Premessa
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Premessa
La pubblicazione della tesi di Pierre Toubert ha suscitato, nell'ultimo ventennio, Un notevole incremento di indagini, sia sulle fonti scritte che sul terreno della ricerca archeologica, volte a precisare il processo dell’incastellamento. I risultati di tali indagini hanno inoltre dato luogo a colloqui che si sono svolti a intervalli regolari (Castelli:storia e archeologia, Cuneo, 1981; Structures de l'habitat et occupation da sol dans les pays méditerranérs: les méthodes et l'apport de l'archéologie extensive, Parigi, 1984; Lo scavo archeologico di Mortarrerti e i problemi dell'incastellamento medievale. Esperierze a confronto, Siena, 1988; L'incastellamento virtarysdeprés, Girona 1992). Le domande poste dall'incremento delle problematiche, messe in campo attraverso relazioni e discussioni, hanno rapidamente suscitato, presso un certo numero di ricercatori che lavorano nell'ambito della storia socio-economica e delle dinamiche insediative in Italia, un crescente interesse per il periodo immediatamente anteriore all’incastellamento" e per la stessa fase di transizione fra tarda antichità e l'alto medioevo. Nel corso degli ultimi anni si è contestualmente sviluppato un ampio dibattito storiografico sull'alto medioevo in generale, grazie soprattutto ai primi risultati qualitativamente e quantitativamente significativi della ricerca archeologica sia nell'ambito rurale che urbano: rimangono comunque aperti vasti problemi la cui interpretazione suscita talvolta un vivace confronto. La costruzione dei nuovi documenti e la loro interpretazione sono frequentemente oggetto di riflessione nel corso di seminari o di incontri settoriali o di pubblicazioni con carattere specialistico, e recentemente sono stati alla base di approfondimenti in ambito regionale o di elaborazioni di aspetti materiali ben definiti, ma non hanno ancora raggiunto un grado di elaborazione suscettibile di giungere a tentativi di sintesi. Per questo motivo il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Siena e l'École francaise de Rome hanno giudicato che fosse il momento opportuno per organizzare, un collaborazione con la rivista Archeologia Medievale, in convegno internazionale dal titolo “La Storia dell'Alto Medievo italiano (secoli VI-X) alla luce dell'archeologia'' che si è tenuto a Siena da mercoledì 2 a domenica 6 dicembre 1992. Negli intenti degli organizzatori del convegno e dei curatori del volume vi è stato quello di dar luogo ad una pubblicazione che offrisse non tanto un quadro sintetico ed esaustivo, quanto piuttosto lo stato dell'arte sul problema. Gli atti raccolgono infatti le relazioni e gli interventi svolti nelle sei intense mezze giornate di convegno. L'incontro si è incentrato, come già sottolineato, sull'Italia e sulle sue diverse componenti etniche e/o politiche (gote, bizantine, longobarde, carolingie, ottoniane, arabe), senza escludere tuttavia l'introduzione puntuale di elementi comparativi riguardanti le stesse sfere culturali, del bacino orientale del Mediterraneo. Quanto ai limiti cronologici, sono stati fissati in modo da coprire nella maniera più completa possibile il passaggio dall'assetto tardo-antico al sistema medievale, fino all'incastellamento", senza per altro affrontare organicamente quest'ultimo problema. L'occasione è stata offerta da una collaborazione tra specialisti della tarda antichità e dell'alto medioevo, che, lavorando in campi tradizionalmente separati, non si incontrano sistematicamente ed in questo caso invece sono stati invitati a confrontare le loro problematiche e i loro metodi. L'incontro aveva l'obiettivo di costruire un quadro di riferimento utile per una storia socio-economica globale del periodo, associando i dati documentari con quelli della ricerca sul campo. Si è tentato inoltre di dare un largo spazio alle ricerche testuali, ma aperte all'archeologia, e assemblare la considerevole informazione che è stata fornita in questi ultimi anni dalla ricerca estensiva e da quella intensiva, evitando, quanto più possibile, i contributi che si limitassero a fornire informazioni su singoli casi.
L'aspetto interdisciplinare è stato posto in primo piano, facendo appello ai più recenti sviluppi delle diverse tecniche in questi campi, per un confronto di obiettivi, metodi e risultati. Con queste premesse le comunicazioni, che sono state intenzionalmente ridotte nel numero, dovevano essere finalizzate a presentare quadri generali e problematici e stimolare quindi una discussione collettiva, alla quale sono stati invitati a partecipare un notevole numero di studiosi. I temi, individuati come particolarmente significativi riguardo alle ricerche e all'attuale dibattito, sono stati: le nuove etnie, lo stato e le strutture "macro-economiche"; la produzione e gli scambi; la città e gli assetti rurali, cercando di tenere sempre ben presente come gli elementi di trasformazione dell'alto medioevo sono segnati dalla dinamica dei rapporti tra i centri di potere politico, amministrativo, religioso, e lo spazio dominato, e dalla dialettica dei movimenti di concentrazione e dispersione degli insediamenti, con l'obiettivo di mettere a fuoco anche il terreno su cui si innestò il processo di "incastellamento". Si è ritenuto inoltre opportuno stimolare la presentazione di alcuni quadri regionali, allo scopo di valorizzare e poter valutare più compiutamente in una scala accettabile una grande quantità di ritrovamenti locali e di studi particolari ancora inediti o pubblicati in maniera dispersa e poco accessibile. Quando è stato possibile questi quadri regionali sono stati presentati da più ricercatori, invitati ad operare in forma di gruppo: I'Italia è stata così divisa in aree geografiche e gli interventi relativi a queste sono stati simmetrici al grado di avanzamento della ricerca e alle prospettive inizialmente impresse all'indagine sul campo. È per questi motivi che gli interventi, durante il convegno, sono stati articolati in giornate a carattere tematico e a carattere geografico. Va da sé che gli altri problemi fondamentali, quali quelli relativi ai luoghi di culto e alle inumazioni, come alle singole situazioni e strutture materiali, sono stati affrontati nei diversi settori prestabiliti. In sostanza i risultati acquisiti nel corso del convegno ci pare che abbiano contribuito a rinsaldare quel dialogo essenziale che deve caratterizzare l'operare degli storici che abitualmente si confrontano sulle fonti scritte e quelli che lavorano prevalentemente sulle fonti materiali. Hanno fatto parte del comitato scientifico dell'incontro G.P. Brogiolo, R. Francovich e D. Manacorda, docenti dell'Università di Siena e L. Pani Ermini, dell'Università di Roma "La Sapienza" per la parte italiana e J. Dalarun, direttore degli studi medievale all'École francaise de Rome, con G. Noyé e P. Pergola, ricercatori del C.N.R.S. e collaboratori dell'École, con il concorso di C. Wickham, dell'Università di Birmingham. RICCARDO FRANCOVICH GHISLAINE NOYÉ
La fine del mondo antico e l'inizio del medioevo: nuovi dati per un vecchio problema
Se dovessi definire sinteticamente il contributo della recente ricerca archeologica alla conoscenza dell'alto medioevo italiano, direi che consiste nell'aver riproposto con nuovi argomenti un problema che già aveva impegnato la storiografia italiana a partire dall'Ottocento: quello della rilevanza conservata da aspetti essenziali del mondo antico nelle origini del medioevo; il problema, cioè, della continuità. Nel secondo dopoguerra, la storiografia italiana sembrava aver sostanzialmente chiuso la questione, pronunziandosi per una cesura fra l'età antica e quella medievale, determinata dall'invasione longobarda, cui essa addebitava non solo il sovvertimento dell'organizzazione politica della penisola, ma anche profonde trasformazioni della società, dell'economia, dell'insediamento. All'origine di questa lettura è la riflessione di Giampiero Bognetti, il che vale quanto dire che essa coinvolge direttamente anche la ricerca archeologica. Bognetti, nel quale credo che si debba riconoscere ancor oggi il capostipite di quanti si sforzano di coniugare storia e archeologia medievale in Italia, giunse infatti a formulare la sua interpretazione non solo attraverso le testimonianze relative al diritto ed alla politica, ma anche, e in egual misura, attraverso la documentazione materiale ed artistica, che al suo tempo si veniva identificando e sistemando sulla base del metodo archeologico 1. Tuttavia il giudizio di cesura da lui formulato era frutto di una concezione che riteneva oggetto proprio della storia la civiltà, intesa come realtà etica. Il significato storico dell'alto medioevo italiano era da lui posto nel drammatico e fecondo scontro tra due mondi culturali e morali antagonisti: quello dei germani invasori e quello ellenistico-mediterraneo variamente rappresentato sul suolo italiano: I'esito dello scontro sarebbe stato l'Italia dei comuni, tutt'altra cosa rispetto all'Italia dei municipi romani, proprio per il principio germanico che le si era incorporato e la rendeva europea. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, Bognetti si era infatti dovuto cimentare col problema di definire l'unità della civiltà europea, così gravemente lacerata dalla guerra, e in particolare il ruolo che in essa andava riconosciuto alla componente germanica. Nonostante le circostanze rendessero assai problematico tale riconoscimento, Bognetti nobilmente trasferì nella valutazione di un'altra, più remota epoca barbarica, la reverenza per la grande cultura tedesca dell'Ottocento e del Novecento, e sostenne che il principio germanico ebbe un ruolo creativo, accanto ai principi trasmessi dall'eredità classica, fin dal momento in cui si presentò con le invasioni. Per questo l'innesto dei germani nella storia d'Italia non poteva che segnare l'inizio di una nuova era. L'impostazione odierna degli studi pone in primo piano i mutamenti di struttura, anziché quelli di civiltà. Mi sembra che questo possa essere un riflesso, nell'indagine sul passato, dell'interesse per i macrosistemi politico economici che nel mondo attuale sovrastano ed inglobano le collettività e condizionano l'esistenza delle economie regionali. Il mondo tardoantico si presenta come un esempio evoluto e complesso di tali macrosistemi e sembra possibile incorporare tra le sue componenti anche i conflitti di sottosistemi culturali quali diventano, in questa prospettiva, le società di tradizione romana e quelle di tradizione barbarica 2. I termini della periodizzazione mutano: il mondo antico sembra prolungare la sua esistenza oltre le scansioni suggerite dai fenomeni etico-politici, mentre l'alto medioevo come periodo storico identificato da strutture nuove, ritarda sempre più il proprio inizio. Una prospettiva che ha trovato recentemente espressione perfino provocatoria in saggi storici che hanno sostenuto la durata di essenziali aspetti dell'organizzazione tardo antica nel campo sociale, produttivo, fiscale e finanziario, fino all'età carolingia e anche oltre; fin quando cioè non sia sembrato agli storici sufficientemente maturo un sistema di relazioni sociali ed istituzionali, che per la sua novità può essere finalmente considerato medievale. Un tempo che per l'Italia potrebbe corrispondere addirittura a quello dell'incastellamento e della signoria locale 3. La ricerca archeologica non ha prodotto ricostruzioni tanto radicali; tuttavia sia per la natura dei fenomeni con cui ha attinenza la sua documentazione specifica, sia per il ruolo di primo piano che
hanno avuto in essa studiosi di formazione antichistica, ha spesso letto la sequenza dei fenomeni in chiave di trasformazione del mondo antico, piuttosto che di genesi di quello medievale. L'Italia poi, dove l'impronta della civiltà antica ha avuto rilevanza e tenuta particolari, costituisce un campo propizio per osservazioni di tale genere, sicché nei numerosi studi ad essa recentemente dedicati, il rapporto tra antichità e medioevo perde il carattere di drammatica contrapposizione e l'alto medioevo si configura piuttosto come un lungo processo di trasformazione dei rapporti tra le componenti della struttura antica che non come catastrofica sostituzione di un sistema con un altro 4. In questa introduzione prenderò dunque in esame alcune linee rilevanti seguite dalla ricerca archeologica negli ultimi vent'anni, per vedere come attraverso di esse si congiurino i grandi processi di trasformazione e fino a che punto sia ancora possibile individuare una periodizzazione in cui i primi secoli del medioevo possano essere considerati un'epoca di esordi, anziché di sopravvivenze 5. Uno degli aspetti archeologici più minuziosamente indagati relativamente alle trasformazioni del sistema tardo antico in Italia, è costituito dalla progressiva riduzione, fino alla cessazione completa, dell'importazione di merci provenienti da vari paesi del bacino del Mediterraneo. Il processo, ricostruito sulla base della quantità e della distribuzione dei resti di ceramica da mensa africana e di anfore da trasporto africane e orientali, presenta un andamento ormai ben conosciuto grazie a numerose e convergenti indagini regionali; fra il III e la metà circa del V secolo, le importazioni appaiono consistenti e distribuite in tutta la penisola, anche se con prevalenza delle regioni centro-meridionali; dalla seconda metà del V e sempre più marcatamente nel corso del VI secolo, la diffusione delle merci importate si riduce e la loro quantità diminuisce anche nei centri in cui continuano ad esser presenti; nel VII secolo quantità e diffusione si contraggono ulteriormente fino a cessare completamente nella seconda metà del secolo 6. Il processo ha dato luogo ad interpretazioni diverse ed in parte contrastanti. Sulle prime, quando il fenomeno venne percepito nella sua consistenza e coerenza, fu messo in relazione con una crisi della società italiana delineatasi già a partire dal IV secolo, e caratterizzata dal progressivo spopolamento delle campagne e dal probabile impoverimento dei consumatori, riflesso nella curva discendente della ceramica importata, soprattutto del vasellame da mensa 7. Questa interpretazione, pur largamente accolta, ha suscitato in seguito riserve basate su due ordini di considerazioni. Relativamente al rapporto tra scomparsa della ceramica da mensa africana nel territorio rurale e ipotesi dello spopolamento, si è osservato che esso non è affatto scontato, perché la popolazione rurale potè disporsi sul territorio in maniera diversa senza per questo diminuire; inoltre il semplice venir meno della ceramica importata non rimanderebbe necessariamente alla scomparsa dell'insediamento, dato che essa potè venir sostituita da produzioni locali ancora poco o niente conosciute per il VI e VII secolo 8. Relativamente poi al significato economico generale del declino delle importazioni di ceramica da mensa e derrate trasportate in anfore, si è osservato che esso non può essere interpretato facendone esclusivamente la conseguenza della caduta della domanda in Italia, perché le importazioni, nel tempo della loro massima espansione, non dipendevano dall'iniziativa di imprenditori commerciali operanti su un libero mercato, ma erano sostenute in misura essenziale dal traffico navale organizzato dallo stato romano per rifornire l'Italia e Roma del grano africano. Quel traffico consentiva il trasporto di merci aggiuntive abbattendone i costi, con vantaggio anche dei mercanti privati. La conquista vandalica dell'Africa avrebbe messo fine al sistema dei trasporti statali, con ciò eliminando anche i vantaggi sul prezzo e sulla disponibilità delle merci, che divennero più costose. La caduta delle importazioni africane dopo la metà del V secolo, dipenderebbe dunque prevalentemente da un'alterazione esterna, anziché da trasformazioni interne della società italiana 8. Le due argomentazioni convergono nel sostenere che dalle variazioni di quantità e distribuzione della ceramica africana recuperata sul territorio italiano non è possibile dedurre linearmente trasformazioni dell'insediamento, della consistenza demografica o del funzionamento economico della società italiana fra IV e VII secolo. L'ipotesi della continuità non verrebbe dunque pregiudicata da questa documentazione archeologica.
E tuttavia ci si può ancora chiedere se la riduzione delle importazioni in Italia sia davvero priva di ogni relazione con trasformazioni strutturali della società italiana. Per quanto riguarda la tenuta dell'insediamento rurale, si può osservare che l'ipotizzata sostituzione del vasellame importato con altro di fabbricazione locale potrebbe esser priva di implicazioni solo se fosse avvenuta simultaneamente dappertutto; ma poiché al contrario sembra che la ceramica africana venga meno in modo progressivo ed irregolare a partire dal IV secolo, una spiegazione consequenziale deve comunque ammettere che il vasellame importato cessò di arrivare e venne sostituito in alcuni siti, mentre continuava a raggiungerne altri, e perciò deve considerare che tra il IV ed il VII secolo si siano determinate differenze di importanza e ricchezza tra gli insediamenti rurali, le quali rimandano comunque a trasformazioni nell'organizzazione economica e sociale delle campagne, se non alla scomparsa degli abitati. Questo dando provvisoriamente per buono l'assunto principale, che cioè l'insediamento rurale non conoscesse sostanziali contrazioni in quei secoli, il che resta peraltro da dimostrare 10. Lo spostamento verso il consumo di manufatti prodotti localmente è esso stesso circostanza rilevante sotto il profilo dell'attività economica, in quanto se da un lato può significare potenziamento della produzione locale, dall'altro può però anche manifestare limitata circolazione dei prodotti, e non solo di quelli ceramici: cioè orientamento verso l'autosufficienza. Una circostanza che rimanda anch'essa a trasformazioni di larga portata. Essenziale per precisare queste implicazioni potrebbe essere l'analisi dei resti di contenitori da trasporto nel territorio, tenuta in secondo piano dalla maggiore evidenza della ceramica da mensa. Queste osservazioni si collegano alle altre che è possibile fare circa il valore da attribuire, nella ricostruzione dei fenomeni d'insieme, all'organizzazione del trasporto e della distribuzione che convogliava in Italia i prodotti di altre terre mediterranee. L'afflusso di merci africane continuò in realtà anche dopo la cessazione dei collegamenti sostenuti dallo stato romano, sebbene i rifornimenti di grano per l'Italia cambiassero provenienza; sembra assai probabile che prendesse allora maggior rilievo l'iniziativa di imprenditori privati, più sensibili alle richieste del mercato. Con queste si può spiegare l'irregolare distribuzione dei resti archeologici nel VI e VII secolo, che non sono diffusi in modo omogeneo sul territorio, ma limitati in misura sempre maggiore alle città e, in progresso di tempo, alle sole città costiere. Inoltre è divenuto più evidente, col precisarsi delle osservazioni, il rilievo percentuale che assumono nel VI e VII secolo le importazioni dall'Egeo e dall'Asia Minore, che sembrano consistere soprattutto in vini ed in altri prodotti non primari 11. Poiché non si ha motivo di credere ad una rinata annona imperiale per l'Italia con provenienza mediorientale, queste importazioni vanno probabil-mente attribuite anch'esse ad imprenditori privati che in parte almeno provenivano dalle stesse regioni da cui giungevano le merci, ed operavano all'interno dei rinnovati rapporti politico-istituzionali fra l'Italia e l'Oriente, ma in relazione al mercato 12. Anche sotto questo punto di vista, la concentrazione delle importazioni nelle città, il carattere suntuario dei consumi, e contemporaneamente la riduzione quantitativa e la successiva cessazione delle importazioni nella seconda metà del VII secolo, debbono essere in rapporto con trasformazioni in corso nella distribuzione, consistenza e ricchezza della società italiana, nonché con la trasformazione dell'organizzazione produttiva interna, costretta a far fronte da sola ai bisogni essenziali e dipendente dall'esterno solo per prodotti sussidiari. Sembra dunque che pur senza discutere gli assunti di base delle tesi ricordate, sia possibile concludere che la curva disegnata dalla quantità e dalla distribuzione della ceramica importata in Italia, abbia comunque rapporto con l'evoluzione delle situazioni interne. La prosecuzione delle importazioni dopo la fine dei trasporti statali fra l'Africa e l'Italia consente di collegare sintomi quali l'esclusione di una parte crescente del territorio dalla circolazione delle merci importate; la mutata natura delle merci stesse e la loro costante diminuzione anche nei centri cittadini; la successiva, pressoché completa cessazione delle importazioni durante la seconda metà del VII secolo, a concomitanti trasformazioni della società italiana, quali la diminuzione dei consumi o dei consumatori; il crescente peso dell'autosufficienza produttiva e, nell'ultima fase del processo, turbamenti del mercato o delle condizioni dei trasporti 13. Se ciò è corretto, se ne trae l'impressione che l'asserita continuità si configuri in realtà come un processo secolare di semplificazione ed impoverimento della fisionomia
culturale ed economica della società italiana, nonché di crescente isolamento all'interno del mondo mediterraneo, almeno sotto il profilo della circolazione dei beni; processo giunto a termine nella seconda metà del VII secolo. Resta sospesa, ma non esclusa, l'ipotesi di un rilevante calo demografico. Assai più ricco di informazioni dirette sulle condizioni interne dell'Italia può essere un altro fenomeno messo in luce dalla ricerca archeologica recente, consistente nelle trasformazioni delle città in un periodo di tempo press'a poco corrispondente a quello definito dalla contrazione delle importazioni di merci, cioè tra il V ed il VII secolo, sebbene anche su esso non solo le interpretazioni, ma la stessa ricostruzione dei fatti siano fortemente divergenti. Gli scavi compiuti in alcune città dell'Italia settentrionale hanno suscitato due diverse proposte di spiegazione globale delle situazioni riscontrate, e nonostante i successivi approfondimenti del dibattito, tali spiegazioni sono rimaste in gran parte contrapposte. Quel che è singolare è che le situazioni di cui si discute sono in larga parte le stesse: trasformazione delle abitazioni cittadine, con diminuzione del decoro e dell'articolazione interni; contrazione della superficie urbana edificata e creazione di spazi aperti, probabilmente destinati a colture agricole, all'interno delle insulae; sepoltura dei morti dentro la città, in aree già destinate ad uso pubblico o anche negli spazi aperti fra le abitazioni 14. Le differenze tra le osservazioni fatte nelle due città che hanno suscitato la discussione, cioè Verona e Brescia, sembrano piuttosto di grado che di natura, in quanto a Verona non si sono riscontrati ulteriori aspetti della trasformazione urbana, quali l'abbandono di quartieri degradati con gli edifici in rovina, o l'obliterazione di percorsi stradali, che concorrono invece a caratterizzare il panorama di Brescia. Le interpretazioni sono peraltro fortemente divergenti proprio nel giudizio sul significato dei fatti. Com'è noto, si è proposto da un lato di intenderli come segno di un processo intenzionale e controllato di trasformazione della città antica operato da una società urbana che conservava autocoscienza, risorse e capacità decisionale; dall'altro come testimonianza di un crescente dissesto determinato da fattori esterni, subito dalla società cittadina, che venne in gran parte dissolta, tanto che ai primi del VII secolo l'abitato in città era ormai rarefatto e caratterizzato da forme di vita rurale, come l'abitazione in capanne e le colture agricole. In questa seconda interpretazione solo verso la fine del VII secolo si possono riscontrare sintomi di ripresa del controllo e dell'organizzazione del territorio urbano che vanno poi rafforzandosi nell'VIII. La discussione sulla bontà dei modelli è stata complicata dal richiamo che entrambi hanno fatto al ruolo dei longobardi nelle trasformazioni ricordate, valutato attraverso la discussione della loro maggiore o minore attitudine ad utilizzare e salvaguardare l'abitato urbano e lo stile di vita cittadino. Indagini archeologiche più recenti, compiute in città dove i longobardi non arrivarono mai o ebbero una presenza poco significativa, consentono di liberare la discussione almeno da questa complicazione, nonchè di definire su una campionatura più consistente i processi di trasformazione delle città italiane. A Roma, che tra l'antichità ed il medioevo rimase certamente la città più popolata d'Italia ed una tra le più assistite e controllate dai poteri statali, un complesso di ricerche svolte recentemente in più settori del territorio urbano ha consentito di riconoscere la presenza di fenomeni analoghi, nella sostanza, a quelli rilevati nelle città dell'Italia settentrionale. Vi si sono constatati infatti l'abbandono delle grandi istallazioni pubbliche come le terme, e la perdita delle funzioni di altre strutture di servizio municipali; lo spopolamento e il degrado, fino al crollo degli edifici, di quartieri residenziali periferici; I'apertura di nuovi tracciati viari attraverso aree monumentali che avevano perso le funzioni originarie; la diffusione dell'uso di seppellire i morti all'interno delle mura, spesso nel perimetro dei monumenti pubblici abbandonati. Tutto ciò nella già identificata cronologia che va dal V al VII secolo e nonostante episodiche iniziative di restauro e ricostruzione 15. Anche a Roma si è constatata la riduzione della superficie abitata complessiva e la concentrazione degli abitanti in quartieri separati da aree in abbandono. D'altra parte il reticolo stradale antico venne almeno parzialmente conservato anche nelle aree abbandonate e degradate, sebbene il livello d'uso delle strade si innalzasse progressivamente e il rivestimento non fosse più in basoli, ma in terra battuta 16.
Una situazione diversa, una piccola città di provincia come Pescara, dov'è stata condotta un'indagine articolata che ha investito larga parte del territorio urbano, ha messo in luce un processo analogo: contrazione dell'abitato con abbandono dei quartieri periferici lasciati rovinare, impoverimento delle tecniche di manutenzione delle strutture restate in uso, tra cui le strade, degenerazione dell'abitazione privata fino alla costruzione, agli inizi del VII secolo, di capanne in legno, anche nell'area centrale e ancora abitata della città. Sintomi che anche in questo caso si associano alla conservazione dei tracciati stradali principali nelle aree abbandonate, la quale dunque perde molto di quel carattere di prova della continuità degli impianti urbani, che le si è spesso attribuito 17. L'esempio di queste due città, cui si potrebbero aggiungere altri dati meno sistematici, ma affini, provenienti da centri dell'Italia meridionale come Napoli e Salerno o da Cagliari 18, mostra che il processo di trasformazione delle città non ha connessioni causali con l'invasione e l'insediamento longobardi, giacché anch'esso si avvia in tutta l'Italia molto prima dell'invasione stessa, e si sviluppa poi tanto nelle regioni longobarde che in quelle romano-bizantine con una cronologia sostanzialmente eguale. Le modalità e i caratteri con cui tale processo si manifesta invitano a chiamare le cose col loro nome, cioè a riconoscere che si trattò di un processo di degrado dell'ambiente urbano, accompagnato da una diminuzione della popolazione. Più ancora della pratica delle colture ortive nel territorio intramurano, mi sembra che autorizzino il termine "degrado", sintomi quali la contiguità di quartieri abitati e quartieri diroccati, il rimpicciolimento e l'impoverimento dell'abitazione privata, l'abbandono dei complessi monumentali già destinati a funzioni pubbliche e servizi collettivi. D'altra parte le nuove osservazioni danno forza all'ipotesi che il processo dovette avere evoluzione diversa nelle varie città, ed essere in alcune più controllato, in altre più devastante, tanto da giungere, in casi estremi, alla cancellazione quasi totale delle strutture urbane. Ciò si accorda bene del resto con la constatazione che circa un terzo delle città romane attestate in età imperiale non esiste più nel medioevo 19; se il rapporto è a favore delle città sopravvissute, va comunque rilevato che una città estinta su due sopravvissute costituisce un fenomeno consistente e che dagli scavi recenti si deve dedurre che anche le città sopravvissute poterono conoscere, nel periodo in questione, e cioè fra il V ed il VII secolo, momenti di accentuato degrado, da cui si ripresero successivamente; come sembra essere stato il caso, oltre che di Brescia, anche di Milano 20. L'andamento che il generale processo di indebolimento urbano assunse in ciascuna città andrà spiegato con la situazione locale. In questa prospettiva si può riconoscere un ruolo anche ai longobardi, soprattutto per gli atteggiamenti che i gruppi ed i potenti locali presero nei confronti della città presso cui si stanziarono, più che per un orientamento culturale proprio di tutto il popolo. Anche nell'area romano-bizantina le città ebbero fortune diverse: quelle che furono sede di poteri politici e amministrativi si mantennero meglio degli insediamenti minori e provinciali: i casi estremi di disgregazione sono probabilmente individuati dalle cattedrali rurali istituite nei territori già facenti capo ad un municipio romano 21. Dunque non tanto l'autocoscienza o la preminenza delle società urbane in quanto dato strutturale immutabile dell'organizzazione territoriale italiana, quanto un complesso di mutevoli circostanze tra cui il rilievo istituzionale e strategico dei singoli centri spiegano il complessivo andamento della trasformazione. Restano, certamente, da individuare le cause generali che avviarono e sostennero questa tendenza all'indebolimento dell'abitato urbano. Ma una tale indagine, che non può valersi di testimonianze dirette, dà luogo a troppe ipotesi, tutte di natura teorica, perché sia il caso di soffermarcisi in questa sede, e d'altra parte non influenza la descrizione dei fenomeni. Su questo più modesto livello si può ritenere che nel momento in cui il degrado fu più accentuato, probabilmente agli inizi del VII secolo, la fisionomia culturale dell'insediamento urbano in Italia fosse, oltre che variegata, sostanzialmente mutata, non solo in quei centri in cui una popolazione rarefatta viveva in un e in rovina ed in condizioni di ridottissimo scambio di beni e servi-zi, ma anche in quelli che conservavano una significativa concentrazione di popolazione, un'attività produttiva
specializzata ed una certa manutenzione dell'ambiente urbano. Anche in essi infatti decadeva l'organizzazione municipale, si era deteriorato l'arredo urbano, si contraeva la disponibilità dei beni c la stessa manutenzione consisteva piuttosto nella conservazione che nella costruzione del nuovo 22. Due distinte serie di osservazioni - quelle sulle importazioni di merci mediterranee e quelle sulle strutture urbane - si sommano dunque nel suggerire che dal V secolo in poi l'Italia fosse investita da un processo che combinando probabilmente cause esterne e cause interne, logorava progressivamente le situazioni strutturali antiche relative all'acquisizione delle risorse, alla consistenza dell'insediamento, alla fisionomia culturale della società. In questo processo il ruolo che sembra di dovere attribuire ai longobardi è quello di essersi inseriti nelle trasformazioni in atto, influenzandole, piuttosto che di averle provocate. Il postulato fondamentale che Bognetti derivò dalla ricerca archeologica tedesca, quello cioè della separazione consapevole e rigida degli invasori germanici dai vinti romani, fondato essenzialmente sull'isolamento dei loro cimiteri e sull'originalità degli usi funerari e della cultura materiale, è messo in discussione oggi dall'identificazione di alcuni cimiteri in cui sembrano seppelliti insieme longobardi e romani, ancora con contrassegni culturali diversi; l'interpretazione corrente che vuole frutto dell'acculturazione dei germani in territorio italiano le trasformazioni dei loro corredi funebri, potrebbe rivelarsi inadeguata alla complessità delle situazioni reali, di fronte agli indizi che fanno ritenere che gli stessi romani accogliessero tratti culturali dei conquistatori, sicché i materiali di corredo non sembrano più costituire un criterio assoluto di identificazione etnica degli inumati 21. Anche un cimitero noto da tempo, come quello di Castel Trosino, promette originali indicazioni in questo senso, se analizzato rinunciando all'ipotesi che contenga solo defunti di stirpe longobarda 24. Anche le trasformazioni indotte dalla conquista longobarda nell'organizzazione sociale ed economica delle regioni conquistate sono state interpretate recentemente come effetto piuttosto di un comportamento politico che di un atteggiamento culturale germanico: lo stato longobardo avrebbe rinunziato ad imporre le tasse sulla proprietà e la produzione della terra, che erano state fondamento della finanza pubblica nell'impero tardoantico, determinando con questo una sostanziale redistribuzione delle risorse economiche interne, da cui vennero modificate sia le attività statali in tutto quel che comportava spesa, sia il tenore di vita delle popolazioni rurali, che migliorò sostanzialmente. Le forme strutturali dell'insediamento e della produzione non si sarebbero perciò modificate per l'innesto delle tradizioni degli occupanti, ma piuttosto, liberate dal peso dei prelievi fiscali, avrebbero più liberamente esplicato le loro tradizionali funzioni 25. In realtà, quest'interpretazione va ancora discussa, dato che, qualunque cosa si debba concludere circa il rilascio di ricchezza in favore dei produttori agricoli - forme di tassazione pubblica e prelievo di rendite signorili poterono continuare ad esistere dopo l'occupazione longobarda - sembra che il passaggio della proprietà fondiaria nelle mani dei conquistatori si accompagnasse a mutamenti nella distribuzione dell'insediamento e nelle tecniche di gestione, se non proprio nel sistema agrario, che poterono risentire delle concezioni sociali tipiche dei longobardi anche se presentano analogie con evoluzioni attestate nei territori bizantini, sicché non si può nemmeno escludere che si collegassero alle trasformazioni già in corso prima dell'invasione 26. I longobardi comunque dovettero influenzare l'organizzazione economica della penisola, intesa come spazio organico, attraverso i limiti imposti alla circolazione dei beni dalla loro attività militare e politica. In questo senso l'occupazione dovette influenzare l'evoluzione non solo nei territori occupati, ma anche in quelli restati romani. Lo stanziamento fu seguito da uno stato di guerra tra l'area longobarda e quella imperiale bizantina, che durò, sia pure con intermittenza, per circa cent'anni. Ho cercato di dimostrare altrove che esso influenzò in modo consistente l'insediamento delle regioni in cui venne a cadere la frontiera, provocandovi la scomparsa di molti centri abitati 27. Ci si può dunque domandare quanto una frontiera gestita con criteri militari abbia condizionato anche la circolazione degli uomini e dei beni, ostacolandola e di conseguenza accentuando quelle diversificazioni regionali che già si manifestavano negli ultimi secoli del governo imperiale. Dopo la conquista longobarda, sembra ad esempio accentuarsi l'isolamento della regione padana rispetto alla circolazione delle merci
mediterranee, che cessano di affluirvi mentre ancora arrivavano nella Liguria e probabilmente anche nella Romagna, restate nell'area bizantina 28; all'inverso, le produzioni originali della Padania longobarda, come la ceramica invetriata di tradizione romana, se continuò ad essere prodotta dopo il VI secolo, e soprattutto la caratteristica ceramica longobarda a stampigliature, o le crocette d'oro con decorazione a volute e ad animali, non hanno diffusione fuori di essa 29. In questo caso la dominazione longobarda sembra avere accentuato ed irrigidito quegli aspetti di autosufficienza che la regione già maturava nella tarda età imperiale 30. Anche nell'area centro-meridionale la configurazione politica e militare determinata dai longobardi sembra avere riflesso nella produzione e circolazione dei beni: reperti ceramici delle regioni longobarde, pur testimoniando la sopravvivenza locale di officine di tradizione romana, mostrano differenze tecnologiche e tipologiche rispetto alle produzioni delle regioni costiere 31. Per quanto riguarda la stessa società longobarda, i pochi cimiteri scavati nel territorio dell'antico ducato di Benevento, Boiano in provincia di Campobasso e Pratola Serra in provincia di Salerno, hanno restituito, accanto a caratteristici materiali longobardi, altri, riconducibili all'orizzonte bizantino mediterraneo, che non hanno riscontro nelle sepolture longobarde dell'Italia del nord 32. Sembra dunque di poter dedurre, per il VI e VII secolo, la regionalizzazione dell'evoluzione culturale ed economica, con elaborazione di forme, sistemi produttivi e distributivi sostanzialmente autonomi nelle diverse regioni, e scarsi contatti tra l'area longobarda e quella romano-bizantina, ma anche all'interno delle stesse terre occupate dai longobardi. Il rilievo delle frontiere interne non dovette significare necessariamente penuria di risorse nelle regioni longobarde. Tuttavia l'isolamento accentuò il peso delle situazioni locali anche congiunturali; sottrasse alternative e sbocchi alla produzione agricola e potè concorrere a quella accentuata ruralizzazione dell'attività economica che caratterizza l'orizzonte dell'editto di Rotari ed all'impoverimento della cultura materiale più volte riscontrato negli scavi. Ancora, l'isolamento potrebbe, in certa misura, concorrere a spiegare i cambiamenti di fisionomia e funzione delle città nell'area longobarda cui si è già fatto riferimento. Anche nelle regioni romano-bizantine, la divisione interna della penisola dovette condizionare l'attività economica. Il dominio imperiale, ridotto ad una serie di territori discontinui lungo le coste, si organizzò come una catena di regioni di varia estensione, gravitanti ciascuna sulle città sede delle autorità istituzionali, Roma e Ravenna innanzi tutto, che erano tutte collegate a scali marittimi. Questo rende ragione di molti fenomeni già ricordati, che si riferiscono principalmente ai territori bizantini: la tenuta complessivamente migliore delle città, la maggior consistenza della loro popolazione, la prosecuzione delle importazioni via mare. Ma altri aspetti concomitanti dimostrano che anche nell'area romanica le economie regionali avevano possibilità limitate. L'attività artigianale a Roma, dov'è stata meglio osservata, riduce e semplifica la produzione, tanto nella ceramica che nella vetreria, abbandonando tipi pregiati e limitando la varietà delle forme 33; diversi indizi fanno pensare che i bisogni primari venissero soddisfatti in misura crescente dalle risorse agrarie regionali 34; le importazioni di merci orientali, probabilmente già destinate a consUmatori privilegiati, diminuirono, come si è visto, fino a cessare. I collegamenti marittimi non vennero per questo del tutto meno, ma sembrano ridurre portata ed ampiezza, per limitarsi alla scala interregionale, come lasciano pensare i nuovi contenitori per derrate alimentari che dal tardo VII secolo, e soprattutto nell'VIII si trovano con caratteristiche simili tanto nel territorio romano che in Campania, Calabria e Sicilia, possibile indice di traffici fra quelle regioni 35. La produzione di anfore a Miseno, presso Napoli, e ad Otranto nel VII secolo è un altro indizio dello stesso fenomeno 36. In sostanza, l'occupazione longobarda dovette agire sulla struttura economica dell'Italia, più ancora che con l'innesto di tradizioni e mentalità antagoniste a quelle romane, con l'ostacolare le comunicazioni tra le diverse regioni, accentUando e irrigidendo tramite la frontiera politica, tendenze alla ridUzione ed alla localizzazione della produzione e circolazione dei beni economici che già si andavano profilando prima dell'invasione. Un processo che sembra avanzato nella prima metà del VII secolo, quando lo stato di guerra tra longobardi e bizantini e il frazionamento interno del regno longobardo furono particolarmente acuti.
Questo complesso di osservazioni induce a concludere che, sotto il profilo dell'evoluzione delle strutture, non è necessario attribuire ai longobardi una rottura qualitativa ed una ricostituzione dell'organizzazione economica e culturale su basi diverse: come già si è detto, il loro ruolo potè consistere nell'accentuazione data ai processi in corso, già volti alla decomposizione dell'organizzazione tardo imperiale. Pertanto anche sotto questo profilo, la valutazione del rapporto dell'antichità con il medioevo in chiave di continuità si presenterebbe come appropriata descrizione delle trasformazioni che si sono fin qui evocate, quando si precisi che si trattava di continuità nel senso della decomposizione e dello snaturamento. Tuttavia, riconosciuto questo, nasce il problema di valUtare fino a quando il processo conservi questa tendenza; se e quando sia possibile individuare un cambiamento della sUa direzione. Problema che assume rilievo quando si passa ad esaminare il rapporto tra il VII e l'VIII secolo. In questa ulteriore fase si deve peraltro tener conto di una nuova circostanza, cioè del fatto che nell'VIII secolo ricompare la documentazione scritta, che nel VII è pressoché assente. Quello che potrebbe sembrare un vantaggio, in quanto viene arricchita e consolidata la base documentaria della ricostruzione storica, in realtà complica la percezione degli svolgimenti in corso. Nella documentazione scritta dell'VIII secolo figurano infatti molti termini tecnici relativi a istituzioni giuridiche ed a situazioni sociali ed economiche, identici a quelli usati nella tarda antichità fino al VI secolo, suggerendo una sopravvivenza che oltre ai termini potrebbe riguardare le cose. Un esempio di queste circostanze, assai rilevante per la vicenda dell'economia e dell'insediamento, è la menzione, nelle carte longobarde, dei fundi come articolazioni normali del territorio rurale, e dei vici come centri insediativi, che sembra documentare la sopravvivenza, fino al IX secolo avanzato, della parcellizzazione catastale e dell'organizzazione delle campagne definite in età imperiale 37. Dunque non solo la continuità potrebbe prolungarsi fino all'VIII secolo, ma si creerebbe anche un contrasto tra l'interpretazione che si è data dei fenomeni risultanti dalla documentazione archeologica e quella suggerita dalle fonti scritte, che metterebbero in rilievo l'invariata persistenza di aspetti essenziali dell'organizzazione tardo antica. Per cercare di appianare queste difficoltà, si deve verificare se i termini tecnici utilizzati nelle carte dell'VIII e IX secolo rimandino davvero alla continuità delle strutture romane o se la terminologia istituzionale di origine antica non venisse allora applicata ad una realtà trasformata e sostanzialmente diversa. Per quanto riguarda l'esempio richiamato, indagini relative ad alcune aree lombarde ben documentate hanno accreditato questa seconda soluzione. Almeno una parte dei vici attestati nel IX secolo ebbe origine dopo l'invasione longobarda, attraverso la creazione di nuovi insediamenti rurali, che organizzarono un proprio territorio, anch'esso indicato come fundus, ma privo di relazioni con la parcellizzazione catastale romana. Lo stesso termine fundus non doveva più far riferimento all'organizzazione romana del territorio, ma alla nuova rete dei territori vicanici 38. Non sembra riconducibile a questa stessa spiegazione la situazione della Sabina, dominio longobardo in territorio intensamente romanizzato, che nella documentazione scritta risulta pure articolato in fundi. Sono meno presenti in questo caso i vici, che in Lombardia sembrano essere stati i poli della trasformazione dell'insediamento, e la toponomastica dei fondi, di evidente impronta romana, non offre spunti per ritenere che l'occupazione longobarda abbia influenzato l'organizzazione del territorio 39 . Tuttavia si nota che il territorio agrario appare diviso sistematicamente in fundi solo nelle solenni conferme del patrimonio fondiario rilasciate dai papi e dagli imperatori del IX secolo all'abbazia di Farfa. Tutte le altre carte relative alla gestione della proprietà fondiaria, fin dagli inizi dell'VIII secolo, mostrano territorio, insediamento e proprietà organizzati prevalentemente per "casali". Il rapporto di questi con i fundi, nei casi in cui è percepibile, si configura in vario modo: talvolta sembra che i casali coincidano con i fundi; ma la loro sostanziale diversità risulta dagli stessi diplomi di conferma delle proprietà del monastero, che distinguono le due entità fondiarie elencandole separatamente. In alcune occasioni risulta che i casali potevano essere insediamenti rurali nuovi, nati dalla colonizzazione dei gualdi pubblici 10. Inoltre si nota che i casali normalmente non vengono localizzati in rapporto ai fundi, e perciò non figurano come articolazioni di essi. In
sostanza il casale si presenta come l'organizzazione fondamentale dell'insediamento rurale nella Sabina dell'VIII e IX secolo, e infatti ad esso, non al fundus, fanno capo i coltivatori dipendenti e in esso sono localizzate le dimore rurali. Il fundus invece sembra non unità di gestione, ma quadro formale della proprietà. La documentazione della pratica nell'VIII e IX secolo prestò attenzione esclusivamente all'organizzazione insediativa e gestionale del territorio, ricordando oltre ai casali le curtes e le casae massariciae; anche se è probabile che parte dei casali coincidesse di fatto con un fundus, resta significativo che nelle registrazioni legali venisse messa in evidenza la forma nuova e concreta dell'organizzazione rurale, trascurando il riferimento catastale di antica origine. È dunque necessario approfondire ulteriormente il valore che ha quest'ultimo quando compare, non potendosi nemmeno escludere che esso fosse un recupero intenzionale suggerito dalle tendenze classicheggianti della cultura romana del IX secolo. In ogni caso, mi pare ancora possibile ritenere che l'organizzazione dell'insediamento rurale e dell'attività produttiva in Sabina, nell'VIII e IX secolo, presentasse differenze significative rispetto all'ordinamento catastale romano 41. Per quanto riguarda la ricomparsa dei termini tecnici antichi nella documentazione dell'VIII secolo, si deve in generale osservare che le fonti scritte altomedievali forniscono la definizione istituzionale, cioè convenzionale, delle situazioni cui si riferiscono, le quali possono essere conosciute nella loro concreta realtà solo attraverso il ricorso ad altri tipi di documentazione. Per questo ritengo opportuno proseguire l'indagine sull'evoluzione strutturale in Italia fra VII ed VIII secolo ricorrendo preferenzialmente ad una documentazione omogenea a quella di natura archeologica già utilizzata. Un'evidenza che può offrire una guida è data dalla numismatica e consiste nella comparsa simultanea, nelle varie regioni politico-economiche in cui si era frazionata l'Italia dopo la conquista longobarda, di monete nuove, diverse dalla moneta imperiale bizantina che fino a quel momento domina direttamente o indirettamente, in quanto modello della moneta longobarda, il panorama monetario italiano. Attraverso di essa è possibile individuare, verso la fine del VII secolo, una situazione che non sembra possibile inserire nella stessa linea dei processi di dislocazione strutturale e culturale dell'Italia fin qui osservati. Con singolare contemporaneità, nell'ultimo decennio del secolo vennero creati e messi in circolazione: i nuovi tremissi aurei del re Cuniperto nell'area longobarda padana; la monetazione anonima da 30 nummi in bronzo e le frazioni di silique d'argento col monogramma dei papi a Roma, i tremissi ed i solidi aurei di Gisulfo I a Benevento, di tipo bizantino, ma recanti l'iniziale del nome del duca; probabilmente anche i tremissi aurei toscani contraddistinti da un monogramma 42. La sostanziale contemporaneità di queste emissioni nuove, dopo brevi periodi di sperimentazione anch'essi sincroni, sollecita una spiegazione unica di un fenomeno in cui affermazioni di autonomia politica delle diverse autorità, si uniscono alla previsione di un impiego economico della moneta. Questo secondo aspetto sembra discendere dalla varietà di natura e valore delle monete stesse. A Roma si trattò di coniazioni forse d'urgenza, con nominali di valore contenuto, adatte ad una circolazione quotidiana, che si affiancavano alla moneta d'oro imperiale ancora battuta dalla zecca cittadina. Nel regno longobardo fu un tremisse portato, con successivi aggiustamenti, all'equivalenza con la corrispondente moneta bizantina; e invece a Benevento due tipi, uno sottomultiplo dell'altro, di moneta aurea, anch'essa bene agganciata a quella bizantina. Sembra insomma che le nuove monete fossero predisposte in relazione ad esigenze differenti, proprie delle aree per cui erano emesse. Queste iniziative di diverse autorità indipendenti si inquadrano in un periodo che fu ricco di cambiamenti politici ed istituzionali in Italia. Nel 6801'imperatore Costantino IV vi aveva concluso due paci di grande rilevanza: una con il regno longobardo, la prima pace formale dopo l'invasione, che mise fine allo stato di guerra; l'altra, in materia religiosa, col papato, mediante la rinunzia alla dottrina monotelitica. I1, cronista bizantino Teofane scrisse che allora una gran pace si era stabilita in Oriente e in Occidente. L'impero ne aveva bisogno per riorganizzarsi dopo i disastri dell'espansione araba, culminata in un assedio di Costantinopoli durato cinque anni e dopo l'altrettanto devastante invasione dei Bulgari nel territorio dell'antica Mesia 43.
La conclusione della pace col regno longobardo consentì di allentare la difesa militare e decentrare l'organizzazione del dominio imperiale in Italia, attribuendo autonomia di governo alle provincie sotto i ceti; egemoni locali, saldamente radicati nei territori e nelle società provinciali. Sembra infatti da riferire a questo periodo l'istituzione dei ducati di Roma, di Calabria e delle Venezie; la organizzazione della Sicilia in tema, retto da uno stratego, e la sostanziale riduzione dell'autorità centrale dell'esarca di Ravenna 44. Nelle stesse circostanze sembra che al papa venissero conferiti poteri ufficiali nell'amministrazione pubblica di Roma 45. Per quanto riguarda i territori longobardi, la conclusione della pace con l'impero costituiva un riconoscimento della fısionornia sovrana del loro re, legittimando anche sue iniziative in materia monetaria. La pace del 680 con la riorganizzazione dei rapporti tra terre romane e terre longobarde in Italia può spiegare dunque il fondamento istituzionale delle iniziative monetarie prese dalle autorità provinciali negli anni seguenti; non ne spiega, evidentemente, la necessità. Se non che, negli ultimi due decenni del VII secolo si riscontrano numerosi altri sintomi di rinnovamento e riorganizzazione interni, sia nelle regioni romano-bizantine, che in quelle longobarde. Essi sono particolarmente evidenti nell'ambito delle attività politico-istituzionali, in cui si coglie una nuova intraprendenza dei ceti e delle autorità regionali. A Roma dalla seconda metà del VII secolo, l'exercitus si presenta come un corpo cittadino, che partecipa con propri orientamenti di fazione alla scelta della persona dei papi; trasformazioni analoghe avvengono, anche se con evidenza minore, a Ravenna 46. Egualmente nei corso degli anni Ottanta nell’attività dei papi prendono rilievo funzioni civiche con implicazioni economiche: un forte intervento nella manutenzione della città, soprattutto delle grandi basiliche, e il servizio di assistenza pubblica per l'innanzi completamente taciuto nel Liber Pontificalis 47. Nel regno longobardo dell'Italia settentrionale un progressivo rafforzamento dell'autorità regia ed una riorganizzazione degli strumenti attraverso i quali veniva esercitata si coglie in vari episodi della vita di Cuniperto e può essere simbolicamente riassunto dalla conclusione dello scisma dei Tre Capitoli che ricostituì l'unità ecclesiastica nel regno e rinnovò le relazioni canoniche col papato 48. Contemporaneamente il ducato di Benevento realizzò l'ultima significativa espansione del dominio longobardo in Italia, annettendosi importanti territori bizantini nella Puglia meridionale con i porti di Taranto e Brindisi 49. Anche su altri piani si colgono indizi di un'attività nuova: una riorganizzazione del territorio rurale sotto il profilo ecclesiastico è in corso tanto in Toscana che nel ducato beneventano 50; gli scavi di Brescia hanno datato allo stesso momento una ripresa dell'organizzazione urbana, che è attestata in forme più indirette anche a Roma 51; tra la fine del VII ed i primi anni dell'VIII secolo vennero fondati o rifondati i monasteri di Farfa, San Vincenzo al Volturno e Montecassino, in posizioni confinarie tra le regioni longobarde e quelle romane, probabilmente a seguito di nuovi criteri nella gestione dei confini. La stessa ricomparsa della documentazione scritta si inquadra in quest'insieme coerente di indizi di riorganizzazione e ripresa di attività. Probabilmente nello stesso lasso di tempo si istituirono anche contatti economici fra regioni appartenenti a domini politici diversi, come quei rapporti commerciali fra la pianura padana longobarda e le terre bizantine del delta del Po, che vennero rinnovati e regolati dal re longobardo Liutprando nel 715; il consolidamento dei legami di Roma con i centri costieri della Campania e la Sicilia, e il probabile collegamento delle regioni interne del principato beneventano con le linee di navigazione adriatica implicito nella conquista dei porti pugliesi 52. È in relazione a questi fatti che la monetazione nuova dell'ultimo decennio del VII secolo assume più pieno significato di iniziativa non soltanto politica, ma economica e la data del 680, che ne è la premessa e che individua il momento da cui i nuovi fenomeni si infittiscono, guadagna il valore simbolico di riferimento epocale. Certo non è nella pace tra longobardi e bizantini che si può vedere la causa ultima del mutato tono delle attività risultanti dalla documentazione. Essa potè al massimo sopprimere vincoli e condizionamenti all'iniziativa di una società che in modo autonomo e per evoluzione interna andava ricostruendo i propri assetti e cominciava a raggiungere una nuova capacità di iniziativa economica.
Quali siano state queste ragioni è - come per quelle del precedente declino - materia di argomentazioni ipotetiche. Piuttosto che addentrarvisi, si può cercar di definire quanto più correttamente e compiutamente possibile, gli aspetti della riorganizzazione. Inizialmente più che l'avvio di una situazione strutturale nuova, essa sembra consistere nel raggiungimento di un equilibrio interno delle diverse regioni, in rapporto ai quadri territoriali ed alle condizioni economiche concretatesi nel corso del VII secolo. Soltanto lentamente si poterono acquisire novità culturali e occasioni economiche nuove, all'interno di una crescente capacità di iniziativa manifestata in modo più evidente dai poteri politici, ma probabilmente diffusa in tutta la società. L'archeologia non fornisce ancora, a mia conoscenza, serie documentarie continue e coerenti sui processi in corso tra la fine del VII e la metà dell'VIII secolo, ma è da essa che si ricava almeno una prima testimonianza di innovazione dell'organizzazione produttiva, con la comparsa, dopo la metà dell'VIII secolo, della ceramica a vetrina pesante, attestata a Roma e probabilmente anche a Ravenna e a Napoli: ritorno di una produzione di qualità che non si pone come continuità delle attività tardoantiche 53. Inoltre lavori recentissimi cominciano a delineare le prospettive archeologiche proprie del IX secolo in Italia. Il fenomeno più significativo sembra essere ancora l'incremento delle produzioni artigianali di vario tipo, utilitarie e suntuarie, risultante tanto dalle ricerche compiute a Roma e nel territorio romano, quanto dal monumentale scavo dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno 54. A questa crescita sembra collegarsi una aumentata vitalità delle reti di distribuzione regionali. Peraltro le nuove osservazioni si riferiscono a siti privilegiati, quali sono la città sede del papato e un monastero protetto dall'impero carolingio al confine della sua area di influenza in Italia. Esiste dunque il problema della rappresentatività dei fenomeni constatati, che potrebbero almeno in parte dipendere dal sistema imperiale carolingio, piuttosto che essere l'esito di uno sviluppo locale fondato su risorse proprie. Ricerche anch'esse recenti sull'uso della moneta nelle diverse regioni italiane hanno messo in evidenza che l'eventuale espansione produttiva nel IX secolo sembra accompagnarsi alla contrazione della massa monetaria ed alla riduzione dell'uso della moneta nelle transazioni correnti, ponendo il problema di definire adeguatamente le modalità dello scambio economico, tra l'altro in relazione a probabili varietà e specializzazioni regionali 55. Diventa inoltre necessario identificare l'estensione e l'integrazione delle diverse reti territoriali di distribuzione dei beni. La ricerca storica ha affrontato da tempo questi difficili aspetti dell'età carolingia, sortendo però risultati talvolta contraddittori, per la difficoltà di misurare i fenomeni economici sulla sola base delle fonti scritte. Al momento neanche l'archeologia sembra disporre per il IX secolo di un indicatore ben identificabile e largamente diffuso, com'è la ceramica per l'età tardoantica, in base al quale formulare valutazioni dei grandi movimenti economici e culturali. Una constatazione che deve valere da stimolo per l'orientamento e il progresso della ricerca. Avendo esordito con un nome illustre della medievistica italiana, vorrei concludere col nome di un maestro della medievistica europea: quello, cioè, di Henri Pirenne. Viene spontaneo osservare che la scansione periodizzante che sembra di poter desumere dallo svolgimento dei fenomeni esaminati, coincide con quella formulata da Pirenne nella sua interpretazione del passaggio dal mondo antico all'Europa medievale 56. Ciò dipende in parte dal fatto che l'indicatore più evidente in entrambe le prospettive è lo stesso, e consiste nelle testimonianze dei traffici internazionali, rintracciate da Pirenne nella documentazione scritta e dalla recente archeologia in quella materiale. Si può a questo proposito commentare solo che il ritmo di sviluppo accertato da Pirenne essenzialmente in relazione alla Gallia, mostra di essere valido anche per l'Italia. Peraltro accanto alle vicende del commercio internazionale ha avuto essenziale rilevanza, nel delineare il processo che si è presentato, un complesso di altri fenomeni che depongono per la progressiva trasformazione strutturale della società tardoantica e romano-barbarica. Ma a questo proposito va sottolineato che anche Pirenne, spesso sommariamente riassunto da esegeti e critici, ebbe chiara coscienza che un processo degenerativo era in corso nelle antiche provincie dell'impero d'occidente già durante i secoli precedenti l'invasione araba, ed egli lo qualificò mediante il concetto di "barbarizzazione" che riguardava tutti gli aspetti
della vita sociale. Pirenne mise in rilievo tra l'altro il progressivo indebolimento e isolamento delle città nell'epoca merovingia e la crescente importanza delle relazioni socio-economiche fondate sul possesso della terra e sulla produzione agraria locale. Diverso è il modo in cui si possono descrivere oggi le caratteristiche dei due sistemi strutturali dominanti rispettivamente prima e dopo il VII secolo; il modo in cui se ne prospetta il rapporto; anche se bisogna osservare che proprio il fatto che di due sistemi diversi si tratta, venne nitidamente affermato da Pirenne. Ma mentre egli li concepì come antitetici, obbligandosi così a spiegare il passaggio dall'uno all'altro con un evento capace di alterare in modo radicale una componente fondamentale della struttura, da lui individuata nel mercato, e cioè con l'espansione araba, sembra oggi di dover ritenere che la degenerazione del sistema antico si sia fermata quando venne raggiunto un equilibrio delle situazioni su basi nuove a livello locale e regionale, e che successivamente si innestasse in quest'equilibrio un fattore propulsivo, ancora da definire, che provocò un'espansione inizialmente modesta, ma continua, sulla quale si costruì il sistema economico che per comodità si può chiamare carolingio. Nella nuova prospettiva anche la conquista dell'Africa da parte dei musulmani torna ad avere un ruolo credibile, come alterazione esterna della praticabilità di alcune linee di traffico. Il nuovo sistema che si delinea a partire dall'VIII secolo dovette risentire in Italia di due peculiarità ambientali: il ruolo delle città come centri di organizzazione del territorio, ristabilito dopo la grande crisi del VI e VII secolo, e la posizione della penisola come area di contatto tra il continente europeo organizzato dai franchi ed il bacino mediterraneo rinnovato nei suoi assetti e nelle sue relazioni, da cui nel corso del IX secolo provennero sollecitazioni e influenze di nuovo segno e sempre più consistenti. Questo è il quadro che ritengo di poter proporre in apertura del Congresso. Un quadro probabilmente già invecchiato nel momento in cui lo delineo. Le ricerche in corso sono molte e i problemi debbono essere continuamente ridefiniti man mano che si identificano nuovi materiali e nuove situazioni. È probabile dunque che le prospettive che ho presentato vengano in parte o in tutto corrette e aggiornate dalle successive relazioni; ma questo sarà una testimonianza in più della vitalità di questo filone di ricerche sull'alto medioevo in Italia. PAOLO DELOGU
1 Fondamentale BOGNETTI 1968. Per più recenti formulazioni del giudizio di cesura: TABACCO 1979, pp.93 ss.; WICKHAM 1981, p.28; GASPARRI 1988. Sul pensiero storico di Bognetti, oitre ai testo autocritico già Citato, cfr. TABACCO 1966; TABACCO 1970; SINATTI VIOLANTE 1978 DEEOGU 1981. 2 Suggestioni sulla tarda antichità come "economia-mondo": CARANDINI 1 986; CARANDINI 1989. Problematica generale del rapporto tra le strutture tardoimperiali romane e la genesi del medioevo sotto il profilo archeologico: HODGES-WHITEHOUSE 1983, WICKHAM 1984, W[CKHAM 1988; RANDSBORG 1989; First Millennium 1989. 3 Cfr. ad esempio gli esperimenti di Bois 1989; DURLIAT 1990a. 4 Ad esempio WARD PERKINS 1984; individuazione del problema in MARAZZI 1993. 5 Sull aproblematica della periodizzazione dell'altomedioevo Cfr.Periodi e contenuti l988. 6 Prime sistemazioni complessive: POTTER 1985 (ma 1979 nell'edizione inglese); ARTHUR 1984; WHTTEHOUSE 1985; PANELLA 1986a; PANELLA 1986b; TORTORELLA 1986. Successivi arricchimenti e precisazioni: FENTRESS-PERKINS 1988; ARTHUR l989; PANELLA 1989 MILELLA LO VECCHIO 1989 a,b. Quadri d insieme aggiornati: PACETTI-SFRECOLA 1989, CIPRIANO et al. 1991; PANELLA 1993. 7 POTTER 1985, pp. 155 ss.; HODGES-WHITEHOUSE 1983, pp. 36 ss.
