal retro, una piastra con cinque castoni 34 (Fig. 3). Da Tortona, sede del castrum menzionato da Cassiodoro 35, del quale non si è trovata traccia archeologica, ma che si ipotizza situato nell'area del castello, dove si sono per il momento messe in luce solo parti della cinta tardo-repubblicana 36, accanto ai più conosciuti materiali goti si segnala un consistente nucleo di reperti longobardi, diviso tra i Musei di Tortona e Alessandria 37: essi provengono da quelle stesse aree funerarie suburbane, che parrebbero presentare una continuità di funzione sin dal periodo tardoromano. Si tratta di un esempio significativo, pur nella sua eccezionalità per il nostro territorio, della possibilità di formazione di cimiteri misti, che le indagini recentemente riprese potranno definire nei caratteri cronologici e distributivi. In età longobarda (Fig. 2) la regione subalpina occidentale era caratterizzata da una certa permanente connotazione di confine, che si proiettò essenzialmente sul fronte di difesa rispetto ai Franchi, ed anche in seguito fu teatro di una costante tendenza dei poteri pubblici a strutturarvi formazioni territoriali di notevole estensione 38. Alle sedi dei grandi ducati di Torino, Ivrea e Asti, si affiancò quella del castrum di S. Giulio d'Orta, citato dalle fonti a proposito dell'episodio del duca ribelle Mimulfo, sconfitto e ucciso da Agilulfo nel 590 39. Se è discussa la sua effettiva territorializzazione 40, vanno peraltro considerati la mancata promozione di Novara, benché città episcopale, a capoluogo militare ed amministrativo del regno longobardo, ed il perdurare anche in età carolingia di una distrettuazione che non faceva capo a Novara, ma al castrum di Pombia 41. Nessun dubbio invece sul carattere strategico-difensivo dell'insediamento longobardo sull'isola di San Giulio, più volte interpretato come rioccupazione di una precedente piazzaforte militare allestita alla fine del IV secolo nell'ambito dell'organizzazione del Tractus Italiae circa Alpes, o in età teodoriciana a seguito della politica gota di potenziamento delle strutture difensive 42, o ancora come fortificazione bizantina sorta durante la guerra greco-gotica 43. Sulla questione disponiamo oggi di nuova documentazione archeologica raccolta nel 1992 in occasione dei lavori di posa dell'impianto di metanizzazione 44: nonostante i ristretti limiti della trincea, obbligatoriamente scavata lungo la strada anulare che segue il perimetro dell'isola, e i pochi ampliamenti che si sono potuti effettuare negli spiazzi, si sono indagate sequenze stratigrafiche concordi in più punti del sito, che hanno restituito frammenti ceramici datati tra la fine del V ed il VII secolo 45. È evidente l'importanza del riscontro materiale che indica, dopo una frequentazione protostorica testimoniata da ceramica golasecchiana, un lungo periodo di abbandono dell'isola fino all'inoltrato V secolo. Ciò non esclude che l'insediamento religioso possa essere avvenuto anche prima, secondo la tradizione agiografica recentemente rivalutata 46, con possibile riferimento alla più antica fase edificatoria individuata negli scavi della basilica di San Giulio. Nel V secolo avanzato o agli inizi del VI, con l'affermarsi di un precoce sviluppo del culto del santo, e forse in concomitanza con la creazione del castrum, fu costruita una chiesa cruciforme in cui, a metà del VI secolo, scelse di essere sepolto il vescovo di Novara Filacrio 47. I Longobardi dunque presero possesso di un ganglio importante del sistema difensivo collegato alle isole dei laghi prealpini, ma archeologicamente non si sono fino ad oggi ritrovati materiali riferibili alla loro cultura, benchè la datazione della ceramica risulti estesa all'arco cronologico della loro presenza in Italia. È questo un fenomeno ben noto, che coinvolge in Piemonte anche le altre sedi ducali urbane.
Conferme archeologiche più consistenti sulla facies del periodo in esame si sono acquisite ad Asti, dove ai materiali longobardi raccolti nel Museo Civico Archeologico, di provenienza imprecisata, si aggiungono ora i ritrovamenti di ceramica a stampiglia in una fossa colmata da materiali altomedievali, esplorata in via dei Varroni 43 e di un altro significativo contesto stratigrafico di età longobarda da via S. Giovanni 49, entrambi presso la porta urbica occidentale. Interessante è inoltre la fase altomedievale del cimitero di S. Secondo, posto nei pressi del sito della Curtis ducati, pur in assenza di reperti tipicamente longobardi in questi ultimi due casi so. Come ad Asti, all'interno delle città - ducali o no - si conferma la pressoché totale mancanza di sepolture con elementi di vestiario o di corredo, benchè il fenomeno delle sepolture in urbe si riveli sempre più consistente negli scavi urbani recenti si. Fanno eccezione Novara e Vercelli: nel primo caso fu rinvenuta nei pressi del Duomo una croce aurea di probabile provenienza funeraria 52; a Vercelli la tardo-cinquecentesca Cronaca del Corbellini descrive la scoperta di una sepoltura con corredo (spada, cintura, croce in oro), cui deve aggiungersi un anello - sigillo aureo, segnalato pochi anni dopo dalla relazione del Vescovo, presso l'altare maggiore della chiesa di S. Eusebio 53. Per Torino si va arricchendo la trama, ancora estremamente frammentaria, delle fasi urbane altomedievali attraverso l'esplorazione sistematica dei cortili oggetto di interventi edilizi 54, ma le informazioni archeologiche sull'occupazione longobarda sono pressoché nulle dall'area intramuranea 55. Numerosi ed importanti sono invece i ritrovamenti avvenuti, tra fine Ottocento e primo Novecento, nelle zone circostanti la città: a nord soltanto nel quartiere di Madonna di Campagna è emersa una tomba con uno scramasax di corredo 56, ma a sud, lungo la strada in uscita dalla città, oggi via Nizza, a più riprese si individuarono tombe con corredi d'armi completi appartenenti ad un nucleo cimiteriale 57. Più lontano dal centro urbano, ma sempre lungo lo stesso asse viario, in quartiere Lingotto, avvenne il ritrovamento di una sepoltura femminile, nota per il ricco corredo della prima metà del VII secolo 58. La loro ubicazione, a discreta distanza dalle mura, non può definirsi propriamente suburbana e non ricalca precedenti siti funerari o di abitato, così come risultano isolate le sepolture con armi ritrovate ai piedi della collina torinese che, soprattutto per i versanti settentrionale ed occidentale, inducono ad ipotizzare l'occupazione ex novo di aree disabitate e incolte. Sebbene maggiori tracce di insediamento e di sfruttamento agricolo del suolo in età romana siano state individuate, soprattutto su base toponomastica, sul versante meridionale, dove si sviluppò la grande necropoli di Testona 59, il quadro insediativo specificamente riferibile all'arco cronologico che qui interessa, è tuttavia caratterizzato dalla presenza quasi esclusiva di documentazione archeologica di ambito longobardo, fatto che suggerisce come minimo modi di inserimento autonomo della popolazione immigrata in quel territorio. In estrema sintesi si può ricordare che non paiono più sussistere elementi sufficienti per ipotizzare una continuità d'uso dell'area funeraria di Testona rispetto ad un nucleo di sepolture precedente 60, ma che il cimitero sembra pertinente ad una comunità stabilmente insediata per un lungo periodo, dalla fase dell'immigrazione al tardo VII secolo almeno, sostanzialmente fedele agli usi funerari germanici tradizionali, a differenza, come si vedrà, di altri gruppi maggiormente integrati nella cultura romana. Proprio dal confronto con le altre presenze longobarde in Piemonte risulta difficile escludere per l'insediamento di Testona una valenza anche militare 61, in stretta relazione con la strada ed il Po 62. Allargando lo sguardo al territorio regionale nel suo insieme, la distribuzione delle sepolture con materiali di corredo di età longobarda non pare offrire elementi significativi per sovvertire il quadro interpretativo tradizionale, che indica un insediamento inizialmente distinto della popolazione immigrata, finalizzato al controllo di nodi strategici e delle principali vie di comunicazione 63. Nel tentativo di verificare questo assunto, si è dovuto far ricorso ad una cartografia della rete stradale di età romana in buona parte tratta da vecchi studi, perché le pur numerose puntualizzazioni comparse su sezioni territoriali limitate, non sono ancora confluite in un aggiornamento su scala regionale 64. Ma ancor più opportuna sarebbe una verifica in prospettiva diacronica, che consentisse di evidenziare
le importanti variazioni determinatesi in età tardoromana e altomedievale, come ad esempio l'abbandono del principale tracciato stradale alla sinistra orografica del Po, tra Torino e Pavia, a favore di un più lungo percorso che dall'altezza dell'attuale Chivasso raggiungeva Vercelli, per poi innestarsi sulla direttrice che dai valichi della Valle d'Aosta, attraversata Ivrea, conduceva a Vercelli e Pavia 65. L'affermazione del nuovo itinerario portò alla scomparsa delle mansiones e mutationes di questo tronco 66, ma il fenomeno va tuttavia inserito in una complessa ristrutturazione territoriale di lungo periodo, che inizia in età tardoantica ed abbraccia tutto l'altomedioevo e che trova riscontro archeologico nelle vicende dell'insediamento di Trino S. Michele (Vc) 67. Questo abitato rurale di pianura ha rivelato una costante vitalità anche tra V e VIII secolo, ma non ha restituito materiali in qualche modo riconducibili all'occupazione longobarda, che pare significativamente aver trascurato proprio la fascia lungo il Po, non più inserita nella rete viaria principale. Con l'eccezione delle tombe di Fontanetto 68, la distribuzione dei ritrovamenti longobardi presenta infatti ampie lacune in questa zona, mentre si riaddensa a breve distanza dalla strada da Vercelli a Ivrea nell'area di S. Germano, posta negli attuali territori comunali di Alice Castello e Borgo d'Ale, dove sono emerse in tempi diversi tre importanti sepolture di cavalieri, con corredi datati nell'arco del secondo terzo del VII secolo. Dal centro storico di Alice è ancora da segnalare una tomba femminile isolata, priva di corredo 69. A pochi chilometri dalle tombe di S. Germano, riservate a personaggi dell'aristocrazia longobarda, si sviluppò la grande necropoli di Borgomasino 70, che si è ipotizzato comprendesse oltre cento deposizioni con ricchi corredi, purtroppo quasi totalmente dispersi 71. Una ulteriore concentrazione di reperti caratterizza nel Monferrato la val Cerrina e l'area immediatamente circostante, in sintonia con il quadro che vedeva in essa, su base essenzialmente documentaria e toponomastica “il centro di irradiazione, durante l'alto Medioevo, dello stanziamento germanico” 72; oltre al sito di Mombello, del quale si è già parlato, si segnalano la spada e la crocetta aurea di Serralunga di Crea 73, I'orecchino a cestello di Vignale 74, le tombe con corredo da Moncalvo 75 e quelle meno sicure di Ottiglio 76, il puntale di cintura di Lu Monferrato 77 A Pecetto di Valenza, in una località ubicata sul margine delle colline, alla confluenza di Tanaro e Po e nelle vicinanze della via Fulvia, si è indagato nel 1980 un piccolo nucleo di 19 sepolture orientate ovest-est in piena terra e in casse costruite con frammenti laterizi, coperte a doppio spiovente 78. Soltanto dalla tomba 1, già manomessa, si è recuperato un anello bronzeo digitale e filamenti di broccato d'oro, che indicano l'elevato rango sociale dell'inumato 79, mentre in giacitura secondaria si sono rinvenuti frammenti di pietra ollare, una punta di freccia e una moneta argentea: 1\8 di siliqua con monogramma di Pertarito (?) della Langobardia Regno, databile tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo 80. La disposizione a file del cimitero e l'assenza di un edificio di culto ad esso associato concorrono, con i pochi ma significativi reperti, a differenziare il sepolcreto da altri di più sicuro ambito locale, come ad esempio il vicino cimitero di Ticineto. La proposta di datazione alla fine del VII- VIII secolo potrebbe giustificare la scomparsa quasi completa dei corredi, se il gruppo fosse riferibile agli insediamenti barbarici indiziati dai numerosi toponimi rilevati nell'area 81. La questione non pare oziosa perché gli interrogativi posti da siti come Pecetto o, come vedremo, Rivoli-Perosa e Centallo, richiedono ulteriori approfondimenti storici e indagini più complete, in quanto suggeriscono modelli interpretativi di maggiore complessità rispetto al quadro offerto dai vecchi ritrovamenti. È il caso del Piemonte meridionale, e in particolare della pianura cuneese, dove la componente germanica nel popolamento, valutata su base toponimica o epigrafica 82 e scarsamente supportata da materiali archeologici, appariva marginale oppure tardiva 83. Ora la moltiplicazione di ritrovamenti sporadici di complementi di vestiario come a Caraglio 84, Fossano 85 e Savigliano 86 (Fig. 4), e l'ancora inedita tomba di Scarnafigi 87, insieme al più noto corredo di Baldissero, alle armi di Cherasco, alla sepoltura femminile di S. Stefano Belbo 88, attenuano la disparità distributiva generalmente rilevata, sia pure in un panorama territoriale caratterizzato da presenze puntiformi e disperse, già evocato per il periodo tardoromano. Dietro a queste ultime ed alle indubbie variazioni antropometriche e fenotipiche registrate negli studi in corso sui resti scheletrici di alcuni cimiteri
altomedievali, si potrebbe forse intravvedere l'insedi`amento di nuovi gruppi umani, attratti in primo luogo dalle risorse agricole di terre fertili, organizzate in latifondi sin dai secoli precedenti 89. Un precoce inserimento tra i proprietari terrieri potrebbe aver favorito, in quest'area periferica sud-occidentale, un più rapido processo di integrazione con la popolazione locale, che consente però ancora di distinguere archeologicamente nel VII secolo comunità con tradizioni almeno in parte differenziate, come ad esempio a Centallo, dove il rito funebre conserva ancora la deposizione, rara e molto ridotta, di oggetti e accessori personali. La bassa percentuale di sepolture con corredo si ritrova, più a nord, nella necropoli di Carignano (To) 90, relativamente ai due nuclei di regione Boatera (140 tombe orientate ovest-est, in cinque file, terragne salvo una sola cassa in ciottoli, con una percentuale del 7-8% di corredi, in cui non compare l'armamento completo di spada-scudo-lancia, ma soltanto sax, frecce, un'ascia e doni variabili) e di località Fornace (30 tombe, di cui una sola, realizzata con tegole, aveva cintura, coltello e moneta forata). Un terzo gruppo di sepòlture, comprendente quattro tombe maschili con armi databili alla seconda metàfine del VII secolo ed una quinta già violata, fu individuato in regione Valdoch, nei pressi della cappella di S. Remigio e nelle vicinanze di una necropoli romana a incinerazione e di inumazioni senza corredo 91. A Carignano si delinea quindi un sistema di aree funerarie separate destinate a gruppi sociali differenziati, presente anche altrove, come ad esempio a Trezzo sull'Adda 92. In Piemonte tuttavia la lacunosità delle vecchie notizie impedisce di approfondire eventuali confronti con altri siti, quali Moncalvo o Borgovercelli 93, dove risultano individuati più nuclei cimiteriali. Il gruppo ristretto e privilegiato di Carignano-Valdoch offre inoltre lo spunto per altre considerazioni: in primo luogo queste sepolture sembrano costituire un possibile esempio di continuità d'uso di un'area funeraria di età romana e poi tardoantica, non eccezionale ma molto raro nella nostra regione, in secondo luogo sarebbe stato interessante verificare archeologicamente un'eventuale origine in età longobarda o precedente della chiesa di S. Remigio, attestata nei documenti a partire dall'XI secolo 94. Si apre cioè il problema del rapporto fra chiese e tombe con elementi di corredo più o meno sicuramente riferibili alla tradizione culturale longobarda 9s. Per il momento può essere utile ricordare, oltre al caso di Centallo, gli sporadici ritrovamenti di due sax in una tomba della chiesa paleocristiana di S. Massimo di Collegno 96, di un vaso e di cesoie in una tomba infantile nella chiesa battesimale di S. Stofano a Lenta (Vc) 97e del già citato puntale di cintura nel S. Giovanni di Lu Monferrato 98. Solo notizie non verificabili segnalano poi armi e crocette auree da tombe non scavate all'interno e davanti alla chiesa di S. Martino di Pombia (No) 99. Per Collegno, Lenta e Lu si tratta di materiali poco caratterizzanti o addirittura dubbi (Lenta), che possono indicare al più la presenza di singole sepolture di tradizione longobarda in contesti funerari paleocristiani e altomedievali connessi con importanti chiese di origine precedente, divenute pievi nel medioevo. Non sono invece noti, per il momento, casi di cappelle funerarie private fondate ex novo dalla classe dirigente longobarda, al di fuori dei suggestivi, ma labili, indizi segnalati per Carignano-Valdoch e S. Martino di Pombia. L'unico esempio indagato estesamente rimane quindi il S. Gervasio di Centallo che, come vedremo, si pone in una situazione intermedia e più complessa: un gruppo egemone elegge a proprio luogo di sepoltura una chiesa battesimale paleocristiana, della quale promuove successivamente una completa e originale riedificazione. Salvo queste eccezioni, stimate per eccesso, le sepolture con corredo di età longobarda non risultano collocarsi in prossimità di edifici di culto e in continuità con i relativi cimiteri, come bene si evidenzia nella sovrapposizione delle due carte precedentemente illustrate (Fig. 5). Resta anche da dimostrare che le tombe prive di corredo dei cimiteri organizzati a file (Testona, Carignano-Boatera) debbano essere riferite alla popolazione romanza e non a membri dello stesso gruppo, legati da una tradizione culturale comune: in primo luogo alle donne, di cui, non solo in
Piemonte, risultano largamente minoritari i corredi, e poi alle inumazioni più tarde, per il noto fenomeno della progressiva riduzione e scomparsa del dono funebre. Per quanto riguarda la tipologia costruttiva delle tombe, alla deposizione in semplici fosse terragne, prevalente nei cimiteri a file di più antica formazione, come Testona, sembra tendenzialmente preferita, a partire dal VII secolo, quella in fosse con rivestimenti e coperture più elaborati, soprattutto m connessione con corredi importanti o con ubicazioni privilegiate della tomba stessa 100. Questa tendenza è comune anche ai contesti non longobardi, dai quali anzi originano tipologicamente le varie forme di cassa. In conclusione, se a vent'anni dalla puntuale e pionieristica schedatura di Von Hessen 101 il catalogo dei ritrovamenti longobardi risulta numericamente raddoppiato, ciò non è dovuto tanto a recenti scoperte di nuovi cimiteri con spiccate caratteristiche germaniche, quanto piuttosto al risultato delle revisioni in corso alla luce di più aggiornate conoscenze, e in misura consistente anche alle nuove indagini sul campo che, grazie alle più attente metodologie di scavo, permettono di documentare contesti che certamente sfuggivano alle scoperte fortuite ed ai recuperi non stratigrafici. Si tratta di evidenze materiali di minor impatto, da leggere su una base sempre più articolata di parametri, aggiornata sulle problematiche archeologiche e storiche che si vanno definendo e precisando per i complessi e non univoci fenomeni di trasformazione del paesaggio e della società tra tardoantico e altomedioevo. E.M.- L.P.B. Il Castelvecchio di Peveragno Dal 1993 è in corso un'indagine archeologica sull'altura denominata "Castelvecchio" (Fig. 6), che raggiunge m 843 s.1.m., nella frazione Montefallonio del comune di Peveragno, a pochi Km da Cuneo 102. L' intervento è stato avviato dopo il recupero di una consistente quantità di materiali metallici e ceramici di epoca protostorica e tardoromana, in concomitanza e successivamente alla costruzione di una carrareccia di accesso alla sommità, per l'installazione di un ripetitore telefonico 103. L'interesse archeologico del sito era peraltro noto sin dal Settecento, quando eruditi locali segnalavano l'esistenza di antichi abitati sui colli di S. Giorgio, Moncalvino, Castelvecchio e Forfice, incombenti sulla piana cuneese, all'imbocco della valle Pesio 104. La documentazione d'archivio di epoca medievale fornisce informazioni solo su Forfice, sede di un castrum attestato per la prima volta tra il 1041 ed il 1153, quando la giurisdizione della diocesi di Asti fu estesa sino al monte Bisalta 105. In particolare, un atto relativo alla vendita di un castagneto nel territorio dipendente da Forfice, menziona un “castrum vetulum” 106, da identificarsi verosimilmente con il nostro Castelvecchio, provandone nel contempo l'antichità, confermata dalle risultanze archeologiche. Ad una prima fase di insediamento, databile alla media età del Ferro (VI-V sec. a.C.), documentata solo da materiali ceramici in giacitura secondaria da strati di colluvio seguì, alla metà circa del III sec. d.C. l'impianto di modeste strutture artigianali. Analisi al C 14 di campioni dai livelli d'uso consentono infatti di attribuire a questo periodo due piccoli forni scavati nel substrato roccioso, con piano di cottura in lastre di pietra e probabile copertura a calotta, collassata all'interno. Le camere di cottura furono progressivamente colmate da strati di colluvio e detriti di roccia, frammisti esclusivamente a ceramica protostorica, che confermerebbero una fase di abbandono dell'insediamento del quale non è possibile, allo stato attuale delle indagini, ipotizzare estensione e caratteristiche. Certo è che anche il Castelvecchio parrebbe rientrare nell'ampia casistica di abitati arroccatisi nel III secolo, meglio documentati in area veneta e lombarda, per la grave insicurezza politica seguıta alle prime incursioni barbare 107. Ma è solo con la fine del secolo seguente che l'altura cuneese venne intensivamente occupata da abitazioni prevalentemente lignee, disposte su terrazzamenti creati dopo impegnativi interventi di
taglio e regolarizzazione della superficie rocciosa. Non si è per il momento in grado di restituire la planimetria delle capanne, vista la limitata estensione dei sondaggi ed il forte dilavamento delle ripide pendici dell'altura; numerosi incavi nella roccia e brevi tratti superstiti di impiantito ligneo, insieme ai laterizi recuperati, autorizzano tuttavia l'ipotesi di modeste strutture, con intelaiatura lignea a volte su zoccolo in pietra e copertura in coppi, spesso a falda unica poggiata direttamente alla parete litica. I1 primo terrazzamento, a pochi metri dalla sommità, era occupato da una costruzione stretta ed allungata, divisa in almeno due vani, nel primo dei quali si è messo in luce un forno coperto da una calotta in pietre legate da malta. Nell'area antistante la camera di cottura, dove si è rinvenuto un focolare in laterizi, era ancora visibile un tratto di assito ligneo completamente carbonizzato. I1 secondo ambiente era verosimilmente destinato all'immagazzinamento di derrate alimentari, come attesta una fossa-silos, colma di cariossidi di cereali (orzo, segale, frumento, farro, avena, panico), rıcavata direttamente nella roccia; essa presenta un profilo circolare, con un diametro massimo nella parte superiore di m 1, 50, restringendosi progressivamente verso il basso. Anche dai livelli d'uso circostanti si sono recuperate notevoli quantità di orzo e avena, insieme a numerose mele carbonizzate; l'assenza di veri e propri strati attribuibili ad incendio, lascia aperta la possibilità che le tracce di combustione riscontrate sui materiali organici derivino da trattamenti di tostatura per la conservazione 108. Anche se le scorie e gli utensili metallici, rinvenuti insieme a frammenti di pietra ollare riconducibili a crogioli, dagli strati di vita del V e del VI secolo avevano fatto ipotizzare la destinazione di questo settore dell'insediamento ad attività metallurgiche, i dati di scavo della campagna'9S, evidenziando un forno sostanzialmente privo di camera di combustione, farebbero propendere invece per il suo utilizzo per la trasformazione di materiale organico, in stretta connessione con lo stoccaggio di derrate alimentari. L'ordinata scansione distributiva delle cellule lungo i primi terrazzamenti, con un'occupazione intensiva della sommità, è provata anche dal sistema di convogliamento delle acque di versante, che confluivano in una sorta di fossato-canale, colmato progressivamente ed in ultimo utilizzato come strada. Da questo settore dello scavo proviene la maggiore quantità dei materiali ceramici, già oggetto di uno studio preliminare, al quale si rimanda per il dettaglio: alla ceramica grezza, riferita ad un arco cronologico compreso tra IV e VI secolo, si associano scarsissime quantità di terra sigillata africana e di t.s. chiara di imitazione, note in contesti della fine del IV e del V secolo. Si è verificata la compresenza di queste ultime classi con contenitori invetriati di analoga cronologia, mentre la pietra ollare, in gran parte di origine valdostana, caratterizzata da livelli più tardi, del VI secolo 109. Ad una distanza di circa 100 metri verso ovest, in corrispondenza di una sella che collega il Castelvecchio ad un altro colle, affiora una poderosa struttura muraria (m 1, 90 di larghezza x 8 circa di lunghezza), i cui caratteri costruttivi, insieme alle considerevoli dimensioni, avevano indotto ad identificare con una torre, all'esterno della quale si è individuato un fossato scavato in gran parte nella roccia. Il rilievo planialtimetrico di tutta l'area, realizzato nell'autunno '95 e la prosecuzione dello scavo pur facendone risaltar'l'allineamento con costruzioni quadrangolari poste più in basso, oggetto di ripetute ricostruzioni anche in epoca moderna, permettono di riferire i resti ad una cinta continua, forse limitata ai settori non difesi naturalmente 110. La sequenza stratigrafica consente di racchiudere le fasi principali dell'abitato sommitale nell'arco cronologico compreso tra la fine del IV ed il VI secolo, pur mantenendo quest'ultimo limite - imposto sia dai reperti ceramici che monetali - un certo margine di oscillazione, che si spera di precisare con la prosecuzione dei lavori. Qualche incertezza può lasciare anche la quantità minima di materiali di età romana imperiale, solo monete e vetri, che si è per il momento riferita a recuperi per il reimpiego in attività artigianali altomedievali, piuttosto che indizio di un insediamento in loco. La forgiatura del ferro, che caratterizza soprattutto la fase più tarda del villaggio, è attestata infatti dalle grandi quantità di scorie e di semilavorati, insieme a lingotti, panelle di piombo, utensili per metallurgia, oltre ad attrezzi per carpenteria e lavori agricoli ed elementi di connessione delle strutture in legno (cfr. l'esemplificazione alla Fig. 7). Anche se la metà circa di essi provengono da raccolte di superficie antecedenti l'avvio dello scavo archeologico, la mappatura dei ritrovamenti, aggiungendo Peveragno all'elenco dei siti altomedievali con testimonianze archeologiche di
lavorazione dei metalli 111, rivela significative associazioni - ad esempio una piccola incudine in bronzo, tre martelletti in ferro di dimensioni diverse e due scalpelli in acciaio - che autorizzerebbero l'ipotesi di lavorazioni più delicate, connesse con l'oreficeria. Il ritrovamento del Castelvecchio, per quantità e stato di conservazione dei materiali riveste, insieme a Belmonte (To), un carattere di eccezionalità, che si spera possa essere integrato con le strutture materiali della fucina metallurgica, per il momento non individuate. La maggioranza dei reperti trova confronto solo con ritrovamenti tombali, primo fra tutti e più completo, il lotto di utensili di Héronvillette in Normandia; in questo cimitero si è infatti scavata la sepoltura di un fabbro - orefice vissuto nei primi anni del VI secolo, al quale la comunità di villaggio riconosceva probabilmente un ruolo importante 112. Insieme alle armi, egli recava con sé nella tomba gli utensili della sua professione, così come si verfica per i corredi longobardi di Brno, Poysdorf e Grupignano l13, pur rimanendo per tutti aperta la discussione sulla posizione occupata da questi personaggi nella gerarchia della società altomedievale 114. Nel nostro caso, l'attrezzatura non risulta provenire da tombe, ma è uniformemente sparsa su tutti i terrazzamenti, compresa la scoscesa pendice settentrionale, con alcune concentrazioni come documenta la recentissima consegna da parte di privati di un falcetto, una sgorbia, un'ascia barbuta, una zappa ed una sorta di picchetto, rinvenuti insieme durante lavori agricoli 115. Non è questa la sede per l'approfondimento tipologico di questi materiali metallici, già oggetto di una schedatura preliminare, ma preme far risaltare alcuni di essi e le relative associazioni, anche per il contributo alla definizione cronologica dell'insediamento. Oltre alla fibbia gota in argento e almandini di cui si è parlato nel paragrafo introduttivo (Fig. 3), l'ascia barbuta frammentaria, arma di probabile origine germanica della quale si annoverano ormai numerosi esemplari anche in Italia, in prevalenza da tombe databili tra la fine del VI secolo e tutto il VII 116, può nel nostro caso avvalorare l'ipotesi della sua polivalenza, per un utilizzo in carpenteria, insieme a falcetti ed attrezzi per la scortecciatura degli alberi. Come già si verifica per Belmonte, il numero di reperti collegati all'armamento appare comunque irrisorio: tre punte di freccia del tipo avaro ed uno sperone frammentario in bronzo che trova scarse rispondenze in Italia 117, ampiamente diffuso nell'Europa merovingia ed utilizzato in esemplare unico al piede sinistro. Molto più articolata è la tipologia degli elementi di connessione e fissaggio per strutture lignee, le cui diverse fogge attestano la presenza di pali e travi squadrate, documentando nel contempo una notevole articolazione delle strutture, solo suggerita dalle scarse tracce superstiti nella roccia; si conferma ancora una volta la pervicacia nella volontà di arroccamento di una popolazione che avrebbe potuto molto più agevolmente insediarsi sui declivi a quota più bassa. Tale evidente connotazione difensiva ben si inserisce nel momento di riorganizzazione del limes alpino, come viene restituita agli inizi del V secolo dalla Notitia Dignitatum 118, quando si evidenzia la necessità di controllo dei più importanti tracciati stradali con la formazione di nuovi nuclei difensivi e la fortificazione di quelli esistenti. Un elemento primario di questo sistema è rappresentato dalle chiuse, poste nei punti di transito obbligato e più agevolmente difendibile l19; in effetti è particolarmente suggestiva la vicinanza del Castelvecchio a Chiusa Pesio, il cui toponimo aveva già suscitato l'interesse degli studiosi. Il Durandi localizzava nella valle Pesio ún importante asse viario di epoca romana 120, che in realtà non ha mai trovato riscontri archeologici, fatta eccezione per un'epigrafe con dedica a Diana, una piccola necropoli ad incinerazione ed alcune monete del III secolo 121. Anche Nino Lamboglia ne ribadiva l'importanza per l'altomedioevo, come collegamento tra la pianura padana e la Liguria bizantina, lungo le cime di Pertegà e Saccarello 122. Pur non escludendo la possibilità dell'esistenza di chiuse anche in valli di importanza strategica secondaria come quella del Pesio 123, pare più corretto allo stato attuale della ricerca inquadrare il Castelvecchio come villaggio fortificato d'altura, con una generica funzione di controllo di potenziali vie di passaggio, senza sottovalutare le potenzialità rappresentate dalla consistente attività metallurgica. E.M.
Belmonte L'insediamento fortificato di Belmonte si situa a circa 700 m d'altezza sulla sommità di un rilievo granitico, in posizione strategicamente rilevante rispetto all'imbocco della Valle Orco, valle che tuttavia non conduce a valichi alpini importanti e che si diparte da un tratto di pianura canavesana abbastanza appartato rispetto alle maggiori vie di comunicazione. Il sito fu occupato tra il Bronzo Finale e la piena età del Ferro 124, mentre non sono emersi indizi d'insediamento in età romana. Soltanto tra tarda antichità e alto medioevo si sviluppò un abitato protetto da una cinta muraria, che racchiuse una vasta area di circa due ettari e mezzo intensamente occupata 125 (Fig. 8). Sul ciglio del versante settentrionale i vecchi scavi del 1968-1975 avevano accertato, con una serie di sondaggi, la presenza pressoché continua della cortina, mentre su quello meridionale essa fu individuata in due diversi punti in un saggio limitato, eseguito a sud del nucleo abitativo B e in zona "Campass", su un tratto più ampio di scavo, conseguente al tentativo d'apertura di una nuova strada. Le più recenti indagini, avviate a partire dal 1986, hanno permesso di verificare nel settore nordoccidentale del sito, a tutt'oggi il più estesamente esplorato, come la cinta sia stata ricostruita più volte. Questo dato è stato evidenziato per un segmento di m 15,50, in cui si susseguono da valle verso monte tre muri paralleli larghi rispettivamente: m 1,00 circa il primo edificato, m 0,70-0,90 il secondo e m 0,70-1,00 l'ultimo e più conservato, rimesso in luce per m 120 circa e individuato per altri 300. La tecnica di costruzione, che impiega blocchetti del granito locale di diverse dimensioni tenuti da un legante molto magro, ottenuto impastando le sabbie prodotte dal disfacimento del granito stesso, non varia in modo sostanziale, ma si rivela più regolare nella prima fase edilizia, per quanto si possa ancora dedurre dagli ultimi corsi di fondazione residui. La cinta muraria non pare essere stata mai rinforzata da torri, segue le curve di livello del colle e si interrompe soltanto in corrispondenza di bruschi strapiombi, evidentemente utilizzati a integrazione dell'opera di difesa. I successivi rifacimenti del perimetro fortificato coinvolsero una serie di vani (A) addossati all'interno della cortina, dei quali è possibile ricostruire la cronologia relativa soltanto in base alle relazioni tra le strutture, in quanto le prime indagini, non stratigrafiche, hanno esaurito completamente i depositi, intaccando anche lo strato sterile di base. Ampliando l'area di scavo verso l'estremo limite occidentale di questo nucleo abitativo, si è tuttavia potuto documentare come appartengano al primo periodo insediativo, o comunque ad epoca precedente l'ultima ricostruzione delle mura, edifici (C) delimitati da muri di pietra di spessore anche notevole (m 0,50-0,80) apparecchiati con materiali e tecnica analoghi a quelli della cinta, e accuratamente fondati sulla roccia anche mediante appositi profondi tagli, laddove il ripido declivio rendeva poco stabili le strutture (Fig. 9). Allineate all'interno delle pareti in pietra, alcune grosse buche scavate nella roccia indicano come gli alzati fossero rinforzati da pali di legno che, come nel caso dell'edificio occidentale (C), sviluppato sul pendio, dovevano certamente sostenere anche il tavolato del pavimento. Questa abitazione, articolata in più vani, includeva a monte un ambiente di piccole dimensioni incassato con tagli artificiali nel versante roccioso e destinato ad accogliere il focolare. L'impiego suppletivo di pali a sostegno del tetto e di piani pavimentali o soppalchi, trova oggi confronto nell'edilizia "rustica" di V-VI secolo dell'area lombarda, con la quale le prime fasi insediative di Belmonte condividono altre caratteristiche come lo schema planimetrico elementare e la povertà dei battuti pavimentali, su cui venivano direttamente apprestati i focolari 126, Il vano parzialmente scavato nella roccia rimanda poi a tecniche evidenziate ad esempio a Peveragno 127, Dopo l'abbandono di questa abitazione e il recupero dei relativi materiali edilizi, si collocano cronologicamente l'ultima ricostruzione della cinta, il riadattamento della serie di vani a schiera del nucleo A e la costruzione di strutture precarie in legno in luogo delle precedenti murature, o per una diversa destinazione d'uso dell'area, occupata da tettoie a ricovero di attrezzi o animali, oppure a
causa di un più generalizzato e progressivo impoverimento delle tecniche edilizie, che comunque emerge dalle sequenze stratigrafiche documentate in più punti dell'insediamento. Da murature realizzate con conci di pietra di pezzatura omogenea, ben allineati e legati da malta, sia pure di pessima qualità, si passa a strutture elevate a secco, più esili e di andamento irregolare, che utilizzano pietre di dimensioni molto varie e talvolta piccoli frammenti di tegole a risvolto, probabilmente derivanti dalle coperture dei periodi iniziali. Non è invece possibile attribuire soltanto alle fasi più recenti l'uso di pali verticali portanti 128 che anzi, come si è visto, certamente compare a rinforzo della muratura nelle soluzioni edilizie più antiche e complesse. Sembra invece variare nel tempo la dimensione dei pali, generalmente di diametro inferiore e non più incassati nella roccia nelle strutture più tarde. Naturalmente si tratta di indicazioni di tendenza che richiederanno ben altri approfondimenti e più estese verifiche in relazione alle diverse tipologie edilizie che si vanno delineando. E utile segnalare in proposito che durante l'ultima campagna di scavo del 1994 si è effettuata un'indagine di superficie nell'area pianeggiante al centro del castrum, preliminare ad un futuro scavo in estensione, dalla quale sono emersi tre diversi edifici (D): per nessuno di questi si è potuta definire la planimetria completa, ma almeno in un caso si può riconoscere un grande vano quadrangolare con base in muratura di pietra a secco lungo m 12 ed apparentemente privo di muri di divisione interni. La tipologia di queste case rettangolari allungate non è certo nuova per i siti d'altura dell'arco alpino 129, ma a Belmonte, come si è visto, non è esclusiva e sembra associarsi anche a diverse soluzioni distributive. Oltre ai vani allineati all'interno della cinta muraria- presenti sia nel settore nordoccidentale (A), sia nelle due aree esplorate in passato lungo il perimetro meridionale (E-F) e alle case rettangolari (D), con vani aggregati successivamente, individuate nella zona pianeggiante centrale, un altro gruppo di ambienti (B) denuncia una maggiore complessità di progetto. Si tratta di un nucleo residenziale, scavato nel 1970, di cui non è stato raggiunto il perimetro. Benché non sia quindi noto l'intero sviluppo planimetrico, la parte rimessa in luce evidenzia un sistema di vani di varie dimensioni, distribuiti sui due lati di un muro di spina longitudinale. Uno di questi (B4) era pavimentato in lastre di pietra sigillate da cocciopesto: l'unica eccezione sinora riscontrata al generale utilizzo di pavimenti in terra battuta. Tali caratteristiche potrebbero indurre ad una cronologia leggermente anticipata di questo settore dell'abitato, nel quale sono stati raccolti anche alcuni oggetti di età romana, ma la tecnica costruttiva delle strutture non si discosta da quella già descritta, presentando anzi una tessitura muraria piuttosto irregolare. D'altra parte negli appunti di un memoriale inedito ]30 è descritta una sequenza stratigrafica per il vano B4 che potrebbe suggerire l'interpretazione di uno “strato di colorito giallastro con scarsa quantità di ceramica e rari frammenti di laterizi (embrici)” spesso cm 40 e direttamente poggiante sul lastricato, come fase di abbandono dell'edificio. Successivamente si depositò uno “strato ... grigio scuro inglobante numerosi frammenti di ceramica di colorito biancastro, in massima parte costituita da piatti, a tesa molto larga, in maggioranza con traccia di invetriatura. Lo spessore di questo strato è di circa cm 30” e poi ancora uno “strato di humus dello spessore di cm 20, contenente frammenti di embrici e molti frammenti di pietra ollare”. Pur valutando con estrema prudenza simili osservazioni, effettuate durante scavi condotti con criteri largamente insufficienti, si potrebbe dedurre che dopo la prima fase insediativa e un temporaneo abbandono, l'edificio sia stato rioccupato forse con piani di calpestio non più strutturati e dispersione di materiali domestici di rifiuto, sia vasellame, sia utensili e accessori in ferro, come indicato in un passo che qui si omette. Si può infine evidenziare come anche a proposito di altre zone dell'insediamento sia stata annotata la predominanza di pietra ollare negli strati più recenti e superficiali. Si tratta di informazioni da tenere ancora in conto, perché lo studio dei materiali per il momento si avvale in misura minoritaria di reperti provenienti da stratificazioni intatte correttamente esplorate. Tuttavia già in occasione dell'approfondimento condotto sulla ceramica invetriata si era rilevata la notevole omogeneità del vasellame nel suo complesso i131, ora nuovamente ribadita
nell'ambito di un aggiornamento di sintesi regionale 132, che propone di restringere tra metà V e metà VII secolo il periodo di vita del castrum, per il quale reperti metallici ben databili offrono un termine di confronto abbastanza preciso. L'assenza di anfore e la minima percentuale di ceramica fine di importazione o di imitazione della sigillata chiara sono significativi indizi di rapporti commerciali a raggio ridotto, connotati tuttavia da una vivace iniziativa locale, anche testimoniata dalla produzione autonoma di ceramica invetriata, attestata da scarti di lavorazione, e molto verosimilmente di quella priva di rivestimento, analoga per i caratteri tecnico-morfologici 133. Oltre a questa produzione, il complesso dei materiali delinea una notevole gamma di specializzazioni artigianali praticate dagli abitanti, certamente dediti alla metallurgia, alla lavorazione del legno e alla filatura e tessitura, a complemento delle attività agricole e pastorali. Lo strumentario in ferro, eccezionalmente abbondante e vario 134, fu ritrovato in parte in due ripostigli e in parte distribuito all'interno o presso i vam dı abitazıone, in tutti i settori di abitato esplorati. Le associazioni di oggetti raggruppati nei due distinti ripostigli 135, in cui compaiono strumenti per usi diversi - agricoli, artigianali e domestici - sembrano riferibili agli attrezzi di singole famiglie, occultati in vista di un abbandono del villaggio, rivelatosi poi definitivo. Uno di questi due nascondigli fu ricavato scavando una fossa all'angolo tra due muri e riponendovi i ferri in un piccolo barile, di cui sono rimasti i cerchi di assemblaggio delle doghe. Nell'elenco del contenuto compaiono: un piccone, un treppiede, un morso, tenaglie da fabbro e un'ascia barbuta con nuca a martello 136, La presenza dell'ascia, di tipologia attestata in Italia tra la fine del VI e il VII secolo 137, fornisce un prezioso riferimento cronologico agli altri oggetti associati e nel contempo trae da questi un'indicazione utile alla definizione della sua funzione artigianale. Se le tenaglie costituiscono indizio sicuro dell'attività di forgiatura a Belmonte 138, difficilmente invece può essere accolta l'ipotesi di localizzazione della fucina nel vano così interpretato durante lo scavo per l'abbondanza dei ferri ritrovati 139, in quanto l'ipotetico fuoco di forgia appare nelle fotografie più simile ad un semplice focolare. Il vano risulta inoltre connesso con l'abitazione già descritta (C) sviluppata sul pendio roccioso all'estremità occidentale del sito, ed ha restituito attrezzi da miniera - piccone, scalpello, palanchino accanto ad un altro piccone ed a ben tre vomeri d'aratro: tutti arnesi probabilmente impiegati in attività condotte all'esterno del castrum e poi ricoverati al sicuro delle mura domestiche. Altri tre vomeri, di cui due recuperati in posizioni molto lontane, all'estremità est e sud del villaggio, portano attualmente a sei il numero eccezionalmente rilevante, e probabilmente non definitivo, di queste componenti fondamentali dell'aratro, che testimoniano ad un tempo l'ampiezza del distretto agricolo e la consistenza demografica della comunità che lo coltivava (Fig. 10, 2). Vomeri di questo tipo, a pala triangolare fornita di una lunga asta, detti anche "a ferro di lancia", sono stati trovati in Italia soltanto a Carignano, nel Torinese 140. Altri esemplari sono segnalati a Parma 141 e a Masegra, presso Sondrio 142, ma di provenienza e cronologia ignote. Allo stato attuale delle conoscenze, paiono ancora labili gli argomenti addotti dal Forni a favore di una ininterrotta tradizione locale di questa tipo logia di vomeri e dei relativi aratri fin dall'età preromana 143, mentre non si può escludere la loro importazione nell'Italia padana dalle aree mitteleuropee 144, in un periodo storico - quello tra V e VII secolo indicato per il sito di Belmonte - in cui tali apporti possono trovare più di una spiegazıone. In particolare sarebbe interessante poter riferire con migliori margini di sicurezza almeno parte degli strumenti agricoli e artigianali alla fase di occupazione longobarda, provata dal ritrovamento di due umboni di scudo, di cui uno da parata 145. A proposito di questi ultimi, le circostanze del loro fortuito ritrovamento non sono chiare e non si può escludere, come vedremo, una originaria provenienza da corredi funebri, ma altri oggetti risulterebbero raccolti nei vari contesti abitativi, che hanno restituito ceramica e strumenti in ferro: durante gli scavi 1968-69 (nel nucleo A?) si rinvennero uno scramasax, una punta di lancia, una freccia, quattro puntali di cintura in ferro, un quinto puntale in ferro ageminato e due fibbie, di cui una a placca mobile triangolare allungata, sempre in ferro 146.