8 Ad esempio MORELAND 1986, p. 338; MORELAND et al. 1993, pp. 212 ss. 9 WICKHAM 1988 a, b. 10 Il caso del sito rurale di San Donato che in MORELAND et al. 1993 sembra interpretato come un esempio di insediamento permanente caratterizzato da ceramica locale diversa dalla ceramica africana, può in realtà appartenere al tipo degli insediamenti nuovi sorti tra VII e VIII secolo alterando le maglie dell'antica struttura fondiaria romana, di cui si dirà più avanti. Ciò almeno fin quando non sia meglio precisata la cronologia della ceramica. 11 Cfr. WHITEHOUSE 1985; ARTHUR 1989; ARTHUR 1991, PATTERSON 1993 PANELLA 1993; inoltre i recenti rinvenimenti nell'esedra della Cripta di Balbo per cui SAGUI’ i993b. 12 Testimonianze di mercanti siriani ed ebrei in Italia nel Vl secolo: RUGGINI 1959; GALASSO 1965, p. 66; ARTHUR 1991, p. 774; qualche dato anche in PIRENNE 1937, pp. 66 ss. Gregorio Magno chiede al vescovo di Alessandria di inviargli una qualità di vino orientale che i mercanti non importano a Roma: Gregorii Magni Epistolae, VII,37 (Ediz. Hartmann, M.G.H., Epistolae I, p.486). 13 Può essere significativo rilevare che ad Otranto la presenza di anfore da trasporto orientali, documentata fino al secolo VII, successivamente cessa, sebbene la Città restasse probabilmente in mano bizantina; cfr. ARTHUR 1992, p.216, e per la storia istituzionale, BROWN 992, pp. 28 S. 14 Dati di scavo e interpretazioni in BROGIOLO 1984, BROGIOLO 1987 a, b, BROGIOLO 1989 BROGIOLO 1992a, LA ROCCA 1986 a, b, LA ROCCA 1989, LA ROCCA 1992. Interventi nel dibattito WICKHAM 1988c, GASPARRI 1989; DELOGU 1990; BIERBRAUER 1991. 15 MANACORDA ZANINI 1989, MANACORDA 1993; MENEGHINI SANT’ANGELI 1993, REA 1993 PAVOLINI 1993. Cfr. anche WHITEHOUSE 1988. 16 PAVOLINI 1993, pp.63 s. 17 STAFFA 199l. Sulla continuità dei tracciati v. WARD PERKINS 1988. 18 Cfr. rispettivamente ARTHUR 1985, ARTHUR 199l, PEDUTO 1989, MONGIU 1986 MONGIU 1989. A Ravenna si è riscontrato un deterioramento della città nel V-VI secolo e la cessazione delle grandi costruzioni urbane dopo la metà del Vl secolo: cfr. MAIOLI 1991, P. 223; GELICHI 1991, p. 160. 19 WARD PERKINS 1988, P. 16; SCHMIEDT 1974, P. 505. 20 Forte degenerazione del territorio milanese è risultata dalle osservazioni archeologiche per gli scavi della metropolitana milanese, per cui v. ScaviMM3 1991. Per quanto detto nel testo, mi sembra che non colgano nel segno affermazioni della continua vitalità della città in Italia tra il VI e l'VIII secolo come quelle, ad esempio di LA ROCCA 1992, ma anche di WICKHAM 1988, basate sull'accostamento di testimonianze scritte che si collocano ai due estremi del periodo cronologico predetto. Il problema non è dimostrare che le città sono in genere sopravvissute mutando fisionomia, cosa della quale nessuno dubita, ma ricostruire con sufficiente dettaglio l'andamento della loro evoluzione tra VI e VII secolo in circostanze politiche, economiche e culturali particolari; su questo non ci sono però testimonianze scritte coeve, né sembra corretto utilizzare le testimonianze posteriori, perché si deve lasciare aperta la possibilità di trasformazioni nella seconda metà del VII secolo, su cui si tornerà più oltre nei testo. 21 Questa sembra una possibile interpretazione di casi come la cattedrale di Sabiri, distante dall'abitato, per cui LEGGIO 1989, P. 171, ed il complesso episcopale di Pratola Serra, per cui PEDUTO 1992. 22 In questo senso le osservazioni in DELOGU 1990 e, relativamente al caso di Roma, DELOGU 1988. 23 I termini della questione proposti in VON HESSEN 1978 a; cimiteri con sepolture contigue riferibili a romani e longobardi di recente identificazione: Sovizzo (per cui R1GONI et al. 1988); Romans d'Isonzo (per cui Ro~.2a'.2s d'lsoi.2220 1989). In questo contesto recuperano interesse i cimiteri misti di Cividale, per cui BROZZI 1974; BIERBRAUER 1991, p. 19, e il fondamentale caso di Grancia, per cui VON HESSEN 1971, pp. 53 ss. Sul rapporto tra corredo funebre e identificazione etnica v. anche LA ROCCA-HUDSON 1987 e LA ROCCA 1989.
24 L'interpretazione della varietà culturale dei corredi funerari in chiave di acculturazione dei longobardi formulata da BIERBRAUER 1978, BIERBRAUER 1984, soprattutto in relazione al cimitero di Castel Trosino, è discussa da MARTIN 1988, che ipotizza la presenza di sepolture con corredo romane fra quelle longobarde. Cfr. le osservazioni di BIERBRAUER 1991, p.52, nota 233, che peraltro non chiude il problema. La recente originale lettura dei cimiteri di Nocera Umbra e Castel Trosino fatta da JOERGENSEN 1992 non affronta il problema delle relazioni etniche nelle popolazioni di inumati; invece indicazioni per una nuova interpretazione di Castel Trosino sotto questo aspetto si trovano in L.PAROLI c.s.. 25 WICKHAM 1984; 1988b. 26 Trasformazioni della gestione agraria dopo l'insediamento longobardo: MODZELEWSKI 1978; prelievi longobardi sulla produzione agraria dei romani: GOFFART 1980, pp. 176 ss.; DELOGU 1990, pp.116 ss.; tributi pubblici net regno longobardo dell'VIII secolo: GASPARRI 1990, pp. 262 ss.; semplificazione dell'organizzazione rurale in area bizantina nel corso del VI secolo: RUGGINI 1961, pp.406 ss.; RUGGINI I 964 pp.283 ss.; trasformazioni dell'organizzazione fondiaria tardoantica nel ravennate: CASTAGNETTI 1991. Un'interpretazione del sistema economico dell'età longobarda in chiave di regressione, discordante da quella di Wickham, in FUMAGALLI 1985; FUMAGALLI 1989, pp. 70 ss. 27 DELOGU 1990, pp. 158 ss. 28 Rarefazione e scomparsa del vasellame africano a Brescia e Milano dopo il VI secolo: MASSA 1990, p. 159; ScaviMM3, I, pp. 357 s. Rarità a Castelseprio: BROGIOLO-LUSUARDl 1980, p 486 ss.; a Invillino: MACKENSEN 1987, p. 236. In generale sulla rarità della terra sigillata africana in Lombardia BROGIOLO-GELICHI 1992, p. 28. Prosecuzione di importazioni africane fino alla metà del VII secolo in Liguria: Murialdo in BONORA et al.1988, p.346; MURIALDO 1992, pp.765.;LUSUARDISIENA-MURIALDO-SFRECOLA 199I;CHRISTIE 1990 PP-236 ss. Per la Romagna indicazioni in MAIOLI 1983; MAIOLI 1991. 29 Ceramica invetriata di tradizione romana: BROGIOLO-GELICHI 1992, pp. 27 ss.; distribuzione della ceramica longobarda: VON HESSEN 1978b, p. 263: distribuzione della decorazione ad animali e volute: ROTH 1973, pp. 287 ss. Sembrerebbe fare eccezione a quest'isolamento l'esportazione di pietra ollare verso l'Italia centro meridionale, che però sembra datare tra la fine del VII e l'VIII secolo, in un contesto di relazioni interitaliane mutato, di cui si parlerà più avanti: cfr. ad esempio STAFFA 1991, p. 354 (Abruzzo); ARTHUR 1991, p. 776 (Napoli); ma anche GELICHI 1987, p.205. Sulla pietra ollare in generale cfr. MANNONI-MESSIGA 1980 e La pietra ollare 1987. 30 Sull’organizzazione dell’Italia annonaria v. RUGGINI 1961, pp. 1 ss.; CLEMENTE 1984; RUGGINI 1984; GIARDINA 1986. 31 PEDUTO 1986, p. 568; STAFFA 1992, pp. 825 s. 32 Cfr. rispettivamente GENITO 1988; PEDUTO 1992. 33 Fine della produzione di ceramica invetriata a Roma nel VII secolo: PAROLI 1992, p, 35; semplificazione della produzione vetraria: SAGUI’ 1993a. 34 DELOGU 1993, 35 PAROLI 1992, pp. 360 ss.; PAROLI 1993, pp. 235 ss.; PATTERSON 1993, pp. 313. 36 Miseno: ARTHUR 1989, pp. 85,88; 1991 a, p. 774. Otranto: ARTHUR et al. 1992, pp. 103 SS.; PAROLI 1993, p. 237. 37 Il fenomeno, già rilevato da BOGNETTI 1954, PP. 751 S. relativamente al territorio milanese, è stato approfondito da ROSSETT} 1968. Più recentemente è stato riproposto per la Sabina da MIGLIARIO 1988. 38 ROSSETTI 1968, PP. 36 SS. 39 MIGLIARIO 1988, PP. 60. 40 G.D.L., V, nr. 88, possibile identificazione di casale e fundus; R.F. Il, nr. 224, P. 185, elenchi separati di fundi e casali; C.D.L., V, 6 e 8, casali ricavati nel gualdo pubblico. Il caso archeologico di San Donato ricordato sopra alla nota 10 potrebbe rappresentare proprio un esempio di nuovo insediamento destinato a diventare casale.
41 La soluzione della Migliario, che propende per la conservazione delle strutture catastali imperiali sia nel territorio che nella memoria istituzionale, può dunque essere sfumata nel senso esposto nel testo. Un interessante caso di comparazione è offerto dalla organizzazione fondiaria del Ravennate per cui v. CASTAGNETTI 1991. Recentemente DURL[AT 1993 ha sostenuto che il fundus in Italia sia stato tanto in età imperiale che bizantina, un'unità impositiva fiscale tenuta in proprietà eminente da un possessor e articolata sotto il profilo della gestione in minori proprietà agrarie. Quest'interpretazione presenta analogie con quanto esposto sopra nel testo, e farebbe risalire indietro nel tempo la coesistenza di strutture della proprietà eminente e di più piccole e mutevoli forme della proprietà utile. Poiché peraltro suscita sostanziali riserve l'ipotesi della continuità dell'organizzazione impositiva romana fino al IX secolo, andrebbe comunque spiegata la funzione del fundus come entità di riferimento della proprietà nei diplomi papali e imperiali di quell'epoca. 42 Per la moneta Longobarda cfr. BERNAREGGI 1983; inoltre, per le situazioni dell’Italia settentrionale, ARSLAN 1984; ARSLAN 1986; per quelle del Mezzogiorno ODDY 1974; BERTOLINI 1978. Per Roma ROVELLI 1989. 43 Sulla pace tra longobardi e impero DELOGU 1980, pp.99 s.; sul concilio e i rapporti con Roma ARNALDI 1987, pp. 67 ss. Il passo di Teofane è 356, 2. 44 CARILE 1986, p. :390, ARNALDI 1992, pp. 4278 s. L ipotesi che I istituzione dei ducati nell'organizzazione dell'Italia bizantina risalga alla fine del VI secolo, sostenuta da BAVANT 1979, è discussa in DELOGU 1989, P. 104 nota 17 e DELOGU 1993, p. 22 nota 33. 45 LLEWELLYN 1986, pp. 45 ss. 46 Cfr. BERTOL1NI 194i, pp. 298 s.; PATLAGEAN 1974. In generale BROWN 1 984, pp. 101108. Per Ravenna anche CARILE 1986, p. 380. 47 Manutenzione DELOGU 1988, P. 34, assistenza pubblica: BERTOLINI 1947, ancora fondamentale nonostante le divergenti posizioni di DURLIAT 1990 b, pp. 164 ss. 48 DELOGU 1980, PP. 113 55. 49 GASPARRI 1988 a, p. 102; Paolo diacono, Historia Langobardorum, Vl,l. 50 Per la Toscana: 1982, PP.38, 53; VIOLANTE 1982; per Benevento: GASPARRI I988 a, p. 102; VITOLO 1990, PP. 92 55. 51 BROGIOLO 1992, PP. 202 SS.; per Roma DELOGU 1988, PP. 32 SS. 52 Sul patto di Liutprando v. da ultimo MONTANARI 1986. La datazione dei primi accordi alla prima metà del VII secolo proposta da MOR 1977, S; fonda su argomentazioni che non sembrano risolutive. E’ probabile che la prima stipulazione del patto rinnovato nel 715 fosse più recente. Per i rapporti tra Roma e Napoli cfr. ARTHUR 1991, P.776. Immigrazioni consistenti di siciliani a Roma tra fine VII ed i primi decenni dell'VIII secolo, DELOGU 1993, PP.21. In questo quadro di ripresa delle relazioni e dei traffici si possono spiegare anche le esportazioni di pietra ollare ricordate più sopra. 53 PAROLI 19921 PP.43 ss. 54 Cfr. rispettivamente PAROLI 1990; PATTERSON 1993; San Vincenzo al Volturno 1993. 55 ROVELLI 1992. 56 Per la ricostruzione del pensiero di Pirenne è opportuno tener conto, oltre che del celebre Maometto e Carlomagno (1937), anche della Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo (1915-18) e delle Città del medioevo (1925) che ne costituiscono le premesse.
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Germnen des 5. und 6. Jahrhunders in Italien Uber dieses hema, insbesondere uber die Ostgoten und Langobarden in Italien, ist schon oft und viel geschrieben worden; Nenes zu erarbeiten, fallt daher schwer. Nicht behandelt werden hier wegen des begrenzten Umfanges dieses Beitrages die Langobardent. Da anch einige wenige Nenfunde nichts Grundsatzliches an dem 1975 publizierten Bild zur Atchaologie der Ostgoten andern2 (s.u.) und inzwischen auch die damals von mir nicht ausreichend behandelte Frage der Trennung jenes Fundstoffes nachgeholt wurde, der mit den germanischen Einwanderern unter Odoaker 469/70 und/oder mit den ostgotischen Einwanderern unter Theoderich (488) verbunden werden kann3, sollen diese Ausfuhrungen starker anf andere Aspekte ausgerichtet sein: anf germanischen Fundstoff, der gesichert oder wahrscheiulich noch in die Zeitvordie germanischen Landnahmen unterOdoaker(469/79) und Theoderich (488) gehort und anf germanische Fremdgruppen im italischen Ostgoteureich: Alamannen und Gepiden, zumal hierzu auch einige wichtige Nenfunde in den letzten Jahren bekanut wurden. AbschlieBend werden nochmals karz und zusammenfassend die nach 1975 bekannt gewordenen ostgotischen Neufunde zusammengestellt. Nach wie vor grundet die Archaologie zu den Germanen des 5. und 6. Jahrhunderts anf Grabfunden, da entsprechende Siedlungen bzw. Siedlungsbefundc - mit Ausuahme des ostgotischen Castrum auf den Monte Barro am Sudostende des Comer Sees (s.u.) - niche bekanut sind. Germanischer Far~dstoff; dergesichrt oder rfradrsche~nlich vor die ()doakerar~d Ostgotenzeitgedort Der nach wie vor zoitlich alteste und ethnisch gesicherte germanische Grabfund ist das Franengrab von Villafontar~a bei Verona, das bereits 1888 und leider ohne Kenutuis der Fundumstande ins Museum gelangte, moglicherweise nicht vollstandig ist und vielleicht aus einem Graberfeld des S. 7. JahrhUnderts stammt 4. Die nur 9 cm langen Fibeln aus Silberblech (Fig.1,1 - 2) gehoren zur Gruppe von ostgermanischen Silberblochf~beln, die als Typ - jedoch noch wesentlich kleiner wahrend der Zeitstufe C3 in der im Kern gotischen Cerniachow- bzw. Sintana de Mures,-Kultur in der Ukraine und in bestimmten Teilen Rumaniens schon vor der Mitte des 4. Jahrhunderts ausgebildetworden; innerhalb derChronologie des ostgermanischen Fundstoffs der Zeitstufen C3-D3 (4. Jahrhandert - 470/80) dieser beiden Kulturen und des ostgermanischen Fundstoffs in Sudostouropa sind sie kenuzoichnende Vertreter der Stufe D1 (= Phase Villafontana; ca.370/80-400/410)S. Das Herkonftsgebiet der Dame von Villafontana mit ihrer (ost-)germanischen Zweif~beltracht (zum Heften eines mantelartigen Umhanges auf ihrem Kleid?)6 umfal3te wegen der Verbreitung der Graber mit diesem Blochfibeltyp in D1 die sudliche und sudostliche Peripherie der 376 wegen der reiternomadisch-hunnischen Westexpansion untergegangenen (ostgotischen) Cerniachow-Kultur (Schwarzmoerkuste, Krim, Nordkaukasus = versprengte Ostgoten) sowie dann anch den weiteren Migrationsraum der Populationen dieser Kultur und der (westgotischen) S~ntana de Mures,-Kultur nach 375 weiter westlich in Sudostouropa7. Wegen dieser kulturgeschichtlich-ethnischen Zusammenhange, der Datierung des Grabes von Villafontana und besonders der schriftlichen Uberlieferung ist es moglich, die in Oberitalien wegen ihrer Tracht fremde Dame mit den Migrationen der Westgoten unter Alarich zwischen 401 und 402 und 408-410/12 in Italien inVerbindung zu bringen8. Trifft dies zu, so ware das Franengrab von Villafontana nicht nur die einzige gesicherte positive archaologische Evidenz fur die 40jahrige Migrationszoit derWestgoten zwischen 376-418, sondern anch bis zu ihrer Landuahme in Spanien ab dem Ende des 5. Jahrhunderts (spatestens 507); ist fehlende positive achaologische Evidenz fur die Wanderzoit bzw. wegen der Kurzlebigkeit der westgotischen Fooderateureiche bis 418 keineswegs sonderlich verwunderlich, so bleibt das weitere Fehlen westgotischer Bestattungsplatze auch wahrend des knapp 90jahrigen tolosanischen Reiches ohne Beispiel in der fruhgeschichtlichen Archaologies. Aus einem (zerstorten?) Mannergrab stammt die kostbare goldene kloisonnierte Gurtelschnalle mit rundem almandinverziertem Beschlag mit zwei strahlen bzw. winkelformig angeordueten Stegen und drei seitlich des Zellwerks in Osen sitzenden Nieten (Fig.1,3-3a); sie wird im Musco Civico in Bologna aufbewahrt. Ihr Fundort und ihre Fundumstande sind unbekanutió; da das Muscum - etwa
im Gegensatz zu anderen Sammlungen, z. B. dem Musco Nazionale di Bargello in Florenz- keine uberregionalen Ankaufe (aus dem Kunsthandel) vorgenommen zu haben scheint, durfte die Goldschnalle vermutlich aus der Emilia-Romagna stammen. Funktional gehorten diese Schnallen mit rundem Beschlag je nach GroBe (Lange zwischen 3,1 und 5,5 cm) entweder zum Gurtel oder zu Schuhschnallen- bzw. Stiefelgarnituren (nicht selten rnit dazogehorigen Riemenzongen); eine funktionale Entscheidung ist gesiGhert nur moglich durch Lagebefunde im Grab oder durch ihr paarweises Vorkorumen (ScLuhschnallen). Kennzoichnend ist anch die Befestigungsart am Lederriemen, da tlas Leder zwischen Zellkasten und Ruckseitenblech geschoben worde. Sind eiurnal Angaben vorhanden, so liegt das reine Goldgewicht dieser Schnallen etwa zwischen 7 und knapp 40 g, von Ausuahmen wie die besonders schwere Gurtelschnalle von F`urst in Bayern mit 52,8 g einmal abgescheni2. Vergleichbare Langen von gesicherten Gurtelschnallen lassen auch fur das Exemplar aUs dem Museom Bologna (Lange 4,5 crn) anf eine gleichartigè Verwendung arn Eeibriemen schlieBen. Die Datierung dieser Goldschnallen in die l. Halfte des 5. Jahrhunderts ist schon seit langem gesichert, anf die dann nach der Mitte des 5. Jahrhunderts andere Goldschnallen mit ovalem bzw. nierenforrnigem Beschlag und weiteren anderen Merkmalen folgen (z.B. im frankischen Childerich-Grab von Tournai oder im gepidischen Ornhatus-Grab von Apahida). Eine feinere Chronologie fur diese Goldschnallen des besprochenen Typs ist - trotz Neufunden nach wie vor schwierig: Gleichwohl plidieren die ungarische Forschung, aber auch andere Autorèn heute zunchmend mehr oder weniger entschieden dafur, Fundkomplese rnit diesen Gurtel- und Schuh- bzw. 9tiefelschnallen im Karpatenbocken rnit ihrer anffallenden Konzontration in den pannonischen Provinzon Valeria und Pannonia I erst in die Zeit nach der vermuteten ~bergabe von (grol3en?l Teilen der pannonischen Provinzon an die Hunnen 433 bzw. in die drei Jahrzehnte zwischen 425 und 455 zu datieren'3. Ein Rekurrieren auf diese und ahnliche Schriftquellen zur Stutzung archaologischer Datierungen kann und sollte in diesem Zusammenhang áber besser unterbleiben, da bis heute in der historischen Forschung kein befriedigender Konsens zu diesern seit alters her umstrittenen Problem der it~bergabe von Pannonien oder Teile von Pannonien' an die Hunnen (433) erzielt werden konutet4. Der archaologische Befund ist heute ohnchin eindeutig genug, da rciternomadische Fundkomplexe (Totenopfer) und reiternornadisch gepragte gerrnanische Bestattùngen prinzipiell in den Ptovinzen Pannonia I und Valeria gesichert sind Und dies mehrheitlich rnit archaologischen Beweisfuhrungen fur das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts; zu diesen Fundkomplexen und Grabern gehoren anch die Goldschnallen mit runder Beschlagplatte. Dies schlieBt aber nicht aus, daB einzelue Graber mit diesen SGhnallen - wie z.B. Lébény in Nordwestungarn (Pannonia I) und vielleicht auch Untersiebenbrunn (Familiengrablege] im Marchfeld (Niederosterreich) auch etwas alter sein konnen (1. Viertel des 5. Jàhrhunderts)~S. Die Sitte, ScLuh- bzw. Stiefelschnallen (mit Riemenzungen) aus Cold mit und ohne Almandinverzierung zu tragen (und deren Typen, anch als Gurtelschnalle) geht im Karpatenbeeken anf Reiternomaden zuruck (Hunnen/ Alanen)~ó; entgegen I. Bóna, der diese Tracht `, ~ als zunachst “nicht-germanische Mode,> dann auch im Karpateoraurn von Germaninnen ubernommen wurden44, sind nach moiner Auffassung in betrachtlicher Zahl anch germanische Tragerinnen gesichert, vor allem dann, wenn sie paarweise funktional in der Franentracht (Schulterlage im Grab) verwendet wurden, so z.B. beim Madchen in der ostgermanischen Familiengrablege von Untersiebenbrunn im niederosterreichischen Marchfeld (Fig. 4,5-ó)4s oder im Kindergrab von Intercisa (Dúnaujváros)4~; die ZiRadenf~beln in Untersiebenbrunn wie z.B. auch die ornamentgeschichtlich eng mit dem Pferdegeschirr aus dieser Familiengrablege verbundene ZiRadenf~bel von Dúmbravioara (Sáromberke, Rumanien; fig. 4,4)47 sind gute Belege bereits fur die Zeitstufe D2a (= Phase Untersiebenbrunn/ Hochfelden; ca, 400/410-420/430). Da - wie erwahnt - aber die moisten gut datierbaren Graber mit Zikadenfibeln ohne Zweifel der 1. Halfte und der Mitte des 5. Jahrhunderts angehoren, durfte dies auch anf das Orab von Ladispoli zutreffen; gesichert ist dies naturlich nicht, da ja in Einzelfallen auch noch eine spatere Datierung (2. Halfte des 5. Jahrhunderts) moglich ist. Ostgotisehe Stammeszugehorigkeit e wie von Frau Cosentino angenommen4a - ist wegen der oben schon mehrfach angesprochenen Schwierigkeiten der ethnischen Auswertbarkeit ostgermanischer Graber des 5. Jahrhunderts in weiten Teilen Sudostouropas nicht zu erweisen, schon gar nicht um die Mitte des 5. Jahrhunderts in Russia Meridionale 5 da dort zu dieser Zeit keine Ostgoten mehr siedelten4s. Zammenfassarg za Jem germaischen Far~dstoff; derges ahert oder drsheiich iz die Zeit vor die germanischer Landrahmer anter adoaker ard Theaderch gehart Mit Ausnahme von LadispQIi und vielleicht noch von Castelbolognese sind alle anderen (Grab-)Funde gesichert in die erste Halfte bis maximal um die Mitte des 5. Jahrhunderts datierbar; anch fur Castelbolognese ist dies ebenfalls hochst wahrscheiulich56 und fur Ladispoli immerbin moglich. Peutlich wurde anch, daB kein zoitlich einheirlicher germanischer Fundhorizont vorliegt:
der Fundstoff gehort sowohl in das erste Viertel (Villafontana und Carpignago) als anch in das zweite Viertel des 5. Jahrhunderts (Schnalle aus 'Bologna', 'Brescia', 'Desana' und hochstwahrscheinlich anch Castelbolognese, dazu vielleicht noch Ladispoli). Wahrend die Dame aus Villafontana vielleicht den Westgoten Alarichs zugeorduet werden kann (401/402 und 408/410-412), sind ethnische ZuweisUngen fur das ubrige Trachtzubehor nicht mehr moglich; Germanen bzw. Germaninnnen aUs dem sudosteUropaischen Raum waren sie aber allemal, Stammeszugehorigkeiten sind jedoch nicht zu ermitteln. Dies erschwert somit zusatzlich natUrlich jeden Versuch, diese Germanen in einen historischen Kontext in Italien einorduen zu wollen. Lal3t man sich auf dieses riskante Unterfangen dennoch ein, so ergeben sich zwei prinzipielle Moglichkeiten: 1. eine mogliche Verbindung mit Germanen-Einfallen, eher unwahrscheinlich wegen der zoitlichen Befristung dieser UnternchmUngen Und 2. eine VerbindUng mit in Italien garnisonierenden germanischen Solduertruppen mit langerer Verweildauer, wofur auch archaologische Kriterien sprechen; eine gesicherte Entscheidung zwischen beiden Moglichkeiten Uberfordert jedoch die geschilderte Befundlage. Germanische Einfalle sind fur den in Betracht kommenden Zeitraum mehrere bekannt: die Westgoten wie ervvahnt unter Alarich zwischen 401 und402undindenJahren408-410/412,derebensovehecrendeGoten-Einfall unter Radagais 405/406 sowie dann Attilas HUnnen (mit fooderierten Germanen)451/452s~. Liel3e sich die Verbergung des Schatzfundes von Carpignago (t.p. 404), dessen Besitzer ein germanischer Torques-Trager war, noch am ehesten mit den Invasionen in den beiden ersten Jahrzehnten des 5. Jahrhunderts verbinden, so fehlen solche Bezugspunkte fur die Zeit danach bis 451/452. Will man also uberhaUpt nach historischen Erklarungsmoglichkeiten suchen, so lage die VerbindUng dieses germanischen FUndstoffes mit in Italien iiber langere Zeit garnisonierenden germanischen Soldaten bzw. Off~zieren und ihren Familien naher, wie sie besonders deutlich dann fur die Zeit des suebischen Comes (456-459) bzw. magister militUm (459-472) Ricimer uberliefert sind (Skiren, Alanen Und Goten)s2; gleiches gilt sicher auch fur die Zeit des comes Und magister militUm Aetius ab 425s3 und fur die Zeit Stilichoss4. Diese “inneren foederati>~, wie L. Várady sie nannteSs, sind es wohl, die den germanischen Fundstoff der 1. Halfte des 5. Jahrhunderts am besten erklaren konnten. Die Graber von Castelbolognese und Ladispoli, die einzigen, zu denen Befund Und Kontext bekannt sind, verdeUtlichen, dah die hier beigesetzten (Ost-)Germaninnen bereits langere Zeit hier gelebt haben durften, da sie nach romischer Sitte in Ziegelgrabern Und wohl anch in Graberfeldern der einheimisch-rornanischen BevolkerUng beigeserzt wUrden. Germanische Fremdgrappen, im italischea Ostgotereich AlamaHHeH im UStgotisC/8H /tali§H 1974 veroffentlichte ich Material aUs gestorten Manner- und Frauengrabern von vier FUndorten, deren trachtgeschichtliche Und formenkUndliche Analyse klare Bezuge zum sudwestdeUtschen alamannischen Stammesgebiet ergab; dies Und seine Datierung “in das lerzte Drittel des 5. und in das 1. Drittel des 6. Jahrhunderts” fuhrten ZU dem Ergebuis, die in den Grabern von Alcagnano, Fornovo di San Giovanni, Villa Cogozzo und 'Verona' (Fig. 10,1, nn. 1-4) Bestatteten mit jenen Alamannen ZU verbinden, die sich schon 496 nach der EinverleibUng derpatr~a Alaman,nor~m durch die Franken unter Chlodwig oder 505/06 nach einem mil3glUckten Aufstand gegen die Frankenherrschaft aulSer Landes begaben; als Fluchtgebiet dieser Alamannen - in den Schriftquellen nicht klar ZU ermitteln, aber Unter ostgotischer Schutzherrschaft (S.U. ) - kam dUrch diesen gesicherten archaologischen BefUnd auch das ostgotische Oberitalien selbst in Betrachtsó. Drei weitere Fundorte konnen nun hinzugefUgt werden: Ficarolo bei Gaiba am Po, also in unmittelbarer Nahe ZU Alcagnano, Und ein Grabfund “aus der Gegend von Florenz”, beides Franengraber sowie ein Mannergrab von Testona im Piemont (Fig. 10,1, nn. 5-7). In der Gemarkung Chiunsana von Ficarolo wurde 1992 im Rahmen planmaBiger Grabungen des Instituts fur Archaologie der Ruhr-Universitat Bochum unter der Leitung von Prof Dr. Hermann BUsing das Grab einer adult verstorbenen Dame ausgegraben, die aus dem sUdwestdeutsch-alamannischen Stammesgebiet nach Oberitalien gelangte; bestattet wurde sie anf dem Gelande einer im 1.-2. Jahrhundert als Werkplatz und Siedlung genutzten Flaches7. Gemoinsam
mit H. Busing und Andrea Busing-Kolbe wird demnachst ein nur diesem Franengrab gewidmeter und starker begrundend auswertender Beitrag erscheinenS9; die Ausfuhrungen an dieser Stelle zu den noch nicht konservierten Objekten konnen daher auf die nur unbedingt notwendigen Grundaussagen in der Bewertung dieses auch kulturgeschichtlich hochst interessanten Grabfundes beschrankt werden. Das Frauengrab (Grab l)s~ enthielt: 1. eine silberne Haarnadel mit vergoldetem massiven EndstUck von quadratischem Querschnitt mit Rillendekor an beiden Enden, Lage hinter der rechten Kopfpartie, Lange 14,1 cm (Fig. 5,5; die Spitze ist abgebrochen); 2. am linken Unterarm ein massiver silberner Arrnreif mit verdickten unverzierten Enden (gro~te lichte Weite 6,8 cm) (Fig. 5,1); 3. an der linken Hand ein silberner (?) Fingerring mit quadratischer Kastenfassung und vier Eckrundeln, offensichtlich mit Almandinen (lichte Weite 1,7 cm) (Fig. 5,2). Nicht in Funktions- bzw. Trachtlage fanden sich: 4. eine silbervergoldete Gurtelschnalle mit ovalem BUgel mit einem Dorn von dachformigem Querschnitt mit plastischem 'Augendekor' an der Doruspitze und verdicktem, gerilltem Dornende sowie mit quadratischer Beschlagplatte mit rankenartigem DeLor mit vier Eckrundeln mit Almandinen und mit einem vertieften Mittelfeld (mit hinterlegtem Bloch mit vier zellgefal3ten Almandinen, Lange 7 cm) (Fig. 5,4); 5. eine gegossene kerbschnittverzierte Bugelfibel mit halbrunder Kopfplatte und drei Knopfen und einer rhombischen Fui3platte, jeweils mit spiralrankenartigem Volutendekor, Lage zwichen den Ful3en, Lange 7,1 cm (Fig. 5,3); ferner: neben dem rechten Oberarm zwei Bronzeringe und eine groBe blane Glaspastenperle mit roten und weien millefioriartig eingearbeiteten Punkten. Nadel und Armreif weisen klare Bezuge zum alamannischen Stammesgebiet auf: Fur die Nadel (Fig. 5,5) - mit exakten Gegenstucken anch in Alcagnano - hatte ich dies 1974 bereits nachgewiesen6u; ahnliches gilt fur den silbernen Armreif (Fig. 5,1) in der fur das alamannisch-frankische Gebiet kennzoichnenden Trageweise eines eilz~elr~en Armreifes am linken Handgelenk, wahrend im ostgermanischen Stammesgebiet - so auch bei den Ostgoten - Kolbenarmreife paarweise getragen wurdenóó. Hier im alamannischen Stammesgebiet hatte am Ende des 5. Jahrhunderts die in Ficarolo bestattete Dame ganz ohne Zweifel wegen dieser trachtgeschichtlich hochrangigen SpezifiRa eine Zeit lang gelebt, aber sie mu6, ja durfte keine Alamannin gewesen sem. Dies ergibt die Bewertung ihrer Fibel (Fig. 5,3), die enge, ja mustergleiche Parallelen sowohl im Karpatenbocken, besonders im gepidischen TheilOgebiet, als anch im alamannischen Stammesgebiet in Grabern von Basel-Kleinhuningen und Basel-Gotterbarmweg besitzt; als Beispiele sei auf die werkstatt-, ja vermutlich gul3gleichen Fibeln von Csongrád-Kettoshalom an der mittleren Theil3 (Ungarn) (Fig. 7, 5-ó)62 Und Basel-Kleinhuningen, Grab 75 (Fig. 7,1-2)63 verwiesen, einziger Unterschied zur Fibel von Ficarolo ist nur die Anzahl der Knopfe. Diese Fibeln gehoren innerhalb der Fibelentwicklung Sudostourops in die 2. Halfte des 5. Jahrhunderts und in die Zeit um 500, dies auch mit Blick anf verwandte Dreiknopffbelnóó. In die gleichen ostgermanisch-sudostouropaischen Zusammenhange etwa derselben Zeit fuhrt der silberne almandinverzierte Fingerring (Fig. 5,2) mit Parallelen im ostgermanischen Frauengrab von Bakodpuszta (Ungarn)ós, im ostgermanischen (gepidischen?) Schatzfund von Cluj-Someseni (Rumanien)66 von Lorrach in Sudbaden (mit einem ostgotisch-italischen Fibelpaar) andererseits6s. Diese Gemoinsamkeiten zwischen dem ostgermanischen mittleren Donauraum und den Alamannen vor allem am Basler Rheinknie sind schon lange'bekanut, dank einer umEanglichen Studie von J. Werner, der anch schon auf die genannten Ubereinstimmungen bei den Fibeln hinwiesóóó: “Diese Bezichungen spiegeln Verbindungen der donaulandischen Germanen zum frankisch-alamannischen Gebiet in der Zeit nach dem Zusammenbruch des Attila-Reiches (453) und vor der Abwanderung der Ostgoten nach Italien (488) wider ” , die noch “ aUf der Linie gepidisch-alamannischer Gemoinsamkeiten~~ bis in das fruhe 6. Jahrhundert fortwirken70. Da Trachtzubehor regelhaft nicht als'Import' interpretierbar ist, sind die genanuten so spezifischen Verbindungen zwischen den Alamannen am Basler Rheinknie und dem Donauraum nur durch unmittelbare personenbezogene Kontakte, also durch Mobilitat von Personengruppen sinnvoll erklarbar. Von dort also, aus dem
(gepidischen?) Mitteldonauraum, durfte die Dame von Ficarolo in der 2. Halfte des 5. JahrhUnderts an das Basler Rheinknie bzw. in das alamannische Sudwestdeutschland gekommen sein, wo sie einige Zeit lebte und alamannisiert wurde (Haarnadel, einzeln getragener Armreif). Aber anch dies war nicht ihre letzte Station: Zusammen mit anderen Alamannen gelangte sie als alamannischer Fluchtlingvorden Franken Chlodwigs 496 oder 505/06 nach Oberitalien (s.o.), ein bewegtes Schicksal also, das sich anf archaologischem Wege einmal gut rckonstruieren und anch interessante akkulturationsgschichtliche Verhaltensweisen erkennen la[3t; in ihrer nenen Heimat in Oberitalien behielt sie zwar ihre alamannischen Spezif~ka bei, trug aber - der alamannischen f ranentracht vollig fremd - das kenuzoichnend grolle Gurtelschlob der ostgotischen Frauentracht (Fig. 5,4). Aber auch dieses GurtelschloB eroffnet Probleme, sowohl in seiner Datierung als auch in der ethnischen Interpretation; die Gurtelschnalle findet ihre nachsten mustergleichen(!) Parallelen namlich in drei Gurtelschnallen sowohl im Donauraum als auch in Italien: von unbekanntem italischen Fundort (Fig. 10,4), aus Oradea (Nagyvárad) am KorBs in Nordwestrumanien (Fig.10,3) und aus Kapolcs an der Nordwestecke des Plattensees in Westungarn (Fig.10,2)7~; nur die Schnalle aus dem Grab einer jungen erst 15-18jahrigen(!) Frau in Kapolcs ist durch Beifunde gut datierbar und zwar in die Zeitstufe D2/D3 und/ oder fruh in Zeitstufe D3 (etwa um die Mitte oder in das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts), weswegen anch die Tragerin der Schnalle aus 'Italien' unter Odoaker (469/70) oder Theoderich (488) nach Italien eingewandert sein kanni2. Wegen ihres Fundortes kann die junge Frau aus Kapolcs also eine Ostgotin wahrend der Zeit des pannonischen Ostgoteureiches (456-473) gewesen sein, wahrend der Fundort Oradea im fruhgepidischen Siedelgebiet ~u liegen scheint73. Es ist also gut moglich, dal3 die adult verstorbene Dame von Ficarolo ihr Gurtelschlol3 nicht erst in Italien erworben hat, sondern - als Ostgotin oder Gepidin(?) - bereits im Donaugebiet. Merkwurdig ist jedoch die nicht funktionale Grablage der Fibel (zwischen den FuBen) und der Schnalle (neben dem linken Knie) sowie das Vorhandensein nur einer Fibel. Das zweite, in diesem Zusammenhang nachzutragende Grabensemble ist das (HoRN-BoRN 1979, vol. i, p. 22). Hardly surprisingly, this paradigmatic model has becn challenged. Substantive criticisms have becn presented by Paul Meyvaert (1980), Dom Adalbert de Voguè (1984; 1987) and Warren Sanderson (1985) (see also JACOBSEN 1992; NEES 1986 and ZETTLER 1990). They contend that the dedicatory inscription on the plan, which Horn and Born took to be axiomatic evidence that the plan is (i) a copy, and (ii) off~cially prescribed, indicates quite the contrary. The critics have shown convincingly that the plan concerned a specific building project at St. Gall, and therefore cannot be interpreted as paradigmatic. Lawrence Nees (1986) in his review of Horn and Born goes a step further. The central tenet of Horn and Born's study, he writes, is “severely antiquated” (1986 p. 5); there is no overarching Carolingian model giving rise to this so-called renaissance concept, only a colloction of loosely connected regional traditions (cfr. SULLIVAN 1989 pp.306). Like Sullivan, Nees questions the ability of Charlemagne and his court to devise a programme for western Europe. In this essay I propose to examine the Carolingian debate lanuched by Sullivan, using the archacological evidence from three estate centres, the monasteries of Farfa, Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, to develop the argument beyond the transalpine monastery of St. Gall. The issues, I shall contend, are wider than Sullivan recognized, and bring us back to Pirenne's thesis. Karl Schmid has identifed a monastic conquest of Italy by the Franks before their military takeover (SCHMID 1972; NOBLE 1984 pp. 159). This conquest, to quote Panofsky (1960 p. 40), involved reforming “political and ecclesiastical administration, communications and the calendar, art and literature, and - as a basis for all this - script and language”; the guiding idea was to bocome crystallized in the renovatio imperii romani. A generation later this conquest was reinforced by the monastic reforms of 816-17. The driving force behind these reforms was Benedict of Aniane, sometimes described as the viceregent of Louis the Pious (cfr. NOBLE 1976 p. 249). Benedict, according to his biographer, Ardo, set out to establish a rule shared commonly by all monasteries. According to Ardo, his intention was to create “such a state of unity that it seemed as thongh they had becn instructed by one master and in one place” (NOBLE 1976 pp.249). Ardo makes it sound like the Treaty of Rome. Did the monastic conquest change Italy, or were places like San Vincenzo al Volturno too remote, as Nees has argued, from the Carolingian court to be affected? Schmid's motif of monastic conquest was based upon the written sources. In each monastery there were debates betwecn the Frankish and Lombard factions as Charlemagne entered Italy. San Vincenzo al Volturno, for example, had a Frankish abbot, the philosopher, Ambrosius Autpert. Each of the three monasteries under scrutiny here was granted immunities and privileges by Charlemagne
as he swept down through Italy in the 780s. Each then appointed Frankish abbots, who for f fty years or so, stoered the political directions of their institutions. Finally, during this age, each monastery built up huge blocks of territory. As Del Treppo showed for San Vincenzo (1954-55), and PierreToubert for Farfa and Montecassino (1973; 1976), the monasteries enlarged their economic operations significantly at this time. Convincing though these details are, it is still difOcult to imagine these monastic legionaries bringing Carolingian order to the upper Volturno or the Sabina. We need a model that can be measured; an estate centre which can be compared with the results from the huge excavations at places like Dorestad, Hedeby, Ispwich, Ribe and Southampton. The model necessarily depends upon San Vincenzo al Volturno bocause in that remote, unlikely place we have had the opportunity to excavate over half a hectare of the early medieval monastery. At Farfa David Whitohouse and Charles McClendon have made limited excavations (MCCLENDON 1986; WHITEHOUSE 1985), and at Monte Cassino Don Angelo Pantoni carried out rescue excavations in the 1950s before the new monastery was built (PANTONI 1973; 1981). the abbey's apse, was situated the lay cemetery. On a mighty terrace crowning the hill lies another complex with its own church. The colloctive workshops ran in a line for perhaps 200m along the south side of the abbey, terminating at a church situated by the river. On the eastern side of the river are remains of another part of the monastery, possibly its vicas where seasonal exchange took place. This monastery is staggering for its use of material culture. In the construcrion yard under the east end of the complex, brick and tile kilus were found, furnishing the thousands of tiles needed to roof and pave this and many of the other building. A glassmaker's workshop was also discovered here. Glass was manufactured on a vast scale. Most of the buildings were glazed; glassware was in common use in the monastery. Pottery from many different sources (PATTERSON 1990), including two Abbasid dishes, occurs in prodigious quantities. Every part of the monastery was richly painted, even dark corridors. The prevailing idiom of these paintings betrays the marked influence of Beneventan painters who shared a common idiom with artists working in north Italy and the transalpine region (BELTING 1968; MITCHELL 1985). Spolia was also used at every conspicuous point. Finally, the literacy of the monastery was promoted in an extraordinary way: 38% of the tile pavements bear one of 70 or so initials; painted inscriptions occur in many rooms; and an elegant script was developed for terracotta and stone tombstones (MITCHELL 1990). By any 9th-century standards San Vincenzo al Volturno was a town. Its greatest feature, however, was an abbey-church that ranked in size with the great churches built by members of Charlemagne's own court. 3. A generation later the monastery was remodelled for a third time in the span of the high Carolingian age. Abbot Epyphanius was responsible for these works. To judge from the ~lraHicoH, it is most likely that the rebuilding occured in c.833, judging from the intense level of benefactions to the monastery at that time. A massive new atrium with, a kind of westwerk, was added to the front of San Vincenzo Maggiore. The new atrium is distinguished by its vaulted rooms, and the elegance of its painting. In the cloisters, the monks' refectory, which had had a seating capacity for 300 persons, was enlarged. The distinguished guests' hall was completely transformed. Its western end was rebuilt and a new apse was created. These changes provided the opportunity to alter the buildings either side of it. The church to its north was furnished with a decorated cryptand a small atrium: it became a public place of worship. Immediately south of the guests' hall lay the vestibule leading to the cloisters. This was covered, remodelled and painted. On the other side of the monastery in the workshops there were still more changes. One of the workshops was made into a richly furnished apartment. The new apartment had a passage, leading off of which was a living room with painted walls and a kitchen containing a toilet. The south-facing facade of the apartment was decorated with decorated terracotta corbels (cfr. HODGES 1991). Abbot Epyphanius' monastery adhered to the lay-out made by abbot Joshua. Nevertheless, the alterations were ambitious. Almost every building was substantially remodelled. In many vaulting was introduced for the flrst time. A distinctive new style of painting, closer to the idiom known in Rome, superceded the earlier phase 4 paintings (MITCHELL 1985).
About 5% of San Vincenzo al Volturno has becn excavated. The archaeology indicates that abbot Paul's monastery in the 780s and 790s covered about half a hectare. Paul the Deacon described it as a great community of monks (FOULKE 1974 pp. 283). Yet it was essentially made around a single ritual monument, the abbey-church of San Vincenzo Minore with its pronounced ring crypt. AbbotJoshua's monastery was altogether on another scale. It was as much as ten times larger and laid out like a new town. Unlike the 8th-century monastery, it was a centre of production. It was designed on terraces, linked by corridors, with two majorfocal points: SanVincenzoMaggiore and the palace for distinguished guests. In other words, this plan was not like the plan of St. Gall with its single focal point. The 1 2th-century chronicler of San Vincenzo lamented the eclipse of the monastery. In the 9th century it had becn a place of European status. After the 9th-century sack by the Saracens, San Vincenzo was a ruinous place. When rebuilt in the 11 th century, however, it continued to possess a huge abbey, but the great guest-house was demolished. The 12th-century chronicler's reflections need also to be considered. In his mind, the precursor of the 12th-century Romanesque abbey was abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore, not San Vincenzo Minore, the flrst abbey church made by the founders within the ruins of the Late Roman villa. His reasoning was simple. Excavations of the 12thcentury abbey, occupying a fortifled site 400m from the old monastery, show that it was made of spoils taken from San Vincenzo Maggiore (cfr. PANTONI 1980). This memory existed amongst the contadini of the area until modern times. Monte Cassino The archacology of Monte Cassino is very limited. Angelo Pantoni's invaluable excavations made betwecn 1947-53 provide some basis for drawing comparisons with San Vincenzo al Volturno (PANTONI 1973; 1981). Like San Vincenzo's Late Roman estate centre, St. Benedict's 5thcentury oratory was made within the remains of an earlier settlement. The entire hilltop at Monte Cassino was enclosed by a Samnite fortiflcation. Within it are remains of several Samnite buildings (PANTONI 1973). The Later Roman community occupied the upper knoll on the hilltop. The oratory, dedicated to St. John the Baptist, discovered by Pantoni, measured 15.25m. Iong x 7.60m. wide. When the Benedictine community was refounded in the 8th century the settlement appears to have spread out across the west-facing flank of the knoll. The massive Samnite temple situated on this flank was used as the base on which the church of San Martino was built. For much of the 8th century this was the principal church at Monte Cassino. As at San Vincenzo, however, the impact of the Carolingians was considerable. The Frankish abbot Gisulf (797-812) rebuilt St. John as a much larger aisled basilica (PANTONI 1981 pp. 126). The exterior of the new church was decorated with pilasters, reminiscent of the facade of the eastwork at San Vincenzo Maggiore (PANTONI 1973 pp. 21). This now superceded San Martino as the principal church. Pantoni's excavations show that the 9th-century church had some kind of narthex or ~estYoerk. Was this added in the 830s, as at San Vincenzo? Abbot Gisulf also established a new community - possibly a vicus of some kind - on the Via Casalina immediately east of the ruined Roman town of ~asiHam' at the foot of the hill on which the monastery is situated. This roadside settlement was gathered around the large basilican church of Santa Maria delle Cinque Torre built by Abbot Teodemar (778-97) (cfr. CARBONARA 1979), and included a splendidly decorated basilica dedicated to the Saviour. Was this the sum of Monte Cassino's expansion as a monastic settlement in the Carolingian age? Inevitably, we are bound to ask whether Monte Cassino was eclipsed by Abbot Joshua's extraordinary works at San Vincenzo? The answer must be speculative. The only clue is the massive later 8th-Gentury terracing built out from the Samoite temple on the west flank of the knoll (PANTONI 1973). The terracing is as substantial as any found at San Vincenzo. Was this terracing designed to support the enlarged cloisters of the monastery? Did the building works extend beyond the knoll occupied in the 8th century, and later the hub of the fortifled monastery from the 11th century until
the present day? From an early date the entrance of Monte Cassino lay beside the church of S. Agata (cfr. PANTONI 1981). S. Agata occupies a pivotal position on the hilltop. Betwecn S. Agata and the knoll lies more than a hectare of ground in which secular parts of the monastery might have been located. West of S. Agata, lies the Piano di S. Agata, an area large enough to accommodate, for esample, the monastery's lay cemetery. In other words, did Monte Cassino resemble San Vincenzo by spreading out to fll the area once occupied in preRoman times? Further, was it distinguished by terracing and corridors which separated the modolar form of the monastery? Finally, was the vicus of San Germano on the Via Casalina the equivalent of the proposed vicus at San Vincenzo on the east bank of the river Volturno? Two points need to be borne in mind. First, St. John was a modest church by comparison with San Vincenzo Maggiore. In size it resembles San Vincenzo Minore, and the abbey-churches of Farfa (see below) and Novalesa (WATAGHIN 1988). One reason for this was the restriction of space. On the other hand, Abbot Gisulfs new church, unlike either the oratory or San Martino, wonld have dominated the skyline, attracting the attention of pilgrims and princes taking the road from Rome to the towns of the Principate of Benevento. By contrast, San Vincenzo Maggiore was, despite its size, a much less prominent building because of its situation (see below). Second, Pantoni kept virtually no flnds from his excavations. Those that do survive, however, strike a chord following the San Vincenzo excavations. There are several hundred tombstones, illustrating not surprisingly, a high level of literacy. Then there are a few tiles with inscribed initials like those from San Vincenzo (MITCHELL 1990 pp.201). Monte Cassino and San Vincenzo clearly shared a common tile-making tradition. Did they share other crafts? Farfa The abbey of Farfa has becn the subject of antiquarian study for nearly a century. Since Ildefonso Schuster published a mounmental history of the abbey in 1921 it has becn one of the best-known abbeys in Western Europe (SCHUSTER 1921). New light was thrown on the archacological record of the monastery by David Whitohouse's excavations made betwecn 1978-85. These were located between the western apse of the early medieval church and the late medieval tower associated with the residence of the commendatory abbots (WHITEHOUSE 1985). Whitohouse and his collaborator, Charles McClendon, have proposed a radical reassessment of the 9th-century phase of the principal abbey church. They contend that the monastery was refounded, like San Vincenzo and Monte Cassino, within a Late Roman settlement. No trace survives of the early 8th-century monastery. They argue, however, that during the later 8th century, when the monastery had a succession of at least three Frankish abbots - Ragambaldus (781-86), Albertus (786-90) and Mauroaldus (790-802), it took a distinctive Carolingian form (MCCLENDON 1986 pp. 7). McClendon and Whitohouse believe that the monastery at this time was entered from the west, the tower forming part of an imperial guest-house. The abbey-church, had an atrium in front of a west facade which has long since becn removed. The eastern apse, so their argument goes, has becn removed by a later 1 lth-century rectangular sanctuary flanked by two towers. A section of pavement made of opassertile survives in the nave, and part of the decorated east nave wall also survives. The cloisters, in their view, lay on the terraced eastern side of the narrow church. The mid-9th-century Constructio Farfensis, however, is clear that the major changes to the abbey were made by Abbot Sichardus (83042). McClendon and Whitobouse ascribe to him the western end of the church, the apse, trancept and ring-crypt, and the creation of a classic Carolingian basilica with an apse at either end. As the excavations are unpublished, this radical interpretation remains to be demonstrated. This has left scope for other interpretations of the excavated results. Tersilio Leggio, for example, contends that the early Carolingianperiod church was approached from the east not the west (1992). The abbeychurch was certainly approached from this direction in the 11 th- 15th centuries. Leggio proposes that the earliest apse was none other than the outer wall of Sichardus' later crypt. Beyond it, Leggio proposes, the area excavated contains a garden bounded by a portico and two other buildings
including possibly the small chapel of St. Peter's (1992). Leggio contends that abbot Sichardus radically transformed the church with a substantial eastwork that contained a hall crypt (Leggio proposes that the rectangolar sanctuary belongs to the 9th not the 11 th century) as well as the painted ring-crypt within the pre-existing apse. This interesting line of argument lays emphasis upon the Lombard origins of the abbey (in the Duchy of Spoleto) rather than its 9th-century, Carolingian, refurbishment. Further excavations and analysis by a team from the British School at Rome in 1993 have confrmed some aspects of Leggio's thesis. To judge from its painted decoration, the western apse, trancept and ring-crypt are the earliest preserved part of the early medieval church and date to the 8th century, arguably to the abbacy of Probatus (770-81). The area to the west was a cemetery, Iying behind the apse of the church. There is no convincing evidence that it served as an atrium and that the abbey-church was entered from this end. The nave of the church may have becn rebuilt and was certainly painted in the years around 800. Abbot Sichardus (830-42) is recorded as having built onto the abbey-church an oratory dedicated to the Saviour with a crypt for relics beneath. It is likely that this formed an eastwork at the entrance end of the building. Archacological evidence and pavement levels indicate that this was probably located in the position of the existing late 1 lth-century towered eastwork, and that it formed an important architectural and devotional focus at the entrance end of the church. The architectural articulation and the programme of painted imagery of the late 11 th-century eastern structure show that it cannot have becn designed as a presbytety as McClendon proposed (1986). This remarkable ediflce is best explained as an early Romanesque elaboration of an already existing devotional and liturgical focus within the church, a magnificent replacement of Sichardus' oratory and crypt. Conversely, the western apse, trancept and ring-crypt at the other end of the building, have nothing to do with Sichardus, as McClendon and Whitohouse believed. They are the sanctuary end of the early medieval church, constructed, not in the 830s, but in all likelihood in the second half of the 8th century, evidently in imitation of Old St. Peter's, and must be explained in the context of Farfa's pivotal, liminal, position in relations betwecn the Lombard Duchy of Spoleto and the Papal Duchy of Rome during this period (NOBLE 1984 pp. 156-59). Farfa lay on the border betwecn these two polities, which during these years were disputing lordship over the surrounding Sabina. Certain important conclusions can be drawn from the investigations of the last twenty years into the physical remains of the early medieval monastery at Farfa. First, the 8th- and 9th-century church itself was surprisingly modest, measuring about 37m long x 95m. wide. Like San Vincenzo, it was lavishly painted in most parts. Second, like San Vincenzo the abbey-church was aggrandized in the 830s. Third, unlike San Vincenzo it appears to have had a restricted material culture. Fourth, terracing, as at Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, is a major feature at Farfa. The monastery, rather like Monte Cassino, overlies classical remains which have becn buried beneath deep terraces. Fifth, the disputed walls within the large excavated area immediately north west of the abbey-church suggest the careful modularisation of space, as at San Vincenzo. The monastic precinct was evidently packed with buildings by the early 9th century. Lastly, like San Vincenzo, too, there are signs of an earlier 9th-century phase when the abbey-church enjoyed a certain splendour. It paintings from this era (MCCLENDON 1983); and the Frankish abbot Ingoaldus was commemorated with a inscription made of gilded bronze letters. But the scale of Farfa is hard to judge. Did it cover only 1-2 hectares in area, covering the present terrace, or did it possess outlying chapels and facilities as well? Only further excavations will resolve these intriguing questions. One point, however, is clear. The Lombard abbey-church resembled San Salvatore at Brescia, San Salvatore at Spoleto, St. John the Baptist at Monte Cassino and Novolesa in size, and was only a little grander than the original abbey-church at San Vincenzo al Volturno. All of these churches were dwarfed by Abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore. The monastic territories
It has long been assumed that the Carolingian 'monastic conquest'led to increased development of the monastic estates. Did these bocome the overpopulated islands within occans of under-developed landscape, as Duby (1968) believed? Del Treppo's study of the terra of San Vincenzo al Volturno leaves scope fordoubt(1955-56; see alsoW~cKHAM 1985). The monastery's hinterland was neither densely populated nor highly productive in the 9th century. On the other hand San Vincenzo possessed numerous estates in the heartlands of the principate of Benevento. One of these, Del Treppo shows, provisioned San Vincenzo with metals (1968 pp. 35 ff.; cfr. ALsARELLA-ARTHuR-WAYMAN 1989).This appears to have becn acHrtis-a demense farm in the north European form (cfr. TOUBERT 1983). Wickham has also shown that San Vincenzo obtained cHrtis settlements in the Valva valley in the Abruzzo, to the north. These provisioned the monastery with pastoral foodstuffs (1982). San Vincenzo in this respect is, of course, not unique. Toubert, in his classic study of the Sabina, identifes a massive growth in the size of Farfa's population during the Carolingian age (1973). But he lays limited emphasis upon the significance of cHrtis-type settlements in the changing fortunes of the monastery (cfr. TOUBERT 1983). The territory of Monte Cassino, he believes, shares the same agrarian history as that of Farfa and San Vincenzo (TOUBERT 1976). Again, these estate histories need to be measured by archaeological means. The archacology of San Vincenzo's terra provides the model. In a survey, followed by escavations, of the upperVolturno valley, two types of Carolingianperiod settlements have becn found (cfr. HODGES 1992): i small farms built on terraces on the middle slopes of hills, practising a domestic mode of production. There is limited evidence of access to certain pottery and glass types made at San Vincenzo; tiles were scavenged from derelict local classical sites. ii tiny chapels, probably founded in the late 8th century. These were wellmade, decorated with frescoes, and in the case of Colle San Angelo, lit with glass lamps. They were not furnished with window panes, despite the abundance of glass at San Vincenzo. These places appear to be the coHdmae and pleb,. Their material poverty is striking in contrast to the monastery's affluence. A contrast must be made, too, with the relative material affluence of the 9th-century cartis-like settlement excavated in Molise near the Adriatic sea, Santa Maria in Civita (D85) - a frontier site just inside Beneventan territory (HoDGEs-BARKER-WADE 1980; HODGES-WICKHAM forthcoming). This hilltop site was enclosed by a lengthy defensive circuit; it possessed a church of substantial proportions; and, its material archacology indicates that it was in reccipt of goods, foodstuffs and cereals from regional and inter-regional sources. In other words, unlike the Upper Volturno settlements, it participated in a regional marketing system as opposed to practising a domestic mode of production. Is Santa Maria in Civita rather than the settlements of the Upper Volturno an image of the 'monastic conquest' introduced to the heartlands of Beneventum? Was San Vincenzo al Volturno being supplied with labour and metals, for example, from sites of this kind occupying the richer lands of the coastal littorals of the Principate of Benevento? If so, the territory of Monte Cassino, encompassing the coastal plain of Lazio and Campania, might have becn richly endowed with settlements of this type. By contrast, the f~rst archacological investigations of the Sabina show that its settlement system, despite its proximity to Rome, resembled the Upper Volturno at this date (DE MIN[CISHUMBERT 1991; MORELAND 1987; MORELAND-PLUCIENNIK 1991). In both cases great change occured during the later 10th century, when the settlement form and material characteristics of Santa Maria in Civita were adopted by villages everywhere (cfr. HODGES 1990; HODGES-WICKHAM forthcoming). At that time, after a break of half a millennium mountainous and hill regions such as the iuland territories of the Upper Volturno and the Sabina were once more integrated into the economy of the Mediterranean basin. II
Betwecn 768 and 855, according to Carol Heitz, the following were built in the Carolingian Empire: 27 new cathedrals, 417 monasteries and 100 royal palaces (HEITZ 1983 pp. 5). Such statistics illustrate why historians have becn attracred to the Carolingian age. All the evidence from across Latin Christendom reinforces the long-held belief that the renaissance was a discrete period of development rather than a continnum (pace Sullivan) encompassing all types of settlement including emporia (cfr. HODGES 1982; 1988; 1989; forthcoming) and estate centres (see above; see also HEIDINGA 1987; HODGES 1990; THEUWS 1991). The monasteries of San Vincenzo al Volturno, Monte Cassino and Farfa, as we have noted, were not exceptions so far as this familiar pattern is concerned (see JACOBSEN 1988; 1992 for a recent overview of Carolingian Renaissance churches). The archacology, however, reveals that this pattern is more complex than has becn often appreciated. Two types of abbey-churches have becn identified. The first type includes San Vincenzo Minore, abbot Gisulf's St. John at Monte Cassino and Farfa. We might speculate that abbey-churches like San Salvatore at Brescia (BROGIOLO 1992), San Salvatore at Spoleto, and the recently-excavated abbey-church of Novolesa (WATAGHIN 1988) also belong to this groop of major cult-centres. Each is a typical basilican building belonging to the age of Charlemagne, fundamentally made possible by the signiOcant empire-wide re-discovery of lime mortar (GUTSCHER 1979). Churches of similar dimensions were being restored in Milan (BERTELLI 1987) and Rome (DELOGU 1988; KRAUTHEIMER 1980) at this time. The second type might be described as court abbey-churches: gigantic expressions of a renaissance ideal, more roma~zo (HEITZ 1980; 1983; PARSONS 1983). San Vincenzo Maggiore unlike San Vincenzo Minore it would appear, belongs to this type. Lawrence Nees' belief that places like San Vincenzo al Volturno lay outside the mainstream tradition of Carolingian architecture cannot be sustained. The model for this church, so it would appear to be a mixture of either Lombard or trans-alpine and the notion of St. Peters. In other words, this complex comprised a large version of the basilican form, and an atrium with a great facade. Abbot Gisulf built a similar complex at San Salvatore at Monte Cassino (CARBONARA 1979), The emphasis in this type of church was upon an imperial liturgy. Long before the 830s at San Vincenzo, we may now surmise, as Kelly has shown, 'the eminent Carolus ordered all the holy churches everywhere to sing the Roman song; whercupon throughout Italy there arose much contention, and the status of the holy church was everywhere in mourning' (KELLY 1989 pp. 24). It is unlikely that Beneventan chant was ever heard in these buildings. The Gregorian chant was one of a number of instruments deployed in this monastic conquest. Literacy was another (MITCHELL 1990; NOBLE 1990). Another, as Deshman has shown, was the notion of service as defined in the iconography of painted murals (1989). Deshman uses the paintings in the crypt at San Vincenzo to illustrate how service, a common feature of high medieval painted cycles, was first illustrated. It occurs in other forms at San Vincenzo. The new Benedictine rule specif ed that craftsmen "be instructed to perform their work henceforth not outside but inside the monastic enclosure". Artisans were now recognized as servants of the monastery. It marks what Le Goff terms the Carolingian renaissance of labour; the beginnings of three orders (LE GOFF 1980). The plan of St. Gall indicates that a chamberlain was charged to supervise the work within the Colloctive Workshop. Shortly afterwards at San Vincenzo a fine apartment was inserted into the workshop complex (cfr. HODGES 1991). As Del Treppo observed, San Vincenzo's new settlements were marshalled to provide raw materials for these craftsmen. Professor Sullivan might have his doubts, given the Italian idiom of the paintings or the Italian shapes of the pottery (1968). Undeniable provincial elements temper this model of Carolingian imperialism. Besides, why were the Carolingians using monasteries to conquer parts of Italy that had tenaciously defed Charlemagne's armies? So how are we to explain the Carolingian status of San Vincenzo and Monte Cassino, and the surprisingly limited status of Farfa? Who wonld have believed that San Vincenzo, by the standards familiar at Farfa, was so staggering a place? Like Farfa, San Vincenzo was not on a major route. Like Farfa, San Vincenzo did not have a cult for a major saint (cfr. GEARY 1978 pp. 166-67). In common with Monte Cassino, however, it occupied the northern frontier of the Principate of Beneventum, bordering Carolingian territory. In the 9th century these were Carolingian
centres inside Beneventan territory. Joshua's great skill was to obtain huge tracts of land in the heartlands of Beneventum (WICKHAM 1994). These provided resources for the abbey: the labour, foodstuffs and materials for the workshops. The palace for distinguished guests was used to entertain the Beneventan donors. Later, in abbot Epyphanius' period, these donors were buried within the complex. At San Vincenzo and Monte Cassino it appears that Frankish abbots diffused a Carolingian ideology with which they patently controlled the Beneventans. Clearly, the archacology of the terra of San Vincenzo shows that the monastery's objective was not to stimulate regional development as, for example, St. Gall was doing at this time. Abbots Joshua and Epyphanius, so it wonld seem, had limited interest in reviving the connections betwecn the mountains and the littoral. Instead, the building of San Vincenzo Maggiore illustrates a more ambitious objective lay behind the 'monastic conquest'. Charlemagne needed vast resources for his renaissance. The refurbishing of churches, as theLiberPortifralisindicates, was a hugelyexpensive operation (DELOGU 1988). Yet this was overshadowed by the enlarged production of a silver-rich Carolingian currency to serve a European-wide community (cfr. GRIERSON-BLACKSURN 1986 pp. 262-63). Some historians believe these resources existed in the treasuries of Christendom; some believe that the Carolingian coins bearing the EX NOVO METALLO signature indicate the discovery of great new silver mines. In Italy this is the Black Economy model. It may work now; but did it work then? Such models do not explain the extraordinary revival in Rome's fortunes, for esample, with the coming of the Carolingian age (cfr. DELOGU 1988) let alone the Carolingian-period transformation of San Vincenzo with its Fulda-sized abbey. It is necessary to return to the discussion lanuched earlier where the motor of regional development in northern Europe appears to have becn commerce around the North Sea. As we noted above, Carolingian ventures in the Mediterranean, due to an absence of archacological research, leave us as mystifed as Pirenne was in the 1920s about North Sea economics. At the moment we possess only clues. On the one hand, for esample, excavations in Constantinople show that despite a reduction of its commercial activities, it remained a major Mediterranean centre producing commodities (cfr. the excavations at Sarachane, Istanbul: HARRISON 1986). The Arab communities, by contrast, were engaged in a phase of expansion, which certaiuly led to increased commerce betwecn the Abbasids of Bagdad and the Aghlabids of the Maghreb (cfr. NOONAN 1984). On the other hand, the Frankish sources provide a clear picture of Charlemagne's persistent concern to conquer Italy (WICKHAM 1981; NICOL 1988). Early in his reign he invaded Lombardy and advanced upon Beneventum. His armies conquered Istria, and on several occasions confronted the Venetians. The reccived interpretation of these wars is that Charlemagne was a great imperialist, seeking to re-establish the Roman Empire. This necessiated some control of Rome, and therefore Italy. We need not question the signifcance of Rome to Charlemagne's imperial vision. Antique motifs sustained the renaissance across the length and breadth of the Empire not only in great architectural and cultural works, but also in the revival of everyday commodities like pottery (cfr. COUTTS_ HODGES 1992). But were there other motives for the determined Carolingian ventures in Italy, and, more signiOcantly, for the negotiated treaties with the Beneventans and Venetians? The archacology of early medieval Italy is perplexing. Urban archacology is in its infancy. Excavations in ports like Naples, Otranto and Portus (the port of Rome) show a level of minimal activity similar to the discoveries made in iuland centres such as Brescia and Verona. Rome itself is perplexing for different reasons: it appears to have enjoyed a staggering revival in the Carolingian age, and there are indications that Milan was also transformed at this time (BERTELLI 1987). In sum, the archacological evidence is too fragmentary bocause we possess no evidence of a commercial centre. The picture resembles the largely deserted classical ports of Anatolia (cfr. Foss 1977). There is a temptation to believe that the Mediterranean lay dormant at this time, as Pirenne believed, and the new-found wealth of Benevento (PEDUTO 1990), Milan (cfr. BERTELLI 1987), Rome (KRAUTHEIMER 1980) and Salerno (PEDUTO 1990), for example, was either derived from resources wealth stored within the peninsula or introduced by the Carolingians (cfr. DELOGU 1988).
The discovery of San Vincenzo Maggiore confounds this hypothesis. It tempts us to advance beyond the shadow of Pirenne. The written sources offer some indication of intense commercial activity concentrated in two places: the lagoon of Venice and the ports of the principate of Benevento. The excavations on theVenetian island of San Lorenzo illustrate beyond doubt that during the 8th and 9th centuries there were farflung connections to the Arabic and Byzantine worlds (FERSOUCH CANAL-SPECTOR ZAMBON 1989; cfr. DORIGO 1983). The excavations have revealed a sequence of Late Roman graves, covered by a timber buildings, covered in turn by a 9thcentury church. It is a tiny sample, possibly a microcosm of a huge emporium that had sustained a certain independence since the 7th century. These discoveries are hardly surprising. The history of Venice, including the theft of the body of St. Mark from Egypt, revolves around its commercial activities. The lagoon communities, it would appear, maintained an independence so that they might participate in the global trading networks ranging as far east as China, created by the Abbasid caliphs (cfr. HODGES and WHITEHOUSE 1983). Charlemagne's prolonged and unsuccessful bid to conquer the lagoon, followed by the treaty of 810 with the Venetians (NICOL 1988) may be paralleled with his treaty of the same year with the Danes. In both cases, we might surmise, he was pragmatically seeking commercial advantages: from Venetian trade with the East, and from Danish access to the Baltic Sea. Venice, in other words, might be envisaged as a much larger (though more diffuse) version of Hedeby, the planned Danish emporium on the northern Carolingian frontier. But the Beneventans lay too far to the south to respect treaties of this kind, as Charlemagne appreciated during the later 8th century (WICKHAM 1981). Other methods were needed if the commercial wealth of the principate was to be siphoned off to support the rebuilding of Rome, and indeed, Charlemagne's own treasury. San Vincenzo Maggiore possesses the hallmark of being the Fulda of the South. Was it built for a political purpose, as Fulda had becn in the newly conquered eastern Frankish lands? In essence, it was a gigantic exhibition of Carolingian ideology. Beneventans were woven into this great enterprise from its inception. Beneventan lands produced the materials (the Chror~icon V~lterne~se describes how the columus used in the church were plundered from a Roman temple at Capua); Beneventan labour was responsible for the work (cfr. WICKHAM 1994); and Beneventan painters carefully made the pictures that conveyed the Carolingian messages (BELTING 1968; DESHMAN 1989; MITCHELL 1985; 1990). Like Fulda, it was designed to use the Church in place of legions in order to enlarge the resource base of the Empire. Monte Cassino, we may speculate, was no less a centre. Like San Vincenzo, it owed its wealth in the early 9th century to a political strategy that had an European scale to it. Certaiuly, the description of its treasury leaves us in no doubt of the monastery's reccipt of Arabic and Byzantine exotica and luxuries, gifts from the Beneventan aristocracy (CITARELLA-WILLARD 1982). The evidence is insufficient to reconstruct the means by which the gold and silver as well as other luxuries traded in Beneventan ports found their way northwards. We can only offer hypotheses at present that monasteries like Monte Cassino and San Vincenzo reccived gifts that flled their treasuries and churches; that the Carolingian court intermittently received tributary puyments; and that the effect of this interaction lead indirectly to the investment in monasteries like Farfa and Novalesa which formed the ancillary routoway fortresses of this age. Is this farfetched? The Beneventan investment in Monte Cassino and San Vincenzo is indisputable (cfr. WICKHAM 1994). It is more diffcult to demonstrate the flow of tributes to the Carolingian court, though intermittently, the sources inform us, this occurred. Perhaps the Reno river hoard (Bologna) containing 23 Byzantine solidi, 5 Beneventan solidi, and 11 Abbasid dinars provides a small glimpse of the passage of wealth from Beneventum northwards (GORINI 1989, pp.187-188). As for the 'trickle effect' as the wealth generated in Beneventum or Venice reached smaller, established monasteries such as Farfa, San Salvatore at Brescia or Novolesa, we can only point to the results of Stephane Lebocq's study of Neustrian monasteries that participated and benefited from commerce at Quentovic and Ronen (1989). Theuws has illustrated the same interaction betwecn Flemish monasteries and emporia such as Dorestad (THEUWS 1991). In this way, throngh the medium of a
controlled coinage minted from the silver procured from these connections reaching back to the great silver mines of the Abbasid caliphate, an underdeveloped economy, hitherto dependent to a greater degree upon ranked spheres of gift-giving and of plunder (cfr. REUTER 1985), was enlarged and transformed. This model is now reinforced by a new study of the coinage of Louis the Pious (COUPLAND 1990). Let us recall that up until the 790s Italy used a poor quality special-purpose money. With Charlemagne's reforms this changed. A generation later, Italian coins played a major part in Carolingian monetary circulation. To quote Marx, money was , ( e sono nurnerosi i casi), senza altra puntualizzazione e senza la precisazione “latericius”, questa sia da considerarsi solo come sottintesa, perché il termine ha di per sé un significato generico, in molti casi più puntualmente definito dall'indicazione dei suoi elementi costitutivi, non omologabili spesso alla produzione laterizia. D'altronde è raro incontrare nei documenti menzioni di fornaci, anche in quelle zone dove in epoca imperiale si era sviluppata notevolmente una industria laterizia (ad esempio nel Riminese, a Roma, nella valle inferiore del Tevere). Spesso, inoltre, la genericità dell'indicazione non ci dà ragione del tipo di produzione laterizia. Così il 19 agosto 769 si fa riferimento semplicemente a “foglinas in Intuno” come parte dei beni stanziati da Grato diacono di Monza per dotare la cappella di S. Salvatore e S. Fedele in Monza da lui fondata. Più frequente è la cristallizzazione nella toponomastica altomedievale del ricordo di questa particolare attività produttiva locale, sviluppatasi precedentemente. Il silenzio delle fonti rimanda ad una decadenza dell'industria laterizia nell'alto Medioevo e al prevalente riutilizzo di materiale proveniente da edifici antichi, anche sotto forma di frammenti mischiati a malta. Tuttavia una produzione legata a centri particolari, ad una logica di autoconsumo e, quindi, a quantità 'modeste' di prodotto è testimoniata. Pensiamo al monastero di San Colombano di Bobbio nel Piacentino, dove attorno al primo trentennio del secolo IX sono organizzati dei ministeria, (o officine centrali) sul centro dominico monastico, fra i quali è previsto anche quello “figulorum”.
Il materiale laterizio più documentato e diffuso nei nostri secoli è quello da copertura, cioè “tegulis et imbricibus„, che in ambito cittadino e soprattutto nel corso del secolo X, sembra contendere il primato alle coperture vegetali, fossero esse “scandolue” lignee o paglia Fornaci per la produzione di tegole ci sono testimoniate, ad esempio, nel maggio 841 nel Bresciano o nel 977 in territorio lucchese. Nel primo caso il vescovo di Brescia Ramperto destina “tegularia Sancti Faustini in loco qui dicitur Freores” alla produzione di tegole (si precisa “terram cavandi tegulasque coquendi„) per la costruzione di una chiesa; nel secondo il vescovo di Lucca Adalongo richiede una corresponsione in tegole prodotte in località Carignano da impiegarsi per gli usi della chiesa cittadina. Anche in questo caso una produzione legata a scopi ben determinati, quasi all'autoconsumo. Per le case in 'muratura' fino al tetto il sistema di copertura preferito era quello f~ttile; a volte si utilizzava un sistema misto di scandolae, “tegalae et imbrices”, specie nei casi di edifici costruiti parte in'muratura'e parte in legnot. Ma non dobbiamo pensare al legno, alla pietra e al mattone come ai materiali esclusivi dell'edilizia. Interi edif~ci o parti di essi potevano avere le pareti di argilla, di paglia e argilla, di cannicciato, fossero esse inserite o meno su di una ossatura lignea. D'altronde la frequente menzione, specie nelle aree rurali, di “casae paliaticiae” rimanda probabilmente all'utilizzo della paglia non solo per la copertura dei tetti, ma anche per le pareti degli edifici. In questo caso potremmo pensare ad un uso esclusivo della paglia variamente contesta, connessa e compattata o ad una amalgama di paglia e argilla. Questi diversi materiali erano uniti da leganti. Fra di essi le testimonianze ricordano le malte argillose luto, arena”, la calcina/calce, per la quale non abbiamo elementi utili a precisarne la composizione qualitativa e quantitativa. In un documento cavense riguardante la città di Salerno si precisa che un astracu, doveva essere “ad calce et petre et pumice factu bonum”. “Calce et arena” dovevano anche servire per intonacare pareti, ma di questa tecnica scarsissime sono le testimonianze documentarie. Sempre a Salerno, in una abitazione si obbliga l'affittuario: “intonicet illud ad calce et arena” Le strutture edili potevano essere “terrinae/terraniae”, con il solo pianterreno, oppure solariatae, a sviluppo verticale, con un piano superiore, nella maggior parte dei casi, o con più di un piano. Sembra essere più diffuso uno sviluppo orizzontale delle costruzioni, documentato da chiare attestazioni nelle carte o dalla individuazione di particolari tipologie insediative caratterizzate da 'nuclei abitativi' articolati, cioè più edifici con qualifiche funzionali diverse correlati tra loro in un complesso unitario. È comunque all'ambiente cittadino che è legata la costruzione "solariata", le cui testimonianze si infittiscono nel corso del secolo X2e Basti segnalare il caso di Lucca, città ricca di documenti per i secoli VIII-XI, che assiste all' intensif~carsi di contrattazioni relative a case solariatae a partire dal primo decennio del secolo XI2i. Le campagne appaiono impermeabili nei nostri secoli alla diffusione di questo modello costruttivo,` potremmo dire cittadino. Anche laddove siamo di fronte a strutture edili raccolte in abitati accentrati (pensiamo ad esempio alle zone studiate dal Toubert attraverso l'esame della documentazione farfense) sembra predominare la “domus terrania„, a pianterreno, rispetto a quella sviluppata verso l'alto, attestata in questo caso soprattutto a partire dal pieno Medioevo ( dalla metà del secolo XII). Nei “solaria” spesso il piano terreno era costruito con tecniche differenti (legno, muratura), mentre il piano superiore era completamente ligneo (ad esempio a Ravenna, Salerno). In questo caso la copertura del tetto era generalmente di legno (scandolae) o eseguita con un sistema misto. Particolarmente ricchi di dettagli sulle tecniche costruttive dei “solaria” sono alcuni documenti riguardanti la città di Salerno, che prevedono la diffusione dell'arco (longitudinale) su pilastri e dei pilastri come strutture portanti degli ediEci2S. Ma ci troviamo di fronte, in questo caso, probabilmente all'intervento di maestranze specializzate nell'attività costruttiva e decorativa, che dovevano legare le loro prestazioni alle richieste e ai gusti di una committenza ristretta e di un certo livello sociale. Questi “magistri murarum, casarii, marmorarii, carpentarii, commacini”, questi “
artiEces, pictores, scultores”, che vediamo spostarsi all'interno della penisola, costituiscono delle presenze eccezionali, probabilmente per l'alta qualificazione delle loro opere. A loro non doveva infatti essere demandata l'edificazione delle minori costruzioni, quanto invece quella degli edifci pubblici (civili e religiosi) o privati di una certa importanza. Pensiamo, ad esempio, ai tre “magistri casarii” detti “transpadani” attivi a Lucca fra VIII e IX secolo. La loro attività è strettamente collegata ad un momento di affermazione della Chiesa locale e di espansione edilizia, sotto i vescovi Giovanni e Iacopo. I nostri “magistri” lavoravano per i vescovi, costrui- vano chiese e case su terre che erano o erano state del vescovo; i vescovi erano i committenti della loro attività. D'altronde le loro capacità tecniche possiamo individUarle dalla lettura del “ Memoratorio de mercedes comacinorum„, un vero e proprio tariffario delle prestazioni dei maestri commacini, dei tempi di re Grimoaldo o di Liutprando, di grande utilità per il rimando immediato a particolari tecniche costruttive . In esso inizialmente si fıssava il prezzo base di una costruzione con il solo piano terreno, detta “sala ”, coperta di tegole e quello di un edifıcio con il piano superiore sempre coperto di tegole, “solario ”. Si passava poi alla determinazione del prezzo di un muro secondo il suo diverso spessore, di costruzioni che prevedevano un secondo ordine di impalcature, della decorazione e messa in opera delle pareti di edifıci secondo le due diverse tecniche dell' “opus gallica” e dell'“ogus romanense ”, della costruzione di archi. Veniva poi indicato il prezzo dell'armatura lignea di un tetto, che poteva essere fatto o di “scandolae” lignee o di tegole, seguito da quello delle fondazioni e di alcuni lavori di rifınitura, come l'esecuzione di una stanza provvista di focolare, di chiusure per le fınestre in legno o di telai per vetri di gesso, di lastre e colonne di marmo. Da ultimo si fıssavano i compensi per la costruzione di forni con vasi o tobi fıttili al modo romano e di pozzi variamente profondi. Questi “magistri” dovevano essere esperti nella lavorazione del legno e della pietra. Nel centro monastico di San Colombano di Bobbio, ad esempio, lavoravano tra 1'833 e 1'835 dei “magistros de ligno et lapide” che “butes et bariles, scu scrinia vel molendina, casas atque muros faciunt„3u. Ma conoscenze tecniche ed esperienze costruttive nella carpenteria, oltre che nella lavorazione della pietra, dovevano avere Una ampia diffusione, anche se non ai più alti livelli di realizzazione. Si andava così, per fare qualche esempio, dalla maggioranza dei contadini che costruivano da sé la propria abitazione, generalmente in legno o con molte parti nello stesso materiale, ai contadini/carpentieri che fabbricavano “scandolue” di legno per il monastero di Santa Giulia di Brescia, insediati su terre dipendenti dal centro curtense di Serniga “curte Cervinica”. Più raramente abbiamo riferimenti alla lavorazione della pietra, come nel caso degli scalpellini, lapicidi, servi, sono nove, “qui petras tantummodo operantur”, sempre per conto del monastero bresciano, abitanti in “sortes” dipendenti dal centro domocoltile di “Summolacu”, a nord del lago di Garda. Le testimonianze relative a una forma diffusa di artigianato rurale sono molteplici e diverse. Tra di esse possiamo includere anche le informazioni sulla strumentazione agricola elencata per i poderi contadini e i centri dominicali di grandi proprietà nei contratti agrari e negli inventari dei beni dei grandi possessi monastici. Negli elenchi di attrezzi sono spesso compresi strumenti suscettibili di usi diversi e facilmente collegabili ad una attività costruttiva. Ma in questo caso la prevalenza è di una strumentazione legata alle operazioni di carpenteria e falegnameria, alla lavorazione del legno, dunque. Abbiamo così notizia di “secures, mannarias, materias, secias, dolatorias, asias, assiones, rasorias, tappolis”. Siamo di fronte a veri e propri corredi per la lavorazione del legno: asce, accette, scuri, seghe, pialle. E d'altronde, lo si è detto, il legno doveva essere nei nostri secoli un materiale da costruzione dei più diffusi, nei suoi diversi impieghi. Questi dati ne sono un'ulteriore riprova. PAOLA GALETTI
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Le tecniche costruttive fra VI e X secolo: le evidenze materiali
1. Premessa Abbiamo visto che i 'serbatoi' dai quali attingere le informazioni sono essenzialmente due: le fonti scritte e le evidenze materiali, ma non possiamo escludere a priori gli apporti specifici di altri tipi di fonti, quali, ad esempio, quelle iconografiche. Se analizziamo la situazione italiana alla luce delle acquisizioni più recenti, si avviano ad assumere un peso sempre più crescente, sia in senso qualitativo che quantitativo, le informazioni provenienti dalle campagne di scavo rispetto all'indagine del deposito 'verticale', ma la formazione della fonte materiale ha medesime leggi, un valore che non può essere parcellizzato o disconosciuto, sia che venga indagato archeologicamente il più tradizionale deposito 'orizzontale', sia che si tratti delle analisi del deposito 'verticale'. In larga parte la situazione del deposito 'verticale' può essere desunta dai repertori editi per aree geografiche o culturali, cronologiche o per destinazione funzionale, con netta predominanza degli edifici religiosi, alcuni apparsi fin dagli inizi del secolo (BERTAUX 1904 e il successivo Aggiornamento 1978, KRAUTHEIMER 1937-1980, VERZONE 1942, VENDITTI 1967, ROTIEI 1971, CANOVA DAL ZIO 1986 E ROTILI 1990 per limitarsi ai più conosciuti). Per i complessi religiosi sono state tentate, con interessanti risultati, delle sintesi fra informazione scritta e resti materiali (si vedano i contributi di PANI ERMINI 1983' CANTINO WATAGHIN 1989 per i monasteri di età longobarda e TESTINI-CANTINO WATAGHIN PANI ERMINI 1989 per le Cattedrali) pur tenendo presente la difficoltà che redigere una sintesi organica degli edifici “di età longobarda che intenda servirsi delle fonti archeologiche e non soltanto di quelle documentarie e letterarie non è ... proponibile allo stato attuale delle nostre conoscenze; ma proprio i limiti di queste danno maggior evidenza ai problemi da risolvere e permettono di indicare alcune linee di ricerca più significative„ (CANTINO WATAGHIN 1989, P.75). Per queste ragioni si deve constatare che, generalmente, la costituzione del corpus degli edifici altomedievali segue le indicazioni di una linea di studi tradizionale e sembra risentire di una stasi, limitandosi a delle riletture, precisazioni e misurati inserimenti di nuovi edifici. La situazione appare matura per una rilettura del 'sopravvissuto', attuata con strumenti messi a punto dalla ricerca più attuale e infatti solamente in questi ultimissimi anni - in parte per le acquisizioni di nuove indagini di scavo e, più raramente, riconosciute dall'analisi degli elevati edilizi - si è iniziato un meticoloso processo di revisione degli elementi costitutivi i complessi architettonici (si veda, a titolo di esempio, i risultati che si possono ottenere in NOVARA 1990). Il campo di ricerca deve tener conto, inoltre, degli interventi di restauro che, in modo direttamente proporzionale alla notorietà dell'edificio, hanno spesso resa più difficoltosa la raccolta delle informazioni e ci sembra opportuno, quando si devono affrontare i depositi 'verticali', verificare il tipo di strumento che è stato utilizzato nell'individuazione e nell'indagine dei campioni: lettura stratigrafica, criteri formali o tecnico-costruttivi. L'aver individuato la sostanziale unità del valore di documento storico, sia della stratificazione 'orizzontale' come di quella 'verticale', ci impone alcune riflessioni. In questo contesto, mentre la conoscenza dei materiali mobili ha avuto un sostanziale avanzamento, la ricerca di fossili guida alternativi all'analisi morfologica delle strutture o dei materiali decorativi, da utilizzare nella determinazione cronologica del deposito verticale senza distinzioni gerarchiche e anche per piccole parti di costruito, è ancora - ad eccezione di alcune limitatissime aree - ai primissimi passi, dopo la grande stagione del neopositivismo dei decenni '40 e '50 di questo secolo. Proprio la possibilità di scomporre l'intero universo del costruito in risultati di singole azioni costruttive - le USM - in un quadro edilizio di complesse stratificazioni, acuisce la mancanza di un apparato strumentale immediatamente utilizzabile. In questa sede si ritiene opportuno soffermarci proprio sul prodotto edilizio quale insieme costituito dai suoi componenti fondamentali - i materiali da costruzione - e sulle attrezzature e le tecniche, quando possibile anche le tecnologie, che hanno contribuito a formare la costruzione. Sono ancora
molti gli interrogativi che restano sospesi e la mancanza di una norma adattabile, ripetibile e confrontabile, da utilizzare per la descrizione delle murature è la spia di quanto ancora resti da fare, anche se non possiamo più parlare di scarsa attenzione. Tuttavia non possiamo disconoscere le difficoltà che talvolta si incontrano, nel costruire le informazioni quando si devono confrontare i dati registrati per rispondere agli obiettivi dello specifico progetto di ricerca e talvolta con tecniche diverse o comunque non standardizzate. Inoltre, per questo periodo, la scarsità dei rinvenimenti e la labilità ed aleatorietà delle tracce, di componenti edilizie limitate “alla sfera abitativa escludendo quella pubblica e dei servizi infrastrutturali” (ORTALLI 1991, p. 167~, delle altre azioni antropiche, sono i limiti e i problemi ben conosciuti e dibattuti che accompagnano i progetti di ricerca. Problema che diventa doppiamente importante quando un aspetto della ricerca si basa sulla lettura delle fonti materiali per determinare le caratteristiche delle tecniche costruttive. Per queste ragioni e nell'ambizioso tentativo di 'seminare'nuovi temi di ricerca che possano aiutare a rendere confrontabili i pochi dati veramente utili ad individuare le scarse tracce del sinuoso sentiero, evolutivo ed involutivo, percorso dalle tecniche costruttive, ci pare opportuno mettere l'accento su alcuni aspetti che, allo stato attuale della ricerca, ci sembrano i più promettenti. Individuare alcuni punti nodali, che consideriamo fondamentali per una 'descrizione' delle caratteristiche e del progredire - o del regredire - delle qualità tecniche del modo costruttivo, può costituire un momento di riflessione più coinvolgente che compilare un elenco, più o meno diligente, dei casi indagati finora e dei confronti utili alla raccolta di informazioni. Nel caso del deposito archeologico, 'orizzontale'e'verticale', lo strumento principale della conoscenza è la ricostruzione della sequenza delle vicende che hanno contribuito alla formazione della situazione attuale, stemperata con i metodi di valutazione della potenzialità dei depositi. Conoscenza che può spaziare dai problemi legati alla geomorfologia (siti in zone di pianura con forti apporti sedimentari, aumentati notevolmente dalla fine dell'Impero, e la dark earth; BROG1OLO-CREMASCHI-GELICHI 1988 e, per le diverse interpretazioni che ne sono state date, BROGIOLO 1987a; LA ROCCA-HUDSON 1986 e LUSUARDI SIENA 1989); e siti di altura o in pendio, caratterizzati dall'erosione o da riempimenti colluviali (MANNONI 1970; ARNOLDUS-HUYZENVELD-MAETZKE 1988), ai grandi quesiti storiografici, alle vicende dell'apporto antropico o all'abitudine (o concessione alla possibilità) del reimpiego del materiale da costruzione, fino alle normative attuali di tutela e di conservazione dei manufatti: problemi ben conosciuti da chi opera sul campo che appare superfluo constatare come nella catena ininterrotta del 'progetto di conoscenza si può scegliere dove porre l'accento, se deve essere indagata con un occhio di riguardo, ad esempio, la situazione relativa alla forma e al modo della produzione oppure all'aspetto tecnologico del prodotto costruzione delle grandi aree culturali in cui era divisa l'Italia. Nella situazione odierna assume un peso assolUtamente prioritario il tema della continuità o della rottura, quanto sia stata rilevante eredità tardoantica e quanto e come sia stata modificata, le condizioni economiche, l'organizzazione sociale, insomma i grandi temi della ricerca storiografica alla luce dei nuovi apporti della moderna archeologia. Situazione che, soprattutto per il periodo basso medievale, ci appare in qualche modo asimmetrica e, comunque, assai diversa dalle problematiche del secolo scorso, quando, sulla scia del positivismo, veniva dato un peso maggiore all'aspetto pratico dell'evidenza materiale. Proprio per la carenza e la labilità delle evidenze materiali delle componenti minori, ci sembra opportuno dedicare una qUalche attenzione all'integrazione delle informazioni, 'rileggendo' una situazione finora investigata in relazione a scelte di tipo culturale o sociale, quando non esclusivamente formale, piuttosto che tecnico (cfr. infra la situazione delle asce da combattimento). 2. La scelta dei materiali da costruzione, le tecniche di lavorazione e gli attrezzi Nonostante la viscosità del processo di cambiamento e la lunga durata di alcune tecniche costruttive, esistono, da Un lato, murature caratterizzare da un marcato processo di modificazione e, dall'altro lato, degli attrezzi che appartengono alla tradizione culturale di determinati popoli e non di altri. Può
essere utile verificare qUanta parte delle modifiche, delle differenze che individuiamo tra i materiali da costruzione e tra gli attrezzi simili possono dipendere dal mutare delle esigenze costruttive o dalla dífferenziazione del modo di trasmissione della conoscenza empirica, ma allo stato attuale del}e conoscenze si corre il rischio di cadere nelle analisi di tipo esclusivamente formale. L'introduzione di nuove tecnologie o la ripresa di prodotti caduti in disuso o limitati ad aree marginali, che ipotizziamo dalle variazioni dimensionali, dalle operazioni di finitura e dalla forma degli attrezzi, ci sembrano punti che possono riuscire a dare nuova luce su alcuni aspetti ancora poco chiari. Ad esempio ci sembra di poter intravedere, anche sulla base della situazione che si presenterà nei periodi successivi, una estrema specializzazione delle forme, nel modo di realizzare e nell'utilizzazione degli attrezzi per la lavorazione del legno (dalle analisi metallografiche dell'ascia merovingia tipo F 1c del Musée Eorrain di Meurthe-et-Moselle, si evince una tecnologia costruttiva che trova riscontri più puntuali nelle asce protostoriche halstattiane - VIII-VII sec.a.C. - che non in quelle romane; cfr. SALIN 1947-1959, III, P. 38). Sebbene ci siano scarse possibilità di poter verificare in maniera precisa ed adeguata una lunga durata degli utensili (ma vedi i risultati proposti da BESSAC 1986 per gli strumenti dello scalpellino), alcune costanti iconografiche e l'estrema viscosità che si riscontra nei cambiamenti delle forme degli strumenti, ci aiutano a determinare quando questi ultimi hanno raggiunto il compromesso ottimale fra forma, tecnologie di preparazione, disponibilità sul mercato e funzionalità (MANNONl 1988, p. 406). L'archeologia sperimentale e i modelli etnografici ci possono aiutare a chiarire la funzione e l'utilizzo di alcuni utensili, anche se non ci sono tecniche costruttive completamente nuove, perché si continua o si riprende una tradizione costruttiva meno appariscente, ma esistente anche in precedenza. Ma quali sono le fasi di lavorazione che esigono strumenti e tecnologie adeguate alla domanda? Legno Nonostante la scarsa quantità dei resti materiali finora rinvenuti (e che viene spiegata con la situazione di degrado legata all'ambiente di deposito e, per certi altri casi, con la pratica dell'asportazione per il reimpiego in altri luoghi, come ci è stato comunicato nella relazione Galetti) non paiono esserci molti dubbi che il legno fu il componente principale di una grande quantità di edifici od almeno di una parte considerevole delle strutture. Quale tipo di essenza legnosa, quale parte del tronco o dell'albero veniva utilizzata, come era preparato e in che modo veniva impiegato questo materiale, sono informazioni che possiamo ricavare soltanto dall'esame diretto del materiale (cfr. Ie ricerche di Goodburn in Timber B~ildiHg TechHiques 1992 e McGRAIT 1982). Già oggi è possibile registrare l'impiego del legname, sia sotto forma di tronchi grezzi (vedi la situazione, forse del VII secolo, di Molina di Ledro, loc. “Volta de Besta” dove “Sorprendente risulta il raffronto tipologico tra questo tipo di costruzioni ed i tradizionali casotti a tutto tondo dell'area regionale, i cosidetti 'Blockhaus', primogenio stadio del sistema costruttivo del pastore-contadino”; CAVADACIURT ETTI 1985, p. 91 e DAT. RI-PIVA 1985), sotto forma di tavole più o meno sagomate (cfr. CHAPELOT-FOSSTER 1980, pp. 267-281 e lo scavo delle case di Corso Porta Reno a Ferrara - cfr. Ferrara 1992), oppure con pali portanti parzialmente o perfettamente squadrati, secondo l'interpretazione che ci ha dato Monneret de Villard del termine capellare del Memoratorio (MONNERET DE VILLARD 1920, p.8). Anche le differenze del riempimento delle "buche per palo',e ci possono aiutare, quando i resti carboniosi del disfacimento del palo lasciano una traccia spesso di forma regolare che permette l'individuazione della forma e della dimensione della trave squadrata che vi era stata infissa (vedi la casa 1 del Foro di Luni, forse la prima struttura lignea medievale scavata in Italia; cfr. WARD-PERKINS 1983, p. 122). D'altra parte, che in casi eccezionali si potessero eseguire lavorazioni particolarmente raffinate si evince dalle testimonianze del restauro della copertura di importanti edifici religiosi a Roma (WARD-PERKINS 1984) e dalla più tarda iconografia del IX-X secolo (BINDING 1987, p.451). Per la scarsità e la frammentarietà dei ritrovamenti rimane ancora poco chiaro lo schema strutturale delle costruzioni, ma anche solo una rassegna del tipo di elemento di cui viene attestata la presenza (pali portanti e pareti esterne, pareti
divisorie e tramezzi, pavimentazione e solai, coperture - carpenteria e scandole-, steccati, recinzioni e sistemazioni esterne, impalcature e apparecchiature per la movimentazione dei materiali - nel caso dei grandi cantieri - forse anche sottofondazioni) ci rende edotti della complessità e ricchezza delle utilizzazioni. Ora se almeno alcuni pali portanti della struttura sembrano essere stati in una qualche maniera spaccati mediante cunei e poi squadrati, quali strumenti potevano rispondere meglio alle esigenze del lavoro e, plausibilmente, essere stati utilizzati? Si tratta di qualche tipo di seghe - già presenti nella tradizione romana - come raramente appaiono nell'iconografia (ad esempio nella miniatura di Rabano Mauro di Montecassino o a Salerno nella prima metà dell'XI secolo - cfr. BINDING 1987, pp.300,428 - o nei mosaici di Monreale e di Otranto, della seconda metà del XII secolo - il~idem, pp. 298,351 - e che nell'Europa ecntrosettentrionale sono attestate solamente dal XIII secolo: cir. Timtber Building Techiques 1992, pp. 113-114) o, più probabilmente, di quella ampia varietà di asce, accette e scuri che appaiono, in molti casi estremamente verosimili, nell'iconografia dal IX secolo in poi (BINDTNG 1987, pp. 76, 105, etc. - Fig. 1). Nelle zone appenniniche della Toscana (Garfagnana e Mugello; cfr. Il lavoro nei boschi 1988) a differenti fasi della lavorazione tradizionale del legno, corrispondono appositi utensili, situazione che si presenta simile anche in Liguria (MONTAGNANI 1993, p. 81) e nelle zone alpine, sempre con utensili differenziati ma con nomi spesso simili (BONINSEGNA 1980, SEBESTA 1983, CANIATO-DAL BORGO 1988 e 1990 e, per un quadro italiano generale, GIORDANO 1953). Abbiamo così le scuri -a manico lungo, tagliante stretto e bordi della lama quasi paralleli - che erano impiegate per abbattere gli alberi, le accette - manico lungo o medio, tagliante medio, bordi concavi divergenti - che avevano una funzione più diversificata (diramare, sbozzare, in qualche caso scortecciare) e le asce - manico generalmente, corto, tranciante largo, con piano della lama perpendicolare o parallelo all'asse del manico, in alcuni casi con lama a forma di T - che servivano esclusivamente per la squadratura finale del legname, per ridurlo in travi o tavole. Attrezzi differenziati che dovevano servire alle seguenti fasi di lavorazione: abbattimento, scortecciatura, diramatura, sbozzatura, il processo di trasformazione dal tronco al prodotto finito. A questo punto, quale riscontro abbiamo, in ambito italiano, con i reperti coevi alle strutture? Se passiamo in rassegna i ritrovamenti databili dalla f ne del VI al X secolo, e che, per il tipo di contesto si possono proporre senz'altro come attrezzi, vediamo che le attestazioni non mancano. A Imola villa Clelia - e a Belmonte si sono rinvenute associazioni di strumenti che in un caso - Imola - sono state interpretate come contenute in una cassetta per gli attrezzi, parte senz'altro da carpentiere più che per usi agricoli, e a Belmonte (nel Canavese) pur con i limiti del sistema di recupero adottato, come materiali provenienti dalla bottega-forgia di un fabbro (per Imola cfr. BARUZZI 1978; per Belmonte: SCAFILE 1971 e 1972 e una sintesi delle vicende delle escavazioni in PANTÒPEJRANI BARICCO 1992). Tra i reperti che più si avvicinano all'iconografia conosciuta, oltre alle mazze e ai cunei di ferro e lignei, esistono alcuni tipi di asce e pochissime scuri che potrebbero soddisfare le esigenze dell'utensileria della carpenteria lignea. Del primo tipo di reperto - un'ascia a lama allungata spesso definita come "barbuta" (vedi Fig. 2) - ne sono state rinvenute, entro i confini dell'attuale territorio italiano, alcune decine. Attualmente siamo a conoscenza di 28 reperti - alcuni dispersi recentemente ma il numero può benissimo aumentare per la presenza di numerosi pezzi inediti, come ci insegna il caso di Fiesole -: 2 da Belmonte, da Borgovercelli, 3 da Testona, 4 da Verona e Veronese, 2 da Aquileia,3 da Gorizia, da Cividale, da Montecchio di Reggio Emilia e Gorzano nel Bolognese,3 da Imola,4 da Fiesole,2 da Benevento e da Salerno. Quando sono associati ad un contesto affidabile, si possono collocare in una fascia cronologica attorno alla fine del VI o, più probabilmente, al VII secolo. Un secondo tipo molto meno numeroso, circa una decina di pezzi, è costituito da una stretta ascia con nuca a martello (vedi Fig.3), di tradizione romana, finora rinvenuta a Carignano, a Testona (2 esemplari), a Imola-Villa Clelia (3 esemplari), nel Bresciano e a Fiesole (3 esemplari). Infine un terzo tipo, anch'esso di corrispondono appositi utensili, situazione che si presenta simile anche in I,iguria (MONTAGNANI 1993, p. 81) e nelle zone alpine, sempre con utensili differenziati ma con
nomi spesso simili (BONINSEGNA 1980, SEBESTA 1983, CANIATo-DAL BORGO 1988 e 1990 e, per un quadro italiano generale, GIORDANO 1953). Abbiamo così le scuri -a manico lungo, tagliante stretto e bordi della lama quasi paralleli - che erano impiegate per abbattere gli alberi, le accette - manico lungo o medio, tagliante medio, bordi concavi divergenti - che avevano una funzione più diversificata (diramare, sbozzare, in qualche caso scortecciare) ed invece le asce - manico generalmente, corto, tranciante largo, con piano della lama perpendicolare o parallelo all'asse del manico, in alcuni casi con lama a forma di T - che servivano esclusivamente per la squadratura finale del legname, per ridurlo in travi 0 tavole. Attrezzi differenziati che dovevano servire alle seguenti fasi di lavorazione: abbattimento, scortecciatura, diramatura, sbozzatura, il processo di trasformazione dal tronco al prodotto finito. A questo punto, quale riscontro abbiamo, in ambito italiano, con i reperti coevi alle strutture? Se passiamo in rassegna i ritrovamenti databili dalla f ne del VI al X secolo, e che, per il tipo di contesto si possono proporre senz'altro come attrezzi, vediamo che le attestazioni non mancano. A Imola villa Clelia - e a Belmonte si sono rinvenute associazioni di strumenti che in un caso - Imola - sono state interpretate come contenute in una cassetta per gli attrezzi, parte senz'altro da carpentiere più che per usi agricoli, e a Belmonte (nel Canavese) pur con i limiti del sistema di recupero adottato, come materiali provenienti dalla bottega-forgia di un fabbro (per Imola cfr. BARUZZI 1978; per Belmonte: SCAFILE 1971 e 1972 e una sintesi delle vicende delle escavazioni in PANTÒ PEJRANI BARICCO 1992). Tra i reperti che più si avvicinano all'iconografia conosciuta, oltre alle mazze e ai cunei di ferro e lignei, esistono alcuni tipi di asce e pochissime scuri che potrebbero soddisfare le esigenze dell'utensileria della carpenteria lignea. Del primo tipo di reperto - un'ascia a lama allungata spesso definita come "barbuta" (vedi Fig. 2) - ne sono state rinvenute, entro i confini dell'attuale territorio italiano, alcune decine. Attualmente siamo a conoscenza di 28 reperti - alcuni dispersi recentemente ma il numero può benissimo aumentare per la presenza di numerosi pezzi inediti, come ci insegna il caso di Fiesole -: 2 da Belmonte, da Borgovercelli, 3 da Testona, 4 da Verona e Veronese, 2 da Aquileia, 3 da Gorizia, da Cividale, da Montecchio di Reggio Emilia e Gorzano nel Bolognese,3 da Imola, 4 da Fiesole, 2 da Benevento e da Salerno. Quando sono associati ad un contesto affidabile, si possono collocare in una fascia cronologica attorno alla fine del VI o, più probabilmente, al VII secolo. Un secondo tipo molto meno numeroso, circa una decina di pezzi, è costituito da una stretta ascia con nuca a martello (vedi Fig. 3), di tradizione romana, finora rinvenuta a Carignano, a Testona (2 esemplari), a Imola-Villa Clelia (3 esemplari), nel Bresciano e a Fiesole (3 esemplari). Infine un terzo tipo, anch'esso di tradizione romana, che finora può essere stato confuso con gli attrezzi agricoli (tagliente stretto, lama leggermente convessa, trasversale all'asse del manico, vedi Fig.4) ancora presente a Imola Villa Clelia e nel territorio circostante (per un totale di 4 pezzi) e a Belmonte. Curiosamente scarsissime sono le tracce di scuri ed accette, evidentemente non ritenute di particolare pregio per la loro somiglianza ai moderni utensili. Un caso particolare è costituito dalle asce a T, attestate almeno dal IX secolo ed estremamente comuni nell'iconografia scolpita od incisa sugli edifici del XII e XIII secolo - ma di lunghissima durata- finora, in Italia, poco studiate: solo 3 pezzi da Gorizia e un inedito da Imola. Per quanto riguarda l'ascia barbuta, un attrezzo di tradizione germanica apparentemente non conosciuto dai romani (anche sulla base delle analisi metallografiche, effettuate da France Lanord in SALIN 1949-59 e da Leoni in ROTILI 1987, che hanno chiarito le tecniche di costruzione dell'ascia, diverse da quelle romane; ma si veda quanto indicato in POHANKA 1986, pp.254-255 per il tipo 9a) e molto diffuso nell'Europa centrale; essa viene rinvenuta frequentemente nelle tombe come parte del corredo (la presenza dell'ascia è considerata, tra i Turingi e i Merovingi, una prova dell'elevato rango sociale dell'inumato; cfr. a BOHNER 1958 e STEUER 1989, p. 104) e spesso associata ad una funzione di arma da lancio o da combattimento a corta distanza (cfr. WHEEEER 1927 e SALIN 1949-59; inoltre HESSEN 1968 e 1971, ROTIEI 1977). Se non ci sono dubbi sulla funzione 'militare' della francisca, citata abbastanza comunemente nelle coeve fonti scritte (tra gli altri vedi DAHMLOS 1977), e, per la sua particolare forma, inutilizzabile come attrezzo da lavoro (una francisca è stata
rinvenuta a Villa Cogozzo PANAZZA 1964, tav. XVIII, 1 e, forse, a Sirmione, BROGIOLO-LUSUARDI SIENA - SESINO 1989, P. 87), qualche problema si incontra nello spiegare la funzione della forma allungata verso il basso e la nuca a martello dell'ascia barbuta, che si rivelano assolutamente inutili nella balistica dell'oggetto. Si può ipotizzare, allora, che l'ascia barbuta non costituisca uno strumento esclusivamente offensivo e anche quando viene rinvenuto nelle tombe (in Italia la presenza è accertata sicuramente solo a Cividale, congiuntamente ad un ricchissimo corredo: è la tomba 24 della necropoli di S. Stefano in Pertica - AHUMADA SILVA-LOREATO-TAGLIAFERRI 1990 - , a Povegliano—Materiali di età longobarda, 1989 - e molto probabilmente a Testona - CALANDRA 1883 - e Benevento - ROTILI 1977) riveli una funzione simbolica, di emblema del potere, come sembra di capire dalle fonti scritte e dalla più tarda e celebre raffigurazione dell'arazzo di Bayeux (Fig. 5, ma la forma della lama è diversa), che poteva venir surrogata dall'attrezzo più simile che si aveva a disposizione. Infine non si può escludere del tutto, quando non siamo in presenza di un corredo completo, una tradizione che poneva nelle tombe degli artigiani i loro attrezzi più comuni, analogamente a quanto è attestato per gli orafi. La definitiva funzione delle asce barbute sembra difficilmente precisabile, pur con una forte propensione ad utensile da carpenteria con una qualche flessibilità d'uso, ed anche il tentativo di fissarne le precise attitudini al lavoro, per squadrare il legname ad esempio, si scontra con la scarsa praticità della lama posta sul medesimo piano dell'asse del manico. Se non possiamo escludere un manico leggermente arcuato, l'uso ottimale sembra indirizzato verso una sbozzatura del legname e forse, dato il notevole spessore che generalmente si riscontra, per fendere il legname per la preparazione delle scandole, come, in alcune asce, sembrano far propendere le ammaccature visibili nella nuca a martello (cfr. HESSEN 1971, t. 22, n. 202). Mattoni Nelle costruzioni in laterizio ci sono alcuni aspetti legati al processo produttivo e all'ampiezza della distribuzione che attendono di essere maggiormente chiariti. In estrema sintesi ci si chiede se, tra il VI e il IX secolo, si possa ipotizzare l'esistenza o meno di una continuità del processo produttivo delle grandi quantità, col relativo mercato, oppure se la pratica del reimp~~ego del materiale laterizio aveva assunto un aspetto pressoché totalizzante. Le eccezioni esistono, tra questi estremi sembra trovare posto anche una terza ipotesi: non si deve dimenticare che in particolarissimi progetti (a Ravenna, l'edilizia giulianea della prima metà del VI secolo, RIGHINI 1991, pp. 211-212, i grandi monasteri, alcuni complessi religiosi, etc.) viene registrata una apposita produzione, probabilmente destinata quasi esclusivamente alla costruzione dell'edificio o di una sua parte e, quindi, all'autoconsumo. In uno dei più grandi cantieri del VI secolo, la costruzione della cinta muraria di Ravenna, per portare a compimento i 4,5 km del perimetro, si sono costruiti circa 50.000 metri cubi di murature. Una simile quantità presuppone una organizzazione produttiva assolutamente eccezionale anche se diluita nel tempo ma in un'unica fase costruttiva - per la preparazione degli oltre 6 milioni di mattoni necessari, e per questo la pratica del reimpiego, secondo le ipotesi di Ortalli, Gelichi e Righini (ORTALLI I 991, p. 171; GELICHI 1991, p. 156; RIGHINI 1991, p. 212) appare come la soluzione più probabile. Per l'ipotesi di una produzione di mattoni nuovi si schiera invece Christie (CHRISTIE-GISSON 1988, pp. 182-183; CHRISTIE 1989, p. 129). Non è ancora chiara la capacità produttiva di un complesso di fornaci, ma sulla base della documentazione scritta successiva, della continuità tecnologica e dalla scarsità delle fornaci rinvenute, appaiono più plaUsibili quantità come le donazioni di 25.000 mattoni per anno, destinati da Teoderico agli edifici romani. “Per quanto riguarda il Lazio ... sembra che la grande industria laterizia fiorita soprattUtto nella valle inferiore del Tevere, vicino Roma e Ostia, nell'epoca imperiale, non continuò dopo il VI secolo>, (ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, p.528); la produzione di mattoni, a Roma, sembra avere avuto una ripresa generale forse alla f ne del XIV e sicuramente nel corso del XV secolo; comunque una qualche produzione di mattoni deve essere sopravvissuta (cfr. i mattoni dell'Atrio di Vesta e dell'abbazia di Farfa; ibidem) anche se con produzioni modeste e per utilizzazioni interne, prive quindi di mercato.