In un altro punto dell'insediamento, a meridione (F), emersero nel 1975 uno dei vomeri già citati, fusaiole, un bacile in lamina di bronzo e una fibula in bronzo a forma di croce sormontata da una colomba, con bordi a tacche e decorazione interna a cerchielli incisi di tipologia ben nota, presente in tombe femminili di VI-VII secolo 147 (Fig. 10,1). Da altre zone ancora provengono un vago di collana in pasta vitrea e una moneta forata, mentre ulteriori complementi del vestiario e dell'armamento (ad esempio la punta di una spatl1a) sono conservati tra i materiali dei vecchi scavi, a testimonianza di una fase insediativa di età longobarda che pare interessare tutta l'area del castrum. La localizzazione in più punti di questi reperti pone dei limiti oggettivi all'ipotesi di una loro eventuale appartenenza a corredi funebri manomessi e dispersi, anche se l'Assandria riporta la notizia, appresa dai Francescani residenti nel Santuario di Belmonte, del ritrovamento di tombe nell'area tra la V e la VI stazione della via Crucis 148, cioè in corrispondenza dei vani A successivamente individuati, di cui vide ancora i "rottami di laterizi" di epoca romana che le rivestivano. Anche negli appunti di Zambelli è ripresa la notizia di queste o altre tombe emerse in passato nella stessa zona, ma egli non riuscì a verificarne la veridicità né archeologicamente né su altre fonti documentarie. " Esito negativo su questo tema hanno infine prodotto le indagini recenti condotte abbastanza estesamente nell'area indiziata, all'interno della cinta, e in superficie sulla sella a nord-ovest del villaggio, indicata da abitanti del luogo. Resta in definitiva possibile che un'area cimiteriale, probabilmente molto limitata, si sia sviluppata entro le mura nel periodo terminale dell'insediamento, in quanto le notizie lasciano intendere che le tombe fossero piuttosto superficiali al momento della scoperta, mentre rimane aperto il problema dell'eventuale presenza di corredi 149. Valutando nel loro insieme i materiali più o meno precisamente ascrivibili alla sfera longobarda, e considerando che la ceramica a stampiglia e a stralucido per il momento non è ancora stata individuata a Belmonte, si potrebbe ipotizzare una occupazione longobarda del castrum durante il pieno VII secolo, poi repentinamente abbandonato, come indica la moltitudine degli strumenti in ferro e il vasellame non più recuperati. Livelli di incendio, di demolizione e di ricostruzione ricorrono ripetutamente nelle stratigrafie esplorate in tutto il sito, ma ogni generalizzazione interpretativa sarebbe ancora incauta. Un capitello datato all'VIII secolo iso, ritrovato sporadicamente, è l'unico indizio di persistenza di un edificio di culto, per altro non localizzato. Nessuna fonte antica permette l'identificazione storica dell'insediamento fortificato, per il quale evidentemente si esaurirono nell'arco di due, o al massimo tre secoli, i fattori e le motivazioni che ne avevano determinato la formazione e la fortuna. Soltanto alla fine del XII secolo Belmonte compare come sede di un priorato benedettino dipendente dall'abbazia di Fruttuaria isi, ma a quel tempo non risulta essere sopravvissuto nemmeno il ricordo di un villaggio o di un castello. L.P.B. La necropoli di Rivoli-Perosa Sul pianoro sommitale del modesto rilievo del Truc Perosa, estrema propaggine dell'anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana, a circa un chilometro dall'attuale alveo della Dora Riparia, è in corso di indagine dal 1990 una vasta area archeologica, individuata durante i lavori di costruzione della superstrada del Frejus 152. La prima fase di occupazione del sito consiste nello sviluppo di un insediamento, probabilmente rurale, articolato in più nuclei e datato a partire dall'età augusteo-tiberiana. Alla distanza di circa 100 metri dall'abitato è stata esplorata una ricca sepoltura ad incinerazione, deposta all'interno di una piccola camera`funeraria. Successivamente, tra la fine del II e III secolo
d.C., la creazione di un tratto di variante della via pubblica per le Alpi Cozie interferì con le strutture insediative preesistenti, determinandone la demolizione per una parte consistente, senza tuttavia causarne la totale distruzione, ma piuttosto il mutamento della destinazione d'uso. L'abbandono avvenne solo più tardi, in concomitanza con la caduta in disuso anche della sede stradale. E tuttavia il ritrovamento di un significativo segmento (oltre 100 metri) della struttura materiale della strada il dato emergente di questa indagine, che consente di ancorare topograficamente almeno un tratto del tracciato viario in relazione al suo periodo di utilizzo. Le dimensioni della carreggiata (m 6,40 di larghezza) e l'accurata esecuzione dell'opera con statumen in grossi ciottoli, regolarizzato in superficie da una spessa coltre di sabbia e ghiaia, confermano l'appartenenza di questo tratto alla strada delle Gallie, di cui già si ipotizzava il passaggio in località Perosa in base al ritrovamento ottocentesco di un miliario, di resti della strada stessa e di costruzioni di età romana {53. Tuttavia, malgrado l'impegno tecnico e la felice scelta della sede topografica, in leggero rilievo sulla riva destra del fiume (ancora oggi intensamente percorsa dalla viabilità maggiore e secondaria, nonché dalla ferrovia) si verificò un precoce e definitivo abbandono di questo tratto di strada in età tardo antica, probabilmente nel V-VI secolo, per ragioni di più vasta portata, note o ipotizzabili come fenomeno generale, ma non nelle specifiche e variabili situazioni locali. All'abbandono fece seguito la formazione naturale di uno strato di sabbia e limo e poi l'impianto di un'area cimiteriale, proprio in corrispondenza del precedente sedime stradale (Fig. 11). La necropoli si articola in due gruppi di sepolture: il primo è costituito da sette tombe a cassa in muratura di pietre, talvolta miste a frammenti laterizi, legate da malta o anche soltanto disposte a secco. Il fondo risulta variamente realizzato con frammenti di laterizi e lastre di pietra e, in un caso, con la stesura di cocciopesto (t. 2). La t. 1 conservava ancora le lastre di pietra di copertura, mentre elementi analoghi, ritrovati dislocati, possono essere anch'essi riferiti alle originarie chiusure delle altre tombe in muratura. A proposito della perdita dei dati relativi alle coperture, alla profondità delle fosse e alle eventuali sistemazioni superficiali del cimitero, va considerato il fenomeno generale di erosione del deposito archeologico verificato su questo sito, che ha portato a quota affiorante dal piano di campagna non solo le strutture, ma quasi i resti scheletrici stessi. A questo fenomeno va certamente imputato in buona parte l'esiguo numero di sepolture infantili rinvenute, più fragili e superficiali. Di fatto un'altra tomba, infantile per le ridotte dimensioni, (t. 14) a fossa rivestita in modo incompleto da tegole a risvolto disposte di taglio, priva di fondo e con una lastra monolitica di copertura, non conteneva resti scheletrici al suo interno, così come un'altra piccola tomba a cassa in muratura (t. 18). Una fossa terragna (t. 25) e resti molto disturbati di altre simili inumazioni (tt. 19, 21, 22), appartengono ancora a questo settore del cimitero, che appare organizzato per file in direzione nord-sud; l'orientamento delle singole sepolture è costante: ovest-est con capo a ovest. Le tombe in muratura furono tutte violate, ad eccezione della t. 3, dove forse non a caso l'ultima deposizione è risultata priva di corredo, mentre nelle t. 1 e t. 2 pochi oggetti residui indicano l'originaria presenza di ben più ricchi corredi trafugati (Fig. 12). Lo studio dei resti scheletrici, ormai quasi completo 154, ha permesso di stabilire che al centro dell'allineamento principale si collocano tre tombe di individui maschili adulti. Di queste la t. 1 conteneva un coltellino in ferro, decorato presso l'impugnatura da due fili ad agemina, una piccola fibbia in bronzo riferibile alle stringhe di fissaggio delle calze 155 ed un elemento in ferro ricurvo, per ora di incerta interpretazıone. Nel riempimento sconvolto della t. 2 si sono rinvenuti: una fibbia in bronzo di piccole dimensioni con ardiglione a scudetto e placca mobile, un puntalino di cintura a becco d'anatra in ferro con abbondanti tracce di tessuto mineralizzato, tre borchie di bronzo a testa circolare appiattita e decorata, di tipologia generalmente riferita al fodero del sax 156, ed infine una placchetta, che poteva far parte delle guarnizioni della cintura per la spatha, in ferro, rettangolare con bordo inferiore sagomato, quattro borchie in bronzo e occhielli di fissaggio sul retro. La decorazione, in agemina con fili di argento e di ottone su psendo-placcatura in argento, forma semplici riquadrature geometriche che incorniciano un
piccolo almandino incastonato al centro. Un secondo almandino è inserito nel lobo mediano del bordo inferiore, mentre i due laterali sono decorati ad agemina a cerchio quadripartito. In attesa di approfondire lo studio sulla decorazione di questa placchetta, piuttosto insolita, si può tuttavia proporre una datazione intorno alla fine del VII secolo, per la placcatura estesa e la presenza degli almandini 157. Si tratta in ogni caso di uno degli elementi di guarnizione di una cintura per la sospensione delle armi di discreto pregio, compatibile con un eventuale armamento completo e con elementi suntuari ambiti dai violatori. Si noti ancora che la struttura delle due tombe descritte è a cassa rettangolare ~abbastanza ampia e accuratamente costruita, avvalorando l'ipotesi che in questa "fila", e in particolare in queste tombe, fossero stati inumati i personaggi eminenti della comunità. A sud si allineano una terza tomba (t. 13), meno conservata, che conteneva i resti sconvolti ma abbastanza completi di altri due individui maschili di età compresa fra i 40-45 e i 45-50 anni 158, ed una quarta (t. 3), più stretta, lievemente trapezoidale e meno accuratamente rifinita, destinata invece ad una sepoltura femminile e successivamente ad un individuo maschile di circa 25 anni ritrovato in connessione anatomica, come si è già detto. A pochi metri di distanza verso est si collocano due tombe femminili affiancate: t. 20, a cassa in muratura con resti molto incompleti e sconvolti di una donna di circa 25 anni, e t. 25, terragna, con scheletro in connessione di un individuo femminile di età matura. Tralasciando la descrizione di altre poche inumazioni frammentarie in piena terra individuate nelle vicinanze del gruppo delle tombe in muratura, passiamo al rapido esame del secondo, più numeroso nucleo cimiteriale, situato ad ovest a breve distanza, ma ben separato e caratterizzato rispetto al primo. Esso comprende soltanto sepolture terragne del tutto prive di oggetti di corredo o di complemento del vestiario. Le fosse erano distinguibili in pochi casi ed avendo esse raggiunto e tagliato gli strati di crollo e abbandono degli edifici e della strada precedenti, è assai difficile stabilire se il contorno incompleto di elementi lapidei e laterizi, talvolta rilevato, sia stato intenzionale, in funzione di qualche sistemazione della fossa, oppure sia il risultato casuale dell'affioramento degli strati sottostanti, o dell'operazione di scavo della fossa stessa. L'unica sistemazione certamente intenzionale pare essere quella della t. 9, mentre la t. 29, più profonda delle altre, ha consentito di leggere con maggior precisione la forma della fossa, scavata a stretta misura dell'inumato. L'orientamento è analogo a quello delle tombe in muratura, ma con deviazioni anche marcate nelle sepolture periferiche, verosimilmente più recenti, fino all'unico caso della t. 29, quasi disposta in direzione sud-nord. Nell'organizzazione planimetrica si coglie una minore regolarità, ma è pur sempre individuabile una suddivisione interna per piccoli gruppi composti da due a quattro-cinque sepolture in fila, che a loro volta hanno rivelato la disposizione degli individui maschili affiancati al centro e a sud, mentre quelli femminili occupano prevalentemente le posizioni nord delle "file". Anche nel settore delle sepolture terragne si può quindi osservare la tendenza a raggruppare separatamente gli individui maschili e femminili, pur all'interno di piccoli nuclei, verosimilmente famigliari. Questo dato è emerso anche nel cimitero di Centallo, come vedremo, ma potrebbe essere verificato in molti altri casi, come è stato ad esempio sottolineato per Nocera Umbra 159. In conclusione il cimitero della Perosa, indagato in modo completo, comprendeva 36 sepolture, probabilmente appartenenti ad una piccola comunità, in cui si distingueva un nucleo famigliare gentilizio. Le caratteristiche fin qui descritte convergono con i risultati delle analisi antropologiche nel proporre l'ipotesi che si tratti di un gruppo di origine germanica, probabilmente longobarda. Nessuna traccia è emersa, nel corso dell'estesa indagine già effettuata nelle aree circostanti, di un'eventuale cappella oppure di un insediamento coevo al cimitero. A1 di fuori dello sporadico ritrovamento ottocentesco di una fibula ad arco nel vicino territorio di Avigliana, di tipologia franca, ma ritenuta pertinente ad una tomba femminile longobarda 160, il cimitero della Perosa costituisce la prima attestazione archeologica dell'occupazione longobarda
della bassa Val di Susa, di cui non mancano tracce toponomastiche, distribuite tra Rivoli e le Chiuse 161. Ma ritorniamo ad uno dei dati di maggior rilievo emersi da questo scavo: l'interro della strada verificato stratigraficamente, benchè su un tratto limitato, non consente interpretazioni sfumate sulla persistenza del tracciato antico. In questo punto la strada, nella sua realtà fisica, subì un abbandono completo, non si trasformò nemmeno in una pista e alla fine del VII secolo era diventata luogo adatto per un cimitero. Se non è pensabile che la via delle Gallie fosse scomparsa tra V e VII secolo, certo le modificazioni subite appaiono radicali, e probabilmente non soltanto per difetto di manutenzione o crollo di ponti, che pure dovettero causare cambiamenti di tracciato o disgregazione e ramificazione di alcuni tratti 162. I1 vicino sbarramento delle Chiuse, che almeno dalla fine del IV secolo erano state erette a controllo della strada nella strettoia della valle tra Caprie e Chiusa S. Michele 163, non potè che influire in modo determinante sulle sorti dell'arteria viaria. Certamente utilizzate in età gota 164, le chiuse divennero definitivo confine del regno longobardo verso il 575, a seguito dell'occupazione della valle di Susa da parte del re burgondo Gontranno, e da quel momento fino al celebre scontro tra Franchi e Longobardi, avvenuto nel 773 proprio alla chiusa valsusina, è verosimile immaginare che la loro efficacia militare sia stata inversamente proporzionale alla percorribilità della strada. Nell'VIII secolo le fonti attestano infatti da un lato restauri e consolidamenti delle opere di difesa da parte dei re longobardi, ma dall'altro anche le rigide restrizioni da loro imposte al valico della frontiera riservato ai latori di permesso regio, mentre successivamente con il nuovo assetto politico-territoriale determinato dalla conquista franca, la funzione delle chiuse si trasformò da difesa militare di confine a struttura economica per l'esazione dei pedaggi 165. Non stupisce quindi se proprio in età longobarda le evidenze archeologiche della Perosa attestano l'avvenuta interruzione del transito sull'ampia strada carreggiabile romana e la presenza in zona di un insediamento di Longobardi connesso con l'area cimiteriale. L.P.B. La chiesa di S. Gervasio a Certallo Nella pianura cuneese, non lontano dal torrente Grana e sul confine amministrativo fra Centallo e Fossano, si è individuato e indagato archeologicamente un sito di notevole interesse che ha visto il succedersi, nel tempo, di una necropoli di età imperiale, poi di una villa rustica, trasformata in chiesa battesimale nel V secolo, a sua volta modificata e infine completamente ricostruita in età longobarda (Figg. 13-14). Documenti del XV e XVI secolo consentono di identificare l'edificio di culto con la chiesa di S. Gervasio, ancora visibile e "dirupta" nel 1582 166. Avviata a seguito di affioramenti di materiali archeologici durante le arature, l'indagine è stata condotta su circa mq 780, appena sufficienti ad includere il perimetro della villa, ma non certo all'esplorazione esaustiva del sito, che purtroppo per ragioni tecniche e amministrative si è dovuto ripristinare 167. La prima fase di occupazione sembra porsi nel I secolo d.C., indicata dalla presenza di una tomba ad incinerazione. La quota di giacitura di questa deposizione è molto elevata rispetto al piano di imposta delle strutture insediative successive e dà ragione della probabile distruzione di altre analoghe sepolture. Dopo uno iato cronologico, che sarà precisato alla conclusione dello studio d~i materiali, corrispondente all'abbandono dell'area funeraria, si determinò l'impianto di un edificio residenziale organizzato intorno ad un cortile centrale sul quale prospettavano tre ambienti principali ad est e vani minori a nord e sud (Fig. 14, 1).
L'edificio in seguito si ampliò ad ovest con l'addizione progressiva di due ampie porzioni di fabbrica. Il termine della funzione residenziale è segnato da ingenti e diffuse tracce di un incendio che raggiunse temperature tali da deformare un gruppo di vasi interi e in uso. La singolare circostanza ci consente di datare l'evento attraverso l'analisi del contesto ceramico deformato, ritrovato in frammenti all'interno di una unità stratigrafica posteriore alla demolizione di alcuni muri della villa e contemporanea alla costruzione dell'abside della chiesa. Il contesto è caratterizzato da due piatti e una coppetta in terra sigillata chiara D, che indicano una data per l'incendio compresa tra la fine del IV e gli inizi del V secolo 168. Con l'interpretazione di questo edificio come elemento del complesso di una villa dominica al centro di un latifondo, concorda Giovanni Mennella, che ha studiato il vasto repertorio epigrafico rinvenuto in scavo 169. Una serie di bolli laterizi attesta infatti, proprio intorno alla metà del V secolo, la presenza di latifondi in una fascia di territorio lungo il confine tra Liguria e Transpadana, che comprende Centallo. In quest'ottica vanno anche rilette alcune epigrafi funerarie paleocristiane, in contesto rurale isolato, provenienti dalla stessa area, probabilmente riferibili ad una aristocrazia terriera cristiana residente nelle ville dei propri latifondi 170. A Centallo quindi la trasformazione in chiesa, che segue a tempi brevi l'incendio dell'edificio residenziale, in quanto utilizza ancora gran parte delle murature precedenti, può essere attribuita all'intervento di un evergeta, esponente di quel ceto di possessores, che gran peso ebbe nelle comunità cristiane dell'Italia settentrionale tra la fine del IV e gli inizi del V secolo 171. In una data così precoce, probabilmente compresa entro la prima metà del V secolo, è più verosimile infatti ricondurla ad un'iniziativa privata che non missionaria o vescovile. La ristrutturazione in chiesa (Fig. 14, 2) rivela un progetto organico basato su uno schema distributivo degli spazi inscritto nel perimetro della costruzione preesistente. L'aula di culto venne ad occupare l'area del cortile, prolungata a spese dell'ala occidentale, mentre una grande abside semicircolare, del diametro di m 8,70 fu costruita ad est obliterando i tre vani precedenti. Tra gli ambienti annessi lateralmente si evidenzia la creazione, in parte ex novo, di un battistero quadrato a nord. I piani pavimentali in questa fase dovevano trovarsi poco più in basso dell'attuale quota di campagna, fatto che ha determinato la perdita di tutti i piani d'uso dall'età paleocristiana in poi, ad eccezione di un tratto di pavimentazione in cocciopesto con un inserto, a passatoia centrale, di opus sectile bianco e nero conservatosi nella parte mediana della navata, presso l'abside. Il fonte battesimale ha dimensioni ragguardevoli (diametro m 1,70) e forma circolare, abbastanza rara nell'Italia padana. Presenta tracce di modificazioni successive, ma non di riduzioni, come invece si è riscontrato ad esempio a Mergozzo e a Cureggio nel Novarese 172. In sintesi si può osservare che il programma architettonico attuato in età paleocristiana, pur valutato nell'ambito del riutilizzo di strutture precedenti, appare imponente per dimensioni, molteplicità dei vani annessi, qualità dei rivestimenti e caratteristiche del fonte. Fatta salva l'ipotesi di una committenza da parte di un esponente dell'aristocrazia terriera, la presenza del battistero impedisce di relegare questo centro di culto al solo ruolo di oratorio privato al servizio di una villa. È probabile invece che provvedesse anche alla c?vra animarum di una comunità di una certa importanza, servita da un clero stabile, evidentemente delegato dal vescovo per l'amministrazione del battesimo. Per il primo periodo di vita della chiesa non è provata la funzione funeraria, che sembra manifestarsi soltanto nel corso del VI secolo, nel momento in cui già si prospettavano o si erano avviate importanti modificazioni strutturali (Fig. 14, 3). Queste coinvolsero gli ambienti collaterali e in particolare determinarono la precoce soppressione del battistero, ridisegnando gli spazi nell'area a nord-est della chiesa. L'obliterazione del fonte implica che lt~mportante prerogativa, accordata solo alle chiese matrici a capo di ampi distretti rurali, sia stata presto sottratta al S. Gervasio. Ne fu causa probabilmente la creazione di un'altra chiesa battesimale, che viene spontaneo identificare nella pieve di S. Michele, anche se attestata dai documenti solo molto più tardi, nel XIII secolo 173.
Le prime sepolture (Fig. 14, 2), a cassa di tegole o con fondo di laterizi e copertura a doppio spiovente, occupano il vano collaterale sud, il vano antistante il battistero, il battistero stesso prima della sua soppressione e l'area esterna davanti al fronte occidentale. Successivamente compaiono tombe a cassa in muratura, di cui una riutilizza una pregevole stele romana }74. Nelle tombe di questo periodo iniziale, o negli strati relativi, si sono ritrovati alcuni oggetti di corredo o di complemento dell'abbigliamento, tra i quali si ricordano tre fibbie in bronzo di tipo "Aldeno", altre in ferro, vaghi di collana in pasta vitrea, orecchini, bracciali, spilloni, coltelli e pettini 175. Asce barbute compaiono invece curiosamente graffite su un mattone del fondo di una tomba "a cappuccina" 176 (Fig. 15). Nel loro complesso non emergono certamente elementi etnicamente caratterizzanti, tuttavia la loro stessa presenza implica consuetudini funerarie di norma non riscontrate in Piemonte in altri cimiteri coevi annessi a edifici di culto, come si è evidenziato nell'introduzione. La nostra chiesa risulta quindi aver acquisito la funzione funeraria per una comunità ben definita che, probabilmente nel corso del VII secolo, promosse la ricostruzione integrale dell'edificio nelle forme di un organismo basilicale a tre navate separate da pilastri rettangolari (Fig. 14 ,4). Di questa chiesa, caratterizzata da murature realizzate con elementi eterogenei ed eterometrici, si è conservato lo schema planimetrico quasi completo, ad eccezione dell'angolo nord-est, dove rimane ipotetica la terza absidiola. Già nelle murature della ristrutturazione precedente, e ancor di più in questo rifacimento, furono copiosamente impiegati, come materiali edilizi, elementi architettonici, frammenti di are e di epigrafi funerarie di età romana: è il segno del definitivo abbandono di necropoli e luoghi di culto pagani e quindi di un consistente mutamento delle infrastrutture territoriali. Gioca un ruolo importante nella fase basilicale una tomba (t. 12) isolata, situata presso l'abside della navatella settentrionale, accuratamente costruita in muratura e rivestita da uno spesso strato di intonaco scialbato, di forma antropomorfa con alveolo cefalico. La copertura non era conservata, forse a causa della violazione in antico della parte corrispondente al tronco dell'inumato, ma tra gli arti inferiori erano ancora deposti tre attrezzi in ferro comprendenti un martello, uno strumento a punte piegate e un'incudine di interpretazione non del tutto sicura per le proporzioni molto allungate '77 (Fig. 16, 2, 3, 4). Dai pressi della tomba, forse residuo della parte di corredo asportata, proviene una controplacca di cintura in bronzo, a contorno sagomato, decorata a occhi di dado, approssimativamente attribuibile alla seconda metà del VII secolo '78 (Fig. 16,1). Anche se la pertinenza di quest'oggetto non è certa, una verifica cronologica è stata effettuata con la datazione al radiocarbonio calibrata dello scheletro, che ha fornito la data: 545-655. L'eccezionalità del corredo con gli strumenti in ferro, I'alta qualità della tomba, che risulterebbe adottare molto precocemente l'alveolo cefalico 179, la sua posizione privilegiata presso l'ipotetico altare dell'absidiola nord, e infine le caratteristiche antropologiche dell'inumato - un uomo di 45-50 anni - concorrono a identificare questo personaggio come esponente di alto rango nell'ambito della comunità, che può aver rivestito il ruolo di donatore o di magister artefice e promotore della ricostruzione della chiesa. Se l'interpretazione è corretta, nel valore simbolico del dono funebre di questa sepoltura si può cogliere la persistenza di aspetti della ritualità funeraria germanica 180, coniugata tuttavia con una altrettanto evidente fede cristiana, ormai profondamente assimilata anche in una comunità insediata perifericamente rispetto ai maggiori centri di cultura e di potere. Questa doppia valenza caratterizza tutto il cimitero sviluppatosi fra VI e VII secolo, prima e dopo la costruzione dell'impianto basilicale. In corrispondenza della navata centrale della nuova chiesa venne edificato un profondo atrio rettangolare con un ampio varco di ingresso nella parete occidentale. Il lato sud sembra frutto di un rifacimento, ma rivela la stessa partitura esterna in lesene della parete ovest dell'atrio stesso e del muro perimetrale nord della chiesa. All'interno di questo vano si allestì un'area funeraria privilegiata: lo spazio risulta sistematicamente occupato da tombe a cassa in muratura di esecuzione molto accurata, coperte da lastre di pietra di
grande pezzatura, con il reimpiego, nella tomba più recente, situata in asse con gli ingressi, di una stele dell'età del Ferro. I destinatari di questi sepolcri, utilizzati per più inumazioni, sono risultati quasi esclusivamente individui adulti maschili, evidentemente personaggi eminenti in seno alla comunità. Una donna di alto rango fu invece deposta in una tomba di pari qualità esecutiva, ma esterna all'atrio, addossata alla parete nord. La sepoltura, intatta, conservava ancora in situ, 30 cm al di sopra della copertura in mattoni bipedali, l'iscrizione funeraria di Agnella, datata dal Mennella, in base alle caratteristiche epigrafiche, all'inoltrato VI secolo, ma probabilmente da riportare al VII, in base ai dati di scavo 181. Altre due epigrafi coeve sono state ritrovate dislocate sempre nell'area dell'atrio, mentre un quarto sigillo tombale, a grande lastra con l'epitaffio di Rustician~us, fu rinvenuto fortuitamente agli inizi dell'indagine 182. Alla facile attribuzione di queste sepolture ad un nucleo separato di popolazione romana si oppongono i dati fenotipici degli inumati, che le analisi antropologiche hanno verificato omogenei con il resto della popolazione rappresentata nel cimitero altomedievale Mi domando se sia possibile risolvere questa discrepanza ipotizzando una precoce adozione, proprio da parte del gruppo ai vertici della comunità, degli usi funerari, e addirittura dell'onomastica, allora in voga presso l'aristocrazia terriera alla quale probabilmente si sostituì. Che comunque le sepolture dell'atrio riflettano un maggior grado di osmosi culturale con la popolazione locale, anche in quanto più tarde, è suggerito dalla mancanza totale di elementi di corredo e da due datazioni calibrate al C14 con esito 605-685 per la deposizione più recente. Concludendo si può osservare una certa evoluzione tipologica delle strutture delle tombe: dapprima a cassa in laterizi, a "cappuccina", cioè con fondo laterizio e copertura di tegole disposte a doppio spiovente, e poi a cassa in muratura, ma in rapida successione cronologica e certamente con una compresenza di tipi ed un uso reiterato delle strutture stesse, ubicate prevalentemente all'interno dell'edificio, mentre all'esterno predominano le sepolture terragne. La distribuzione degli individui sembra poi rispondere a criteri di aggregazione per sesso piuttosto che per famiglie: gruppi di donne e bambini si alternano ad altri di soli individui maschili, ai quali vengono tendenzialmente riservate posizioni privilegiate, come nel caso dell'atrio. Un aspetto importante, ma che non si è potuto indagare adeguatamente, riguarda l'inserimento della chiesa, nelle sue fasi altomedievali, in un insieme di strutture più ampio, che proseguiva oltre i limiti di scavo e che non si esclude possa aver avuto funzione residenziale. Qualche indizio si è colto ad esempio nel ritrovamento di buche da palo e di un focolare nel settore esterno all'angolo sud-occidentale, mentre tra i reperti ceramici, rari dopo l'impianto della chiesa, compaiono tipi particolari riconosciuti come longobardi, ma diversi dal vasellame noto dalle sepolture l83. Infine è indispensabile un breve accenno alla presenza di una seconda fase cimiteriale, molto distanziata nel tempo, che comprende una serie di inumazioni ad orientamento divergente rispetto alle precedenti, in piena terra e in casse lignee chiodate (due casi), datate da una fibbia di cintura, da rari materiali tardo-medievali e da un'analisi al C14 che ha fornito la data: 1235-1430. L'interruzione e la successiva ripresa della funzione funeraria del S.Gervasio potrebbero essersi verificate in relazione al periodo di più rigoroso esercizio dello ius funeris da parte della chiesa plebana 184. L.P.B. EGLE MICHELETTO, LUISELLA PEJRANI BARICCO
1 La Carta archeologica del Piemonte, di cui è prevista la pubblicazione per i tipi dell'Editrice Panini di Modena, è curata dalla Soprintendenza Archeologica, in accordo con la Regione Piemonte. La schedatura dei materiali e dei siti altomedievali è stata realizzata da P Demeglio e C. Morra. 2 Ringraziamo per la collaborazione i colleghi della Soprintendenza Archeologica, in particolare Alberto Crosetto, Giulia Molli Boffa, Gabriella Pantò, Maria Teresa Sardo ed Emanuela Zanda. Alla consueta e preziosa disponibilità di Susanna Salines si deve il corredo grafico di questo contributo. 3 Cfr. BIERBRAUER 1991, pp. 44 ss. Anche se sostanziali perplessità sono state espresse sul reale ausilio fornito dalla toponomastica: aree “caratterizzate da una toponomastica di forte impronta germanica” possono mancare infatti di necropoli attribuibili a tale popolamento (SETTIA 1994, p. 68). 4 Il discorso sul significato dei corredi funebri in età longobarda, in relazione alla possibilità della loro utilizzazione come indicatori etnici e sociali o come indizi archeologici si è talmente dilatato da rendere ardua e forse superflua una ulteriore puntualizzazione teorica. La via d'uscita più costruttiva sembra quella che passa attraverso l'analisi attenta delle singole realtà territoriali, poi confrontate con modelli su scala più ampia. Sul problema, con una posizione di sostanziale pessimismo sulla validità del contributo delle stesse discipline archeologica e antropologica per la corretta interpretazione storica del periodo, cfr. SETTIA 1994, con bibliografia precedente. 5 MALLEGNI et al. in stampa. 6 Cfr. SCHMIEDT 1974, pp.503-607 e, con particolare riferimento al Piemonte LA ROCCA 1992 e LA ROCCA 1994; FILIPPI-ZANDA in stampa. Se queste città romane denotano segni di inequivocabile decadimento dal II secolo, in tutte permangono tracce archeologiche di occupazione sino almeno al V secolo. Ad esempio nel caso di Pollenzo, il dato archeologico è limitato per ora al risultati di una trincea per servizi che, troppo limitata per considerarsi risolutiva nei confronti delle diverse ipotesi sull'abbandono (sintetizzate in LA ROCCA 1992, pp. 114-115 e nota 40), ha evidenziato comunque fasi di vita sino al V secolo seguite dalla distruzlone delle murature, con la sovrapposizione di un livello carbonioso forse riferibile ad un incendio (FILIPPI 1991, p. 149). Che un nucleo di abitanti vi risiedesse e ne sia fuggito agli inizi del V secolo, in concomitanza con i noti avvenimenti culminati nello scontro tra Stilicone e Alarico nel 402, potrebbe essere comprovato dalla citazione da parte dell'Anonimo Ravennate, insieme a Pollenzo, del toponimo "Pollentinum", posto "iuxta fines Alpium", fra "Ororiatis" e "Albis" (SERRA 1957, pp. 23-23). Tale considerazione è stata recentemente ripresa (SETTIA 1995, pp. 243-266), all'interno di più generali considerazioni sulla nascita di "coppie toponimiche" nel popolamento rurale, dove lo sdoppiamento spesso origina da “spostamenti dl popolazione avvenuti a causa degli sconvolgimenti causati dalle immigrazioni germaniche e dal degrado dell'ambiente naturale non più controllato dall'uomo”. Analoga ipotesi è prospettata dall'A. per lo spostamento degli abitanti di Augusta Bagiennorum nell'odierna Benevagienna, che a sua volta vedrà un trasferimento di popolazione a Beinette (Baienne Superius). Anche l' abitato di Forum Germa (l'attuale frazione S. Lorenzo di Caraglio) presenta una rinnovata vitalità nel IV secolo, con successive trasformazioni tra V e VI sec., che riutilizzano, con modalità costruttive diverse, le strutture più antiche, nelle quali si inseriscono anche nuclei sepolcrali (MOL;IBOFFA1980; EAD.1989; MICHELETTO 1995). 7 Cfr. GAMBARI 1995. 8 LA ROCCA 1992, p. 117. 9 GAMBARI 1995, pp. 46 ss. 10 NEGRO PONZI MANCIM 1980; EAD. 1982; EAD. 1983. 11 Le ricerche sono state dirette da G. Spagnolo, con la collaborazione di I . Pejrani per la campagna 1995 a 8izzano. 12 SANNAZARO 199O. 13 NEGRO PONZI 1983. 14 ZANDA in stampa. Neile circa 30 nuove tombe indagate, solo in un caso era presente una fibbia di cintura in ferro ad anello semplice, ovale. 15 CANTINO WATAGHIN 1994a, p. 147. 16 SETTIA 99 la. 17 PEJRANI BARICCO 1984b; EAD. 1990b. 18 CANTINO WATAGH[N 1994a, pp. 146-147. 19 ZANDA 1993, pp. 210-213; EAD. 1994, pp. 266-267. In corso Repubblica si è messa in luce una necropoli di età romana (I sec. d.C.) con continuità sino oltre il V sec. Nel cimitero di via Emilia la continuità, indiziata dall'abbondante materiale epigrafico (PROFUMO-MENNELLA 1982; MENNELLA 1990), non è accertata archeologicamente. Nell'area retrostante i monumenti funerari di età augustea si provvide, tra il I ed il III sec., a colmare con riporti di terreno l'originaria pendenza. Dopo la metà del III sec. il sito venne quindi progressivamente occupato da inumazioni, che proseguirono senza soluzione di continuità per tutto l'altomedioevo. 20 Un importante nucleo sepolcrale, con continuità sino almeno al V secolo, è stato indagato nei primi anni'80 nell'area di S. Cassiano (FILIPPI 1982). 21 A Vercelli l'unica attestazione certa di continuità riguarda la necropoli sorta nel I sec. Iungo la strada verso la valle del Sesia, nella quale si edificò poi la chiesa dedicata ad Eusebio (PANTò-MENNELLA 1994). 22 Ad es. a Verolengo (To), dove si è indagato un piccolo cimitero di 26 tombe tardoromane\altomedievali alla cappuccina (LUCCHINO in stampa). Nell'attuale centro storico di Alba, in un settore immediatamente esterno alla cinta urbana di età romana (via Mazzini), si è recentemente messa in luce una piccola necropoli, con due diverse fasi nettamente separate dall'impianto di strutture abitative. Quella più antica, della prima età imperiale è documentata da tombe a cremazione; quella più tarda da undici inumazioni con tipologie diverse, ma prevalentemente "alla cappuccina", che i
materiali ceramici, in particolare un piatto di sigillata africana C3 decorato a rilievo, consentono di datare a partire dalla seconda metà del IV secolo. ll momento dell'abbandono rimane cronologicamente indeterminato tra tarda antichità e altomedioevo (FILlPPI 1995). Cfr. anche i nuclei cimiteriali di impianto tardoromano urbani e suburbani a Vercelli (PANTÒ-MENNELLA 1994) e nel biellese (PANTÒ 1990-91). 23 PANTÒ 1993, pp. 110 ss. 24 ZANDA 1988, p. 98. 25 SETTIA 1983, pp. 173 ss. 26 SARDO ZANDA 1995; SARDO ZANDA 1996. 27 ARSLAN in stampa. 28 PANTÒ 1996, pp. 112-114. 29 MICHELETTO 1992a. Due pozzetti circolari di 30 cm circa di diametro paiono attribuibili a bassi fuochi per la riduzione del minerale di ferro in metallo, mentre chiazze di concotto costituiscono le sedi di alloggiamento delle tuyères dei mantici. Tale modesto apprestamento era quindi costituito da una struttura minima realizzata con la semplice escavazione di una piccola buca emisferica, entro la quale si ponevano il carbone di legna ed il minerale. 30 Cfr. MICHELETTO 1992b. È da rimarcare come dal territorio di S. Stefano, nelle vicinanze dell'abbazia benedettina di S. Gaudenzio venga segnalata una delle rare sepolture femminili di età longobarda (VON HESSEN 1974, p. 506, n. 32, che si rifà ad una segnalazione di RODOLFO 1910, p. 14, nota 12, priva di dettagli, ma a sua volta ripresa da FERRERO 1897, pp. 273-274, nota 2) il corredo era composto da orecchini in oro, due grandi fibule, insieme ad altre di più piccoie dimensioni ed una crocetta aurea. I materiali, non conservati, erano stati trattenuti dall'allora proprietario della chiesa. 31 BRECCIAROLI TABORELLI 1995. 32 BRECCIAROLI TABORELLI 1995, con bibliografia aggiornata, cui si potrebbe aggiungere il caso delle Marche (PROFUMO 1995, p. 129). 33 Basti citare per tutti BIERBRAUER 1974 e da ultimo BIERBRAUER 1994. 34 MICHELETTO et al. 1995, n. 2, pp. 154-155. 35 CASSIODORI Varine, I, 17. 36 FINOCCHI 1982, pp. 336-339; ZANDA 1991, pp. 91-92. 37 CROSETTO 1986. Si tratta di una raccolta di materiale romano e altomedievale dall'eredità di Negri Carpani, confluita al Museo di Alessandria a fine '800. I reperti provengono in gran parte da un'area immediatamente a nord di Tortona, dove si localizza una delle grandi necropoli lungo la Postumia, forse in connessione con la chiesa di S. Simone. Per i materiali goti cfr. BiERsRAuER 1974 con bibliografia precedente. 33 SERGI 1985, P. 9 3Y GASPARRI 1978, P. 59; cfr. anche SERGI 1985, P. 10, nota 21. PAULI DIACONI Historia Langobardorum, IV, 3, P. 145; Origo gentis Langobardorum, p. 5. 40 GASPARRI 1978, P. 31. 41 SERGI 1988. 42 LUSUARDI SIENA 1989, PP. 195-198. 43 ANDENNA 1982, PP. 623-624. 44 L'intervento è stato diretto da L. Pejrani, con la collaborazione di E. Perencin. 45 PANTÒ 1996, PP. 109-112. 46 FRIGERIO-PISONI 1988; SANNAZARO 1990, PP. 39-43. 47 PEJRANI BARICCO 1990a; PICARD 1988, pp. 306-308, 329-330. 48 PANTÒ 1996, pp. 114-116. 49 CROSETTO 1995, pp. 323-324; PANTÒ 1996, pp. 117-118. 50 CROSETTO in stampa. 51 Lambert in questo volume. 52 ORSI 1887, pp. 365-366; MENGHIN 1977, p. 28, n. 24 . 53 CORBELLINI ms., sec. XVII (copia di un manoscritto autografo), Archivio Storico del Comune di Vercelli, L2 c. 13, FERRERO 1609, p. 127. Le vicende relative al ritrovamento, con l'attribuzione della tomba “a un membro dell'aristocrazia longobarda della prima metà del VII sec.” sono in PANTÒ-MENNELLA 1994, pp. 351-352 e nota 44. 54 Cfr. da ultimo FILIPPI-PEJRANI-LEVAT1 1995. 55 si deve segnalare invece un interessante contesto di materiale ceramico da un ampio scavo antistante la porta Decumana, inglobata in Palazzo Madama, sul tracciato stradale verso il Po. In livelli del VI-VII sec. si sono recuperati alcuni frammenti ceramici in argilla grigio scura “affine a quella della ceramica longobarda” (PANTÒ 1996, p. 96 e fig. 4) ed altri con superficie a parziale stralucido. 56 VON HESSEN 1974, p. 502, n. 17. 57 VON HESSEN 1974, p. 498, n. 1. 58 RIZZO 1910; VON HESSEN 1974, p. 499, n. 2 . 59 LA ROCCA 1986, in particolare pp.58 ss. Sulla necropoli: CALANDRA 1883, VON HESSEN 1971; NEGRO PONZT 1980; PEIRANI BARICCO 1980. 60 L'ipotesi formulata da Von Hessen a proposito di una eventuale fase tardoromana e poi gota della necropoli di Testona (VON HESSEN 1971, pp. 47-49), è stata confutata sia dalla Negro Ponzi che dalla La Rocca (NEGRO PONZI 1980, pp. 4-5; LA ROCCA 1986, pp. 51-53).