Anche in Campania si assiste ad una produzione di mattoni e tegole che termina nel corso del V o forse inizi del VI secolo. Le ipotesi formulate recentemente (RIGHINI 1990) di una produzione di elementi di tradizione greca e di tradizione romana, potrebbero costituire la base per un riscontro puntuale delle reali dimensioni dei mattoni integri impiegati nelle costruzioni dei diversi periodi, in maniera da verificare, su scala regionale o per aree più ristrette, il tipo di laterizio prodotto; se cioè la produzíone e il consumo era limitato ai soli laterizi da copertura o da pavimentazione (attestati quasi con continuità e come farebbero supporre i tegoloni impiegati nella copertura di sepolture FIORILLA 1986 - e i reperti delle fornaci rinvenute in alcuni grandi complessi religiosi, come a S.Vincenzo al Volturno e S. Cornelia; CHRISTIE 1991), oppure se, come appare probabile, la produzione comprendeva anche veri e propri mattoni (a Montecassino sono attestati mattoni dell'ultimo quarto dell'VIII secolo con caratteristiche, ci pare di intendere, ancora tardoantiche; cfr. ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp. 529 e 531). In altre parole si tratta di verificare se i prodotti, soprattutto i laterizi bollati che sono stati preparati fino all'VIII secolo, sono realmente mattoni, nelle forme e nelle dimensioni da precisare, oppure se si tratta di materiale da copertura tegoloni - o da pavimentazione, che quando si rinvengono frammentari possono essere scambiati per mattoni di limitato spessore, peraltro tipici della produzione laziale anche moderna. Infine un altro aspetto rimane ancora sostanzialmente da indagare. Come si può riuscire a seguire la progressiva - o improvvisa - variazione delle misure dei mattoni di tradizione romana - i bipedali, i sesquipedali, i bessali (LUGLI 1957) o la puntigliosa classificazione proposta da Righini, con una particolare attenzione ai mattoni provinciali manubriati (RIGHINI 199O) - nel passaggio dal modulo romano a quello medievale e moderno. Il controllo dell'areale di diffusione del mattone provinciale manubriato di cm 44-48x25-30x7-10, la presenza di altre forme di mattone finora non classificate, il passaggio dai vecchi moduli dimensionali fino all'introduzione della nuova misura del mattone di cm 28-30x13-15x4-ó, possono costituire i passi necessari ad una migliore comprensione dell'indubbio processo di trasformazione che è possibile registrare. Un esempio può essere costituito dalle cosiddette altinelle, i piccoli - cm 1517xó-8x4-5 - mattoni che tradizionalmente si considerano provenienti dal centro romano di Altino, impiegati e prodotti a Venezia nei secoli XII e XIII (cfr. Mattoni di Venetia, p. 246). Mattoni così piccoli sono attestati anche nella villa romana di Sirmione, ma la maggior parte dei mattoni rinvenuti nei recenti scavi di Altino è costituita dai comuni sesquipedali e non è escluso, quindi, che i mattoni bollati illustrati (ibidem p. 272) fossero impiegati nella pavimentazione. Per quanto riguarda le modifiche dimensionali, risulta estremamente difficile seguire l'andamento delle variazioni ed il processo si legge solo saltuariamente ed in maniera puntiforme. Si deve al Merati l'aver messo in rilievo l'importanza giocata dalle variazioni dimensionali per l'individuazione delle parti più antiche della basilica Autariana di Fara Gera d'Adda (MERATI 1980-81; MERAT] 1978) e nelle vicende della produzione laterizia lombarda (gli altri due esempi citati, San Salvatore di Brescia e San Satiro a Milano, come prime attestazioni dei mattoni di modulo ridotto rispetto a quello sesquipedale romano-cm35xl6x7 a Brescia e cm 30x14xó,7 a Milano - sono stati collocati tra IX secolo - 876 - per San Satiro e inizi del IX a Brescia, recentemente avanzata alla meta dell'VIII secolo: cfr. BROGIOLO 1992). Anche a Cividale la misura dei mattoni impiegati nella fase costruttiva dell'VIII secolo del Tempietto non è più quella di tradizione romana; le misure pubblicate variano da cm 25-31x1825xó-8 (L ORANGE-TORP 1977-79, II, pp. 3,13). Una maggiore attenzione è stata spesa per l'analisi della limitata produzione decorativa, ma oltre alle variazioni dell'apparato iconografico che può essere fuorviante per l'abitudine all'imitazione, può essere istruttivo leggerla come specchio delle modifiche del processo tecnologico. Sebbene la descrizione dell'aspetto tecnico, connaturato ai modi delle decorazioni, non abbia avuto una grande fortuna e precisione (per una prima rassegna della situazione, vedi GABBRIELLI-PARENTI 1992, ma anche FIORILLA 1985-86), ci sono delle costanti che ben si accompagnano all'andamento tecnologico degli altri materiali da costruzione. Così, ad esempio, tra VIII e XIII secolo, abbiamo una ricchissima attestazione di mattoni scolpiti a cotto, analogamente ai materiali litoidi, mentre nello iato della produzione dei laterizi stampati (foggiati entro stampo negativo) che si registra fra il VII secolo
e la fine del XIII si deve leggere la perdita della capacità tecnica di realizzazione. E la sola eccezione dei mattoni stampigliati (decorati con la pressione del modello decorativo in negativo sul crudo; BERTITONGIORGI 1972), di Santa Maria di Anglona (Matera) attribuiti alla prima metà del XII secolo (SCERRAT01985,p.290;ARTHUR-WHITEHOUSE 1983,pp.534-535) può essere interessante come testimonianza del commercio di materiali costruttivi o di spostamento delle maestranze, in questo caso probabilmente arabe, che hanno adottato un repertorio figurativo di tradizione paleocristiana, ma realizzato con una tecnologia già impiegata per la decorazione di prodotti tipicamente islamici, come le giare o i mattoni da pozzo. Materiali lapidei In una situazione estremamente frammentata, dove esiste ancora un mercato con disponibilità di marmi pregiati - come nella Ravenna degli inizi del VI secolo, quando si costruiscono i 1aalrea paua dalle pareti decorate con marmi e pavimenti musivi - insieme ad abitazioni caratterizzate da una estrema precarietà, dei materiali e delle strutture, per l'approvvigionamento del materiale da costruzione sono attestate sia la pratica del reimpiego del materiale di recupero, che la raccolta di materiale erratico (cave a trovanti), sia, infìne, la più rara ripresa dell'approvvigionamento da cava (cfr. supra la relazione Galetti). In questo quadro così diversificato diventa importante conoscere la distribuzione dei litotipi - per permettere un controllo sull'ampiezza dell'areale di approvvigionamento e di diffusione -, la lavorazione e la fnitura delle pietre - per individuare il livello tecnologico delle maestranze e l'organizzazione del cantiere -, il tipo di legante e la presenza della calce (o gesso), dove, oltre al livello tecnologico, interagisce anche una forma culturale che fa convivere, sulla medesima struttura, ampie superfici intonacate - e, nei monasteri e nelle chiese alpine dell'VIII-IX secolo, anche affrescate - con murature legate con argilla, così in ambito rurale (Pieve di Manerba' Carasso di Bellinzona), come nei castra (Ibligo Invillino, Castelseprio) e nelle città (Brescia, Verona)” (BROGIOLO 1983, p. 85). Per quale ragione una malta di calce venga impiegata, in alcuni edifici, per intonacare le pareti (tra gli altri, l'edificio III di via A. Mario a Brescia scarsita delle fornaci rinvenute, appaiono più plausibili quantità come le donazioni di 25.0S30 mattoni peranno, destinati da Teoderico agli edifici romani. “Per quanto riguarda il Lazio . sembra che la grande industria laterizia fiorita soprattutto nella valle inferiore del Tevere, vicino Roma e Ostia, nell'epoca imperiale, non continuò dopo il VI secolo” (ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, p.528); la produzione di mattoni, a Roma, sembra avere avuto una ripresa generale forse alla fine del XIV e sicuramente nel corso del XV secolo; comunque una qualche produzione di mattoni deve essere sopravvissuta (cfr. i mattoni dell'Atrio di Vesta e dell'abbazia di Farfa; ibidem) anche se con produzioni modeste e per utilizzazıoni interne, prive quindi di mercato. Anche in Campania si assiste ad una produzione di mattoni e tegole che termina nel corso del V o forse inizi del VI secolo. Le ipotesi formulate recentemente (RIGHINI 1990) di una produzione di elementi di tradizione greca e di tradizione romana, potrebbero costituire la base per un riscontro puntuale delle reali dimensioni dei mattoni integri impiegati nelle costruzioni dei diversi periodi, in maniera da verificare, su scala regionale o per aree più ristrette, il tipo di laterizio prodotto; se cioè la produzione e il consumo era limitato ai soli laterizi da copertura o da pavimentazione (attestati quasi con continuità e come farebbero supporre i tegoloni impiegati nella copertura di sepolture - FIORILLA 1 986 - e i reperti delle fornaci rinvenute in alcuni grandi complessi religiosi, come a S.Vincenzo al Volturno e S. Cornelia; CHRISTIE 1991), oppure se, come appare probabile, la produzione comprendeva anche veri e propri mattoni (a Montecassino sono attestati mattoni dell'ultimo quarto dell'VIII secolo con caratteristiche, ci pare dí intendere, ancora tardoantiche; cfr. ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp. 529 e 531). In altre parole si tratta di verificare se i prodotti, soprattutto i laterizi bollati che sono stati preparati fino all'VIII secolo, sono realmente mattoni, nelle forme e nelle dimensioni da precisare, oppure se si tratta di materiale da copertura - tegoloni - o da pavimentazione, che quando si rinvengono frammentari possono essere scambiati per mattoni di limitato spessore, peraltro tipici della produzione laziale anche moderna.
Infine un altro aspetto rimane ancora sostanzialmente da indagare. Come si può riuscire a seguire la progressiva - o improvvisa - variazione delle misure dei mattoni di tradizione romana - i bipedali, i sesquipedali, i bessali (LUGLI 1957) o la puntigliosa classificazione proposta da Righini, con una particolare attenzione ai mattoni provinciali manubriati (RIGHINI 1990) - nel passaggio dal modulo romano a quello medievale e moderno. Il controllo dell'areale di diffusione del mattone provinciale manubriato di cm 44-48x25-30x7-10, la presenza di altre forme di mattone finora non classificate, il passaggio dai vecchi moduli dimensionali fino all'introduzione della nuova misura del mattone di cm 28-30x13-15x4-ó, possono costituire i passi necessari ad una migliore comprensione dell'indubbio processo di trasformazione che è possibile registrare. Un esempio può essere costituito dalle cosiddette altinelle, i piccoli - cm 1517xó-8x4-5 - mattoni che tradizionalmente si considerano provenienti dal centro romano di Altino, impiegati e prodotti a Venezia nei secoli XII e XIII (cfr. Mattone di Venezia, p. 246). Mattoni cos' piccoli sono attestati anche nella villa romana di Sirmione, ma la maggior parte dei mattoni rinvenuti nei recenti scavi di Altino è costituita dai comuni sesquipedali e non è escluso, quindi, che i mattoni bollati illustrati (ibidem p. 272) fossero impiegati nella pavimentazione. Per quanto riguarda le modifiche dimensionali, risulta estremamente difficile seguire l'andamento delle variazioni ed il processo si legge solo saltuariamente ed in maniera puntiforme. Si deve al Merati l'aver messo in rilievo l'importanza giocata dalle variazioni dimensionali per l'individuazione delle parti più antiche della basilica Autariana di Fara Gera d'Adda (MERATI 1980-81; MERATI 1978) e nelle vicende della produzione laterizia lombarda (gli altri due esempi citati, San Salvatore di Brescia e San Satiro a Milano, come prime attestazioni dei mattoni di modulo ridotto rispetto a quello sesquipedale romano-cm35xl6x7 a Brescia ecm30xl4xó,7 a Milano - sono stati collocati tra IX secolo - 876 - per San Satiro e inizi del IX a Brescia, recentemente avanzata alla meta dell'VIII secolo: cfr. E]ROGIOLO 1992). Anche a Cividale la misura dei mattoni impiegati nella fase costruttiva dell'~III secolo del Tempietto non è più quella di tradizione romana; le misure pubblicate variano da cm 25-31x1825xó-8 (L ORANGE-TORP 1977-79, II, pp. 3,13). Una maggiore attenzione è stata spesa per l'analisi della limitata produzione decorativa, ma oltre alle variazioni dell'apparato iconografico che paò essere fuorviante per l'abitudine all'imitazione, può essere istruttivo leggerla come specchio delle modifıche del processo tecnologico. Sebbene la descrizione dell'aspetto tecnico, connaturato ai modi delle decorazioni' non abbia avuto una grande fortuna e precisione (per una prima rassegna della situazione, vedi GAssR~E~~~-PARENT~ 1992, ma anche FIORILLA 1985-86), ci sono delle costanti che ben si accompagnano all'andamento tecnologico degli altri materiali da costruzione. Così, ad esempio, tra VIII e XIII secolo, abbiamo una ricchissima attestazione di mattoni scolpiti a cotto, analogamente ai materiali litoidi, mentre nello iato della produzione dei laterizi stampati (foggiati entro stampo negativo) che si registra fra il VII secolo e la fine del XIII si deve leggere la perdita della capacità tecnica di realizzazione. E la sola eccezione dei mattoni stampigliati (decorati con la pressione del modello decorativo in negativo sul crudo; BERTITONGIORGI 1972), di Santa Maria di Anglona (Matera) attribuiti alla prima metà del XII secolo (SCERRATO 1985, p.290; ARTHUR-WHITEHOUSE 1983, pp.534-535) può essere interessante come testimonianza del commercio di materiali costruttivi o di spostamento delle maestranze, in questo caso probabilmente arabe, che hanno adottato un repertorio figurativo di tradizione paleocristiana, ma realizzato con una tecnologia già impiegata per la decorazione di prodotti tipicamente islamici, come le giare o i mattoni da pozzo. Materiali lapidei In una situazione estremamente frammentata, dove esiste ancora un mercato con disponibilità di marmi pregiati - come nella Ravenna degli inizi del VI secolo, quando si costruiscono i dalle pareti decorate con marmi e pavimenti musivi - insieme ad abitazioni caratterizzate da una estrema precarietà, dei materiali e delle strutture, per l'approvvigionamento del materiale da costruzione sono
attestate sia la pratica del reimpiego del materiale di recupero, che la raccolta di materiale erratico (cave a trovanti), sia, infine, la più rara ripresa dell'approvvigionamento da cava (cfr. supra la relazione Galetti). In questo quadro così diversificato diventa importante conoscere la distribuzione dei litotipi - per permettere un controllo sull'ampiezza dell'areale di approvvigionamento e di diffusione -, la lavorazione e la finitura delle pietre - per individuare il livello tecnologico delle maestranze e l'organizzazione del cantiere -, il tipo di legante e la presenza della calce (o gesso), dove, oltre al livello tecnologico, interagisce anche una forma culturale che fa convivere, sulla medesima struttura, ampie superfici intonacate - e, nei monasteri e nelle chiese alpine dell'VIII-IX secolo, anche affrescate - con murature legate con argilla, “così in ambito rurale (Pieve di Manerba, Carasso di Bellinzona), come nei castra (Ibligo Invillino, Castelseprio) e nelle città (Brescia, Verona)~> (BRoG~o~o 1983, p. 85). Per quale ragione una malta di calce venga impiegata, in alcuni edifici, per intonacare le pareti (tra gli altri, l'edificio III di via A. Mario a Brescia e la cantina-granaio dell'edificio di Monselice; cfr. PANAZZA- BROGIOLO 1988 e BROGIOLO 1987b), addirittura alcune tombe - sempre in relazione alla vicina chiesa e quindi con un carattere esplicitamente cristiano (FIORIO TEDONE 1986) - e non come legante delle murature o per la realizzazione della pavimentazione, è un motivo che può essere spiegato sia nella continuazione di una tradizione, secondo una tecnica già nota in contesti tardoantichi dell'Italia settentrionale, sia perché siamo in presenza di conoscenze empiriche, costruttive o legate all'immediata percezione dell'ambiente, che si stavano rinnovando e ancora non ben chiarite. E per quanto riguarda i materiali lapidei veri e propri, constatata la presenza di conci ben squadrati non di reimpiego in alcuni particolari edifici, perché non presupporre anche la presenza di limitate maestranze, oltre ai famosi maestri comacini, che come attività lavorativa accessoria praticata con una strumentazione povera, esercitavano, assieme alla pratica dell'autocostruzione, anche quella del recupero di materiale da costruzione, sia da ruderi che da cave a trovanti. In effetti l'approvvigionamento del materiale da costruzione, sia come reimpiego di parti strutturali (MANACORDA 1985), sia come riuso del materiale di spoglio o raccolta di materiale erratico, sembra costituire una delle maggiori preoccupazioni dei committenti (e la tradizione costruisce, su questo aspetto, il più tardo miracolo di S. Geminiano della costruzione del Duomo di Modena; inoltre vedi FUMAGALLI 1988, p.14 per l'importanza della disponibilità del materiale da costruzione per la localizzazione dei nuovi complessi). Sono situazioni che sembrano rispecchiare un quadro legato maggiormente alla disponibilità del materiale, piuttosto che alla formazione culturale: cosı si hanno notevoli differenze fra le aree del tufo vulcanico, o altri litotipi facilmente lavorabili, e le aree di diffusione dei litotipi più tenaci, dove la squadratura dei conci diventa un problema tecnologico di difficile risoluzione, così come l'apparecchiatura del pietrame che risente della disponibilità in loco e solo successivamente della tradizione costruttiva locale, imitata con modifiche più o meno profonde. Una ricerca sulla variazione degli utensili (picconcello, polka, mannaria, etc.; Fig. 6), attestata sia dai ritrovamenti archeologici (GATTZSCH 1980), che dalle tracce lasciate sulle superfici delle pietre (BESSAC 1986), pur nelle difficoltà connesse alla scarsità delle evidenze materiali, può rivelarsi molto proficua, se effettuata per aree più ampie dello studio del singolo edificio (per una verifica dei risultati che si possono ottenere a scala subregionale, e per un periodo caratterizzato da un impiego massiccio della pietra, vedi BIANCHI-PARENTI 1991). Strutture miste ed altri materiali deperibili Nonostante la difficoltà che si incontra nell'individuarne le tracce materiali, la presenza di strutture miste (legno-pietra) è sicuramente attestata e di lunghissima durata. Non sembrano esserci delle utilizzazioni prioritarie e si incontrano in edifici dove convive la pratica del riuso strutturale, del reimpiego dei materiali lapidei - forse foderati con assi lignee - e della funzione portante svolta da pali verticali. Sempre più spesso si rinvengono le impronte, le cavità lasciate da travature lignee, ormai deperite, sia di capanne (cfr. a Trento, palazzo Tabanelli, CAVADA-CIURLETTI 1985, p. 101) come in edifici monumentali. Anche strutture miste più deperibili, come i resti di graticci intonacati con
argilla (l'inglese attle and daub), sono evidenze materiali la cui presenza comincia ad essere individuata negli scavi più recenti, ad esempio nella situazione di Brescia (PANAZZA-BROGIOLO 1988, p.59) o Filattiera (GIANNICHEDDA 1988, p.27), anche se, per la loro precarietà, sembrerebbero confinati alle pareti d'ambito delle strutture più umili o a semplici divisori interni, in questo caso anche in edifici più impegnativi. Inoltre non si può dimenticare la tecnica di costruzione in 'pisè', largamente attestata (de loto) e diffusa anche se di più difficile individuazione. Strutture in negativo, "scavate" Bisogna subito accennare all'estrema difficoltà che incontra lo strumento archeologico nello stabilire le prime fasi di escavazione degli ambienti ipogoici, con la formazione di interfacce negative che continuamente asportano le superfici precedenti e che, quindi, fanno mancare la quasi totalità delle relazioni stratigrafiche necessarie per la determinazione delle fasi di costruzione. Solo la presenza di depositi connessi alle fasi d'uso e di abbandono degli ambienti, oppure la relazione contestuale di differenti soluzioni formali permettono una serie di cronologie relative (ad esempio quando da un'apertura a tutto sesto si passa ad una architravata, che non ammette il passaggio contrario, oppure l'esempio di Sovana, dove una tomba a camera etrusca è stata ampliata come colombaia; per la differenza fra colombari e colombaia, cfr. QUILICI G1GLI 1981 ); infine, quando disponibili, apparati decorativi particolari sono utilissimi per costituire altri indicatori cronologici. Nonostante queste limitazioni, studio degli ambienti rupestri non può essere trascurato, perché tali ambienti costituiscono una realtà assai diffusa ovunque il substrato geologico lo permetta, e cioè quando si incontrano litotipi facilmente scavabili anche con attrezzature semplicissime. A grandi linee gli ambienti rupestri artificiali vengono utilizzati anche come abitazioni e, almeno nell'Etruria Meridionale, sono attestati fin dall'età del Bronzo (Sorgenti della Nova 1981), se non prima; successivamente si hanno ampie e conosciutissime attestazioni della pratica di adibire gli ambienti rupestri artificiali come sepolcreti, ma bisognerebbe verificare se l'impiego come abitazioni, saltuarie o promiscue, può essere continuato in aree marginali. Infine viene largamente attestata la ripresa dell'uso abitativo in epoca genericamente medievale. Da una panoramica della situazione della Tuscia laziale, dove sono state studiate numerose strutture religiose spesso decorate con affreschi, si nota una frequentazione relativamente tarda, dal XIII al XVII secolo e oltre (cfr. RASPI SERRA 1974 e 1976), analogamente a quanto avviene in altri centri rupestri (cfr. PARENTI 1980), ma non possiamo escludere totalmente una presenza più precoce, che, per essere discussa con più cognizione, deve essere inserita nelle vicende generali degli insediamenti. Il piccone a due punte appare l'utensile che meglio corrisponde alle tracce lasciate sulle superfici degli ambienti ipogoici, e che, oggigiorno, possiamo verificare grazie alla lunghissima durata dell'attrezzo. Materiali diversi Le evidenze di materiali quali il ferro, il piombo, il vetro, le decorazioni in stucco, etc., sembrano proprie degli edifici più monumentali, legati ad una committenza particolare, magari conservati ancora in elevato (e quasi sempre ben conosciuti, anche se sottoposti a pesanti restauri), limitate soprattutto agli aspetti utilitaristici, quali le fistole in piombo e ceramica, attestate a Ravenna nel VII secolo, e sui tubuli da volta, in laterizio (su quest'ultimo aspetto, vedi l'ampia bibliografia in RIGHINI 1991, n. 221, p. 220), anche se non mancano gli accenni a coperture in piombo; ma non possiamo escluderne del tutto una diffusione più ampia (sebbene ancora limitata), stante le attestazioni sempre più numerose di strutture tecnologiche produttive, che potrebbero essere le spie di una situazione assai più diversificata, analogamente a quanto si deduce dall'esame delle fonti scritte. 3. Conclusioni
L'accento posto sul processo tecnologico del prodotto costruito, ci mette a disposizione uno strumento atto a definire, con maggior cognizione di causa, i dati da utilizzare - insieme agli altri più tradizionali - nella costruzione del modello interpretativo. Occorre però ribadire la scarsa utilità - o comunque la difficoltà - dell'impiego del metodo comparativo, quando si vuole studiare la cronologia e la tipologia degli utensili di uso comune e soprattutto se rivestono un compito utilitario, di strumenti da lavoro (MANNON! 1989, p. 154), ma non possiamo escluderne del tutto la possibilità, per lo meno quando gli utensili si inseriscono in un processo tecnologico complessivo che non si trasmette per imitazione ma per apprendimento, pratica spesso lunga e difficoltosa. Si può solo accennare alla possibilità di utilizzare la calce come fossile-guida per la datazione di strutture in muratura, sperimentando nuovi strumenti di indagine dopo le pionieristiche esperienze sulle malte romane (Van Deman, Blake, etc.), per il largo uso che ne è stato fatto, per l'impossibilità del reimpiego, per la diffusione anche in strutture più umili, etc. (sulla sperimentazione del metodo di analisi mediante CI4 SU malte romane e medievali, si veda FOLK_VALASTRO1985). Tra i contorni un po' sfocati per la differenziazione sociale e strutturale, per l'estrema mobilità nelle campagne, almeno in Italia Settentrionale tra VIII e IX secolo, e per l'ampio processo di regionalizzazione del territorio (dove si adattarono in modi e ritmi diversi le soluzioni di continuità), la definizione delle aree culturalmente omogenee può essere letta in relazione sia al contesto urbano e dei grandi monasteri in opposizione alla situazione rurale, così come nella differenziazione tra Longobardia e Romania e poi al mondo musulmano - o, in modo più ampio, tra Italia Meridionale, Sicilia e Padania - e, infine, in maniera più strettamente cronologica. Nell'arco che costituisce il tema del convegno, ci sembra che possano costituirsi due gruppi (cfr. Ie opinioni di BROGIOLO 1989): a - un primo periodo che comprende i secoli VI e VII, ma che in grandi centri urbani come Roma può continuare anche nell'VIII secolo, dove sembra di poter cogliere, sia pure in aree geografiche differenziate e sulla base di esempi saltuari e puntiformi, una continuità nelle tecniche produttive di alcuni manufatti, soprattutto nei grandi - relativamente al periodo - progetti (il complesso monastico di S. Vincenzo al Volturno e quello di Montecassino, quello di Farfa, attestano una produzione di laterizi da copertura e mattoni ancora nell'VIII-IX secolo), anche se siamo in presenza di un fortissimo degrado delle qualità del prodottocostruito (che viene spiegato da WICKHAM 1989con lacontrazione della quantità delle opere costruite e con la diminuzione del numero di artefici in grado di costruire a determinati livelli); in altre parole le ipotesi che “L'industria laterizia crollò dopo il tardo periodo imperiale, ma la tecnica di cottura dei laterizi sopravvisse certamente a Roma e probabilmente anche altrove” (ARTHURWHITEHOUSE 1983, p. 531) sembrano valide per territori più ampi del Lazio e della Campania b - un secondo periodo che comprende i secoli VIII-X dove si registra, o si assiste ad una ripresa (meglio sarebbe dire ad una reinvenzione) di determinate tecniche costruttive o all'introduzione di altre tecnologie costruttive o decorative completamente nuove. Per rimanere ancora tra i laterizi, la nuova produzione, ad esclusione di limitatissimi - allo stato attuale delle conoscenze - esempi che potrebbero essere interpretati come un lotto di materiali realizzati da artigiani part-time, non sembra apparire in maniera generalizzata prima della metà del XII secolo e in zone marginali e con disponibilità di altri materiali costruttivi appaiono ancora più tardi. Nel complesso si assiste ad una serie autonoma di linee di sviluppo o di inviluppo, ognuna per materiali e aree geografiche differenziate, con alcuni flessi che potrebbero ricadere intorno alla seconda metà dell'VIII secolo, in analogia a quanto ci è stato presentato nell'introduzione di Delogu. ROBERTO PARENTI Ringraziamenti Aver dato forma più o meno coerente ai dati raccolti dalla scarsa esperienza personale e dalla molta letteratura specifica, fa capire quanto sia stato fondamentale il peso dei consigli, dei confronti, aiuti ed indicazioni specifiche. Era tutti desidero sottolineare l'apporto di S. Gelichi, P. Peduto, G. Berti,
Chiara Maria e Giorgio Di Gangi. Inoltre un ringraziamento particolare deve essere rivolto a C. Salvianti per la disponibilità offertami dalle strutture del Museo Civico di Fiesole. Bibliografia Aggiornamento 1978 -Aggiornamento dell'opera di Émile Bertauc sotto la direzione di Adriano Prandi, IV-VI, Rome. AHUMADA SILVA-LOPREATO-TAGLIAFERRI 1990—I. AHUMADA SILVA, P. LOPREATO, A.TAGLIAFERRI, (ed.), La necropoli di S. Stefano "in Pertica". Campagne di scavo 1987-1988, Cividale. ARNOLDUS-HUYZENVELD-MAETZE 1988—A. ARNOLDUS-HUYZENVELD, G. MAETZKE, L influenza dei processi naturali nella formazione delle stratificazioni archeologiche: l'esempio di uno scavo al Foro Romano, “Archeologia Medievale”, XV, pp. 125-175. ARTHUR WHITEHOUSE 1983 — P. ARTHUR-D. WHITEHOUSE, Appunti sulla produzione laterizia nell'Italia centro-meridionale tra il VI e il XII secolo, “Archeologia Medievale”, X, pp.525-537. BARUZZI 1978-M. BARUZZI, I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'altomedioevo, “Studi Romagnoli”, XXIX, pp. 423-446. BERTAUX 1904 - É. BERTAUX, L'artdans l'ltalieMéridionale, I-III, Paris. BERTI-TONGIORGI 1972—G. BERTI-L TONGIORGI, Frammenti di giare con decorazioni impresse a stampo trovati a Pisa, “Eaenza”, LVIII, pp. 3-10. BESSAC 1986 - J. -C. B ESSAC, L'outillage traditionnel du taillearde pierre de l'Antiquité à nos jours, Paris. BIANCHI PARENTI 1991—G. BIANCHI-R. PARENTI, Gli strumenti degli scalpellini toscani. Osservazioni preliminari, in Le Pietre nell'Architettura: Struttura e Superfici, Atti del convegno di Studi, Bressanone 25-28 giugno 1991, Padova, pp. 139-149. BINDING 1987 G. BINDING, DermittelalterlicheBaubetriel'Westearopas. Katalogdersseitgenossischen Darstellangen, Koln. BOHNER 1958 - K BOHNER, DiefrdnkischenAltertamerdesTriererLandes, “Germanische Denkmaler der VolkerWanderungszoit”, ser. B, ], I-II. BONINSEGNA 1980 - A. BONINSEGNA, Dialetto e mestieri a Predazzo. Il lessico tecnico di alcuni mestieri nel dialetto di Predazzo, Trento. BROGIOLO 1983 - G.P. BROGIOLO, La campagna dalla tarda antichità al 900 ca.d.C., “Archeologia Medievale”, X, pp. 73-88. BROGIOLO 1987a - G.P. BROGIOLO, A proposito dell'organizzazione urbana nell'altomedioevo, “Archeologia Medievale”, XIV, PP. 27-46. BROGIOLO 1 987b - G.P. BROGIOLO, Prima campagna 1988 di ricerche archeologiche sul/a Rocca di Monselice. Relazione preliminare, “Archeologia Veneta”,VII, pp. 149-165. BROGIOLO 1989 -G.P. BROGIOLO,Brescia:Building trasformation sin a Lombardeity, in The Birth of Europe. Archacology and social development in the First Millennium A.D., ( K. RANDSBORG ed.),“Analocta Romana Instituti Danici”, Supplementum XVI, pp.l56-165. BROGIOLO 1992 - G.P. BROGIOLO, Trasformazioni urbanistiche nella Brescia longobarda: dalle capanne di legno al monastero regio di S. Salvatore, in S. Giulia di Brescia. Archeologia, arte storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, Atti del Convegno, Brescia, pp. 179-210. BROGIOLO-CREMASCHI-GELICH1 1988 — G.P. BROGIOLO_M. CREMASCHI-S. GELICHI, Processi di stratificazione in centri urbani (dalla stratificazione alla stratificazione "archeologica"), “Archeologia Stratigrafica dell'Italia Settentrionale”, I, PP. 23-30. BROGIOLO-LUSUARDI SIENA-SESINO 1989—G.P. BROGIOLO S. LUSUARDI SIENA P. SESINO, Ricerche sa Sirmione longobarda, Firenze. CAI ANDRA 1883 - C. e E. CALANDRA, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, “Atti della
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La circolazione monetaria (secoli V-VIII) Il tema affidato a me e alla collega può essere sviluppato con una ricerca a tre diversi livelli, solo in parte interagenti. Il primo livello d'indagine è dato dall'analisi tipologica, per il riconoscimento, con tecniche tradizionali, delle varie emissioni, da collocare nel tempo e nello spazio, cioè nelle varie zecche in seqUenza cronologica. Ho già in altra sede tentato questa via sia per gli Ostrogoti che per i Longobardi, con mie proposte di griglie cronotipologiche, sulle quali, a preferenza di altre, mi baserò in questa sede. Il secondo livello d'indagine è relativo alla StrUttUra e ai volutni delle emissioni. Tale analisi, che non può prescindere da uno schema preliminare di classificazione, viene soprattutto sviluppata attraverso la ricostruzione delle sequenze dei conii, con il calcolo del loro probabile numero originario. Si possono cosi riconoscere alcuni aspetti di politica economica, almeno per quanto riguarda l'aspetto attivo del volUme e della qualità delle emissioni.I maggiori limiti per queste ricerche, che ho svilUppato recentemente per le emissioni ostrogotea e per alcUni momenti della monetazione longobarda, sono rappresentati dall'impossibilità, per ora, di ipotizzare la produzione media dei conii con le sue variazioni nel tempo, secondo i metalli, secondo le caratteristiche dei tondelli6 e secondo le varie tecnologie applicate. Inoltre spesso i campioni statistici disponibili hanno Una troppo ridotta popolazione e sono qUindi non affidabili. Il fenomeno è dovUto non soltanto alle variabili della circolazione antica, ma anche al collezionismo moderno e contemporaneo, che tende a forme di conservazione selettiva. Inoltre, per quanto riguarda la conservazione dei materiali fino al contemporaneo, la mancata tesaurizzazione (spesso legata a situazioni di tranquillità e di prosperità) ha reso difficile l'analisi di emissioni in origine anche imponenti, per la rarità dei pezzi superstiti. Il terzo livello di indagine, il più difficile da affrontare e anche il più trascurato dalla critica, si riferisce all'analisi della struttUra della circolazione monetaria, che deriva dalle scelte tipologiche delle autorità emittenti, dai volumi delle emissioni e dalla politica economica sviluppata nel tempo. Oltre che dalla situazione economica generale, sia negli aspetti locali che in quelli di grande portata, anche continentali o mondiali. Appare utile ricordare come la circolazione in un qualsiasi territorio in un dato momento comprenda anche la moneta residuale dalle epoche precedenti e quella proveniente dall'esterno, o da emissioni irregolari (ad esempio le falsificazioni). Una popolazione presente sul mercato sulla base di premesse giuridiche diversissime, molto variabili nel tempo7. Per la fase tra Ostrogoti e Longobardi, praticamente l'unico strumento utile per una ricerca sulla struttura della circolazione monetaria appare il materiale di scavo o presente nei ripostigli, mentre per la fase affidata alla collega A. Rovelli si aggiunge la documentazione scritta. I nostri contributi, che derivano da una impostazione metodologica comUne, si differenziano quindi per la presenza, nella ricerca di A. Rovelli, di questa fonte fondamentale, con una complessità dell'analisi ed un approfondimento certamente a me negati. I fenomeni che è dato osservare per la moneta in rame nella primissima fase, con gli Ostrogoti, appaiono interessare forse più i problemi di circolazione (e di emissione) della tarda antichità che dell'altomedioevo. In altra sede infatti ho tentato di individuare non come teorico, ma come realmente emesso, il ammasdi riferimento per i folles della riforma sia Teodoriciana che di Anastasio, momento centrale della politica economica della fine del V secolo. Queste minuscole monete, per ora sempre illeggibili (ma sempre coniate), che non sappiamo se gote o bizantine, sono presenti ovunque, anche se quasi mai vengono segnalate. Un esemplare è anche a Monte Barro, in livelli ostrogoti ben difficilmente anteriori alla guerra greco-gotica. I1 7~ammas di questa fase (pesante 0,15l0,30 grammi) non sembra interessare la tesaurizzazione e non sembra giungere alla metà del VI secolo, scomparendo per la progressiva semplificazione della vita economica, che non utilizzava più il mezzo monetario per le transazioni minime. Parallelamente, dopo Teodato, sembra uscire dal mercato ilfollis: restano i nominali in rame medi, sui quali si
sviluppa la manovra monetaria di Baduela di adeguamento ponderale al follis bizantino, e che costituiscono il nucleo base dei ritrovamenti nei siti fortificati databili alla guerra greco-gotica, come Stia:6 o Monte Barro. Baduela tentò di fronteggiare la penetrazione in Italia della moneta bizantina nel corso della guerra e la probabile sistematica demonetizzazione del circolante goto ovunque i bizantini avessero il sopravvento. L'importazione di moneta in rame da parte dei bizantini appare aver interessato volumi notevoli, come si desume anche dalla presenza consistente, nei ripostigli di metà VI secolo, tutti di minimi (due nummi e mezzo), di materiali sia di emissione cartaginese, (area di origine del corpo di spedizione bizantino), vandali e bizantini, che imperiali a monogramma di V e VI seco3o:U, inconsueti nella precedente circolazione italiana. Pure dall'Africa, con i bizantini, giungono i folles con il valore XLII inciso. Per tutti i nominali in rame minori, in gran parte dell'Italia, la metà del VI secolo sembra rappresentare la soglia oltre la quale non è più possibile ammetterne la resistenza in circolazione. Con essi scompaiono non solo le ultime emissioni gote di minimi, ma anche la residuale circolazione in rame di IV e V secolo, che non troviamo più (in Italia non bizantina: altrove la situazione è diversa) successivamente, se non in funzione non monetaria. L'esame della struttura delle emissioni ostrogote: ha dimostrato l'importanza dell'argento, che viene confermata dai ritrovamenti, frequenti in Italia e in Europa. La tendenza ad una sempre maggiore articolazione delle emissioni in argento ed un loro potenziamento quantitativo appare però precedente, già di Odoacre, e sembra indiziare una precisa evoluzione economica, che pone in contrapposizione l'ambito economico occidentale (con i Vandali) e quello orientale. Fenomeno tanto potente da condizionare anche la produzione monetaria dell'esarcato bizantino in età longobarda. La tendenza all'articolazione appare evidente anche nella presenza, ormai sicura, di emissioni ostrogote di ottavi di Siliqua. La documentazione ottocentesca di Saint-Rémy, un ottavo di siliqua di Teodato38, viene ora completata dall'ottavo di Badela scoperto a Pontelambro. Non vi è quindi soluzione di continuità con le analoghe emissioni ravennati di Giustiniano e Giustino II (e successive) e con le loro imitazioni longobarde, fino agli ottavi beneventani con monogramma di Eraclio3t e quelli reali Con il monogramma, di seconda metà del VII secolo. Sembra qUindi oggi possibile seguire nel tempo nella circolazione su parte del territorio italiano una tendenza alla selezione del nominale inferiore, l'ottavo di siliq~a, che prevale sui nominali più pesanti, certo in base a precise esigenze economiche. Resta sullo sfondo il problema, a suo tempo appena delineato33, della presenza della moneta ostrogota (in argento e rame) soltanto nei gangli fondamentali dell'occupazione gota del territorio: centri amministrativi e presidii militari. ciò porterebbe a considerare le emissioni come riservate al gruppo goto, con i gruppi romanzi in una situazione di forte contrazione dell'uso della moneta, con ovvie deduzioni possibili in ambito economico e relativamente ai rapporti tra dominatori e dominati. Sappiamo però troppo poco della topografia dei centri urbani in età gota, che dovevano aver sUbito forme di contrazione e di modifica d'uso delle aree, forse rendendo non affidabili gli scavi che sembrano attestare l'assenza della moneta gota, o la Sua presenza molto rara, come a Milano o a Roma. Si hanno difficilmente in scavo associazioni valide di monete all'interno di strati affidabili. Pure la sensazione è che la circolazione del rame e dell'argento non vedesse nell'Italia gota la compresenza di materiali ostrogoti e bizantini. Ne è prova la relativa rarità di materiali isolati bizantini anteriori a C;iustiniano35, ricordando come la situazione dei ripostigli della metà del VI secolo appaia condizionata, come abbiamo visto, dai materiali importati dai bizantini per le necessità di guerra o coniati nelle aree occupate, a Roma o Ravenna. La documentazione di scavo ed i pochi ripostigli sembrano invece individuare una libera circolazione, a tutti i livelli cronologici, dell'oro, senza differenza tra quello di zecca ufficiale bizantina e di zecca gota. Ciò indica, per le transazioni maggiori, una ancora operante integrazione commerciale tra l'area italiana e il vasto mercato della moneta bizantina, in armonia con il riconoscimento delle emissioni auree ostrogote come emissioni ufficiali. Costante e cospicua è pure la presenza residuale dell'oro più antico, imperiale3s. Anche all'esterno l'oro bizantino e quello goto si
mescolano. Assente, significativamente, sembrerebbe l'oro coniato in altre aree economiche e politiche (Franchi, Burgandi ecc.), verso le quali evidentemente esistevano sbarramenti insuperabili. L'esame dei ripostigli indica una fase preferenziale di occultamento ai primi anni della guerra greco-gotica, che deve aver portato a una riduzione della presenza in circolazione dei solidi. Vi fu poi una seconda fase nelle aree più meridionali, in rapporto con le ultime fasi di scontro e negli anni immediatamente successivi4~. Comunque, durante e verso la fine della guerra, I'esame della struttura delle emissioni mostra un cedimento delle emissioni di solidi a favore di quelle di tremisses. Ciò corrisponde certamente alle tendenze della circolazione, che però dobbiamo sempre immaginarci dominata dalla moneta di Bisanzio. Un problema a parte, molto oscuro, è quello della presenza franca nella Padania. Ho altrove proposto di riconsiderare le emissioni franche di tipo ostrogoto (con monogramma o nome del re per esteso). Al noto quarto di sili]Ha di Clotario, si è aggiunto infatti recentemente un quarto di siliqua con il nome di Teodebaldo. In questo contesto infine ho dubbi circa l'attribuzione a Ildebado del quarto di siliqua di Masera (Novara), il cui monogramma potrebbe essere di Teodebaldo. Il complesso di monete attribuibili ai Franchi inizia così ad essere consistente, anche se non ci è dato sempre sapere quali di questi tipi, se franchi, sono attribuibili a zecche italiane e non, ad esempio, a Marsiglia. Solo per il quarto con il nome di Teodebaldo si ha un collegamento di conio (di Dl) con Teodato. La zecca dovrebbe quindi essere italiana. Non sappiamo quale peso avessero queste emissioni nel complesso del circolante nei territori controllati dai Franchi fin dal 540 e quale fosse la struttura di questa circolazione, mancando qualsiasi evidenza archeologica. Ci sfugge, certo per la sua brevità, pure la fase molto complessa che precedette l'arrivo dei Longobardi, anche se la documentazione numismatica apparentemente è cospicua. La distribuzione dei materiali nell'Italia settentrionale sembrerebbe però confermare per l'intero territorio una circolazione trimetallica, con materiali bizantini, con qualche presenza residuale gota. La moneta gota (in argento e rame) comunque tende a rarefarsi in Italia, mentre episodicamente ricompare, con i nominali più bassi, nei ripostigli nel bacino del Mediterraneo46. Evidentemente ne avvenne un ritiro coatto. Risulta invece potentemente presente nello spazio germanico transalpino, anche se con funzione monetaria fortemente indebolita. Intorno alla metà del VI secolo riconosciamo in atto un grande fenomeno di semplificazione della circolazione: grandi ripostigli di minimi in rame indicano la contrazione della circolazione del rame, anche nelle aree che resteranno bizantine. Ci si avvia ad una situazione particolaristica con ambiti non comunicanti tra di loro e alla definizione di una serie di modelli specifici di circolazione territorialmente delimitati. Per gran parte del territorio la documentazione numismatica recuperabile per via archeologica appare sempre più ridotta. I fenomeni che possiamo desumere da questa campionatura molto parsimoniosa devono venire quindi interpretati partendo dal presupposto di una riduzione dell'uso della moneta come mezzo di scambio ovunque molto sensibile, anche se con situazioni variabili da luogo a luogo e nel tempo. In Italia meridionale, sulla quale conviene dare qualche indicazione, tralasciando la Sicilia49, da trattare a parte, il sistema economico appare sempre sofisticato, a carattere bizantino, sia in Pugliaio, che in Calabria attuale, certamente meglio nota. In questa i ritrovamenti sembrano coprireS~ i secoli VI-VIII, con una discreta distribuzione, per oro e rame, e con una circolazione forse non soltanto a carattere urbano. In tutta l'area l'argento è assente, al contrario del rame, discretamente presente con nominali anche alti e che sembra mantenere funzione monetaria. Scambi con il resto dell'Italia sono solo con Roma e Ravenna. Un esame del monetiere di Catanzaro, di formazione locale, indica una provenienza esterna (soprattutto orientale) fino a Giustiniano I, con il quale si infittiscono i materiali di Roma e Ravenna, non oltre però l'inizio del VII secolo. Con Eraclio iniziano i materiali siciliani, affiancati da quelli orientali per un breve spazio, con Costante II, con il quale inizia il dominio assoluto delle emissioni siciliane. Simili i dati degli scavi di Crotone. Nell'esarcato la circolazione, a carattere bizantino, appare invece trimetallica. Altissima è, f~no ad Eraclio, la capacità di penetrazione all'esterno dell'oro e dell'argento. Quest' ultimo viene coniato fino
all'VIII secolo, anche nel nominale più piccolo dell'ottavo di siliq~aSó' e viene largamente imitatoS7. La moneta di Ravenna è sempre il riferimento per tutte le imitazioni nell'intera area longobarda, fatto ehe ne conferma la reale presenza, almeno iniziale, in cirecolazione. Importante è l'emissione da parte di Aistulf (751-756) di moneta, aurea e in rame, con folles di peso ridotto, analogo ai xxx nammi di Roma. Si conferma cosi, alla vigilia della chiusura della zecca, la ancora notevole sofisticazione del sistema economico a Ravenna, in parallelo con quello romano. Non forse errata l'ipotesi di una circolazione molto omogenea. La Liguria mantiene, per il poco che conosciamo, una circolazione con caratteri bizantini con rame e argento60. Per il periodo successivo alla conquista di Rotari mancano dati. In Sardegna nel VI secolo la cultura monetaria sembra quella bizantina, con assenza, per ora, di argento ed una forte presenza di rame, soprattutto dei nominali minori e non solo in ripostigli, pure particolarmente frequenti. Questo quadro, vicino a situazioni africane (si infittisce significativamente la presenza vandalica, per altro costante in tutta Italia), si modifica sUccessivamente. L'isola' con la Corsica, sembra, forse dalla fine del VII secolo, coinvolta in un tipo di circolazione molto complessa, a carattere trimetallico e con la compresenza della moneta longobarda e di quella bizantina Per l'argento vanno segnalati gli ottavi di siliqua di Linguizzetta, nella vicina Corsica. A Roma la struttura della circolazione è trimetallica, a carattere bizantino, analogamente a Ravenna e con una progressiva tendenza all'isolamento, anche nei confronti dell'esarcato. Dopo~na prima fase di VI secolo, con materiali diversificati, dominano le emissioni locali. Si inserisce in questa progressione l'inizio con Eraclio dell'emissione dell'argentoó4, quasi contestualmente all'inizio delle emissioni longobarde. Il mercato sembra richiedere quindi bassi valori intrinseci (l'ottavo di siliqua). Nelle emissioni, molto regolari, si registra una caduta della qualità della lega dalla fine del VII alla seconda metà dell'VIII, con un processo non documentabile per le parallele emissioni longobarde forse solo per la scarsità della documentazione. Si utilizza il rame, con i xxx Hammi, tra VII e VIII secolo66. La circolazione sembra discretamente sof~sticata, con un'effettiva funzione monetaria per argento e ranie67. Vi sono così analogie (I'argento) e differenze strutturali (il rame) con la circolazione dell'Italia non bizantina, che si compongono nel tempo, con una confluenza contestuale all'autonomia da Bisanzio, che segna la fine delle emissioni auree. I contatti con l'esterno, come anche con le altre zone bizantine, appaiono difficili, anche se esistono aree marginali a circolazione mista, come la longobarda Farfa (RI). La moneta comunque usciva poco da Roma e non vi entrava, O, se entrava, erano in opera mezzi efficaci per non farla circolare. Mancano i dati necessari per la ricostruzione, anche in linee molto generali, della circolazione a Napoli77, dove 1'apertura di una zecca permette di ipotizzare una situazione simile a quella romana, ma dove siamo pur sempre limitati alla sola analisi tipologica dei materiali, che permette però di riconoscere una presenza del rame almeno sino alla fine del VII secolo. In Italia settentrionale circolano tremzsses aurei e argento. Se per l'oro il nominale esclusivo sembra il tremiss, per 1'argento si ha tendenza alla riduzione dal quarto all'ottavo di siliqua, con monete ravennati o loro imitazioni. Oltre alle imitazioni delle frazioni di siliqua ravennati, già citate, è presente ad esempio un ottavo di siliqua ravennate di Maurizio Tiberio a Lomello, mentre si hanno forse quarti di siliqua con monogramma (di duchi o di re) di tipo ostrogoto. Il modello di circolazione ha escluso il rame, che appare presente ma con utilizzi non monetali. La moneta in rame bizantina contemporanea, anche se non assente, appare comunque molto rara, come a Verona. Tanto da non permetterle una attribuzione di funzione come circolante se non con molta cautela. I ripostigli indicano assenza di comunicazione con l'esterno: mai è presente moneta non longobarda, se non con il periodo carolingio. La moneta longobarda invece, sia aurea che, inizialmente, argentea, penetra nei mercati transalpini, dove la moneta in argento italiana (da Ravenna o di zecche irregolari) domina per tutto il VI secolo ed oltre.
Una probabile politica di emissione non speculativa, sia per l'oro che per I'argento, favoriva per la tesaurizzazione il trermissis, lasciando in circolazione gli ottavi di siliqua, quindi distrutti quasi integralmente. Il ripostiglio di Biella, con tremisses di Liutprando e ottavi di siliqua conperl, ci dà però testimonianza della durata in circolazione di questo nominale. Sicuramente, nell'VIII secolo, si hanno poi nominali minori prodotti per frammentazione del tremissisae L'esame tipologico dei materiali, quello dei volumi di emissione e delle percentuali del conservato, quello della composizione dei ripostigli, ci permettono un'ulteriore ipotesi per i secoli VII-VIII. La discreta rete di ritrovamenti isolati e di ripostigli notiS2 indica come il tremissis venisse perso anche isolato, anche se non ne è pensabile la circolazione quotidiana. Per l'alto valore, la tesaurizzazione avveniva quindi anche sul pezzo singolo. In questo quadro è interessante il controllo della circolazione dimostrato da Cuniperto con il ritiro dell'intera massa del circolante, tremisses di peso basso e di lega scadente, in occasione della sua riforma monetaria che vide l'imposizione di un nuovo tremissis, di tipo nazionale, con il San Michele al Rovescio, di peso alto e di ottimo oro. L'operazione, in rapporto con la crisi del potere bizantino in quegli anni, postula un forte controllo statale, una grande semplicità del sistema economico, con velocità di circolazione minima, e pochi detentori di moneta, tutti noti, collegati al potere, ben disciplinati. Sembra di poter escludere, a questo punto, che la funzione monetaria fosse fondamentale per il tremissis longobardo, che era invece un mezzo di tesaurizzazione per ristretti gruppi dirigenti. I ripostigli che ci trasmettono la maggior parte del materiale appaiono concentrati su alcune soglie cronologiche abbastanza precise: ai primi anni di Liutprando, alla metà del secolo e in concomitanza dello scontro tra Desiderio e Carlo, a ridosso della demonetizzazione dell'oro. Tali soglie segnano momenti discriminanti oltre i quali determinate classi monetarie scompaiono dal mercato. La prima porta all'uscita di circolazione delle emissioni di Cuniperto, di Ariperto II e di Liutprando nella sua prima fase, tutte con buona tenuta del valore intrinseco. La seconda porta all'uscita di circolazione delle restanti emissioni liutprandee, di Ratchis, Aistulf e forse delle prime di Desiderio (quelle con il San Michele al Rl). Quest'ultimo re attuò la riforma dello "stellato", che doveva trovare le sue premesse in una realtà economica fortemente mutata, se si giunse ad una distribuzione sul territorio della funzione di emissione. Sicuramente la riforma significò la demonetizzazione del circolante precedente. Il controllo della circolazione era quindi ancora assoluto, come viene confermato dall'assenza di materiali non longobardi nei ritrovamenti. In tutto ciò non era coinvolto l'argento, mai considerato da una autorità emittente attenta soltanto alla valuta tesaurizzabile e che non si interessava agli strumenti di scambio reale, ormai evidentemente molto ridotti e di importanza tanto secondaria da non lasciare altre tracce documentarie. L'argento non era mai scomparso, dall'età gota, e rappresentava, con la sua presenza, I'indicatore della sopravvivenza, talvolta faticosissima, della residua vitalità commerciale e di mercato dell'occidente. Per la Tuscia mancano dati da scavo per una analisi della circolazione dell'argento e del rame. Appare probabile la dipendenza da Ravenna per l'oro in base all'adozione per le emissioni di imitazione di VII secolo dei tipi ravennati di Eraclio, con la croce al Rovescioas. Forse proprio in una crisi delle emissioni bizantine con Eraclio, o poco dopo, si ebbe il presupposto per le emissioni di imitazione, analogamente a quanto avvenne anche a Benevento. Nello stesso tempo si deve supporre nella Tuscia una situazione economica e politica con larga autonomia locale nelle emissioni, sia per quelle di imitazione che per quelle successive cittadine. Se la circolazione interna sembra facile, i contatti con l'esterno fino alla metà dell'VIII secolo non lo erano: la moneta della Tuscia sembra assente in Italia Padana e meridionale. Successivamente invece la situazione si capovolse, con la diffusione ubiquitaria della moneta aurea di Lucca, chiaro indicatore di una integrazione dei due spazi, Italia Padana e Tuscia, sul piano economico e monetario. Un aspetto di grande interesse, ancora da approfondire, è quello delle emissioni plumbee di Luni37, città che doveva avere Una autonomia analoga a quella dei centri della Tuscia.
La circolazione nella città, molto ben nota, mostra una notevole articolazione, con materiali longobardi (del regno e della vicina Tuscia, con monete autonome di Lucca), bizantini88, e con le emissioni in piombo di VII-VIII sec., ad integrazione chiaramente del circolante spicciolo ormai carente). Queste mostrano una certa capacità di penetrazione nel territorio circostante, se sono state trovate ad Ansedonia. Anche in Benevento il modello appare analogo a quello bizantino, con probabile utilizzo forse sino ad Eraclio (o poco dopo) di circolante bizantino, quando iniziano le emissioni locali, alternative a quelle bizantine, per le quali il mercato si chiude. Situazione campione è la necropoli di Campochiaro. Contestualmente Benevento si svincola dalla dipendenza da Ravenna anche per l'argento, con l'emissione dell'ottavo di siliqua imitato da quello ravennate di Eraclio con monogramma, ormai noto da numerosi ritrovamenti9e Il rame sembra escluso. Non sembra esserci penetrazione di altra moneta sia da ambiti longobardi che bizantini (Roma compresa), dopo Costante II. Dalla fine dell'VIII secolo l'oro beneventano penetra nei mercati non più riforniti dall'Italia settentrionale, dopo la demonetizzazione carolingia dell'oro: ne sono indizi il ripostiglio del Reno o i ritrovamenti di Cividale (UD), di Nitra in Slovacchia e di Traù in Dalmazia. In tutta Italia, con l'esclusione delle aree meridionali bizantine e delle isole, la circolazione presenta alcuni comuni denominatori, tra i quali appare interessante l'utilizzo dell'argento in alternativa al rame, con nominali di basso valore intrinseco ma con circolazione non fiduciaria. L'alternativa è completa in area longobarda, mentre consente invece in altri ambiti (Esarcato, Roma, Napoli), più legati allo spazio bizantino, una resistenza nel mercato del rame, in una circolazione trimetallica. L'esame della documentazione tende però a definire l'ipotesi di un progressivo irrigidimento della circolazione nelle singole aree, con spostamenti di valuta da una all'altra sempre più difficili ed emissione di tipi di imitazione prima e di tipi specifici poi. Forse come riflesso di una evoluzione economica sempre più differenziata. Il sistema generale, ancora parzialmente integrato, con presenza prevalente sul mercato della moneta Ravennate, entrò in crisi a partire dall'età di Eraclio. Il mondo bizantino che in Italia Meridionale e Sicilia aveva definito strutture economiche del tutto autonome, nelle altre perse progressivamente dalla metà del secolo la capacità di condizionare la situazione. Cedette anche qualsiasi forma di integrazione interna tra le diverse aree Controllate politicamente da Bisanzio, alcune delle qUali si avviavano all'autonomia. Così, in questa fase, iniziarono, non solo in Tuscia e Benevento ma anche, ad esempio, a Roma, emissioni di tipi di imitazione o autonomi, sia per l'oro che per l'argentO, cosa che conferma la contrazione o l'impossibilità dell'utilizzo di materiali originali. In questa situazione, con forti specificità locali e certo con forti differenziazioni nella struttura economica, della quale la circolazione monetaria è estrinsecazione, si possono seguire, già dalla metà dell'VIII secolo, i prodromi dell'evoluzione che portò al momento unificante delle riforme carolinge, con un nuovo confiine tra area dell'argento ed area dell'oro. Tema che affido alla collega. ERMANNO A. ARSLAN
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La funzione della moneta tra l'VIII e il X secolo. Un'analisi della monetazione archeologica
Come è stato anticipato da Ermanno Arslan, cercherò di focalizzare alcuni problemi relativi all'uso della moneta durante il periodo grosso modo compreso tra l'VIII e il X secolo. La ricerca ha interessato principalmente i territori compresi nel Regno italico e nei domini della Chiesa di Roma. L'ambito geografico prescelto collima dunque con quelle aree in cui le zecche, in seguito alla conquista di Carlo Magno, iniziarono a coniare esclusivamente argento, entrando in quella che viene generalmente definita come la “lunga età del denaro d'argento”2. Nelle regioni a sud di Roma, invece, accanto alla persistente tradizione monetaria romano-bizantina si diffuse la moneta aurea araba 3 . Malgrado questa tradizionale divisione dell'Italia in due aree monetarie ben distinte, I'una ancora dominata dalla moneta aurea, I'altra dalla nuova moneta d'argento, sia probabilmente eccessivamente schematica 4, è peraltro vero che la riforma monetaria introdotta da Carlo Magno, probabilmente nel 781 5, mutò radicalmente, nei territori entrati a fare parte del dominio franco, la struttura del sistema monetario. Infatti, mentre la monetazione bizantina e quella longobarda erano basate sull'oro, a cui potevano affiancarsi anche riominali minori in argento e, nel caso bizantino, in bronzo, le zecche del Regno italico coniarono un unico nominale d'argento: il denaro. Inoltre, a differenza della Gallia merovingia, dove la transizione dalla monetazione aurea a quella argentea seguì un processo durato quasi un secolob, in Italia il passaggio al monometallismo argenteo fu determinato da una precisa volontà dell'autorità emittente. Sui motivi che spinsero i sovrani barbarici, e in ultimo lo stesso Carlo Magno, a non coniare più oro, si è acceso un dibattito storiografico che, andando ben oltre il problema puramente numismatico e monetario, si è sviluppato in stretto rapporto con la discussione suscitata dalle teorie di H. Pirenne. Contrariamente alla dibattuta tesi pirenniana che aveva visto nel sistema monetario carolingio il risultato e il simbolo della crisi economica dell'Occidente 7, attualmente la ricerca storica e numismatica concordano nel ritenere il denaro d'argento lo strumento che ne avrebbe facilitato la ripresa. L'impero carolingio, infatti, avendo adottato un sistema a base argentea, era in grado di utilizzare le proprie risorse metalliche e dunque le zecche potevano contare, almeno in teoria, su una più agevole reperibilità del metallo 8. Nonostante i mutati orientamenti storiografici, rimangono aperti numerosi problemi. Rispetto ai sistemi monetari in uso a Bisanzio e nell'Islam, entrambi trimetallici e dunque, grazie alla presenza di diversi nominali sia in oro che in argento e in bronzo, opportunamente duttili, il sistema carolingio era notevolmente semplificato. Si coniava infatti, come ho ricordato, un solo metallo: I'argento, e un solo nominale: il denaro, affiancato in alcuni casi da emissioni di oboli (mezzi denari). Malgrado si tenda oggi a superare sia la troppo rigida contrapposizione tra "economia naturale" ed "economia monetaria"9, sia l'idea che l'economia curtense fosse estranea al mercato 10, la riduzione del sistema monetario ad una unica moneta metallica rende difficile valutare sia il suo potere d'acquisto 11, sia la sua capacità di fare fronte alla varietà delle transazioni economiche. Altrettanto controversi rimangono i giudizi riguardo alla concreta capacità produttiva delle miniere, delle zecche e, in definitiva, riguardo al volume delle emissioni 12 . Ph. Grierson, pur essendo stato forse il primo assertore dei vantaggi che sarebbero derivati dall'abbandono dei sistemi monetari ancora in parte legati alla tradizione bizantina in favore del monometallismo argenteo 13, suppone che le monete carolinge avessero comunque una circolazione pittosto lenta e limitata 14. D. Metcalf, in un famoso contributo 15 cercò di dimostrare il contrario, ma, più recentemente, sembra essere approdato a conclusioni prossime a quelle espresse dal Grierson. In uno studio comparativo sulla circolazione monetaria nella penisola iberica, dall'età visigota al XII secolo circa, ha potuto constatare che le monete arabe di ogni periodo risultano ovunque ben distribuite. I rinvenimenti
monetali, sia in ripostigli che sporadici sono numerosi. Viceversa le monete carolinge e post carolinge sono estremamente rare anche nello stesso settore nord-occidentale che ha peraltro restituito numerose monete del periodo visigotico. I pochi denari rinvenuti sono, oltretutto, successivi alla metà dell'XI secolo. This arguments - conclude Metcalf- throws us into the thick of the debate about the Pirenne thesis, the continuity of economic activity through the early middle ages, and the balance betwecn a natural economy and a money economy 16. Gli studi effettuati fino ad ora sui fondi d'archivio italiani hanno suscitato, analogamente a quanto è stato verificato per altre regioni dell'impero carolingio, giudizi contraddittori 17. L'introduzione del denaro d'argento, in sostituzione del tremisse aureo longobardo, avrebbe consentito al sistema monetario carolingio, secondo Toubert, ``di eliminare quel grande angolo cieco della circolazione dell'alto Medioevo costituito dall'economia quotidiana con le sue necessità di un numerario a potere liberatorio debole” 18 Questa recente e, attualmente, predominante teoria capovolge i più cauti giudizi espressi da Bognetti, Lopez e Cipolla secondo cui il denaro d'argento carolingio avrebbe, pur sempre, mantenuto un valore elevato e quindi non sarebbe stato in grado di risolvere il problema della mancanza di moneta spicciola 19. Nel tentativo di redifinire i termini della questione allargando, per quanto possibile, I'orizzonte documentario, procederò ad un riesame della documentazione d'archivio e dei dati archeologici. Questi ultimi pongono, a mio parere, un quesito cui si tendeva a non dare risposta: a differenza delle fonti scritte che lasciano supporre una larga diffusione della moneta, essi presentano un quadro in cui la circolazione monetaria sembra ridursi a livelli insignificanti. I denari carolingi si trovano infatti con notevole rarità nei contesti archeologici. Constatato ciò, si pone il problema di ipotizzare e capire diversi livelli dello scambio e diversi usi dello strumento monetario e, di conseguenza, è necessario impostare con correttezza le domande che si intendono porre ai due diversi tipi di fonte documentaria: quella scritta e quella archeologica. E probabile, infatti, che i contrastanti risultati ottenuti finora dipendano in buona parte dal fatto che si tende a generalizzare~le indicazioni offerte dalla documentazione scritta presumendo che queste possanò offrire un quadro esaustivo della circolazione monetaria. In realtà, la documentazione scritta, che riporta contratti di vendita, concessioni, privilegi, giudicati, diplomi, riflette transazioni che si situano ad un livello medio-alto dello scambio. I dati ricavabili dal materiale archeologico, invece, riguardano principalmente la moneta minuta e dunque i problemi relativi al quotidiano uso della moneta. Il materiale numismatico recuperato negli scavi archeologici di~ questi ultimi decenni fornisce nuovi dati al dibattito storiografico che fino ad ora ha usufruito della sola documentazione d'archivio o che, comunque, ha evitato di porre in esplicita correlazione le due fonti. Scavi urbani, di siti incastellati, di centri monastici, di pievi, di curtes si sono moltiplicati fornendo un campione documentario che si può considerare significativo e che, come tale, può essere utilizzato per integrare la documentazione scritta e per ricomporre la dicotomia, a prima vista inspiegabile, tra la documentazione archeologica, che sembra riflettere una notevole difficoltà di circolazione del denaro carolingio, e la documentazione d'archivio che, viceversa, lascia supporre un'ampia, anche se non costante, diffusione dello strumento monetario. Allo stato attuale, il dato, a mio avviso, più indicativo consiste nella mancanza o, quanto meno' nella brusca contrazione di rinvenimenti numismatici che si osserva nelle stratigrafie in concomitanza al calo e poi interruzione delle emissioni in bronzo e, per quanto riguarda l'argento, delle minuscole frazioni di siliqua 20. Descrivo brevemente alcuni casi. Gli scavi compiuti in diverse zone di Milano hanno restituito oltre 500 monete2~. Tra queste si nota una consistente cesura che va dal VI alla fine del X secolo. I ritrovamenti riprendono con i denari della dinastia degli Ottoni (9621002), ma diventano numerosi solo con la monetazione a nome degli imperatori euriciani che copre un periodo molto lungo, fino all'inizio del XIII secolo.
Roma presenta una situazione molto simile con la differenza data da una più prolungata presenza del materiale bronzeo bizantino che si ritrova fino alle ultime emissioni della zecca di Roma, dei primi decenni dell'VIII secolo. In seguito i reperti sono estremamente rari mentre tornano ad essere consistenti con le emissioni della fine del XII secolo. Non mi soffermo sui dati della Crypta Balbi, che sono stati già in parte divulgati 22, se non per sottolineare che alla rarità dei reperti numismatici 23 fa riscontro una notevole consistenza dei rinvenimenti ceramici di cui si contano decine di migliaia di frammenti databili tra IX e X secolo. Di conseguenza, la mancanza di rinvenimenti non dipende certamente dal deposito archeologico ma deve essere considerata indicativa della esclusione dalla circolazione quotidiana dei denari carolingi. Gli scavi sotto la Confessione di San Pietro al Vaticano permettono una ulteriore verifica del panorama che ho appena delineato. Le monete di zecche italiane sono 52624. Tra queste si conta un tremisse aureo a nome di Carlo Magno coniato a Lucca,4 esemplari databili al IX secolo 2S,1 denaro di Berengario I (888915), 25 denari ottoniani (962-1002). Un deciso aumento dei ritrovamenti è rappresentato ancora una volta dai denari euriciani. Della sola zecca di Verona si sono rinvenuti 181 esemplari per la maggior parte delle emissioni più tarde recentemente datate alla fine del XII secolo se non oltre 26. Al momento attuale, la serie dei rinvenimenti di età carolingia dagli scavi di Roma si conclude con un denaro emesso da Niccolò I e Ludovico II (858-867), rinvenuto alle Terme di Diocleziano 27. Gli scavi compiuti, ad esempio, a Torino 28, Genova 29, Brescia 30, Verona 31, Pistoia 32 ripropongono una situazione del tutto analoga. E così si può dire riguardo al materiale che proviene dagli scavi di centri rurali, castelli e centri monastici. A Scarlino, ad esempio, che ha conosciuto diverse fasi insediative dalla tarda età del Bronzo, è stato individuato un abitato altomedievale indubbiamente di una certa importanza, se si considerano gli affreschi del IX secolo che decoravano la chiesa, e le strutture di una curtis che fu fortificata nel tardo X secolo, la documentazione numismatica di età medievale inizia con un denaro di Ottone II. A questo fa seguito un denaro enriciano, ma il vero incremento Si osserva alla fine del XII secolo e soprattutto tra il XIII-XIV secolo, a cui si datano 25 esemplari 33. Altrettanto indicativi sono i materiali provenienti dallo scavo del castello di Montarrenti (SI). Le prime fasi insediative sono state datate all'VIII-IX secolo, ma la moneta più antica è un~enaro eoriciano della fine del XII secolo a cui segue un "picciolo" senese databile al 1250 circa. Il nucleo più consistente è rappresentato da esemplari di mistura del XIV secolo 34. L'ampia diffusione dello strumento monetario durante il XIII-XIV secolo è ben testimoniato dai materiali provenienti da Rocca San Silvestro 35. La storia di questo insediamento è diversa dai due casi precedenti. San Silvestro è un castello di nuova fondazione, in cui non si sono rinvenute fasi precedenti al tardo X secolo. Rientra dunque, sotto molti aspetti, nel modello toubertiano dell' "incastellamento". La diversa genesi insediativa vede peraltro un sostanziale parallelismo per quel che concerne la presenza di moneta. Le monete da San Silvestro, ancorché più numerose, riproducono gli stessi picchi di frequenza constatati a Montarrenti e a Scarlino. Si sono infatti rinvenuti 2 assi del periodo repubblicano e un sesterzio di Antonino Pio, probabilmente da collegarsi ad una sporadica frequentazione del sito in età romana. La documentazione del periodo medievale inizia solo con i consueti denari enriciani (10391 125) della zecca di Lucca, posteriori dunque di oltre un secolo alla fondazione del castello. Anche a San Silvestro, la presenza di moneta diventa tangibile con la comparsa delle emissioni lucchesi e pisane della seconda metà del XII secolo, a cui fanno seguito le ancor più consistenti emissioni del XIII prima metà del XIV secolo. Gli strati, come si è detto, restituiscono di preferenza materiale di scarso potere liberatorio, e San Silvestro non fa eccezione. Dei 436 pezzi recuperati finora, solo due appartengono alla cosiddetta moneta "grossa". Si tratta di un Popolino di Firenze e di un Carlino di Napoli. Infine, I'esempio dello scavo di una grande abbazia, quella di Farfa. Le monete, recuperate nel corso di scavi condotti dalla British School at Rome, sono 1 78 tra cui alcuni bronzi di età romana e bizantina 3. Di questi ultimi, il più recente è un esemplare da XXX nummi della zecca di Roma
databile tra il 680 e il 740. Dopo una cesura tra l'VIII e il X secolo, i rinvenimenti riprendono con due esemplari ottoniani. Il seguito ricalca il quadro ormai noto dato da numerosi denari della fine del XII secolo o del XIII-XIV. Il panorama delineato finora attraverso pochi esempi, scelti tra i più significativi, ma ampiamente verificabile in numerosi altri scavi, e nelle poche sintesi regionali finora condotte 37, conosce solo poche eccezioni date da rari rinvenimenti di denari di età carolingia che è opportuno analizzare, anche in questo caso, attraverso la descrizione di alcune delle situazioni più significative: Aosta, Torcello, Luni, Lomello e Villa Clelia 38. Ad Aosta, le rarissime monete carolinge 39 provengono da scavi effettuati in più zone della città. Dalla chiesa di san Lorenzo provengono un denaro di Pipino il Breve (751 -768) coniato ad Antrain e dUe denari di Carlo Magno coniati a Milano (774-778) ed a Pavia (781 l800). Il frammento di un terzo denaro carolingio della zecca di DuUrstede (768-781) nei Paesi Bassi proviene dagli scavi delle cosiddette i7~7s~1ae 51l52. Un denaro di papa Adriano I (781 cal795) della zecca di Roma, è stato rinvenuto nella zona del Foro. A questi possiamo aggiungere duesceattasinglesi rinvenuti nei luoghi di culto fuori porta decumana e nella cattedrale. Si tratta di un esemplare di EadUerth, re di Northumberland (737 l758), e di una moneta anonima coniata nel South Wessex nello stesso periodo. Per il IX secolo mancano rinvenimenti che riprendono con il X secolo, a cui si datano 5 denari pavesi, di cui uno a nome di Berengario I re d'Italia (915924) e 4 degli Ottoni (962-1002), e due denari della zecca di Langres coniati da Ludovico IV d'Oltremare (936-954). Luni (Sarzana, SP) ripropone una documentazione altrettanto eterogenea 40. Anche dopo l'occupazione longobarda avvenuta intorno al 641-642, le monete bizantine delle zecche di Costantinopoli, Roma e Siracusa continuarono ad affluirvi e a circolare. In particolare la zecca di Siracusa è ben rappresentata da numerosifollesdi cui il più recente è un esemplare di Michele III con la madre Teodora (85~-856)41. Da Luni provengono persino alcuni tremissi aurei di zecca longobarda. Oltre a quello emesso dalla zecca di Lucca, nel 712-749 circa, rinvenuto durante la campagna di scavo del 1970, vanno ricordati i tre tremissi rinvenuti nei sondaggi del secolo scorso dal Remedi e quelli conservati nel Museo civico spezzino 42. Riguardo ai denari carolingi, un esemplare a nome di Carld Magno, successivo al capitolare di Francoforte (peso di g. 1,55), della zecca di Me~v11O, l'odierna Melle en Poitou, è stato rinvenuto nel corso degli scavi diretti da Frova 43. Esso va ad aggiungersi ad altri denari di Carlo Magno provenienti dalle zecche di Duurstede, Magonza, St. Martin de Tours, Sens, RA (sigla di zecca non determinata) e Milano rinvenuti nel 1868 dal Remedi (pare in una tomba) che costituiscono il cosiddetto tesoro di “Sarzana-Luni”48 Ancora nel catalogo Remedi appaiono tre denari carolingi da Milano, Pavia e Arles. Di Ludovico il Pio sono ricordati 4 dènari provenienti da Milano, Pavia, Treviso ed uno da zecca incerta 45. Malgrado le indubbie testimonianze archeologiche del degrado della città 46, questi ritrovamenti sono un indizio del persistere di attività legate al commercio mediterraneo e transalpino. Notizie sull'approdo di navi a Luni si hanno f no al XII secolo, malgrado fosse già in funzione, nell'estuario del Magra, il porto di Ameglia47. A riprova della continuità di approdo si possono, del resto, portare ad esempio anche un follis di Mansone III duca di Amalfi, signore di Salerno (981-983), un follis di Ruggero Borsa, duca di Puglia (1085-1111) e due denari provisini di Tebaldo III conte di Champagne (1197-1201)48. Certamente al commercio era legata anche la fortuna di Torcello (VE), da cui proviene un denaro di Carlo Magno, emesso a Milano, trovato insieme a un dirhem dell'VIII-IX secolo 49. In defmitiva, questi tre siti erano, come è noto, tra le tappe principali del commercio internazionale. Da Aosta transitava il commercio transalpino fin dall'età pre-romana. Tra le monete recuperate nel corso degli scavi effettuati nel secolo scorso al “Plan de Jupiter”” al Gran San Bernardo risulta, ad esempio, anche un denaro di Carlomanno, re dei Franchi (768-771) 50. Oltre 500 monete delle diverse tribù galliche sono state recuperate in varie località, lungo le strade dei passi alpini e ad Aosta, nel 1834, fU rinvenuta una moneta punica; monete dei Tolomoi provengono da Aymaville e Bard; monete greche sono state rinvenute ad Aosta, Villeneuve, St. Pierre; uno statere d'oro dei Vindelici proviene da Aosta ed altre tre monete d'oro attribuibili forse ai Salassi sono state rinvenute nei pressi di Aosta ed a VerresS,. Torcello svolgeva nel Mediterraneo un ruolo che può essere paragonato a
quello che per il Nord Europa erano gli emporia come Hamwic o Birka 52. Luni mantenne a lungo in vita, malgrado il degrado, le strutture portuali. La sequenza dei ritrovamenti numismatici acquista, dunque, maggior significato se si considerano le associazioni dei diversi materiali. Ad Aosta si sono rinvenuti gli sieattas dei re Anglo-Sassoni, e i denari di età carolingia provenivano, come si è visto, da varie regioni dell'Impero. La stessa eterogeneità di zecche carolinge si riscontra a Luni che ha restituito ancora per l'VIII e IX secolo monete bizantine. Monete arabe arrivavano a Torcello. L'evidenza numismatica nel suo insieme soggerisce dunque di vedere i denari carolingi connessi principalmente-al grande commercio piuttosto che alle transazioni di beni di uso quotidiano. La maggiore, ma anche passeggera, affluenza di massa monetaria in queste località, che costituivano le tappe dei percorsi internazionali, spiega la presenza di monete, anche di valore, non escluse quelle auree. Sotto questa angolazione si possono probabilmente interpretare anche il rinvenimento fuori contesto di un denaro di Pipino il Breve presso il santuario di San Romedio (comune di Sanzeno, TN)5i, e di un denaro a nome di papa Giovanni VIII (872-882) e degli imperatori Carlo il Calvo (875877) o Carlo il Grosso (881-882), a Pre Alta (TN)s+. Entrambe le località erano situate lungo la viabilità che conduceva ai valichi alpini 59. Il fenomeno riscontrato presenta alcune analogie con quanto è stato notato da Metcalf nella Valacchia sud-occidentale e in Transilvania, dove numerosi siti hanno restituito discrete quantità di ceramica, ma non monete, mentre queste ultime sono state rinvenute lungo le direttive principali della transumanzai6. Anche il ritrovamento di alcuni denari a Lomello (PV);, sede di una curtis regia, e a Villa Clelia (Imola, BO) 58, dove è stato supposto che nel castram Sancti Cassiari avesse sede l'episcopio imolese, va probabilmente connesso alla riscossione dei censi e delle imposte da parte dell'autorità pubblica ed ecclesiastica, piuttosto che all'uso della moneta in transazioni legate al commercio dei beni di uso quotidiano. È interessante, a proposito di quest'ultimo, un veloce confronto con la presenza di monete nei coevi contesti dell'Italia meridionale che usufruiva di numerario di tradizione bizantina, e dunque di una circolazione trimetallica. Gli scavi di Otranto hanno restituito 140 monete bizantine, tutte di bronzo, databili tra il VI e il XIII secolo. Le monete coniate tra la seconda metà del IX secolo e la prima metà del successivo costituiscono circa un terzo del totaleS9. A Capaccio Vecchia (SA)63, le 89 monete recuperate, databili tra il III secolo a. C. e il XIX secolo, sono tutte di bronzo o mistura ed erano dunque parte del numerario "minuto". Il X secolo, grazie alla presenza di 17 folles di bronzo, ha la più alta percentuale di rinvenimenti. I siti medievali dell'Italia meridionale, che disponevano di numerario bronzeo "spicciolo", propongono un panorama dei rinvenimenti che in età romana era, a grandi linee, comune a tutta l'Italia. La rarità di rinvenimenti, negli strati di frne VIII-IX e buona parte del X secolo, dai siti dell'Italia centro settentrionale sembra dunque strettamente legata alla qualità del circolante che era costituito da un nominale di buon argento. Un rapido sguardo sull'insieme dei rinvenimenti in altre regioni europoe porta ulteriori conferme. In Inghilterra, ad esempio, alla enorme diffusione delle serie più svalutaté degli sceat~as6i fa seguito una contrazione dei rinvenimenti in concomitanza del rafforzarsi della moneta nel IX secolo. Da un'indagine compiuta da Rigold, risulta che anche in Inghilterra lo strumento monetario tornò a diffondersi nel corso del XII secolo raggiungendo l'apice all'inizio del XIV secolo oZ. I rinvenimenti in Germania, Francia e Paesi Bassi offrono un quadro simile ~3. In Francia gli scavi in corso a Saint-Denis hanno restituito 1152 monete, di cui 17 appartengono al periodo merovingio, 9 a quello carolingio e 19 si datano al X secolo 64. Il panorama delineato dall'evidenza numismatica suggerisce dunque che il denaro d'argento carolingio avesse un buon potere d'acquisto che ne limitava drasticamente le perdite casuali. Del resto Carlo Magno aveva portato a compimento un processo di rafforzamento della moneta chiaramente perseguito rispetto alle prime emissioni argentoe merovinge. I denari emessi intorno al
670 pesavano circa 1 g., Pipino portò il peso a g. 1,3, Carlo Magno nel 793l794 lo alzò a g. 1,70 e tale rimase per circa un secolot;. Dunque sembra difficile sostenere che Carlo Magno abbia inteso creare una moneta adatta a tutti i livelli dello scambio. Fuorviante, mi sembra, rispetto alla reale struttura del sistema monetario, il modello proposto dal Toubert il quale sostiene che: Il problema della moneta spicciola si è posto in termini nuovi con l'introduzione del denaro d'argento. Fino a quando allo stesso denaro è stato assicurato un valore abbastanza forte e stabile, cioè fino a Ludovico II, la contemporanea coniatura, con gli stessi tipi e nelle stesse zecche, di monete chiaramente più leggere chiamate "oboli" o mezzi-denari ha sicuramente risposto a questo settore della domanda monetaria. Dal momento in cui si è accentuata la svalutazione del denaro, è evidente che il bisogno di "petty coins" è stato soddisfatto in modo sempre più facile attraverso l'introduzione di una specie di "bi-metallismo argento" di cui abbiamo cercato di analizzare il meccanismo altrove” 66. In realtà, le zecche del Regno italico non coniarono oboli ed anche in altre regioni dell'impero le emissioni di oboli furono saltuarie e sporadiche 67. Il concetto di "bi-metallismo argento" che lo stesso Toubert ha introdotto in modo molto appropriato per spiegare i meccanismi di avvicendamento delle varie specie monetarie nel Lazio del XII secolo, secondo i principi della "legge di Gresham"~a, non può essere applicato al IX e al X secolo6s. La strUttura del sistema monetario, fondato principalmen~te sul denaro, che si mantenne stabile lungo tutto il IX secolo, non consentì questa ipotesi. Anche nel secolo X, malgrado la progressiva svalutazione, e l'indubbio incremento del volume delle emissioni del periodo ottoniano, I'uso del denaro rimase prevalentemente relegato ad alcuni settori dello scambio. L'economia dell'età carolingia e la stessa economia curtense non erano, dunque, per denaratam. Il denaro carolingio si trova con rarità nei contesti stratigrafici. Esso si comportava, infatti, come tutte le monete "grosse", di buon potere liberatorio e come tale deve essere considerato. Bisogna dunque escludere per il denaro, come per ogni moneta di buon peso e di buona lega, un uso per le piccole transazioni. Il mercato dei beni di uso quotidiano, compreso quello urbano, avveniva, evidentemente, senza che si dovesse fare ricorso ad una moneta spicciola. Gli scavi urbani, infatti, non hanno restituito monete,. presentando dunque un quadro della circolazione del tutto simile a quello di altri insediamenti, come castra, siti rurali o centri monastici. In sostituzione delle mancanti monete spicciole, si può supporre che si facesse ricorso, oltre ad alcuni beni di largo consumo, secondo l'ipotesi di Bognetti t;, anche a forme di piccolo credito. Quest'ultimo, naturalmente, come anche la moneta spicciola, non trova facile menzione nelle fonti scritte in quanto riguardava transazioni prive di rilevanza. Riferimenti precisi in proposito sono infatti particolarmente rari. Viceversa, i risultati di ricerche antropologiche suggeriscono alcune ipotesi sui modi di regolare piccoli acquisti senza ricorso alla moneta. Un esempio interessante è dato da un'usanza attestata nelle paludi pontine all'inizio di questo secolo. Qui, i contadini che lavoravano nei latifondi compravano il poco di cui avevano bisogno nello spaccio della tenuta che era, normalmente, di proprietà del latifondista. Essendo analfabeti, segnavano l'importo "a taglia". Ciò significa che venivano praticate delle tacche uguali su due pezzi di legno, di cui uno veniva conservato allo spaccio, I'altro veniva riportato a casa. La spesa veniva, poi, scalata dal raccolto 71. Pratiche simili, risalenti almeno al XII secolo, sono attestate in Inghilterra dove si conservano alcuni di questi bastoni intaccati 72. Data l'elementarità, nonchè la praticità di un simile sistema, penso che soluzioni come questa, od altre analoghe siano intervenute per sanare la mancanza di numerario spicciolo nel corso dell'VIII-X secolo, nei casi in cui se ne fosse sentita la necessità. Lo studio della ceramica offre, indirettamente, altri spunti per verifıcare l'evolversi del sistema monetario e delle forme d'uso della moneta. Non è probabilmente un caso che, tra le forme ceramiche, il salvadanaio, diffuso già in età romana per la raccolta dei piccoli risparmi dati, appunto, dagli spiccioli, ricompaia, dopo secoli di assenza, solo a partire dalla prima metà del XIII secolo 73.
Le fonti documentarie, del resto, sono indicative dell'uso del denaro d'argento in transazioni ben precise, che si situano ad un livello medio-alto dello scambio come ad esempio vendite, concessioni a vario titolo, multe, pedaggi ecc. e che, è evidente, non possono essere arbitrariamente impiegate come spie di un generalizzato uso dello strumento monetario. Benché si porti spesso a riprova della "monetarizzazione" dell'economia curtense il progressivo prevaiere dei: canoni in moneta su quelli in natura, va detto che non sono certo i canoni i più attendibili indicatori del grado di diffusione della moneta, soprattutto della moneta minuta. È noto, infatti, che dUrante i secoli XII-XIV i canoni tornarono ad essere prevalentemente in natura arrivando in alcune zone, come Lucca, a coprire quasi il 90% delle rendite 74. Eppure, il ritorno a canoni in natura corrispose in realtà, come si è visto, ad un periodo di fortissima espansione della massa di circolante, ormai notevolmente evoluto. Si coniavano infatti denari piccoli (quelli che troviamo nelle stratigrafie), grossi d'argento e, dalla metà circa del XIII secolo, monete auree. Delimitato così il livello d'uso della moneta, è necessario analizzare l'effettiva capacità di circolazione del denaro. Per il periodo romano è stato accertato il fondamentale ruolo svolto dagli eserciti e, più in generale, da diversi settori dell'apparato statale, ad esempio quelli che sovrintendevano alla riscossione delle tasse e ai sevizi postali, come elemento propulsore della circolazione monetaria 75. Un modello del genere è ovviamente inapplicabile al periodo altomedievale. Al tempo stesso disponiamo ancora di ben pochi elementi per misurare la frequenza, I'intensità e le direttive principali del commercio interregionale specie tra Nord e Sud. Tenuto conto di questi elementi, mi sembra che la linea interpretativa proposta da Cipolla riacquisti attualità: “[...] il grado di liquidità della moneta - sostiene infatti Cipolla - dipende in larga parte dal grado di efficienza del mercato. Se [...] I'imperfetto funzionamento del mercato crea nel consumatore un alto grado di incertezza circa il rifornimento dei beni desiderati, la "utilità" della moneta viene fortemente diminuita. La liquidità della moneta stessa e la sua domanda vengono ridotte in proporzione. [...] Istituzioni come quella del dono fıoriranno acquisendo un alto signifıcato economico 76. Le fonti documentarie, in particolare le carte private, mettono del resto in luce importanti differenze nella circolazione monetaria delle varie regioni che generalmente si tende a considerare unifıcate dalla comune appartenenza all'area del denaro d'argento. Nell'area padana ad esempio, diversamente che in altre, la riforma carolingia sembra essere stata effıcacemente imposta. Il denaro d'argento è la sola moneta citata dalle fonti. La disponibilità di moneta sembra essere stata, per le transazioni di una certa importanza, buona, rendendo cosi' raramente necessario il ricorso alla moneta sostitutiva e al metallo non monetato. Nelle carte i prezzi risultano sempre con chiarezza defıniti in unità di conto di moneta coniata, e sono così citati: 77. La disponibilità di moneta coniata è stata certamente facilitata dalla particolare concentrazione delle zecche situate a Pavia, Milano, Treviso (sostituita poi da Verona) a cui, intorno all'820, si aggiunse Venezia. Gli studi di Violante 78 su Milano e di Jarnut 79 su Bergamo concordano nel dimostrare che a partire dalla metà del X secolo, con ritmi progressivamente più veloci, la moneta diventò il mezzo più importante per l'acquisto di fondi, togliendo con ciò tale ruolo alla permuta. Pur se con cautela, è stato possibile collegare l'andamento dei prezzi ad alcune caratterisiche dei terreni, quali il tipo di coltura, e la vicinanza ai centri abitati. In definitiva il mercato dei beni fondiari sembra aver assunto caratteristiche tipicamente "economiche". Diversa appare essere la situazione in alcune zone della Toscana. Qui la riforma carolingia sembra essere stata accolta con circa due decenni diritardo. C. Wickham 80 ha inoltre evidenziato come, nella determinazione det prezzi della terra, i rapporti sociali, che grazie alla cessione della terra venivano stretti tra le due parti giocassero un ruolo determinante. Questo fenomeno si riscontra non solo in zone relativamente isolate, come il Casentino, ma anche nella piana di Lucca dove non si nota alcuna coerenza nei prezzi della terra, nonostante la generale omogeneità del terreno. È ovvio che quando questo fattore, che possiamo defınire "politico" o "sociale", si inserisce nella determinazione del
prezzo di una qualsiasi transazione, I'aspetto economico ne risulta notevolmente diminuito. E con esso diminuisce sensibilmente il ruolo della moneta nello scambio, così come anche la nostra possibilità di determinarne il potere d'acquisto. Ancora diversa sembra essere la situazione nel Lazio. Qui, il denaro d'argento, benché le carte ne registrino con prontezza l'introduzione, è ancora più lento nell'imporsi come mezzo privilegiato dello scambio. Risulta difficile determinare quanto questo dipenda da Una eventuale scarsa produzione della zecca di Roma. D'altra parte ciò potrebbe spiegare sia la protratta presenza in area romana della vecchia moneta aurea bizantina, sia l'infıltrazione di un'altra moneta aurea, il mancuso attestato nel IX secolo. Rispetto all'area padana le carte laziali, in particolare quelle di Farfa, denotano una situazione più eterogenea. Non è da escludere il ricorso al metallo non monetato soggerito dai generici riferirimenti ad argenti liorae. Anche la moneta sostitutiva è decisamente più presente. Infatti, benché sia stato affermato che sulle oltre 3000 carte raccolte nel Regesto di Farfa i pagamenti in moneta sostitutiva sarebbero limitati ad alcune decine 81 va sottolineato che questi, in realtà, risolsero i 2l3 dei pagamenti nelle vendite di terra intercorse durante 1'XI secolo. Inoltre, la componente non economica individuata da Wickham in alcune zone della Toscana, gioca un ruolo importante anche in molte stipule farfensi 82 . In conclusione, la scarsissima presenza dei denari d'argento nelle stratigrafıe ne conferma l'elevato potere liberatorio e il loro limitato uso per il commercio minuto. Piuttosto che definire il denaro d'argento come uno strumento adatto a tutti i livelli dello scambio, attribuendogli una improbabile versatilità, è forse più opportuno defınirne il ruolo come strumento di accumolo di ricchezza, pagamento di censi, imposte, penali all'interno di un sistema che, questo sì, era notevolmente elastico. A seconda delle zone e delle necessità, il denaro d'argento poteva infatti essere affiancato da altri strumenti dello scambio: metalli non monetati, moneta aurea, beni in natura a cui possiamo aggiungere per alcune attività quotidiane, il ricorso al credito. ALESSIA ROVELLI
1 Desidero ringraziare Ermanno Arslan, Federico Marazzi, Aldo Settia e Chris Wickham per i loro suggerimenti, Cristina La Rocca e Giusto Traina per le indicazioni bibliografiche Michel Denhin, Fedora Filippi, Oliver Gilkes, Richard Hodges, Luisella Pejrani e Andrea Staffa per avermi forniro con grande gentilezza notizie su materiali ancora inediti. 2 TOUBERT 1983, p.48 3 CIPOLLA 1975, p. 17; ABULAFIA 1983, pp.223-270. 4 Una riconsiderazione di alcuni esperti del problema in ROVELLI 1992, pp.109-144. 5 GRIERSON 1954, pp.65-79. La più aggiornata sintesi SUI sistema monetario carolingio è in GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp.190-266, inoltre si veda SUCRODOLSKI 1987, pp.289-309. 6 GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp.90-97. 7 PIRENNE 1933, p.17 8 DOEHAERD 1982, pp.314-319. SecondoVIOLANTE 1953,pp.45-46,Carlo Magno adottò il monometallismo argenteo spinto anche da ragioni di opportunità politica per cui avrebbe cercato di non urtare la suscettibilità dell'imperatore di Bisanzio che un tempo aveva avuto il monopolio delle coniazioni auree. 9 Un'ampia sintesi del problema, analizzato da molteplici angolature in Econosnia natarale, econosnia snone~aria. 10 DEL TREPPO 1956, pp.31 -110; FUMAGALL! 1976; WICKHAM 1982; TOUBERT 1983, pp.5-63. 11 A titolo d' esempio cfr. il giudizio espresso in DOEHAERD 19822, p. 317: “la nonveauté du système monétaire des Carolingiens consiste dans le fait qu' ils lui ont donné pour base une monnaie de valcur faible”. Opposta, invece, è l'opinione pronunciata da G. Bois durante un suo recente intervento a Spoleto per cui: “Le denier de Charlemagne est encore trop lourd et cher pour etre un instrument commode dans les échanges“. Cfr. Ilsecolo di ferro, p. 678.
12 LOPEZ 1953, pp. 16-19, valuta che la zecca di Pavia producesse, nel X secolo, circa 23.000 denari 1'anno. I calcoli di Lopez sono stati messi in discussione da GRIERSON 1957, pp. 462-466, che peraltro preferisce non fare ipotesi precise, limitandosi a supporre un volume più consistente. Le stime più recenti calcolano che con una coppia di conii si potessero battere da 10.000 a 30.000 monete; cfr. DUMAS 1991, p. 566. 13 GRIERSON 1961, pp. 360-361. 14 GRIERSON 1965, pp. 534-536. 15 METCALF 1967, pp. 344-357. 16 METCALF 1986, P.324. 17 STUMPO 1983, in particolare pp. 523-533. 18 TOUBERT 1983, P.46. 19 BOGNETTI 1959, P.56. LOPEZ 1961, P.81. C[POLLA 1956, P.12. CIPOLLA 1975, P.14. L'opinione avanzata da sognetti, Lopez e Cipolla gode di una consolidata tradizione nella storiografia italiana. CORDERO Dl SAN QUINTINO 1860, analizzando i problemi che genera un sistema monerario privo dei nominali minori (P. 84), riportò l'analogo pensiero di ZANETTI 1789, P.12, che dichiarò di non “porer comprendere come potevano fare que' popoli a provvedersi le cose minute: il che recò non poca maraviglia anche al Muratori come può vedersi nel fine della Dissertazione XXVIII ”; cfr. MURATOR[ 1739, coll. 825-826. 20 Riguardo alla circolazione di queste ultime, rimando al contributo di E. Arslan in questa stessa sede. 21 ARSLAN 1991, pp. 71-130 a coi rimando anche per la bibliografia precedente. 22 ROVELLI 1989, pp. 49-95; SAGUl-PAROL} 1989, pp. 21-47; DELOGU 1989, pp. 97-105; ROVELL£ 1990, pp. 169-194. 23 Tra le oltre 1500 monete recUperate si conta un solo denaro del tipo degli, probabilmente di Benedetto III e Ludovico II (855-858). 24 SERAFINI 1951, pp. 225-244. 25 Si tratta di un denaro di Lotario imperatore (840-855), emesso a Pavia, un denaro di Ludovico II (855-875) dellazeccadi Milano, un denaro di StefanoVI e Carlo il Grosso (885-888), Un denaro di Berengario I e Arnolfo (895-899) emesso a Milano. 26 SACCOCCI 1991, pp. 245-262. Questi piccioli della seconda metà del XII secolo contenevano non più di 0,1 gr. d'argento. Avevano dunque ben poco in comune con i loro antenati carolingi che pesavano g. 1,7 ed erano di un'ottima lega, pari a circa il 95% d'argento (METCALF-NORTHOVER 1989, pp. 101-120). 27 TRAVAINI 1988, pp. 225-229. Sulla circolazione monetaria a Roma e nel Lazio in età tardo antica e altomedievale si veda inoltre SPAGNOLI 1993 e ROVELLI 1993. 28 I recenti scavi, condotti nell' area retrostante Palazzo Madama che hanno messo in luce quella che fu l'asse della via d'uscita orientale della città antica e l'area immediatamente retrostante il castello medievale, hanno evidenziato una stratigrafia senza soluzione di continuità databile tra l'età romana e il XVI-XVII secolo. I reperti numismatici sono costituiti da esemplari di bronzo di età romano-imperiale e da monete di mistura basso-medievali. Lo studio dei materiali è ancora in corso, e mi è stato possibile prenderne visione grazie a F. Filippi della Soprintendenza Archeologica del Piemonte che ha diretto lo scavo; cfr., sullo scavo, FILIPPI 1990, p. 517. 29 Gli scavi hanno interessato la collina di Castello, nel centro storico di Genova, dove vi fu continuità insediativa a partire da un oppidum pre-romano. Tra le monete recuperate, la più antica è un quadrante semionciale databile al 90l88 a. C. Per il periodo medievale, i reperti iniziano con i denari di mistura di I tipo (1139-1339), a nome di Corrado, con cui la zecca di Genova iniziò la propria attività, cfr. BERTIND L.M. 1977, pp. 208-212. 30 Lo scavo di parte delle strutture del convento di Santa Giulia è in corso da anni e il materiale è in via di pubblicazione. Dalle prime informazioni, gentilmente fornite da Gian Pietro Brogiolo, dell'Università di Siena, che ha diretto lo scavo, e da Ermanno Arslan, direttore delle Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche di Milano che ha in studio le monete risulta che il materiaie numismatico è costituito da un primo nucleo di monete che termina con esemplari di bronzo di età gota. Il secondo gruppo inizia con denari databili tra il X e l'XI secolo. Notizie preliminari sullo scavo e bibliografia in PANAzzA-BRoG~oLo 1988. 31 Le monete provenienti dagli scavi nel cortile del Tribunale, nel cortile del Mercato Vecchio e in via Dante, dove è stato possibile seguire i cambiamenti dell'assetto urbano tra il I I sec. a. C. e il XIV, sono ancora in corso di studio, ma da una indagine preliminare risulta che tra la metà del VI fino all'XI secolo la circolazione monetaria è attestata solo da tre esemplari bronzo e di zecche bizantine che non vanno oltre la metà dell'VIII secolo, tra l'XI e il XII secolo ricompaiono invece numerose monete. Sono stati identificati 80 denari veronesi, cfr. ARZONE 1987a, pp. 199-207, riguardo lo scavo cfr. HUDSON 1985, pp. 281-302; LA RoccA-HuDsoN 1986, pp.31 -78. Le monete dello scavo di piazza del Monte dei Pegni hanno invece avuto una precoce pubblicazione rispetto allo scavo e agli altri materiali. Da quest'area provengono 85 monete di bronzo, per la maggior parte databili al IVe al V secolo e un denaro euriciano datato al 1100-1135. Cfr. ARZONE 1987b, pp. 123-135. 32 TONDO 1978, pp. 520-522; TONDO 1985, pp. 472-478; TONDO 1987, pp. 819-823. 33 Le monete recuperate sono 90 e possono essere, a grandi linee, ripartite in tre gruppi diversi per consistenza e cronologia; si contano infatti 6 monete di età romana, 59 esemplari di età medievale e moderna (X-XVII secolo),25 monete comprese tra il XIX e il XX secolo, tutte, ad eccezione di due, post-unitarie. Cfr. ROVELLI C.S.
34 Sullo scavo cfr. FRANCOVICH-MILANESE 1989, pp. 9-288, in particolare p. 35 e 46. Per il catalogo delle monete cfr. ROVELLI 1984, pp. ?75-277 e ROVELJ,[ 19XSb, pp. 415-416. 35 RovELLI 1985, pp. 379-387; ROVEI.LI 1987, pp. 117-119; FINETTI 1991, pp. 130-134. 36 I materiali sono in corso di pubblicazione. R. Hodges, direttore della British School at Rome e O. Gilkes mi hanno gentilmente fornito l'elenco delle monete redatto dal dott. A. Finetti che ringrazio. Non sono noti, invece, i reperri mobili, compresi quelli numismatici, recuperati durante i precedenti scavi condotti da P. Markthaler e, in seguito, da G. Croquison e dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio. Riguardo agli interventi più rècenti cfr. WHITEHOUSE 1984, pp. 245-255 e MCCLENDON 1987 a cui rimando anche per la bibliografia. 37 Sulla scarsissima incidenza della monetazione sia longobarda che carolingia e, viceversa sul sensibile incremento dei rinvenimenti con le monete coniate a nome degli imperatori "euriciani", in Veneto e Friuli si rimanda a SACCOCCI 1986, p. 283; GORINI 1988 pp.l87-200; GORINI 1989, pp. 180-187, SACCOCCI 1989, pp. 303-319, SACCOCCI 1991, pp. 218-213. Per il Trenrino, una veloce rassegna dei rinvenimeuri in GORINI 1986, pp. 237-242. Per la provincia di Cuneo, FEA 1986, pp. 109-129. 38 Oltre ai citati rinvenimenti, sono a conoscenza di pochi altri casi. Una moneta d'argento dell'imperarore Lotario della zecca di Pavia proviene da S. Lorenzo di Caraglio (CN); cfr. FEA 1986, p.120. Un denaro carolingio di autorità incerta è stato rinvenuto aCentallo (CN), nello scavo della chiesa. Il materiale è inedito, devo l'informazione alla cortesia di L. Pejrani della Soprintendenza Archeologica del Piemonte. Brevi notizie sullo scavo in MOLLI BoFFA-PEJRAN[ 1991, pp. 150-151. Un denaro di Carlo Magno, di zecca non precisata, è stato scoperto durante lo scavo presso il muro perimetrale dell'antico battistero, nel comune di Bedizzole, in frazione Pontenove (BS), cfr. PAUTASSO 1987, p. 582. Un denaro di Berengario I (888-915), zecca di Pavia, è venuto alla luce durante gli scavi presso la Torre Civica di Pavia; il materiale è inedito e devo la segnalazione ad E. Arslan. Da Padova si può segnalare un denaro della zecca di Venezia del tipo ~rist~s i~r;per (SACCOCCI 1986, p. 283~. Un denaro di Ludovico il Pio proviene da Aquileia, non sono note le circostanze del rinvenimeuro, cfr. VALE 1936-37, col. 59. InFne, un denaro di Carlo Magno, emesso a Milano tra il 774 e il 781, proviene dagli scavi di Roselle (GR), cfr. CATALL[ 1976-77, PP. 121. Da contesti tombali provengono un denaro di papa Adriano III (884-885), rinvenuto durante gli scavi alla Mola di Monte Gelato (Mazzano Romano, VT), cfr. POTTER 1993, P. 146; un denaro di Carlo Magno del tipo CarrolslRex Fracoram recuperato a Mosciano S. Angelo (TE), cfr. SAVINI 1925, pp. 85-87, e una bella moneta carolina, a Laerru (Ss), cfr. TARAMELLf 1905, pp.111-121. 39 ORLANDONI 1988, p.442. 40 BERTINO A. 1965-1967, pp.171-210; BERTINO A. 1968, pp.158-177; BERTINO A. 19691970, pp.258-291; BERTINO A.1973, coll.837-872; BERTINO A.1977, coll.679-707; BERT[NO A. 1983, pp.265-300. 41 BERTINO A.1983, p.274 e pp.299-300. 42 BERTINO A.1969 l70, p.287 e BERTINO A. 1983, pp.279-282. 43 BERTINO A. 1977, n.252. 44 LAFAURIE 1974, pp.43-56. 45 Catalogo delle monete romane consolari ed imperiali, delle zecche italiane medioez7ali e moderne e delle medaglie componerti la colle~io77e del signor marchese e commendatore A77gel0 A7emedi 1...l. Esposi~iorepal701icailSe6gennaio 1885~...l. Milano, Tipografa Luigi di GiacomoPirola, 1884, citato in BERTfNO A. 1983, p.266, nota 6 e p. 286. 46 WARD PERKINS 1981' pp.91-98; LUSUARDI SfENA 1985, pp.303-311. 47 GAMBARO 1985, pp.29-32. Per i rapporti tra Luni e P entroterra attraverso la via del Monte Bordone, cfr. OPLL 1986, pp.57-58. 48 BERTINO A. 1965-67, pp.171-210. 49 TABACZYNSKI 1977, pp.271-286. 50 FERRERO 1892, p.77. 51 ORLANDONI 1988, pp.435-438. 52 Sul commercio lungo le rotte del Mare del Nord e gN emporta, cfr. HODGES 1982. 53 AMANTE SIMONI 1984, p.901 e p. 918. I1 sito di San Romedio oltre che essere posto a ridosso di un importante itinerario era dotato di una propria specifica attrattiva in virtù del santuario che ospitava. 54 CLARK 1992, p.261, la lettura della moneta è a cura di L. Travaini. 55 Sulla viabilità nel Trentino, cfr. BIERBRADER 1991, pp.121 -174, in particolare pp. 138-140. 56 METCALF 1979, pp.22-24. 57 Lo scavo ha restituito: un denaro di Ludovico II (855-875) e uno di Berengario I imperatore (915-924), entrambi della zecca di Milano. Inoltre un denaro di Ottone I e Ottone II associati (962-967), un denaro di Arduino (1002-1024) e tre denari "euriciani". I materiali sono ancora inediti e devo l'informazione alla gentilezza di Ermanno Arslan. 58 Le campagne di scavo, condotte nel 1978 e nel 1979, hanno portato al recupero di 79 monete, per la maggior parte di età tardo-romana e bizantina. Per il periodo medievale è da sottolineare la presenza di un denaro di Ludovico II (855-875), della zecca di Milano, di tre dénari di Ottone III (973-1002), emessi aMilano e di altri tre di Enrico II (1004-1024) da Lucca. Cfr. ERCOLANI COCCHI 1978, pp. 367-399, sui contesti stratigraf~ci, recentemente riaperti sotto la direzione di SaUro Gelichi, cfr. CuRINAetal.1990, pp.121-234, a cui rimando per la bibliografia precedente. 59 TRAVAoLINI 1992, p. 245, un'analisi preliminare in WHITEHOUSE 1978, pp. 537-541.
60 TRAVAINI 1984, pp. 357-374. La capillare presenza della moneta bronzea bizantina risulta con chiarezza dal censimento dei rinvenimenti in Calabria condotto da GUZZETTA 1986 e, soprattutto, dai dati che E. Arslan mi ha gentilmente fornito anticipandomi i risultati di una sua ricerca tuttora in corso. 61 Sulle serie degli segattas cfr. HILL-METCALF 1984 e GRIERSON-BLACKSURN 1986, pp. 155-189 e pp. 267-325. 62 RIGOLD 1977, pp. 59-80. 63 BLACKBURN 1989 19901, p.10(versione inglese di una comunicazione tenuta nel 1988 a Wloclawek, che Richard Hodges mi ha gentilmente trasmesso, pubblicata in polacco con riassunto in inglese. 64 I dati mi sono stati gentilmente forniti da Michel Denhin, Conser.vatore del Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale di Parigi, che ha in corso lo studio dei reperti numismatici. Questi ultimi dati risultano leggermente discordanti rispetto a quelli anticipati da DUMAS 1991, P. 585 che riferisce di 3 esemplari per il IX secolo, 20 per il X e 22 per il successivo. 65 GRIERsoN-BLAcKsuRN 1986, p. 206. 66 TOUBERT 1983, p. 54. 67 GRIERsoN-BLACKSURN 1986, pp. 194 e 250; MuRARf 1958, pp. 37-44. In ultimo, con particolare riferimento al caso di Verona, SACCOCC[ 1991, p. 248. 68 TOUBERT 1973a, pp. 584-601; TOUBERT 1973b, pp. 180-189. 69 Per quanto riguarda le monete emesse a partire dal XII secolo, invece, si nota che anche il materiale proveniente degli scavi riflette con precisione i meccanismi della "legge di Gresbam". Come si è visto, tra le monete recuperate durante gli scavi della Confessione di San Pietro al Vaticano prevalgono quelle di Venezia, cioè quelle dall'intrinseco peggiore. 70 BOGNETTI 1959, PP. 51-60. 71 METALLT 1903, P. 75. 72 CLANCHY 1979, PP. 95-97. 73 RICCI 1990,-P. 300. Sul rinvenimento di salvadanai si veda inoltre SUTT NA 1906, PP. 135-136; ROVINA 1985, PP. 244-245. 74 KOTEL NIKOVA 1983, PP. 93-112. 75 CRAWFORD 1970, PP. 40-48; una revisione in Lo CASCIO 1981, PP. 76-86; la struttura amministrativa della monetazione tardoromana e i problemi connessi all'emissione e all'uso della moneta sono stati oggetto di numerosi studi da parte di Michael Hendy raccolti in HENDY 1989. 76, CIPOLLA 1961, P. 623. 77 ROVELLJ 1992, PP. 133-137 e ROVELLI 1993, PP. 343-344. 78 V OLANTE 1953, PP. 123-137. 79JARNUT 1981, PP. 254-259. 80 WICKHAM 1987, PP 355-377 81 TOUBERT 1973, 1, pp. 603-604. 82 ROVELLI 1993, pp. 338-349.
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Discussione Creo haber sido invitada a participar en la mesa redonda sobre Producion e Scambi por un doble motivo: de un lado, mi condición de arqucóloga que ha trabajado precisamente sobre las cerámicas altomedievales, atendiendo tanto a su producción como a sus distintos niveles de intercambio local, regional o a larga distancia, con la intención de convertirlas en indicadores de la evolución del poblamiento e insertando su estudio en una perspectiva económica y social que, como ha senalado H. Patterson con anterioridad, es la única "productiva". De otro lado, por el hecho de trabajar habitualmente en un pais con una problemática próxima pero a la vez diversa, Espana; cercano en tanto que participa de la misma descomposición de un sistema pol~tico y económico en la tardoantiguedad - el Imperio Romano -, pero diverso porque la experiencia pohtica del Reino visigodo de Toledo se ve afectada en su desarrollo por la llegada de los musulmanes a principios del siglo VIII, con la subsiguiente islamización social y cultural de la Penfusula Ibérica, que a partir de ahora será conocida como al-Ardalas. Desde este punto de vista, creo que se espera de m~ que ponga en relación ambas realidades. En este bloque temático se han tratado varios aspectos: la producción y distribución de una mercancia concreta de especial valor cronológico, como es la cerámica, en la Italia central; la producción en sentido estricto de recursos primarios y la organización de los procesos de trabajo; la organización de los espacios de hábitat en su sentido más elemental, la edilicia, o la circulación del elemento principal de intercambio, la moneda. Todos han aportado argomentos de discusión signif cativos, pero me centraré especialmente en aquel trabajo que está más próximo a mi ámbito personal de estudio: la aportación de P. Arthur y H. Patterson. La sfutesis de la situación productiva de la Italia central altomedioval ha si do excelente y pl antea interesantes sugere ncias. En pri mer lugar, el panorama esbozado evidencia, al igual que ocurre en Espana, qUe el estudio de la cerámica altomedieval sólo puede abordarse desde una perspectiva regional y que su propia diversidad es fruto de la crisis de un sistema de intercambios complejo vinculado al mundo romano. Cuando dejan de llegar las manufacturas que participan en sistemas de producción a gran escala, como las ánforas o la terra sigillata, y dejan de producirse las manufacturas locales que aon se caracterizan por un alto nivel técnico, solo sobreviven aquellas otras de carácter local o regional, que se caracterizan por niveles tecnológicos más elementales y que están mejor adaptadas a las necesidades de un mercado menos exigente pero más estable. Me parece fundamental, en el marco de este debate, la elaboración de modelos sociocconómicos que expliquen de forma desigual las transformaciones produc:tivas del paso de la economia tardoantigua al medievo; en este sentido es muy signifcativa la apreciación de las diferencias entre lo.s ámbitos urbanos y los rurales, puesto que la descomposición de los mercados urbanos y su diversa capacidad de intervención en el entorno rural incidc enormente en el comportamiento desigual de las diversas áreas, como ha sido explicado en el caso de la Italia central. No obstante, este análisis en confrontación con la situación espafiola, suscita una segonda cuestión: el problema de la supervivencia de producciones de carácter doméstico, tecnología elemental (modelado manual o con tornos lentos, pastas bastas, sistemas de cocción en área abierta con bajas temperaturas), distribución local o regional y consumo adecuado a una demanda poco diversificada, con pocas variantes formales. Producciones de estas caracrerísticas procedentes de Sicila han sido mostradas esta manama por A. Molinari y J. M. Pesez, si bien en contextos cronológicos más tardíos que los espanoles, pero están escasamente representados en la Italia centromeridional. Esta ausencia es doblemente signifıcativa puesto que producciones de estas características, como las de Pantelleria, existen ya en contextos romanos, susceptibles incluso de una amplia comercialización. En tal caso parece lógico suponer su continuidad en contextos tardorromanos, como por otro lado es frecoente en diversos lugares del Mediterráneo occidental; de hecho, el incremento de estas producciones implica evidentes transformaciones en los sistemas productivos, pero no debe interpretarse únicamente en clave "peyorativa". Creo que responde, en realidad, a una estrategia productiva diferente; una solución tecnológica "inteligente" yadecuada a un sistema
"descomercializado", utilizado las palabras de la propia H. Patterson. Por el contrario, no ocurre así en el área italiana estUdiada, donde estas producciones brillan por su ausencia; ante tal paradoja cabe preguntarse si dicha ausencia no se deberá a un problema de registro, puesto que materiales similares han sido puestos en evidencia por P. Arthur en Capua. No obstante, también es cierto que su escasez respecto a otras áreas es innegable, lo que quizá se pueda explicar precisamente por la mayor pèr~manencia de importantes núcleos urbanos, como Roma o Nápoles, y de centros rurales estructurados, capaces de mantener y organizar sistemas de mercado relativamente complejos. SONIA GUTIERREZ LLORET Il mio intervento verterà su un aspetto messo in luce dalla relazione di Ermanno Arslan. La circolazione della moneta ostrogota di bronzo, come ha puntualmente evidenziato il relatore, sta ricevendo una nuova configurazione negli ultimi anni, sulla base delle recenti indagini di scavo. Sembra particolarmente signifıcativa l'attestazione di bronzi goti in siti come quello di Monte Barro o di Poggio Castagnoli di Stia, che permettono all'Arslan di parlare di coniazioni castrensi (cfr. E.A. ARSLAN, Scavi di Morte Barro. Morete, Archeologia Medievale, XV (1988) p. 232). In effetti, tale abbondanza di ritrovamenti contrasta ampiamente con il quadro che si sta delineando, ad esempio, negli scavi più recenti all'interno della cinta urbana di Roma, città che subì lunghi anni di dominazione gotica. Dall'analisi condotta da Rovelli (A. ROVELLI, La Crypta Balbi. I reperti numismatici. Appunti sulla circolazione a Roma nel Medioevo, in La moneta rei cortestiarcheologici. Esempidagliscavidi Roma, Roma 1989, pp. 49-95) e da quella da me portata avanti sui rinvenimenti monetali della Porticus Liviae (M.C. MOLINARJ, I rinvenimerti moretali della Porticus Liviae, in La Porticas Liviae sal colle Oppio a Roma, a cura di C. Panella, in corso di pubblicazione) o di via del Foro romano, soltanto i nummi di Atalarico risultano frequentemente attestati, mentre gli unici esemplari di valore superiore sono due pezzi di I secolo contromarcati (R. REECE, A collectior of coins from the certre of Rome, PBSR, 50 (1982), p. 126 e ROVELLI, La Crypta, cit., p. 58 n. 78), qualora si voglia attribuire la contromarca agli ostrogoti (P. GRIERSON, Medieval European Coinage, I, Cambridge 1986, pp.28-31). Infatti tali monete sono state rinvenute in numero considerevole in Italia e, agli esemplari catalogati dal Grierson, vanno aggiunti altri quattro bronzi di Claudio e Vespasiano che sono conservati nel Medagliere Capitolino e che presentano il marchio di valore XLII. Arslan ritiene, invece, concordemente con quanto affermato da Morrisson che le contromarche siano da attribuire ad area africana per la stretta analogia esistente con il sistema monetario vandalico, che è l'unico a prevedere la coniazione di questi nominali. Nel tentativo di ricostruzione della circolazione monetale di Roma, la lacuna determinata dalle emissioni gote assume un ruolo rilevante nel caso dello scavo di via del Foro romano, ove sono state rinvenuti, in due contesti differenti, una "borsa" di monete databili dal II al VI secolo e un ripostiglio che si chiude nell'VIII secolo (cfr. G. MAETZKE, La struttura stratigrafica dell'area nordoccidertale del Foro romano come appare dai recerti interventi di scavo, Archeologia Medievale, XVIII, (1991), p. 86 nota 42 e p. 85 nota 39). Entrambi i ritrovamenti presentano un cospicuo numero di monete più antiche rispetto alla datazione dei contesti stratigrafıci. Tali monete non debbono, a mio avviso, essere considerate "residuali", bensì ancora in circolazione nei secoli successivi alla loro coniazione (cfr. M.C. MOLINARI, Le monete della Meta, Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica”, 39 (1992), nota 67, (in corso di stampa). Più difficile sembra essere l’identificazione del valore nominale che nel VI-VII secolo si attribuiva a questi pezzi, identificazione che risulta complessa anche nel caso dei cosiddetti "minimi", uniche emissioni bizantine che risultano non essere marcate. Si tratterebbe, dunque, di una circolazione di materiale estremamente variegato, di IV secolo, talvolta tosati, di nummi di V secolo con notevole oscillazione ponderale, ovvero di monete che continuavano ad avere una lunga "sopravvivenza".