61 Sulle caratteristiche dell'insediamento riflesso nella necropoli si sono formulate le più diverse ipotesi, a partire da quella di “stazione di un corpo armato di Longobardi”, proposta dallo scopritore (CALANDRA 1883, p. 38), alla più cauta possibilità di scetta tra cimitero di villaggio o postazione militare con eventuale presenza anche di Romani, avanzata dal von Hessen (VON HESSEN 1971, pp. 47-49). Nel recensire la pubblicazione della necropoli, il Settia si pronunciò a favore di un uso dell'area funeraria riservato alle genti longobarde appartenenti a un “normale stanziamento fisso che ospitava pure un robusto presidio militare” (SETTIA 1972, p. 620). Diversa è la ricostruzione proposta dalla La Rocca, che vede in Testona un cimitero "ufficiale", utilizzato da più villaggi circonvicini, in cui i Longobardi si sarebbero semplicemente sovrapposti all'organizzazione insediativa romana (LA ROCCA-HUDSON 1987, p. 30, cfr. anche LA ROCCA 1986, pp. 64-73). La Negro Ponzi, dopo una iniziale attribuzione della necropoli “all'insediamento di un nucleo germanico ristretto e forse all'origine neppure specificamente longobardo con forte assimilazione di una popolazione romanza (locale?) legata in parte ad usi funerari locali (tombe in laterizi romani), ma assorbita nel quadro rigidamente tradizionale di un cimitero a file germanico” (NEGRO PONZI 1980, p. 10), è tornata sull'argomento con nuove riflessioni, ma ribadendo che “il carattere isolato e compatto delle necropoli di Testona e Carignano e la loro formazione nel tardo VI-VII secolo suggeriscono per entrambi i casi l'appartenenza a gruppi specifici, organizzati in nuovi abitati distinti da quelli della precedente occupazione tardo-romana” (NEGRO PONZI 1988, pp. 71-72. In quest'ultimo studio l'Autrice esamina in particolare il fenomeno della rideposizione di oggetti romani, provenienti dallo spoglio di corredi funerari molto più antichi, riscontrabile a Testona ed in altri casi piemontesi del tardo VI-VII secolo, secondo una consuetudine relativamente comune in ambiente merovingio, più rara nell'Italia centro-meridionale (NEGRO PONZI 1988, P. 77 e passim). LO scarto cronologico e la particolare nrovenienza deali oggetti romani rideposti a Testona ridimensiona ulteriormente l'argomento della presenza di elementi di corredo attribuibili alla popolazione autoctona, addotto a favore di una composizione mista della comunità e del relativo insediamento. 62 Sull'origine romana del tratto stradale nell'area di Moncalieri-Testona cfr. LA ROCCA 1986, pp. 43-44. Il ruolo del ponte sul Po presso Testona, dove passava uno dei più importanti percorsi della strada di Francia tra Asti e Torino, è ben noto per la piena età medievale (SERGI 1981, pp. 43-44 e passim), ma non si può escludere che questo tracciato si fosse già affermato precedentemente, sfruttando favorevoli condizioni di attraversamento del fiume. 63 DELOGU 1980, pp. 19-22. 64 La base cartografica è stata ricavata dalla Tabula Imperii Romani, con variazioni sulla base della lettura di CORRADI 1968 e della bibliografia specifica più recente. Per brevi sintesi di aggiornamento si rimanda alle schede di ZANDA et al. 1991. 65 In uno studio recente (VERCELLA BAGLIONE 1993a, pp. 14-21) si affronta la documentazione storica ed archeologica relativa alle vicende di questo tratto di strada, che dopo interventi di accurata manutenzione nel IV secolo, testimoniati dai miliari, declinò già dal secolo successivo per una serie di concause storiche e ambientali, connesse con mutamenti idrografici e gravi alluvioni, attestate dalle fonti tra V e VI secolo. 66 SETTIA 1991b, pp. 222 ss.; SCHMIEDT 1974, pp. 536-539; VERCELLA BAGLIONE 1993a. 67 A Trino si susseguono, sul sito di un primitivo impianto del I-II sec. d.C., numerose fasi edilizie a carattere residenziale, con variazioni tipologiche e funzionali, tra il V-VI secolo ed il IX-X, quando la stratigrafia archeologica registra una distruzione radicale. Già a partire dal VII-VIII secolo compare un cimitero con sepolture prive di corredo, forse associato ad un edificio di culto, meglio documentato nelle ricostruzioni dei secoli IX-X e successivi. Almeno dall'età romanica una cinta fortificata racchiudeva sia il nucleo residenziale, sia il complesso chiesa-cimitero (NEGRO PONZI MANCINI et al. 1991, con bibliografia precedente). 68 VON HESSEN 1974, p. 504, n. 24. 69 VON HESSEN 1974, pp. 503-504 nn. 21-22; BRECCIAROLI TABORELLI 1982; VERCELLA BAGLIONE 1993b; GERBORE et al. 1993. 70 VON HESSEN 1974, p. 503, n. 20. 71 Dalla pubblicazione postuma degli appunti dell'Ispettore onorario Domenico Torasso si sono acquisite maggiori informazioni sulle caratteristiche del cimitero, tra le quali si segnala la presenza di cavalli sacrificati, deposti accanto ai cavalieri, e di finimenti, morsi e staffe tra gli oggetti di corredo (BERATTTNO 1981; FERRERO 1893, p. 259). 72 SETTTA 1991b, p. 194. 73 CROSETTO 1994, p. 74. 74 CARBONELLI 1897; VON HESSEN 1974, p. 505, n. 30; POSSENTI 1994, p. 99, n. 104, Tav. XXXVIII, 4. Datazione: pieno VII secolo. 75 VON HESSEN 1974, p. 505, n. 31. I materiali raccolti nelle tombe scoperte nel 1880 comprendevano “n. 42 pezzi cioè: 1 vaso-armi-fibie ecc. rinvenute nel territorio di Moncalvo e donate dal Sig. cav. Avv. Giovanni Minoglio”, secondo quanto riportato dal Verbale di consegna delle collezioni preistorica ed etnologica del 1895 da parte del Musco Civico al Museo di Antichità di Torino. Almeno alcune armi si sono ora potute identificare attraverso il vecchio cartellino con la sigla del Museo Civico, ma la maggior parte dei reperti è verosimilmente andata confusa tra i materiali simili, compresi quelli di Testona. 76 Sul colle di S. Germano, presso la cappella di S. Michele, è segnalato nel 1944 il ritrovamento di armi in una tomba scavata nel tufo (Archivio Soprintendenza Archeologica) una sepoltura analoga, contenente anche monete ed una armilla in bronzo era stata messa in luce nel 1905 in fraz. Moleto, presso la cascina Magrina (Ibidem).
77 DEMEGLIO 1994, pp. 271-272. Si tratta di un puntale bronzeo di cintura a becco d'anatra (VII secolo). Non proviene da una tomba, ma è probabilmente da riferire all'utilizzo del cimitero, che si impianta in età tardoromana e, almeno dall'altomedioevo, pare connesso alla chiesa di S. Giovanni. 78 DONZELLI 1989. 79 Il ritrovamento fortuito del cimitero ha parzialmente sconvolto la tomba, dalla quale si sono tardivamente recuperati soltanto gli oggetti citati. Nel rapporto di scavo edito si riporta la notizia, fornita da testimoni presenti alla scoperta, che i fitamenti d'oro fossero disposti intorno ai polsi del defunto (DONZELLI 1989, pp. 116-118). Non si conosce invece il sesso dell'adulto della t. 1, in quanto le analisi antropologiche sono state limitate a due soli altri individui. In attesa di possibili ulteriori approfondimenti della ricerca, pare comunque importante aggiungere questo ritrovamento piemontese al catalogo delle tombe altomedievali italiane contenenti fili aurei, generalmente riferiti alla decorazione della parte superiore degli abiti maschili e al velo delle acconciature femminili (AHUMA DA SILVA 1990, pp. 62-66) L'elenco comprende in prevalenza tombe longobarde di personaggi probabilmente appartenenti ad una ristretta cerchia nobiliare. Cfr. anche ROFFIA-SESINO 1986, P. 39. 80 DONZELLI 1989, p. 116, figg. 18-19; ARSLAN in stampa. 81 DONZELLI 1989, p. 7. 82 Ad es. per la notissima lastra tombale del presbitero Gudiris cfr. LUSUARDI SIENA 1989. Più in generale cfr. SETTIA 1983, pp. 233-234; RUGO 1980; COCCOLUTO 1983. 83 Come indizierebbe, tra gli altri elementi, la serie di fondazioni monastiche ricondotte dalla tradizione erudita ad un diretto impulso regio, tra il VII e la prima metà dell'VIII secolo: l'abbazia di S. Dalmazzo a Pedona, i cenobi dei SS. Pietro e Colombano a Pagno e quelli di S. Costanzo al Villare e sul monte S. Bernardo sono stati considerati come punti di controllo strategico in area di confine (CASARTELLI NOVELLI 1974, pp. 32 ss., CANTINO WATAGHIN 1989 NEGRO PONZI MANCINI 1981, p. 47). 84 Dalla frazione S. Lorenzo proviene una fibula in bronzo a forma di croce sormontata da una colomba, con decorazione a occhi di dado, recentemente consegnata da privati al Museo civico di Cuneo, confrontabile con un reperto analogo da Belmonte (v. oltre, Fig. 10,1). L'oggetto è qui incluso in quanto probabile elemento di corredo femminile e ben databile anche se non specificatamente riconducibile all'ambito longobardo. 85 Nel corso di uno scavo di emergenza nel centro storico (via Mazzini), si è rinvenuta una placchetta trapezoidale in bronzo di guarnizione di cintura di tipo "longobardo" (VII sec.). 86 MICHELETTO 1994, p. 127. In concomitanza con opere di scavo per il risanamento del chiostro dell'ex-convento di S. Francesco, attuale sede del Museo civico, si è ritrovata una placca di fibbia bronzea di tipo "longobardo" (VII sec.). 87 Nel 1978 venne messa in luce, nel corso di lavori agricoli in regione tetto Garellicascina S. Vittorio di Scarnafigi, una tomba a cassa laterizia e copertura a lastre di Dietra orientata ovest-est; al suo interno vi erano due inumati. Il corredo era composto da due scramasax, un coltello, una fibbia di cintura ed una linguetta a becco d'anatra in bronzo, una borchia con testa dorata per il fissaggio dell'umbone ailo scado ed un frammento vitreo. Del ritrovamento, sostanzialmente inedito, è stata data notizia, tra gli altri, daNEGRo PONZT MANCINI 1981, p. 62, nota 290. 88 Cfr. nota 30. Per Baldissero: VON HESSEN 1974, p.506, n.33. Per Cherasco: COCCOLUTO 1988, pp. 139 ss. Troppo incerta per consentirne l'inserimento nella nostra carta, è parsa la descrizione del Bartoli (PROMIS 1878, p. 296; già ripresa in MICHELETTO 1984, p. 69) del rinvenimento a Cavallermaggiore di un ricco corredo comprendente un coltello con fodero un "elmo", un morso di cavallo. 89 Si vedano a questo proposito le osservazioni di MENNELLA 1993, che ipotizza, sulla base di materiale epigrafico databile tra V e VII secolo (cfr. elenco alle pp. 212-213, ibidem), l'esistenza di un latifondo nell'area compresa tra i territori di Pollentia, Augusta Bagiennorum e Forum Vibii Caburrum. 90 RODOLFO 1910; ID. 1942; VON HESSEN 1974, p. 501, nn. 10-11- LEBOLE DI GANGI 1988. 91 RODOLFO 1910; ID., 1942, p. 174 e pp. 178 ss. La cappella di S. Remigio era posta nell'area compresa tra l'odierno viale della Rimembranza, via Monte Nero e via S. Remigio forse in corrispondenza dell'edificio attuale, costruito nel XVII secolo. A breve distanza, ii Rodolfo posiziona il ritrovarnento, in tempi diversi, di un nucleo sepolcrale ad incinerazione e di tombe ad inumazione con cassa in ciottoli e pezzame laterizio di reimpieco, queste ultime assolutamente prive di corredo (anni 1934-35, Archivio Soprintendenza Archeologica, lettera di G. Rodolfo, 29\05\1941). Nella stessa nota del '41 egli ricorda la scoperta, risalente al 1925, “davanti alla cappella di S. Remigio” delle cinque tombe di età longobarda, che pubblicherà dandone però una generica collocazione verso W, oltre la necropoli romana (RODOLFO 1941, ma ediz. 1942, p. 180). Soltanto la t. 1 aveva spada e sperone; fa t. 2 lancia, sax lungo e cintura; la t. 3 sax e sperone, la t. 4 solo il sax. Taii materiali, conservati solo in parte, sono attualmente depositati presso il Museo di AntichiKà di Torino, dove, ultimato i restauro, ne è in corso il riscontro e lo studio. 92 LUSUARDI SIENA 1992; EAD. in questo volume. 93 Per Moncalvo cfr. nota 75; per Borgovercelli 1987. 94 Diploma di Enrico III del maggio 1047 (RODOLFO 1942, p.178). 95 Il tema, rimasto a lungo in secondo piano, è stato recentemente ripreso soprattutto per l'area lombarda ma non mancano i riscontri in regioni diverse del regno, come nel caso di Castel Trosino o deila necropoli della Selvicciola, oggerto di specifici studi in questa sede. Per la Lombardia si vedano LUSUARDI SIENA 1989, pp.201 ss.; EAD. 1992 ed il contriburo dell'Autrice in questo volume; DE MARCHI 1995. 96 CARDUCCI 1950, p. 196, fig. 11.
97 GARERI CANIATI 1986, p. 233. La cronologia della tomba e gli stessi materiali de corredo presentano aspetti problematici, ancora in attesa di verifica. 98 v. nota 77. 99 VENTURINO 1988, p.438 e nota 152. 100 Grandi casse in muratura, spesso coperte da pesanti lastre di pietra ricorrono nelle sepolture isolate di personaggi eminenti dotati di ricchi corredi: Borgo d'Ale (Vc), Alice Castello (Vc), Carignano-Valdoch (To), Torino-Lingotto e via Nizza, Beinasco (To). 101VON HESSEN 1974. 102 Per i risultati delle prime campagne di scavo, di cui queste annotazioni costituiscono una sintesi, cfr. MICHELETTO et al. 1995. 103 L'individuazione del sito e le prime raccolte di superficie si devono a L. Mano, del Museo Civico di Cuneo. 104 NALLINO 1789, p. 65; CASALIS 1846, XIV, p. 427; SCHEL 1878, p. 19; SOLERI 1909. 105 ll Libro Verde della chiesa d'Asti, p. 204, doc. 315 (Bolla di Eugenio III del 16 maggio 1153). Cfr. anche le osservazioni di COMBA 1983, pp. 57-58, note 120 e 122. 106 MOROZZO DELLA ROCCA 1894 (Atto di vendita del 15 marzo 1243). 107 Cfr. ad es. ARSLAN 1975-76 . 108 MOTELLA DE CARLO 1996. 109 Cfr. i contributi di A. Guglielmetti e L. Vaschetti in MICHELETTO et ai. 1 99S, PP. 110 La larghezza notevole della struttura ne consentiva un ottimo ancoraggio alla roccia colmandone le irregolarità. 111 Cfr. da ultimo PAROLI 1994, p. 13. In ambito piemontese l elenco comincia a farsi consistente: oltre a S. Stefano Belbo (Cn) ed alla grotta della Ciota Ciara in Valsesia, si segnalano il sito di Misobolo (CIMA 1986a) ed il castrum di Belmonte. 112 DECAENS 1971. 113 BONA 1990, pp. 20 ss.; pp. 32 ss. 114 PAROLI 1994, pp. 13-14. 115 Solo per questo piccolo lotto di materiali potrebbe ripetersi la modalità di ritrovamento segnalata per Villa Clelia (BARUZZI 1978), che fece supporre la loro originaria collocazione in una cassa o in un involto, forse intenzionalmente occultato al momento dell'abbandono del sito. Cfr. anche la scheda di Belmonte infra. 116 Cfr. elenco in PARENTI 1994, pp. 483 ss. Per rimanere al Piemonte sono noti, oltre al nostro, gli esemplari di Testona, Borgovercelli, Belmonte, Cherasco. 117 Oltre all'esemplare di Monte Barro (DE MARCHI 1991, tav. LXI, 1) e quelli della t. 119 di Castel Trosino (PAROLT 1994, p.58, IV, 12 in ferro) possono aggiungersi i tre speroni da altrettante tombe di Carignano, regione Valdoch (RODOLFO 1942, fig. 50). 118 CLEMENTE 1968. 119 Cfr. MOTLO 1986. 120 DURANDT 1774, pp. 156-158; ma contra CARRATA THOMES 1953, p. 24 e nota 4. 121 L'epigrafe, rinvenuta nel 1853 sul colle Mortè fu trasportata a Margarita, dove se ne persero le tracce (FERRUA 1948, n. 90). Per gli altri ritrovamenti cfr. CONTT 1980, p. 50 e FEA 1986, pp. 124-125. 123 LAMBOGLIA 1933, p. 113. 124 CIMA 1986b. 124 Per una breve scheda riassuntiva cir.: PANTÒ-PEJRANI BARICCO 1992 con bibliografia precedente. 125 La stessa Mollo (MOLLO 1986, p. 354, nota 86) ammette l'incertezza dell'identificazione delle chiuse sul Pesio, insieme a quelle di Pontebernardo nell'alta Val Varaita, lasciando la responsabilità dell'affermazione al Durandi (v. nota 120). 126 BROGIOLO 1994a, p. 106. Brogiolo inserisce in questa categoria edifici sia di ambito urbano (via Alberto Mario a Brescia), sia rurale (Monte Barro, Sermide, Ponte Lambro) in cui ricorre la tecnica di rinforzare le murature con pali eretti su basi in pietra o in laterizio. I casi piemontesi ad oggi noti, pur significativi, offrono tuttavia confronti meno stringenti, ad esempio le strutture lignee verificate a Brignano sorreggevano tramezzi, soppalchi interni o tettoie addossate alla muratura, ma non partecipavano alla statica dell'intera costruzione (PANTÒ 1993, pp. 123-125). 127 Su Peveragno v. scheda precedente; si possono inoltre ricordare le case, più propriamente rupestri, di S. Martino di Lecco, datate da ceramica longobarda al VI secolo, e dell'Isola Comacina, sebbene l'incasso nella roccia a Belmonte sia di ben minore entità (BROGIOLO 1994a, p. 112; BRAMBILLA-BROGIOLO 1994). 128 Per quest'ipotesi di lettura cfr. CANTINO WATAGHIN 1994b, p.97, tuttavia non fondata sulla documentazlone dl scavo. 129 Nell'ampia rassegna di esempi proposta da Bierbraner a confronto delle case di Invillino del periodo III, datate fra la metà del IV e metà del V secolo, si evidenzia come la tipologia delle case in pietra rettangolari, sia a vano unico, sia ripartite in due o tre vani, sia diffusa tra fine IV e VI secolo in ambiente alpino e nelle aree circostanti, soprattutto tra le costruzioni interne degli insediamenti (BIERBRAUER 1987, pp. 312-327). In area lombarda il caso più noto è quello di Monte Barro, dove sono recentemente emerse numerose case rettangolari, articolate perlopiù in tre vani e distribuite a gruppi sui terrazzi del versante (BROGIOLO 1994b, pp. 218 -221).
130 L'Autore è Mario Zambelli, membro del gruppo archeologico "Ad Quintum" ed attivo collaboratore della Soprintendenza durante le ricerche a Belmonte tra il 1968 e il 1975 che consegnò la relazione, poco prima della sua scomparsa, al collega Luigi Fozzati, dal quale mi è stata gentilmente trasmessa. 131 PANTò-PEJRANI BARICCO 1992. 132 PANTÒ 1996, pp. 101-107. 133 PANTÒ 1996, pp. 106- 107. 134 SCAFILE 1971; EAD. 1972, PEIRANI BARICCO 1990C. 135 Gli appunti di M. Zambelli consentono ora di precisare meglio le modalità di ritrovamento degli oggetti editi da F. Scafile (cfr. nota precedente). 136 Su questi oggetti l'elenco di Zambelli concorda con quello edito da F. Scafile (SCAFILE 1971), che vi include inoltre altri oggetti (compasso, doppi ganci e un "arco a sesto rialzato" di incerta interpretazione) probabilmente provenienti invece dai vani del nucleo A. 137 PARENTI 1994, PP. 482-487 con bibliografia precedente. 138 A favore di una eventuale interpretazione di questo gruppo di attrezzi come prodotti artigianali m attesa di essere commercializzati, potrebbe pesare l'osservazione che al momento del ritrovamento “tutti questi oggetti, in buono stato di conservazione, ad una accurata ispezione risultavano tutti nuovi, senza alcuna traccia di usura”, secondo le annotazioni di Zambelli. 139 SCAFILE 1972; CARDUCCI 1975-1976, PP. 95-96. 140 Ne diede la prima notizia: SCAFILE 1972, P. 28. 141 CATARSI DALL’AGLIO 1993. 142 FORNI 1996, PP. 38-39 attribuisce questo vomere ad “epoca probabilmente tardomedievale”. 143 FORNI 1996 con bibliografica precedente. 144 Pohanka ritiene che la forma di questo attrezzo risalga ai vomeri usati nel Nord Europa dalla tarda età del Bronzo, conservatasi in isolate regioni centroeuropee fino all'età imperiale romana connessa con aratri documentati, ad esempio, da un modellino proveniente da Colonia (POHANKA 1986, pp 36-38). In Italia non mi risultano invece attestati archeologicamente vomeri simili fino all'alto medioevo con gli esempi appunto di Belmonte e Carignano (PEJRANI BARICCO 1990c, pp. 344-345) 145 SCAFILE 1970; VON HESSEN 1974, p. 502, n 18. 146 SCAFIM E 1 972. 147 SCAFILE 1978, per l'inquadramento tipologico di questa fibula, già citata a confronto dell'esemplare da S. Lorenzo di Caraglio (v. testo relativo nota 85), cfr. PAROLT 1994, Catalogo, pp. 7]-72 con bibliografia precedente. 148 ASSANDRIA 1926. 149 Per la presenza di sepolture con corredi di guerrieri longobardi nei pressi o all'interno dei castra cfr. DE MARCHI 1995, PP. 34-35; BROGIOLO 1994C, P. 155. 150 CASARTELLI NOVELLI 1974, PP. 57-61. 151 FROLA 1911, doc. 11, a. 1197, PP. 79-80. 152 Il cantiere è diretto scientificamente da Luisa Brecciaroli Taborelli con la collaborazione di chi scrive. Per il breve inquadramento delle fasi di età romana si rimanda alle notizie preliminari edite: BRECCIAROLI TABORELLI 1991; EAD. 1993. 153 Il Casalis riporta la notizia che nel 1823 oltre al miliario, sul quale si leggeva la cifra X, furono ritrovate tracce della strada; successivamente, nel 1840, sempre in un prato della regione Perosa, si rinvennero resti di edifici di età romana ed “alcuni pezzi di marmo, di porfido e di metalli lavorati” (CASALTS 1847, pp. 401-402). 154 Le analisi sono in corso da parte di E. Bedini, F. Bartoli, L. Paglialunga, F. Severini e A. Vitiello della Cooperativa Etnoantropolgica e Paletnologica "Anthropos" di Pisa ed attualmente si attendono soltanto più i risultati delle datazioni al C14 di alcuni individui scelti a campione dei due gruppi, le notizie che si anticiperanno in questo testo sono tratte dalle schedature e dalle relazioni già consegnate alla Soprintendenza. 155 Forma e dimensioni di questa fibbia trovano confronto ad esempio in analoghe guarnizioni da Testona (VON HESSEN 1971, nn. 478-483) e in un paio di fibbie proveniente dalla tomba 205 di Castel Trosino, datata al secondo quarto del VII secolo (cfr. scheda di M. RICCI in PAROLI 1995, PP.259-261). La fibbia in esame conserva, a differenza dei confronti citati, una laminetta di fissaggio al cuoio ripiegata e inserita nel passante, chiusa da due ribattini. 156 Cfr. ad esempio le borchie da Testona edite da VON HESSEN 1971: n. 153, per la testa circolare appiattita e nn. 148, 1SS e 156 per affinità nella decorazione. 157 Cfr. MEPUCCO VACCARO 1978, in particolare tipo e, p. 21 SS. 158 Per uno di essi è stata calcolata una statura di cm 174,7, la più elevata tra i valori staturali ricostruibili sul totale degli individui, mentre per entrambi sono stati rilevati valori di dolicocrania. 159 Si fa riferimento alla relazione di C. Rupp presentata in questo Convegno. 160 VON HESSEN 1974, P. 502, n. 16. 161 CROSETTO et al. 1981, PP. 375-376. 162 Per la storia della strada di Francia nel Medioevo cfr. SERGI 1981, in particolare per gli aspetti materiali pp. 33-36 e MANNONI 1995. 163 MOLLO 1986. 164 MOLLO 1986, pp. 339 ss.; SETTIA 1993, pp. 110-112.
165 MOLLO 1986, pp. 342-343 166 Nel 1411 viene redatto un documento in fine Foxani, videlicet prope ecclesiam sancti Gervaxil m contrata Burdieti, con il quale il vicario del comune di Fossano ordina la demolizione della torre costruita da Antonio Bolleris, signore di Centallo. I beni fondiari dei Bolleris erano localizzati nel territorio posto ai confini di Fossano che includeva la località Mellea, toponimo che ancora oggi designa l'area del sito archeologico in esame (COMBA 1983 p. 156; doc. 4, pp. 226-227). Nell'Archivio Comunale di Fossano si conserva una copia settecentesca di un documento del 1582 in cui l'“ecclesia dirupta Sancti Gervasij” è citata più volte come rifer~mento topografico. 167 Le campagne di scavo si sono svolte dal 1979 al 1993 sotto la direzione di Giulia Molli Boffa, con ia collaborazione di chi scrive dal 1989. Notizie preliminari sono apparse nei “Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte”, 1 (1982)-11 (1993), mentre è ancora m corso dl redazlone il rapporto di scavo conclusivo. Ringrazio la collega per avermi concesso di anticipare parte dei risultati della ricerca comune. 168 Il contesto di cui si tratta, in corso di studio da parte di Aurora Cagnana, comprende un piatto tipo Lamboglia 51, un altro piatto tipo Hayes 60, una coppetta tipo Lamboglia 35 - Hayes 44, olle in ceramica comune e una bottiglia invetriata. 169 MENNELLA 1993. 170 MENNELLA 1993, in particolare pp. 220-222. 171 Sul complesso e dibattuto problema del ruolo dei proprietari terrieri nell'evangeIizzazione delle campagne si rimanda ad esempio a SANNAZARO 1990, pp.20-34 con bibliografia precedente. 172 PEJRANI BARICCO 1984b; EAD. 1990b; EAD. 1986. 173 La pieve di Centallo è ricordata per la prima volta in due atti del 1265, secondo Casiraghi la dedica a S. Michele, unica tra le pievi della diocesi torinese, potrebbe risalire all’età longobarda (CASTRAGHI 1979 pp. 59 e 135). 174 Lo studio di questa stele è di prossima pubblicazione da parte di Liliana Mercando. 175 Per alcuni di questi oggetti è già stata data notizia: MOLLI BOFFIA 1982. Tre dei quattro orecchini in argento rinvenuti sono stati pubblicati da POSSENTI 1994, pp. 60-61, nn. 7-8; pp. 101-102, n. 113.1 due più conservati Inn. 7 e 8) sono stati attribuiti al gruppo degli orecchini con cestello a calice floreale (sottotipo la) e datati tra l'ultimo terzo del VI e il primo terzo del VII secolo; il terzo esemplare, molto frammentario (n. 113), è databile tra fine VI e metà VII secolo. Tutti gli orecchini provengono dall'area del vano antistante il battistero e, benchè in giacitura secondaria, paiono da riferire alle tombe della fase 3. Per quanto riguarda le fibbie in bronzo di tipo "Aldeno", ritrovate nelle tombe 71 e 25 (in situ), la datazione generalmente proposta per la tipologia cui appartengono è la seconda metà del VII secolo (VON HESSEN 1971, pp. 31-32), con possibilità di qualche anticipazione (DE MARCHI 1988, PP 59-60). 176 v. nota 137. 177 L'interpretazione di questo oggetto come incudine si basa sulla diversa conservazione delle superfici, che presenta un netto stacco tra la punta, verosimilmente infissa in un ceppo di legno, di cui si sono conservate tracce aderenti al metallo, e la parte superiore, più ossidata. La forma richiama quella dell'incudine in ferro dell'orefice di Grupignano (inv. n. 561-BRozzT 1972), benchè questa di Centallo risulti 3 cm più lunga e con una superficie di battuta invece più ridotta (cm 3X3,5 contro 4,SX4,5), mentre pare sensibilmente diversa 1'incudine in bronzo di Peveragno (v. sopra). Ancora più problematico risulta, al momento, identificare la funzione dell'attrezzo a punte ripiegate, con originaria immanicatura centrale in legno. In linea generale le dimensioni di questo arnese e del martello non sembrano adatte a lavorazioni minute dei metalli, rendendo quindi improbabile la specifica attribuzione degli strumenti ad un orefice. 178 Questa controplacca trova confronto ad esempio con le guarnizioni di una cintura delle collezioni Stibbert di Firenze (VON HESSEN 1983, pp. 26-27, tav. 13) datate alla seconda metà del VII secolo. 179 Questa caratteristica, molto rara nelle tombe altomedievali, compare tuttavia già nel VI secolo, ad esempio nel sarcofago del vescovo Agnello di Aosta (PERINETTI 1981, pp. 5253) e ne è segnalata la presenza, a partire dalla fine del VII-VIII secolo, anche in area francese (DURAND 1988, PP. 163-164). Nella nostra regione i dati archeologici indicano una vasta diffusione dell'alveolo soltanto più tardi, e in particolare in età romanica. 180 Per le sepolture di fabbri-orefici e, più in generale, per la presenza di strumenti artigianali nel corredo funebre cfr. bibliografia citata da PAROLI 1994, pp. 13-15. 181 MENNELLA-COCCOLUTO 1995, n. 11, PP. 33-34. 182 MENNELLA COCCOLUTO 1995, n. 15, PP. 42-43; n. 17, PP. 45-46; n. 18, P. 47. 183 PANTÒ 1996, PP. 120-123. 184 SETTIA 1991a, pp. 11 ss.
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Paleobiologia del gruppo umano altomedievale della chiesa cimiteriale di Centallo (Cuneo)
La collaborazione già da diversi anni avviata con la Soprintendenza Archeologica del Piemonte ci ha consentito l'esame di numerose serie scheletriche piemontesi cronologicamente comprese tra la tarda classicità e l'epoca rinascimentale. È risultata particolarmente interessante l'analisi del gruppo umano della chiesa cimiteriale in località Madonna dei Prati a Centallo (Cuneo). Ricordiamo brevemente che questa presenta due distinte fasi di utilizzazione (cfr. il contributo di Micheletto e Pejrani in questo stesso volume), la prima della quali, di età altomedievale (VI-VII secolo), ha restituito un cospicuo numero di sepolture; la seconda, databile al XIII-XIV secolo, ha invece fornito un campione antropologico di entità assai più limitata. La pubblicazione congiunta dello scavo e dei risultati delle analisi antropologiche è in via di completamento, ed in questa sede saranno brevemente riassunti i risultati derivati dall'analisi delle sepolture altomedievali. L'analisi dei resti scheletrici si è articolata, oltre che nel classico studio antropologico basato sul rilievo e la descrizione dei caratteri metrici, morfometrici e morfologici del cranio e dello scheletro postcraniale necessari per la ricostruzione della fenotipia del gruppo, nel rilievo delle stigmate delle patologie e degli indicatori scheletrici e dentari di stress. La valutazione di questi parametri, l'analisi dei resti infantili, la discussione della distribuzione della mortalità e l'esecuzione delle analisi paleonutrizionali permettono di presentare organicamente, forse per la prima volta in Italia, il quadro delle condizioni di vita e del cosiddetto “stato di salute” di un gruppo umano altomedievale. La letteratura antropologica italiana relativa a questo periodo storico presenta infatti soltanto poche sintesi relative a gruppi assai numerosi interamente indagati 1. La maggior parte degli studi riguarda infatti reperti rinvenuti in singole tombe 2, in piccole aree sepolcrali 3, in sepolture selezionate casualmente dagli archeologi in grandi aree cimiteriali 4 e nelle analisi di pochi crani rimasti conservati da scavi ottocenteschi di grandi necropoli 5. Questi materiali, oltre ad essere pochissimo o per niente significativi per la ricostruzione dell'aspetto fisico e delle condizioni di vita delle popolazioni altomedievali italiane, in quanto relativi a poco più che singoli individui, nella maggior parte dei casi consistono in studi morfologici che si esauriscono in minuziose classificazioni antropotassonomiche in "tipi umani" la cui validità attualmente sembra piuttosto discutibile. Talvolta si osserva inoltre un certo distacco delle analisi antropologiche dal contesto archeologico, che si riflette nella pubblicazione su riviste specialistiche antropologiche con brevi, imprecise o poco esaurienti notizie archeologiche; clamoroso è infine il caso dell'area cimiteriale di Pettinara (Nocera Umbra), per la quale l'analisi degli oggetti di corredo (VON HESSEN 1978) e l esame dei resti scheletrici (SORCETTI et al. 1978), presentati in uno stesso volume, hanno tratto conclusioni opposte, e sembrano essere state condotte in modo del tutto indipendente tra loro, senza nessuno scambio di idee tra specialisti diversi (cfr. anche BLAKE 1983, P. 176 e GINATEMPO 1988, nota 1). I resti scheletrici relativi alla fase di utilizzazione altomedievale della chiesa cimiteriale di Centallo appartengono complessivamente a 162 individui 6, dei quali 114 adulti di età superiore a 20 anni (66 maschi, 31 femmine e 17 soggetti di sesso non determinabile), un subadulto tra 15 e 18 anni, 47 bambini ed adolescenti inferiori a 15 anni. Su un totale di 162 individui si nota in primo luogo la maggiore rappresentazione degli "adulti" (71,4°/0) rispetto ai "non adulti" (28,ó°/0), che tuttavia non sono scarsi. Questo dato, che evidenzia la discreta importanza dei decessi infantili all'interno del gruppo, appare di notevole interesse, tenendo presente che la mortalità dei bambini, a Centallo come nella maggior parte delle serie scheletriche 7, è senz'altro stimata per difetto, soprattutto nel caso di quelli più piccoli: è infatti verosimile ritenere che i bambini morti in età perinatale fossero sepolti in contesti diversi dall'interno della chiesa cimiteriale e dalle sue adiacenze 8. La mortalità infantile si distribuisce in tutte le fasce di età (Grafico 1),
ma registra due punte massime, la prima nel corso del primo anno di vita (11 decessi, dei quali 5 in età neonatale), la seconda tra 4 e 6 anni (1(} decessi); sembra diminuire, pur mantenendosi ancora sensibile, tra 6 ed 8 anni, ed ulteriormente nelle classi di età comprese tra 8 e 15 anni. Le cause responsabili dell'incidenza e della ripartizione della mortalità infantile sembrano essere state, nel gruppo di Centallo, le stesse che caratterizzavano tutti gli strati sociali delle popolazioni antiche, direttamente o indirettamente determinate dalle loro precarie condizioni igieniche, sanitarie ed alimentari. I decessi in età neonatale, mal valutabili nelle serie scheletriche del passato, erano collegati ai vari stress conseguenti al momento della nascita ed al primo periodo della vita, mentre quelli avvenuti intorno ai 2-3 e forse 4 anni potevano essere conseguenza dello svezzamento. Questo, nelle antiche popolazioni, era molto tardivo, e comportava il brusco passaggio da un'alimentazione costituita dal latte materno ad una del tutto analoga a quella degli adulti, che poteva determinare malattie intestinali e problemi di assorbimento talvolta fatali. Con la cessazione dell'allattamento veniva inoltre a mancare l'immunità verso le malattie infettive-trasmessa dal latte materno, e ciò aumentava le possibilità di esposizione agli agenti patogeni e contribuiva a rendere molto problematico il passaggio alla seconda infanzia 9. Nella mortalità dei bambini di età maggiore e degli adolescenti si potrebbe invece vedere la conseguenza di un inserimento abbastanza precoce nelle attività degli adulti, con tutti i problemi e gli stress che poteva comportare; per il sesso femminile probabilmente anche l'inizio, nell'adolescenza, del periodo fertile e quindi il verificarsi delle prime gravidanze, che comportavano rischi e stress notevoli, soprattutto in soggetti ancora in accrescimento e con alimentazione forse non adeguata. Le considerazioni riguardo la mortalità degli adulti risultano influenzate dalla notevole sovrarappresentazione dei soggetti maschili (in tutto 66) rispetto a quelli femminili (soltanto 31). Questa sex ratio, non realistica all'interno di una qualsiasi popolazione naturale, porta a ritenere che la chiesa cimiteriale di Centallo non abbia raccolto gli inumati di una completa comunità rurale, ma un particolare gruppo di persone, che le caratteristiche strutturali delle loro sepolture e la stessa deposizione in una chiesa "privata" sembrano connotare come privilegiato. È noto, d'altra parte, che in età altomedievale all'interno delle chiese erano sepolti soltanto i personaggi appartenenti al clero ed i laici di alto rango sociale o ritenuti particolarmente "degni" di essere deposti in un luogo "privilegiato", e che una parte più o meno cospicua delle popolazioni delle aree rurali si disperdeva in tombe, singole o organizzate in piccoli gruppi, sparse sul territorio (BLAKE 1983, PP. 188-189). È stato ritenuto opportuno elaborare la life table (Tab. 1), secondo le metodologie riportate da UBELAKER 1978, pur tenendo presenti sia le critiche ben documentate cui è stata sottoposta soprattutto da autori francesi (cfr. BOCQUET-MASSET 1977; MASSET-PARZYSZ 1985; MASSET 1 897) che le ineliminabili limitazioni delle analisi paleodemografiche '°. Dall'esame della Tab. 1 e del Grafico 2 si osserva che le fasce di età che presentano la maggiore mortalità, a sessi uniti, sono quelle dei 20-25 anni (11 decessi), e, in assoluto, quella tra 35 e 40 anni, con 15. Si nota un modello di mortalità leggermente diverso nei due sessi (Grafico"3): mentre tra 20 e 35 anni la ripartizione dei decessi appare analoga per i maschi e per le femmine, nella classe dei 35-40 anni si osserva una leggera prevalenza di quelli femminili, mentre in quella dei 40-45 anni il rapporto si inverte. Nelle successive classi sorprende invece la completa sottorappresentazione degli individui femminili, soltanto 4 in confronto a 18 maschi. Nella notevole mortalità adalto-giovanile si potrebbe vedere la conseguenza di condizioni di vita che comportavano per entrambi i sessi rischi considerevoli, collegati, per le donne, al susseguirsi di gravidanze e di parti, e, per gli uomini, allo svolgimento di attività pericolose o pesanti. La precocità dei decessi femminili in età pienamente adulta (35-40 anni) rispetto a quelli maschili, può essere spiegata ipotizzando che le donne arrivassero a questa età debilitate dalle ripetute gravidanze e dai parti; soltanto pochi soggetti riuscivano quindi ad oltrepassare l'età matura ed a raggiungere quella senile. I maschi sembrano invece aver goduto di una maggiore longevità che consentiva ad un buon numero di soggetti di raggiungere l'età matura o senile, anche se, probabilmente, ciò avveniva soltanto per
quei soggetti che appartenevano ad un gruppo sociale selezionato ed erano sepolti nelle tombe "privilegiate" all'interno della chiesa di Centallo e nelle sue immediate vicinanze. Passando ad analizzare i principali parametri demografici si osserva (Grafico 4a) che il 90% circa dei nati arriva ad un anno di vita; poco meno di 1/4 raggiunge gli 8 anni, il 60% circa supera i 20, mentre il dimezzamento del gruppo avviene a circa 25 anni; il 30% supera i 40 anni e soltanto 1/5 dei nati oltrepassa i 45. La speranza di vita (Grafico 4b) è molto bassa in rapporto ai parametri attuali dei paesi occidentali, essendo pari a circa 25 anni alla nascita; il suo valore assoluto diminuisce regolarmente, escludendo una piccola oscillazione in età infantile, nelle fasce successive, anche se consente, almeno teoricamente, il raggiungimento di età sempre più avanzate: 41 anni e mezzo per un individuo di 25, 47 per uno di 40, 49 per uno di 45. Per il gruppo inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo si evidenzia quindi una breve durata della vita, che non meraviglia anche nel caso di individui di status sociale ed economico elevato, date le precarie condizioni di vita che caratterizzavano tutti gli strati delle popolazioni altomedievali europee, dovute soprattutto al loro basso livello igienico e sanitario. Pur essendo stati rinvenuti i resti di 114 individui adulti, l'incompletezza ed il precario stato di conservazione di molte entità scheletriche hanno impedito in molti casi il rilievo dei caratteri metrici, morfometrici e morfologici del cranio e dello scheletro postcraniale ''. In particolare, nonostante la lunga e paziente opera di reintegrazione dei resti cranici, soltanto 33 calvari sono risultati effettivamente analizzabili. A livello cranico il gruppo si caratterizza nel sesso maschile per le forme prevalentemente lunghe e strette, mediamente alte in norma laterale e posteriore, con fronte media o stretta nei suoi diametri e con creste poco o mediamente divergenti, mentre i crani femminili si collocano soprattutto nelle classi dei valori medi (mediamente lunghi, larghi ed alti in norma laterale, ma generalmente bassi in norma posteriore), con fronte larga nel diametro minimo, media o stretta in quello massimo, e con creste poco divergenti; nei due sessi la capacità cranica è generalmente elevata. I valori dell'indice cranico orizzontale sono decisamente orientati verso la dolicocrania in entrambi i sessi (Grafici Sa e Sb); è presente una percentuale non trascurabile di mesocrani mentre la brachicrania si rileva in un solo individuo di sesso maschile. La regione occipitale, osservata lateralmente, presenta una notevole gamma di morfologie, anche se prevalgono quelle aggettanti che di solito si associano alle forme allungate del cranio. I caratteri morfologici, quali la sporgenza della protuberanza occipitale esterna e l'aggetto della glabella, legati al dimorfismo sessuale, non presentano sensibili differenze nei due sessi: la prima è generalmente poco rilevata, anche se nei maschi si ha qualche caso di sviluppo molto accentuato che non si osserva in nessuna femmina; la glabella è molto pronunciata nella maggior parte dei soggetti maschili, ma assai sporgente anche in alcuni femminili. Questo può interpretarsi come legato ad un basso dimorfismo sessuale a livello cranico ed a una certa rudezza dei tratti morfologici anche nel sesso femminile. I valori dell'altezza facciale totale, degli indici facciale totale e superiore non mostrano nessuna distribuzione preferenziale e sono troppo pochi per apprezzare differenze tra i due sessi. Le orbite sono alte o di media altezza, di forma generalmente subrettangolare e sormontate da rilievi sopraciliari quasi sempre reniformi, più aggettanti nel sesso maschile; il naso è di media altezza e larghezza nei maschi, basso e largo nelle femmine; il dorso denota generalmente ponte alto e sinuoso. Il mento è quasi sempre alto e squadrato nei maschi, più basso ed arrotondato nelle femmine. L'analisi dei crani più completi sottolinea quasi sempre, in entrambi i sessi, armonia cranio - facciale, con associazione tra cranio lungo e stretto e faccia alta, anche se talvolta si rileva una certa disarmonia (cranio lungo e stretto associato a faccia stretta e molto bassa, con orbite alte e naso alto e stretto). Il rilievo dei caratteri metrici e morfometrici delle ossa degli arti evidenzia scheletro postcraniale particolarmente robusto, soprattutto nei soggetti maschili, nei quali gli indici di robustezza dei diversi elementi scheletrici assumono prevalentemente valori uguali o maggiori a quelli medi delle
popolazioni europee attuali; più gracile nel sesso femminile; le sezioni diafisarie sono in prevalenza rotondeggianti nei due sessi. È stato possibile calcolare il valore della statura, secondo TROTTER-GLESER 1958 e 1977, per 36 soggetti maschili e 14 femminili (Grafici 6a e 6b). Le stature maschili sono comprese tra circa 160 e 191 cm, ed in maggioranza (11 individui) sono comprese nell'intervallo 170-175 cm, che corrisponde a valori considerati alti nella valutazione di MARTIN-SALLER 1957, p. 324; seguono per importanza l'intervallo 165-170 cm (10 individui) e quello 175-180 cm (8 individui). È da notare che su un totale di 36 soggetti analizzabili, ben 23 presentano valori staturali che superano i 170 cm. Le stature femminili variano da circa 153 ad oltre 173 cm. La maggior parte dei valori (relativi a 7 individui) cade nell'intervallo compreso tra 155 e 160 cm, ed è quindi valutabile come superiore alla media per questo sesso. Si tratta quindi, particolarmente per il sesso maschile, di stature eccezionalmente alte, soprattutto nei valori più elevati, che non trovano riscontro in nessuna altra serie scheletrica altomedievale italiana, e che, uniti alla prevalente dolicocrania ed ai lineamenti morfologici marcati e piuttosto rudi nei due sessi, caratterizzano questo gruppo umano e sembrano inquadrarlo in una fenotipia riconducibile ad una popolazione alloctona, forse di origine germanica. Questa conclusione appare particolarmente significativa, dal momento che il rinvenimento, nel corso dello scavo archeologico, di alcuni elementi di corredo o di ornamento di tipo "longobardo" suggeriva la possibilità che nella chiesa fossero stati sepolti individui appartenenti ad un gruppo alloctono, forse riconducibile a popolazioni di tipo longobardo. Si imponeva, a questo punto, di stabilire la posizione ed il significato degli individui di Centallo nel quadro dei gruppi umani altomedievali dell'Italia centro - settentrionale. Avendo a disposizione una serie scheletrica di discreta entità numerica è stato ritenuto scientificamente corretto evitare di fornire impressioni soggettive e di cadere nel cosiddetto riconoscimento dei "tipi razziali" che spesso caratterizza l'analisi di necropoli longobarde italiane, ma proporre un confronto di tipo statistico. Sorgeva quindi il problema di reperire, nella non ampia bibliografia antropologica relativa all'Italia altomedievale, i gruppi umani sufficientemente numerosi da consentire un'analisi attendibile e statisticamente valida. L'applicazione di un metodo statistico imponeva, in primo luogo, la selezione di gruppi sufficientemente numerosi, e, a questo scopo, sono stati scartati quelli composti da meno di 3 individui e le sepolture singole. Successivamente sono stati eliminati quei gruppi la cui bibliografia non riportava i dati metrici individuali o almeno i fondamentali parametri statistici. Le serie di confronto sono stati ridotte in questo modo ad otto: Testona (KISZELY-SCAGLIONI 1969); Rivoli La Perosa (Cooperativa "Anthropos", dati inediti); Acqui Terme, località Corso Roma (Cooperativa "Anthropos", dati inediti); Battistero di Chieri (PAGLIALUNGA-VITIELLO 1994); Duomo di Trento (CORRAIN-CAPITANIO 1969), S. Stefano in Pertica (CORRAIN-CAPITANIO 1990), Romans d Isonzo (BARTOLI et al. 1989; Cooperativa "Anthropos", dati inediti) e Castel Trosino (KISZELY 1971). Esse, anche se rigidamente selezionati, risultano ancora poco significative in quanto numericamente esigue e talvolta riferibili a situazioni archeologiche particolari. I resti scheletrici di Testona, come noto, consistono in 31 crani, dei quali soltanto 14 hanno permesso il rilievo dei dati metrici, recuperati da un totale di 360 tombe rinvenute in scavi ottocenteschi (KISZELY-SCAGLIONI 1969, pp. 247-250). L'area cimiteriale di Rivoli La Perosa (PEJRANI, com. pers.), completamente indagata, ha messo in luce 34 sepolture di adulti, delle quali soltanto 10 presentavano il cranio sufficientemente completo (nessuno però conservava lo scheletro facciale) e 9 hanno consentito il calcolo dei valori staturali. La necropoli di Acqui Terme località Corso Roma (CROSETTO, com. pers.), ha restituito le sepolture di 33 individui; dei 29 adulti identificati (19 maschili e 10 femminili), soltanto per 11 maschi e 2 femmine è stato possibile il rilievo dei caratteri metrici cranici. I valori staturali sono invece stati stabiliti per 15 maschi e 9 femmine.
Nell'area sepolcrale del Battistero di Chieri, databile tra il V-VI secolo e l'età preromanica, interessata una prima volta da scavi condotti da personale non specializzato e solo successivamente da attività eseguita sotto il controllo della Soprintendenza (PANTÒ1994), sono stati sepolti 48 individui (PAGLIALUNGA VITIELLO 1994), dei quali 42 adulti (25 maschili, 12 femminili e 5 di sesso non determinabile). Solo 6 crani maschili e 3 femminili sono risultati completi, mentre le stature sono state ricavate solo per 23 individui (15 maschili e 8 femminili). I resti "paleocristiani" del Duomo di Trento sono riferibili ad un gruppo di IV secolo, prelongobardo (CORRAIN-CAPITANTO 1979, pp. 98-99), che ha permesso l'analisi di 10 crani; riguardo ai valori staturali gli Autori non riportano i dati individuali, ma soltanto le medie calcolate sul numero totale di ossa maschili e femminili. Della necropoli di S. Stefano "in Pertica" a Cividale del Friuli, vasta ma non completamente indagata (LOPREATO 1990) sono stati sottoposti a studio antropologico i resti contenuti in 26 tombe (CORRAIN-CAPITANIO 1990); i crani complessivamente analizzabili sono 16; i valori staturali sono stati ricavati per 10 maschi ma soltanto per 2 femmine. Romans d'Isonzo costituisce una vasta necropoli, composta da oltre 150 sepolture (MASELLI SCOTTI 1989), delle quali finora è stato possibile indagarne antropologicamente soltanto una ventina (BARTOLI et al. 1989). Castel Trosino, infine, presenta le stesse limitazioni di Testona: anche in questo caso, infatti, sono conservati soltanto 19 crani recuperati dalle 268 tombe portate in luce da scavi ottocenteschi (KISZELY 1971, pp. 115-121). Il confronto, eseguito a sessi separati, si basa sull'esame dei caratteri metrici del cranio, elemento scheletrico più significativo per rilevare somiglianze o differenze tra gruppi diversi. Il metodo statistico utilizzato è quello del "t di Student", (THOMA 1985, pp. 101-103) che a ciascun valore relativo ad ognuno dei 10 caratteri metrici cranici non correlati tra loro 12 associa un valore di probabilità che esprime se i due gruppi confrontati presentano, per quel carattere, differenza altamente significativa, mediamente significativa o non significativa; in quest'ultimo caso la probabilità che, per quel carattere, i due gruppi posti a confronto appartengano allo stesso universo è effettivamente reale. È però necessario sottolineare che si tratta quasi sempre, soprattutto per il sesso femminile, di confronti tra piccoli gruppi e che l'incompletezza del materiale scheletrico relativo a ciascun sito ha consentito di confrontare soltanto in pochissimi casi tutti i 10 caratteri metrici, rendendo più problematica la lettura dei risultati ottenuti. Le serie scheletriche di Acqui Terme e del Battistero di Chieri hanno infine permesso il confronto dei soli soggetti maschili, essendo i campioni femminili troppo limitati e non utilizzabili in analisi statistiche. Una volta definite, con questo metodo, le affinità a livello cranico, sono stati presi in esame i valori dell'indice cranico orizzontale e, quando possibile, quelli staturali. I risultati dell'applicazione del "t di Student" sono mostrati nella Tab. 2. Riguardo al sesso maschile, i gruppi che sembrano presentare maggiore affinità antropologica, a livello cranico, con quello di Centallo, sono Castel Trosino, Testona e Chieri, che presentano entrambi 5 differenze non significative; Acqui Terme, S. Vigilio, Cividale e Romans - per il quale è però confrontabile un minor numero di caratteri - ne mostrano 3. Meno indagabile è il grado di affinità con il gruppo di La Perosa, essendo confrontabili soltanto 4 caratteri, dei quali 2 presentano differenze non significative. Per il sesso femminile il maggior numero di differenze non significative si realizza nel confronto con Testona, nel quale se ne osservano 3; Castel Trosino e S. Vigilio ne mostrano entrambi 2. Più difficile da stimare è il grado di affinità con Romans, Cividale e La Perosa: rispetto a Romans si osserva infatti una differenza non significativa; Cividale e La Perosa consentono invece il confronto solo di 3 e 2 caratteri, che mostrano tutti differenze non significative rispetto a Centallo. In conclusione, a sessi uniti, il gruppo di S. Vigilio di Trento, riferibile ad una popolazione di IV secolo, sembra il meno affine in assoluto a quello di Centallo, presentando soltanto 5 differenze non significative su un totale di 18 caratteri confrontabili, essendo orientato prevalentemente sulla
mesocrania e mostrando valori staturali nettamente inferiori, pari in media a circa 169 cm per i maschi ed a 154,5 cm per le femmine i3. Non completamente indagabile, data l'impossibilità del confronto tra i soggetti femminili, appare l'affinità con i gruppi di Acqui Terme e del Battistero di Chieri, anche se i campioni maschi sembrano mostrare, soprattutto nel secondo sito, un discreto grado di affinità con quello di Centallo. I valori staturali maschili, nonostante la presenza, sia ad Acqui che a Chieri, di alcuni soggetti molto alti, rimangono in media inferiori a quelli di Centallo; quelli femminili, invece, r~sultano med~amente minori ad Acqui e superiori a Chieri. Gli individui di Cividale sembrano abbastanza distanti da quelli di Centallo: tra i caratteri metrici cranici 6 su 10 mostrano differenze non significative, ma i valori dell'indice cranico orizzontale attestano, accanto ai prevalenti soggetti dolicocranici, altri meso - e brachicranici; i valori staturali sembrano inoltre nettamente più bassi per entrambi i sessi (tra i maschi, soltanto 2 individui su 10 superano i 170 cm di statura). Discretamente affini sembrano i gruppi di Testona e di Castel Trosino, che mostrano rispettivamente 8 e 7 differenze non significative su 19 caratteri complessivamente confrontabili. L'impossibilità di valutare i valori stàturali di questi due siti impedisce però di evidenziare ulteriori affinità o differenze. Una buona somiglianza sembra registrarsi anche con Romans d'Isonzo e con Rivoli La Perosa, soprattutto riguardo ai valori staturali; il fatto che a livello cranico siano confrontabili soltanto pochi caratteri (11 a Romans, dei quali 4 presentano differenze non significative rispetto a Centallo, e 6 a La Perosa, con 4 differenze non significative) non consente però una buona valutazione dell'affinità tra i gruppi. Le stature risultano, in entrambi i sessi, mediamente minori ]4 a La Perosa rispetto a Centallo, e mediamente analoghe a Romans is; riguardo al sesso maschile i valori più elevati non raggiungono però quelli massimi di Centallo. Antropologicamente, quindi, gli individui di Centallo sembrano appartenere ad un gruppo, piuttosto omogeneo, che presenta buone affinità con quelli delle necropoli dell'Italia centro-settentrionale definite come "longobarde", dai quali tuttavia si distacca per la decisa dolicocrania in entrambi i sessi e per le stature maschili straordinariamente elevate, presentando quindi caratteri "nordici" particolarmente evidenti. Sarebbe stato significativo, per confermare ulteriormente queste conclusioni, almeno limitatamente ai principali caratteri metrici cranici, procedere al confronto, utilizzando lo stesso metodo statistico, tra gli individui di Centallo e quelli delle necropoli altomedievali dell'Europa centro-orientale, riferibili a popolazioni germaniche e longobarde, analizzate da Kiszely. Sfortunatamente il lavoro di sintesi eseguito da questo Autore, riporta, per ogni carattere metrico relativo agli individui di ciascuna necropoli, soltanto i valori minimi, massimi e medi, rendendo impossibile qualsiasi analisi statistica. Viene così a mancare, almeno per il momento, la possibilità di una verifica che sarebbe stata di fondamentale importanza per confermare o meno le conclusioni precedentemente formulate. La precisa caratterizzazione fenotipica contraddistingue, infine, il gruppo altomedievale, definibile quindi come longobardo, di Centallo rispetto a quelli, più tardi, del Piemonte medievale. Sia gli individui appartenenti alla seconda fase di utilizzazione, di XIII-XIV secolo, della stessa chiesa cimiteriale (Cooperativa "Anthropos", dati inediti), che quelli delle cospicue serie scheletriche del Priorato di S. Pietro a Cavallermaggiore (RONCO 1990a e b) e dell'Abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese (Cooperativa "Anthropos", dati inediti) presentano infatti indice cranico orizzontale orientato prevalentemente verso la brachicrania; i valori staturali a Centallo rimangono particolarmente elevati (evidentemente in seguito a diretta continuità genetica con il gruppo altomedievale) - addirittura aumentando in media per entrambi i sessi - mentre negli altri due siti, raggiungono in media i 170 cm per i maschi ed i 157 per le femmine. Il tentativo di valutazione del cosiddetto "stato di salute" del gruppo inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo, prendendo in considerazione l'incidenza degli indicatori scheletrici e dentari di stress (Tab. 3), può essere soltanto parziale, data l'incompletezza della maggior parte delle entità scheletriche e la conseguente impossibilità di una esatta valutazione della loro frequenza. I bambini e gli adolescenti sembrano essere stati sottoposti soltanto a stress di origine nutrizionale o carenziale, rimasti documentati dall'ipoplasia dello smalto 16, dai cribra orbitalia 17 e dalla carie
dentaria 18. La frequenza piuttosto elevata dei relativi indicatori, soprattutto dei cribra orbitalia, che sembrano colpire oltre la metà dei bambini, la stessa incidenza e distribuzione della mortalità infantile e la frequenza dell'ipoplasia negli individui adulti, sottolineano le condizioni sfavorevoli nelle quali vivevano i soggetti immaturi, esposti a patologie di varia origine e soggetti a deficit nutrizionali o a stati anemici da carenza di ferro. Con l'età adulta veniva a determinarsi anche una notevole esposizione ai traumi, ai processi infettivi, attestati dagli esiti di periostite 19, ed alle patologie da usura, quali le manifestazioni osteoartrosiche 20 e le alterazioni entesopatìche 21. L'incidenza di questi indicatori scheletrici di stress sembra significativamente diversa nei due sessi. I soggetti maschili sembrano essere stati più sottoposti a stress funzionali, conseguenti ai traumi ed alle patologie "da usura". Mentre i primi possono essere stati causati dallo svolgimento di particolari attività fisiche non esenti da rischi, la maggiore incidenza dei fenomeni osteoartrosici sembra essere soltanto causata dalla maggiore longevità dei maschi rispetto alle femmine: questi, rappresentando infatti normali degenerazioni legate al processo di invecchiamento, colpivano in minor misura le donne, i cui decessi erano assai più precoci di quelli maschili. La periostite, che sembra interessare assai più i maschi rispetto alle femmine, nei quali colpisce prevalentemente le ossa degli arti inferiori, potrebbe essere stata causata da traumi che non arrivavano ad interessare il tessuto osseo o da abitudini esclusive del sesso maschile, come, ad esempio, l'eccessivo uso del cavallo (ALCIATI et al. 1987, p. 140). Il fatto che le patologie dentarie appaiano, al contrario, costantemente più gravi nel sesso femminile sembra di particolare rilievo, soprattutto tenendo conto la minore longevità delle donne rispetto agli uomini e l'insorgenza più precoce della carie dentaria. Responsabili dell'incidenza di questa patologia potrebbero essere stati le ripetute gravidanze 22 ed i lunghi periodi di allattamento cui nelle antiche popolazioni le donne erano soggette fino dall'adolescenza. L'incidenza delle patologie e degli indicatori di stress, nel gruppo umano inumato nella chiesa cimiteriale di Centallo, notevole sia nei bambini che negli adulti e forse stimata per difetto, non deve essere considerata come contrastante con lo status sociale elevato che le caratteristiche strutturali delle sepolture e lo stesso uso di una chiesa sepolcrale "privata" fanno presupporre. Nelle antiche popolazioni, e soprattutto in età altomedievale, le condizioni igieniche e sanitarie potevano infatti essere assai precarie anche per gli strati sociali più elevati; la mortalità infantile non era necessariamente collegata ad una bassa qualità della vita; squilibri e carenze alimentari potevano caratterizzare anche diete "ricche". Per individuare il tipo di alimentazione del gruppo sono state condotte analisi paleonutrizionali tramite spettroscopia ad assorbimento atomico, analizzando frammenti ossei relativi a 24 soggetti adalti, 11 maschili e 13 femminili. Sono stati saggiati tre elementi: il Calcio, che fa parte della matrice ossea, lo Stronzio e lo Zinco, presenti nell'osso come elementi in traccia 23. Questi ultimi rappresentano veri e propri "elementi guida" della nutrizione, markers ossei delle condizioni alimentari delle popolazioni del passato. Lo Stronzio, infatti, presente in quantità elevate nei vegetali, si trova nell'osso umano in concentrazioni direttamente proporzionali all'importanza, nella dieta, degli alimenti vegetali. Lo Zinco, contenuto nella carne (soprattutto in quella rossa), ma anche nei crostacei, nei legumi e nella frutta secca, caratterizza invece l'alimentazione a base carnea, costituendo in un certo senso il corrispettivo dello Stronzio nei confronti delle proteine di origine animale. I risultati delle analisi (Grafico 7) evidenziano elevatissimi valori di Stronzio e bassi valori dello Zinco, senza particolari differenze tra i due sessi. Si può quindi avanzare l'ipotesi di un'alimentazione basata prevalentemente sul consumo di vegetali, soprattutto cereali, con scarsi apporti di carne. Queste conclusioni appaiono particolarmente significative, dal momento che il modello produttivo-alimentare delle popolazioni seminomadi germaniche era di tipo silvo-pastorale, basato sullo siruttamento delle risorse dell'incolto e quindi sulla caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei e l'allevamento - soprattutto suino - allo stato semibrado e prevedeva un notevole consumo di carni (MONTANARI 1988, PP. 13-21). Il fatto che un gruppo altomedievale di origine germanica
abbia profondamente mutato le sue abitudini alimentari indica la sua stabilizzazione sul territorio e conferma l'adattamento al modo di vita delle popolazioni autoctone. ELENA BEDINI, FULVIO BARTOLI, LAURA PAGLIALUNGA, FEDERICA SEVERINI, ANGELICA VITIELLO
Ringraziamenti Esprimiamo la nostra più viva riconoscenza alla Dott. Liliana Mercando, Soprintendente Archeologo del Piemonte, per la fiducia che ci ha accordato, affidandoci in studio i reperti antropologici di numerosi siti piemontesi. I nostri più cordiali ringraziamenti vanno alle Dott. Luisella Pejrani, Giulia Molli Boffa Egle Micheletto, Gabriella Pantò ed al Dr. Alberto Crosetto, della Soprintendenza Archeologica del Plemonte, che ci hanno fornito numerosi consigli ed informazioni utili per la stesura di questo lavoro. Ringraziamo anche la nostra collega Dott. Maria Paola Antonioli, che ha partecipato alle fasl preliminari di preparazione e schedatura dei materiali. Rivolgiamo infine un particolare ringraziamento al Prof. Francesco Mallegni, del Dipartimento di Scienze Archeologiche dell'Università di Pisa, per la sua consueta disponibilità nella supervisione scientifica e nella revisione critica del lavoro. 1 Per il momento soltanto le serie scheletriche di S. Vigilio di Trento (CORRAIN-CAPITANIO 1979), del Battistero di 8. Giovanni a Milano (CORRAIN 1972) e della necropoli di S.Stefano "in Pertica" a Cividale del Friuli (CORRAIN CAPITANIO 199O). Per i siti piemontesi di Villaro di Ticineto (DORO GARETTO-DARDANO 1983) e 8. Michele di Trino Vercellese (DORO GARETTO LIGABUE STRICKER 1988; DORO GARETTO 1991) sono ancora inedite le complete analisi antropologiche. Lo studio dei resti scheletrici di Rivoli La Perosa (Torino) è attualmente in corso di completamento (Cooperativa "Anthropos", dati inediti). 2 Verona Via Monte Suello (CORRAIN CAPITANIO 1971), Brescia (KTSZELY 1972); Nuvolera (CAPITANIO 1979a); Alice Castello (PANTÒ et al. 1993). 3 Sovizzo e Vigo di Legnago (CORRAIN PICCININO 1965), Reggio Emilia (SCAGLIONI 1967). Mossa (GALLO 1969); Fiesole (KTSZELY 1970); Nomi (CAPITANIO 1973); Rivoli Rocca (CORRAIN 1976), Vezzano (CAPITANIO 1976); Pettinara (SORCETTI et al. 1978),8. Polo di Brescia (CAPITANIO 1979 b); Vione (ERSPAMER et al. 1979), monastero di Santa Giulia a Brescia (BROGIOLO CUNT 1988); Monte Barro (CATTANEO 1991); Costa Balenne (CORRATN et al. 1988). 4 Villanova di Farra (BEDINI 1988); Romans d Isonzo (BARTOLI et al. 1989). 5 Testona (KTSZELY-SCAGLIONI 1969); Castel Trosino (KTSZELY 1971). 6 Negli individui adOlti il sesso è stato determinato secondo i criteri riportati da FEREMBACH et al. 1979; I'età di morte, in base alla maggiore o minore completezza delle entità scheletriche, secondo il grado di saldatura della sinfisi pubica (UBELAKER 1978); all'usura dentaria (MILES 1963) ed al grado di sinostosi delle suture craniche, pur riconoscendone le limitazioni (MASSEI 1987, p. 65; I(RAMAR STMON 1987, pp.123-128). Solo per le entità scheletriche complete in tutti i distretti è stato possibile applicare il metodo combinato descritto in FEREMBACH et aL 1979. 7 Questa situazione si registra nella maggior parte delle necropoli medievali italiane - anche geograficamente distanti oggetto di accurati scavi stratigrafici e sottoposte ad analisi paleOdemografiche: Cavallermaggiore (RONCO 199O a e b); San Benigno Canavese (Cooperativa Anthropos, dati inediti), S. Michele di Trino (DORO GARETTO-LIGABUE STRICKER 1988; DORO GARETTO 1991); 51illaro di Ticineto (DORO GARETTO-DARDANO 1985), Sarezzo e Villa Carcina (MAZZA 1985-86); S. Maria della 8cala a 8iena (BEDINI VALASSINA 1991); Mola di Monte Gelato
(CONHEENEY 199O); Malborghetto (BEDINI dati inediti), ierme di Venosa (MACCHIARELLI SALVADEI 1989). Prevalenza, più o meno evidente, di soggetti adulti Si osserva anche in altre cospicue serie scheletriche dell'Italia settentrionale: paleocristiani del Battistero di Milano (CORRAIN 1972); paleocristiani del Duomo di Trento (CORRAIN CAPTTANIO 1979), longobardi della necropoli di 8. 8tOfano "in Pertica" a Cividale del Friuli (CORRAIN CAPITANIO 1990); medievali di Torcello (CORRAIN CAPITANIO 1967; CAPITANIO-ERSPAMER 1987). Si discostano da questo modello di mortalità la piccola area cimiteriale di Torre di Morro (BEDINI c.s.) e le necropoli toscane di 8. Maria all Impruneta (FORNACIARI 1981) e di S. Vito di Calci (FORNACIARI et al. 1986). 8 In mancanza di appropriati dati di confronto con necropoli coeve italiane si rimanda ad ALDUC LE BAGOUSSE PILET LEMIERE 1986, che nel caso di aree cimiteriali della Normandia registrano una modificazione delle pratiche funerarie relative ai bambini, soprattutto ai neonati che soltanto dall'XI secolo in poi, con l'istituzione delle chiese parrocchiali, vengono sepolti negli stessi cimiteri degli adulti. 9 “Una delle spie per individuare indirettamente le condizioni di nutrizione di una popolazione è rappresentata dalla mortalità infantile: tanto più questa è elevata, tanto più vi concorrono malattie di natura gastrointestinale, tanto più siamo autorizzati a pensare di trovarci di fronte a una situazione di diffusa e generale malnutrizione. (...) Del resto questo tipo di disturbi affliggeva largamente anche la popolazione adulta, nella quale era solo maggiore forse il grado di resistenza e minore quindi il rischio di letalità”. (MAZZI 1981, PP. 329-330). 10 Infatti (cfr. SOLTNAS 1986, PP. 99-100) quasi sempre il paleodemografo opera su una “psendo-popolazione” formata dal totale di tutti i soggetti deceduti, considerati come vissuti contemporaneamente e quindl appartenenti ad una stessa generazione, ma, in realtà, vissuti in momenti diversi delía storia demografica della popolazione che possono, talvolta, comprendere anche intervalli cronologici di più secoli. Si tratta, quindl, di un “modello statistico di popolazione” e non di una vera e propria popolazione, che illustra “l'assetto demografico del gruppo studiato se nei suoi cicli vitali esso seguisse regolarmente le norme di probabilità che si ricavano dall'analisi delle serie diacroniche dei decessi condensati in una ponolazione - somma finale” (SOLINAS 1986, P. 100), per la quale si assume, inoltre, che il tasso di natalità e di mortalità non abbiano subito variazioni apprezzabili nel tempo (popolazione stazionaria). 11 I caratteri metrici e morfometrici del cranio e dello scheletro postcraniale sono stati rilevati secondo MARTIN-SALLI R 1956-S9. Per la stima dei caratteri metrici cranici sono stati seguite le valutazioni di HUG 1940. Le capacità craniche sono state calcolate secondo la formula interraziale di Lee Pearson sia al basion che al porion e stimate secondo Sarasin I caratteri morfologici del calvario e della mandibola sono quelli riportati in MALLEGNI et al. 19is, p. 324. 12 Lunghezza massima del calvario, lunghezza basilare del calvario, larghezza massima del calvario; diametro frontale minimo, altezza basion - bregma (maschi); altezza porion - bregma (femmine); larghezza bizigomatica, larghezza orbitaria; altezza orbitaria, larghezza nasale; altezza nasale. La scelta dell'altezza basion - bregma per i maschi e di quella porion - bregma per le femmine è stata dettata soltanto dal maggior numero di dati rilevati. 13 Per questo sito non sono editi i valori staturali individuali. 14 Le stature maschili sono comprese tra circa 162 e 175 cm con una media di 169 cm circa; dei 6 valori calcolati, 3 superano i 170 cm, uno è compreso tra 165 e 170 cm e due cadono tra 160 e 165 cm. Le due stature femminili corrispondono a 150,6 (t.27) e 154,7 cm (t. 34). 15 I valori maschili variano da 164 a circa 176 cm, con una media di 170,5 cm, la sola statura femminile, pari a circa 178 cm, sembra invece sovrastimata, essendo stata calcolata in base alla lunghezza di un solo osso - il radio, che, nella Tabella di TROTTER e GLESER 1958 presenta un elevato errore standard. 16 Cfr. SCHROEDER 1987; REPETTO et al. 1988. 17 Cfr. FORNACIARI MALLEGNI 1981 e 1989; MOLLESON 1987; REPETTO et al. 1988; RUBINI et al. ]990. 18 Cfr. ORTNER PUTSCHAR 1985. 19 Cfr. ORTNER PUTSCHAR 1985; MANN-MURPHY 1990. 20 Cfr. FANTINI 1983; ORTNER PUTSCHAR 1985. 21 KENNEDY 1989; MANN-MURPHY 1990. 22 DE MICHELIS et al. 1992. 23 Cfr. FORNACIARI 1989; FORNACIARI-MALLEGNI 1989 e relative bibliografie. 24 Cooperativa Etnoantropologica e Paletnologica "Anthropos", Pisa. Dipartimento di Scienze Archeologiche, Università degli Studi di Pisa.
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Alcune riflessioni sulla "ideologia funeraria" longobarda alla luce del recente scavo nella necropoli di S. Martino a Trezzo sull'Adda
In attesa che venga ultimato l'esame analitico dei materiali e si possa procedere ad un più accurato resoconto dei dati di scavo e ad un più organico sforzo di interpretazione critica delle evidenze materiali, colgo l'occasione di questo incontro per una ulteriore riflessione sulle tappe di sviluppo del nucleo cimiteriale di Trezzo, loc. S. Martino 1. Questa volta l'attenzione sarà rivolta in modo particolare alla sequenza stratigrafica accertata delle sepolture e alla loro logica distributiva in relazione all'edificio che nel medioevo risulta intitolato a S. Martino: elementi che - come si vedrà sembrano riflettere un processo di trasformazione dell'ideologia funeraria longobarda e richiamarsi a modelli di comportamento ben individuati in area alamanna e, più in generale merovingia. 1. La sequenza individuata 1.1 Uso funerario dei resti di una villa romana Nell'ambito di una villa romana abbandonata, non sappiamo se totalmente o con un settore ancora attivo ed abitato, e presso i resti di un locale quadrangolare (difficile dire se rovinato o ancora coperto) vi è l'inserimento di una sepoltura (Us 237) di datazione problematica, data la mancanza di elementi del vestiario e del corredo. 1.2 "Fondazione" del cimitero germanico (Fig. 1) A sud di questo locale (conservato ancora, almeno parzialmente, in elevato), viene installata una sepoltura importante (Us 332): dalle tracce di travi orizzontali rimaste sul fondo, essa può essere riferita al tipo a camera lignea; fu asportata in antico, forse in occasione della costruzione della prima chiesa - se si trattava di una struttura emergente sopra terra (Grabanlage) -, o in occasione della ricostruzione romanica, se era una semplice struttura lignea completamente interrata 2. In una tomba ossario più recente, di cui si parlerà oltre, sono state rinvenute anche ossa animali, probabilmente equine. L'originaria inumazione di un cavallo potrebbe essere avvenuta proprio nella sepoltura con camera lignea, apparentemente la più ampia, antica e prestigiosa della necropoli 3. In relazione con essa sembrano essere state altre due tombe, a fossa terragna, che la affiancavano a nord (Us 234, dove è deposto un adulto di sesso imprecisato) e a sud (Us 310, dove sono sovrapposti due individui di sesso maschile, un giovane e un adulto). Tutti gli inumati sono privi di qualsiasi elemento del vestiario o del corredo e potrebbero appartenere ad uno strato sociale inferiore. Non sono stati disturbati da alcuna spoliazione; solo la tomba meridionale è stata appena intaccata, più tardi, dal perimetrale della prima chiesa altomedievale. In questo nucleo sembra riconoscibile, per rapporti planimetrici e cronologici, il polo generatore del cimitero. 1.3 Sviluppo del sepolcreto famigliare Intorno a questa tomba a camera lignea si dispongono, con andamento, sembra, leggermente a raggera, altre sepolture forse attribuibili a membri dello stesso nucleo famigliare 4. Queste a loro volta sono circondate da altre inumazioni sostanzialmente coeve, ma appartenenti ad individui di livello sociale decisamente inferiore s soli elementi presenti sono i pettini e i vaghi di collana, oltre a un vasetto e a una fibbia in bronzo a placca fissa di tipo bizantino. In due casi sono documentate tombe multiple (forse famigliari).