Alla luce di quanto esposto, appare non comprensibile l'esiguità quantitativa della moneta ostrogota, né sembra convincente l'ipotesi avanzata da Arslan in questa sede, di un ritiro delle emissioni ostrogote, operate dai bizantini in seguito alla loro riconquista dell'Italia. Non bisogna, infatti, dimenticare che nella Costitutio Pragmatica di Giustiniano del 554 (Giustiniano, Appendix Costitutionum, VII, 1 e 5 ed. C.G. KROLL) furono mantenuti i provvedimenti assunti nella precedente dominazione, ad eccezione di quelli adottati da Totila. Se dunque si fosse verifıcata una damnatio memoriae per la monetazione a nome di Baduela, sembra inspiegabile l'assenza di coniazioni a Roma degli altri re goti, là dove era consentita la circolazione di materiale di molti secoli prima. In conclusione sembra forse necessario, allo stato attuale delle indagini, utilizzare una maggiore cautela, pur rilevando l'importanza dell'intervento di E. Arslan al fine di una ricostruzione della circolazione di moneta enea ostrogota in Italia. MARIA CRISTINA MOLINARI
“Castrum del potius civitas”. Modelli di declino urbano in Italia settentrionale durante l'alto medioevo
1. I centri abbandonati e le differenze regionali Tema di questo lavoro sono i diversi aspetti che permettono di delineare la soluzione di continuità insediativa e istituzionale urbana nell'Italia settentrionale tra tarda antichità e altomedioevo: un fenomeno che si manifestò sia nella scomparsa di molti centri di origine romana, sia nella formazione di nuove città. Nell'alto medioevo vi furono infatti municipia che persero la loro qualifica istituzionale, 'centri minori' che aspirarono a diventare città, infine centri urbani fondati ex novo come centri di raccordo politico dell'insediamento sparso. Il tema è recentemente stato ridiscusso in una prospettiva complessiva, proponendo che l'abbandono delle città dell'Italia settentrionale sia da inquadrare in un contesto complessivo di crisi urbana, aggravato dalla migrazione longobarda. Tale trend negativo sarebbe stato accentuato, per le attuali regioni del Piemonte e del Veneto, dalla posizione geografica confinale dei due territori. Qui il numero particolarmente cospicuo di città abbandonate sarebbe direttamente imputabile all'effetto destabilizzante della continua frizione tra le terre rimaste possesso imperiale e quelle occupate dalla popolazione germanica. Questa interpretazione suppone allora che gli abbandoni delle città romane si siano, se non iniziati, certo incrementati e accelerati durante l'età longobarda: il Veneto e il Piemonte, in particolare, sono assimilati per la rilevanza quantitativa degli abbandoni, sia per la cronologia e la qualità dei fallimenti urbani 1. Il primo punto è inconfutabile: il Piemonte e il Veneto sono infatti le regioni italiane ove tale fenomeno si verificò in modo numericamente più significativo. Maggiore attenzione deve essere invece prestata ai modi e ai tempi in cui i fallimenti urbani si manifestarono e alle cause che li provocarono. In altri termini, se l'esito del processo fu indubbiamente una netta modificazione dell'assetto territoriale altomedievale rispetto a quello precedente, diversi appaiono i tempi e le modalità del percorso compiuto, nelle due regioni, per giungere a tale risultato. Vediamo anzitutto le principali differenze qualitative, che è possibile cogliere anche attraverso la diversa tradizione elaborata in ambito locale per spiegare tale cambiamento. Diversi, nelle due regioni sin dallo stesso periodo altomedievale, furono infatti considerati i responsabili diretti degli abbandoni e altrettanto diverse furono le vicende tradizionali che vennero a scandire le fasi salienti del passato storico nelle due regioni. In Veneto, sin da Paolino di Aquileia, il mito delle distruzioni e della rinascita si articolò nelle sue linee fondamentali con un colpevole illustre (Attila); una vittima altrettanto celebre (Aquileia), città morta per eccellenza; una modalità di salvezza per gli abitanti (la fuga di massa nella laguna); e un lieto fine (la nascita di Venezia) 2. Niente di simile fu invece elaborato nella regione subalpina durante il medioevo. durante l'XI secolo ci si limitò a imitare la tradizione veneta e a 'importare' I'intervento di Attila, ormai ritenuto la prova più palmare della condizione di 'città morta' di un antico centro 3. Soltanto nella ricerca ottocentesca le colpe attilane vennero spartite con i Saraceni, a cui furono attribuiti gli abbandoni di tutte le antiche città situate nell'odierna provincia di Cuneo 4. In Piemonte, durante l'alto medioevo, non si costruì una linea interpretativa volta a motivare il cambiamento numerico delle città: il che di per sé appare denunciare l'età remota in cui tali abbandoni si erano effettivamente verificati. Diversi sono poi, allo stato attuale della ricerca archeologica, i dati a disposizione. In Piemonte vi è stata, negli anni recenti, una consistente ripresa degli scavi nei siti abbandonati, e la revisione cronologica dei dati ottocenteschi è stata effettuata attraverso indagini stratigrafiche e attraverso un interesse più marcato alla fase altomedievale dei siti stessi. La relativa mancanza di spiegazioni tradizionali per gli abbandoni stessi ha inoltre spinto gli archeologi a derivare le loro datazioni direttamente dai dati stratigrafici.
In Veneto invece, I'archeologia medievale ha una tradizione ancor più recente che nel resto dell'Italia settentrionale. L'interesse prevalente ha privilegiato la ricerca su temi per così dire tradizionali (la ricerca sulle testimonianze religiose), oppure si esprime attraverso una vastissima quanto sporadica e frammentaria ricerca locale. Gli scavi archeologici attualmente intrapresi in ambito cittadino sono recenti e pressoché tutti in fase di rapporto preliminare: ma essi risultano altamente influenzati, nell'interpretazione e nella scansione cronologica, dall'impostazione ideologica delle fonti sulle origini di Venezia, derivando da esse, con un procedimento circolare, le informazioni datanti, che sono poi riferite alle strutture rinvenute. Dati documentari e dati archeologici ricevono così reciproca conferma 5. Le fonti sulle origini di Venezia, che per analogia vennero estese durante il medioevo alle città della terraferma~, possopo invece essere utilizzate solo con grandissima cautela per derivare appigli cronologici per datare le: strutture scavate. Esse si confıgurano infatti come costruzione progressiva e coe`rente volta a spiegare secondo un modolo fisso la storia del passato, e non come testimonianza indiscutibile di fatti realmente avvenuti 7. La costruzione dell'interpretazione archeologica in Veneto e in Piemonte si avvale dunque di parametri storiografici non paragonabili tra loro. 2. Città scomparse, citta nuove, “quasi città” Fare storia del Veneto, si sa, vuol dire parlare di una bipartizione, viva non solo nella tradizione di studi volta per molto tempo a celebrare Venezia e a ignorare parallelamente la specifica evoluzione della terraferma, ma operante di fatto nei secoli che qui si considerano: I'area lagunare - la Venetia- in mano ai bizantini, e l'entroterra, I'Austria, conquistata dai Longobardi. In Piemonte invece l'intero territorio venne uniformemente occupato con la prima ondata di invasioni longobarde. Occorre chiedersi se la tenuta delle città in queste due aree si sia differenziata in rapporto alla dominazione politica e se sia possibile osservare una divisione effettiva delle dinamiche territoriali tra Longobardia e Romania, come si tende attualmente a proporrea. È questo l'aspetto che esaminiamo per primo. Anzitutto alcuni dati di comparazione, che permettano di valutare dall'inizio il fenomeno degli abbandoni urbani: nell'odierno Piemonte meridionale, su 14 città testimoniate da Plinio in età augustea, soltanto 4 furono sedi vescovili, 5 persero il loro nome durante 1'altomedioevo, in 5 casi il toponimo originario identificava nell'altomedioevo semplici loci. Durante l'altomedioevo non si creò alcuna nuova sede vescovile,. In Veneto invece, su 12 città documentate come tali in età romana, soltanto Este non fu sede vescovile, nessun centro cambiò nome, 4 centri risultano inoltre privati dalla dignità vescovile stessa (Oderzo, Adria, Aquileia, Concordia), ma essi furono sostituiti e ampliati di numero nel corso dello scisma aquileiese. Dal patriarcato di Grado (610) dipendevano infatti i vescovi filopapali di Jesolo, Olivolo, Parenzo, Pola, Torcello, Caorle, Chioggia, Eraclea; mentre da quello cividalese, erede di Aquileia e scismatico, dipendevano Mantova, Padova, Treviso, Trento, Verona, Vicenza, Altino, Asolo, Belluno, Ceneda, Como, Concordia e Feltre. Vale la pena di notare che tutte le sedi vescovili dipendenti da Grado non sono municipia di età romana, mentre tra quelli scismatici solo Ceneda, peraltro di datazione controversa, è centro nuovo. Il rapporto tra fallimenti e persistenze, se non altro dal punto di vista istituzionale, è a vantaggio dell'area longobarda: ove la sola Opiteium fallì, contro ai 5 fallimenti urbani di area adriatica (Este, Altino, Adria, Aquileia, Concordia). Sin da questi dati possiamo intravedere una sostanziale diversità del carattere della'tenuta' urbana nelle due regioni, che sembra essere avvenuto attraverso parametri diversi da quelli attualmente prospettati: in Piemonte il fallimento urbano fu veramente tale, poiché non scatenò-alcuna dinamica di sostituzione (neppure istituzionale) dei centri scomparsi. In Veneto, e in particolare nell'area controllata politicamente da Bisanzio, invece si può più appropriatamente parlare di trasferimento di almeno una funzione urbana (quella vescovile) da alcune città romane a centri emergenti o di nuova fondazione. Vediamo allora attraverso quali fonti è possibile identificare i parametri che durante l'alto medioevo venivano utilizzati per evidenziare la decadenza o lo sviluppo di un centro, poiché entrambi non possono essere limitati a delineare la scomparsa fisica delle strutture materiali delle città, oppure la
costruzione di strutture nuove. È noto che gli abbandoni delle città sono stati a lungo spiegati in modo piuttosto automatico chiamando in causa avvenimenti risolutori, quali le catastrofi naturali oppure singoli episodi bellici. Il carattere specifico del fallimento di un centro urbano sta invece anzitutto nell'interruzione delle funzioni di una città in rapporto al territorio circostante e nella tendenza, da parte degli abitanti, a ricreare altrove nuovi equilibri. Il fallimento di una città è precedente all'abbandono materiale dei suoi edifici, è anzitutto il fallimento di Dn rapporto amministrativo, economico, religioso tra la città stessa e il territorio D. Allo stesso rnodo, I'emergere di un centro nuovo risulta preparato e anticipato anche dalla costruzione di edifici nuovi, ma questo elemento assume un valore defınitivo solo quando tali iniziative trovano una ufficiale conferma politica di status urbano. È perciò particolarmente stimolante la prospettiva di analisi recentemente proposta sulle modalità di affermazione politica delle “quasi città”: centri che dirnostrarono una spiccata tendenza ad assumere caratteristiche urbane, senza che nel vocabolario coevo si riuscisse a identificare una forma espressiva pienamente adatta a definire la loro identità. Essi apparivano fisicamente come vere e proprie città pur senza avere alle spalle una tradizione urbana di rilevanza politica e di prestigio sociale dei loro abitanti~~. L'esame del vocabolario utilizzato nelle fonti scritte dell'VIII secolo offre l'occasio`ne di valutare il significato dei termini insediativi e quale rapporto con la città essi tendano a esprimere, cioe se sia possibile rintracciare, anche in quest’epoca e attraverso quali coordinate, delle linee di aspirazione verso la città oppure dei parametri che identificassero con chiarezza il fallimento di città già esistenti. Anzitutto l'alto medioevo appare come epoca di catalisi dei processi già in atto nel periodo precedente, una sorta di banco di prova in cui le situazioni di crisi sembrano trovare uno sbocco definitivo. È anche vero che tale caratteristica appare più netta per la cesura cronologica delle fonti: con l'VIII secolo e la ripresa della docurnentazione scritta, alcuni abbandoni appaiono già compiuti definitivamente, senza che vi sia la possibilità di sfumare adeguatamente le tappe e i modi di un cambiarnento che è da supporsi lento e non traumatico. Proprio per queste caratteristiche appare opportuno considerare l'VIII secolo come punto di arrivo di un processo di progressivo mutamento in due opposte direzioni: indice di dinamismo verso il basso per quei centri cittadini attestati come civitates in età tardoantica, che nell'altomedioevo risultano privati di tale dignità; verso l'alto per gli abitati che, attestati come castra oppure villae, denunciano in vario modo aspirazioni cittadine. Occorre poi, come si è poc'anzi accennato, specificare un ulteriore elemento di rapporto tra fonti scritte e fonti materiali nella valutazione delle fasi di transizione del fallimento, oppure della promozione cittadina. son sempre la decadenza o la promozione di status di un centro ebbero necessariamente riflessi materiali e si concretizzarono in abbandoni repentini o in crescite subitanee: i dati materiali appaiono a volte relitti di una condizione giuridica già superata, a volte anticipatori di un riconoscimento a venire. “Quasi città” sia come punto di arrivo sia come punto di partenza della vita di un insediamento: entrambi casi che presuppongono uno specifico e ben definito status di città a cui tendere o che risulta ormai venuto meno. Vediamo allora quali oscillazioni semantiche vengono a essere attribuite nell'Historia Langobardorum per indicare le diverse condizioni dei centri urbani, iniziando dai centri falliti. Le città decadute sono identificate da Paolo Diacono attraverso tre espressioni distinte, di cui soltanto la prima sembra indicare senza dubbio la decadenza insediativa; al secondo gruppo si riferiscono episodi bellici che si rivelano con effetti di lunga durata soltanto qualora tale avvenimento segni in qualche modo la sorte irreversibile di abitati già in crisi per motivi cliversi ed esterni al singolo fatto militare stesso; infine vi sono distruzioni ad solum usque, volte a squalificare un centro dalla propria dignità di civitas, il che, naturalmente, non implica necessariamente alcuna conseguenza diretta sulla sopravvivenza materiale dell'insediamento stesso. Al primo caso di riferiscono le città vetastate consarpue, oppure antiquitatis consamptue, o semplicemente veteres. I centri veneti designati con questi attributi, sono Adria e Aquileia. La consunzione per antichità, cioè la morte per vecchiaia che viene attribuita a queste città, secondo un modello culturale di età tardoantica che vedeva la vita delle città simile a quella umana, è da
intendersi come la constatazione della fine dell'esistenza degli antichi centri, avvenuta e compiuta al tempo di Paolo, che non è messa in alcun rapporto con avvenimenti bellici o con azioni dirette da parte dei Longobardi. Nel caso della morte di Aquileia, semmai essa fornisce un'ulteriore giustificazione all'accrescimento di Cividale, che “nuova” sostituisce un centro ormai decrepito~z. La seconda espressione, oggetto di interpretazioni a posteriori come segno di rovina, indica invece singoli avvenimenti bellici che Paolo stesso giudica non aver avuto effetti determinanti sulla sopravvivenza e sulla consistenza materiale delle città. I verbi usati sono in prevalenza invado e i suoi composti, e hanno oggetto indifferentemente centri tuttora esistenti e altri scomparsi. Soltanto nel caso di Foram Popilii l'invasione è direttamente connessa alla fine dell'abitato ut usque hodie paucissimi in ea commaneant habitatores: ma si tratta evidentemente della spiegazione semplicistica delle cause di spopolamento più recente, ma ugualmente irreversibile, ancora in atto nel momento in cui Paolo scrive e che serve oltretutto a giustificare l'efficacia dell'odio del re Grimoaldo contro i Bizantini 13. Vi è infine una serie di d~istruzioni “ad solum usque” che sono riservate non ad azioni di conquista diretta, bensì di rappresaglia punitiva. Per i centri colpiti e puniti (Brescello, Padova, Cremona, Mantova e Oderzo) la distruzione è strettamente connessa con l'abbattimento delle mura cittadine, vale a dire con un'azione simbolica volta a privarli delle mura, cioè della loro dignità di città 14. Questo intento è infatti esplicitamente dichiarato nella cronaca dello Pscudo Fredegario, che, descrivendo la conquista della Liguria da parte di llotari afferma che il re distrusse “muros civitatobus supscriptis usque ad fundamento” e ordinò che esse, da quel momento, venissero chiamate vici, cioè villaggi 15. Anche in Agnello Ravennate (inizio IX secolo), negli immaginari accordi pattuiti tra Attila e il vescovo Giovanni, nonostante la promessa di Attila di non devastare la città, se ne stabilisce una conquista almeno simbolica: i tavennati avrebbero dovuto aprire una breccia nelle mura e porre al suolo le porte delle loro case, così da simulare la presa di possesso della città da parte del re, salvandone così l'onore di guerriero 16. A queste azioni punitive non occorre necessariamente attribuire effetti immediati sull'entità del popolamento. Esse si esercitarono di fatto su due tipi di città: da un lato centri quali Oderzo e Brescello, per cui i dati archeologici testimoniano, a partire dal IV secolo, un accentuato livello di abbandono delle strutture pubbliche della basilica e del foro 17. Per Padova, Cremona e Mantova la perdita temporanea di un ruolo istituzionale non sembra aver nuociuto né all'entità dell'insediamento né alla perdita di identità urbana nel lungo periodo 18. 3. I resti archeologici delle città fallite Se si esamina il carattere delle testimonianze archeologiche relative al periodo di abbandono delle città “ vetustate consumptae ” si vedranno due categorie essenziali, distinte anche cronologicamente. Alla prima appartengono Altino, Este, Adria: città di origine paleoveneta, che vennero inserite nell'amministrazione romana ma che denunciarono, già nel corso del I e II secolo dell'Impero forti difficoltà a mantenere la propria funzione di centro commerciale e amministrativo, grazie al parallelo ingrandirsi di Aquileia e Ravenna, le quali oltre ad attirare su di sè i commerci divennero anche il punto di riferimento più prestigioso per il patronage pubblico e privato 19. Il sovradimensionamento di Aquileia tra III e V secolo, esplicitato nella formazione di un territorio molto ampio, mise in crisi l'efficienza delle altre: ne derivò una distribuzione sbilanciata, nell'area adriatica, che si manifesta anche nel numero esiguo di sedi vescovili tra IV e V secolo 20. Nel Piemonte meridionale, invece, la romanizzazione venne condotta con un numero di città in esubero rispetto all'effettiva consistenza del popolamento, e il fallimento sembra da imputarsi all'esaurirsi dall'interno dei rapporti con le attività del territorio circostante. Vale la pena di notare che finora in quest'area non è stata rinvenuta se non una necropoli di età longobarda, indicando la scarsa attrazione che queste zone esercitarono per il popolamento fino alla fine del X secolo. Dei quattro municipia del Piemonte meridionale (Pollentia, Augusta Bagiennorum, Pedona e Alha) soltanto quest'ultimo, pur denunciando anch'esso una notevole contrazione dell'abitato che si riflette anche
nella totale discrepanza tra il reticolato viario medievale e quello romano, fu sede vescovile. Gli altri luoghi persero invece in due casi anche il nome originario: la romanizzazione del Piemonte si caratterizzò per un numero di città in eccesso rispetto all'effettiva consistenza del popolamento. I recenti dati archeologici testimoniano che il fallimento di queste città era già compiuto all'inizio del III secolo d.C. In Lombardia invece, ove le ricerche archeologiche condotte in città 'vincenti' (Brescia e Milano) hanno evidenziato il carattere di generale impoverimento della qualità materiale della vita delle città durante l'età longobarda, la tenuta dei centri sede di municipi?'m in età classica è pressoché totale. L'impoverimento della cultura materiale non sembra allora dover necessariamente implicare anche sconvolgimenti all'assetto territoriale antico, e il ruolo decisivo dell'invasione longobarda nell'accelerare la decadenza di status delle città antiche. Al contrario del Piemonte, in Veneto centri nuovi presero (o almeno aspirarono a prendere) il posto e la funzione di quelli antichi: la stessa accentuata mobilità delle diocesi, specie nell'area lagunare, è segno inequivocabile di una realtà territoriale complessa, che palesò un' attiva dinamica di sostituzione e di alternativa ai centri decaduti, manifestando la necessità di città o di centri di raccordo con il territorio. Essi si caratterizzarono come sede di un'autorità politica e religiosa di tipo pubblico. Il Veneto cioè fu un'area ove il modello urbano di età classica non ebbe successo pieno in età tardoantica, senza per questo voler dire che andò in crisi il modello cittadino in quanto tale: anzi il modello cittadino fu l'unico a essere ritenuto operante e attivo nel rapporto con il territorio. È sintomatico che nell'area bizantina il controllo del territorio in seguito allo scisma aquileiese venisse effettuato attraverso un parametro cittadino: dotando dell'attributo di sede vescovile (cioè di una qualifica potenzialmente urbana) un alto numero di località che ne erano prive. L'aspetto archeologico più indagato, quello della strutturazione degli edifici di culto, recentemente oggetto di un lavoro di sintesi complessiva 21, testimonia allora non tanto l'effettiva condizione urbana dei centri promossi a sedi vescovili, quanto il tentativo di fornire nuovi capisaldi istituzionali a un territorio abitato in modo discontinuo. Spesso infatti, a fronte di resti ecclesiastici che denunciano buona fattura, non si sono finora ritrovati segni di abitati, qualificabili come propriamente urbani: ne sia un esempio il caso di Concordia, dove la cattedrale paleocristiana, circondata da un'ampia necropoli, e con un pavimento musivo recante i nomi dei donatori, non ha altro riscontro abitativo se non indizi di attività industriale sulle rovine del teatro 22. Oppure di Eraclea (luogo fondato ex novo), dove le recenti indagini archeologiche hanno potuto riscontrare, invece del supposto sinecismo urbano, il progressivo restringimento sulle sommità dei dossi fluviali di un haZiitat sparso 23. Il tentativo effettuato in area bizantina sembra pertanto essere consistito in una ridistribuzione delle funzioni pubbliche e religiose in un arco territorialmente più ampio, in una sorta di "gara di città" a cui lo scisma tricapitolino 24 contribuì a fornire anche una forte valenza di separazione e competizione religiosa. Il mito delle fughe precipitose degli abitanti delle antiche città nelle nuove sedi lagunari potrebbe allora solo celare lo spostamento territoriale della sede religiosa: la fuga degli abitanti di fronte ad Attila non sembra rappresentare altro che la fuga ideale é rnateriale dall'eresia verso nuove sedi cattoliche 25. Senza voler per questo trarre conclusioni premature, le sedi vescovili in area lagunare testimoniano allora l'aspirazione a dotare nuovi centri di un attributo cittadino: un attributo che da solo non risulta invece sufficiente, nell'area longobarda, a qualificare un centro come civitas. Ce lo dice lo stesso Paolo Diacono attraverso la vicenda di Cividale, scandita nelle fasi che le permisero di diventare una vera e propria città. L'alternanza tra castrum è civitas, che Paolo adotta per qualificare Cividale nasce dalla contraddizione tra la rilevanza del luogo al tempo in cui Paolo scrive, e quella che lo stesso Paolo le attribuisce alla fine del VI secolo. Descrivendo l'entrata di Alboino in Italia, Paolo afferma infatti che egli conquistò anzitutto “civitatis vel potius castri Foroiulani terminos” e che qui lo stesso re creò la prima sede ducale 26. Da questa premessa deriva la successiva promozione di Cividale a città, immediatamente evidenziata da Paolo: se anticamente la principale città della Venetia era Aquileia, nell'VIII secolo essa è stata sostituita da Foram Iulii, che non ha nulla da invidiare alla prima in quanto a dignità e antichità di origini. Sebbene non centro di diocesi Cividale può legittimamente aspirare a essere considerata città perché anch'essa di origine romana: infatti,
spiega Paolo, il toponimo deriva dal fatto che “Iullus Caesar negotiationis forum ibi statuerat” 27. Tale giustificazione è necessaria come rivendicazione di un antico ruolo municipale: solo nel VI secolo Cividale assume nuova rilevanza politica in alternativa ad Aquileia, pur non essendo sede vescovile. All'ingresso di Alboino, Cividale non può dunque essere definita civitas bensì castrum: gli avvenimenti successivi contribuiranno invece a trasformarla in una città a pieno titolo. Nel senso di una crescente promozione del luogo andranno quindi intese le ambiguità semantiche che nella Historia sono riservate alla sola Cividale. Essa, come una città, venne anzitutto dotata di una cinta muraria: secondo Paolo essa fu costruita da Romilda e dai Longobardi che erano riusciti a sfuggire all'assalto degli Avari 28. La fortuna insediativa e funzionale di Cividale si esplicò poi dal punto di vista sociale. Se i castra, secondo la definizione isidoriana, non hanno nulla della dignità cittadina essendo soltanto “vulgaris hominum conventus”, a Cividale vi era invece la residenza del duca Agone “de cuius nomine husque hodie domus quaedam intra Foroiuli constituta”. A Cividale aveva poi trasferito la sua residenza Fidenzio, vescovo “de castro Iuliensi”, scatenando la gelosia del patriarca aquileiese Callisto, che nel frattempo era costretto a risiedere nel castrum di Cormons 29. Abbiamo, in questo episodio tre centri denominati castram, che si differenziano nettamente tra loro, sia per origini, sia per composizione sociale e quindi per prestigio: due centri di nuova formazione, Cormons e Cividale, e un antico municipium declassato, Zuglio. Ma soltanto Cividale appariva al patriarca Callisto “qui erat nobilitate conspicuus” degna del suo prestigio: qui avrebbe potuto abitare “cum duce et Langobardis”. A Cormons invece la sua autorità risultava del tutto sminuita dall'esser costretto a condurre la propria esistenza “tantum volgo sociatus”. Il maggior prestigio sociale di Cividale era evidententemente lo stesso motivo che aveva spinto il vescovo di Zuglio ad abbandonare il municipiam in declino (come attesta l'appellativo di castrum) in cui la propria diocesi aveva originariamente sede, e a trasferirsi a Cividale. In area longobarda un vescovo non è quindi sufficiente, da solo, a conferire dignità di città a un àbitato, ma è la alta stratificazione sociale di un luogo che conferisce dignità al vescovo e che contribuisce a candidare il luogo stesso ad apparire propriamente una città. Residenza di ceti egemoni e del vescovo, dotata di mura, ora Cividale può dirsi città a tutti gli effetti. I modi di affermazione di Cividale nel corso dell'VIII secolo vengono dunque prospettati attraverso parametri cittadini: I'alternanza tra castram e civitas non sembra quindi soltanto indicare che le città fossero ridotte a semplici fortificazioni 30, ma anche il percorso inverso, cioè che alcuni castra stavano assumendo le sembianze di città. Del resto anche il VersusdedestractioneAquilegiaenumquam restaurandae, nel delineare gli aspetti che inequivocabilmente testimoniano la morte della città, colloca al primo posto la variazione del ceto sociale dei suoi abitanti: quella che era stata originariamente la “civitas nobilium” appariva “ rusticorum spelcum”: la città dei re si era trasformata in “pauperum tugurium” 31 . Le città che indubbiamente decaddero, o che erano già scomparse durante l'alto medioevo, non sembrano mettere in discussione i parametri di sviluppo e di promozione: un luogo è in via di affermazione qualora si comporti da città. Sia le fasi cronologiche che scandiscono il fallimento delle città, sia la qualità degli abbandoni in Piemonte e in Veneto, risultano a un esame ravvicinato, profondamente diverse. In Piemonte il fallimento urbano si esplicò con durevolezza a partire dal III secolo, creando un equilibrio tra il numero di città e il popolamento che si alterò soltanto nella piena età comunale, con la fondazione delle villenoz'e. In Veneto invece il mutamento degli equilibri territoriali tra città e territorio si attuò in coincidenza con la bipartizione politica tra Longobardi e Bizantini, attraverso un processo attivo di promozione di stata di centri già esistenti o fondati ex novo. Nella Venetia attribuendo funzione vescovile a centri già esistenti (ma non per questo classificabili dal punto di vista insediativo come vere e proprie città); in Langobardia attribuendo un valore determinante al prestigio sociale degli abitanti di un luogo. Essi furono in grado di far percepire il centro in cui essi risiedevano come il più rappresentativo anche per le sedi vescovili. Il fallimento delle città e la formazione di nuovi centri urbani è un argomento centrale per coroprendere le variazioni insediative e territoriali verificatesi in Italia durante l'età altomedievale.
Gli spunti contenuti in questo breve lavoro possano essere da stimolo per ulteriori e necessari approfondimenti sulle complesse fasi della sua attuazione prima di tutto attraverso le fonti archeologiche, valutate e considerate d' per; sé, prima di confrontarsi con la complessa tradizione che gli uomini altomedievàli elaborarono del proprio passato. CRISTINA LA ROCCA
1 DELOGU 1990, PP. 157-160: “Sembra dunque di poter concludere che effettivamente scomparvero o ridussero fortemente il loro funzionamento a seguito dell'invasione, soprattutto le città che vennero a trovarsi nell'area di massima frizione politica tra i conquistatori longobardi e i territori salvati dall'impero” (p. 159). 2 Cfr. CARILE 1976 che esamina complessivamente la stratificazione cronologica delle fonti sull'origine di Venezia. 3 La costruzione della tradizione in rapporto alle città abbandonate del Piemonte è esaminato da LA ROCCA 1993. Per la discussione di questo mito storiografico, cfr. SETTIA 1987, pp. 127-143. 4 Le diverse fasi delle mura di Aquileia sono per esempio attualmente riconnesse con precisione agli assalti che essa avrebbe subito da parte delle varie ondate di barbari: cfr., per esempio BUORA 1988, pp. 335-362, con le puntuali osservazioni di CHRISTIE 1991, pp. 187 sgg. 6 Cfr. Ie osservazioni di SETTIA 1994. Ringrazio Aldo Settia per avermi permesso di leggere il dattiloscritto di questo lavoro. 7 La letteratura sull'argomento è vastissima: basti, in questa sede, rinviare a ARNALDI CAPO 1976; PAVAN-ARNALDI 1992. 8 La tenuta delle città in Romania e il fallimento delle città della Longobardia è oggetto di numerosi lavori della scuola bolognese di Vito Fumagalli, tra cui si segnala GALETTI 1989, con bibliografia relativa. 9 Sul fenomeno delle città abbandonate in Italia cfr. SCHMIEDT 1974, PP. 503-607 SCHMIEDT 1978, PP. 59-96. In particolare per il Piemonte LA ROCCA 1993, per il Veneto manca invece una sintesi recente e occorrerà rifarsi ai contributi, riferiti alle singole città, per la sola fase romana e tardo romana, in CAVALIERI MANASSE (a cura di) 1986, per 1'Emilia il contributo di GELICHI in questo volume' CAPO 1976; PAVAN-ARNALDI 1992. 10 La tenuta delle città in Romania e il fallimento delle città della Longobardia è oggetto di numerosi lavori della scuola bolognese di Vito Fumagalli, tra cui si segnala GALETTI 1989, con bibliografia relativa. 11 Sul fenomeno delle città abbandonate in Italia cfr. SCHMIEDT 1974, PP. 503-607 SCHMIEDT 1978, PP. 59-96. In particolare per il Piemonte LA ROCCA 1993, per il Veneto manca invece una sintesi recente e occorrerà rifarsi ai contributi, riferiti alle singole città, per la sola fase romana e tardo romana, in CAVALIERI MANASSE (a cura di) 1986, per 1'Emilia il contributo di GELICHI in questo volume' 12 RONCAYOLO 1988; BORDONE 1987. 13 CHITTOLINI 1990, PP. 3-27. Pauli, Historia Langobardorum, II, 19 (Adria); IV, 33 (Aquileia); IN1, 29 (Samnium). Pauli, HistoriaLangobardorum, IV, 25 (Monselice); IV, 28 (Brescello); IV, 45 (Oderzo); III, 15 e VI, 44 (Classe); V, 27 (Forum Popilii). 15 Pauli, HistoriaLangobardorum, VI, 10 (Cartagine); III, 18 (Brescello); IV, 23 (Padova); IV, 28 (Cremona, Mantova e Oderzo). 16 Fredegarii, Chronica,IV,71,pp.l56-157: “ ChrotariuscumexercitoGenavamaretema Albingano, Varicotti, Saona, Ubitergio et Lune civitates litore mares de imperio auferens vastat, rumpit, incendio concremans; populum derepit, spoliat et captivitate condemnat. Murus civitatebus supscriptis usque ad fundamento distruens, vicus has civitates nomenare praccepit>~. 17 Agnelli, LilierPontificalis, 37, p. 302. 18 TIREEEI 1986; LA ROCCA 1989. ta Per Padova: COLLODO 1990, PP.101-136; per Mantova: PIVA 1987, PP.143-145. Vale la pena ricordare che la dignità vescovile ritornò a queste tre città nel corso del IX secolo: LANZONI 1927, PP.911-917; 943-944. 19 Per le vicende di questi tre centri in età romana, cfr. Ie recenti messe a punto di DE MIN 1986; TOMBOEANI 1986; e da ultimo WATAGHIN CANTINO 1992.
20 Come ha di recente fatto osservare CAMMAROSANO 1988, PP.25-35. 21 LUSUARDI etal. 1989. 22 Dl FILIPPO BALESTRAZZI 1988; 1989 23 Per le indagini a Eraclea cfr. il recente SALVATORI 1992, con la relativa bibliografi~a. 24 TABACCO 1986, PP. 24-33; CAMMAROSANO 1988, PP. 32-42. 25 Sull'estensione delle vicende attilane in Paolo Diacono, per esempio nel celebre incontro tra Alboino e il vescovo di Treviso, che ricalca quello tra Attila e papa Lecne Magno, cfr. Ie convincenti osservazioni di GASPARRI 1991, PP. 5-7; sulla figura di Attila nella tradizione veneta successiva, cfr. COLLODO 1973. 26 Pauli, Historia Langobardorum, II, 9, P. 77. 27 Pauli, Historia Langobardorum, II, 14, p. 81. 28 Pauli, Historia Langobardorum, IV, 37, p. 129. 29 L'episodio è narrato in Pauli, Historia Langobardorum, VI, 51, p. 182 e vale la pena citarlo integralmente. Paolo motiva la discordia sorta tra Pemmone duca di Cividale e il patriarca aquileiese Callisto, perché :“Adveniens anteriore tempore Fidentius episcopus de castro Iuliensi, cum voluntate superiorum ducum intra Foroiulani castri muros habitavit ibique sui episcopatus sedem stabuit. Quo vita decidente, Amator in eius loco episcopus ordinatus est. Usque ad enndem enim diem superiores patriarchae, quia in Aquileia propter Romanorum incursionem habitare minime poterant, sedem non in Foroiuli, sed in Cormones habobant. Quod Calisto, qui erat nobilitate conspicuus, satis displicuit, ut in eius diocesi cum duce et Langobardis episcopus habitaret et ipse tantum vulgo sociatus vitam duceret>,. Cfr. CAMMAROSANO 1988, pp. 11-13. 30 MONTANARI 1988, pp. 100-102.
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La città longobarda nelperiodo della conquista (569-in. VII)
Gian Piero Bognetti in un contributo del 1959 (BOGNETTI 1959), letto alla VI settimana di studi sull'alto Medioevo dedicata alla città, contributo che contiene in nuce la maggior parte dei temi che saranno oggetto, trent'anni dopo, dell'animato dibattito tra storici e archeologici sulla città altomedievale, insiste sulla raccomandazione del suo maestro, Enrico Besta: “la storia, Bognetti, è soprattutto cronologia”. E, in realtà, la differenza di giudizio, manifestata in alcuni recenti lavori, deriva anche da un'indebita estensione alle prime fasi della conquista longobarda di assetti sociali ed economici che si avvertono, nella documentazione scritta, soltanto a partire dalla fine del VII secolo e, per quanto riguarda gli aspetti urbanistici, di modelli di organizzazione dell'abitato desumibili dagli atti per lo più privati che iniziano a comparire attorno alla metà dell'VIII secolo, ma risultano generalmente diffusi (e non in tutte le città) non prima del IX-X secolo. Ad accentuare questa discrasia si aggiunge inoltre, dalla metà del VII secolo, per i territori del Regnum (Italia settentrionale e Tuscia), I'affievolirsi dell'evidenza archeologica per il venir meno di prodotti ceramici di buona qualità, ed in particolare di anforacei. Lacuna, che, come vedremo, non sembra imputabile a difetto di ricerche, ma ad una loro effettiva rarefazione. Per l'archeologo, sono quindi relativamente ancora ben studiabili, attraverso le suppellettili domestiche, che consentono di datare con una buona approssimazione i contesti stratigrafici e di distinguerli dal punto di vista sociale e culturale, i decenni a cavallo del VII secolo, quelli che coincidono con il periodo più buio (quanto a documentazione!) degli storici. L'opportunità di costruire, almeno per alcune città, modelli sulle trasformazioni intervenute nei primi tempi dalla conquista, acquista poi un particolare rilievo, se si considera che furono caratterizzati dalla necessità, per i Longobardi, di stabilire un saldo potere sul territorio, attraverso un'occupazione, á tratti violenta, che mantenne caratteri militari, come ha opportunamente ribadito Gasparri (GASPARRI 1990), fino alla metà del VII secolo. Decenni che si presentano, ad una lettura storica (DELOGU 1980) con un contraddittorio alternarsi di aspetti di continuità e di cesura con l'età precedente. Una prima fase vede l'inarrestabile e facile occupazione di molte città da parte di Alboino, in cui episodi di benevolenza (è il caso della pacifica sottomissione di Treviso) e di umanità (nei confronti di Pavia, i cui cittadini hanno salva la vita) si alternano ad altri che sembrano adombrare quantomeno una diffidenza nel confronto dei nuovi arrivati e che consigliando alla fuga i vescovi di Grado e di Milano, unitamente, è credibile, ad una parte dell'aristocrazia; una seconda, con Clefi e soprattutto durante l'interregno, fa seguito all'uccisione di Alboino e comprende la conquista di nuove città, è accompagnata da episodi di saccheggi, distruzioni, fughe ed eliminazione di nobiles romani; una terza, con Autari, consente un primo consolidamento del regno, sorretto dall'imposizione fiscale, nei confronti dei romani, della tertia; ed infine, un'ultima fase durante la quale Agilulfo distrugge, almeno secondo le fonti, e smembra il territorio delle città poste a nord del Po (Cremona, Mantova, Padova) che rappresentavano un ostacolo al pieno controllo della Transpadana. Un periodo, lo ribadisco (BROGIOLO 1987: contra LA ROCCA 1989) che costituì una sorta di filtro per l'urbanesimo altomedievale, dal quale usciranno, relativamente al Regno, come sedi del sistema politico-amministrativo, una ventina di città di antica fondazione e altrettanti castra, quei centri che le fonti coeve chiamano civitates, accomunando nel medesimo appellativo sia centri di indiscussa tradizione urbana ed abitati di modesta entità; il che non può non farci riflettere sul significato di luogo di potere che i contemporanei gli attribuivano. Le fonti scritte non consentono peraltro di andare molto al di là di un'affermazione di continuità urbana, intesa come luogo di difesa e sede dei poteri civili e religiosi e degli entourages che ne dipendevano. Rimane soprattutto impossibile una stima del fenomeno, oltre che nella sua evoluzione
urbanistica ed edilizia e nella sua reale consistenza demografica, anche nei modi in cui i centri di potere alimentavano le proprie risorse e in rapporto alla presenza di ceti sociali urbani produttivi, il che significa determinare se il consumo della città fosse o meno parassitario, dipendendo (e in quale misura) da risorse originate nella campagna e raccolte attraverso contributi impositivi (DELOGU 1990). La potenzialità dell'urbanesimo di area longobarda andrebbe inoltre verificata in modo peculiare, più che alla luce del declino e della definitiva scomparsa di numerose città romane, fenomeno, che, iniziando nel III secolo, precorre il periodo che stiamo esaminando, o dell'eclissi temporanea delle città conquistate da Agilulfo e da Rotari, nell'evoluzione dei centri emergenti. Sia dei castra (BROGIOLO-CANTINO-WATAGHIN in questo stesso convegno), destinati, in questo periodo, ad assumere un inedito ruolo politico e amministrativo che ben rifletteva il rnodello militare dell'occupazione longobarda che delle città di antica fondazione, particolarmente di quelle che vennero occupate nella prima fase e formarono, forse per una migliore coesione tra germani e romani (BOGNETTI 1959), 1'elemento più vitale del sistema di potere longobardo in Italia settentrionale. Su queste si sono venute infittendo, grazie alla diffusione dei metodi dell'archeologia urbana, informazioni su molti aspetti dell'urbanesimo altomedievale: continuità o meno delle infrastrutture e degli edifici della città antica; localizzazione degli insediamenti germanici e delle sedi di potere pubblico (palazzo ducale e successivamente, a partire da Autari, del centro amministrativo dei beni fiscali del sovrano); ubicazione del centro episcopale, delle cattedrali e, dalla metà del VII secolo, dei monasteri urbani; disposizione e percentuale, nei diversi isolati, delle parcelle edificate rispetto a quelle di altra destinazione; tecnologia delle nuove costruzioni; indicatori di attività produttive e commerciali. Longobardi e romani: nuovi dati per Brescia e Milano Brescia e Milano, dopo le ultime intensive indagini archeologiche, che hanno permesso di confermare alcune ipotesi e di avanzarne altre, costituiscono un buon campione e possono perciò essere riproposte, come già fece il Bognetti trent'anni orsono, a modello delle trasformazioni avvenute in una città longobarda, che le fonti ci indicano di primaria importanza: Milano, sostanzialmente la capitale del regno con Agilulfo; Brescia, patria di due re che, come afferma Paolo Diacono (H.L.,V, 36), “magnam semper nobilium Langobardorum moltitudinem habuit”. Brescia La città romana occupava un pentagono, di ca. 80 ettari, che dal colle Cidneo scendeva al pedemonte, sviluppandosi verso sud per un'ampia fascia urbanizzata, oltre la quale si situavano le necropoli. Se costituisce un problema irrisolto l'andamento, in piano, delle mura di età augustea, di cui si conservano invece alcuni tratti sui versanti del colle, quel che è certo è che le fortificazioni tardoantiche o di età gota riorganizzano completamente l'assetto urbanistico. Rimangono fuori dalle mura gli isolati meridionali; ad ovest, al contrario, vi è un allargamento che ingloba un edificio pubblico, interpretato in origine come horrum, ma che, senza dubbio, almeno in età longobarda fu sede della corte ducale; la sommità del colle, occupata da un tempio e da cisterne d'acqua, venne riconvertita in luogo di culto (nel VI secolo: PANAZZA 1988; tra VI e XI: BREDA 1987). Nei pressi, sorsero un impianto termale (VI sec.: BREDA 1988-89) e abitazioni private (BREDA 1983). Il Panazza ha avanzato l'ipotesi che il complesso avesse una funzione militare, ipotesi, che sebbene non provata, sembrerebbe plausibile se inquadrata nel generale intervento di riassetto strategico della città. Corollario di questa trasformazione fu anche la costruzione di un porto a sudest della città (M~RAsEL~A-RosERT~ 1963), alimentato quasi certamente dal Garza, deviato ad est a protezione del percorso pedemontano delle mura. Porto al quale attraccavano le navi dei comacchiesi e che concretizzò per tutto l'altomedioevo un riferimento del paesaggio urbano di Brescia.
Gli isolati della città longobarda, limitati ad una parte della superficie interna del perimetro difensivo, potevano àpprossimativamente estendersi su 25 ettari, un terzo dell'area urbanizzata in età primoimperiale. Non conosciamo tuttavia in modo esauriente le fasi (progressive ?) di riduzione dell'area abitata e abbiamo elementi contraddittori che non ci consentono di stabilire i tempi di abbandono del settore a sud delle mura tardoantiche, ove continuarono ad essere utilizzate tre chiese paleocristiane (S. Faustino adsanguinem, S. Lorenzo e S. Alessandro: PICARD 1988). Una piccola necropoli di fine III-inizio IV sec. (MARIOTTI 1990a; EAD. 1990b: contra, per una posteriorità dell'edificio rispetto alla necropoli, Rossi 1988-89), appena fuori le mura, attuale corso Magenta, nell'area di una vasto edificio pubblico, sembrerebbe indicare un precoce abbandono, analogo nella cronologia e nelle cause (rafforzamento del sistema di difesa che comporta l'abbandono dei quartieri periferici) rispetto a quello riscontrato in altre città (ORTALLI 1992; ARSLAN-CAPORUSSO 1991, I, p. 355 per Milano; GELICHI in questo stesso convegno). Abbandono che tuttavia non fu generalizzato: lungo la strada (attuale via Calini), sulle fondazioni romane si imposta un edificio con muro legato da argilla e palo verticale incluso (GERSOMINI 1992) simili a quelli di S. Giulia e del Castello (BROGIOLO 1989). Ci fu dunque un notevole restringimento della superficie abitata, ma non credo che tale evento abbia comportato un proporzionale calo demografico, pur se non è da dubitare che la Brescia altomedievale fosse meno popolata di quella romana: negli isolati orientali, a nord del decumano, le capanne, distribuite fittamente, potevano essere abitate da un numero superiore di persone rispetto alle domus, mentre altrove la presenza di orti e spazi liberi, caratteristica comune a tutte le città altomedievali, è indizio indiscutibile di una riduzione degli abitanti. Si va invece delineando con una certa forza una tripartizione funzionale dell'abitato all'interno delle mura, evidenza che consente di riproporre con maggior dovizia di argomenti ipotesi prospettate da alcuni studiosi, sia per Brescia che per altre città (CAGIANO 1974), circa le modalità di insediamento longobardo. Alla fine del VI secolo, a est del Foro, in un settore urbano che si sviluppa fino alla cinta difensiva e che è occupato in età romana da ricche domus, abbiamo, dopo una crisi edilizia nel corso del V secolo e un parziale recupero in età gota, una sequenza che si caratterizza in modo differente nei comparti posti rispettivamente a nord e a sud del decumano massimo. A nord, nell'area del Capitolium, del teatro e delle domus degradate di S. Giulia e dell'Ortaglia, fino alle mura urbiche, si insedia un gruppo di persone culturalmente omogeneo: procede ad una sistematica riutilizzazione dei ruderi, alterandone tuttavia i piani d'uso; costruisce le proprie case, distribuendole sia all'interno degli isolati che lungo le strade (una quindicina quelle scavate su un campione pari ad 1/10 dell'area potenzialmente disponibile per 1'insediamento); impiega tecnologie costruttive assai povere; scarica i rifiuti all'interno delle abitazioni e nei cortili provocando un'ininterrotta crescita dei piani d'uso; seppellisce presso le case, in tombe che, in alcuni casi, contengono corredi longobardi, anche se mancano del tutto le armi; presenta antropologicamente caratteri germanici ibridizzati; utilizza, come suppellettili da mensa, oltre alle grezze, anche ceramiche longobarde; vive su aree che, in gran parte, nel 750 sono indicate come appartenenti al fisco regio; è impegnato in attività metallurgiche (MANNONI et al. 1992). Evidenza questa che non può non richiamare la notevole disponibilità di minerale ferroso, proveniente dalle Prealpi bresciane, che il monastero, erede del fisco regio e ducale, aveva ancora alla fine del IX sec., sì da farne uno dei cespiti economici più rilevanti nonché uno dei caposaldi del suo potere politico (PASQUALI 1992). L'insieme di queste informazioni mi sembra si possa sintetizzare in una ipotesi verisimile: che in questo settore urbano si fosse insediato, fin dai primi anni della conquista e su beni pubblici, un gruppo alloctono, composto da alcune centinaia di persone di cultura longobarda che si può ritenere fossero, per l'assenza di armi nelle sepolture e la povertà degli edifici, di basso rango sociale, forse servi legati ai beni fiscali, impegnati, oltre che nella metallurgia, produzione strategicamente vitale per la forgiatura di armi e di utensili, anche in attività agricole e di allevamento che interessavano l'area a sud del decumano.
In questo comparto meridionale, gli edifici romani e di età gota, vengono utilizzati, seppur in modo degradato come è emerso dallo scavo di via Alberto Mario (BROGIOLO 1988), fino alla fine del VI secolo (termine post quem sigillata Hayes 105). Gli strati di crollo di questi edifici, lasciati in sito, sono poi ricoperti da una spessa coltre di limo fine fortemente organico. Non è l'evidenza di orti adiacenti alle abitazioni, ma, per l'omogeneità e l'ampia estensione, confermate da una sezione nord-sud dal decumano fino alla cinta, si può interpretare come una stratificazione formatasi su tutta l'area per un identico processo di pedogenesi. Tradotto in termini urbanistici, significa che, una volta eliminati i resti di edifici superstiti, si intervenne in modo radicale, forse perché l'area, lasciata libera dagli antichi possessori, era pervenuta nelle mani di un solo proprietario. Nell'XI secolo, l'intera zona appartiene al monastero di S. Salvatore ed è descritta come braida idificata. Mi sembra si possa perciò prospettare l'ipotesi che fosse proveniente, come quella a nord del decumano, dalle cospicue donazioni fatte dal re Desiderio (ANDENNA 1992), compendiariamente citate, anche se non è del tutto certo se si tratti delle sole proprietà urbane, in un documento del 760 (CDL, III,1, n. 33; PASQUALI 1992, p. 134) come “omnia et in omoibus mobilibus et inmobilibus rebus simul cum animalibus, bovibus, bubulcis, familiis utriusque sexus ibidem pertinentibus”. Un insieme di proprietà rurali all'interno delle mura pertinenti, secondo una plausibile eongettura del Pasquali (PASQUALI 1979), a quella corte in civitate descritta, alla fine del IX secolo, nel Polittico, il noto censimento delle proprietà del monastero. Mi sembra perciò si possa ragionevolmente concludere: primo, che l'inserimento di un gruppo longobarda nord del decumano abbia avuto come corollario la formazione di un'area rurale a sud dello stesso; secondo, che tali interventi siano avvenuti in un'area di proprietà del fisco regio; terzo, che, sulla scorta dei dati di scavo di S. Giulia e di via Alberto Mario, l'intervento vada collocato nella prima fase della conquista; quarto, che l'insieme delle proprietà fiscali pervenute al monastero di S. Salvatore poco oltre la metà dell'VIII secolo, salvo l'isolato occupato dagli edifici monastici, continuò ad essere organizzato in una corte rurale e a caratterizzare il paesaggio urbano di Brescia fino all'XI secolo. Sul lato opposto della città, ad occidente, in un ridotto fortificato che si protende, come un cuneo, al di là del percorso delle mura augusto e, si stabili ch e invece la corte ducale in un palazzo che ho recentemente (BROGIOLO 1993) proposto di identificare in un edificio malamente scavato negli anni Trenta e finora interpretato come criptoportico romano. Pur mancando una datazione dell'edificio, preesistente allo stanziamento ducale, ritengo sia da rigettare tale proposta: la pianta ad ali ricorda infatti analoghe costruzioni palaziali di età gota; rimase in uso per tutto l'altomedioevo; in contiguità, venne poi costruita una chiesa intitolata a S. Ambrogio, che nelle carte bassomedievali viene ubicata In base a questa ricostruzione, l'ipotesi che le corti ducali e regie fossero ubicate presso le porte della città, prospettata per Milano (CAGIANO 1974) e Pavia (HUDSON 1987), troverebbe dunque un parallelo anche a Brescia. Si confermerebbe inoltre, almeno per le fasi iniziali della conquista, una separazione etnica tra longobardi e romani. Nel mezzo, tra il Foro ed il centro episcopale, vi è una terza zona che non è stata sinora oggetto che di parziali interventi archeologici. Vi è però da osservare che: mostra una buona sovrapposizione del reticolato stradale attuale su quello romano; rivela, forse anche per la presenza stabilizzante del complesso delle cattedrali e dell'episcopio, una minor crescita dei livelli d'uso nel corso dell'altomedioevo (ad esempio, le quote del pavimento del Duomo Vecchio, dell'XI secolo, sono superiori di solo mezzo metro rispetto a quelle romane); presenta alcune rasature di muri romani ad una quota tanto elevata da farne ipotizzare un uso prolungato; era attraversata, nella parte più settentrionale dal nuovo acquedotto, costruito nel 761 (CDL, II, 151-153, 158), che si sviluppava su modeste parcelle occupate da orti, piccole case e chiese, con una frammentazione della proprietà che contrasta con quanto si è visto nel settore orientale della città. Se l'attestazione contenuta in una lettera di Gregorio Magno (IV,37), che annota la presenza, nel 593, di cives romani con capacità di organizzazione e di libera espressione, quantomeno nelle questioni religiose, dipingono, come tutto lascia credere, uno scenario veritiero, è possibile che tali cives
continuassero a vivere in questi quartieri, stretti attorno all'episcopio, utilizzando ancora edifici romani o tardoromani, secondo un modello che possiamo ipotizzare simile a quello di via Oante a Verona, dove edifici di V secolo, già radicalmente diversi, per tecnologia più povera e pianta elementare, da una domus romana, si affacciano su una strada e sono usati, pur con successive sopraelevazioni del piano d'uso, fino all'XI secolo (HUDSON 1985). Una situazione simile è documentata a Bergamo, in piazza Rosate, dove una domus romana è occupata almeno fino al VII sec., con partizioini interne in muratura (FORTUNATI 1990). Milano Un panorama, per alcuni versi, analogo, anche se più frammentario rispetto a quello del campione bresciano, presentano i grandi scavi, eseguiti in occasione della costruzione della linea 3 della metropolitana, pubblicati con grande tempestività in una monumentale edizione. Le indagini hanno interessato un campione di 9 siti, distribuiti lungo un asse Nord-Sud che attraversa il centro e le aree periferiche della città romana. In questa città, l'insediamento periferico è già in crisi nel V secolo; la via porticata è demolita alla fine di quel secolo o all’inizio del successivo; anche i quartieri in prossimità delle mura sembrano seguire la medesima sorte: in piazza Missori, la fogna stradale va in disuso; gli edifici che fiancheggiano la via vengono demoliti e il basolato e ricoperto “ da un battuto di limo e macerie ” (ARSLAN-CAPORUSSO 1991, p. 357). Maggior continuità si ha in un'area centrale (attuale piazza Duomo), nei pressi della grande basilica paleocristiana di S. Tecla; qui, dopo una ripresa edilizia ed il rifacimento di un basolato stradale in età gota, segue, nel corso del sesto secolo, un uso degradato dell'edificio con tramezzi lignei e pavimenti in semplice battuto. Solo alla fine del secolo, non resta più traccia di strutture edilizie in muratura, spogliate per un recupero integrale dei laterizi. Anche la strada viene sepolta sotto uno spesso strato di macerie. Le nuove costruzioni, della fine del VI-inizi VII, sono integralmente in legno e potrebbero riflettere il passaggio ai Longobardi del controllo della città (PERRING 1991, l, p. 158). Nel corso del VII secolo, l'intera area è ridotta a coltura o a giardino, forse in connessione con gli edifici ecclesiastici circostanti S. Tecla (PERRING, ivi). Queste sequenze sarebbero emblematiche, nel giudizio degli scavatori, di una “ decadenza drammatica di tutto il complesso urbano” (ARSLAN-CAPORUSSO 1994 p. 357). In realtà, pur se i dati dei singoli siti appaiono incontrovertibili e portano un grosso contributo alla conoscenza dell'evoluzione di un'area centrale della città, è forse prematuro generalizzarli (BAARETTI 1991), soprattutto perché i risultati di altri, pur importanti scavi, non sono ancora pubblicati. Le notizie preliminari finora edite di due grandi scavi eseguiti nell'area del Foro, cuore della città rornana e altomedievale, non consentono infatti di pervenire ad una conclusione: processi di stratificazione sono analoghi a quelli degli scavi della Metropolitana, ma non sono state fornite puntuali cronologie delle sequenze altomedievali. La parte meridionale della piazza del Foro, in cui il lastricato comincia ad essere asportato nel V-VI secolo (CERESA MORI et al. 1990) risulta occupata, probabilmente nell'altomedioevo, da abitazioni private, ma “mancano (...) elementi che consentano di stabilire a quale secolo se ne possa far risalire la definitiva scomparsa” (ivi). L'area dove si trovava l'edificio della zecca, affacciato sul lato orientale del Foro, sarebbe stata invece in declino fin dalla fine del V secolo, quando vengono demoliti un tratto del fognolo e del basolato stradale (CERASA MORI et al. 1987), ma non è chiaro cosa sia successo in seguito. Le sequenze ricostruite dall'archeologia urbana a Brescia e a Milano sono dunque, pur nell'incertezza lasciata da alcune relazioni di scavo, in larga misura confrontabili. In entrambe troviamo processi di degrado delle infrastrutture e degli edifici romani. Alla fine del VI secolo, con l'inserimento dei Longobardi, le trasformazioni si acuiscono: da un lato, nuove costruzioni tecnologicamente rudimentali, dall'altro sviluppo, con processi pedologici che saranno ulteriormente da indagare (per accumulo di rifiuti o per sistematico riporto di terreno agricolo?), di aree rurali, non solo orti, ma, come si è dimostrato archeologicamente a Brescia, anche estese zone che contribuiscono a darci
l'immagine di una città del primo altomedioevo ridotta ad isole edilizie, intercalate da molti spazi liberi. Un panorama dunque nel quale vi sono per ora solo indizi, ma non prove, di una persistenza nell'utilizzo dell'edilizia privata tardoromana, che pur, come abbiamo visto, si ritrova, seppur in modo sporadico, in altre città: non è per ora possibile dire se ciò sia dovuto alla casualità delle ricerche, che si sono concentrate in alcuni quartieri, o al fatto che tale continuità era eccezione più che norma. Sorprende anche, nel campione sempre più rappresentativo fornito dall'archeologia, non solamente in queste due città, ma nell'intera Padania longobarda, l'assenza di nuovi edifici di buona qualità, appartenenti al ceto dei funzionari e nobili, quali quelli di area bizantina, testimoniati, ancora nel VII secolo per Rimini e Ravenna, dalla documentazione scritta e da quella archeologica (ORTALLI 1991). Conclusioni Sulla città nei primi decenni della conquista longobarda, disponiamo ora di un insieme di informazioni che, pur frammentarie, delineano un'accelerazione, nell'ambito di processi di lunga durata, verso un modello di città parzialmente ruralizzata e con un'edilizia in larga misura tecnologicamente povera. Come queste trasformazioni incidano sulla struttura economica, demografica e sociale delle città del Regno è problema ancora aperto, sul quale potrà gettare parzialmente luce solo l'archeologia, lavorando lungo due direttrici di ricerca: I'edilizia, considerata non tanto come storia dell'architettura, quanto piuttosto come riflesso di condizioni sociali e di organizzazione dell'artigianato ad essa collegabile, é la più tradizionale storia dei manufatti, vista non solo come evoluzione di tecniche e di tipi, ma soprattutto come riflesso di produzioni e commerci. Quanto alla prima, accanto alla generalizzata presenza di edilizia povera, realizzata verisimilmente in ambito familiare (BROGIOLO 1989), trova altresì sempre più numerose conferme, salvo che per aree marginali, la persistenza di fornaci, in cui venivano cotte almeno le tegole di copertura che non potevano essere reimpiegate in frammenti. Oltre ai ben noti bolli delle figline regie, sempre più numerose si fanno infatti le datazioni di laterizi all'età longobarda attraverso la termoluminescenza (Pavia; Trino: NEGRO PONZI in stampa; Castelseprio; Terno, Milano ecc.). Mancando lavori sistematici, è però impossibile stabilire in che percentuale il laterizio nuovo incidesse rispetto a quello riutilizzato. E rimane anche inevasa la questione se questo lavoro, che richiedeva conoscenze tecnologiche ben precise, fosse stanziale o, come l'artigianato edile dei magistri commaci ricordati, qualche decennio dopo, nell’Editto di Rotari (MONNERET DE VILLARD 1920; BOGNETTI 1968) e come altre lavorazioni specialistiche, venisse svolto da maestranze itineranti che si spostavano là dove la committenza privilegiata richiedeva restauri o nuove costruzioni di buon livello tecnologico. Quel che è evidente è che i laterizi altomedievali hanno caratteristiche di cottura più grossolane rispetto all'età romana, a causa dell'impiego di forni precari con scarsa areazione, il che parrebbe suggerire un lavoro svolto occasionalmente in forni a fossa. Sulle suppellettili di uso quotidiano, anche dopo la pubblicazione degli scavi della metropolitana di Milano non sono cambiate le conclusioni cui si era pervenuti attraverso gli scavi di Brescia (BROGIOLO 1984, 1988). Dopo il V secolo, sono assai rare le attestazioni di sigillate da mensa, (ROFFIA 1990), sì da far dubitare che fossero oggetto di mercato diffuso. Mentre per le anfore scanalate orientali, la presenza, anche in livelli di prima età longobarda, non può essere considerata sicura, in quanto tali strati denunciano di norma una forte residualità ( sintomo di rimaneggiamenti delle stratificazioni più antiche) e al contempo le anfore non mostrano variazioni tipologiche o di manifattura, attualmente apprezzabili, dal IV al VII. Non c'e quindi la prova, per l'area padana, di quella ripresa dei commerci che accompagna, nelle zone costiere, la riconquista bizantina e che garantisce un afflusso di merci esotiche fino al VII secolo.