Tutte le sepolture presentano orientamento Est-Ovest, con qualche oscillazione dell'asse non sempre individuabile con certezza nella sua inclinazione originaria dal momento che in molti casi i tagli originari delle fosse sono stati disturbati dalla successiva aperture dei sepolcri e dall'esumazione dei resti scheletrici o casualmente da lavori edilizi di età postmedievale. Dubbi permangono circa lo status sociale di alcune tombe esterne alla chiesa, sempre con orientamento Est-Ovest: l'una (Us 316), maschile, situata a meridione sull'allineamento delle tre tombe che verranno inglobate nel coro, le altre due (Us 122 e 309, la prima delle quali femminile) sulla fila immediatamente a Est del coro stesso. Anche se il campione è numericamente non molto consistente e incertezze permangono sull'identità sessuale di alcuni individui, il gruppo famigliare pare connotato dalla presenza di ambo i sessi, con una prevalenza dell'elemento femminile, e di infanti o adolescenti. Purtroppo manca qualsiasi informazione sulla tomba che, in seguito alla costruzione dell'edificio religioso, verrà a trovarsi davanti al presbiterio (Us 319), a causa della sua quasi totale asportazione. La conoscenza di tale sepoltura infatti, avrebbe dato un contributo importante alla comprensione della dinamica di sviluppo del cimitero; questo sembra comunque interessare solo un paio di generazioni e svilupparsi - stando ai dati disponibili - non oltre gli anni 30 del sec. VII. 1.4 I dati cronologici offerti dai materiali di corredo L'unico contesto chiuso di cui disponiamo per la datazione di questa piccola necropoli è rappresentato dal corredo della tomba maschile Us 345; la definizione cronologica delle altre sepolture si basa solo, nel migliore dei casi, su associazioni parziali di elementi dell'abbigliamento e dell'ornamento personale o, in due casi, su crocette auree sfuggite alla spoliazione. Anche se lo studio dei manufatti, tuttora in corso, potrà determinare ulteriori precisazioni, le sepolture più recenti, utili a fornire un termine post quem per la costruzione della chiesa, sono proprio le due coperte dalla facciata. La tomba femminile Us 351 (violata in antico) denota l'appartenenza ad una defunta di rango molto elevato, sepolta intorno al 630 circa, per la presenza del broccato, di una guarnizione di calzatura in argento dorato e niellato (Tav. VIIIa), di chiodini di fissaggio in oro, di un elemento in osso lavorato (riconducibile forse all'intarsio di una cassettina), di piccoli vaghi di collana di tradizione romana; è la guarnizione che offre il termine cronologico più indicativo, in base allo stile decorativo impiegato 6. La presenza del broccato d'oro, se effettivamente era riservato solo ai nobili 7, fornisce un'indicazione preziosa sullo status sociale di questa defunta, il più elevato dopo quello dell'inumato in camera lignea che pare aver dato origine al piccolo cimitero. Il ragazzo della tomba Us 345, dell'età di 11-12 anni, nonostante l'assenza del broccato e la mancanza dello scudo 8, rivela la sua appartenenza alla classe sociale più elevata per la presenza del corredo "da tavola" costituito da un bacile in bronzo fuso e una fiasca tirata a martello 9. Il fodero della spatha con rinforzi laterali in ferro ageminato, lo scramasax corto e soprattutto le guarnizioni della cintura quintupla ageminata (Tav. VIIIb-c), dotata di bottoni piramidali in osso, e la crocetta in lamina d'oro indicano una datazione intorno al 630 d.C. 1O. Dalle restanti sepolture che verranno a trovarsi comprese nel perimetro della chiesa medievale i~, tutte manomesse in antico, provengono altre tre croci auree, che non offrono puntuali riferimenti cronologici 12; solo quella della Us 209 non sembra superare il 620 circa. In questa tomba femminile di infante sono stati rinvenuti, oltre ad un paio di orecchini d'oro ad anello con chiusura a pressione, alcuni vaghi di collana che, in base a precisi confronti, sono da ricondurre al massimo ai primi anni del VII secolo. Altri vaghi provengono dalla Us 193 e, fra le sepolture esterne all'area che verrà interessata dalla costruzione dell'edificio sacro, dalle Us 122 (Tav. VIIId), 346,408,405, 403. L'analisi evidenzia come fra le collane non ci siano scarti cronologici rilevanti, anzi l'insieme dei monili si presenta piuttosto omogeneo, con la presenza dei vaghi più semplici in tutti gli esemplari e di quelli più elaborati attestati in più di una collana 13. I1 dato è significativo perché indica una
cronologia ristretta per tutto il nucleo cimiteriale. I rimanenti reperti rinvenuti non aggiungono precisazioni cronologiche 14. Accenno poi, brevemente, alla presenza in alcune sepolture di elementi quali carboni (Us 332,310,234,237,345), ossa animali (Us 309,209,247, 237, 168), conchiglie o gusci d'uovo (Us 237,345) ed elementi floreali o semi (Us 237, 345, 407) 15. Le tombe presentano infine, sotto il profilo strutturale, diverse tipologie: oltre a semplici fosse terragne sono documentate recinzioni in ciottoli, talora con aggiunta di laterizi, fosse con fondo in laterizi frammentari o in altro materiale romano di recupero (piastrelle in pietra, intonaci dipinti, tessere musive), strutture in cocciopesto. Frequente è risultato l'uso della bara lignea, soprattutto nelle sepolture più ricche. La parte superiore del riempimento della Us 345 poi, era costituita da ciottoli di medie e grandi dimensioni, in maggior numero in corrispondenza del centro del taglio; si potrebbe pensare che si tratti di quanto resta di un originario tumulo di sassi ceduto dopo che la bara è marcita e livellato in occasione della costruzione della facciata altomedievale della chiesa. 1.5 Costruzione della chiesa (Fig. 2) Probabilmente intorno alla metà o seconda metà del sec. VII, per iniziativa di un membro della famiglia, viene commissionata la costruzione di un edificio di culto che comporta il livellamento dei ruderi romani entro lo spazio destinato all'aula e la rimozione parziale delle strutture della camera lignea eventualmente ancora emergenti sul terreno. Circa la relazione tra le sepolture longobarde e il più antico luogo di culto in muratura, i rapporti stratigrafici suggeriscono la recenziorità di quest'ultimo; tuttavia non si può non rilevare come le sepolture 209, 247, 349 risultino perfettamente inserite nel presbiterio rettangolare dell'edificio che parrebbe averle intenzionalmente rispettate; la tomba 319 viene a trovarsi sull'asse della chiesa, in posizione chiaramente privilegiata; le sepolture 313, 345,351 sono infine coperte dalle fondazioni della facciata della chiesa che sembra averle in qualche modo "sigillate". Nella costruzione dell'edificio di culto all'interno della necropoli sembrano quindi riconoscibili criteri precisi, che riflettono un particolare rapporto del fondatore nei confronti di alcuni inumati 16. Nonostante non si disponga di contesti chiusi, ad eccezione della tomba 345, si ha motivo di ritenere che le sepolture comprese nell'edificio sacro appartenessero a defunti di rango sociale più elevato rispetto agli altri inumati, a giudicare dai segni di agiatezza e di prestigio che le accomunano: le fosse sepolcrali sono più profonde, alcune sono dotate di una struttura interna di recinzione che doveva accogliere la bara in legno e una doveva contenere una camera lignea. Inoltre, dove lo svuotamento non è stato totale, i reperti ritrovati testimoniano la presenza originaria di ricchi corredi, a differenza di quanto è constatabile per le sepolture esterne, contenenti per lo più solo collane e pettini. All'interno dell'edificio di culto l'unico piano di calpestio messo in luce e di una qualche consistenza materiale (Us 107), risulta connesso al presbiterio rettangolare medievale e sovrapposto al riempimento delle tombe 209, 247,349 dopo la loro violazione. A meno che tale piano non sia da interpretare come relativo ad un livellamento delle murature presbiteriali, esso parrebbe indicare dunque la posteriorità di questa porzione almeno dell'edificio rispetto al momento di svuotamento delle sepolture. Ciò è peraltro palesemente in contrasto con gli altri dati che manifestano nell'impianto perimetrale del presbiterio la volontà di rispettare le tre tombe. Inoltre i rapporti stratigrafici segnalano che lo svuotamento della tomba 319 è avvenuto contemporaneamente a quello della tomba 314 che si era successivamente impostata su di essa, con orientamento N-S (diversamente da tutte le altre sepolture, orientate E-W) e proprio sulla mezzeria dell'edificio, quasi presupponendolo. L'ubicazione di questa seconda inumazione sembra giustificarsi proprio in ragione di una relazione con il defunto della tomba sottostante e, forse, con la prossimità al luogo dell'altare, non individuato probabilmente perché asportato dalla costruzione di un muro moderno della cascina. Poiché i dati di scavo sembrano suggerire una sostanziale contemporaneità nell'apertura delle tombe, sembra logico ipotizzare che questa sia avvenuta quando era già stato edificato un luogo di culto, nel
rispetto di un nucleo cimiteriale che, come si è visto, presentava caratteri di privilegio. Questa ipotesi è confermata da un altro elemento: le sepolture 321 e 345 sono coperte dal muro di facciata dell'edificio che, come si è detto, sembra averle intenzionalmente sigillate, quasi ad impedirne la violazione; in effetti la tomba 345 è l'unica ritrovata intatta con il ricco corredo, mentre la 351 è stata quasi completamente svuotata solo in seguito al rinvenimento fortuito della struttura in occasione di un intervento edilizio in facciata. In conclusione non mi sembra inverosimile ipotizzare che la chiesa medievale intitolata a S. Martino ricalchi un primo edificio-mausoleo di età longobarda, impostato in parte su ruderi di età romana. Di tale edificio sarebbero sopravvissuti solo residui dei perimetrali - di antica o nuova costruzione (Us 333,327,282,195,194,283), ma nessun piano pavimentale, scomparso in seguito alle successive ricostruzioni dell'edificio in età medievale e moderna. 2. Il possibile committente Considerata la disposizione delle tombe più antiche e la particolarità della sepoltura 314 (appartenente ad un uomo di età matura), l'unica inserita nella nuova costruzione e posta davanti all'ingresso del presbiterio, in rapporto diretto e apparentemente intenzionale con la sottostante fossa tombale, è lecito ipotizzare, per i caratteri di unicità e la successione cronologica, che si tratti del fondatore. La quota di affioramento del cranio di questo inumato (203.36) fornisce inoltre un'indicazione preziosa per il ricollocamento ideale del primo pavimento della chiesa, confermando che questo doveva trovarsi al di sopra della quota di affioramento delle fondazioni delle lesene del perimetrale nord (203.60). Poiché la quota (203.28) del piano di cantiere Us 107 individuato nel coro ed attribuito alla ricostruzione "romanica" è inferiore a quella del primo pavimento, se ne ricava che la successiva pavimentazione fu più bassa della precedente e ne determinò la scomparsa. Essendo poi quest'ultima quota inferiore anche a quella di affioramento del cranio dell'inumato della tomba 314, si potrebbe pensare che quando era in uso il piano Us 107 il defunto sia stato parzialmente protetto da qualche struttura emergente sul piano pavimentale. Presso la porzione conservata dello scheletro non è stato rinvenuto alcun elemento di corredo, ma non abbiamo la certezza che al momento della deposizione il defunto ne fosse sprovvisto )17. L'insieme dei dati suggerisce la possibilità che l'inumato della tomba 314 sia un discendente della famiglia sepolta nell'area, ormai convertito al cattolicesimo e che forse ha deciso la costruzione della chiesa pro remedio animae. Avrebbe così conciliato da un lato il desiderio di preservare le sepolture dei suoi antenati e dall'altro la prassi diffusa fra le élites cristiane delle donazioni per la salvezza dell'anima e delle commissioni edilizie come segno esteriore del prestigio sociale e della propria auctoritas 18. Il lasso temporale intercorso tra le sepolture sotto la facciata (le più recenti del nucleo sepolcrale "sigillato" dall'edificio sacro) e la costruzione della chiesa non può essere circoscritto con precisione, ma se la linea interpretativa proposta è corretta dovrebbe essere breve e forse addirittura ristretto all'arco di vita del parente più vicino alla coppia di giovanissimi inumati: una data nella seconda metà del VII secolo potrebbe essere plausibile. Oltre a quella del probabile fondatore, la sola sepoltura che documenta la continuità d'uso dell'edificio come Grabkirche è la tomba 164. Addossata all'esterno del coro, a nord, è stata rinvenuta già compromessa da scassi moderni; tuttavia ha restituito qualche elemento del presunto corredo originario (un bel pettine in osso riccamente ornato e un coltello in ferro) che permette di collocarla nell'ambito del sec. VII. La posizione e la sicura posteriorità rispetto all'edificio di culto ne suggeriscono l'identificazione con personaggi legati al gruppo sociale sepolto nella chiesa 19. Non abbiamo altre prove, più tardi, di un persistente utilizzo cimiteriale dell'edificio o dell'area circostante. Non è chiaro se ciò rispecchi l'estinzione del gruppo famigliare o rifletta più in generale la pratica invalsa di seppellire i defunti intorno alla chiesa battesimale del villaggio. Sappiamo ancora troppo poco sull'evoluzione dell'insediamento e la distribuzione del popolamento a Trezzo d'Adda in
età altomedievale per avanzare ipotesi in questo senso. Si potranno forse ricavare ulteriori informazioni utili in merito se verranno condotte indagini stratigrafiche nella zona di S. Michele in Salianense, l'area di maggiore potenzialità informativa (almeno stando alle testimonianze documentarie pervenute), distante un chilometro circa dalla Cascina S. Martino 20. Un'ultima nota riguarda la struttura tombale più recente rinvenuta all'interno della chiesa (Us 178, immediatamente a est delle Us 332 e 310) (Fig. 3): costruita con laterizi legati da malta e con il fondo composto da cinque tavelloni legati da argilla, ha restituito parti ossee relative ad almeno 6 individui adulti di entrambi i sessi e 2 infanti. Poiché le sepolture individuate già sconvolte o asportate all'interno della chiesa sono proprio 8 (di cui due certamente femminili e due di infanti), è assai probabile che questa tomba ossario sia da mettere in relazione con le attività connesse all'esumazione dei defunti e alla bonifica del sottosuolo della chiesa avvenuta verosimilmente nell'ambito dei lavori di ricostruzione dell'edificio in epoca protoromanica (se ci affidiamo all'unico elemento utile per la cronologia: un capitello di X-XI secolo reimpiegato nella sacrestia bassomedievale) 2~. Da questa sepoltura provengono anche le ossa animali, probabilmente equine, che ho in precedenza ipoteticamente collegato alla tomba che presentava tracce di una camera lignea. 3. Rapporto con il nucleo nobiliare dei "signori degli anelli" A circa m 200 dalla Cascina S. Martino si trovavano le cinque tombe maschili con ricchi corredi messe in luce durante gli scavi effettuati negli anni 1976-78 Z2; queste sono state attribuite ad un arco cronologico che va dai primissimi anni del sec. VII ad un momento di poco posteriore alla metà del secolo 23. Il cimitero della Cascina S. Martino risulta sostanzialmente contemporaneo a tale nucleo (la tomba con camera lignea suggerisce una datazione alla fine del sec. VI, mentre le due tombe in facciata non superano gli anni '30 del sec. VII) ed è fortemente connotato dalla presenza di donne e infanti, distribuiti intorno ad una tomba a camera lignea, tipologia adottata dai Longobardi già in Pannonia, che potrebbe appartenere ad un membro della generazione immigrata. Ritengo non si possa escludere che si tratti di una necropoli di un nucleo parentale (fara) installatosi presso una villa romana. Si tratterebbe di un'ulteriore testimonianza dello stanziamento della generazione immigrata che proprio nelle terre dell'Adda, a Fara Authari (Fara Gera d'Adda), ha lasciato una così eloquente testimonianza toponomastica 24. Si sente qui l'eco di quel processo di stanziamento e di creazione della proprietà fondiaria che caratterizza le prime fasi dopo la conquista e di cui ancora una volta il testamento di Rottopert permette di cogliere i risultati: grandi possessori beneficiati dalla che, entrata in possesso con Autari e Agilulfo di enormi patrimoni fondiari di origine fiscale e non, crea le basi per la gestione e il potenziamento del regno attraverso una fitta rete di funzionari di fiducia. Pur immaginando facilmente una connessione fra i due nuclei sepolcrali, non ne conosciamo il preciso rapporto a causa dell'impossibilità di effettuare sondaggi archeologici nell'area intermedia, recentemente interessata da una forte espansione dall'abitato di Trezzo. SILVIA LUSUARDI SIENA
1 Le prime notizie deilo scavo, effettuato fra ii 1989 e il 1991, e preliminari riflessioni interpretative delle realtà materiali emerse sono apparse in: S. LUSUARDI SlENA-D. SALSAROLA, Trezzo d'Adda (Ml): Cascina S. Martino, in Notiziario
della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Milano 199O, pp. 170-174, S. LUSUARDI SIENA, Qualche considerazione sulla necropoli longobarda in località Cascina S. Martino a Trezzo sull'Adda (Milano), in Scavi Medievali in ltalia (Quaderni di Archeologia Medievale, 1), Roma 1991, Dp. 9-28, 8. LUSUARDI S;ENA, La necropoliTongobarda in località Cascina S. Martino nel quadro dell'insediamento altomedievale a Trezzo sull Adda (Milano), in G.P BROGIOLO-L. CASTELLETTI (a cura di), 11 territorio tra tardoantico e altomedioevo. Metodi d'indagine e risultati Firenze 1992, Dp. 13 1-148. Desidero ringraziare la dott. Caterina Giostra per l'aiuto nell'analisi dei materiali di corredo. 2 Strutture di questo tipo sono state individuate, oitre che in Pannonia (BONA 1974, p. 243) e in Baviera (A. RETTNER, Bevor FranFen frankisch wurde. Thuringen am Main Bepunde aus dem frnhmittelalterlichen Grdberfeld von Zencleben bei Schmeinfurt, “Bayernspiegel”, 3 1992, pp. 4-9), anche in alcune tombe di capi della Gallia orientale (YOUNG 1986, p. 70) e della Svizzera (M. MARTTN, Le cimitière de B)le-Bernerring (Suisse). Interprétation historique et sociale d'après la chronologie exacte des tombes, in Problèmes de c~ronologie relative et absolue concernant les cimitières mérovingiens d'entre Loire et Rbin, Paris 1978, p. 187). In Italia una tomba con struttura in legno e pali conficcati è stata individuata a Leno (BS), loc. Campi S. Giovanni, durante gli scavi ancora in corso da parte della Soprintendenza Archeologica della Lombardia (segnalazione del dott. A. Breda). 3 Nelle necropoli di età longobarda in Italia la presenza di tombe con cavallo è finora attestata a: Fornovo S. Giovanni (BG) (DE MARCHI-CINI 1988, p. 24), Nocera Umbra, t. 38 (PG) (PASQUI-PARIBENI 1918, p. 238), Povegliano, Ortaia (VR) (L. SALZANI, Povegliano Ortaia (VR), “Quaderni di Archeologia del Veneto”, 1987, pp. 106-107), Bovolone (VR) (L. SALZANI, Bovolone (VR), “Quaderni di Archeologia del Veneto”, 1993, pp. 88-90), Borgomasino (VC) (P SESINO, Le necropoli, in S. LUSUARDI SIENA, L'eredità longobarda. Ritrovamenti archeologici nel milanese e nelle terre dell'Adda, Milano 1989), Bresaz (Istria) (M. TORCELIAN, Le tre necropoli altomedioevali di Pinguente, Firenze 1986), Goito (MN) (E.M. MENOTTI (a cura di) La necropoli longobarda a Sacca di Goito, Mantova 1994). Dieci tombe con cavallo sono state rinvenute a Vicenne (Campochiaro) in Molise (B. GENITO, Tombe con cavallo a Vicenne, in S. CAPINI-A. DI NIRO (a cura di), Samnium. Archeologia in Molise, Roma 1991, pp. 335-338) una necropoli che rivela punti di contatto con l'Europa orientale, dove l'inumazione del cavallo è ricorrente. In ambito longobardo, l'uso in questione è attestato già in Moravia, nel ricco tumulo di Zuran, ed in Pannonia (per esempio a Szontendre, Kajdacs, Vors e Veszkeny), dove era praticato anche dai Gepidi (Batajnica e Kishomok) (I. BONA, A l'aube du Moyen Age, Budapest 1976). Riscontrato nel cimitero del primo periodo avaro di Kornje (Pannonia settentrionale, MENGHIN 1985, fig. 83), tale componente del rituale funerario era nota anche agli Alamanni: si vedano, per esempio, i casi di Niederstotzingen (PAURSEN 1967) e Giengen an der Brenz (P PAUT sEN-H. SCHACH DOERGES, Das alamannische Graberfeld von Giengen an der Brenz (Kr. Heidenbeim), Stuttgart 1978). 4 Si tratta delle sepolture che verranno a trovarsi all'interno della chiesa altomedievale, Us 209, 247, 349, 319, 193, 351, 345, 313. 5 Sono le tombe situate a Ovest delle precedenti. 6 La piccola controplacca reca una decorazione tripartita, formata da due file laterali di due animali ciascuna che si susseguono e una matassa naturalistica centrale, e si conclude con un medaglione. Lo schema tripartito dell'ornato in II Stile animalistico più armonioso, dato da due file di animali che si inseguono e da una matassa zoomorfa centrale (i motivi che l'Haseloff definisce “in rapporto infinito”), è presente sulla maggior parte degli speroni del secondo quarto del sec. VII rinvenuti (Trezzo sull'Adda, t. 5, Borgo d'Ale, t. 2, Castelseprio, Castel Trosino, t. 9), eseguito in agemina e psendo-placcatura. Allo stesso ambito cronologico sono da ricondurre gli speroni della t. 4 di Trezzo sull'Adda (ROFFIA-SESINO 1986, pp. 74-76), gli unici manufatti che, recando una matassa centrale naturalistica e non zoomorfa, riproducono il medesimo schema compositivo della placchetta niellata in questione. Tuttavia, poiché da Sovizzo proviene un insieme di guarnizioni di cintura cosiddetta "a cinque pezzi" (inedito conservato al Museo Naturalistico-Archeologico di Vicenza) risalente agli anni centrali della prima metà del sec. VII e comprendente una controplacca (anch'essa con decorazione tripartita in II Stile animalistico ageminata) con la forma sagomata ed il medaglione terminale che richiamano vistosamente quelli della nostra guarnizione, ritengo di poter estendere ad essa la medesima datazione (cfr. C. GIOSTRA, La produzione metallurgica in età longobarda: le guarnizioni ageminate, Tesi di laurea in Archeologia Medievale, Università Cattolica di Milano A.A.1993-94, relatore Prof.ssa S. Lusuardi Siena). Anche il carattere elementare e non allungato degli animali mal si concilia con la fase più vicina alla metà del secolo. Non mi sono note in Italia altre guarnizioni delle fasce o delle scarpe in argento niellato (i reperti provenienti dalla t. 100 di Nocera Umbra e datati negli anni intorno al 600, sono in argento privo di decorazione o con file di triangoli contrapposti e linee con tracce di doratura incise: cfr. RUPP 1996, p. 104). 7 ROFFIA-SESINO 1986, p.39 e VON HESSEN 1986, p.163. Una messa a punto degli aspetti relativi allo studio dei fili aurei ed un elenco delle tombe altomedievali in Italia che li contengono sono in: I. AHUMADA SILVA-P LOPREATO-A. TAGLIAFERRI (a cura di), La necropoli di S. Stefano in pertica", Città di Castello 1990, pp. 62-66. 8 Il coetaneo inumato nella t. 3 del piccolo nucleo sepolcrale nobiliare rinvenuto a circa 200 metri di distanza, nella stessa località, durante gli scavi effettuati negli anni 1976-78 (ROFFIA-SESINO 1986) aveva con sé spatha, scramasax, lancia e umbone di scudo; anche qui sono presenti i coltellini e una croce in lamina aurea, nonché una cintura quintupla, ma le guarnizioni sono bronzee e non in ferro ageminato come nel caso della tomba Us 345 in esame. 9 L'associazione di brocca e bacile o padella in bronzo nelle sepolture dell'Italia longobarda risulta molto rara. L'unico altro caso a me noto al momento è quello del ricco corredo della t. 17 di Nocera Umbra (RUPP 1996, p. 95). Nei contesti
di età merovin~ia tali presenze si riscontrano in tombe considerevolmente ricche (si pensi, per esempio, aila t. 9 della già citata necropoli nobiliare di Niederstotzingen, PAULSEN 1967, tav. 9). 10 Fra le guarnizioni della cintura, la placca di fibbia con anello, la controplacca, il puntale principale, la placca dorsale e, dei pezzi relativi a due bandoliere, un puntale secondario, recano una decorazione in II Stile animalistico più armonioso realizzata in agemina e pseudoplaccatura. Le cinture quintuple facilmente riconducibili a tale tipologia stilistica non sono numerose (un insieme da Sovizzo, uno da Castelli Calepio e uno da Castione) e coprono un arco cronologico che va dagli anni centrali della prima metà del sec. VII all'inizio della seconda metà. Il nostro insieme sembra appartenere alla fase iniziale di tale periodo, soprattutto a giudicare dalla forma delle guarnizioni (in particolare del puntale principale) e dal tratteggio sui bordi, in alcuni casi ancora a gruppi di due o tre linee separati, elemento costante nella prima produzione ageminata, con motivi in pseudo-cloisonné. Una nota stilistica: nella composizione, eseguita con notevole abilità e precisione, l'intreccio nastriforme acquista un peso rilevante rispetto alle componenti zoomorfe, sempre prive di dettagli costitutivi quali le zampe anteriori e posteriori. Anche la coppia di bottoni piramidali in osso, ulteriori componenti del sistema dl sospensione della spatha, non consente una datazione più bassa degli anni centrali della prima metà del sec. VII. Quanto alla crocetta aurea, l'intreccio animalistico molto serrato e compatto con i nastri di base "a triplice linea" richiama in modo evidente il motivo impresso sulla croce della t. 5 del piccolo nucleo sepolcrale nobiliare rinvenuto in un'altra zona della stessa località (ROFFIA-SESINO 1986, p.96), che è stato inserito nella corrente stilistica indicata dal Roth come Stile IIB2, tipo A (per la successione regolare e continua di teste zoomorfe azzannanti i propri corpi e inserite in un intreccio nastriforme omogeneo), e datato nella prima metà del VII secolo. Nel nostro manufatto, date le dimensioni inferiori e i tagli praticati in senso obliquo, non è possibile individuare l'intero motivo del modano, pur distinguendosi la ripetitività delle teste zoomorfe. 11 Si tratta delle Us 209, 247, 349, 319, 193, 313. 12 Nella Us 209 si trovava una crocetta decorata in Schlaufenornamentik databile fra la fine del VI secolo e i primi decenni del VII; gli altri due manufatti, l'uno recante tre file di piccole punzonature parallele su ciascun braccio (Us 193),1'altro con intreccio di nastri perlinati regolare e simmetrico (Us 313), rimandano ad un arco cronologico più ampio, tra gli ultimi decenni del VI secolo e la prima metà del VII. Per tali manufatti, tuttavia, si attende un'analisi più approfondita. 13 Per la descrizione dei vaghi e la discussione dei confronti e dei dati cronologici e legati alla produzione si rimanda alla pubblicazione analitica dei manufatti, dal momento che l'argomento necessita di un'ampia trattazione. 14 Fra i rinvenimenti segnalo: una fibbia in bronzo a placca fissa di tipo "bizantino", comunemente datata alla prima metà del VII secolo, dalla Us 375; uno spathion di VI-VII secolo dalla Us 247; un vasetto a sacco in ceramica grigia dalla Us 368; frammenti di calici in vetro dalle Us 209 e 247; pettini in osso dalle Us 122, 351, 345, 346, 294, 405, 368, 403 elementi in osso dalle Us 209 e 321, una fusarola fittile e un frammento d'argento dalla sepoltura multipla Us 405; due coltelli provengono dalla Us 34s e uno dalla Us 293. 15 Numerose sepolture contenenti ossa animali e gusci d'uovo sono state rinvenute nella necropoli di Nocera Umbra (RUPP 1996, tavv. 1 e 2). 16 Fra i casi di edifici di culto che sembrano aver monumentalizzato nuclei sepolcrali nobiliari ricordo la struttura di età altomedievale al di sotto della chiesa parrocchiale di Schoftland (Cantone di Zurigo). Al suo interno sono state rinvenute sette sepolture, poste molto in profondità: una risultava inserita nel coro, delle altre, lunco la navata unica, due contenevano i resti di cavalieri, una apparteneva ad una giovane donna. È stata avanzata l'ipotesi che si trattasse di un nucleo famigliare della nobiltà locale (M. MARTIN-H.R. SENNHAUSER-K. VIERCK, Reiche Grabfunde in der frnhmittelalterlichen Kirche von Schoftland “Archaologie der Schweiz”,III,1980,pp.29-55). Sull'argomento si veda: E. SPALLA, Tombe di fondatori ed edifici di culto nella documentazione archeologica dell'età altomedievale (Italia settentrionale e Gallia merovingia) (tesi di laurea discussa presso l'Università Cattolica di Milano, A.A. 1993-1994, relatore Prof. S. Lusuardi Siena). 17 Anche a Morbio Inferiore (Canton Ticino) troviamo un inumato sepolto sotto l'altare, probabilmente nel corso del VII secolo (PA. DONATI, Ritrovamenti dell'Alto Medioevo nelle attuali terre del Canton Ticino, in I Longobardi e la Lombardia Milano 1978, pp. 161-171) così a Hettlingen (Cantone di Zurigo), dove la sola sepoltura inserita all'interno, sulla mezzeria dell'edificio (non però sotto l'altare) e ben relazionata stratigraficamente, è interpretata come quella del fondatore che intorno al 700 ha costruito la chiesa sulle tombe di famiglia dislocate intorno ad una piccola camera funeraria della prima metà del VII secolo (A. ZURCHER, Die Ausgrabungen in der reformierten Kirche Hettlingen, “Zeitschrift fùr schweizerischen Archaologie und Kunstgeschichte”, 41, 1984, pp. 229-248). 18 Un esempio di tale consuetudine lo abbiamo proprio a Trezzo, nel testamento del vir magnificus Rottopert (AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 175-179). 19 Il riempimento della tomba, a cassa di muratura costituita di grossi ciottoli e malta sconvolta dalla costruzione del campanile e poi dell'angolo della cascina nel 1924, ha restituito ossa relative ad almeno due individui adulti e di probabile sesso maschile. 20 La specificazione toponomastica di S. Michele è da collegare con il vicus Salienensis menzionato nelle fonti a partire dall'896, ma che probabilmente, per la sua forma onomastica ha origini ben più antiche. L'area dove, grosso modo, doveva sorgere la chiesa in questione, che è menzionata nella bolla di Adriano IV del 1155 e nel Liber Notitiae Sanatorum Mediolani del sec. XIII, è stata di recente individuata poco a sud di S. Martino, in direzione dell'Autostrada
Milano-Bergamo. Per questo argomento e per un più ampio quadro storico e topografico sul territorio di Trezzo si rimanda a: AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 167-229. 21 A conferma di ciò vi è il fatto che le sepolture sembrano essere state aperte una sola volta e tutte contemporaneamente; questo deve essere avvenuto tempo dopo l'inserimento dell'inumazione Us 314, dal momento che un unico taglio di asportazione ha interessato i riempimenti di questa tomba e di quella sottostante, Us 319. Quindi non si trattò di spoliazioni di poco successive alla deposizione (che avrebbero forse sottratto il corredo lasciando gli scheletri in situ), bensì di un'apertura più tarda, che ha coinciso con l'esumazione dei corpi. Le due tombe in facciata, che dovevano essere entrambe integre al momento della costruzione del primo edificio, confermano che non ci furono spoliazioni iniziali, d'altra parte non avrebbe avuto senso monumentalizzare un'area sepolcrale gia violata. 22 ROFFIA (a CUra dj) 1986. 23 VON HESSEN 1986. 24 AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986.
Bibliografia AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986—A. AMBROSIONI -S. LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell Adda nell'Altomedioevo in ROFFIA (a cura di) 1986, PP.167-234. BONA 1974 - I. BONA, I Longobardi e la Pannonia, in La Civiltà dei Longobardi in Europa, Roma, pp. 241-255. DE MARCHI CINI 1988 — PM. De MARCHI S. CINI, I reperti altomedievali nel Civico Museo Archeologico di Bergamo, Bergamo. VON HESSEN 1986 - O. von HESSEN, Considerazioni sui ritrovamenti di Trezzo, in ROFFTA (a cura di) 1986, PP.163-166. YOUNG 1986 - B.K. YOUNG, Quelques reflexions sur les sépoltures privilégiées, leur contexte et leur évolution surtout dans la Gaule de l'est, in L'inFumation privilégiée du IV au VIII siècle en occident, a cura di Y. DuVal e J.Ch. Picard, Paris. MENGHTN 1985 —MENGHTN, Die Langobarden. Archaologie und GeschicAte, 8tuttgart. PAULSEN 1967 - P. PAULSEN, Alamannische Adelsgrdber von Niederstotzingen (Kr. HeidenFeim), Veroffentl. d. 8taatl. Amtes f. Denkmalpflege Stuttgart, A 12/1. ROFFIA (a cura di) 1986 - E. ROFFIA (a cura di), La necropoli longobarda di Trezzo d'Adda, Firenze. ROFFIA SESINO 1986—E. ROFFIA P SESINO, La necropoli, in ROFFIA (a Cura di) 1986, PP.9-162. RUPP 1996 - C. RUPP, Catalogo, in L. PAROLI (a cura di), Umbria longobarda. La necropoli di Nocera Umbra nel centenario della scoperta, Roma, pp. 89-130.
Calvisano e la necropoli d'ambito longobardo in località Santi di Sopra. La pianura tra Oglio, Mella e Chiese nell'altomedioevo
1. Introduzione Una recente indagine che ha avuto come oggetto l'analisi della distribuzione delle necropoli d'ambito longobardo in Lombardia mi ha permesso di mettere in evidenza alcuni aspetti dell'insediamento altomedievale 1. In particolar modo è risultato evidente che la distribuzione dei ritrovamenti con materiali di corredo funerario "d'arme", relativi quindi a liberi exercitales, a datazione più alta (fossile guida gli umboni a calotta conica o emisferica munita di bottone alla sommità datati ancora al VI secolo, o al massimo alla fine del VI secolo 2, si distribuiscono nella fascia centrale di pianura coinvolgendo i territori comunali o i centri abitati di Sirmione (lago di Garda), Leno (BS) Fornovo San Giovanni (BG), Dovera (CR), Trezzo d'Adda (MI), Nosate (Ticino), con l'eccezione di Ossuccio di fronte all'lsola Comacina. Distribuzione che disegna sul terreno un percorso frastagliato, ma regolare nella continuità, che sembrerebbe confermare come nel primo periodo di occupazione il dominio longobardo non si fosse ancora esteso oltre la fascia centrale di p~anura e alle città nominate da Paolo Diacono 3. Solo nel periodo successivo (fine VI/VII secolo) le tracce della presenza di gruppi umani di cultura longobarda s~ estendono a popolare un'area più ampia di pianura e a raggiungere le valli del Ticino e della Tresa, le rive del lago di Como (Fig. 1). Le necropoli di pianura censite dovrebbero corrispondere a nuclei abitati, disposti sul territorio a maglie larghe (Fig. 2), lungo il corso dei maggiori fiumi lombardi, affluenti del Po e lungo strade di tradizione romana, che conducono alle città rege e ducali. In pianura è evidente il loro allineàmento lungo la fascia delle risorgive, che per l'abbondanza d'acque è naturalmente predisposta allo sviluppo insediativo. Nel tratto di pianura, tra Adda e Mincio, considerando le necropoli a maggior numero di sepolture, quelle con corredi funerari più ricchi, nonché gli insediamenti archeologicamente più promettenti, si possono notare due allineamenti: il primo più meridionale che tocca Boffalora d'Adda, Offanengo, Fiesco, Leno, Milzanello, Calvisano, Goito, il secondo più settentrionale che coinvolge Fornovo San Giovanni, Romano di Lombardia, Flero, Sirmione. Tale distribuzione potrebbe indicare direttrici viarie di collegamento interne alla rete insediativa, non documentate per l'età romana. La mancanza di testimonianze consistenti per la bassa pianura, determinata forse da lacune di ricerca, può fare pensare anche che l'allineamento meridionale sia stato condizionato da un limite imposto da ragioni dettate o dalle condizioniidrogeologiche del territorio, o da necessità difensive e di controllo. In sostanza che esso costituisse il limite della possibilità insediativa più meridionale possibile, oltre il quale poteva estendersi forse una “fascia confinaria”, popolata prevalentemente da autoctoni, come parrebbero indicare le scarse testimomanze a disposizione 4. All'interno di questo quadro, I'area considerata presenta ulteriori direzioni di ricerca di notevole interesse, che meriterebbero di essere approfondite con indagini interdisciplinari. La prima nasce dall'evidenza che i ritrovamenti di maggiore entità toccano abitati di età romana (testimonianze epigrafiche, strutture edilizie e viarie), o le loro vicinanze, e nel caso bergamasco, bresciano, mantovano che queste località risultano ancorate alle maglie dell'insediamento centuriato preesistente, in collegamento con il sistema stradale e idroviario di più ampia gittata. Constatazione che indica una tendenza alla continuità di vita degli insediamenti rurali di pianura - e degli insiemi territoriali relativi - tra romanità e altomedioevo finora raramente riscontrata in altre regioni, dovuta alla facilità di approvvigionamento da parte dei nuovi insediati prima e successivamente all'ancorarsi della nobiltà longobarda e della monarchia alla proprietà terriera, con necessità di controllo delle vie commerciali, della produzione, della rendita agricola (i maggiori cespiti economici). Il secondo elemento d'interesse nasce dalla constatazione che le maggiori necropoli "d'arme" di pianura sono lontano dai territori di Cremona e Mantova fino al 602/603 ancora bizantini s, in
posizioni adatte a controllare ed intercettare il passaggio lungo le strade che mettevano in comunicazione la Langobardia con le due città, onde evitare l'eventuale penetrazione in profondità verso le città ducali o "capoluogo". Una linea di demarcazione, spesso in territori di proprietà fiscale (come risulta da documentazione più tarda) 6, sarebbe stata utile, nel periodo successivo alla stabilizzazione dei confini del regno longobardo settentrionale, alla monarchia per controllare dai lembi meridi~nali dei territori ducali le espansioni autonomistiche degli stessi duchi (cfr. rivolte di Gaidolfo, 590, di Alachis, 690/692, guerra tra Ariperto II e Rotari, 700) 7, e l'andirevieni di truppe che questi conflitti, coinvolgenti gruppi delle due fazioni, provocavano sia per l'intervento di eventuali alleati transalpini che provenienti da altre regioni della penisola (il Friuli ad esempio). Nell'area tra Mella e Chiese i ritrovamenti più meridionali si sono verificati a Milzanello e Visano, rispettivamente interessati da una necropoli "longobarda" e dal rinvenimento di una croce aurea decorata a sbalzo, sporadica. Sempre in territorio bresciano la distribuzione dei ritrovamenti mette in rilievo il vuoto di presenze nell'area tra Oglio e Mella, forse determinato dalle periodiche esondazioni e dal divagare del corso dell'Oglio, o forse anche da una situazione incerta nei confini tra le zone di influenza delle città di Brescia e Cremona, in età romana definiti dal fiume 8. È evidente, invece, I'addensarsi delle necropoli "d'arme" nella pianura a Sud di Brescia, che per essere delimitata ad occidente dal Mella, a meridione dall'Oglio e ad Est dal Chiese ha quasi i caratteri di un'isola, facente capo alla vicina città, in posizione intermedia tra cremonese e mantovano (Fig. 3). Un territorio ad alto potenziale agricolo, che dai documenti d'VIII secolo si caratterizza per la presenza di proprietà fiscali, o del patrimonio regio (infra), o di fideles della monarchia, come, ad esempio, lo strator bergamasco Gisulfo 9. La fiscalità di buona parte di queste terre, documentata per 1'VIII secolo, è ragionevole pensare possa farsi risalire alle donazioni ducali in favore della monarchia con l'elezione di Autari (584), o forse alla suddivisione delle terre delle città di Mantova e Cremona con Agilulfo 10, o alla presenza di fiumi in buona parte navigabili immissari del Po, di quasi certa dipendenza pubblica 11. I recenti ritrovamenti di una necropoli (88 sepolture scavate) in località Santi di Sopra (1988) a Calvisano e di altre sepolture nelle vicinanze (199092), che si aggiunge al già consistente numero di aree cimiteriali note per questo paese, uniti allo scavo di una seconda necropoli con vicino insediamento a Leno e di una terza area cimiteriale a Leno/Porzano i~ costituiscono l'occasione per aggiornare le conoscenze e per compiere alcuni approfondimenti su questa area rurale, dipendente dalla città ducale di Brescia, che per le sue caratteristiche di sistema territoriale definito e stabile permette, meglio di altre zone lombarde, di seguire l'evoluzione economica, della proprietà e delle popolazioni rurali tra VI e VIII secolo. Il discorso si incentra su Calvisano, che, finora, è l'abitato di pianura che ha restituito il numero maggiore di necropoli d'età longobarda, e riprende argomenti già in parte esposti in un articolo, che presentava i manufatti pertinenti al corredo di una sepoltura scavata in località Mezzane (infra) 13. 2. Calvisano: le scoperte Nel territorio comunale di questo grosso borgo agricolo-industriale, situato a km 25 ca a Sud/Est di Brescia, sono venute in luce a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso (1891), in momenti successivi e quasi sempre per ragioni casuali, ben quattro necropoli con corredi composti di manufatti d'ambito longobardo, alle quali si aggiungono nuclei di tombe relative ad aree cimiteriali, in parte andate distrutte e in parte ancora da indagare, sempre riferibili all'altomedioevo (Fig. 4). Il numero di tombe segnalato per ciascuna necropoli o nucleo cimiteriale è limitato a quanto tramandato dalle cronache, per i ritrovamenti ottocenteschi, e a quanto si è potuto effettivamente verificare sul terreno o scavare per quelli più recenti. Più precisamente, oltre a Santi di Sopra, sono interessate dai ritrovamenti: - Località Marcadei, a Sud/Est del centro abitato, con una necropoli longobarda di 500 tombe circa (ma il dato è incerto, molto materiale è andato perduto e oggi si conservano manufatti per comporre 11/13 corredi), scoperta casualmente nel 1891, durante scavi di ghiaia per la costruzione di un tratto
della ferrovia Brescia/Parma, che ha restituito numerosi oggetti connessi al costume guerriero longobardo, spade, scramasax, punte di lancia, umboni di scudo e numerose croci auree decorate a stampo, giunti a noi privi delle associazioni di corredo 14. Le sepolture avevano coperture alla cappuccina e a lastre di pietra, muretti in laterizi e ciottoli, o erano costituite da fosse scavate in nuda terra. La località interessata dal ritrovamento dista dal centro abitato km 1,1 circa, è posta presso il torrente Palpice, non lontana dall'oratorio di S. Zeno, distrutto durante i lavori per la costruzione della ferrovia, e dal santuario della Madonna delle Bredelle. - Frazione Mezzane, in area non lontana dalla chiesa di S. Salvatore, situata a N/E di Calvisano e distante da questi km 5,5 circa, nel 1947- durante lavori di livellamento di un campo conformato a dossi - si scoprì e distrusse un cimitero che, dalla documentazione conservata, doveva comprendere qualche decina di sepolture, tutte orientate E/O (scheletro deposto con cranio ad Ovest). Le sepolture erano provviste di coperture alla cappuccina o a lastre di pietra, in alcuni casi con pareti interne intonacate a malta e decorate con croci dipinte e/o incise. L'unico oggetto di corredo ricordato era una croce d'oro (perduta). Nel 1988, in questa stessa località, ai lembi meridionali della necropoli precedentemente distrutta, sempre durante lavori agricoli, emersero altre tre tombe, una delle quali bisoma, contenente oggetti di corredo costituiti da: un pettine in osso a doppia dentatura, un coltellino, elementi di cintura multipla in ferro ageminato da datarsi al secondo e al terzo trentennio del VII secolo 15. - Prati del Giogo, area già nota per una necropoli distrutta da lavori agricoli negli anni '50, ha restituito, nel corso di indagini di superficie (1988), una sepoltura alla cappuccina, orientata E/O, con muretti in laterizi e in mattoni sesquipedali, contenente elementi di corredo costituiti da un coltellino in ferro, una fibbietta a placca fissa in bronzo e cinque linguette bronzee, forse relative al sistema di sospensione delle armi (Fig. 7/A, 1-2). La prosecuzione delle indagini nello stesso sito, ha individuato successivamente altre cinque sepolture, orientate e organizzate su due file. Esse avevano piante variate, struttura in mattoni sesquipedali e in frammenti di embrici legati con malta, ed erano prive della copertura che doveva essere a falde di pietra. I rari oggetti dei corredi si riassumono in una croce in oro decorata a stampo, frammenti di filo aureo, un pettine d'osso con decorazione a cerchielli, un'armilla bronzea, un pendente in pietra ollare con decorazione incisa, un rasoio e un coltellino in ferro, con datazione al VII secolo 16. La località è posta a km 3 (linea d'aria) da Calvisano, in direzione N/E. - Prati del Giogo/Cascina Bagnadello, lungo la strada che da Visano porta a Montichiari (m 600 via aria da Mezzane), un cedimento del terreno ha recentemente messo in luce una sepoltura rettangolare, priva di corredo, con muretti in ciottoli, bozze di pietra e laterizi intonacati 17. - Montechiaresa, frazione di Montichiari, al confine con il comune di Calvisano, una ventina di tombe alla cappuccina, scoperte nel 1958. Una conteneva uno scramasax 18. - Frazione Viadana a N/E di Calvisano, da cui dista km 3,7 (linea d'aria), interessata da un sondaggio nel 1985 (area dell'odierno cimitero), con una sepoltura priva di corredo 19. - Località S. Michele, posta all'esterno del centro storico fortificato medievale, a m' 200 circa dalla rinascimentale chiesa di S. Michele, con testimonianze archeologiche di età tardoromana e altomedievale, costituite da strutture murarie, materiali vitrei e ceramici (tra i quali un vasetto di età longobarda) emersi nel corso di lavori edili (1979) 20. 3. Caratteristiche delle necropoli d'età longobarda di Calvisano Le cinque aree funerarie "longobarde" di Calvisano si distribuiscono attorno all'odierno centro abitato (non lontane da questo oltre km 5/ó), a raggiera nelle direzioni N, N/E, S/E, mentre mancano finora attestazioni per la zona ad occidente del paese dove doveva estendersi un'ampia foresta, che nei documenti di XIII secolo risulta proprietà del monastero di Leno 21. La necropoli di Marcadei, che con le sue 500 tombe è confrontabile attualmente solo con quelle di Cividale del Friuli, Testona (350 sepolture) e Goito (più di 200 sepolture) 22, ha caratteri culturali "germanici", come si evince dai corredi composti da spade, lance, umboni di scudo, speroni, croci
d'oro, guarnizioni da cintura. La sua ubicazione (Fig. 4) rende probabile la pertinenza al centro abitato. La presenza di armi e di manufatti, in taluni casi di valore economico e di pregio, la mettono in relazione con altre necropoli lombarde d'arme (ad esempio Fornovo S. Giovanni, Botticino Sera, Flero, ecc.: cfr. Fig. 2), dove sono sepolti liberi exercitales, appartenenti ad un ceto distinto da buon potere di acquisto e integrato in una rete di rapporti a carattere sovraregionale 23. Rispetto a questa realtà, la parte scavata del cimitero in località Santi di Sopra mostra indubbiamente, al di là dei grossi limiti di documentazione, corredi ridotti e complessivamente a datazione più recente (infra). Oal punto di vista cronologico la necropoli Marcadei dovrebbe essere stata frequentata dagli inizi del VII secolo, forse fine VI 24, alla seconda metà inoltrata del medesimo. A questa fase tarda sono da ascrivere le guarnizioni da cintura in ferro di forme allungate e sottili, tipo Testona, presenti con varianti anche in due sepolture di Santi di Sopra (Fig. 7/B e 7/D), oltre al puntale in ferro ageminato con decorazioni a teste incappucciate, che ha confronti in territorio bavaro, nella necropoli della Selvicciola, in comune di Ischia di Castro (VT) 25. Le guarnizioni da cintura in ferro ageminato ad intrecci zoomorfi (II stile) e a motivi ornamentali ad "S" stilizzati della t. 1 in località Mezzane portano ad una datazione della deposizione nella seconda metà del VII secolo compresi gli ultimi decenni 26; al VII secolo dovrebbero, infine, datarsi le guarnizioni bronzee di tradizione bizantina rinvenute nella tomba di Prati del Giogo (Fig. 7/A). Si tratta in ogni caso di realtà cimiteriali riconducibili al VII secolo, con testimonianze di attardamento nella seconda metà anche avanzata del medesimo, che attestano la contemporaneità dei diversi nuclei insediativi con punto di contatto a partire dal secondo trentennio del secolo. L'elevato numero di aree funerarie che circonda Calvisano, la media grandezza che le contraddistingue (da 20 a 90 sepolture scavate, su totali imprecisati, più le 500 di Marcadei), con dati in continuo accrescimento perchè le scoperte si succedono annualmente, 1' ubicazione in aperta campagna vicino a cascine isolate e, in taluni casi, presso resti di edifici romani, disegna una rete di nuclei abitati rurali (masserie, casali più o meno grandi), disposti attorno ad un centro più importante, lungo percorsi viari di probabile origine romana 27. I1 polo aggregante della popolazione rurale potrebbe essere riconosciuto in località S. Michele, ma occorre approfondire le indagini per appurare a che tipo di edificio siano da attribuire le strutture murarie, le caratteristiche e la cronologia dei materiali ivi rinvenuti. La vicinanza alla odierna chiesa di S. Michele potrebbe far pensare all'esistenza, in questa area appena esterna al centro storico odierno, di un edificio di culto più antico dedicato a questo santo, che si sa caro ai Longobardi. Questa rete di nuclei insediativi fa pensare ad un'organizzazione del territorio già, in qualche modo, consolidata su nuovi assetti di potere, dovuti all'affermarsi della proprietà fondiaria ed ecclesiastica e al rinnovato interesse per il mondo rurale e per l'organizzazione del lavoro secondo un linea di sviluppo simile a quella riscontrata nel territorio della provincia di Siena 23. Mutamento che andrebbe a porsi tra la metà del VII secolo e gli inizi del successivo. Ai decenni centrali e finali del VII secolo, infatti, fanno riferimento cronologicamente tutte le necropoli con corredi di Calvisano (supra). Dai materiali dei corredi funerari e dalle tipologie delle sepolture, messi a confronto, si evidenzia un quadro sociale sfaccettato, che riesce a visualizzare il processo di assimilazione tra popolazione locale di tradizione cristiana e Longobardi e che contemporaneamente indica la presenza di gruppi sociali con caratteristiche diverse: liberi guerrieri, forse proprietari terrieri; individui di rango meno elevato detentori di diritti sulla terra a vario titolo, e contadini (coloni, massari, servi). Non è impensabile la presenza anche di religiosi. Si confrontino, ad esempio, le tombe con corredi d'arme in località Marcadei, le sepolture con corredi selezionati e quelle con pareti interne ornate da croci in località Mezzane, nelle immediate vicinanze della chiesa di S. Salvatore - che viene ricordata perchè punto di riferimento del monastero dei SS. Faustino e Giovita fondato dal vescovo bresciano Ramperto nel IX secolo 29, le sepolture con corredi "simbolici" o affatto prive di corredo nelle località Santi di Sopra e Montechiaresa. Alcuni manufatti dei corredi provenienti dalla necropoli in località Marcadei e dalla sepoltura di Mezzane (armi, guarnizioni ageminate, croci auree a stampo) sono di pregio e comportano una
lavorazione in opifici specializzati o per mano di artigiani anche itineranti 30 e presumono, quindi, che i proprietari avessero disponibilità economica e possibilità di acquisto sul posto (mercato?, luogo di sosta?, luogo frequentato per i buoni collegamenti viari, sede religiosa?), o raggiungendo altre località sedi di mercato. La contiguità tra resti di edifici romani e aree cimiteriali, è accertata in località Santi di Sopra, per la vicinanza alla necropoli di un edificio d'uso abitativo d'età romana, dal quale dovrebbero provenire i numerosi laterizi riutilizzati nelle strutture di alcune sepolture e gli elementi cubici disuspensurae presenti nella t. 62, e per un secondo fabbricato rustico, posto poco più a meridione; per le tombe in frazione Viadana dai resti di un edificio romano mosaicato (località Pates) e da ritrovamenti di materiali ceramici e laterizi romani (frazione Bredazzane). Infine, le sepolture di Mezzane sono prossime ad un terreno che ha restituito materiali ceramici di età romana 31. Per Santi di Sopra e Viadana non è improbabile che, oltre all'uso come cava di materiali, gli edifici preesistenti siano stati utilizzati come basi e strutture di appoggio di nuove abitazioni. Una situazione che avrebbe confronti nella realtà urbana di Brescia (area dell'insediamento longobardo di VI-VII secolo, che precede il successivo sviluppo del monastero di S. Salvatore/S. Giulia, impiantatosi sulle strutture di edifici romani) 32, a Sovizzo, nel vicentino, con sepolcreto posto a poca distanza dai resti di una villa rustica 33, a Fornovo S. Giovanni, nel bergamasco, con parte di una strada romana scavata, risultata ancora in uso nell'altomedioevo, di strutture edilizie, pozzi, tessere musive, manufatti di età romana (anfore, lucerne, monete) nei pressi dell'area dove si estendeva la necropoli longobarda in località Cantacucco/via Cimosse (podere Viticelle) 34, a Trezzo/località San Martino con l'utilizzo di un edificio romano come necropoli (sfruttandone gli spazi interni) e in seguito per sovrapporvi un edificio di culto 35, per fare solo alcuni esempi. Una situazione simile di insistenza insediativa da età romana alla longobarda è stata riscontrata anche in territorio bergamasco in centri strutturati (di raccolta della produzione, di transazioni commerciali, religiosi), come Fornovo San Giovanni, che un documento dell'861 ricorda quale sede pievana con diritti di navigazione, inquisizione e mercato 36, il che fa agevolmente pensare alla presenza di terre fiscali in questa area del bergamasco già in precedenza e ad Arsago Seprio, nel Varesotto, che conserva resti di edilizia monumentale romana di "tipo quasi urbano" 37. Si tratta di centri abitati che dovevano avere conservato la loro funzione di raccordo tra città "dominante" e territorio circostante, grazie alla posizione di snodo viario, a controllo di strade e percorsi di terra e d'acqua, e ad una migliore conservazione delle strutture edilizie e territoriali (centri di culto e/o di mercato). Si è parlato, in casi come questo di Calvisano, di modello insediativo “statico/continuista” in contrapposizione ad un modello più dinamico riscontrabile, ad esempio, a Trezzo d'Adda 38 (area di Cologno Monzese) che, in base all'analisi della toponomastica operata da G. Rossetti (1968), sembra coinvolta già nella prima fase longobarda da modifiche nell'organizzazione di terre appartenenti al publicum in età romana. La definizione di modello insediativo statico/continuista deve essere estesa a fasce territoriali, a insiemi geografici urbanizzati, se si considerano le caratteristiche di questa fascia di territorio bresciano e buona parte della pianora padana, prese ad esempio. 4. Il territorio tra Oglio, Mella e Chiese Questo territorio si qualifica per la ricchezza delle testimonianze archeologiche di insediamenti, tombe e necropoli, che coprono cronologicamente dall'età dell'invasione longobarda a tutto il VII e si distribuiscono in modo capillare (Brandico, Bagnolo Mella, Flero, S. Zeno, Poncarale, Montirone, Leno, Leno/Porzano, Manerbio, Milzanello, Montichiari/ Montechiaresa, Calvisano, Visano) (Fig. 3), con preferenza per l'area più occidentale lungo il Mella, navigabile, ad eccezione di Calvisano e Visano prossimi al Chiese. La continuità di popolamento in epoca successiva è attestata soprattutto da documentazione scritta, che riguarda primariamente la fondazione e la dotazione di proprietà terriere e di corti rurali dei monasteri benedettini di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia (femminile), da parte di Desiderio e della sua famiglia nel 758 circa, e, in modo più rarefatto, di Leno (maschile), anch'esso
voluto e dotato dal re pressapoco negli stessi anni 39. Le fonti altomedievali (archeologiche e scritte) hanno riscontri di continuità insediativa con l'età romana, quando il territorio era fittamente popolato come attestano i ritrovamenti archeologici (edifici rustici, ville, epigrafi, necropoli, rete centuriale) 40 - pur con lacune riguardo alla fase di transizione tra tardoantico e altomedioevo, quando Brescia assunse un ruolo forte nella difesa militare dalle incursioni barbariche e quindi anche il suo territorio dovette esserne coinvolto 4] - e permettono di leggere i tratti peculiari dell'evoluzione di questa area per quanto riguarda posizione geografica, subordinata a Brescia e centrale rispetto al territorio rurale, stabilità pedologica e ambientale, varietà delle fonti di sostentamento (agricoltura, boschi, allevamento del bestiame), organizzazione della terra, caratteri in parte originari e in parte ereditati dall' età romana, quando il territorio corrispondeva alla parte orientale della centuriazione bresciana 42. Per l'altomedioevo manca attualmente uno studio globale, che integri le conoscenze già acquisite con le testimonianze relative agli edifici di culto attestati dalle fonti e da resti materiali, ad altre realtà insediative poco sondate (strutture relative a fortificazioni, a fabbricati rurali, ecc.). L'allacciamento di questo territorio alle valli bresciane e al sistema lacuale dell'Iseo e del Garda, documentato da carte del IX/X secolo e successive, relative alle proprietà dei due monasteri, ne potenziava i caratteri creando un'enclave economicamente e commercialmente autonoma 43. Dalla Val Trompia e dalla Val Camonica giungevano ferro, marmo (vezza d'Oglio) e pietra, dalle colline tra Brescia e Garda la pietra di Botticino. I1 controllo dei principali sbocchi delle valli in pianura era assicurato. I1 sistema di navigazione sull'Oglio e sul Po chiudeva l'arco delle possibilità strategiche e commerciali di questo quadrante territoriale integrato in ciò che restava della grande struttura viaria romana, costituita dalla Postumia (Verona/Calvatone/Cremona), dalla pedemontana (Verona/Sirmione/Brescia/Bergamo), che contribuirono notevolmente a rafforzare il ruolo strategico di Brescia in età tardoromana 44. Le strade Cremona/Brescia, che seguiva grossomodo il corso del Mella (percorso Bagnolo Mella/Manerbio, Pontevico, o in alternativa Quinzano), Lodi/ Brescia, che sfiorava Manerbio, e Mantova/Brescia (percorso per Castenedolo/ Montichiari e Guidizzolo) raccordavano le due grandi arterie 45 e i percorsi che servivano i nuclei insediativi rurali. Le testimonianze più antiche dell'insediamento longobardo sono costituite dalle necropoli di Leno e Leno/Porzano (materiali da corredo funerario di VI secolo, probabilmente pertinenti alla generazione immigrata). A Leno una seconda area cimiteriale, con materiali da corredo di VII secolo, si imposta in parte su un'insediamento con edifici ad alzati lignei, dove sembrerebbe attestata attività di lavorazione del vetro 46. A Manerbio e a Calvisano i ritrovamenti riguardano anche strutture edilizie (fabbricati in legno nel primo caso, in muratura nel secondo) 47. In tutte le altre località la datazione dei reperti di scavo si alza al massimo alla fine del VI secolo (ad esempio le croci auree di Calvisano, che hanno confronti con esemplari simili rinvenuti in territorio pavese) 48 e continua tendenzialmente fino alla fine del VII/inizi dell'VIII secolo. Una verifica dei materiali dei vecchi ritrovamenti potrebbe dare indicazioni più precise. I resti archeologici ed epigrafici più consistenti sembrano, finora, indicare che gli abitati romani a carattere quasi di vico siano da identificare in Leno, Ghedi, Milzanello, Calvisano e Visano, ad eccezione di Ghedi tutti coinvolti da ritrovamenti con materiali d'ambito longobardo. A sua volta Manerbio risulta l'unico vico romano attestato dalle fonti scritte 49. Tutte le località insistono sui limiti della centuriazione, mentre Calvisano e Ghedi sembrano costituire, nella Lombardia orientale, isole centuriali con caratteri propri all'interno di un reticolo che in questa zona sembra più labile so. Tale caratteristica dovrebbe dipendere dalla ricchezza di risorgive, che possono avere imposto - per condizioni naturali - un'organizzazione territoriale diversa da quella centuriale preordinata. dopo la sconfitta del regno longobardo (774), da Carlo Magno che donò il monastero di S. Giulia e le sue pertinenze, compresa la Val Camonica, al monastero transalpino di S. Martino di Tours, CDL, I, n. 52, 774, luglio 16, per assicurarsene un controllo migliore. Per i centri di approvvigionamento di pietra, marmo, metalli in età romana, cfr. TOZZT 1972, pp. 136-137. Calvisano e Porziano sono prediali riconducibili ai fondi agrari della centuriazione. Calvisano stesso deriva da un gentilizio attestato epigraficamente si.
La sovrapposizione o la vicinanza degli insediamenti longobardi agli abitati romani, ma sempre entro le maglie della centuriazione e senza che queste ne sembrino sconvolte, suggerisce che l'incisione fisica della struttura fondiaria romana e della rete dei percorsi vicinali dovesse avere retto alla crisi tardoantica senza subire gravi cedimenti, conservando, anche se contratte e limitate, le tradizioni di un'economia agricola ricca e variata. La presenza di numerose necropoli di armati in pianura nel tratto tra Adda e Mincio (con nuclei più importanti a Boffalora, Offanengo, Fornovo San Giovanni, Milzanello, Leno, Calvisano, Goito e Sirmione sul Garda) può richiamare la tesi degli insediamenti arimannici di confine su proprietà fiscali proposta da G.P. Bognetti (1948). Lo storico ha supposto che i Longobardi avessero conservato e sviluppato un limes di pianura preesistente, utile nella pr~ma fase d~ occupaz~one a fronteggiare eventuali azioni militari dalle vicine città bizantine di Cremona e Mantova (supra). In base alle osservazioni di G. P. Bognetti, altri storici hanno voluto riconoscere, in questa zona, uno tratto dello sbarramento limitaneo nella linea che unisce gli abitati di PralLoino e Gambara, soprattutto in base ai dati toponomastici 52. Di fatto, finora, i ritrovamenti archeologici d'ambito longobardo si arrestano lungo la linea Milzanello-Visano (Fig. 3) (supra), mentre solo dopo la metà dell'VIII secolo, le proprietà dei monasteri di Leno e di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia, supereranno questo "confine" - che poteva essere determinato anche dal maggiore impaludamento delle terre più prossime all'Oglio e a conseguenti necessità di bom`fica - conquistando la parte più meridionale di pianura e raggiungendo il fiume e oltrepassandolo (infra). In questa area sono attualmente assenti tracce di fortificazioni d'età longobarda o preesistenti. Sul Po Paolo Diacono ricorda Brescello 53, conquistata da Agilulfo nella campagna contro Cremona e Mantova. Questo dato potrebbe suggerire la presenza di altri castra, che andrebbero individuati con ricerche mirate e soprattutto mediante l'utilizzo della fotointerpretazione aerea e di attente ricognizioni di superficie. Le fonti scritte ricordano castelli fortificati, eretti per volere degli abati del monastero di Leno durante le incursioni ungare, a Leno, a Gottolengo (964), a Manerbio, mentre la prima menzione di castelli a Milzano e a Calvisano risale nel primo caso al 1041, nel secondo al 1091 54. Le proprietà fondiarie e le corti relative alle istituzioni monastiche di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia e di Leno si estendevano capillarmente, allo stesso modo delle presenze insediative segnalate dalle fonti archeologiche. Oltre a Calvisano e a Leno, abbiamo curtes, ad esempio, a Quinzano (ad occidente sull'Oglio) a Flero, a Leno/Porzano, a Ghedi, a Milzano e a Carpenedolo, a Manerbio, a Gottolengo (nella parte centrale dell'area tra i due fiumi Mella e Chiese) ad Alfiano, importante scalo portuale sull'Oglio 55. Le località con curtes si inseriscono nella rete centuriale romana. Con Desiderio (756-774) la tendenza alla concentrazione delle donazioni rege - da terre fiscali o dal patrimonio della famiglia reale, o derivato da proprietà di grandi possessores appartenenti all'entourage di corte - in un medesima area e nella realtà dei due monasteri prescelti, indica la volontà di compattare in grandi latifondi le proprietà, sia a fini di una riorganizzazione della produzione che a quelli di un maggior controllo politico e territoriale. È stato suggerito che la famiglia reale volesse crearsi una propria area di influenza, lontana dalle ingerenze della nobiltà arricchitasi alla corte dei predecessori, per insicurezza politica e per contenere le spinte antagonistiche delle fazioni interne 56. Per fare qualche esempio concreto, un pracceptum di Desiderio e di Adelchi (772) attribuisce a S. Salvatore/S. Giulia di Brescia un bosco di 4000 jugeri, ritagliato dai possessi regi, confinante con terre del monastero di Leno 57. Le proprietà di S. Salvatore/S. Giulia in Alfiano e Quinzano, lungo l'Oglio, risalgono agli anni poco dopo la metà dell'VIII secolo, le prime corrispondono alle terre un tempo appartenti allo strator regio bergamasco Gisulfo, le seconde derivano da donazioni rege 58. Così lo sviluppo dell'attività manifatturiera e dell' importante e raffinata produzione di pallii serici, che venivano smistati alla corte di Pavia, viene promossa da re Desiderio con la donazione a S. Salvatore dei diritti su due mulini posti poco fuori dalle mura urbane 59, che permetteva un pieno controllo degli impianti produttivi. Durante i secoli IX e X la documentazione scritta si fa più abbondante e permette di constatare l'alta produttivà della corte di Alfiano, che ha ormai assunto i caratteri organizzativi e polifunzionali di un'azienda rurale. Vi si alleva, infatti, bestiame da
produzione, da macello e da tiro (ovini, caprini, suini, bovini, equini) e minuto (oche e pollame). I fabbricati della corte si distribuiscono su una superficie ampia e proporzionata alle esigenze operative della comunità. Il Polittico di S. Giulia segnala, tra i beni, anche una flottiglia di navi usate per il commercio del sale, di granaglie e al trasporto di merci preziose (tessuti e sete). A confronto le corti di Flero e Castegnato hanno varietà di coltivi e attività di allevamento, molto più modeste 60. A sottolineare l'assetto compatto delle proprietà monastiche di S. Salvatore/S. Giulia nel IX e X secolo, si ricorda che la corte di Porzano era provvista, non unica, di 10 aldiones, con funzione di messi 61. Le informazioni riguardo al monastero di Leno sono più tarde e necessitano di una rilettura complessiva 62. In sintesi il quadrante territoriale tra Mella e Chiese è caratterizzato da una costanza insediativa che coinvolge grosso modo gli stessi nuclei o centri abitati da età romana al medioevo. La documentazione archeologica e scritta dal secolo VI al X è sufficiente ad indicare tre momenti di mutamento e sviluppo: 1) post 568/569, primi insediamenti longobardi, finora limitati a quanto scoperto a Leno e a Leno/Porzano. A Leno e a Brescia - nell'area della città romana a N/O entro le mura cittadine e in posizione di controllo viario, dove crebbe l'insediamento longobardo di VI/VII (supra) - si svilupperanno i due più importanti monasteri d'età desideriana (metà VIII). Il dato è forse un significativo indizio della fiscalità delle due aree ab antiquo?; 2) metà VII secolo, la distribuzione, lungo tracciati viari di probabile tradizione romana, delle aree cimiteriali di Calvisano indica, per l'area circostante questo centro, un assetto territoriale in qualche misura compiuto su un modello insediativo e produttivo qualificato da nuclei di abitati rurali sparsi, a carattere polifamiliare, facenti capo ad un "centro di riferimento", che dovrebbe essere localizzato nell'area dell'odierna Calvisano; la qualità dei manufatti dei corredi indica processi di assimilazione culturale tra popolazione locale e longobarda (Santi di Sopra), meglio definibili etnicamente solo con analisi antropologiche; alcune necropoli mostrano strutture funerarie e/o corredi distintivi di status sociale o ranghi medioalti (Marcadei, Mezzane, Prati del Giogo), mentre altre realtà sono meno "caratterizzate" culturalmente e sembrano indicare la coesistenza di tradizioni culturali e religiose diverse (Mezzane); 3) metà VIII secolo, Desiderio e la sua famiglia, spinti da ragioni politiche (crearsi un'enclave di diretta pertinenza), danno l'avvio alla formazione di estesi latifondi, concentrando proprietà terriere e curtes nelle realtà dei due maggiori monasteri bresciani da loro stessi fondati. 5. La necropoli Santi di Sopra La necropoli in località Santi di Sopra è andata in buona parte distrutta, nel corso di lavori di scavo di ghiaia e di recupero di materiali per l'edilizia che ne determinarono la scoperta (1988). Il rischio che l'opera di sbancamento proseguisse in modo clandestino contemporaneamente allo scavo regolare, ha spinto la direzione degli scavi ad attuare una strategia di intervento che, considerata la situazione in cui si operava, permettesse almeno di documentare tutti i dati accertabili in tempi brevi, con particolare riguardo alle caratteristiche generali della necropoli, alla morfologia delle sepolture, alla composizione dei corredi 63. Nonostante i limiti dichiarati e la perdita di numerose informazioni si possiede una documentazione abbastanza esauriente. L'area cimiteriale scavata copre una superficie di mq. 1600, con 87 sepolture recuperate (28 con corredo, corrispondente al 32%, pari a circa un terzo della situazione nota) raggiungendo i suoi limiti originari Sud ed Est, mentre rimangono incomplete le informazioni lungo i lati Nord e Ovest, che corrispondono ai confini del fondo e della cava, in buona parte sbancati prima dell'intervento di scavo. Oltre questi fronti, negli appezzamenti adiacenti si erano conservati resti di laterizi e di lastre di medolo per una superficie di mq 4200, probabile indizio che l'area cimiteriale fosse tanto estesa da ragg~ungere un numero totale di tombe forse triplo rispetto a quello scavato.
La perdita di una parte considerevole di necropoli inficia la lettura dei dati relativi alla porzione scavata. Sfuggono, infatti, le relazioni topografiche, di cronologia orizzontale che dovevano intercorrere tra la parte nota e la restante, andata distrutta. Le considerazioni che seguono devono, quindi, essere ritenute relative. Una ulteriore pregiudiziale per una lettura completa del tessuto sociale del gruppo, cui appartenevano i defunti di Santi di Sopra, è costituito dalla mancata conservazione dei resti scheletrici e dal fatto che le sepolture scavate all'atto della scoperta mancavano di copertura. Ciononostante, poiché gli oggetti conservati sono stati rinvenuti in giacitura, con due sole eccezioni (tt. 83 e 87), la coerenza riscontrata nella tipologia dei corredi, caratterizzata dalla costante presenza di alcuni manufatti e dalla costante assenza di altri, e la cronologia piuttosto omogenea e concentrata prevalentemente nell'arco di decenni che va dal secondo quarto del VII secolo circa al VII inoltrato/inizi del successivo, suggeriscono che furti non ve ne siano stati, o quanto meno che l'assetto complessivo delle sepolture scavate non sia stato sostanzialmente alterato. Le 87 tombe recuperate erano orientate Est/Ovest. Di queste 68 hanno struttura in muratura molto curata, soprattutto nell'adattamento di materiali di spoglio. La stessa cura di esecuzione della struttura funeraria è stata riscontrata nella t. 1 di Mezzane 64; è, quindi, da supporre che nel territorio di Calvisano operassero maestranze specializzate in opere murarie ed edili non soltanto di tipo funerario, in probabile relazione con la persistenza di tradizione costruttive forse determinata dal discreto tenore di vita degli abitanti. Nel quale senso andrebbero considerati e approfonditi anche i rapporti di interdipendenza tra il territorio rurale e la vicina città di Brescia. Tra i materiali utilizzati nelle strutture prevalgono laterizi, ciottoli, lastre di medolo o sfaldature di pietra, con legante costituito da argilla molto plastica 65. Numerosi laterizi ed altri elementi in pietra sono di riutilizzo, probabilmente cavati dalla vicina villa romana (supra). Spesso le tombe in laterizio presentavano una sensibile risalita del fondo verso Ovest, per l'appoggio del cranio del defunto. Quattro tombe erano provviste di cuscino cefali~o, tra queste tre avevano struttura e pavimentazione in laterizi (tt. 69, 77, 78),:mentre la quarta era una semplice deposizione in nuda terra (t. 14). Le deposizioni in nuda terra sono 19 (22% circa), con concentrazione maggiore nel nucleo A, ma le caratteristiche della struttura funeraria non sembrano costituire un discrimine di rango, due (tt. 12, 79) delle 5 tombe con corredo più ricco, infatti, appartengono a questo tipo. In alcuni casi le coperture dovevano essere in embrici disposti a capanna, considerato il rincalzo perimetrale rilevato lungo il bordo del loculo. Questo tipo di copertura è attestato a Calvisano sia in tombe relative alla necropoli in località Marcadei, sia nella sepoltura di località Prati del Giogo che in alcune di Mezzane (cfr. § 2). In soli due casi abbiamo tombe bisome (tt. 17, 19), in un solo caso (t. 62, priva di corredo) è attestato il riutilizzo delle sepolture per una seconda deposizione 66. Nell'area indagata, la necropoli è organizzata in gruppi di sepolture ben d~stmh e d~ d~versa consistenza numerica, probabilmente relativi a singoli nuclei familiari (Fig. 5). Non si può, tuttavia escludere che i nuclei maggiori A e B siano il prodotto della fusione di gruppi minori aggregatisi per l'aumento progressivo delle deposizioni. Infatti, questi due gruppi màggiori sono separati da piccoli aggregati a sè stanti e si distinguono, al loro interno, in "sotto sez~om, ancora percepibili per gli spazi liberi tra le sequenze di file, che seguono allineamenti regolari. L'assenza di sovrapposizioni di sepolture ha fatto pensare alla presenza di tumuli o di segnacoli esterni, che permettessero di individuare e di riconoscere le tombe 67, ma considerata la successione cronologica dei corredi, senza interruzioni, viene spontaneo immaginare una costante frequentazione dell'area cimiteriale che permetteva la facile identificazione dei diversi nuclei e delle singole sepolture, poichè non vi era il tempo per dimenticare una distribuzione topografica nota ai componenti delle diverse famiglie o gruppi. Si può tentare di distinguere le tombe relative ad un “capogruppo>> o ad un “capofamiglia” nei corredi più ricchi e con armi (Tabella alla Fig. 6). Le sepolture con armi (scramasax) si trovano nei nuclei I (t. 42), per altro composto di due sole sepolture, e B (t. 79) (Fig. 5), distanziate tra loro ma ambedue nel settore più settentrionale dell'area scavata. Corredi di un certo "tenore" possono essere considerati anche quelli relativi ai defunti delle tt. 39 (nucleo N), 12 (nucleo A), 61 (nucleo B), situata
accanto alla t. 79 con armi, tutte distinte dalla presenza di elementi pertinenti a due cinture (Figg. 13-14; 7/B e 10/Q). I corredi "ricchi" sono, quindi, abbastanza distribuiti nei diversi nuclei, nonostante che si rilevi una maggiore concentrazione nei gruppi più estesi e in quelli al margine occidentale. Essi si distinguono per la presenza di guarnizioni da cintura reggiarmi in bronzo (tipo a "5 pezzi") e in ferro (multiple), compresenti nel solo corredo della t. 12 (pochi elementi simbolici), e devono essere considerati relativi ad individui di sesso maschile, come in due casi indica con certezza la presenza di scramasax (tt. 42 e 79). Questa distribuzione permette di individuare le personalità di riferimento di una parte della comunità di Santi di Sopra 68, i CUi corredi avrebbero costituito il modello per la restante popolazione e questo spiegherebbe l'abbondanza delle guarnizioni da cintura reggiarmi in ferro e in bronzo in gran parte delle sepolture. Si potrebbe anche pensare che le sepolture con corredo più ricco siano le più antiche e quelle con corredo simbolico, costituito da un solo oggetto, le più recenti 6Y, ma a Calvisano Santi di Sopra un corredo con indice di "benessere" che definiremo medio/ricco, come quello della t. 12 contiene guarnizioni da cintura in ferro con decorazioni geometrico astratte applicate da datarsi al VII secolo inoltrato (forse inizi VIII) che hanno un confronto immediato nel puntale "unico manufatto" di corredo della t. 17 - e le due deposizioni sono topograficamente molto vicine 70 (Figg. 5; 7/B e 7/ D). La definizione di ricchezza per corredi di questo tipo e a datazione tarda si basa solo sul confronto con le tombe prive di corredo o con corredo povero, ma in sé ha scarso significato, considerata la mancanza di punti di riferimento e dati statistici sufficienti a chiarire questi fenomeni. Ritornando alle sepolture i due gruppi più estesi A e B contano rispettivamente 25 sepolture il primo, delle quali 9 con corredo (tt. 7, 11, 12, 14, 17, 18, 19, 26, 29), concentrate soprattutto verso il limite Est, il secondo 19, delle quali 8 con corredo (tt. 37, 44, 53, 54, 61, 77, 79). In ambedue i casi i corredi più consistenti (tt. 12, 61, 79) risultano in posizione abbastanza periferica rispetto all'intero nucleo, talvolta vicini l'uno all'altro, mentre verso il centro del nucleo, come per la maggioranza dei casi alla sua periferia i corredi si rarefanno o scompaiono del tutto. I gruppi minori interamente scavati sono C, con 9 sepolture ed un solo corredo (t.50), abbastanza ridotto; D con tre sepolture e un solo corredo (t. 20, ridotto); E con 5 sepolture, una con corredo (t. 10) limitato ad un coltello; G con tre sepolture vuote; H con due sepolture e un corredo (t.34) costituito da un coltello (Tab. 6); I con due sepolture, una delle quali conteneva un corredo maschile di guerriero armato (t. 42); N con due sepolture corredate (tt. 38, 39). I gruppi L, F, M non sono stati scavati completamente e devono essere considerati residui di concentrazioni più numerose. L si compone di tre sepolture, una sola (t. S9) con corredo povero; F ha 8 tombe indagate, due corredi (tt. 40 e 83), limitati a pochi oggetti; M si compone di quattro sepolture vuote. Isolata presso il limite occidentale dell'area indagata si trova, infine, la t. 72 priva di corredo. Le tombe con un solo oggetto deposto (nella maggioranza dei casi costituito da un coltello, una guarnizione di cintura, una fusaiola) (Fig. 6) corrispondono alle tombe 7, 10, 11, 17, 18, 19, 20, 40, 38, 44, 53, 59, 83, 87, pari alla metà delle sepolture con corredo (14 su 28). Nelle tt. 12 e 61, datate rispettivamente la prima alla seconda metà del VII secolo e la seconda al secondo quarto circa del medesimo, si riscontra la presenza di oggetti di gusto di tradizione romana e bizantina. Nella t. 12, infatti, oltre a guarnizioni da cintura in ferro e in bronzo, abbiamo anche un anello digitale bronzeo, trovato inserito all'anulare della mano sinistra - secondo la tradizione romana attestata, ad esempio, nella necropoli "longobarda" a forte componente romanza di Castel Trosino 71 (Fig. 7/B, 4), dove in genere caratterizza sepolture femminili - appartenente ad un genere diffuso in ambito mediterraneo 72. Nella t. 61, più ricca (Fig. 10/Q, 13), una fibbia bronzea a placca fissa di tipo "Siracusa" da abito accompagna il set quasi completo di guarnizioni bronzee da cintura militare c.d. "a cinque pezzi", composto da fibbia con placca e controplacca ornate da borchie a testa convessa, tre puntali di diverse dimensioni (maggiore e secondari), dei quali uno decorato da due stelle a cinque punte incise, che ha confronti, ad esempio, con la fibbia a placca fissa di tipo bizantino di Ascoli Piceno (provenienza ignota) 73. Vi sono, inoltre, placchette di dimensioni e fogge diverse, tra le quali una a forma di "8" traforato e l'altra ad "S" con teste animali contrapposte 74 (Fig. 10/Q, 10-11).
Guarnizioni bronzee di particolare interesse giacevano anche nella t. 39. Tra queste una placchetta decorata con trafori e cerchi concentrici punzonati (Fig. 9/0, 9), che si rifà al gusto di tradizione tardoromana provinciale, è del tutto estranea al panorama delle forme più diffuse e canoniche nel VII secolo 7s e appartiene al gruppo delle varianti d'imitazione con datazione, per la sagoma allungata alla seconda metà del VII secolo. Essa ha affinità con le placche bronzee della t. 157 della necropoli di Goito (MN) e di Botticino Sera (BS), nonché con la terminazione traforata della placca che completa la fibbia in ferro - a decorazione geometrica in laminette di ottone? applicate (Fig. 7/B, 1-3) - della t.12 attribuibile al tardo VII secolo, che ha a sua volta confronti con esemplari coevi, ad esempio, in area alamanna e nel Veneto. Mentre la controplacca (?) bronzea sagomata e con terminazione a "vaso" (Fig. 10/Q, S) ha confronti con un esemplare della collezione Stibbert di Firenze e ricorda le guarnizioni da cintura tardoromane 76 (Figg. 9/P, 11 e 12). Nelle sepolture 39 e 61 le guarnizioni da cintura erano attorno al bacino (Figg. 12/1 e 12/3), quindi il defunto era stato “rivestito” in modo da indossarle in posizione d'uso, al contrario nella t. 12 (dove sono state trovate in un numero minore di elementi) esse giacevano attorno all'omero sinistro. Sostanzialmente poveri sono i corredi dei nuclei familiari C, E, F, marginali, per i quali, almeno m parte, si può pensare alla pertinenza delle sepolture a famigli (massari, servi, semiliberi, aldii). Nella necropoli mancano sepolture con corredi d'armi canonici del guerriero germanico (spada, lancia, scudo) solo in due casi è attestato lo scramasax (supra), arma da equipaggiamento militare leggero, non indossato ma deposto inserito nel fodero (nella t. 79 si conserva il puntale, nella t. 42 le borchiette ornamentali) (Figg. 13-14) accanto all'omero sinistro del defunto avvolto nella cintura di sostegno, secondo una scelta rituale e simbolica (Fig. 12/2, 4). Corredi con armi limitate allo scramasax possono suggerire che almeno questa parte scavata della necropoli fosse relativa ad un gruppo indigeno che aveva assimilato l'uso del corredo di tradizione merovingia 77, germanizzandosi parzialmente, anche per il contatto diretto con gruppi di exercitales longobardi, la cui presenza nel territorio di Calvisano è ampiamente attestata (§ 2) in tutto il VII secolo - considerato anche che alla metà dell'VIII circa a Leno, poco distante, veniva fondato da Desiderio il monastero, probabilmente su terre fiscali (5 5). Se è corretto pensare che a Calvisano alla metà del VII secolo fosse già venuto precisandosi il processo di riorganizzazione della gestione della terra e del lavoro (S 3/4) risulta plausibile ritenere che i sepolti di Santi di Sopra appartenessero al ceto di "lavoratori dipendenti" che aveva in alcuni casi raggiunto un discreto tenore di vita, come saggeriscono i corredi e la buona fattura di alcune strutture tombali. Un seconda ipotesi può portare ad individuare il gruppo di Santi di Sopra con popolazioni d'ambito longobardo, di ceto meno elevato e ruralizzato. Ma sono ipotesi che necessitano di confronti più numerosi. La definizione etuica e il grado di assimilazione culturale tra i due popoli sono, in mancanza delle analisi dei resti ossei, difficilmente precisabili in base ai soli manufatti perché la foggia e la tecnica di esecuzione di alcuni (Fig. 9/O, 8-10; P, 11-12), pur non essendo specificatamente autoctone, denunciano la provenienza da produzione locale e l'assimilazione del gusto ornamentale di tradizione romanza (infra), mentre per altri è evidente la tradizione più propriamente germanica (guarnizioni da cintura in ferro tt. 12 e 17) (Fig. 7/B, 1-3; 7/D). Ancora rispetto alle necropoli relative a popolazioni indigene mancano reperti femminili (orecchini, bracciali, fibule), anche se tra il materiale erratico figurano un'armilla in bronzo ad estremità aperte e ingrossate, decorate a losanghe reticolate (impresse) (Fig. 10/S, 4) che ha confronti con un esemplare rinvenuto nell'area della necropoli Marcadei 78, e l'anello digitale della t. 12 (maschile). È del tutto assente anche la pratica di deporre monete come obolo 0 viatico, cara alla tradizione romana 79. Sono del tutto assenti i pettini in osso, oggetto comune tanto a sepolture autoctone che longobarde, le croci in lamina d'oro, altri oggetti in metallo prezioso che distinguono in genere le necropoli "longobarde" di fine VVprima metà del VII secolo, le offerte di cibo 80. In tal senso è difficile mettere in relazione i frammenti di contenitore in ceramica di tradizione locale rinvenuti all'esterno della t. 19 con la pratica del banchetto funebre o del viatico 81.