Elesta da chiarire se tale tendenza sia più il frutto della crisi delle rotte commerciali o dell’assenza di domanda, a seguito della rarefazione della ricchezza urbana. Anche le invetriate che, come sostituti dalle sigillate, vedono nella prima metà del secolo un deciso incremento, sia nelle forme che in termini percentuali, si avviano ad un rapido declino nella seconda metà e non ne è accertata con sicurezza la sopravvivenza in quello successivo. Con i Longobardi si diffonde invece, almeno per una quarantina d'anni, la tipica ceramica pannonica decorata a stampiglia e stralucido, presente in contesti insediativi, più di area urbana ehe rurale. Per questa, rimane il dubbio di una sua reale circolazione sul mercato: la sua ampia diffusione nell'area longobardizzata di Brescia potrebbe sottolinearne una caratterizzazione etnico culturale per un autoconsumo. Il solo tipo ceramico di cui è sinora accertata la continuità (BROGIOLO GELICHI 1986) è quello delle grezze di tradizione romana e su di esse occorrerà lavorare, in modo più approfondito di quanto si sia fatto sinora, per cercare di chiarire se esistano e quale delimitazione abbiano i relativi mercati. In particolare se ne risulti un rapporto di interscambio città-contado o linee di penetrazione più legate a sistemi economici chiusi. Unitamente alla pietra ollare alpina che, in sostituzione dei recipienti da fuoco metallici, raggiunge capillarmente tutta l'area padana, sia longobarda che bizantina (BOLLA 1991), le grezze rappresentano la sola traccia archeologica conservata. Certo non disponiamo di dati sulla produzione tessile, né su quella alimentare (a S. Giulia vi sono buone campionature, in attesa di studio), né sui material'deperibili (legno e cuoio) che dovevano costituire la gran parte degli articoli commerciati, e pertanto un giudizia complessivo sull'economia delle città longobarde, almeno fino al VII secolo, è fuori dalla nostra portata. E del resto una valutazione sulla sola base delle suppellettili domestiche sarebbe oltremodo fuorviante: è sufficiente riflettere sul fatto che, a nord del Po, almeno fino al XIII secolo, continuano ad essere esclusivamente rappresentate da grezze e pietra ollare. Queste non incarnano più un indicatore economico come nelle società classiche, ma sono divenute una variabile indipendente dalla struttura economica delle città. GIAN PIETRO BROGIOLO
Ho riutilizzato questo contributo, che coincide con il testo letto al convegno, in una monografia su Brescia altomedievale (BROGIOLO 1993). Bibliografia ANDENNA 1992 - G.C. ANDENNA, Il monastero e l’evoluzione urbanistica di Brescia tra Xl e XII secolo, in (Atti del convegno, Archeologia, storia e arte di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa), Brescia 4-5 maggio 1990, pp. 93-118. ARSLAN-CAPORUSSO 199 1—E. ARSLAN CAPORUSSO, I rinvenimenti archeologici degli scavi nel contesto storico diMilano, in CAPORUSSO lggl, pp. 3S1-358. BALZARETTI 1991 —R. BALZARETTI, History, archaeology and early medieval arbanism: the north Italian debate, “The Journal of the Accordia Research Centre”, 2, pp. 87-104. BOLLA 1991 - M. BOLLA, Recipienti in pietra ollare, in CAPORUSSO 1991,3.2, pp.11-37. BREDA 1983—A. BREDA, Brescia Castello, “NSAL”, pp. 78-80. BREDA 1987 - A. BREDA, Brescia Castello. Scavo nel piazzale Mirabella, “NSAL”, pp. 107110. BREDA 1988-89—A. B REDA, Brescia CIastello, cortile del mastio visconteo, “NSAL„, pp. 239-241. BOGNETTI 1959—G. P. B OGNETTI, Problemi di metodo e oggetti di studio nella storia delle città italiane dell'alto Medioevo, in VI sett. di studi Spoleto 1958, Spoleto, pp. 59-87. ripubbl. in L'età Longooarda, IV, pp. 221 -250.
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Le città in Emilia-Romagna tra tardo-antico ed alto-medioevo
1. L 'area geografica L'attuale circoscrizione amministrativa regionale coincide pressappoco con l'antica distrettuazione augustea della Regio VIII Flaminia-Aemiliat che, come sappiamo, aveva valore esclusivamente statistico:. Tale suddivisione rifletteva una unitarietà che prima di essere culturale era geografica: il Po a nord, gli Appennini a sud e il mare Adriatico ad est. A partire dal II secolo, però, e soprattutto nel momento della creazione della diocesi italiciana da parte di Diocleziano, il governo centrale, in una politica di progressiva ingerenza sulle autonomie locali, non mancò di accorpare e spostare territori di quella che un tempo era stata l'Aemilia; si venne così a creare una demarcazione fra l'area occidentale della regione e quella orientale, che tenderà a consolidarsi in età longobarda e a stabilizzarsi nella successiva epoca franca. Così la regione, nel primo alto-medioevo, era politicamente e culturalmente suddivisa in due grandi aree: la Langobardia, che unificava i territori occidentali, Bologna compresa, i quali gravitavano o avevano finito col gravitare, con le ultime conquiste di Liutprando, nell'orbita del regno longobardo; e la Romania, coincidente con le zone rimaste sempre in mano ai Bizantini (Pentapoli) e comprendente anche alcuni territori delle Marche attuali, che in età franca passarono sotto il diretto controllo del Patrimoniam Saneti Petri. Tali premesse giustificano, dunque, anche sul piano storico, un approccio che tenda ad affrontare il fenomeno urbano esclusivamente in questa porzione dell'area padana: non solo, ma da tempo parte della storiografia si è mossa a rimarcare i caratteri originali di questa antinomia, facendone uno dei temi di ricerca tra i più vivaci e stimolanti di questi ultimi anni. La vastità dell'area da indagare e la disomogeneità con cui si è mossa la ricerca archeologica, ci spingono tuttavia ad affrontare questo argomerdo privilegiando e discutendo criticamente innanzitutto gli elementi di novità emersi dagli scavi di questi ultimi anni. Inoltre alcuni temi, come quello delle sedi di potere, sono stati di recente ed esaurientemente trattati, nello specifico dell'ubicazione delle sedi episcopali, dalla Cantino Wataghin; su altri, ad esempio la dislocazione delle sepolture e delle necropoli, in relazione e non, con gli edifici di culto, si sta ancora lavorando per predisporre una base documentaria sufficientemente ampia ed attendibile. È poi evidente come una ricostruzione complessiva di tutti quegli aspetti che compongono la realtà materiale delle città di questa regione, oltre a non essere possibile, non può venire analiticamente discussa in questa sede, né un taglio puramente catalogico (cioè città per città) sarebbe utile ai fini di un seppur modesto tentativo di sintesi. 2. Città di antica fondazione, attandoni e nuove città Un primo problema che dobbiamo affrontare è quello della verifica di quante e quali città, di antica fondazione, sopravvissero tra l'antichità e il medioevo, e quante nuove vennero costruiteó, anche se la "scomparsa" e la "nuova formazione", come giustamente è stato rilevato, non sono che l'esito di immediata evidenza di un processo lungo e complesso. Punto di partenza può essere una cartina recentemente pubblicata da Ward Perkins, utile in quanto pone a confronto la nostra regione con il resto del nord della penisola(Fig. 1). La carta, benche incompleta risulta sufficientemente indicativa: su diciassette città menzionate come esistenti in un periodo compreso tra il 300 e 1'800 circa, solo due risultano completamente abbandonate in epoca tardo-antica. Ad una ulteriore analisi di dettalio, il numero dei centri dove le tracce antiche sono modeste o nulle risulta abbastanza ridotto: in quattro casi (Caesena, Forum Popili, Forum Livi e Fidentia, lungo la via Emilia):o, non vi sono ancora certezze circa la precisa ubicazione e la reale estensione dell'antico nucleo abitato rispetto a quello medievale e moderno, anche se non sembrano essersi verificati
spostamenti di rilievo. Nel caso di Mutina, invece, I'ubicazione del centro antico è abbastanza ben conosciuta ma, nello stesso tempo, si è accertato uno spostamento verso occidente, che inglobò solo parte dell'abitato romano. La situazione dell'antica colonia di Modena deve però essere vista in relazione alla sua posizione nevralgica nella prima età longobarda: non può ritenersi infatti casuale che la città, per la quale si registra una certa ripresa, al pari di altri centri della regione, in età gota?~, fu interessata, come il territorio, da una profonda crisi, anche istituzionale, tra il regno di Agilulfo e quello di Cuniperto. Per sintetizzare, ed anche a confronto con il panorama del nord della penisola, se un elemento di "continuità" è innanzitutto da rilevarsi nella persistenza topografica di un sito, possiamo sostenere che l'antica Regio VIII risulta tra le aree più conservative, seppure in un generalizzato quadro di crisi dell'urbanesimo26. Individuare costanti univoche in questo andamento sostanzialmente positivo non è facile, in considerazione anche del fatto che i fenomenì ora rilevati, sia in termini di "abbandoni" che di "persistenze", si scaglionano lung~n percorso cronologico disomogeneo e si distribuiscono all'interno di un quadro socio-politico diversificato a seconda delle singole realtà territoriali, quali si erano venute a creare dopo il III sec. d.C.: quadro che incide in maniera talvolta non marginale nell'accelarazione o nella decelerazione di determinati fenomeni insediativi. Tuttavia, senza voler sottovalutare l'incidenza di altri fattori, mi sembra che le componenti politico-istituzionali ed economiche costituiscano gli elementi trainanti per giustificare una generalizzata tenuta degli organismi urbani nella nostra regione. Gran parte delle città, infatti, mantennero intatto il loro ruolo istituzionale, come sedi del potere pubblico ed ecclesiale, che in molti casi, nell'alto-medioevo, vennero spesso a coincidere. La creazione, quasi sempre precoce ed all'interno dell'abitato:~, di sedi episcopali, dovette favorire questo processo: tutte le città antiche sopravvissute furono infatti sedi di diocesi. Claterna nonostante le argomentazioni del Lanzoni, non fu mai centro episcopale2s; lo stesso vale per Veleia e per Tannetam. Unica eccezione Brixellum, sede vescovile già nel V secolo, abbandonata nel corso del secolo VIII o. Ma tale corrispondenza non è sempre automatica. La sopravvivenza è anche legata alle capacità che le città dimostrarono nel rispondere alle nuove esigenze3~: dove tali condizioni non si verificarono, una pur precoce presenza episcopale non fu da sola sufficiente a garantire la persistenza di un abitato, come nel caso di Vicus Haljentiae (vd. infra)~7. In questo senso la componente socio-economica non risultò affatto marginale. In un contesto generalmente contrassegnato da un ritorno ad un regime di autoconsumo (ed emblematicamente rappresentato dall'organizzazione curtense che si radicò soprattutto nella zona occidentale della regione in epoca franca), le città continuarono infatti a svolgere un ruolo non secondario nelle transazioni economiche e nella riconversione dei profitti; e questo soprattutto nell'area padana, dove la fitta rete idrografica favorì certamente quei collegamenti commerciali ampiamente testimoniati dalla circolazione delle merci, come traspare dalle fonti scritte e da quelle archeologiche. Inoltre, come sostiene giustamente Ward Perkins, le città nel nord Italia sopravvissero bene perché l'economia rurale, dalla quale le città inevitabilmente dipendevano, "sopravviveva inusualmente bene". Dunque, non è forse un caso che tra i centri di nuova fondazione della Regio VIII acquisirono sempre più rilevanza, fino ad assurgere al ruolo di vere e proprie città, quegli insediamenti che seppero ben presto divenire importanti e vivaci nodi commerciali, come Comacchio e Ferrara. Il primo, vero e proprio terminale dei commerci padani, contese a lungo l'egemonia dei traffici marittimi a Venezia, per esserne poi sopraffatto solo nel secolo IX3~; il secondo, sorto probabilmente in origine come castrum a difesa del limes esarcale verso gli inizi del VII secolo, seppe ben presto riconvertirsi in centro commerciale, palesando questa sua vocazione anche nello sviluppo urbanistico, col disporsi, vero e proprio emporio, lungo la sponda settentrionale del ramo principale del Po, di fianco al primitivo impianto castrense. Ma non è neppure un caso che ambedue i centri di nuova fondazione siano diventati ben presto sedi episcopali: Comacchio nel secolo VIII e Ferrara, a spese di VicusHabentiae, prima del X39. Diversa, ed emblematicamente corrispondente, la storia del terzo centro fondato nell'alto-medioevo nella Regio VI1I: la Civitas Geminana o Nova, nei pressi di Modena. Sito la cui creazione si fa risalire al re Liutprando, Cittanova divenne sede di un gastaldo, cioè un amministratore del fisco regio, in epoca longobarda, e residenza di un conte nella prima età
carolingia. Ma la rilevanza che l'abitato dell'antica M?`tina, da sempre sede dell’episcopio (che dovette accrescere sempre di più il proprio potere e prestigio nei secoli IN e X), costituì un forte elemento di disgregazione per lo sviluppo del sito, che non assunse mai veri e propri connotati di città e ben presto scomparve a discapito, anche sul versante demico, del riemergente antico nucleo urbano. 3. Lo spazio urbano Nella carenza di una documentazione archeologica che spesso si limita all'analisi delle esclusive testimonianze dell'età classica, un primo elemento che ci consente di riflettere sulla trasformazione degli abitati del primo altomedioevo, è la presenza e l'estensione dei perimetri murari. Non tutte le città di antica fondazione erano provviste di mura (e quando lo erano o caddero in disuso o furono successivamente modificate): così la realizzazione, quando attestata e documentata, di cinte difensive, rappresenta una prima, macroscopica e spesso tangibile testimonianza di un cambiamento in atto nel tessuto urbano. Poiché la realizzazione di tali intraprese edilizie~lascia resti materiali difficilmente: eludibili (a meno che non si tratti di strutture in materiale deperibile)~~, è questo il settore della ricerca archeologica su cui abbiamo più documentazione, e quello su cui la critica ha già avuto modo di riflettere da tempo: ma ciò non significa che sempre si sia arrivati a risultati definitivi sul piano della cronologia, della reale estensione di tali perimetri urbani e delle motivazioni che hanno promosso tali iniziative. Siamo tuttavia in grado di distinguere almeno tre casi diversi: 1. Città le cui mura furono costruite o ricostruite in epoca tardo-antica. 2. Città parzialmente rifortificate nell'alto medioevo. 3. Città che non furono mai cinte da mura (la cui presenza è al momento solo attestata per le fasi bassomedievali oppure è documentato un centro fortificato nei pressi che non è direttamente identificabile con l'antica città). Appartengono alla prima categoria centri come Piacenza, Parma, Brescello, Bologna, Rimini e Ravenna. Piacenza ha conosciuto almeno due fasi di fortificazioni: una prima databile all'epoca della colonizzazione e, una seconda, di recente individuata, attribuita molto genericamente ad età tardo-antica (Fig. 2). L'andamento di ambedue i perimetri urbani, per quanto meglio conosciuti di altre città dell'Emilia occidentale, non è stato identificato con certezza, anche se si tende ad ipotizzarne una sostanziale coincidenza, conseguenza, secondo una recente ipotesi, della particolare conformazione orografica del sito piuttosto che riflesso di una sostanziale stabilità dell'abitato~~. Parma conobbe una cinta muraria nel III secolo d.. (verso il 270), la cui erezione è stata messa in relazione con le pressioni delle popolazioni barbariche, in particolare gli Iutungis. Il nuovo perimetro avrebbe circondato un'area più ristretta rispetto a quella che, induttivamente, è stata collegata con l'espansione della prima età imperiale. Edifici pubblici posti in zone periferiche, come il teatro, costruito nel I secolo d.C., sarebbero stati precocemente smantellati per ricavare materiale da costruzione utili alla nuova fabbrica. Sulla cinta di Brescello possediamo solo notizie derivate da fonti narrative: sappiamo infatti che la città era provvista di difese da un passo di Paolo Diacono, il quale ci narra che le mura furono rase al suolo dai Longobardi tra il 584 e il 585-8. Più sicuro l'andamento e la cronologia delle mura di Ravenna, fatte costruire nella prima metà del V secolo da Onorio e Valentiniano, quando la città divenne capitale dell'Impero Romano di Occidente. L'unitarietà costruttiva di un percorso urbano eccezionalmente ancora conservato, è stata di recente e convincentemente riproposta da Christie e Gibson~s: nel nuovo perimetro urbano vennero inglobate esclusivamente le parti, meridionale e occidentale, della c.d. Ravenna quadrata, mentre il resto della cinta, di forma piuttosto irregolare, andava a chiudere un'area molto più ampia e che possiamo solo induttivamente ipotizzare come espressione di un'espansione edilizia della prima e media età imperiale. Anche l'andamento delle mura di Rimini è sufficientemente noto e ricostruibile con una certa attendibilità: esse cingevano l'intero perimetro urbano della città antica e la loro costruzione viene indizialmente datata verso la seconda metà del III
secolo. Bologna, infine, costituisce l'unico caso certo nel quale il perimetro andava a chiudere un'area sensibilmente ridotta rispetto all'estensione dell'abitato della prima età imperiale (Fig. 3). Se il circuito è oramai noto, anche in molti dettagli, grazie alle risultanze archeologiche, non unanime consenso vi è tra gli studiosi nei confronti della sua cronologia, che oscilla dalle proposte seriori del Finelli e dekdergonzoni (inizi V o seconda metà III secolo)S:' a quelle intermedie della Fasoli (fine V-inizi VI)s;, a quelle recenziori del Pini (fine VI-inizi VII)ss. Recenti dati archeologici consentono di collocare la c.d. cinta di selenite verso la fine del IV secolo (Fig. 4). Il secondo caso è rappresentato dalle città di Reggio Emilia e Modena, ricordate già da Ammiano Marcellino come oppidaS7' ma le cui testimonianze sulle mura sono piuttosto incerte. Per quanto concerne l'antica Regium Lepidi, tra il 1980 e il 1981, venne identificata una porzione di una cinta muraria nello scavo della banca Agricola Commerciale, ora Credito Romagnolo, ubicata direttamente a settentrione del tratto della via Emilia urbana. Il lacerto di muro, conservato solo in fondazione (a sacco di ciottoli di fiume legati con malta piuttosto povera), era largo circa m. 2 e sembra fosse provvisto di una torretta. Questa struttura, datata in un primo momento piuttosto genericamente, venne poi attribuita ad epoca tardo-antica, sulla scorta di confronti con mura del nord Italia. In questo caso, niente a che fare avrebbe con una porzione di cinta muraria, scoperta questa nel 1935, in prossimità dell'episcopio ed interpretata come, pertinente al castrum fatto erigere da un presule reggiano nel X secolo. Se il fatto che ambedue i tratti scoperti possano appartenere ad un'unica fase edificatoria resta problema aperto, è comunque certo dalle fonti scritte e dal ritrovamento del 1935, che una parte della città venne comunque rifortificata nell'altomedioevo. Anche delle presunte mura romane di Modena non abbiamo che labili indizi; è vero che la città venne "restaurata" dal re longobardo Cuniperto sul finire del secolo VIII, ma non è affatto sicuro che in quella circostanza siano state ricostruite, come si crede, le mura. Ancora secondo le fonti scritte, però, un perimetro difensivo, probabilmente costituito da soli terrapieni e fossati, chiudeva, nel IX secolo, la città che si era sviluppata intorno al nucleo dell'episcopio Il terzo caso è rappresentato, infine, dagli altri centri della regione. Cesena, la cui estensione dell'abitato in epoca romana è ancora incerta, viene citata nelle fonti tardo-antiche come corstrum ed è probabile che le difese siano state limitate al Garampo, un rilievo roccioso immediatamente a sud dell'abitato antico6s. Di Forlimpopoli non abbiamo alcuna informazione ma, se diamo credito alle parole di Paolo Diacono, dopo le distruzioni di Grimoaldo, il centro era pressocché disabitato66. Forum Corneli non risulta provvista di mura ma, dal IX secolo, è documentato un castello (Castrum Imolas ancora secondo l'indicazione di Paolo Diacono)67, che si ritiene ubicabile a sud del fiume Santerno, sulle prime propaggini collinari. La sua costruzione, tradizionalmente riferita al Longobardi, è stata invece di recente attribuita ai bizantini. Tuttavia è da rilevare una precoce e stanziale presenza di Longobardi in questi territori almeno a partire dall'ultimo quarto del VI seeolo70. I dati archeologiei, infatti, documentano una importante necropoli in podere Cardinala7~, non molto distante dal Monte Castellaccio, dove già nel secolo scorso furono rinvenute sepolture alto-medievali7z e sito tradizionalmente, e convincentemente, ritenuto sede del castrum Imolas (vd. supra). Ai Longobardi viene poi erroneamente assegnata anche la presunta distruzione dell'antica città, all'incirca negli stessi anni73: ma la fonte ravennate che ne parla è stata male interpretata e la ipotizzata distruzione della città viene destituita, dunque, di qualsiasi fondamento. Acquista allora altro rilievo, e piena coerenza con quanto riportato anche da Andrea Agnello, la menzione, in Paolo Diacono, di Forum Corneli tra le locapletibus urbis della regione. L'ipotesi che si fa strada, dunque, sembrerebbe vedere la presenza, negli anni tra l'ultimo quarto del VI e il primo quarto VII secolo, di un consistente nucleo di Longobardi, cui sarebbe anche da attribuire l'attribuzione del nome (se non addirittura la fondazione) del castrum Imolas. Tornando al problema delle fortificazioni sappiamo che l'episcopio, che almeno dal secolo IX si trovava fuori dell'antico centro abitato, sarà incastellato solo a partire dagli inizi del secolo XI e, in questa prima fase, I'apparato difensivo sembra circoscrivere esclusivamente gli edifici adibiti al culto e non l'intera area abitata.
Il quadro appena delineato, pur con alcune incertezze che derivano da una documentazione non ancora sufficientemente chiara, ci consente di avanzare alcune ipotesi interpretative. L'attività edificatoria è circoscrivibile a due specifici momenti della storia della regione, e cioè un primo periodo compreso tra il III e gli inizi del V secolo, e un secondo, compreso tra il IX e l'XI secolo. Il primo periodo coincide con una fase di forte instabilità, politica, istituzionale e militare, in cui la regione cade dopo 1a 1unga pax della prima età imperiale. L'anarchia militare e le forti pressioni, che d'ora in avanti esercitano le popolazioni barbariche, spingono alla realizzazione di opere difensive, costruite in tempi abbastanza brevi e facendo ampio uso di materiale di reimpiego. Tuttavia si tratta di intraprese realizzate ancora con una certa attenzione e cura, come testimoniano, ad esempio, le frequenti presenze di elementi aggiuntivi, quali le torri. Ma quello che qui interessa è sottolineare come, con l'eccezione del caso di Bologna, e forse di Parmaso, nessuna delle altre situazioni mostra caratteristiche tali da rilevare, insieme con la costruzione delle mura? un abbandono o decadimento di una porzione consistente della città. E anche possibile che una lettura cronologicamente frazionata dei singoli casi possa meglio giustificare questa discrasia: cioè gli episodi di Parma, Rimini e Ravenna (il primo e il secondo databili nella seconda metà del III, il terzo agli inizi del V) potrebbero anche spiegarsi con un atteggiamento previsionale di rioccupazione (Parma e Rimini) o di nuova occupazione legata ad un avvenimento eccezionale (Ravenna), dell'antico spazio urbano, mentre la costruzione delle mura bolognesi avverrebbe in un momento in cui la crisi dell'urbanesimo antico (fine IV secolo) sarebbe divenuta oramai irreversibile e tale, dunque, da sconsigliare un perimetro urbano ben oltre le effettive aree insediate da proteggere. Tuttavia tutto questo dimostra come la presenza di un elemento fisico quale quello delle mura, non può essere considerato, da solo, a giustificare una lettura corretta degli sviluppi urbanistici e demografici della città tardo-antica. Inoltre la cronologia di tutte queste intraprese edilizie attesta inequivocabilmente come i processi di trasformazione degli organismi urbani fossero già in atto nel corso del III secolo, come per altri versi dimostrano altre risultanze archeologiche di cui parleremo nel paragrafo seguente. La seconda fase edificatoria, ben identificabile nei casi diMutina e Regiam Lepidi, sembrerebbe documentare un momento di effettiva, anche se non generalizzata, contrazione insediativa di alcuni di questi centri. Nel caso di Modena la realizzazione di un sistema difensivo si data con il vescovo Leodoino, nell'89 1, il quale viene autorizzato a cingere di fosse e steccati 1'area dell'episcopio per l'estensione di un miglio. Per quanto riguarda Reggio è invece il vescovo Pietro che nell'ottobre del 900 ottiene dall'imperatore la facoltà di fortificare, anche lui, la zona dell'episcopio. Se non è un caso, dunque, che ambedue le intraprese edilizie siano promosse e volute dall'autorità vescovile, I'unica che in questo periodo riuscisse a ricondurre ad unità il frázionato potere ecclesiastico e temporale, nello stesso tempo dobbiamo anche rimarcare come tale specifica connotazione ridimensioni fortemente una interpretazione per così dire 'restrittiva' dell'area urbana realmente insediata. Tali iniziative, infatti, che trovano ad esempio un pèndant nella fortificazione dell'episcopio imolese di qualche anno più tarda, sembrano rientrare, più generalmente, in quel fenomeno di protezione che molte sedi episcopali conoscono proprio in questo periodo. Ed è significativo che nelle fonti reggiane, a partire dal secolo XI, si distingua tra castrum e civitas vetus, dove non vedrei necessariamente, in quel civitas vetus, un riferimento ad un'area abbandonata, bensì esclusivamente ad una porzione dell'abitato (antico) rimasta esterna alla zona effettivamente fortificata. 4. Lo spazio urbano: le città e 1'edilizia abitativa Da quanto esposto in precedenza appare dunque abbastanza evidente come, per conoscere lo sviluppo urbanistico dei centri abitati altomedievali, non ci si possa basare esclusivamente sull'analisi dell'area effettivamente circoscritta dalle mura cittadine (quando presenti), bensì verificare nel dettaglio la densità, oltre che la qualità, del tessuto insediativo: ed è, questo, problema ben più complesso. Negli ultimi anni si è fatto strada, ed ha preso sempre più corpo nel dibattito storiografico sull'area padana, il concetto di una forte disegualianza, politica, sociale ma anche culturale, tra la zona
occidentale dell'antica Regio VIII (cioè l'attuale Emilia) e la sua porzione orientale (I'odierna Romagna)a~: tale disegualianza, quando non vera e propria frattura, si sarebbe radicalizzata a partire dall'età longobarda per consolidarsi in epoca franca ed avrebbe investito svariati aspetti dell'organizzazione del territorio, fino ad incidere anche sugli organismi urbani. Ciò spiegherebbe, secondo taluni studiosi, una effettiva diversità tra la funzione svolta dalla città nell'area orientale della regione (la quale avrebbe mantenuto, insieme ad un ruolo di coordinamento della vita economica, amministrativa, sociale e politica, anche una fisionomia più organica sul piano dell'organizzazione degli spazi e della struttura materiale) di contro a quella della parte occidentale (la quale avrebbe perso, lentamente, la connotazione di centro operante sul territorio, assumendo un aspetto più marcatamente rurale). Una diversa lettura delle fonti scritte, ed ora anche di quelle archeologi che, suggerisce, tuttavia, una interpretazione leggermente più sfumata. Uno studio recente sull'edilizia residenziale nella tarda antichità nelI'area orientale di questa regione, esemplificata dall~analisi di una serie sufficientemente ampia di scavi archeologici, più o meno recenti, ha posto in evidenza due aspetti significativi: la cronologia e la natura degli abbandoniaG. Per quanto concerne il primo punto sembra accertato come una serie di distruzioni di domus urbane sia databile nel corso del III secolo. Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto, è stato rilevato come tali abbandoni siano quasi sempre collegati ad eventi di carattere traumatico (distruzioni, incendi etc.) e, quel che più conta, ad essi non abbiano fatto seguito nuove intraprese edilizie. Ciò significa che la crisi di un modello residenziale basato su ampie proprietà unifamiliari a sviluppo tendenzialmente estensivo, dati a ben prima dell' alto medioevo, e che a tale crisi non vi fu alcun tipo di risposta, se non di rioccupazıone parziale e parassitaria, mediante talora il frazionamento dell'antica unità catastale (fenomeno spesso archeologicamente di non facile individuazione, specie negli scavi condotti qualche decennio fa)..Le nuove intraprese edilizie, caratterizzate dalla realizzazione di modelli abitativi di antico regime, si colloca in un periodo compreso tra il V-VI secolo e, al momento, soprattutto in un'area specifica della regione. Una eco di questa edilizia di tipo aulico possiamo riscontrarla in una serie di probabili sedi di funzionari pubblici, che adottano ancora unità abitative complesse, quasi una reduplicazione delle più importanti residenze imperiali, provviste di ampie aree cortilizie, lunghi ambulacri e aole absidate spesso decorate in mosaico o sectile, con chiare funzi~i di rappresentanza e amministrative: se ne conoscono esempi a Riminia~~, Cesena~~'(Fig. 5), Faenzas~ (Figg. 6-7) ed Imola. Ma si tratta, ed è evidente anche dalla rarità di tali intraprese, di episodi circoscritti nel tempo e che andavano ad innescarsi in un tessuto urbano oramai disgregato; fatto questo non in contraddizione con una loro ubicazione in specifici settori della città, dove paiono concentrarsi anche altre sedi, sul piano istituzionale altrettanto rilevanti. Sulla stessa scia possiamo inserire anche alcuni tardi edifici di epoca gota, di cui si hanno esempi ancora in Romagna, alcuni dei quali direttamente collegabili alla figura di Teodorico (Palazzolo presso Ravenna) (Fig. 8), altri, con tutta probabilità, ad alti funzionari della sua corte (Galeata, Meldola)(Figg. 9-10). Al di là delle ascendenze tipologiche di queste strutture, è interessante notare come, contemporaneamente, I'edilizia venga a caratterizzarsi per la presenza di ampie aule pilastrate dislocate intorno ad un cortile centrale anche nell'area occidentale della regione: la loro individuazione in ambito urbano è più difficoltosa, ma non è improbabile che una struttura del genere debba riconoscersi in un'aula scoperta di recente a Parma, nell'area dell'ex Cinema Capitols7. Del frazionamento delle antiche unità catastali abbiamo una eco tardiva, ma non per questo meno significativa, nella documentazione scritta. I numerosi atti privati altomedievali che riguardano città come Rimini o Ravenna (ma anche altre città della Pentapoli qui non analizzate)sa sono, sotto questo profilo, estremamente illuminanti, poichè, quando fanno riferimento ad edifici di carattere abitativo, descrivono quasi sempre case di dimensioni modeste, non sempre con il piano superiore, spesso accorpate tra di loro e provviste di portico, talora con il fronte su una via pubblica, con un lato confinante con una andronella e con il retro che dava in una corte attrezzata di servizi in comune (come i pozzi).
Qualche indicazione archeologica ci viene fornita dallo scavo del quartiere portuale di C lasse (podere Chiavichetta) dove, nel corso del VII secolo (questa l'indicazione fornita dagli archeologi), il grande portico a pilastri dell'edificio ovest del quartiere B venne chiuso e suddiviso in piccole stanze, con divisori costituiti da muretti a secco di laterizi di recupero e tramezzi lignei, provviste di focolari e con tutta probabilità usate come abitazioni. Lo stesso avviene in un altro grande edificio del quartiere A, che già parzialmente demolito e privo di tetto, venne ristrutturato per la realizzazione di una abitazione. La nuova casa era costituita da un unico vano di forma rettangolare (m. 4x7,5), ubicato nell'angolo nord-occidentale del magazzino, confinante da un lato con una grande strada basolata (ancora in funzione) e dall'altro con uno stretto viottolo (sotto il quale correva una fogna), che conduceva direttamente al porto-canale (Fig. 11). All'edificio si accedeva mediante due ingressi: uno ubicato a settentrione, su quella che usando un termine che diverrà comune nella documentazione alto-medievale di quest'area, potremmo chiamare andronella, l'altro a meridione, posto in relazione con un porticato. Da questo porticato, poi, si accedeva anche all'antica corte del magazzino con pozzo e ad alcuni ambienti di servizio retrostanti l'edificio, dove era con tutta probabilità ubicata la scala per salire al piano superiore (Fig. 12). Anche analizzando la sola collocazione topografica dell'edificio, impressiona la forte analogia con le case attestate in Ravenna già nelle fonti scritte di VII secolo, con un fronte su una strada pubblica ed un lato confinante con una andronella. Se dunque il frazionamento costituisce una delle soluzioni in cui si realizza la disgregazione della antiche unità catastali, nello stesso tempo si avvertono anche altri modi di riconversione degli spazi abitativi. Alcune aree, ad esempio, vengono utilizzate per l'impianto di attività artigianali (Rimini, domus di Palazzo Diotallevi, altre per far posto a strutture d'uso pubblico (a Ravenna i c.d. Bagni del Clero impiantati al di sopra di una domus)~o~7 o destinate alla liturgia (es. chiese: vd. ancora a Ravenna l'edificio al di sotto di Santa Croce). Tuttavia questo processo di disgregazione dovette portare anche alla citazione di ampi spazi vuoti: “domo in integro que nunc destructa esse videtur ”, recita un documento ravennate del 982; “spatio terre in integrum ubi dudum sala fuit, que modo in ruinis esse videtur”, leggiamo ancora in un documento ravennate dello stesso anno~oó. Se i casi ora citati ci portano però ad un'epoca piuttosto tarda (X secolo), non è improbabile riconoscere nelle coeve testimonianze di spazi incolti, usati ad orto o a vigna, all'interno e nelle immediate vicinanze della città, una eco di un processo iniziato ben prima di quelle date'. Il quadro che ne esce sembra confermare in pieno l'impressione di una città che si sviluppa oramai ad isole, secondo una espressione usata qualche anno fa da Brogiolo a proposito di Brescia, e che mi sentirei di riproporre nella stessa maniera anche per gli antichi centri abitati dell'antica Regio VIII. I documenti che abbiamo ricordato (e non è stata scelta casuale) riguardano prevalentemente Ravenna, dove il quadro insediativo non sembra apparire molto diverso da quanto è stato ipotizzato per altri centri della regione, nei quali, secondo taluni studiosi, il processo, per così dire di "ruralizzazione", sarebbe stato maggiore e più vistoso. 5. Strutture e tecniche nell'edilizia abitativa Le fonti scritte sulle case alto-medievali sono da tempo note e a lungo discusse: non è dunque il caso tornarvi con un'analisi di dettaglio. Le carte relative ad una serie di edifici di città della Pentapoli attestano ancora l'esistenza di case costruite secondo tecniche di antica tradizione: in muratura e con copertura in mattoni. Il tenore di vita, inoltre, sembra essere in qualche caso ancora abbastanza elevato: talora si parla, infatti, di “ balneum, cun vaso et fistula”, di cisterne, di lavelli marmorei. Scavi archeologici non hanno per il momento messo in luce alcuna di queste strutture, se non il precoce edifico sopra menzionato di Classe (Figg. 11-12), ed è quindi impossibile una verifica sulla effettiva rappresentatività di tale modello. Nello stesso tempo, ed ancora nelle fonti relative alla Pentapoli, fanno la comparsa descrizioni che riferiscono di edifici costruiti in legno (“axe columnello constructa”), oppure con murature in terra (“exluto”), o ancoracon coperture in legno (“scindolis”). Nonostante risultino
più difficili da individuare e riconoscere in scavo, le tracce archeologiche di un'edilizia in legno sono, per quanto ancora modeste, attestate in alcuni siti della regione. Se escludiamo i riferimenti ad edifici di legno, segnalati ma non pubblicati, a Piacenza, Parma e Fidenza, un caso abbastanza eccezionale è rappresentato dalle abitazioni scavate in Corso Porta Reno a Ferrara. In questo contesto, ubicato in un'area in prossimità del sito della nuova cattedrale (ma certamente urbanizzata nell'alto-medioevo), sono stati individuati una serie di edifici in legno sovrapposti. Per il primo (Building3) è incerta la sua funzione di abitazione (Fig. 13): potrebbe esser servito come laboratorio o ricovero per animali. Nella stessa area sono stati impiantati quattro successivi edifici, ancora in legno, identificati attraverso una serrata sequenza di battuti pavimentali (Ho?`se4, 8, 11 e 13): la loro funzione, quali abitazioni, sembra sicura. Di queste case solo l'ultima (Hoa~se 13) presentava ancora parti ben conservate dei divisori in legno, che scandivano la struttura in tre ambienti (Fig. 14). Tali divisori erano costituiti da lunghe travi orizzontali poggiate direttamente sul terreno e rincalzate da frammenti di laterizi. I modi di realizzazione, con incassi per Unserimento di porte, dimostrano una tecnica di carpenteria piuttosto evoluta. In tutte le fasi sono stati individuati focolari a fiamma libera, ubicati in posizioni diversificate, e latrine. Solo nel corso del XIII secolo la sequenza di edifici in legno si interrompe con la realizzazione di una casa in muratura di mattoni, che ne ripercorre però i perimetrali. La cronologia degli edifici, fino alla casa 15 (quella in muratura), resta al momento incerta: essa si colloca comunque dopo il VII secolo e prima del XIII. Si è obiettato che essendo Ferrar città di recente fondazione, la scarsità di materiale da costruzione di recupero (pietra, marmo, laterizi), avrebbe favorito un'edilizia esclusivamente lignea. Ma questo non è il caso di Bologna. Negli scavi di piazza del Maggiore (settore 2) e dell'ex sala Borse, sono stati individuati i resti di due edifici in legno, che, almeno in un caso, è certo trattarsi di una residenza abitativa~20. Del primo (settore 2) si sono riconosciute le tracce archeologiche di parte dei perimetrali orientale e meridionale (per una lunghezza residua di m. 4,50 e 5), costituite da modesti incassi nel terreno per l'alloggiamento di travi lignee orizzontali (rincalzate da pezzame laterizio) e dalla presenza di un blocco di selenite, forse per l'appoggio di un palo verticale. In fase con questo edificio conosciamo vari livelli di battuti pavimentali e un focolare a fiamma libera, in prossimità del perimetrale est. Come nel caso ferrarese sopra citato, I'edificio ripeteva, almeno nelle parti conservate, I'andamento di quelli che saranno i muri in laterizio e selenite della casa posteriore (databile tra XII e XIII secolo). Questa abitazione di legno, inoltre, si sovrapponeva alla spoliazione delle imponenti strutture di un grande edificio pubblico di epoca romana, che erano in parte sopravvissute durante l'altomedioevo. Una situazione analoga si è rilevata nel settore aperto negli ambienti dell'ex Salà Borse, ubicato anch'esso all'interno di un' antica izzsula, nella quale si identifica parte dell' area forense della città romana. In questo caso l'edificio, con tutta probabilità una casa, è stato identificato per la presenza di una serie di battuti pavimentali, delimitati, su un lato, dall'allineamento di tre grosse buche per l'alloggiamento di pali lignei, con un interasse di circa m. 3. Tale edificio era precedente ad una casa in muratura (XIII secolo), che solo in parte ne ripercorreva i perimetrali, e, come nel caso del settore 2 di piazza Maggiore, immediatamente anteriore alle spoliazioni di un altro edificio pubblico romano: ciò significa che asportazioni di murature antiche e ricostruzioni di edifici in laterizi, come nel caso rilevato in piazza Maggiore, non furono strettamente consequenziali. Gli esempi presentati sono pochi per generalizzazioni, tuttavia consentono di formulare alcune riflessioni, così sintetizzabili:. a) una edilizia in legno sembra prevalente fino almeno al XII secolo e questo anche in città di antica fondazione. Nel caso di Bologna, inoltre, ambedue gli edifici si collocano in una zona centrale dell'abitato, all'interno della cerchia di selenite, non lontani dall'area della sede episcopale~?~ e del (:astello Imperialet; inoltre uno di questi si affaccia lungo una strada importante, un cardine dell'antica città (forse il cardine massimo), ancora funzionante per tutto l'alto medioevo (la c.d. platea maior).
b) ancora nel caso di Bologna una parte degli edifici antichi sopravvisse a lungo durante l'alto-medioevo e certamente venne riutilizzata. La loro definitiva spoliazione, che sembra direttamente ricollegabile con la ripresa edilizia dei secoli XI-XII, non pare invece strettamente riferibile alle nuove case in muratura che vi si sovrapposero solo tempo dopo. c) sia nel caso di Ferrara che di Bologna si rileva una persistenza nei limiti di proprietà degli edifici in legno con quelli in muratura. 6. Città, alluioni, "dark earth" e infrastrutture È da tempo noto come una, delle caratteristiche delle città alto-medievali dell'area padana, sia da identificare in una forte crescita dei piani d'uso e in una conseguente formazione di più o meno spessi depositi archeologici~24. Scavi recenti hanno documentato la presenza di "dark earth" a Parma e Bologna~2s: altri sono induttivamente segnalabili a Modena, attraverso una lettura più attenta della documentazione di Archivio~?ó. Minori attestazioni, invece, si hanno per le presunte alluvioni, che avrebbero devastato la regione in epoca tardo-antica e nel primo alto-medioevo e di cui si ha memoria soprattutto nella documentazione agiografica e nella cronachistica: sembra questo più un toposletterario che un dato reale, da non estendere erroneamente, come è stato anche fatto, a quasi tutte le città della Regio VIII, ma che non va di converso neppure sottavalutato. Scavi recenti, condotti nel centro di Modena, hanno parzialmente confermato le indicazioni, peraltro già presenti nella letteratura archeologica locale, di spessi sedimi alluvionali tra le fasi romane (o tardo-romane) e quelle alto-medievali. I depositi alluvionali rilevati in piazza Grande sono stati anche datati a non prima dell'ultimo venticinquennio del VI secolo, in quanto ricoprivano un sarcofago contenente, tra le altre inumazioni, le spoglie di una donna longobarda sepolta con corredo della prima fase delle migrazioni (Fig. 15). È comunque evidente che l'immagine colorita di una anonima fonte del X secolo, che descrive la città “invasa dalle acque e circondata da fiumi, stagni e paludi” debba essere mitigata. I depositi alluvionali riscontrati in piazza Grande, infatti, decrescevano (ma non scomparivano) nel saggio A, quello in prossimità dell'attuale cattedrale, suggerendo l'ipotesi che la chiesa fosse stata costruita su un rilevato forse naturale(Fig. 16); in altri punti della città antica, e forse non a caso in quelli dove maggiori sono i segni di una persistenza dell'assetto urbanistico di età romana, la presenza di depositi alluvionali sembra minore e la stratificazione archeologica pare più vicina ai tradizionali trend riscontrati nelle altre città di pianura. Pochi dati si posseggono poi sulla durata delle infrastrutture, come ad esempio fogne, acquedotti e strade, anche se generalmente si tende a sostenere il loro interramento nel primo caso, il loro disuso nel secondo e nel terzo. Per quanto riguarda i forti depositi di terre nere è noto come sia ancora aperto:;il dibattito sulla loro natura: non entreremo quindi nel merito del problema, rimandando direttamente ad altri specifici studi. Più interessante è invece il problema della durata della loro formazione, che generalmente si tende a collocare in un lungo arco di tempo. Recenti studi su situazioni analoghe riscontrate in Inghilterra sembrano indicare che questi depositi si formarono in epoca tardo-romana e comunque in tempi piuttosto brevi'30. Qualche caso del genere è possibile documentare anche per la nostra area. Ancora a Bologna, ad esempio, un deposito di "dark earth" ricopriva una strada basolata romana nel settore 2 del già citato scavo di piazza Maggiore: i materiali rinvenuti al suo interno, tuttavia, sembrano indicare un periodo di formazione molto breve (verso il VI secolo), cui non è estraneo il fatto che la strada venne subito ricostruita in pezzame laterizio. Anche in questo caso non è corretto generalizzare: tuttavia mi sembra opportuno rimettere in discussione l'automatica affermazione che questi depositi siano il frutto di attività prolungatesi a lungo nel tempo. Veniamo infine al problema delle strade. Il forte conservatorismo degli impianti antichi della stragrande maggioranza delle città di antica fondazione della nostra regione può essere più facilmente spiegato con una persistenza d'uso nei percorsi stradali. Il caso di Bologna risulta fortemente emblematico. Possiamo distinguere due casi: strade suburbane e strade urbane. Per quanto riguarda le strade suburbane è stata provata una cesura (coincidente all'incirca con l'età alto-medievale) e una
successiva ripresa costruttiva in epoca comunale. La spiegazione che questi percorsi siano rimasti in funzione come piste in terra battuta sembra dunque estremamente plausibile. Nei due casi, invece, di strade urbane scavate, non solo è stata documentata una continuità d'uso, ma anche una continuità di manutenzionee e frequenti ricostruzione, anche se con tecniche certamente diverse. Del resto non vi è molta diversità con quanto avveniva anche in epoca romana, quando quasi solo le strade urbane erano basolate ed altre tecniche venivano impiegate per quelle suburbane ed extra urbane. Questa "continuità", non solo d'uso ma anche di ricostruzione, 7 sembra rilevarsi pure in altri casi, come in più punti nella città di Ravenna e : persino a Modena, per aree rimaste poi al di fuori dell'abitato alto-medievale. 7. Conclusioni Difficile proporre una conclusione in ragione di processi formativi ed evolutivi ancora fortemente discontinui nella documentazione archeologica: tenteremo tuttavia di focalizzare gli elementi che ci sono parsi più significativi nella panoramica ora presentata. La crisi dell'urbanesimo, o, se vogliamo usare un termine meno impegnativo, la sua trasformazione, ha radici abbastanza precoci. Sul piano dell'edilizia privata i primi sintomi di dissoluzione dei modelli abitativi d'antica origine datano almeno partire dal III secolo. Le monumentali intraprese edilizie successive (non posteriori comunque al VI secolo) si ricollegano a fatti specifici e circoscritti. Nulla purtroppo conosciamo dell'edilizia di potere alto-medievale e poco, nello specifico, di quella ecclesiastica: resta questo un campo tutto da indagare. Per quanto riguarda il versante abitativo i pochi casi archeologicamente documentati attestano una prevalente edilizia in legno ancora fino al secolo XII. Le fonti scritte, anche di area bizantina, non sembrano in contraddizione con questa tendenza, anche se in taluni casi paiono documentare l'impiego di tecniche d'antico regime: questo non solo per quanto concerne l'adozione di materiali quali la pietra o il laterizio, ma anche nell'uso di costruire in argilla, già noto, nelle stesse aree (es. Rimini), in epoca romana. Sul versante urbanistico le presunte e generalizzate contrazioni delle città, che sarebbero archeologicamente provate dalla realizzazione delle mura, si riducono a non molti casi, peraltro di cronologia non sicura e comunque scaglionati nel tempo. La crescita dei depositi urbani e il dissesto delle antiche strutture e infrastrutture, nonostante la valgata, raramente è imputabile a fenomeni esondativi. Più frequente la presenza di spessi depositi di "dark earth" che, anche nella nostra regione, paiono separare le sequenze tra l'epoca romana e la ripresa edilizia dei secoli XI-XII. Tuttavia, anche in questo caso, è opportuno rifuggire da facili generalizzazioni, non solo nell'identificazione unilaterale delle cause ma anche, e soprattutto, dei tempi di formazione. Il recuE'ero di materiale edilizio, fenomeno ampiamente noto, proseguì certamente nell'alto-medioevo, ma probabilmente in forme meno macroscopiche che non in età tardo-antica e nei secoli XI-XII. La ripresa edilizia immediatamente posteriore al Mille, cui è imputabile, a mio parere, la defintiiva e totale scornparsa di gran parte delle testimonianze archeologiche antiche, non sembra ancora direttamente collegabile con una diffusa edilizia abitativa in muratura. Almeno`nella Regio VIII le città di antica fondazione si conservano e, a fronte di poche defezione, nuovi centri vengono fondati: restano quali sedi del potere, mantengono una funzione di controllo territoriale, sono ancora il veicolo principale dei traffici commerciali. Ma la qualità della vita è certamente mutata. -Si modificano, I'abbiamo detto, le tipologie abitative; si frazionano le antiche unità catastali. Anche sul versante delle produzioni materiali il legno sostituisce il metallo e la ceramica; le fini produzioni da mensa scompaiono; i contenitori commerciali sono sempre più rari. Anche se la decadenza delle infrastrutture non è generalizzata (insieme a casi di abbandono o collasso dei sistemi fognari, si assiste ancora ad una costante manutenzione e ricostruzione dei percorsi stradali) ampie zone dell'antico abitato rimangono deserte ed utilizzate ad orti. La città, in sostanza, sopravvive, per riprendere una definizione cara al dibattito storiografico di questi ultimi anni, in bilico costante tra "continutà" e "frattura".
SAURO GELICHI A causa di problemi di acquisizione a computer, non è stato possibile inserire le note e la bibliografia.