D'altronde si conosce ancora molto poco circa le condizioni e lo status economico delle popolazioni locali o dei ceti medio/bassi longobardi, la documentazione scritta di VIII secolo è relativa ai beni e alle proprietà di possessores d'alto rango. Mentre manca ancora uno studio di sintesi sui ritrovamenti archeologici riferibili alle popolazioni indigene e parallelamente sfugge il tipo di vita ed il tenore economico della popolazione longobarda che non si distinguesse per rango o per alto stato sociale, sopratutto nelle campagne. Nel posizionamento dei reperti, accanto o sul corpo, assistiamo a poche varianti: i coltellini generalmente giacevano tra il torace e l'omero sinistro dello scheletro (tt. 10, 14, 26, 44), o all'esterno dell'omero sinistro (tt. 20, 34, 53,59, 65, 77, coppia), con la punta della lama volta verso l'alto, in pochi casi essi giacevano, invece, lungo il fianco destro, all'altezza della coscia con la punta volta verso il basso (tt. 11, 37). Il primo caso sembra indicare una deposizione simbolica dell'oggetto, il secondo dovrebbe rispettare la posizione d'uso, pendente dalla cintura, custodito in un contenitore in materiale organico. Per gli scramasax relativi alle tt. 42 e 79, protetti dai foderi e avvolti nelle cinture di sospensione si è già vista la deposizione "simbolica", non relativa all'utilizzo dell'arma, ma al suo significato legato alla cultura guerriera, mentre probabilmente erano indossate le cinture rinvenute nelle tt. 37 e 40 (fibbie),39 e 61 (guarnizioni), con elementi metallici trovati presso il bacino (Fig. 12, 1-3). Abbiamo, quindi, indizi di un trattamento diverso del corpo del defunto a seconda degli oggetti simbolo scelti per il suo seppellimento. Riassumendo la datazione relativa alle deposizioni scavate in Santi di Sopra è da porsi a partire dal secondo quarto del VII secolo circa alla seconda metà del medesimo, anche inoltrata, quando abbiamo le maggiori attestazioni. Le sepolture più antiche potrebbero essere la 79 (nucleo B), che conteneva uno scramasax di media lunghezza (lungh. tot. cm 42) e la t. 61 (nucleo B), con guarnizioni bronzee, da datarsi al secondo quarto del VII secolo, e una fibbia da cintura d'abito del tipo "Siracusa" (a decorazione fitomorfa con giglio mediano e volute vegetali) 82 di esecuzione piuttosto accurata, che rimanda a una produzione attuata in grandi opifici a contatto con il mondo bizantino o in area bizantina, mentre al VII secolo inoltrato/inizi VIII si riferiscono i corredi delle tt. 12 e 17 (nucleo A) con elementi da cintura in ferro decorat`ò da laminette di ottone, tipo "Giengen" (supra) (Fig. 9/P, 13-14) 83, la t. 42 con lo scramasax lungo (tot. cm 59,5), la t.39 (nucleo N) con guarnizioni in bronzo traforate e sagomate 84. È da dirsi che le guarnizioni da cintura bronzee presenti a Santi di Sopra mostrano un'ampia gamma di elaborazioni formali (Fig. 11, 2-3), dal tipo quasi "canonico", secondo una definizione data da 0. von Hessen (1983), che prende ad esempio il set di guarnizioni da S. Maria di Zevio, caratterizzate dalla terminazione a scudetto smerlato della placca e dalle borchie bronzee su corona di base zigrinata (o a filo metallico ritorto) applicatevi in prossimità degli angoli (tt. 40, 42, 61, 83), a prodotti di imitazione con profili semplificati e privi di borchie (tt. 14, 38, 61, placchette) (Fig. 11, 1) e di qualsiasi altro motivo ornamentale e, infine, ad esemplari con decorazioni ad occhi di dado o cerchi concentrici puntinati e fortemente sagomati (tt. 12, 39) (Fig. 11, 4). Nelle tombe 39, 61 i diversi tipi sono compresenti nello stesso corredo. Questi diversi tipi nascono da produzioni non standardizzate, di artigianato locale parcellizzato in più centri territoriali. Vista l'alta concentrazione di tipi si può supporre che uno di questi centri fosse la stessa Calvisano. È chiara, nella scelta dei motivi ornamentali e nel gusto per il traforo, l'influenza della cultura del sostrato romano provinciale di età tardoantica (Fig. 9/P, 11). I confronti più evidenti sono costituiti da guarnizioni di Calvisano/ Marcadei e di altre località del bresciano, del trentino, del Veneto, del Friuli, dell'Italia centro meridionale e transalpini 85. Di questa mescolanza o assimilazione tra cultura di "sostrato" e longobarda, un altro tratto caratteristico sembra essere costituito dall'aumentare del numero degli elementi in bronzo (puntali, puntalini, placche) delle cinture a "5 pezzi" (cfr. t.39) (Fig. 9/0, 17), quasi ad emulare la quantità di guarnizioni che caratterizzava le cinture multiple (in oro, argento, ferro ageminato). In questa direzione va anche la selezione operata nella scelta del corredo che, dopo i coltelli, privilegia nei corredi “ad un solo oggetto” la guarnizione da cintura reggiarmi (cfr. tt. 7,17,40,38,83),
evidentemente per il suo intenso significato simbolico. Tale scelta deriva anch'essa dalla cultura tardoromana provinciale particolarmente nelle aree limitanee transalpine 86. A Calvisano lo strumento più diffuso è il coltello d'uso quotidiano in ferro (Fig. 6). Esso è presente come "unico oggetto" (riduzione o simbolo, indizio probabile di basso censo) in sette sepolture (tt. 10, 11, 18,34, 44,59, 87), mentre complessivamente conta 19 esemplari (due nella t. 77). Oltre alla presenza di coltellini e di guarnizioni da cintura (un unico pezzo nelle tt. 17, 40, 38, 83), abbiamo: 3 acciarini (tt. 50, 77, 79), un necessaire da toilette (t. 39) e una chiave (t. 61) 87. Nell'intera necropoli è documentata una sola fusaiola in terracotta (t. 39), deposta alla sinistra del cranio, probabile indizio di sepoltura femminile (insieme all'armilla sporadica) 88. La presenza femminile dovrebbe "nascondersi" nelle sepolture con corredi privi di indicatori specifici dell'individualità sessuale, ad esempio quelle con coltelli d'uso domestico e con fibbie da cintura semplice. Lo scheletro dei defunti, infine, giaceva in posizione supina con capo sempre ad Ovest, in soli due casi si è potuto rilevare che i defunti avevano le braccia incrociate sul bacino (tt. 62 e 64), posizione riscontrata anche per i due scheletri sepolti nella t. 1 di Mezzane 89. È documentata una sola tomba infantile certa (t. 57, priva di corredo). Altre sepolture di bambini, di adolescenti e di donne sono attestate dalle modeste dimensione del loculo 90. PAOLA MARINA DE MARCHI
1 DE MARCHI 1995b, con bibliografia relativa ai ritrovamenti citati in testo. 2 BIERBRAUER 1991, PP. 32-33, fig. 8-19. 3 Hist. Lang., II, 26 e 32. 4 Nel cremonese, ad esempio, i ritrovamenti più meridionali di Madignano/Ripalta Vecchia e S. Bassano hanno restituito sepolture con "corredi" composti di un'armilla bronzea ad estremità ingrossate di VII secolo con riscontri in esemplari autoctoni, nel primo caso, nel secondo solo fili di broccato (tomba molto danneggiata), TOSATTI-GIACOMINI 1985, pp. 135 137, GIACOMINI 1983, pp. 112-113. La necropoli di Canneto sull'Oglio, nel bresciano, BREDA 1987, pp. 159-160, suggerisce, per le sepolture dipinte e l'assenza di corredi una temperie culturale diversa, vedi n. 1S. 5 Hist. Lang., IV, 25-28. 6 DE MARCHI 1995b, p. 42. 7 Hist. Lang., IV, 3; V, 38; VI, 35-38. 8 Tozzi 1972, pp. 104-106. 9 CDL, I, n. 19, col. 38, 759, settembre 17, cfr. GASPARRI 1980, p. 438. 10 Hist. Lang., III, 16, e cfr. Hist. Lang., V, 28, lo smembramento del territorio della città di Oderzo dopo l'occupazione di Grimoaldo, diviso tra i ducati di Ceneda, Treviso, Cividale, costituisce un esempio delle modalità operative usate dai re longobardi per controllare i territori delle città conquistate. 11 Gass., Var., II, 20 e 31; IV, 45, X, 28; Procopio G.G., II, 28. Cfr. CAVANNA 1967, p. 80, n. 9; AMBROSIONI 1986, pp. 169-170 note. La regolamentazione della navigazione fluviale e l'organizzazione dei porti ove pagare il dazio, indice della consuetudine ad utilizzare le vie d'acqua, che in Lombardia è, per altro, proseguita fino a tempi ai noi molto più vicini, è chiara nel patto stipulato da re Liutprando nel 715 con i commercianti comacchiesi, HARTMANN 1 9 04; cfr. VIOLANTE 1 9 8 1. 12 VON HESSEN 1973, pp. 73-80 (vecchi ritrovamenti), BREDA 1992-93b, pp. 82-83. Leno viene cos~ precisandosi come un altro interessante fulcro di nuclei insediativi territoriali. Lo studio delle necropoli recentemente scavate di Calvisano e il catalogo dei reperti sono in corso di studio da parte di scrive. 13 BREDA 1988-89, p. 200; DE MARCHI 1992-93, pp. 295-326. 14 RIZZINI 1894 e 1914; allo studioso e al Cicogna, allora direttore della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, si devono i sopraluoghi a seguito dei ritrovamenti e il recupero di buona parte dei reperti, che vennero depositati ai Civici Musei di Brescia (dove sono tuttora), la stesura della pianta della necropoli e un primo rilievo delle sepolture, cfr. PANAZZA 1964, pp. 137-171. Inoltre, sebbene si sia certi che la necropoli fosse molto estesa, esiste una discrepanza tra il numero di 500 sepolture tramandato dal Rizzini e quello di 900 tramandato da Lechi, cfr. LECHI 1959. 15 Vedi n. 13. In DE MARCHI 1992-93 i confronti per le sepolture con croci dipinte e incise, tra i quali si ricordano solo Canneto suli'Oglio, BREDA 1987, vedi n.4, datate al medioevo Brescia S. Salvatore/ S. Giulia, relative al monastero altomedioevale, BROGIOLO 1992, p. 196, e, infine, quelle scavate nel duomo di Monza, JORIO 1990, pp. 206-210, fig. 221-223, con datazione oscillante tra VI e IX secolo, cfr. CASSANELLI 1989, pp. 71-74, che le distingue in due gruppi, il primo (tt.1-2) di IX, l'altro costituito dalla t.3 sicuramente anteriore e probabilmente di VII/VIII.
16 CHIARINI 1990, p. 133, fig. 149; BREDA 1992-93a, pp. 81-82. 17 BREDA 1992-93a, pp. 81-82. 18 PANAZZA 1964, pp. 163-164. 19 CAPB 1991, p. 43. 20 lbidem, pp. 42-43. 21 BARONIO 1984, pp.18, nn.28-29. La distribuzione di boschi nel territorio di Calvisano nel medioevo è accennata in GUERRESCHI 1989, p. 23. 22 VON HESSEN 1971a; MENOTTI 1994, pp. 97-127. La necropoli di Goito è ancora in corso di scavo. Presentazione dei reperti restaurati in La necropoli longobarda a Sacca di Goito, a cura di E. MENOTTI, Mantova, 1994. Lo studio dei reperti della necropoli Marcadei è in P SESINO, Le necropoli longobarde del bresciano, Tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore/Milano, A.A. 1981-82, relatore prof. A. M. Ambrosioni. 23 DE MARCHI 1995b, pp. 66. 24 Il materiale più antico potrebbe essere costituito dalle croci in lamina d'oro con stampi raffiguranti maschere umane, FUCHS 1938, che le data però al secondo ventennio del VII secolo, attribuzione cronologica che potrebbe essere oggi anticipata, in base ad analisi stilistica, DE MARCHI 1995b, p. 74, n. 205. 25 VON HESSEN 1964, pp. 171-180; INCITTI 1992, pp. 213-217. 26 DE MARCHI 1992-93, pp. 313-317 27 TozzI 1972, che ha identificato i percorsi relativi alle suddivisioni agrarie romane relative a Leno/Calvisano e Leno/Manerbio. La distribuzione delle necropoli "longobarde" intorno all'abitato, lungo i percorsi d'accesso al medesimo, ricorda Cividale del Friuli, LOPREATO 1990, pp. 18-19; Grancia, nel grossetano, lungo la via Aurelia con cinque cimiteri distribuiti nel circondario, VON HESSEN 1971b, e Casetta di Mota, CITTER 1995, p. 208; Povegliano nel veronese altra area insediativa distinta da quattro necropoli databili dall'età della migrazione a tutto ii VII secolo, in zona carente di testimonianze archeologiche romane, ma ricca, al contrario di ritrovamenti preromani. In questo caso le necropoli sono distribuite attorno al paese odierno e coinvolgono le località Ciringhelli con 100 sepolture (1966), Madonna dell'Uva Secca (1981, raccolta di pochi oggetti), Marinare (1992, con recupero di reperti nel corso di uno scavo dell'età del ferro), Ortaia con numerose sepolture, tra le quali una equina e di due cani, LA ROCCA 1989a, pp. 168-170. 28 VALENTI 1995, pp. 63-106, part. pp. 83-93. 29 CDL, I, n. 40, col. 245, anno 841; BOGNETTI 1961, p. 467, GUERRESCHI 1989, p. 54 con segnalazione di documenti del XII secolo. 30 La derivazione da botteghe artigiane e la distribuzione sul territorio ad opera di commercianti, o, forse in parte, grazie all'attività di artigiani-orafi itineranti, come è stato supposto da VON HESSEN 1990, pp. 208-209, può trovare conforto nelle notevoli affinità stlhstlche ed esecutive riscontrabili, ad esempio, tra due croci rinvenute a Fornovo San Giovanni DE MARCH] 1992, p. 210, fig. 6512, decorate con intreccio di animali serpentiformi, a corpo perlinato, e la croce rinvenuta a Visano (km 4 circa da Calvisano), RIZZINI 1914, p. 39, tav. 1 che sembrano battute sullo stesso stampo. Affinità soprattutto di gusto si riscontrano tra le crocl con decorazlom a maschere umane circondate da dettagli zoomorfi (musi) e da nastri perlinati di Calvisano/Marcadei, FUCHS 1938, tavv. 17, nn. 80, 18, nn. 78-79, 19, n. 77, e quelle nnvenute nel pavese, PERONT ]967, tavv. XXII, n. 89; XXIV, n. 96. 31 BREDA 1988-89. Cfr. Ia contiguità tra resti archeologici di età romana e i ritrovamenti altomedievali: Malpaga, CAPB 1991, n. 232; Viadana/ Località Pates e frazione Bredazzane, Ibid., nn. 218, 229-230, Mezzane, Ibid., n. 225, e carta allegata Dó/lV. 32 BROGIOLO 1992, pp. 179-210. 33 RIGONI-HUDSON-LA ROCCA 1988, pp. 229-233. 34 DE MARCHI 1988a e 1995a, pp. 68-70, per il ruolo di fulcro svolto da Fornovo S. Giovanni; nuovi importanti ritrovamenti d'epoca romana e longobarda sono emersi recentemente in via Cimosse, FORTUNATI ZUCCALA 1991, p. 63, e 1992-93, pp. 77-78. 35 LUSUARDI SIENA 1992, pp. 136-137. Ulteriori confronti Sono segnalati in DE MARCHI 992-1993. 36 CDL, 1, 861, 11 marzo, col. 350, n. 213; cfr. JARNUT 1981, pp. 20, 35, 97, n. 100, 6, 157. 37 DE MARCHT 1995b, pp. 41, 56-58. 38 BROGIOLO 1991, pp. 159-160. 3911 monastero di S. Salvatore/S. Giulia dovrebbe essere stato edificato nel 758, cfr. BROGIOLO 1992, p. 204, n. 83; per l'epoca di fondazione del monastero di Leno, precedente alla elezione al trono di Desiderio, cfr. BOGNETTI 1961, p. 434, n. 2, con citazione dei Diplomi regi di conferma dei beni e dei privilegi concessi all'istituzione, relativi ai secoli dal IX al Xll. 40 TOZZI 1972, pp. 101-152. 41 Vedi n. 44. 42 TOZZI 1972, tav. XIII. 43 Dalle scritture di X secolo (Polittico, inventario delle proprietà del monastero attribuito ai primi anni del secolo) sappiamo che al mercato di Iseo, proprietà appunto del monastero di S. Giulia, PASQUALI 1992, p. 139, affluiva il ferro scavato nelle valli, cfr. ODORICI 1858, V, pp. 17-18, p. 567. In BOGNETTI 1961, part. pp. 434-435, 441, il quadro generale della diffusione dei beni del monastero nella penisola e l'analisi dell'interscambio tra grossi centri monastici, rientrante nella politica di controllo della popolazione di Desiderio, attestata per Leno dal fatto che il re avesse voluto, quale primo abate della nuova istituzione, Petronace monaco a Montecassino. La presenza di monaci bresciani e
provenienti dall'ltalia settentrionale a Montecassino è attestata da fonti epigrafiche e rientra sempre nella logica di controllo delle maggiori vie commerciali, strategico-militari, e della produzione (transiti alpini, produzione, commercio di prodotti agricoli, manifatture specializzate nella lavorazione della seta, di altri tessuti, metallurgia), condotta dalla monarchia. La stessa politica di controllo fu applicata, dopo la sconfitta del regno longobardo (774), da Carlo Magno che donò il monastero di S. Giulia e le sue pertinenze, compresa la Val Camonica, al monastero transalpino di S. Martino di Tours, CDL, I, n. 52, 774, luglio 16, per assicurarsene un controllo migliore. Per i centri di approvvigionamento di pietra, marmo, metalli in età romana, cfr. TOZZI 1972, pp. 136-137. 44 Milano Capitale 1990, p. 445, la.3 (rete stradale dell'ltalia settentrionale). TOZZI 1972, p. 143, nn. 388-389 ricorda l'importanza di Brescia nei secoli IV e V attestata da dediche imperiali e dalla frequente emanazione di leggi dalla città, spesso residenza della corte e dell'esercito. L'importanza strategica di Brescia e del territorio del Garda, è evidente, ad esempio, nella battaglia vinta da Claudio il Gotico, nel 268, sugli Alamanni combattuta alla Selva Lugana, poco distante da Sirmione, cfr. BROGIOLO 1989. 45 TOZZI 1972, T'art. pp. 122-124 (la Brescia/Mantova è segnalata da fonti medievali ma l'autore ritiene “difficile pensare” che questa strada entrasse in funzione dopo il 476). 45 Ved in. 12. 47 Manerbio, BREDA 1986, pp.127-128; Calvisano, CAPB 1991, n. 223. 48 Vedi n. 24. 49 TOZZI 1972, pp. 127-128, 130, 132. 50 Ibidem, p. 115, n. 295. 51 CIL, V, 4053, 4859. 52 BOGNETTI 1948, pp. 144-148; BARONTO 1984, p. 212. 53 Hist. Lang., IV, 28. 54 ODORICI 1 858, ~ doc. 38, p. 45, e VI, p. 13, 10 dicembre. BOGNETTI 1961, pp. 502503; SETnA 1984, p. 157 e n. 22, p. 205 (riferimento alle differenze tra le fortificazione in pietra di Leno e quelle in legno di Gottolengo, cfr. MALVEZZI 1729), p. 242, n. 149, p. 246. 55 PASQUALI 1978, pp. 142-167, e 1990, pp. 131-145 (distribuzione delle curtes di S. Salvatore/S. Giulia secondo il Polittico: vedi n. 43). Analisi della produzione cerealicola dell'allevamento e delle caratteristiche delle curtes di Alfiano, Flero e Castegnato in MONTANARI 1985, pp. 356, tav. 3, 227, tav. 12, 229, 237, 246 n. 125 304, 419.11 valore della corte di Alfiano è valutato in RUGGINI 1961, pp. 493-494, 499-50i (tavole). 56 BOGNETTI 1961, pp. 425-426 e ss.; GASPARRI 1980, pp. 436- 442. Vedi n. 43. 57 CDL, III, n. 41, 772, giugno 14, Pavia, p. 241. 58 Alfiano venne acquistata in due soluzioni, la prima che vide il rector del monastero comprare dal vescovo di Lodi alcune terre già proprietà dello strator regio bergamasco Gisulfo, CDL, I, n. 19, col. 38, 759, settembre 17, per conto della badessa, la seconda ad opera della badessa Anselberga medesima che rilevò quanto ancora detenevano dell'eredità del padre Gisulfo le sue due figlie, CDL, II, 155, 761, settembre 10. Quinzano, donazione di beni regi da parte di Desiderio, CDL, I, n. 18, col. 36, 759, gennaio, e n. 20, col. 40, 760, ottobre 4. 59 CDL,111,1, n.39, p.232,767. La produzione di tessuti in seta, già in età desideriana, se non precedente, è attestata in CDL,1I, n. 158, (761?), pp. 89-90, documento che impegna le monache a pagare per l'utilizzo della condotta d'acqua - che dalla porta dei Beati Martiri Faustino e Giovita attraversava, prima di giungere al monastero, anche i terreni e le proprietà appartenenti alle chiese di S. Desiderio, S. Giovanni Evangelista e S. Eufemia - al clero della cattedrale palii de blata melesla e de blata fusca, cfr. BETTELLI BERGAMASCHI 1992, p. 148. 60 MONTANARI 1985, p. 356, tav. 3. 61 BOGNETTI 1961, p. 509. 62 Cfr. BARONIO 1984. Vedi n. 39. 63 BREDA 1988-89, PP. 201-202, al quale si rimanda per ogni informazione riguardo le modalità di scavo, la raccolta e la selezione dei dati, le prime considerazioni sulla struttura delle sepolture e i corredi. 64 BREDA 1988-89, P. 200. 65 Ibidem, p. 203, fig. 178, con analisi della distribuzione dei diversi tipi tombali nei vari nuclel. 66 Ibidem, p. 201. 67 Ibidem, p. 201 68 Cfr. LA ROCCA 1989b, p. 89, n. 48; J0RGENSEN 1992, pp. 44-45. 69 Cfr. Ie considerazioni di MARTIN 1986, pp. 147-196. 70 Cfr. datazioni in VON HESSEN 1980, pp. 123-129, tav. I-II. 71 Tombe 30, 65, 93, 124, 164,168, 173,220, MENGARELLI 1902, pp. 89, tav. IX/12 104, tav. X/ó, 126, 156, 172, fig. 223, 174, tav. XIV/4-5, 177, 193-194. Questi anelli sono generalmente pertinenti a sepolture femminili e continuano la tradizione dell'anello matrimoniale o di fidanzamento di età romana, DE MARCHI 1988b, pp. 224-225. 72 Nel repertorio ornamentale degli anelli tardoantichi e altomedievali, la croce di S. Andrea, incisa sulla piastra dell'esemplare della t. 12, è uno dei motivi più diffusi nei secoli V, VI, VII, cfr., a titolo indicativo, gli anelli di Corinto, DAVIDSON 1952, tav. 103, 1853, e 105 1925 della necropoli di Meizza, presso Pinguente in Istria, t. 86, TORCEILAN 1986, tav. 22/ 7. L'aneilo delle t. 12, unico nella parte di necropoli finora scavata e che si viene a trovare in un corredo da ritenersi maschile, si distingue per la lavorazione abbastanza accurata nei dettagli ad esempio, le due costolature che
evidenziano la piastra, cfr. anello argenteo di tradizione romana da Carpino, provincia di Foggia, D'ANGELA 1988, tav. LXVII, 21. La componente mista longobarda e romanza (con persistenza di tradizioni tardoromane nella struttura delle sepolture) dei defunti deposti nella necropoli di Castel Trosino è stata di recente evidenziata da un'attenta analisi di PAROLI 1995, pp. 199-212. 73 Fibbie di tipo "Siracusa" in WERNER 1955, pp. 36-48, con carta di distribuzione dei ritrovamenti in tutta l'area delle ex province dell'impero romano, e in VON HESSEN 1983, pp. 29-32, per un aggiornamento cfr. RIEMER 1995, p. 778 ss. carta di diffusione a p. 799, fig.30. La fibbia con placca e la controplacca della cintura a "5 pezzi" hanno confronti, non puntualissimi, con gli esemplari della t. 40. In ambedue i casi si tratta di varianti del tipo canonico al quale assomigliano nelle caratteristiche formali, cfr. VON HESSEN 1983, pp. 24-27, che le data a partire dagli inizi del VII secolo (con prototipi negli ultimi anni def VI), ma perdurante a lungo (VII secolo inoltrato). Riscontri, tra i molti, si hanno con esemplari di Calvisano/Marcadei, RIZZINI 1914, p. 42, 200, tav. V, 58, che ha quasi le stesse dimensioni dell'elemento della t. 40 di Rodigo/Corte Pannicella, ROFFIA 1982, p. 106, fig. 83, 2-3, di Testona, VON HESSEN ]97ia, tav. 40, 362 e 367; di Nomi, in Trentino, CAVADA 1992, pp. 118-119, fig. 18, 2-3, con scudetto terminale apicato, di Povegliano t. 1, LA ROCCA 1989a, tav. XXXII. Fibbia di Ascoli Piceno, ABERG 1923, fig. 20, e PROFUMO 1995, p. 156, fig. 114; il motivo delle stelle a cinque punte incise, di tradizione tardoantica e bizantina, è frequente su oggetti di diverso genere, ad esempio anelli digitali di IV-VI secolo, con ritorno di moda nei secoli X e XI, cfr. manufatti dagli scavi di Corinto, DAVIDSON 1952, tavv. 104, 1872-1873; 105,1925 e 1927-1929; 106, 1897 e 1939. 74 Queste placchette non sono ancora state nosizionate esattamente nelle ricostruzioni di cinture militari e delle cinghie di sospensione dene armi, nei corredi però sono spesso associate con elementi di cinture multiDle m metallo Drezioso, cfr. Arcisa t. 12, VON HESSEN 1971b, p. I 8 tav. 4/3 (ad "8" senza trafori); a Monte Suello in Valdonega t. 4, VON HESSEN 1968, tav. 10/1 a Trezzo d'Adda t. 4, ROFFIA-SESINO 1986, pp. 78-79, tav. 31 (a teste di cavallo contrapposte in argento con decorazioni a niello), in ricca tomba di cavaliere con equipaggiamento composto da cintura da spada e da scramasax, in contesto da datarsi al secondo trentennio del VII secolo, VON HESSEN 1986, pp. 165-166- a Cividale, necropoli di Piazza della Resistenza, AHUMADA STIVA 1996, tav. III, 3; a Castel Trosino t. 9, MENGARELLI 1902, pp. 79, n. 9, fig. 70-72, una placchetta nnvenute vicino al femore smlstro del defunto msleme ad un puntale in argento da cintura multipla e ad un fibbia di tipo "Siracusa", databili attorno alla metà del VII secolo. Nel caso della t. 61 si può, quindi, pensare che una di queste placchette guarnisse la cintura d'abito in associazione con la fibbia di tipo "Siracusa', mentre recentemente si è ipotizzata una loro funzione come elemento di chiusura di borse, RICCI 1995, p. 255. Una ripresa del custo tardoantico nella seconda metà del VII secolo è stata messa in evidenza da MELUCCO VACCARO 1978, pp. 9-71, a proposito delle guarnizioni da cintura multipla in ferro ageminato (nel motivi decorativi e nel e iscrizioni salvifiche m latino). 75 VON HESSEN 1983, pp. 24-27, per il quale il tipo "canonico" è esemplificato dalle guarnizioni di S. Maria di Zevio a Verona. 76 Goito, DE MARCHI 1994, tav. XIII/4, datata alla seconda metà del VII secolo, Botticino Sera RIZZINI 1894, tav. IV/19; necropoli alamanna di Giengen t. 36, PAULSEN-SCHACH DORGES 1978 pp. 104-105, tav. 25, 11, 13, 17, datata alla seconda metà del VII secolo; Gargagnano, DrovinCia dl Verona, LA ROCCA 1989a, tav. XIV/4; Pettinara in provincia di Perugla, etc.: da ultimo RIEMER 1996. La placca della t. 39 ha confronto ad esempio, con altra da cintura militare tardoromana, decorata ad occhi di dado, cerchielli e cerchl concentrici con punto mediano punzonati, da Lochenstein in HASELOFF 1979, fig. 1, a sua volta affine all'esemplare, privo di provenienza, della collezione Stibbert di Firenze'VON HESSEN 1983, tav. 13, part. n. 1. Cfr. fig. 9/P, 11-12, in questa sede. 77 Cfr. il processo di assimilazione tra popolazioni indigene e germaniche nelle necropoli retiche tardoantiche ed altomedievali di Bonaduz, Sézegnin, Kaiseraugst, MARTIN 1986. In Lombardia esempi di scYamasax, come unica arma di corredo sono attestati a Trescore Balueario in sepoltura con speroni, e a Cologno al Serio, DE MARCHI 1995a, Scheda 4, p. 3, in relazione ad individui che in vita appartenevano probabilmente ad un ceto modesto, romanzi o IQngobardi che fossero. 78 Civici Musei di Brescia n. inv. SB 4. 79 La continuità della tradizione romana della moneta deposta nella sepoltura con funzione di obolo/viatico a Caronte, nell'altomedioevo e oltre, è analizzata in D'ANGELA 1983 pp.82-91, che ricorda le monete, non forate e riutilizzate a ciondolo, dei cimiteri "longobardi" di Cividale del Friuli, di Nocera Umbra e Castel Trosino, ma gli esempi sono sicuramente più numerosi. Sullo stesso argomento cfr. AMANTE SIMONI 1990, pp. 231-242, che partendo dall'analisi statistica della necropoli tardoantica/altomedievale sarda di Cornus, constata come nei corredi relativi alle necropoli autoctone, le monete/obolo siano attestate in numero maggiore rispetto a quanto emerge dall'analisi dei corredi delle necropoli a carattere germanico. 80 A Nocera Umbra, ad esempio, le offerte di cibo sono attestate in 22 sepolture su 165, cfr. D'ANGELA 1983, pp. 85. Più precisamente nelle tt. 26 (ossicini di pollo), 30 (gusci d'uova), 36 (gusci d'uovo, ossicini di pollo), 37 (gusci d'uovo), 38 (gusci d'uovo), 41 (gusci d'uovo),42 (ossa di pollo e di agnello),54 (gusci d'uovo),58 (gusci d'uovo), 75 (gusci d'uovo), 79 (ossa di ovini, avanzi di gusci d'uovo), 84 (gusci d'uovo, mascella di maiale), 85 (gusci d'uovo), 87 (ossa di polli e gusci d'uovo), 93 (frammento di femore di ovino), 100 (ossa di pollo, costole di agnello, gusci d'uovo), 105 (gusci d'uova), 111 (ossa di pollo), 117 (pezzi di gusci d'uova), 121 (gusci d'uovo), 128 (guscio d'uovo), 130 (gusci d'uovo), 140 (gusci d'uovo e ossicini di pollo), PASQUI-PARIBENI 1918, cc. 216, 221, 235, 238, 241, 242, 251, 254, 269, 273, 277, 282, 287, 288, 292, 296, 303, 306, 310, 315, 316, 323. In genere queste offerte completano sepolture ricche o medioricche, fatto che suggerisce la relazione tra deposizione di cibo nella sepoltura e status sociale.
81 MARTIN 1986, P. 166. 82 Il quadro generale di datazione degli scramasax è in VON HESSEN 1971a, p. 18. 83 Vedi n. 76. 84 Vedi n. 76. 85 Guarnizioni da cintura privi di borchie e con decorazione im~ressa, datate alla seconda metà del VII secolo, sono, tra i numerosi esempi, nella necropoli alamanna di Kierchheim t. 167,NEUFFER M0LLER 1983, tav. 28/8-10; a Trento-Palazzo Tabarelli t.7, CAVADA CIURLETTI 1986, fig. 25; a Nago (TR), CAVADA 1992, p. 107, fig. 8-10; a Michele dell'Adige e lizzana, AMANTE SIMONI 1981, p. 80, nn. 22-25; a Borgomasino (Pv), PERONI 1967, tav. XXIX, 104107; a Botticino Sera (BS), RIZZINI 1894, tav. IV/20; a Goito (MN) t. 157, DE MARCHI 1994, pp. 52-53, tav. XIII/1-4, tav. XIV/1; a Padova, LA ROCCA 1989a, fig. 8, 10; a Cividale-Piazza della Resistenza, AHUMADA SILVA 1996. Si vedano, ancora, gli esemplari conservati presso la collezione Stibbert di Firenze in VON HESSEN 1983, tav. 13, Castel Trosino tt. 90 e 205, RICCI 1995, fig. 170, 174, 209. Per la ripresa della tradizione tardoromana vedi note 74-76. Cfr. si hanno anche con le fibule a testa digitata decorate a traforo e a impressioni geometriche di VI e VII secolo, ad esempio quelle rinvenute a Darfo, Corna di Darfo in Val Camonica, RIZZINI 1914, tav. III, e a Villa Lagarina (TR), AMANTE SIMONI 1981, p. 80, tav. IV8). 86 MARTIN 1986, pp. 165, 179, 187; KELLER 1989, pp. 426-427; CAVADA 1992, pp. 99129. 87 Cfr. necropoli altomedievali istriane, dove il coltello è uno degli elementi più comuni, TORCELLAN 1986. Gli acciarini sono ben documentati anche nella necropoli di Calvisano/ Marcadei con quattro esemplari (Civici Musei di Brescia nn. SB 236-239), RIZZINI 1894, p. 43, 240-243. Nella necropoli autoctona di Meizza, in area istriana, acciarini sono presenti in sepolture datate dal VI all'VIII secolo, TORCELLAN 1986, pp.51 -52. Per questo tipo di strumento deve ancora essere precisata la seriazione cronologica delle diverse fogge documentate. 88 Nel cimitero altomedievale autoctono di Meizza abbiamo - il dato statistico è molto indicativo - 19 fusaiole su 18 tombe femminili, TORCELLAN 1986, p. 53. Questo strumento è documentato, però, anche in tombe infantili e maschili, forse usato come ornamento, giocattolo amuleto cfr. BOLLA 1988, p. 218, tav. XI, 16-19, con indicazioni bibliografiche. 89 BREDA 1988-89, p. 200. 90 Ibidem, p. 203. Ringraziamenti Si ringraziano per avere autorizzato questo studio la dr. ssa Elisabetta Roffia, al tempo della scoperta della necropoli, Soprintendente reggente della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, e il dr. A.M. Ardovino, che le è succeduto nell'incarico; dello stesso ufficio ricordo con affetto la dr.ssa Filli Rossi e il dr. Andrea Breda, per l'assistenza prestatami e per le preziosi informazioni. Ringrazio ancora la dr.ssa Clara Stella e Gerardo Brentegani dei Civici Musei di Brescia per avermi agevolato in ogni modo controlli e verifiche sui materiali della necropoli Calvisanoi Marcadel, conservatl presso il museo. Un ringraziamento va infine ad Enrico Cavada, dell'Ufficio Beni archeologici della Provincia autonoma di Trento e ad Isabel Ahumada Silva per la disponibilità al confronto dimostratami. A mia madre Elena Dornig. Disegni dei reperti di Tino Pacchieni, Soprintendenza Archeologica della Lombardia. Carte di distribuzione di Alberto Longoni.
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Le sepolture a Brescia tra tarda antichità e prima età longobarda (ex IV-VII)
1. Continuità e cristianizzazione delle necropoli romane L'elenco dei primi vescovi bresciani è riportato in una pergamena del XII secolo 1. Da questo documento, che sulla scorta di taluni riscontri è generalmente giudicato attendibile, risulta che tutti i vescovi di IV e V sec. vennero sepolti nelle chiese sorte nelle aree cimiteriali suburbane a sud e a ovest della città 2. In quella meridionale, nella chiesa di S. Faustino ad sangninem 3 edificata sul lato orientale della via per Cremona, 250 metri a sud della porta che nel Medio Evo è denominata porta Matolfa, furono inumati i vescovi Faustino e Latino (IV secolo). Di quest'ultimo si conserva l'epigrafe funeraria 4, scoperta nel 1464 presso la porta della chiesa. A ovest della medesima via, in S. Alessandro sarebbe stato sepolto Gaudioso, vescovo della prima metà del V sec. s, mentre in S. Lorenzo sarebbe stato invece deposto il corpo di Ottaziano, vescovo di Brescia che partecipò al concilio di Milano del 451. Nell'area cimiteriale lungo la via per Verona, il vescovo Filastrio (seconda metà del IV sec.) fece erigere la chiesa memoriale di S. Andrea, nella quale avrebbe poi trovato sepoltura 6. Poco lontano sorgeva S. Apollonio, luogo di inumazione, oltre che del vescovo omonimo, anche di altri due presuli: Ursicino e Rusticiano 7. Lungo la via triumplina, sul versante orientale del Castello, sorgeva S. Eusebio presso la porta romana che dalla chiesa derivò poi il nome; vi si rinvennero nel 1497 le spoglie di Paolo I vescovo di Brescia degli inizi del V sec. 8. Fu distrutta nel 1516-17 per far spazio alle fortificazioni veneziane 9 e non abbiamo alcuna informazione sull'area cimiteriale ad essa circostante. Ad occidente della città, nei pressi della via per Milano, era invece ubicata, se è corretta l'identificazione, suggerita dalla lista episcopale, con la chiesa che nel Medioevo venne denominata di S. Giovanni evangelista, la basilica del Concilium Sanctorum, fondata dal vescovo Gaudenzio nell'anno 400. Anche in questo caso non abbiamo alcuna indicazione di un'eventuale area cimiteriale 10. Quantunque vi siano informazioni assai frammentarie sulla cronologia e sulle circostanze dell'edificazione della maggior parte di questi edifici, sembra plausibile una progressiva cristianizzazione delle aree cimiteriali suburbane, secondo un modello ben attestato in altre città tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, un modello che trovava nella vicina Milano di Ambrogio un esempio da imitare. Questo processo di cristianizzazione degli spazi funerari anticipa presumibilmente la riorganizzazione urbanistica, allo stato della ricerca genericamente datata tra V e metà VI secolo, che fece di Brescia una città "munita", efficacemente protetta da un rinsaldato sistema difensivo 11. La riorganizzazione comportò l'abbandono degli isolati meridionali, la ricostruzione delle mura, allargate verso ovest, la riqualificazione della sommità del colle, ove era un tempio romano, in luogo di culto cristiano forse collegato ad una funzione militare (un castrum testimoniato nell'838 è infatti da riportare ad epoca più antica); la costruzione del palatium nell'area dell'attuale piazza Vittoria, I'insediamento del complesso episcopale ad occidente, la realizzazione di un porto canale e, come conseguenza dello spostamento del baricentro politico-religioso ad occidente, la marginalizzazione dei quartieri centro-occidentali, più direttamente coinvolti in un processo di destrutturazione sia urbanistica che architettonica. Una perdita non solo di qualità ma anche di funzione e di identità architettonica che investe in primo luogo gli edifici del centro monumentale della città romana. Le murature del teatro, del Capitolium, delle taverne che affiancano il Foro, della basilica e delle domus sopravvivevano ancora in parte in alzato, ma le pavimentazioni marmoree e musive venivano in gran parte asportate e lo strato di
preparazione tagliato da una serie di buche, mentre macerie di livellamento (testimonianza di progressive demolizioni) si alternavano a piani di calpestio con focolari e buchi di palo. In questo contesto urbano degradato, che ho ipotizzato fosse di pertinenza della corte regia longobarda, si inserisce un gruppo probabilmente di condizione servile le cui manifestazioni di cultura materiale sono caratterizzate da un'edilizia residenziale povera, da numerose attività artigianali che spaziano dalla lavorazione del ferro a quella delle ceramiche, dell'osso, dei tessuti e, aspetto che qui particolarmente ci interessa, dalla deposizione dei morti presso le abitazioni. Alcuni isolati del comparto orientale della città vengono inoltre ridotti a coltura, mentre sul lato opposto, in un grande edificio ad ali (forse il palazzo tardo antico), si insedia la corte ducale longobarda. 2. Sepolture ed aree cimiteriali nella prima età longobarda Allo stato della ricerca, non vi sono sicure testimonianze di sepolture all'interno delle mura prima dell'età longobarda (fine del VI secolo), ma va rilevato che la datazione è resa possibile in alcuni limitati casi dalla presenza di corredi, in altri dalla posizione delle sepolture nella sequenza degli scavi stratigrafici, m altri ancora rimane incerta tra V e VII secolo. Distinguerò, sulla base dell'ubicazione: (a) tombe all'interno delle mura, (b) tombe in prossimità delle mura e dunque presumibilmente riferibili all'insediamento urbano, (c) tombe deposte in una fascia compresa tra 1 e 3 chilometri dalle mura, pertinenti perciò ad una fascia di insediamento suburbano. a) tombe all'interno delle mura Sono localizzate in quattro distinti settori della città: (1) sulla sommità del colle Cidneo, nell'area del castello, testimoniato nell'838, ma che, come si è detto, potrebbe risalire ad epoca più antica, (2) nell'area della presunta corte regia, che comprende l'area monumentale della città romana fino alle mura orientali, (3) nella braida realizzata nel VII secolo a sud del decumano massimo, verso oriente, (4) ed infine presso la cattedrale di S. Maria, costruita, forse nel V secolo, presso le mura occidentali della città. 1. LE SEPOLTURE NEL CASTELLO A partire da Titianus (fine del V) e fino a Densdedit (fine VII), nove vescovi su tredici furono inumati in città; di questi, ben sette sul colle Cidneo. Nella chiesa di S. Stefano in arce, o meglio nella memoria o martyrium paleocristiano sul quale la chiesa venne costruita nell'XI secolo 12, trovarono sepoltura quattro vescovi della prima età longobarda (Dominatore, Domenico, Paolo III e Anastasio). Nella cripta di S. Pietro in Oliveto si rinvennero nel 1453 le reliquie dei vescovi Paolo, Cipriano e Deusdedit (vescovi del VII sec.), nonché quelle del martire Evasio 13; anche Ansoaldo, alla fine dell'VIII secolo, sarebbe stato sepolto, secondo la lista episcopale ante uestigium 14 della chiesa, nella quale si conservano 15 resti architettonici e scultorei tardolongobardi. L'antichità dell'area cimiteriale presso la chiesa di S. Pietro è confermata dal rinvenimento avvenuto nel 1883 di una sepoltura longobarda con spada e monete tardoromane, unitamente ad altre 50 sepolture prive di corredo 16. Un centinaio di metri più a sud, un'altra sepoltura con spada (longobarda?) è venuta fortuitamente alla luce una trentina d'anni fa, presso S. Cristo 17. 2. SEPOLTURE NELLA CORTE REGIA Il comparto orientale della città, tra il Foro e le mura, era presumibilmente occupato, come si è detto, dalla corte regia longobarda. Comprende due isolati con domus, sulle quali si insedierà poi il monastero di S. Salvatore, e il complesso monumentale pubblico della città romana, con il teatro, il Capitolium, la basilica ed il Foro. In quest'area a partire dal 1980 gli scavi stratigrafici hanno fornito puntuali indicazioni cronologiche, mentre preziose informazioni sono venute da analisi
antropologiche di due distinti campioni, quello di S. Giulia (scavi 1980-87) e del teatro-Capitolium-Foro-basilica (scavi 1988-92). 2.1 Negli scavi di S. Giulia (1980-1992), sono state rinvenute sepolture particolarmente in due distinti settori 18: nel cortile di Sud Ovest, presso abitazioni databili tra fine VI e VII secolo, sono venute alla luce cinque sepolture (un feto, tre bambini e quattro adulti); nell'Ortaglia di S. Giulia, in una sequenza anteriore, contemporanea e successiva ad una capanna affiancata ad una strada, databile tra fine VI e VII secolo, le sepolture erano sette (quattro di adulto, due di adolescente e una di bambino), mentre in una tomba scavata nella strada vennero deposti nove individui (un bambino, due adolescenti, sei adulti). 2.2 Gli scavi di Vicolo Deserto (area del teatro), piazza Labus (basilica), palazzo Martinengo (taberna del portico del Foro e adiacente complesso termale) e casa Pallaveri (Capitolium) hanno restituito complessivamente 20 sepolture databili tra fine VI e fine VIII secolo, con 32 individui, 28 tra bambini, neonati e feti e solo quattro adulti 19. Le analisi antropologiche hanno dimostrato 20 come la mortalità più alta si manifestasse entro il primo anno di vita, diminuisse tra i 7 e gli 11 anni per poi risalire lievemente tra gli 11 e i 16. I caratteri antropologici "sembrerebbero richiamare le moderne popolazioni del centro-sud Italia", mentre le malformazioni da stress alla braccia, ai piedi ed alla schiena indicherebbero il loro impiego abituale in attività artigianali. 2.3 A questi rinvenimenti da scavi stratigrafici sono poi da aggiungere le tombe rinvenute in passato: (a) in via Piamarta, Ortaglia degli Artigianelli (1957): tomba alla cappuccina, priva di corredo 21; (b) nello sterro dell'iposcenio del Teatro (1958), in contesti con ceramica longobarda 22; (C) nell'Ortaglia di S. Giulia (1968): cinque tombe, tre delle quali con corredo rispettivamente di anello argenteo e collana di perle, pettine, cintura a cinque pezzi 23. 3. A sud del decumano massimo, le insulae occupate da domus romane vennero trasformate nel VII secolo in un'area probabilmente di pascolo 24. Alle fasi più antiche di questa trasformazione si riferiscono due sepolture a cassa, la prima con copertura alla cappuccina, la seconda piana, contenenti rispettivamente un individuo adulto e un adulto assieme ad un adolescente 25. 4. AREA DELLA CATTEDRALE DI S. MARIA Dalla zona circostante la cattedrale di S. Maria Maggiore provengono tombe con corredo: nel 1929, tra il portale d'ingresso e la cappella della Madonna si rinvennero sepolture “con fr. di ceramica, fibbie di cinturoni, vetri "pertinenti ai corredi"” 26; non molto lontano, ma in un contesto insediativo, nel 1991 sono state scavate stratigraficamente due sepolture, databili tra fine VI e inizi VII secolo 27 t. 1 in fossa terragna che taglia riporti della metà del VI secolo, che a loro volta sigillano fasi d'uso di un edificio di V-VI; t. 2 posteriore alla prima, a cassa di muratura riusata più volte per 7 individui, contenente un puntalino di cintura dell'inizio VII e un ardiglione di fibbia di fine VI-inizi VII. Da collegare con la cattedrale sono infine le due sepolture rinvenute nel 1957, una delle quali aveva una croce rossa dipinta all'interno 23. Risulta particolarmente significativo che, a fronte di una concentrazione delle sepolture in tre distinte zone della città, per i rimanenti comparti urbani non vi sia da segnalare che un solo rinvenimento in via Gambara di una tomba con copertura in embrici 29. Dal che si deduce che la pratica di seppellire in città non era indiscriminata, ma legata a specifici fattori: a) un sepolcreto organizzato nell'area del castello; b) un secondo sepolcreto organizzato presso la cattedrale; c) sepolture isolate presso le case nella corte regia e nella vicina braida. Questo modello, definitosi con la prima età longobarda, perdura anche nei secoli successivi, salvo nel comparto dove venne fondato il monastero di S. Salvatore. Degno di nota è anche il fatto che i soli corredi di armi provengano da aree cimiteriali poste sul castello, presso la strada che dal decumano portava alla porta di S. Eusebio. Non sappiamo tuttavia se siano o meno pertinenti alla medesima area cimiteriale e ci sfuggono, in assenza di dati archeologici puntuali, le relazioni con la chiesa cimiteriale di S. Pietro, nella quale, come si è accennato, trovarono sepoltura tre vescovi del VII secolo. Pur essendo all'interno delle mura, l'area del castello poteva
peraltro essere considerata distinta dal tessuto urbano della città e avere quindi una propria area cimiteriale organizzata 30. Sullo sfondo di queste testimonianze aleggia poi il problema, del tutto rimosso dalla storiografia, della cattedrale e delle chiese ariane in una società longobarda bresciana che fino al tempo di Alahis, duca di Trento e Brescia ribelle contro il cattolico Cuniperto, conservò un peculiare attaccamento alla fede tradizionale. b) tombe in prossimità delle mura, riferibili all'insediamento urbano Scarsi e non ben databili sono la maggior parte dei rinvenimenti di sepolture altomedievali nelle zone immediatamente esterne alle mura 31. 1. Una necropoli, presumibilmente longobarda e organizzata, presso la corte ducale è testimoniata dal Malvezzi, il primo storico bresciano che fu testimone diretto alla fine del XIV secolo del rinvenimento di sepolture di individui di alta statura con corredo di armi, avvenuto presso la porta sud-occidentale della città, che a seguito di questi rinvenimenti prese il nome di porta Paganora 32. 2. Altre aree cimiteriali organizzate, almeno fino alla fine del VI secolo e forse anche più tardi, si trovavano presso le chiese cimiteriali meridionali, in parti colare attorno al martirio di S. Faustino 32. Gregorio Magno nei Dialoghi 33 ricorda un episodio avvenuto nel 563-69, al tempo dell'occupazione bizantina. Il vescovo corrotto acconsentì a che vi venisse sepolto il patrizio Valerianum, uomo dissoluto, ma il santo, scontento di questa inumazione, apparve di notte al custode della basilica, affinché ingiungesse al vescovo di allontanare dal luogo consacrato quel cadavere. Da questo racconto si deduce che (a) la chiesa era cimiteriale, (b) era retta da un custode, ma (c) dipendeva dal vescovo che aveva l'autorità di concedervi un'inumazione privilegiata. Una continuità dell'uso funerario di questo martyrium e dell'area cimiteriale circostante potrebbe forse desumersi dal fatto che il vescovo Cunipertus, ancora alla fine dell'VIII secolo, vi troverà sepoltura. Funzione funeraria aveva anche la chiesa di S. Alessandro, poco distante da S. Faustino, dietro l'abside della quale nel 1931 si rinvenne una sepoltura forse altomedievale, con fondo in embrici e copertura in lastra di pietra 34. Mancano invece notizie, e l'assenza appare significativa, del rinvenimento di sepolture altomedievali nell’area delle necropoli romane poste lungo via Cremona; il restringersi dell'area abitata con l'abbandono delle insulae a sud di via Tosio aveva probabilmente determinato, fin dalla fine del IV-inizi V secolo, un progressivo spostamento verso nord anche delle aree cimiteriali. 3. Solo tre sepolture, databili genericamente tra tarda antichità e altomedioevo, provengono poi dalle zone adiacenti alle mura occidentali 35. Altrettanto scarse sono le informazioni per la zona ad oriente della città, dove lungo la via per Verona vi era l'altra grande necropoli romana. Anche in questo settore, nei pressi delle mura erano sorte le basiliche cimiteriali di S. Andrea e S. Apollonio, ma non sappiamo per quanto tempo abbiano mantenuto una funzione cimiteriale. Del tutto incontrollabile è infatti la notizia riportata da Ottavio Rossi del rinvenimento, presso la chiesa di S. Floriano, pure edificata in quest'area, dell'epigrafe del primo duca longobardo di Brescia 36. Per il settore settentrionale manca infine l'ubicazione dei materiali di VI/VII rinvenuti nel 1894, in Borgo Trento, tra i quali sono da segnalare una fibula autoctona, un'ascia e un coltello in ferro e alcuni vaghi di collana 37; non possiamo perciò dire, considerata l'estensione del Borgo Trento, se si tratti di sepolture da riferire alla città o all'insediamento sparso circostante. A parte queste notizie incontrollabili, è certo degno di considerazione il fatto che dalle aree immediatamente esterne alle mura non proviene alcuna sepoltura con corredo longobardo. Ricchi corredi si trovano invece in una fascia più lontana dalla città, da uno a tre chilometri dalle mura. c) Tombe riferibili ad un insediamento sparso in area rurale attorno alla città TOMBE CON CORREDO LONGOBARDO
a) Nei pressi della via per Mantova, in loc. Volta, in un'area cimiteriale utilizzata fin dall'età romana, sono state individuate numerose sepolture nel 189394, 1938 e 1961. Dalle tombe scavate nel 1883-84 furono raccolti, senza alcuna distinzione di corredo, tre spade, due sax, una punta di lancia, due umboni, tre coltelli, due asce, una fibbia e un'armilla 38. La tomba scavata nel 1938 aveva invece un corredo completo di umbone, spada, scramasax, fibbie, coltelli, assegnabile al secondo quarto del VII secolo 39. La sepoltura del 1961 era priva di corredo 40. b) Da S. Polo, via Arici 48 (1979) provengono tre tombe a cassa litica con fondo in tavelloni e copertura in lastre, dalle quali proviene una fibbia longobarda del VII secolo a piastra triangolare mobile e sagomata 41. c) A sud-ovest della città, in loc. Bottonaga è segnalata una tomba longobarda 42. d) A ovest, nei pressi della via per Milano, sono state recuperate due tombe con ricco corredo longobardo. In Via Vantini nel 1919 una tomba con spada, fibbia, calice in vetro e bacile in bronzo 43. Nei pressi, da via Villa Glori, da una tomba a cassa con copertura di lastra di pietra, distrutta da una ruspa nel 1976, proviene una croce con lamina d'oro (C.A.B. 611). e) A nord, sono segnalate due distinte aree cimiteriali con tombe longobarde. A S. Bartolomeo, una tomba della metà del VII secolo con corredo di spada, lancia, scramasax, umbone, sperone, guarnizioni di cintura multipla ageminate 44 Si trovava accanto ad altre tombe a cassa litica senza corredo 45. Nell'occasione si rinvennero numerosi embrici: da tombe sconvolte o da edificio ? Poco più a sud, da via S. Donino (1956) provengono due tombe a cassa con fondo in lastre e copertura in "grossi embrici" con corredo longobardo; la prima con sole fibbie e placche; la seconda con spada, sax, fibbia,`vaso a sacchetto 46. TOMBE PRIVE DI CORREDO a) A sud della città, cinque sono le aree di rinvenimento: (1) tra via Codenotto e via Codignole, in un'area destinata ad attività funerarie anche in età romana, sono venute alla luce, in tempi diversi, sepolture genericamente datate all'altomedioevo 47; sempre da via Codignole (1983) provengono tombe romane 48; (2) in Via Lamberti G. (1963) è stata scoperta una tomba alla cappuccina priva di corredo 49; (3) in Via Malta (1988), una tomba a cassa litica so; (4) in via fratelli Bronzetti, una tomba alla cappuccina "tardoromana o altomedievale" priva di corredo si; (5) in Via Bagni, condominio Elle: due sepolture ad inumazione di età tardo-romana o altomedievale 52. b) A nord, in via D'Azeglio (1961) sono segnalate tombe a cassa litica prive di corredo, di incerta cronologia 53. c) A ovest, in via Carducci è stato fatto il solo intervento di scavo stratigrafico che ha messo in luce i rapporti tra un'area cimiteriale ed una struttura produttiva in uso dalla tarda antichità al pieno medioevo s4. Alla fase più antica vengono riferite tre sepolture ad inumazione in nuda terra, di forma ovoidale o antropoide; una di bambino "costituita da due anfore resecate longitudinalmente e affrontate" è, per il tipo delle anfore, tardoantica. In una seconda fase viene realizzata una banchina portuale o impianto produttivo idraulico, costituito da una grande costruzione nord sud, seminterrata a ovest e sud e formata nei due-tre corsi inferiori da materiale lapideo romano di reimpiego messo in opera a secco alla quale si connette ortogonalmente altro muro realizzato con ciottoli e frammenti di laterizi. Tra il materiale romano, si segnalano due basi per statue iscritte, erette in età adrianea dai collegia fabror?~m et centonariorum, probabilmente lungo la via mediolanensis, il cui percorso non doveva passare lontano dalla zona del rinvenimento. In una terza fase vengono costruiti dei portici aperti addossati al precedente impianto produttivo. Successivamente e per la maggior parte all'interno di uno dei vani interpretati come porticato, vengono deposte 19 sepolture: quattro alla cappuccina, le altre a cassa m muratura con copertura piana. Alcune utilizzano, oltre a materiale romano di reimpiego, anche laterizi di modulo bassomedievale (cm 25/26 x 11/12 x 5/ó), mentre dalla tomba 4 proviene una moneta anonima dei vescovi di Mantova (1150-1256).
Questa importante sequenza sembra plausibilmente da riferire ad un'area insediativa con funzione produttiva almeno in alcuni periodi, ininterrottamente utilizzata dall'età tardoromana fino al bassomedievo e in stretta relazione con le sepolture. Conclusione L'insieme di tutti questi dati (tombe con corredo longobardo, tombe prive di corredo, scavo stratigrafico di via Carducci) mostra in modo inequivocabile che l'area suburbana era caratterizzata da un insediamento sparso, probabilmente di aziende agricole e di attività produttive. Le sepolture di VII secolo con ricco corredo longobardo (rinvenimenti della Volta, di S. Donino, di S. Bartolomeo, di via Vantini e di via Villa Glori) si prestano ad una duplice interpretazione: che in alcune di queste aziende si fossero inseriti, nella prima metà del VII secolo, longobardi di rango elevato, oppure che i proprietari di queste aziende avessero assunto modelli culturali tipici della classe dominante. La prima ipotesi rientra in un'interpretazione di rottura tra tarda antichità e altomedioevo, la seconda privilegia un quadro di continuità. Nella maggior parte dei casi, accanto alle tombe con corredo ne sono state trovate altre che ne sono prive, secondo un modello che si sta rivelando come il più diffuso. Talora potrebbe essere spiegato con una differenza cronologica; tal'altra come compresenza di cultura romana e cultura germanica. E infine oltremodo significativa, almeno per tre di questi siti (quello della Volta, di via Codignola e di via Carducci) la continuità con una necropoli romana o tardoromana, che sottintende, come è dimostrato per via Carducci, anche una continuità dell'insediamento. Queste conclusioni aprono peraltro una serie di prospettive di ricerca nei rapporti tra città e territorio che non possono essere sviluppate, per ragioni si spazio, in questa sede e sulle quali mi riprometto di tornare in un prossimo specifico contributo. GIAN PIETRO BROGIOLO
1 GRADONICUS 1755. 2 PICARD 1988, p. 232. 3 PICARD 1988, p. 220, nota 81, con bibl. 4 CIL V 4846, ILCV 1038. Per PICARD 1988, p. 223,1'epigrafe poteva provenire dalla necropoli a sud di Brescia, non necessariamente dalla chiesa. 5 GRADONICUS 1755, pp. 70-71. 6 S. Andrea, costruita appena fuori della porta romana, che per la presenza del luogo di culto, assunse nell'Altomedioevo la denominazione di porta di S. Andrea. Da alcuni ritenuta primitiva cattedrale, andrebbe in realtà interpretata come “chiesa memoriale che Filastrio nel 387-390 può aver eretto seguendo l'esempio di S. Ambrogio” (PICARD 1988, p. 227) consente pur in modo dubitativo, CANTINO WATAGHTN 1990, p. 154). Vi sarebbe poi stato sepolto ii vescovo bresciano, secondo una glossa al più tardi del XII secolo, apposta al sermone di Gaudenzio per il XIV anniversario della sua morte: Sermo de vita et obitu beati Filastrii episcopi praedecessoris sui, 4, ed. A. GLUCK, CSEL, 68; mass.
Queriniano A.I.8, f. 153: Iacet ad Sanctum Andream, titulus autem sebulchn eius siti iuxta altare beatissimi Andree Apostoli in meridiana plaga, hic erat: Filastrius beatissime memorie lic requiescit in pace (PICARD 1988 p. 227, nota 105). Ramperto nell'838 fece traslare il corpo del santo nella cattedrale iemale urbana di S. Maria (ODORICI 1855, IV, n. 28). 7 PICARD 1988, p. 225, per CANTINO WATAGHIN 1990, p. 154 “non sembra di poter attribuire a S. Apollonio una grande antichità, dal momento che il culto del Santo, figura in ampia misura leggendaria, è relativamente tardo”; si può peraltro pensare che la dedicazione derivi dalla presenza del corpo del vescovo omonimo. 8 SBRUNATI 1854, I, p. 80. 9 ID., I, p. 72. 10 GAUDENTIUS, Tr. 17. Sia S. Gaudenzio, sepolto ad sanctum Johannem de foris che il suo secondo successore Teofilo si trovano in S. Giovanni, ma l'identificazione dei loro corpi è solo del 1602, per PANAZZA 1988, p. 18 e CANTINO WATAGHIN 1990, p. 154 rimarrebbe di incerta ubicazione, cfr. anche PANAZZA-DESTER-VIEZZOLI 1975. La prima attestazione certa è solo del 1087 (KEHR 1913, p. 316); nel 1116 viene definita come ecclesia S. Iohannis que dicitur de fora, qune est posita in suburbio civitatis Brixiae, extra portam quae dicitur mediolanensem, nel 1151 fu distrutta da un incendio (ST.BS, I, p. 358, n. 2) e nuovamente ricostruita nel 1440-47. 11 Su questo tema rimando a due miei recènti contributi, limitandomi in questa sede ad una sintesi che consenta di collocare nel loro contesto anche il fenomeno delle sepolture) BROGIOLO 1993, 1996. 12 BREDA 1987-88. 13 FAINO 1665, p. 59; GRADONICUS 1755, p. 96; ONOFRI 1850, p. 33, n. 1. 14 La fagade: PICARD 1988, p. 241. 15 PANAZZA 1988, nota 106 con bibliografia. 16 PANAZZA 1964, p. 142; C.A.B. 97. 17 Vi è una foto del rinvenimento presso i Civici Musei, nella quale si vede lo scopritore brandire la spada all'interno di un'arcata dell'ordine più alto del teatro, dove era stata ricavata la tomba. 18 BROGIOLO-CUNI 1986, alle quali vanno aggiunte due sepolture rinvenute nel cortile di sud ovest rispettivamente nel 1989 e 1991. 19 Le sepolture degli scavi 1988-95 nelle zone monumentali della città sono state oggetto di una trattazione specifica da parte di Leonardo De Vanna (DE VANNA 1996), dalla quale ricavo i seguenti dati. In vicolo Deserto sono venute alla luce due sepolture: T 1, a fossa in nuda terra di adolescente, T2 a fossa in nuda terra coperta da un coppo, di bambino. Nel palazzo Martinengo sono stati scavati due settori distinti: (a) nelle tabernae che si affacciavano al porticato occidentale del Foro, posteriori ad un piano d'uso con ceramica longobarda, sono state individuate cinque tombe: t. 1 in nuda terra coperta da laterizi, con due neonati e due feti e pettine lavorato; t. 2 in nuda terra coperta da laterizi e pietre, con 6 neonati o feti; t. 3 in nuda terra, con giovane individuo, t. 4 a cassa di muratura coperta da laterizi orizzontali con adulto di sesso femminile; t. 5 entro coppi, con neonato, (b) in una sequenza di VII-VIII con fasi d'uso in ambienti frazionati del complesso termale, vi erano invece tre tombe: t. 1 entro coppi di neonato, t. 2 a cassa di muratura di bambino, t. 3 a cassa in muratura di bambino. In Casa Pallaveri, nell'area del Capitolium, sono state scavate quattro distinte sequenze: (a) nel sondaggio 1988 è stata messa in luce una tomba a cassa in muratura in contesto di fine VIII, con quattro bambini, (b) nel settore 1: 4 tombe in contesti di VII-VIII: t. 1 in nuda terra di bambino; t. 2 a cassa in muratura coperta da tegole piane, con resti di bambino, ma le dimensioni della tomba (lungh. m 1,80) sono per un adulto; t. 3 a cassa di muratura con copertura di tegole e lastra, con tre bambini e un adulto; t. 4 alla capuccina, di bambino, (c) nel: settore 2: 3 tombe in contesti di VII: t. 1 a cassa di muratura coperta da tegole, di bambino; t. 2 a cassa di muratura coperta alla cappuccina, di adulto; t. 3 alla cappuccina, di bambino; (d) nel settore 5: una tomba in nuda terra, coperta da laterizi, di bambino. In piazza Labus, una tomba alla cappuccina di infante è di incerta cronologia. Appartiene infatti ad una fase posteriore all'abbandono delle quote della basilica flavia e anteriore ad un pavimento di malta relativo alla riorganizzazione altomedievale dell'edificio: potrebbe segnare sia l'episodio di chiusura della fase tardoantica di frequentazione dell'edificio pubblico romano che il primo episodio della sequenza più propriamente altomedievale (DE VANNA 1996, p. 288). 20 CATTANE o 1996. 21 C.A.B. 397. 22 MIRABELLA ROBERTI 1963, p. 265, n. 1. 23 PANAZZA 1978, p. 80. 24 BROGIOLO 1993, ANGELUCCI 1991. 25 In vicolo dell'Aria: t. a cassa in muratura con copertura in laterizi alla cappuccina, alla base della sequenza agraria della braida (VII secolo); in Vicolo Orientale: t. a cassa in muratura con copertura piana in laterizi, analoga posizione stratigrafica della precedente (DE VANNA 1996). Nel medesimo contesto di area ruralizzata, in via Cattaneo angolo via Candia, nel 1962 si rinvenne, sulla rasatura di un muro romano, una tomba probabilmente altomedievale (C.A.B. 107). 26 C.A.B. 175 l-m. 27 Via Trieste angolo via Paganora (C.A.B. 583; DE VANNA 1996). 28 Individuate a sud del Duomo Vecchio: C.A.B. 184. 29 Via Gambara 2 (1930: C.A.B. 223). 30 PICARD 1988, p. 220, nota 82: “on ne sait jusqu'à quand cette nécropole est restée en usage”.
31 MATVEZZI 1729, IV, 31: sepulcra etiam, intra quae cadavera magna valde jacebant ornamentis militaribus redimita in ipsius foveae profundo reperta sunt; et lorum inventionis causa praefatam Cittadellae januam Paganorum vocaverunt autumantes corpora illa nobilium Paganorum fuisse. 32 Da via Monti, presso la chiesa di S. Afra (1918), proviene la tomba ad inumazione coperta da lastra con iscrizione (ora presso i Musei di Brescia), “databile forse tra VI e VII secolo” (C.A.B. 328). 33 4, 54 ed. A. DE VOGUE, SC, 265, pp. 178-81. La notizia nella storiografia locale riferita al 590 (ODORICI 1854-56, II, PP. 204-207), è spostata dal Bognetti (1963, I, p. 403) al breve periodo di occupazione bizantina (s63-s68). 34 C.A.B. 345. 35 Da via S. Chiara (1967) una tomba alla cappuccina tardoromana o altomedievale (C.A.B. 451); da Corso Mameli, a 30 m dalla Pallata (1989), una tomba altomedievale (?) che riutilizza un'epigrafe romana (C.A.B. 279); da Corsetto S. Agata (1961), una tomba a cassa litica con copertura piana (C.A.B. 4361. 36 Dell'epitafio funebre del duca Alahis, ricordato da Paolo Diacono (H.L., II 32) come duca della città nel periodo d'interregno, il Rossi tramanda il seguente testo epigrafico: Hic est tumba Alabis dux alta columbal fuit vir prudens et princeps optime studens/ ut Brixia floreret et paci pulcra adereretlcristiana qui morte gaudet maxima sorte) che sarebbe stato rinvenuto al momento della demolizione della chiesa suburbana di S. Fiorano, avvenuta nel 1517 (ROSST 0., St. bresc., ms Cod. Quer. D.I.6, f. 54, B, VI, 27, f. 44r; Troia, IV, n. CXX, p. 318). Il Panazza (PANAZZA 1988, p. 23, nota 62, con bibliografia relativa), la ritiene del sec. X o XI per ll cursus leomuo dei versi. 37 RIZZINI 1914, nn. 75, 76, e tav. IV fuori testo. 33 RIZZINI 1894b, pp. 39-50. 39 SESINO 1986, p. 38. 40 In via Duca degli Abruzzi presso l'ospedale psichiatrico (1961): tomba a cassa litica altomedievale (?) (C.A.B. 166). 4i C.A.B. 516. 42BOSETTI 1955, p. 182; C.A.B. 43. 43 CARRETTA 1982, p. 18, n. 9, tav. 2, n. 6; C.A.B. 593. 44 SESINO 1896; C.A.B. 445. 45 S. Bartolomeo (1907): “tombe a cassa a sarcofago” senza corredo: C.A.B. 446. 46 C.A.B. 460. 47 In via Codenotto (1958): tomba a cassa con copertura alla cappuccina in embrici (C.A.B. 117); in via Codignole 48 (1949): tomba alla cappuccina priva di corredo (C.A.B. 118); in via Codignole (1975): tomba a cassa litica con fondo in laterizi (C.A.B. 120). 48 C.A.B. 121. 49 C.A.B. 243. 50 C.A.B. 277. 51 C.A.B. 49. 52 C.A.B. 24. 53 C.A.B. 153. 54 BRIDA 199l; C.A.B. 86.
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Considerazioni conclusive Poche parole di conclusione per esporre le idee suscitate nell'ascoltatore dalle relazioni presentate in questo Congresso. Il commento più ovvio e spontaneo è che il progresso della ricerca sulla documentazione archeologica, in particolare sull'archeologia funeraria, conferma la crisi dei modelli tradizionali con cui si è cercato di ricostruire la cultura longobarda, o dell'età longobarda, in Italia; nello stesso tempo si arricchisce e complica il panorama dell'evoluzione culturale avvenuta in quell’epoca, grazie anche ai confronti che divengono possibili tra le diverse regioni italiane. Parlando di modelli tradizionali intendo quelli che per descrivere e spiegare i costumi funerari dei longobardi in Italia fanno in vario modo riferimento alle necropoli di tipo "merovingio": consistenti raggruppamenti di sepolture ordinate m righe, pertinenti ai soli immigrati germanici, caratterizzate dai corredi dei defunti tra cui le armi hanno rilevanza e significato particolare. Sia la deposizione rituale dei corredi, sia gli oggetti che li costituiscono vanno intesi come espressione della cultura germanica, anche se comprendono oggetti di fattura romano-bizantina; le tombe senza corredo che si trovano in questi cimiteri vanno interpretate come sepolture dei dipendenti romani dei longobardi, oppure come inumazioni tarde, posteriori alla definitiva- cristianizzazione che comportò l'uso delle sepolture senza corredo, frequentemente collegate ad una chiesa, urbana o rurale, ed eventualmente l'adozione di altri sistemi di commemorazione del morto, come l'epigrafe tombale. È il tipo rappresentato al meglio dalla necropoli di Nocera Umbra con la sua altissima percentuale di tombe con corredo e la singolare frequenza di deposizioni maschili con le armi. In questa configurazione l'evoluzione culturale è indicata dal progressivo abbandono di alcuni elementi del costume tradizionale - che si può ritenere utilizzato dalla generazione degli invasori - e dall'adozione non sistematica di elementi del costume romano; dalla progressiva riduzione della consistenza dei depositi funerari; dai mutamenti di gusto attestati nella decorazione degli oggetti del corredo. Un'evoluzione comunque attribuita sempre all'iniziativa del gruppo germanico nel quale non vi sono elementi romani, salvo, forse, qualche donna associata ad esso per via di matrimonio. L'estensione e la rappresentatività di questo modello sono seriamente poste in discussione dai risultati delle ricerche e degli studi recenti: le grandi necropoli a righe non si presentano più come la forma predominante delle sepolture di età longobarda in Italia. Accanto ad esse cresce l'identificazione di piccoli gruppi di sepolture ed anche di sepolture singole disseminate nelle campagne: la frequenza con cui queste più piccole necropoli appaiono è fra i risultati più interessanti dei censimenti compiuti in Piemonte, Toscana, Abruzzi, o nel bresciano, e conferma quanto già era stato messo in evidenza, in altra sede, per il Veneto. La spiegazione è ovviamente problematica, come tutto ciò che si riferisce ai longobardi. L'insediamento degli invasori poté avvenire fin dall'inizio in modi differenziati, cioè non solo per grossi nuclei militari nelle posizioni forti del territorio, ma anche per gruppi più ristretti e perfino in forme rarefatte nelle campagne, forse ricalcando la distribuzione della proprietà fondiaria romana. Nel territorio di Torino o in quello di Brescia sembra che le due forme di insediamento e le relative sepolture siano contemporanee e precoci. In altre regioni, peraltro, come la Toscana meridionale e l'Abruzzo costiero, sembra invece che la dispersione dei nuclei di insediamento sia funzione di una conquista avvenuta relativamente tardi, non prima della fine del VI secolo, e di una minore urgenza di controllo militare del territorio, o forse anche di dissesto e rarefazione dell'insediamento romano, quali non sembrano essersi verificati nelle campagne dell'Italia settentrionale. D'altra parte la distribuzione degli insediamenti nel territorio secondo un modello gerarchico non sembra rispondere ad un criterio uniforme usato nella colonizzazione, ma piuttosto a contingenti situazioni locali; così si potrebbero tra l'altro spiegare certi riferimenti di Paolo Diacono a città come Brescia o Cividale, in cui la componente longobarda era più consistente che altrove. Un secondo ordine di persuasioni che forse viene messo in questione dalle indagini correnti riguarda l'uso e la frequenza dei corredi d'armi nei quali si vede - e con ragione - il riflesso dell'ideologia guerriera e della natura militare della società longobarda.
Le sepolture con armi costituiscono solo una parte di quelle che contengono corredi personali del morto; accanto ad esse sembrano frequenti le sepolture maschili contenenti solo la cintura militare ed eventualmente altri oggetti personali, ma non armi; oppure, sporadicamente, una sola arma, che non era però la spada o la lancia, ma il sax, forse meno prestigiosa e cara. L'impressione ha bisogno di essere verificata e precisata, soprattutto attraverso la determinazione delle frequenze percentuali dei corredi con armi e senza armi e della loro distribuzione territoriale e cronologica. Sembra tuttavia già assodato che usanze diverse convissero negli stessi luoghi e negli stessi tempi, anche se i sepellimenti in cui il corredo è costituito dai soli oggetti di abbigliamento divengono probabilmente più frequenti nelle fasi tarde del cimiteri. L'osservazione, se confermata, potrebbe sollevare complessi problemi di interpretazione: risparmio delle armi; demilitarizzazione della società; o mutata concezione del corredo funebre, progressivamente limitato ai soli oggetti di complemento del vestiario, come fibbie e cinture per gli uomini, spilloni, lacci e orecchini per le donne; il che può indicare che i morti erano sepolti vestiti, o almeno con alcuni capi di abbigliamento, ma senza più l'intero complesso degli oggetti personali di cui si erano serviti in vita. Queste questioni riguardano anche altre osservazioni che hanno a che fare con l'assunto tradizionale che postulava una sequenza lineare dai rituali pagano-tribali, consistenti nella sepoltura dei morti con corredo, a quelli cristiani con sepolture prive di corredo e frequentemente associate ad una chiesa. Si può dire che alcune delle situazioni più interessanti presentate in questo Congresso contribuiscono a mettere in crisi, sia pure con molte sfumature, questo modello evolutivo, presentando rituali misti, che rinviano ad un'evoluzione meno lineare ed ordinata delle raffigurazioni culturali connesse alla morte e al seppellimento. Ne ricorderò brevemente alcune. A Centallo in Piemonte il cimitero collegato ad una chiesa fin dal VI secolo presenta sia tombe con corredo che tombe prive di corredo, e quando la chiesa venne ricostruita, nel VII secolo, all'interno di essa si collocò una sepoltura privilegiata m CUi 11 morto venne deposto vestito e gli vennero collocati vicino non armi o capi d'abbigliamento, ma attrezzi artigianali. A S. Martino di Trezzo almeno una tomba collegata alla chiesa del VII secolo - se non addirittura quella attribuita al "fondatore" - ha elementi di corredo non consistenti semplicemente in capi di vestiario; quanto alle restanti sepolture, esse non contengono corredi funebri, ma tutto il complesso funerario sembra contemporaneo alle tombe di guerrieri con ricchi corredi precedentemente rinvenuti nella stessa Trezzo. A Castel Trosino l'ultima fase delle sepolture, associate alla chiesa del VII secolo, presenta anch'essa oggetti di corredo, ridotti, ma non limitati ai soli elementi del vestiario e in qualche caso costituiti anche da arnesi militari. Nella necropoli di Selvicciola di Ischia di Castro, sepolture con corredi comprendenti cinture militari, armi e staffe risultano praticate ancora nella seconda metà del VII secolo accanto ad una chiesa che già fungeva da centro ordinatore del cimitero. In questi casi quale senso si deve attribuire ai corredi deposti nelle sepolture? E probabile che essi avessero perduto la funzione derivante dalle concezioni pagane sul destino ultraterreno del morto che dovevano ancora avere nella cultura eroica della generazione che compié la conquista. Quando la morte venne cristianizzata, la deposizione di oggetti personali, oltre a quelli di abbigliamento, ridotti nel numero e variabili nella composizione, potè vemre ancora praticata in forza di una concezione tra magica e giuridica, che considerava taluni oggetti come legati durevolmente alla persona del proprietario anche dopo la sua morte, e perciò li sottraeva alla trasmissione ereditaria. Una concezione che sottostà anche ai rituali dell'età pagana e che probabilmente trova i suoi ultimi riflessi nelle disposizioni dei testamenti dell'VIII secolo che regolano proprio la destinazione di quegli oggetti personali, ormai sottratti all'interramento col proprietario defunto, ma sempre materia di una considerazione distinta tra le proprietà del morto. Le sepolture in ambiente cristiano contenenti deposizioni votive parziali, potrebbero corrispondere ad un momento di evoluzione di questa concezione, già spogliata di implicazioni magiche o religiose, ma ancora incerta fra l'uso tradizionale di seppellire i beni personali col proprietario ed una tendenza "moderna" a conservarli all'uso dei vivi, sia pure legati in qualche modo alla memoria del defunto.
Altro grande problema per cui si deve rinunciare a riferimenti consolidati è quello dei rapporti tra occupanti e occupati, longobardi e romani, per quel che possono essere desunti dall'archeologia funeraria. Le riserve insistentemente avanzate circa la possibilità di attribuire le sepolture ad individui longobardi o romani solo in base alla presenza o assenza di corredo ed eventualmente - per i romani alla tomba fabbricata in lastre di pietra o in tegole, sono confermate dalla sempre più frequente identificazione di sepolture con caratteri misti (deposizioni di corredo in tombe fabbricate); dalla presenza di corredi anomali (i cui oggetti non presentano cioè le caratteristiche formali considerate di cultura germanica; valga per tutti il caso di Grancia nel Grossetano) o ridotti e addirittura ridottissimi come sono quelli costituiti solo da un coltello, eventualmente accompagnato da una semplice cintura o da un pettine, che però sono frequenti e mostrano di essere anch'essi ritualizzati. Questi tipi di sepoltura con caratteri culturali misti o anomali sono stati interpretati inizialmente come prodotto dell'acculturazione dei longobardi in ambiente romano (e ritengo corretto dire "romano`" anziché "autoctono", dato che questo secondo termine sottrae, più o meno intenzionalmente, identità culturale agli interlocutori dei longobardi); l'evoluzione sarebbe caratterizzata prima dall'adozione di oggetti di fattura locale, poi dalla riduzione del corredo e infine dalla eliminazione di qualunque forma di corredo. Più recentemente si è ipotizzato che i romani adottassero costumi funerari longobardi, per imitazione o assimilazione al gruppo sociale dominante. Quest'interpretazione è stata utilizzata, sia pure dubitativamente, in alcune relazioni presentate al Congresso, come possibile spiegazione, ad esempio, dei caratteri della necropoli bresciana di Santi di Sopra o di alcuni complessi di sepolture abruzzesi. Così concepita comunque, la spiegazione presuppone una assimilazione subordinata dei romani ai longobardi, manifestata dall'irregolarità dei loro corredi funebri e soprattutto dall'assenza o dalla sporadica presenza di armi. Peraltro la pratica di seppellire con alcuni elementi di corredo potrebbe essere stata adottata dai romani non solo per imitazione dei costumi longobardi, ma anche per lo sviluppo spontaneo di pratiche funerarie proprie, che conoscevano forme, pur molto sobrie, di deposizioni di oggetti nelle sepolture - monete, piccoli contenitori ceramici o spille e armille - e che poterono evolvere nell'uso di sepellire il morto con indosso almeno qualche capo di abbigliamento, anziché avvolto nel semplice sudario. Un'evoluzione di questo genere peraltro rimanderebbe ad un complesso di raffigurazioni culturali diverso da quello derivante dall'adattamento, per riduzione, della pratica longobarda di sepellire con i beni personali e le insegne del rango sociale, anche se ad un certo momento essa potè sfociare in forme di sepoltura analoghe a quelle prodotte nell'ambiente longobardo dalla tendenza alla limitazione del corredo. L'acculturazione reciproca potè dunque consistere non tanto nell'adozione scambievole di consuetudini contrapposte - da un lato perdita, dall'altro acquisizione di elementi di corredo dei sepolti e delle sepolture - quanto nell'elaborazione, parte congiunta,-parte parallela, di nuove consuetudini funerarie; un'elaborazione che poté comunque andare di pari passo con l'attenuazione del conflitto etnico dopo l'invasione, con la fine dell'economia di rapina che probabilmente accompagnò la conquista, e con la formazione di una nuova organizzazione sociale fondata su una economia produttiva agraria. Tutto ciò senza mettere in discussione la permanenza di un'aristocrazia militare che conservò più a lungo i tratti culturali e la definizione di rango della tradizione germanica, pur utilizzando ampiamente oggetti e costumi dell'ambiente romano, locale o circostante. La complessità dei rapporti tra romani e longobardi, sia nelle modalità dell'insediamento che nello scambio culturale, trova una straordinaria esemplificazione nella nuova interpretazione della necropoli di Castel Trosino presentata al Congresso. Sottratta alla lettura unilineare che faceva protagonista dell'evoluzione culturale un gruppo d'insediamento esclusivamente longobardo, essa appare ora come prodotto della giustapposizione di un gruppo romano e un gruppo longobardo, con costumi differenziati, che evolvono nel tempo verso forme e rituali originali, in cui si uniscono tradizioni germaniche e tradizioni romane, USi cristiani e consuetudini tradizionali.
Castel Trosino resta peraltro un esempio molto particolare, data la straordinaria ricchezza dei corredi e l'accentuata rilevanza che in essi hanno oggetti di fattura romana. Queste caratteristiche per certi aspetti possono essere spiegate con la collocazione geopolitica dell'insediamento: la comunità di Castel Trosino occupava una posizione strategica in prossimità degli insediamenti bizantini e controllava itinerari che mettevano in comunicazione la costa con l'interno. Ma allo stato delle conoscenze è difficile dire se la sua straordinaria ricchezza derivasse dalla possibilità di esercitare consistenti prelievi di guerra sui beni della società romano-bizantina circostante, o se il gruppo d'insediamento fosse integrato al mondo romano-bizantino, attraverso rapporti economici con i centri di produzione orafa e artigianale, o perfino come federato che riceveva ampi e ricchi doni in cambio di pace o forse di servizio. In ogni caso la necropoli di Castel Trosino costringe a rivedere anche concezioni tradizionali relative alla produzione e distribuzione degli oggetti che finirono nei corredi funerari, soprattutto se messa in rapporto con i ritrovamenti sempre più sorprendenti e intriganti dell'officina artigianale individuata a Roma nel sito della Crypta Balbi. Il primo risultato di questa scoperta è la conferma di un'ipotesi che finora non aveva supporti oggettivi: l'ipotesi cioè che oggetti di abbigliamento, monili, finiture d'armi venissero prodotti in serie da laboratori specializzati e successivamente distribuiti ad ampio raggio. Gli aspetti imprevisti sono la collocazione di un simile laboratorio, a Roma e probabilmente in un monastero, e le straordinarie affinità dei materiali che produceva con quelli che si ritrovano nelle necropoli longobarde, tra cui quella appunto di Castel Trosino. L'origine "bizantina" di molti oggetti dei corredi funerari barbarici era stata riconosciuta da tempo, ma ora è possibile perfino ipotizzare che la produzione dei laboratori operanti nei centri dell'Italia bizantina fosse destinata a clienti barbarici, e viene così messa in crisi la contraria ipotesi che almeno per molti decenni dopo la conquista vigesse una sostanziale chiusura tra le aree ròmano-bizantine e quelle longobarde; una separazione che poteva essere superata in circostanze particolari, ma certo non per un consolidato sistema di produzione e distribuzione che legasse centri romano-bizantini e centri longobardi. Devo dire che sono orientato a valutare con prudenza i dati della Crypta Balbi. Ritengo probabile che la maggior parte della produzione dell'officina fosse destinata a fruitori romani, dato che nel corso del VII secolo, nell'epoca cioè in cui l'officina era attiva, si costituiva a Roma il ceto della militia urbana, che doveva richiedere abbigliamento militare in cui cinture, fibbie, sproni decorati e impreziositi avevano un ruolo analogo a quello dell'ambiente longobardo. Una più larga area di distribuzione della produzione romana poteva essere il territorio regionale, interessato da analoghi processi di stratificazione sociale e cosutuzione di aristocrazie locali a fisionomia militare. Solo come estrema sfera di irradiazione vedrei i contigui territori longobardi dei ducati toscano e spoletino, dove peraltro i prodotti romani poterono giungere, almeno per un certo periodo, anche per contrabbando, dono o furto, anziché attraverso un regolare sistema di commissioni. Ma anche accogliendo questa lettura, i rinvenimenti della Crypta Balbi restano fondamentali per lo studio dei processi di acculturazione; essi testimoniano che il costume della società romano-bizantina sotto alcuni aspetti era simile a quello delle regioni longobardizzate; che i materiali prodotti potevano servire egualmente bene l'una e l'altra società. E se anche la produzione romana non era destinata primariamente ai consumatori longobardi delle regioni circostanti, che poterono attingere ad altre analoghe officine nelle regioni bizantine dell'Adriatico, resta acquisito che la loro informazione culturale non passava solo attraverso canali incerti e occasioni fortuite (prede, tributi, artigiani girovaghi), ma poteva fare riferimento a bene identificati centri di produzione e distribuzione attivi sul territorio italiano. È probabile che questa circolazione avvenisse più facilmente in un'area di contatti territoriali e politici aggrovigliati e complessi com'era quella che si estendeva tra l'Esarcato, la Pentapoli, il ducato di Spoleto ed il territorio romano; non a caso nell'Italia settentrionale e nella stessa Toscana meridionale mancano esempi di osmosi culturale paragonabili a Castel Trosino; ma parimenti non dev'essere un
caso che forme significative di contaminazione si rinvengano nel Friuli longobardo, posto a ridosso dei territori bizantini dell'Istria e di Grado e in ambigui rapporti politici con l'impero. L'esempio della Crypta Balbi accredita inoltre l'ipotesi che officine per la produzione m serie di oggetti di corredo personale esistessero nell'Italia padana, dove elaboravano informazioni culturali di provenienza e carattere ancora diversi, tra cui sono tentato di credere che un ruolo significativo avessero le tradizioni e le suggestioni del sostrato romano, che a questo punto, grazie anche alle osservazioni sull'insediamento, si deve ritenere meno compromesso di quanto non si fosse soliti ammettere. L'insieme dei dati e delle osservazioni presentati al Congresso conferma dunque che nell'interpretazione della cultura longobarda un modello disordinato può forse rendere conto dell'evidenza meglio di un modello lineare. Processi di natura, origine e tendenza varie e non sempre coerenti sembrano convivere ed intersecarsi, tra l'altro con caratteri ed orientamenti differenti nelle varie regioni e perfino nelle situazioni locali. Il ruolo delle culture etniche in questi processi perde rilievo, non perché esse non esistessero, ma perché sembra che si siano rapidamente trasformate finendo per non corrispon clere a ciò che tradizionalmente la definiva. L,a conclusione perciò non può essere che quella di spostare l'attenzione dalle relazioni tra i gruppi etnici alla costruzione di una società nuova nell'Italia longobarda, nelle cui articolazioni territoriali e stratificazioni gerarchiche anche le tradizioni culturali si rimodellarono e trasformarono. Il contrasto tra il panorama vario ed irregolare che risulta dalla documentazione archeologica e quello fortemente univoco e coerente offerto dalle fonti scritte - cronistiche e legislative - illustra probabilmente un aspetto di tale trasformazione: l'intento consapevole degli autori di quelle fonti di riunire e ordinare una società fluida ed eterogenea intorno ad un'ideologia longobarda che era probabilmente patrimonio di gruppi ristretti e che comunque si andava anch'essa continuamente evolvendo. PAOLO DELOGU