La Toscana centro-meridionale: i casi di Cosa-Ansedonia e Roselle 1
1. Ansedonia, da centro bizantino a castello medievale Le campagne di scavo condotte fra gli anni 1990 e 1993 hanno avuto per oggetto le fasi più tarde della storia di Cosa:. Secondo una stimolante ipotesi l'occupazione delle alture in questa parte della Maremma sarebbe ricominciata verso la metà del V secolo, dopo le invasioni dei Goti e Cosa appariva un luogo ideale per verificarla. Lo scavo ha seguito due strategie: saggi di grande estensione sull'arx e nel foro e piccoli saggi-campione, finalizzati a determinare i limiti cronologici dell'occupazione di Cosa, dislocati nella maggior parte delle insulae della città romana. Secondo i dati finora emersi, I'esigua occupazione della prima metà del III d.C. (da collegare all'istituzione della res pablica Cosanoram 4) si concluse alla fine del secolo con l'abbandono pressoché totale della città. Restarono in vita solo una casa, forse con funzioni amministrative, e il santuario di Liber Pater da interpretare, a questo punto, come santuario rurale. L’area della città fu rioccupata solo verso l'inizio del VI secolo, se non più tardi. Sull'arx fu costruita una mansio con un granaio, un fienile e stalle sufficienti a sistemare circa quindici cavalli. Dopo che un incendio ebbe distrutto il granaio, l'arx fu fortificata con un muro che chiudeva il preesistente circuitO5 ancora riferibile alla colonia (Figg. 2-3). L'area fu abitata fino alla fine del VI secolo; a partire da questa data e fino alla fine del X secolo manca, sull'arrx, qualsiasi traccia di frequentazione. Se le costruzioni sull'arx sembrano aver avuto funzioni militari e amministrative, quelle contemporanee del foro sembrano riferibili almeno in parte ad un abitato a carattere civile. Sui resti della basilica romana furono costruiti una chiesa e un grosso forno da pane. Il foro e le insulae attigue furono circondati da un muro con porte a sud, verso l'arx, e a ovest, verso la porta nord-ovest. L'accesso principale all'insediamento era la c.d. Porta Romana, a nord-est, dalla quale una strada portava verso il foro passando con una rampa sui ruderi della curia, per poi proseguire verso l'arx. Accanto a questa strada era un piccolo cimitero, connesso alla nuova chiesa. L'insediamento era comunque molto limitato e costituito da poche case di pietra e malta. L'interpretazione del sito in questo periodo deve tenere conto di due componenti: la mansio fortificata e l'abitato civile. In un primo tempo si è interpretata la mansio come elemento, insieme con Talamone e Roselle, di un programma statale di fortificazione della costa e della Via Aurelia, simile alle catene di castra che controllavano la costa ligure o la Via Flaminia6. L'esistenza dell'insediamento civile del foro sembra dare a Cosa un ruolo più ampio nella sistemazione territoriale della costa: poteva essere il centro amministrativo, la civitas (come sarà poi chiamata nei documenti bassomedievali) cui faceva riferimento l'area. La presenza nella città di funzionari dell'amministrazione bizantina - uno scriniarius e un consiliarus- parenti di un arcidiacono della chiesa romana, va a favore di questa ipotesi7. E infine, su una iscrizione trovata sull'arx e databile, in base alla paleografia, nel corso del VI secolo, compare una Neapolis che potrebbe dimostrare l'ampiezza della visione con cui il centro fu fondato. La limitatezza dell'abitato mostra però che l'ambizioso progetto fu attuato solo in minima parte. Si tratterebbe quindi non della ricostruzione di Cosa, ma della fondazione di una città del tutto nuova: Ansedonia 8. La cittadella sull'arx ospitava certamente un piccolo numero di soldati, come dimostrano due fibule a braccia simmetriche trovate sul posto 9. L'organizzazione territoriale e militare bizantina non sembra essere sopravvissuta all'invasione longobarda: I'insediamento e la chiesa furono del tutto abbandonati. Solo più tardi fu costruita una seconda chiesa nelle rovine del tempio B nel foro, e accanto si organizzò un cimitero piuttosto vasto con oltre duccento inumazioni senza corredo. In attesa di una datazione al radiocarbonio si propone di associare questitresti con un abitato sparso di capanne individuato nell'area della città (Fig. 4). Nel 1993 sono state scavate due capanne: si tratta di strutture rettangolari tagliate negli strati romani di distruzione, interrate per circa 40 cm (Fig. 5). Una delle due capanne, nei pressi del foro, misurava 4.5 x 4 metri e si può supporre, in base allo strato di crollo, che avesse almeno uno zoccolo in pietra; l'altra, sull'altura orientale,
misurava 4.5 x 10 metri e conservava tracce di strutture in legno. Un terzo esempio, con fondazioni in blocchi grossolani di pietra, è stato riconosciuto a sud-ovest dell'arx, ma non ha restituito materiale datante. L'abitato è quindi costituito di case isolate e sparse che hanno come unico punto di riferimento comune la chiesa con il cimitero. Il confronto più stringente si ha con le capanne seminterrate scavate a Brescia e in altri luoghi dell'Italia del nord, datate in genere nel primo periodo longobardo 10. Si può anche pensare ad una analogia con i piccoli siti rurali dello stesso periodo, individuati nella valle dell'Albagna 11. Il raro materiale, in massima parte brocche a fondo piatto con piccole anse a nastro, è del tutto simile nelle capanne di Cosa e nei siti rurali. L'uso del cimitero cessò con la costruzione di un nuovo sistema difensivo attorno all'altura orientale (Fig. 6). Le fortificazioni, che si congiungevano alle mura di cinta romane, consistevano in un doppio fossato con aggere interposto ed erano difese in un punto da una piccola torre e da una postierla. All'interno, subito sotto il punto più alto della collina, un terzo fossato è stato riconosciuto nel 1993. Non si sa perà a quale abitato si possa riferire: sulla sommità della collina sono stati riconosciuti buchi di palo, ma manca del tutto materiale datante. L'abbandono della fortificazione in terra sembra collocarsi fra il IX e l'XI secolo. Manca del tutto la ceramica invetriata, con l'eccezione di un frammento a vetrina sparsa nel riempimento del fossato più interno. È quindi difficile stabilire se ci sia stata continuità fra questo insediamento e la costruzione del castello sull'altura orientale. Il castello è delimitato da una cinta muraria che copre il fossato della fase precedente, ha una torre interna e alcune strutture sussidiarie (Fig. 6). L'ottima muratura di tipo romanico sembrerebbe datare l'insieme al XII secolo. Successivamente la torre fu ulteriormente rinforzata sui lati ovest e sud con una struttura a scarpa all'interno della quale era una grande cisterna, trovata in buonissimo stato di conservazione. Un bacino di raccolta intonacato permetteva di immettervi l'acqua piovana. La cisterna sembra aver cambiato ben presto funzione: graffiti al suo interno (varie croci, due barche dipinte e la data in caratteri gotici An(no) D(o)m(ini) MCCX) testimoniano un possibile uso come prigione. Il confronto fra la sequenza archeologica e la documentazione scritta chiarisce solo l'ultima fase di vita del sito. Ansedonia compare in documenti d'archivio per la prima volta nel 1081, in una lista di proprietà del monastero di San Paolo fuori le Mura di Roma. È presente poi in una serie di bolle di conferma dei possedimenti maremmani dell'Abbazia di S. Anastasio ad Aquas Salias o delle Tre Fontane, databili a partire dal terzo quarto del XII secolo 12. La costruzione del piccolo castello fu probabilmente un'iniziativa dell'Abbazia che attud un vasto progetto di incastellamento nei suoi possedimenti dando all'antico Cosano l'assetto ben documentato nel XIII secolo quando la Maremma passù pressoché tutta agli Aldobrandeschiti. E. F. 2. Roselle, da sede vescovile a "castram" Il complesso tardoantico e altomedievale alle pendici della collina nord di Roselle, comprendente la possibile cattedrale e un vasto cimitero, è in corso di scavo dal 1987 14. Dati sulle fasi più tarde della storia di Roselle sonò emersi negli ultimi anni anche in altre zone del centro monumentale 15. La fase tardoantica di Roselle sembra rientrare in uno schema piuttosto consueto: una prima evidente cesura nella storia della città si colloca fra la fine del III e il IV secolo, quando gli edifici del centro monumentale appaiono riusati con funzioni totalmente diverse da quelle originarie (è il caso della Domus dei Mosaici, occupata in buona parte da un fabbro che riciclava bronzi di età precedentetó) oppure sono già in abbandono e in rovina, come 1'edificio termale di età adrianea su cui verrà poi costruita la chiesa. Mancano del tutto dati sul foro, mentre un quartiere di abitazione compreso fra le terme e il foro 17 sembra utilizzato con continuità almeno per tutta l'età imperiale (Fig. 7). In questo panorama estremamente frammentario scompare la documentazione epigrafica 18, si rarefà, soprattutto a partire dal 360, la circolazione monetaria 19, e si arresta ogni attività edilizia nel centro cittadino. Bisogna però registrare un intervento di carattere monumentale in un'area periferica
della città: un nuovo impianto termale viene costruito nei pressi della porta orientale, detta Porta Romana (Fig. 7, f). Questo edificio viene dedicato, come testimonia una complessa iscrizione metrica, da un corrector Tascinert Umbriae, che si colloca nella seconda metà del IV secolo 20. L'intervento è segno di un cambiamento nel rapporto fra la città e il territorio, con una tangibile perdita di importanza del quartiere centrale intorno al foro, in posizione di sommità, a favore di una zona bassa e periferica, ma vicina alla porta e quindi alle vie di comunicazione e alla campagna. L'edificazione delle nuove terme sembra però avere soprattutto un carattere artificiale, che contrasta con il profondo degrado della vita urbana. A questo proposito appare significativo il ritrovamento di un fondo di capanna circolare sulla superficie degli strati di crollo delle terme di età adrianea, da collocare fra il IV secolo (crollo delle terme) e la fine del V (impianto del complesso paleocristiano). Questo dato, finora isolato, potrebbe essere indizio di presenze analoghe in altre parti dell'area centrale e particolarmente nel foro. La chiesa fu costruita sulle rovine delle terme, riutilizzando il grande peristilio con piscina centrale e alcuni ambienti minori adiacenti 21 (Fig. 8, amb. 1-3, 6-7, 12-15; Fig. 9). La datazione dell'edificio, scavato pressoché integralmente negli anni '30 e '40 22 (Fig. 10), è complessa; per il momento si ipotizza che l'edificazione della chiesa coincida con la prima sistemazione del circostante cimitero (fine V - inizi VI), anche sulla base della tipologia piuttosto antica della vasca battesimale (Fig. 8, amb. 14). Si tratta dell'unica chiesa finora riconosciuta all'interno della città, ma mancano elementi certi che permettano una identificazione definitiva con la cattedrale di Roselle, nota come sede vescovile almeno dal 49933. Intorno alla chiesa, sulla pendice a nord e davanti alla facciata, la più antica fase cimiteriale si organizza ordinatamente a terrazze. La tombe sono regolari, distanziate, ben costruite e orientate a nord-ovest. Sono scavate in uno strato datato da africana D e da ceramiche a gocciolature o a bande di ingobbio rosso e contengono corredi databili fra il VI e la metà del VII secolo. FQjrse già nel VI secolo un edificio viene costruito sopra alcune tombe di primalase in un'area antistante la chiesa dove sono particolarmente fitte le tombe di bambini. Sembra consistere in un recinto, costruito per un tratto in opera a telaio, che contiene un basamento in grossi blocchi di travertino e un focolare. Potrebbe trattarsi di una sepoltura privilegiata, ma per il momento non è emerso alcun elemento utile a verificare o escludere questa ipotesi. Il VI secolo vede nel centro monumentale di Roselle anche altri mutamenti sostanziali: la strada basolata di età imperiale che conduceva alle terme viene abbandonata e sostituita da un percorso di livello più elevato, probabilmente in terra mista a materiali di crollo, terrazzato da un muro in opera a telaio che oblitera, almeno in gran parte, gli ingressi delle case-botteghe adiacenti alle pendici della collina nord (Fig. 7, b), ma che non sembra essere parte di una fortificazione24. Con la fine del VI secolo Roselle è però uno dei residui caposaldi bizantini sulla costa toscana25, e non è improbabile che sia stata dotata di una fortezza. Ipoteticamente si propone di individuarla nell'anfiteatro (Fig. 7, e), in ottima posizione strategica sulla sommità della collina nord, il quale, persa la sua funzione originaria, potrebbe essere stato occupato da costruzioni e fortificato già in questa fase così antica. Le tracce, per altro cospicue, di mura di fortificazione conservate a nord e a ovest dell'edificio sono però di cronologia incerta, e l'occupazione dell'arena è documentata con certezza solo a partire dal XIV secolo 26. Tornando al complesso cristiano, una fase edilizia certa della chiesa è riconoscibile nella ridecorazione complessiva di cui restano numerosi elementi (plutei, pilastrini di recinzione, un frammento di ciborio), riconducibili alla fine dell'VIII secolo 27. Su uno dei plutei (Fig. 1 1), oggi inserito in un muro del podere "il Serpaio" ai piedi di Roselle, è presente una firma (Magester Iolannes) 28. Interventi analoghi, collocabili fra metà VIII e inizi IX secolo, sono testimoniati in altre chiese cattedrali, come ad esempio a Luni e a Sovana 29. La seconda fase di uso del cimitero è caratterizzata dall'assenza di oggetti associati alle inumazioni; in mancanza di elementi certi di cronologia si suppone che questa fase si sviluppi fra la fine del VII secolo e l'abbandono dell'area, nel XII secolo. Le tombe di nuovo tipo, molto più numerose delle precedenti, sono disposte in modo caotico, le une sulle altre, dove possibile tagliando muri e crolli; sono costruite con lastre di pietra sottili e irregolari ed hanno forma antropoide.
La chiesa infine viene dotata di una massiccia torre (Fig. 8, amb. 13), appoggiata alla facciata e accessibile solo dall'interno della chiesa stessa, databile fra X e XI secolo 30. La costruzione della torre rende disagevole o impossibile l'uso del fonte battesimale, mentre all'esterno della chiesa sconvolge numerose sepolture: mucchi di ossa sono stati trovati nella fossa di fondazione e nelle immediate vicinanze. Il cimitero non venne più usato probabilmente a partire dal XII secolo, forse a seguito della traslazione della sede vescovile (1138) 31. L'area in seguito venne fortificata con muri di tecnica molto rozza, costruiti sopra gli ultimi strati di sepolture. Si tratta probabilmente delle fortificazioni del castello di Roselle, citato in alcuni documenti di XII e XIII secolo successivi alla traslazione della sede vescovile 32 . In base ai dati archeologici sembra che il castrum si limitasse alla collina nord, dacui peraltrovengono le attestazioni più tarde della frequentazione di Roselle, di circa tre secoli più lunga di quanto testimoniano i documenti 33. In queste ultime fasi l'area abitata si ridusse al solo anfiteatro, diventato rifugio di una piccola comunità che si estinse solo nel XVI secolo. M. C. 3. Considerazioni conclusive Nella Toscana centro-meridionale, almeno a partire dalla fine del II secolo, si assiste ad una riduzione delle città a centri amministrativi e di servizio, di esigua o quasi nulla rilevanza demografica. È questo il caso dei tre capoluoghi del vecchio territorio vulcente (Cosa, Heba e Saturnia 34), colonie di età repubblicana che avevano ormai da tempo esaurito il loro ruolo, ma anche probabilmente di centri più antichi quali Populonia e Vetulonia. Appaiono significative a questo proposito le attestazioni di curatores republicae a Cosa, eba, e Vetolonia nel III secolo, che segnalano un impegno economico e organizzativo del governo centrale in centri urbani ormai degradati e con le finanze in dissesto 35 nessuno dei quali diventerà in seguito sede vescovile. Già con il IV secolo molti di questi centri non possono più essere definiti città: Heba regredisce a villaggio, mentre a Cosa sembra frequentato un unico edificio oltre al santuario di Liber Pater; a Saturnia, ancora vitale nel III secolo, manca del tutto ceramica di IV (M. Michelucci, com. pers.) 36. Il caso di Cosa-Ansedonia, particolarmente ben documentato, mostra quanto profonda sia la frattura nella storia dell'insediamento e come una successione di abitati di natura diversa l'uno dall'altro non possa essere confusa con una generica continuità di vita urbana 37. Dopo la res paiolica del III secolo e il santuario di IV, nell'area dell'antica colonia si susseguono infatti il castrum bizantino (forse inteso come nucleo di un progetto più vasto mai realizzato), I'abitato di tipo rurale del primo periodo longobardo, I'insediamento difeso da fortificazioni di terra sull'altura orientale e infine il castello. È evidente in questa sequenza che il castrum bizantino e il castello bassomedievale testimoniano iniziative esterne, dei bizantini in un caso, dell'Abbazia delle Tre Fontane nell'altro, per certi versi analoghe all'impegno di Roma documentato dall'invio dei curatores r.p. nel III secolo. Questi insistenti tentativi di riorganizzare il territorio, in circostanze storiche diversissime, rifondando artificialmente quello che era stato uno dei suoi capoluoghi si spiega solo se si considera che la costa maremmana raggiunse fra tardo antico e alto Medioevo il più basso livello insediativo della sua storia. Il contrasto fra le costruzioni in muratura di epoca bizantina e le capanne di VII secolo è inoltre talmente stridente da far pensare all'arrivo di popolazioni diverse. Passando ad esaminare città apparentemente più vitali, bisogna notare come la scelta di Roselle, Sovana e Populonia come centri di diocesi 38 non sia sufficiente a testimoniare una continuità di vita urbana. A Roselle, come si è visto, lo scenario è eterogeneo: vi convivono recuperi e riusi, costruzioni di fortuna e nuovi impianti, ma indubbiamente la frattura fra la città antica e gli insediamenti successivi (la civitas sede vescovile e poi il castram) è profonda. Un quadro simile può forse immaginarsi anche per Sovana, dove il degrado delle infrastrutture della città tardoantica è segnalato dal disuso dei cunicoli di drenaggio scavati nel tufo 39, mentre la più antica cattedrale, identificabile con la chiesa di San Mamiliano, oggi ridotta a rudere, rioccupa un
edificio precedente in opera reticolata 40. Scavi recenti al margine nord dell'abitato attuale e a ovest del duomo hanno inoltre rivelato la presenza di due aree cimiteriali con deposizioni databili a partire dal VI secolo e tombe costruite in blocchi o scavate direttamente nel tufo 41. Alla metà dell'VIII secolo risale infine il noto ciborio 42, originariamente collocato nella cattedrale. Nel caso di Populonia, la antica città sul promontorio viene segnalata come desolata già in piena età imperiale e definitivamente in rovina all'inizio del V secolo 43. La sede vescovile va quindi probabilmente identificata con l'abitato, per altro noto molto frammentariamente, presso il porto sulla rada di Baratti, mentre la cattedrale doveva essere nelle vicinanze dell'attuale cappella di San Cerbone 44. La scelta di Populonia come sede vescovile si rivelò ben presto fragile: alla fine del VI secolo l'avanzata longobarda la investì pesantemente, costringendo il vescovo a fuggire all'Elba e mettendo le premesse per un precoce trasferimento della sede vescovile 45. Ma anche Sovana e Roselle non avranno maggior successo. Se nel caso di Populonia, distrutta da corsari non ben identificati nei primi anni del IX secolo, si può collegare l'abbandono definitivo del sito ad un preciso e traumatico avvenimento 46, per Roselle, se si esclude una radicata tradizione che attribuisce la decadenza del centro ad una incursione saracena del 935 47, il trasferimento della sede vescovile sancisce definitivamente il superamento storico di una città che era stata tenuta in vita artificialmente dopo la crisi tardoantica. In seguito, le città della Maremma toscana, già colpite dalla precoce crisi di età medio e tardoimperiale, non vedranno la rinascita bassomedievale che invece investe pressoché tutti i centri antichi della parte settentrionale della regione. Il confronto con l'odierno panorama urbano, ricalcato integralmente sulla fase dell'incastellamento bassomedievale e privo di qualsiasi punto di contatto con il paesaggio antico, sottolinea con grande evidenza gli effetti del fallimento di una intera fase storica. MARIA GRAZIA CELUZZA, ELIZABETH FENTRESS
1 Per una serie di circostanze sfortunate la prima versione di questo contributo è andata perduta. Il testo che qui si presenta è quindi ridotto e incompleto per quanto riguarda riferimenti bibliografici e apparato illustrativo. 2 E. FENTREss-M. HosART-T. CLAY-M. WEBB, LateRoman andMedieval Cosal:the Arxand the Strurture near the Eastern Height, “PBSR” 59, 1991, pp. 197-230. Si tratta di un progetto comune dell'Accademia Americana e della Scuola Britannica di Roma, a cui ha contribuito anche il Craven Committoe dell'Università di Oxford, Io scavo è stato condotto con M.Hobart T.Clay, M.Webb. 3 G. CIAMPOLTRINI-P. RENDINI, L agro cosano fra tardo antico e alto Medioevo, “Archeologia Medievale”, XV, 1988; G. CIAMPOLTRINI, Un insediamento tardoantico nella valle dell'Osa, “Archeologia Medievale”, XVI, 1989, pp. 513-521. 4 E. FENTRESS, Cosa in the Empire: the un-maling of a Roman, “JRA”, 7, in corso di stampa; D. MANACORDA, Considerazioni sull'epigrafia della regione di Cosa, “Athenacum”, 57, 1979, pp. 73-97.
5 FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa I, cit., pp. 197-230. 6 G. CASTIGLIONI et al., Il castrum tardoantico di Sant'Antonino di Perti, Finale Ligure, campagne di scavo 1982-1991, “Archeologia Medievale”, XIX, 1992, pp. 279-369, E. FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa I, cit., pp. 208-209; sulla Via Flaminia: A. PERTUSI, Ordinamenti militari dei Bizantini, in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto Medioevo, Settimane di studio di Spoleto XV, pp. 632-700, in part. p. 687. 7 Questi personaggi sono nominati in una iscrizione ora dispersa un tempo visibile a Orbetello: GIG IV, 9853; F. BISCONTI, Tarda antichità e alto medioevo nei territorio orbetellano: primo bilancio critico, Atti del V Congresso nazionale di Archeologia Cristiana, 1987, pp. 63-78; si veda ora: C. CITTER, L'epigrafe di Orbetello e i Bizantini nell'Etruria Marittima, “Archeologia Medievale”, XX, 1993, pp. 617-621. 8 Possibili derivazioni dal greco proposte in CITTER, L'epigrafe, cit., pp. 622-623, si basano su una improbabile alternanza th-s. In ambito germanico si può invece ipotizzare una derivazione da anse = dea. Si ringrazia G. Bonsante per i preziosi suggerimenti. 9 FENTREsseta1.,Late Roman and MedievalCosa,cit.,p.226.Si veda ora G.CIAMPOLTRINI, Lafalvedelguerriero, “ Archeologia Medievale”, XX, 1193, pp. 603-604, che avanza una ipotesi interessante che però non spiega la presenza delle iscrizioni, né delle fibule a bracci uguali indizio certo della presenza di militari. 10 Si veda G.P. BROGIOLO, Brescia: Building Transformation in a lombard City, in K. RANDSBORG (a cura di), The Birti of Europe, “Analocta Romana Instituti Danici” suppl. 16, 1989 pp. 156-165, in part. p. 161: gli esempi citati si datano fra la fine del VI e la metà del VII secolo. 11 Si rimanda alla relazione di F. Cambi e altri sul territorio della Toscana in questo stesso volume. 12 R CARDARELLI Confini fra Magliano e Marsiliana; fra Manciano e Montauto, Scerpenna, Stachilagi;fra Tricosto e Ansedonia;fra Mont'Ercole e Monte Argentario, “Maremma” 2, 1925, pp. 336? 75-128, 147-214; A. LUTTRELL, The Medieval Ager Cosanus? in Da Rosele a Grosseto: strutture laiche ed ecclesiastiche nella Maremma grossetana fra XI e Xll secolo, Atti del Convegno (Grosseto 1989), in corso di stampa; E. FENTRESS-C. WICKHAM, La valle dell'Albegna fra Vll e Xl seco/o, in Da Roselle a Grosseto, cit. 13 FENTRESS-WICKHAM, La valle dell’Albegna, cit. 14 Lo scavo viene condotto dal Musco Archeologico della Maremma di Grosseto con fondi della Regione Toscana; lo scavo delle singole aree è stato curato da G. Agricoli, C. Casi, C. Citter, F. Colmayer; I'indagine sulle ossa umane si deve a E. Pacciani, uno studio preliminare della ceramica tardoantica e altomedievale si deve a C. Citter. L'area era stata già interessata da scavi piuttosto estesi, ma scarsamente documentati, negli anni 1932-33 (H. RIESCH, “Studi Etruschi”, 7, 1933, pp. 349-350) e 1942-43 (A. MINTO, “Studi Etruschi”, 16,1942, p. 575, ID. “Studi Etruschi”, 17, 1943, pp. 554-556). Una relazione di scavo è in corso di stampa in Da Roselle a Grosseto, cit. 15 Recenti indagini condotte dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana sono edite in: M. MICHELUCCI, Roselle. La Domus deiMosaici, Catalogo della mostra, Grosseto 1985 E. PARIBENI (a cura di), Un decennio di ricerche a Rose//e: statue e ritratti, Catalogo della mostra, Grosseto 1990. 16 MICHELUCCI, Roselle. La Domus, cit., pp. 43, 115-116. 17 E. MANGANI, in PARIBENI (a cura di), Un decennio, cit., pp. 94, 97, tav. XXXVII. 18 V. SALADINO, Iscrizioni latine di Rose//e (111), “ZPE”, 40, 1980, p. 242. 19 F. CATALLI, Ritrovamenti di monete negli scavi di Roselle: le campagne 1959-1967, “Annali Istituto Italiano Numismatica” 23-24, 1976-1977, pp. 121-150; MICHELUCCI, Rose//e.LaDomus, cit., pp. 113-114. 20 L'iscrizione è in corso di pubblicazione da parte di G. De Marinis, che ha cortesemente comunicato i dati. 21 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi e la mostra, Pisa s.d. (ma 1977), pp.119-122,126-127. 22 H. RIESCH, “Studi Etruschi”, 7,1933, pp.349-350, A. MINTO, “Studi Etruschi”, 16, 1942, p.556; ID., “Studi Etruschi”, 17,1943, pp.554-556. 23 Un Vitalianas vescovo di Roselle è noto per essere intervenuto al sinodo romano del 1 marzo 499: M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, Berolini 1894, p.400, n. 12. 24 O.W. VON VACANO, Der Talamonaccio, Firenze 1988, p. 6 ss. Diversamente, interpretano il muro come fortificazione: F. NICOSIA-G. POGGESI in PARIBENI (a cura di), Un decennio, cit., p.20, e FENTRESS et al., Late Roman and Medieval Cosa 1, cit., pp. 208-209. 25 F. SCHNEIDER, L'ordinamento pabblico nella Toscana medievale, (a cura di F. Barbolani di Montauto), Firenze 1975, pp. 20-21, B. BAVANT, Le Duché Byzantin de Rome, “MEFRM”, 91 1979, pp. 41 ss. e in part. p. 80. La conquista longobarda investì Roselle solo all'inizio del VII secolo. L'ondata degli ultimi decenni del VI secolo, che colpì duramente Populonia, lasciò indenne la costa a sud: lo prova la notizia che il papa Gregorio Magno nel 591 scelse di affidare proprio al vescovo di Roselle gli scarsi abitanti restati a Populonia, abbandonata dal suo vescovo (G. ROSSETTI, Società e istituzioni nei secoli IX e X: Pisa Volterra e Populonia, in Atti del V Convegno Internazionale sull'AltoMedioevo (Lucca 1971), Spoleto 1973, p. 247). Gli effetti della conquista longobarda su Roselle non sembrano così appariscenti e si limitano per il momento ad una rarefazione delle testimonianze relative alla sequenza dei vescovi del VII secolo. 26 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi, cit., pp. 114, 127 e fig. 12.h.
27 A. Minto, “Studi Etruschi”, 17, 1943, pp. 555-556; SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle:gli scavi, cit., pp.126- 127, tav. XXII. Il ciclo decorativo di Roselle è stato di recente riesaminato da G. CIAMPOLTRINI (Annotazioni sul di età carolingia in Toscana “Prospettiva”,62,199 l, pp.61 -63; ID., "Pulchrius ecce micat nitentes marmoris decus ". Appunti sulla scultura di età longobarda nella Toscana meridionale, “Prospettiva”, 64, 199l, p.47). 28 SALADINO, Iscriizioni, cit., p. 239. 29 Sulla cattedrale di Luni: S. LUSUARDI SIENA, Lani paleocristiana e altomedievale nelle vicende della s?'a cattedrale, in Studi lunensi e prospettive sull'occidente romano, Atti del Convegno (Lerici 1985), “Quaderni di Studi Lunensi” 10-12, 1985-87, pp. 289 ss. e in part. p. 301; sul ciborio di Sovana: CIAMPOLTRINI, cit., pp.45-46, che propone una datazione intorno alla metà dell'VIII secolo. 30 Cfr. Ia torre della cattedrale di Luni: LUSUARDI SIENA, Luni paleocristiana, cit., p. 302. 31 La bolla di Innocenzo II che dispone lo spostamento della sede vescovile a Grosseto è edita in P. KEHR, Regesta Pontifcum Romanorum, Italia Pontif cia 111, Berolini 1908, p. 260, n. 8. Si può escludere che l'area sia stata frequentata nei secoli successivi in base all'assenza totale di maiolica arcaica, presente in quantità non trascurabili in altre zone della città. 32 La prima attestazione del castrum di Roselle è del 1179: F. SCHNEIDER, Regestum Senense, Roma 1911, n. 291; nel 1302-1303 una chiesa di Roselle compare nelle liste delle decime: G. GIUSTI-P. GUIDI, Rationes Decimarum Italiae nei secoli Xll e XIV: Tuscia 11, Città del Vaticano 1932, p. 188. 33 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA DELLA TOSCANA, Roselle: gli scavi, cit. p. 127; C. CITTER, Carta Archeologica del territorio di Roselle-Grosseto, Tesi di laurea (rel. Prof. R. Francovich), Univ. di Siena, anno acc. 1979-80. 34 Sulle tre colonie e i relativi territori: A. CARANDINI (a cura di), La romanizzazione dell'Etruria: il territorio di Vulci, Catalogo della mostra, Milano-Firenze 1985; A. CARANDINl-F. CAMBI-M. CELUZZA E. FENTRESS (a cura di), Paesaggi d'Etruria tra l’AIbegna e il Fiora, in preparazione. 35 G. CAMODECA, Ricerchesuicuratores reipu~licae, ANRW2.13, Berlin-New York 1980, p. 453 ss.; F. JACQUES, Le privilègede libertè, (CEFAR 76), Roma 1984, pp. 161-244. 36 Su Heba: M. CELUZZAA-E. FENTRESS, La ricognizione di superf cie come indagine preliminare allo scavo, in R. FRANCOVICH-D. MANACORDA (a cura di), Lo scavo archeologico dalla diagnosi all'edizione, III ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Siena 1989), Firenze 1990 pp. 1 59- 1 62, fig. 1; su Saturnia: E. FENTRESS, Saturnia. figures in a centuriated landscape, in Etudes à l'homme de F. Jacques, in corso di stampa. 37 Sul significato storico del regresso della città a forme di insediamento diverse fra tardo antico e alto Medioevo, da ultimo: A. CARANDINI, L'ultima civiltà sepolta o del massimo oggetto, in Storia di Roma, Torino 1993, p.11 ss. e in part. pp. 14-17. 38 Su Roselle vd. sopra, nota 23; il primo vescovo noto di Populonia è presente al sinodo di Palmira del 501 (KEHR, Italia Pontificia 111, cit., p. 268; ROSSETTI, Società e istituzioni, cit., p. 247); nel caso di Sovana la prima testimonianza certa è solo del 680, ma sembra che l'istituzione della diocesi risalga agli anni del pontificato di Giovanni I (523-526) (G.F. GAMURRINI Dell’antica diocesi e chiese di Sovana, Pitigliano 1891; R. BIANCHI BANDINELLI, Sovana. Topografia ed arte, Firenze 1929, pp. 18-19 e 122 nota 13). 39 Cunicoli appaiono riempiti da un sedimento ricco di ceramiche medio e tardoimperiali (cortese segnalazione di A. Maggiani). 40 BIANCHI BANDINELLI, Sovana, cit., p. 25. 41 I dati sono stati cortesemente comunicati da N. Negroni Catacchio che conduce gli scavi nei pressi del duomo, e da A. Maggiani che dirige l?indagine nell'area a nord. Alcuni elementi di cintura di tipo "longobardo" provenienti da Sovana, databili all'inizio del VII secolo sono editi in: G. CIAMPOLTRINI, Segnalazioni per l'archeologia di età longobarda in Toscana, “Archeologia Medievale”, X, 1983, p. 511 s., fig.2. 42 CIAMPOLTRINI, PulcArius ecce micat, cit., pp. 46-47. 43 Strab. 5.2.ó; Rut. Nam., De reditu 1.409 ss. 44 Sui resti nei pressi del porto: F. FEDELI, Populonia. Storia e territorio, Firenze 1983, pp. 156-158 la proposta di identificazione della cattedrale è in: S. GELICHI. Premessa ad una carta archeologica medievale del territorio di Piombino, “Rassegna di Archeologia”, 4, 1984, p. 341 ss. e in part. p. 345 e fig. 3. 45 ROSSETTI, Società e istituzioni, cit., p.247. Vd. anche sopra, nota 25. 46 ROSSETTI, Società e istit?'zioni, cit., pp. 247-248; GELICHI, Premessa, cit., p. 345. 47 La notizia riportata da Malavolti (Dell'historia di Siena, Venezia 1559), è ritenuta infondata da Schneider (L 'ordinamento cit., p. 125, nota 100). Malavolti attribuisce la stessa sorte ad Ansedonia; la notizia viene definita con molta cautela “non impossibile” da Cardarelli (Confini cit., p. 91).
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Città frammentate e città-fortezza. Storie urbane della Toscana centro-settentrionale fra Teodosio e Carlo Magno
L'archeologia urbana è in Toscana disciplina di lunga tradizione: già sul finire dell'Ottocento il rinnovamento dei centri di Firenze e di Pistoia offrì l'occasione di campagne di scavo esemplari, almeno per i tempi 1, e nel corso del nostro secolo le occasioni che di volta in volta si sono offerte per incrementare la documentazione disponibile sono state raccolte, anche se si è dovuto attendere gli anni Settanta per l'avvio di campagne di scavo nate o condizionate da specifiche esigenza di ricerca. All'impegno sul campo non ha fatto riscontro un fervore editoriale comparabile, sì che, dai materiali raccolti a Firenze nell'ultimo decennio dell'Ottocento, ai recenti, impegnativi programmi di scavo realizzati in alcune città-campione, gli inediti condizionano pesantemente le valutazioni sulla storia urbana dei singoli centri, e sulla dinamica del rapporto città-territorio. Se è faticoso delineare le linee di fondo per l'età romana, avventurarsi nel periodo compreso tra la Tarda Antichità e la nascita della città comunale è oggi impresa destinata a proporre scenari altamente ipotetici; troppi sono i fattori incogniti che gravano sulle linee di tendenza che emergono dai "casi" urbani più felici, e questi - che si tenterà di ricomporre - non possono essere considerati esemplari se non perché altre storie urbane sono ancor più oscure. Quattro storie urbane 1. Lucca L'esplorazione integrale del sottosuolo della chiesa dei SS. Giovanni e Reparata, condotta fra il 1968 e il 1977 3, ha aperto, pur con i limiti imposti dalla metodologia d'indagine adottata, un periodo di consistente impegno nella ricerca archeologica urbana a Lucca. L'analisi sistematica della documentazione altomedievale curata dalla Belli Barsali nel 1973 ha offerto, negli stessi anni, un fondamento indispensabile per la ricerca sul campo 4. Questa si è sviluppata per tutti gli anni Ottanta con le tipiche caratteristiche dell'archeologia urbana d"'emergenza", seguendo quindi non un piano organico, ma le esigenze della ristrutturazione edilizia, o delle opere pubbliche. Sull'arco di un decennio, tuttavia, è stato possibile recuperare dati da tutto il centro storico, in maniera sostanzialmente uniforme, anche se con una prevalente concentrazione nel cuore della città moderna, la Via Fillungo. Con una rudimentale valutazione statistica, si dovrebbe concludere che il campione di dati raccolto può offrire un'immagine accettabile della storia urbana di Lucca, così come emerge dalla documentazione archeologica 5. Gli "strati neri" con materiali dell'avanzato II o degli inizi del III secolo formano una delle componenti più comuni e corpose delle sedimentazioni stratigrafiche urbane (Fig. 1), e s'incontrano tanto nel cuore della città romana - l'area del Foro - quanto nei quartieri periferici e nell'immediato suburbio. La loro natura sembra almeno duplice: da un lato hanno l'aspetto di discarica, ricca di materiale organico, accumulata in aree abbandonate; ma sono anche livellamenti, che colmano fosse di spoliazione (particolarmente evidenti nell'area del Foro)` e preparano una nuova urbanizzazione, di solito povera e ottenuta prevalentemente con materiale di spoglio. L'età severiana, in conclusione, sembra segnare un autentico "punto di svolta" nella storia urbana, con l'apice e la conclusione della crisi avviata fin dagli anni iniziali del II secolo, e con l'affermazione, certamente assai lenta, di un nuovo modello urbano 7. È possibile che la "rinascita" di Lucca - che tutto induce a credere città in pieno declino ancora per tutto il III secolo 8 - sia stata favorita dalla cerchia urbica in opera quadrata, retaggio degli anni della fondazione, nel II secolo a.C. La possibile evidenza epigrafica di lavori di restauro curati sotto Probo da un funzionario imperiale di rango equestre trova comunque conforto nell'inserimento della città, sede di una fabbrica imperiale di armi, nel sistema tardoantico di sicurezza dell'Italia centro-settentrionale. Se l'impianto della fabbrica
rientra, come è plausibile, nella riorganizzazione dioclezianea, la coincidenza fra recupero del ruolo di città-fortezza, sotto Probo, e la "militarizzazione" indicata dalla presenza della fabbrica sarebbe decisamente significativa. Il ruolo di piazzaforte, il recupero dell'insediamento rurale, nella piana e nel distretto montano, che aveva subito una crisi parallela, per sviluppo e profondità, a quella della città 10, dovrebbero riverberarsi nella riorganizzazione del tessuto urbano. L'area del Foro, in pieno abbandono già fra II e III secolo, sembra ormai zona marginale, in cui si accumulano discariche; il recupero delle due dediche alla casa imperiale note a Lucca per il IV secolo, a Costantino e Licinio, e a Giuliano, nel quadrante sud-orientale della città (Fig. 1, 1), segna la formazione di un nuovo "centro urbano" 11, probabilmente condensatosi intorno ad edifici pubblici rimasti in efficienza, come quelli impiantati entro i decenni iniziali del II secolo nell'area dei SS. Giovanni e Reparata (Fig. 1, 2 A), e sui quali verrà fondata, probabilmente non molto dopo la metà del IV secolo, la cattedrale cittadina 12. La chiesa, verosimilmente già dedicata a Santa Reparata, è un imponente edificio a tre navate, dotato di una completa pavimentazione musiva 13 per cui, come di consueto, dovettero essere mobilitate le risorse delle varie componenti della società cittadina. La fondazione del grande edificio sacro suscita - o comunque corrobora - la vitalità del quartiere sud-orientale: altri edifici, di destinazione indefinibile, vengono fondati a sud del complesso negli stessi anni, e a questo periodo potrebbe essere ricondotto anche il mosaico scavato agli inizi degli anni '30 nella vicina Piazza San Giusto 14. La riorganizzazione della città parrebbe conclusa entro i decenni iniziali del V secolo, se a quest'epoca deve essere attribuita la chiesa extramuranea di San Vincenzo, poi di San Frediano (Fig. 1, 3), fondata al centro di una vasta area sepolcrale, che parrebbe continuare la necropoli medio-imperiale - con tombe alla cappuccina - che era stata impiantata, subito fuori della porta settentrionale della città, su edifici in abbandono. La datazione al V secolo parrebbe assicurata sia dall'icnografia della chiesa, a pianta cruciforme, fedele a modelli padani, e, particolarmente, milanesi, che dai livellamenti sui quali vengono collocate le inumazioni. Nel San Vincenzo, come nelle strutture in elevato di Santa Reparata, si afferma una tecnica edilizia peculiare, che impiega pietre di cava, spaccate e regolarizzate sulla sola faccia destinata al paramento, e le lega con un'ottima malta per cui si ricorre ad inclusi macroscopici, talora di laterizio tritato 15. Sulla scorta della continuità altomedievale, sarebbe suggestivo datare a questi anni le altre tre chiese suburbane, poste nelle immediate adiacenze delle porte cittadine, che hanno destinazione sepolcrale, e daranno nome alle porte e ai quartieri, già almeno nell'VIII secolo, costituendo evidentemente i poli di aggregazione di una realtà urbana radicalmente diversa da quella della prima età imperiale 16. L'evidenza archeologica per l'Alto Medioevo, fra VI e VII secolo, dopo i livellamenti connessi alla pianificazione delle aree sepolcrali, in età teodosiana, è a dir poco esigua, e legata a fosse e buche di funzione oscura, come quelle esplorate nel cuore della città, in Via Buia (Fig. 1, 4), apparentemente non funzionali a spoliazioni 17; a trincce di spoliazione, come in Via San Pierino (Fig. 1, 5), quasi a ridosso delle mura, che indicano comunque una vitalità urbana soprattutto "periferica", concentrata nell'area immediatamente a ridosso delle murata. I pochi, sottili sedimenti riferibili - non senza difficoltà - a questo volgere di tempo sono stati incontrati ancora in Via Burlamacchi (Fig. 1, 6), nei pressi del lato sud-occidentale delle mura, e in Via San Tommaso (Fig. 1, 7) 19, nel quartiere nord-occidentale della città, per cui i documenti dell'VIII e IX secolo indicheranno una cospicua concentrazione di edifici, privati e sacri, che trova dunque un riflesso, assai pallido, anche nella documentazione archeologica. Nell'antico centro urbano si incontrano soprattutto tombe, databili con buon margine di approssimazione solo in pochi casi: in Via Fillungo (Fig. 1, 8); in Via Sant'Anastasio (Fig. 1, 9), in un'area sepolcrale la cui continuità d'uso parrebbe tracciata dagli inumati degli scavi 1985 e da quelli d'età longobarda del ritrovamento del 1859 7. La presenza di deposizioni genericamente collocabili nell'Alto Medioevo è comunque tratto comune e diffuso delle sequenze stratigrafiche lucchesi, e parrebbe segnalare una sostanziale commistione fra città dei vivi e città dei morti, pur se questa ha un suo luogo specifico - incrociando ancora dati archeologici e documentari -
intorno alla chiese extramuranee. Qui parrebbero comunque concentrarsi anche le attività artigianali, che evidentemente trovano nelle porte, punto d'incrocio fra città e campagna, il luogo naturale di sviluppo 21. Un ruolo a parte ha ovviamente il "cuore" religioso e amministrativo della città, nel quartiere sud-orientale, compreso fra la prima cattedrale, di Santa Reparata, e la seconda, di San Martino (Fig. 1, 2 B), che nulla vieta di attribuire, aderendo alla tradizione, all'infaticabile attività del vescovo Frygianus - Frediano nella tradizione locale - fiorito nel pieno VI secolo, e che si fece poi seppellire nella chiesa extramuranea di San Vincenzo, destinata a straordinaria fioritura con il suo nome. La corte regia del secolo VIII, posta nelle adiacenze del complesso episcopale (Fig. 1, 2 C), contigua anche alla zecca, conferma la funzione "specializzata" di questo settore della città 23, se addirittura non sfruttava edifici destinati alle strutture amministrative tardoantiche; I'impegno della comunità lucchese nelle opere di arginatura del Serchio, seppure inutile senza l'intervento miracoloso del santo vescovo Frygianus, conferma che alla vigilia della conquista longobarda la città aveva ancora una struttura amministrativa efficiente, ed altrettanto emerge dalla narrazione dell'assedio diretto da Narsete nel 553 24. La continuità d'uso delle necropoli, evidente sia in Via Sant'Anastasio che nel sepolcreto del San Vincenzo (Fig. 2, 9-10) 25, ribadisce che se 1'occupazione longobarda dovette trasformare radicalmente l'assetto sociale della città, ne conservò fedelmente l'organizzazione urbana. Lucca, città-fortezza che forse i Longobardi avevano già saggiato al soldo di Narsete 26, soddisfaceva in pieno al modello urbano che gli invasori cercavano fra VI e inizio del VII secolo: una piazzaforte posta su assi viari di rilevanza strategica, facilmente rifornibile per via d'acqua, e dotata di un retroterra agricolo sufficiente a garantirne gli approvvigionamenti 27. A partire dai primi decenni del VII secolo, probabilmente anche per la difficoltà di datare adeguatamente i contesti - sedimenti e necropoli - dei secoli centrali del Medioevo, quasi si estingue la documentazione di "scavo" tradizionale; acquista invece un ruolo prezioso, come indice della storia urbana - che a Lucca non potrà comunque che essere affidata soprattutto alle carte arcivescovili - una peculiare documentazione archeologica: le reliquie della produzione scultorea che accompagna, per più di un secolo, un'opera di rinnovamento e trasformazione della città che ha precedenti, per dimensioni e capillarità, solo nell'urbanizzazione tardorepubblicana e della prima età imperiale. I rilievi forniti dalla città e dal suburbio forniscono il commento "materiale" ai dati che emergono dai documenti del tardo VII e VIII secolo, e che lo scavo ancora non ha concesso: dalle prime imprese promosse, sotto Cuniperto, dall'alta burocrazia regia, all'impegno coordinato dei magnati cittadini per sviluppare il ruolo di Lucca sulla via per Roma, con le fondazioni ospedaliere del 722/23; infine, alla massa di fondazioni sacre dell'VIII secolo, e degli inizi del IX, coronate dal rinnovamento della cattedrale, curato dal vescovo Giovanni nel 780 e negli anni successivi, con l'impianto di una cripta e di chiese "satelliti" 28. Ancora, I'esaurimento della produzione scultorea in marmo rimane il miglior indice archeologico della seconda crisi dell'assetto cittadino, avviata nei decenni iniziali del IX secolo, che è comunque meglio riconoscibile nei .crescenti accenni, nel corso del IX secolo, ad aree urbane edificate e ora in abbandono 29. La crisi non sembra risolversi prima della fine del X secolo; poco prima del Mille compare una formula notarile che descrive una possibile novità edilizia,l’edificio murato, apetraetralcinase~harenaconstrurtum, e nel corso dell'XI secolo la città si copre di edifici sacri e privati che portano a soluzioni sempre più raffinate la tecnica edilizia del ciottolo disposto in filari a spinapesce, legati da malta, più che da terra. La costruzione della nuova cattedrale, con cui il vescovo di Lucca, e pontefice a Roma, Alessandro, fra 1060 e 1070 sostituì drasticamente l'edificio di Frediano e di Giovanni, chiude, paradigmaticamente, la storia della città altomedievaleio. 2. Fiesole
La fortuna archeologica di Fiesole etrusca e romana si è felicemente estesa anche alla città tardoantica e altomedievale, le cui reliquie hanno goduto, fin dalle prime imprese archeologiche agli inizi dell'Ottocento, di un'attenzione non dissimile da quella che veniva rivolta ai materiali più antichi; la recente carta archeologica della città 31 consente di cogliere con sufficiente nitore alcuni episodi di storia urbana fra Tarda Antichità e Alto Medioevo. Fiesole romana è essenzialmente una città "di servizi", con una componente residenziale esigua, ma arricchita, grazie all'impegno costante del municipium, delle opere pubbliche che qualificano la città come tale, e ne fanno punto di coagolo civile, amministrativo, economico - con i mercati - del territorio dipendente. La costruzione delle terme, nei decenni a cavallo fra I e II secolo d.C., sembra esaurire il ciclo delle opere pubbliche iniziato in età augustea con il teatro 32; in età severiana gli impegni della comunità sono ormai concentrati nel recupero del patrimonio monumentale, come con la restitutio del Capitoliam a cui partecipò anche l'ordo della vicina città di Firenze 33. Data la particolare natura della città, la crisi dell'assetto urbano è a Fiesole essenzialmente crisi delle opere pubbliche, e quindi riferibile piuttosto alla dissoluzione o all'esaurimento delle strutture amministrative municipali, che non all'evoluzione della società cittadina. I recenti scavi di Via Marini offrono la documentazione minuziosa del lento decadere di un imponente edificio pubblico, avvenuto non in maniera continua, e ripetutamente contrastato fino al disuso completo, nei decenni iniziali del V secolo;~. Questo periodo, in effetti, parrebbe segnare il culmine del disfacimento degli edifici pubblici anche nelle indicazioni numismatiche - le sole concretamente apprezzabili - fornite dai resoconti di scavo della fine dell'Ottocento e dei primi del Novecento. Dai sedimenti accumulati sulle terme, la relazione dello scavo del 1891, ad esempio, segnala “un Massenzio, due piccoli bronzi di Costantino juniore, tre di Flavio Giulio Costanzo, un Numeriano e Tetrico juniore” 35; considerando il necessario periodo d'uso delle monete, si porrebbe il disuso del complesso termale sul finire del IV secolo. Nel corso del secolo successivo si accumulano o vengono depositati sedimenti anche nell'arca del tempio etrusco; le relazioni degli scavi condotti a più riprese annotano monete fino agli inizi del V secolo 36. La continuità di vita segnalata dai materiali restituiti dagli scarichi, e lo stesso formarsi degli scarichi, indicano però che la crisi dell'assetto urbano definito fra l'età augustea e Traiano è piuttosto una metamorfosi: a Fiesole continua a vivere una comunità fornita di un potenziale economico sufficiente a consentirle l'apertura ai flussi commerciali che trovano lungo l'Arno, alla fine del IV e ancora nei primi decenni del V secolo, una nuova vitalità 37. Benché il silenzio della documentazione archeologica ed epigrafica la renda aleatoria, è dunque immediata l'ipotesi che la nuova vita di Fiesole sia condizionata dall'antica acropoli (Fig. 2, A), che la natura del luogo e le mura etrusche rendono punto strategico essenziale sulle vie transappenniniche; I'incursione di Radagaiso, nel 405, ne aveva dato la migliore prova. Se fosse possibile assegnare a questo volgere di tempo l'edificazione, su opere di terrazzamento d'età etrusca, della chiesa di Sant'Alessandro (Fig. 2, e) 38, la ritrovata centralità dell'arx avrebbe una conferma decisiva. In effetti, I'assoluta identità delle colonne e dei capitelli con cui l'attuale edificio romanico è costruito impone almeno di valutare la proposta che questo derivi, per un tramite tardoantico, dal metodico smantellamento di un edificio pubblico romano (d'età augustea, stando alla tipologia dei capitelli) 39, forse la basilica cittadina; parrebbe immediato collocare questo episodio nei decenni di passaggio fra IV e V secolo che segnano la "morte" di Fiesole romana. E certo invece che fra VI e VII secolo, quando i materiali disponibili si fanno più consistenti e integrano le notizie offerte dalla tradizione scritta, la metamorfosi del "centro di servizi" civili e amministrativi d'età imperiale in città-fortezza è completata: Fiesole ha un ruolo notevole negli episodi iniziali della guerra gotica 40; i monumenti pubblici da discarica sono divenuti necropoli. In effetti, fra opere pubbliche ridotte a rudere e avanzi di edifici privati l'indagine archeologica non incontra che tombe, distribuite "sistematicamente" fra ruderi in abbandono, o recuperati come chiese cimiteriali. Questo parrebbe il caso del sepolcreto che, a partire dai decenni finali del VI secolo, si
distende sull'area del tempio etrusco, la cui cella è verosimilmente divenuta un piccolo edificio di culto (Fig. 2, d) 41. I ritrovamenti ottocenteschi di Piazza Umberto I, oggi Garibaldi (Fig. 2, a; 3), e, negli anni Ottanta, il recupero di una tomba nell'area adiacente a sud (Fig. 2, b), mostrano che anche il nucleo longobardo che si insediò nella città, probabilmente dopo il definitivo inserimento di questa nel Regno di Pavia, negli anni iniziali del VII secolo, scelse come area sepolcrale ruderi di edifici pubblici, apparentemente senza alcuna correlazione a questi, che non sia lo sfruttàmento di resti murari per definire la tomba 42; a questa esigenza doveva rispondere anche la struttura romana del parco di Villa Marchi a cui fu addossata una tomba femminile (Fig. 2, C) 43. Le poche tracce di vita offerte dall'acropoli44 non sono certo sufficienti a provare la consistenza dell'insediamento altomedievale sull'acropoli, ma il sepolcreto che si distende intorno alla chiesa di Sant'Alessandro, con le tombe "privilegiate", qualificate dalla crocetta aurea di un'inumazione e dalla croce a rilievo sulla copertura di un'altra4S, ne conferma il ruolo centrale nella vita cittadina del VII e - forse - VIII secolo. 3. Firenze Gli sventramenti della fine dell'Ottocento, documentati da Corinto Corinti con tenacia e precisione 46, e una sequenza pressoché ininterrotta di indagini dal secondo dopoguerra ai giorni nostri hanno accumulato su Florentia una massa enorme di dati archeologici, che attende un'adeguata presentazione 47. La situazione dell'archeologia urbana di Firenze è dunque per certi aspetti paradossale: sui pur cospicui materiali editi grava il condizionamento del molto noto solo da accenni, e fenomeni della storia urbana che parrebbero evidenti potrebbero essere smentiti dalla revisione dei dati d'archivio, o dalla rilettura di sequenze stratigrafiche sinora solo anticipate. L'urbanizzazione di Florentia segue una linea dissimile da quella presumibile per le altre città dell'Etruria settentrionale, raggiungendo l'apice fra la fine del I secolo 48 e l'età antonina, se realmente i grandi impianti termali cittadini devono essere posti negli anni di Adriano 49, e la costruzione dell'Isco scende ai decenni finali del II secolo 50,. La città mercantile e manifatturiera, con il tessuto sociale articolato, anche nelle sue contraddizioni, che ancora negli anni di Severo si manifesta nelle dediche dell'Isco 51, sembra misteriosamente eclissarsi nel corso del III secolo, subendo probabilmente, con un ritardo di qualche decennio, un processo di crisi paragonabile a quello riconosciuto a Lucca. A testimoniarlo non intervengono a Firenze - almeno nei dati sinora disponibili - le discariche e le spoliazioni viste a Lucca, ma la riurbanizzazione che si profila a partire dai decenni iniziali del IV secolo, e si completa nel corso di un secolo: I'edificio con pavimento musivo di Via della Nave, costruito anche con materiale spoliato da tombe monumentali; le fogne in cui sono messi in opera frammenti di sculture e basoli 52; il singolare edificio a pianta circolare costruito direttamente su un pavimento musivo nell'area della Chiesa di Sant'Andrea (Fig. 4, A) 53; i modesti edifici della riurbanizzazione dell'area del Battistero e di Santa Reparata 54. La documentazione archeologica può essere sfruttata per argomentazioni anche contraddittorie: il sedimento con monete del IV secolo che si deposita su un ambiente con suspensarae 55 del piccolo impianto termale costruito a ridosso della porta settentrionale della città può indicare l'abbandono delle terme, ma anche una spoliazione per la nuova urbanizzazione, o un livellamento per la definizione di nuove aree di vita. Altrettanto si potrà dire per gli scarichi che nello stesso momento si depositano nelle terme meridionali, di Piazza della Signori 56. Fattori "positivi" - la costruzione dei nuovi edifici pubblici per eccellenza, le chiese - e "in negativo" - i livellamenti con discariche - convergono con l'abbondante materiale epigrafico nel proporre una città che fra la fine del IV e i primi decenni del V secolo ha ritrovato, sia pure nella nuova, più modesta scala, vivacità e ricchezza, e una società urbana articolata. La vivacità delle attività manifatturiere e commerciali che trovano un veicolo eccellente nell'Arno ha riscontro archeologico
nell'officina vetraria di Piazza della Signoria 57, e epigrafico nella comunità siriaca che si fa seppellire nella chiesa cimiteriale di Santa Felicita, subito sulla sinistra del fiume. Le tracce di vita offerte dalle discariche, e la distribuzione delle chiese, inducono a proporre per Florentia tardoantica un modello urbano simile a quello delineato per Lucca: la chiesa di San Lorenzo a nord, poco fuori della porta settentrionale, fondata nel 393 59, quella di Santa Felicita a sud, in uso come sepolcreto già nel 405 60, paiono indicare che anche a Firenze la vita si addensa intorno alle porte e gli assi di comunicazione: “ante portas civitatis”, dunque nel luogo "centrale" del nuovo assetto urbano, è giustiziato Radagaiso, nel 405 61. La costruzione delle grandi chiese intramuranee, di Santa Cecilia a sud, in un momento del V secolo ancora non definito, di Santa Reparata a nord, intorno al 500, sembra confortare 1'immagine di Firenze tardoantica come città "frammentata" in due nuclei, coagulati uno intorno alla porta settentrionale, l'altro lungo l'Arno; in questa prospettiva possono essere letti anche i modesti episodi di riurbanizzazione che pare di cogliere nell'area del Battistero e di Santa Reparata, probabilmente fra fine del IV e inizi del V secolo 62, in una commistione fra "spazio dei vivi" e sepolcreti che sembra replicare le indicazioni di Lucca. Pur con la fragilità degli argumenta ex silentio, la mancanza di interventi tardoantichi sui grandi edifici del Foro, il capitoliam e le Terme Capitoline, che pare comunque di ricavare dalle Cartoline del Corinti, induce a supporre che il "cuore" monumentale della città romana sia ormai paesaggio di ruderi, che la loro marginalità rispetto ai nuovi poli della vita cittadina esclude da un metodico riuso; spiccano ancora le rovine, che nell'XI secolo potranno essere riutilizzate nella riurbanizzazione romanica`~. Sembra addirittura episodico anche l'impiego come area sepolcrale: in un sol caso il Corinti segnala, fra Via del Campidoglio e Via degli Agli, tombe che, per la collocazione subito a ridosso dei basolati romani, potrebbero essere attribuite a questo momento 64. La fortuna di Firenze tardoantica ha forse la motivazione più solida nella ripresa delle attività agricole, manifatturiere, commerciali, che trova indici archeologici nella diffusione dell'anfora "di Empoli" e di una peculiare produzione ceramica locale`S' e nell'abbondanza di materiale d'importazione - alimentare e ceramico - restituito dalla stretta fascia lungo l'Arno, tornato ad essere vitale arteria di traffico, con un terminale nel porius Pisanus che è per tutta la Tarda Antichità anche arsenale navale 66. Grazie alle mura della colonia augustea, ancora efficienti o ripristinate, Firenze è però anche una piazzaforte su una via transappenninica la cui rilevanza è accresciuta dal trasferimento della corte imperiale a Ravenna, come dimostra nel 405 1'incursione di Radagaiso; nei primi decenni del V secolo accoglie militari della schola Gentiliam, subito omologati, con la sepoltura in Santa Felicita, alla classe dirigente cittadina 67, e ancora nei primi anni della guerra gotica ha un ruolo notevole 68. SM Non sono finora noti episodi monumentali attribuibili alla fase tardoantica: G. DE MARINIS, San Lorenzo: i dati archeologici, in San Lorenzo 393-1993, Firenze 1993, p. 31 e ss. L'assenza - sin qui - di tombe specificamente riferibili a Longobardi 69 potrebbe essere correlata alla nuova fortuna di Fiesole: l'arce fiesolana è per le sparute formazioni militari tardoantiche e altomedievali assai meglio difendibile del lungo circuito fiorentino, ed ha un ruolo tattico-strategico equivalente. La scomparsa della classe dirigente tradizionale, nel vortice delle guerre gotiche e della conquista longobarda, il mancato inserimento del nuovo gruppo sociale dominante, longobardo, potrebbero essere responsabili del declino di Firenze fra VI e VIII secolo: l'edificio della modesta riurbanizzazione tardoantica di Piazza Sant'Andrea è coperto da discariche su cui viene costruita una tomba (Fig. 4, B) 70; tombe occupano anche il basolato stradale a ridosso della porta settentrionale 71. Lo scarico con materiali del VII e dell'VIII secolo che si accumula sui residui dell'officina vetraria tardoantica, in Piazza della Signoria 72 conferma che nel quartiere meridionale della città, lungo l'Arno, la vita continua, e si riverbera nei rinnovamenti altomedievali di Santa Cecilia, così come, nel settore settentrionale, nell'ampliamento carolingio di Santa Reparata 73. 4. Chiusi
Chiusi offre, per più aspetti, un puntuale parallelo a Fiesole. La continuità e la coerenza dell'indagine archeologica, pur ovviamente privilegiando la città etrusca e romana, hanno fornito anche per Tarda Antichità e Alto Medioevo materiale che la recente redazione di un'accuratissima carta archeologica rende agevolmente disponibile 74. Dopo il fervore del rinnovamento urbanistico della Tarda Repubblica e della prima età augustea, Chiusi sembra adeguarsi al tranquillo ruolo di capoluogo amministrativo di una regione agricola, che la facilità di comunicazioni con il grande mercato urbano salva dai momenti più acuti di crisi. Nel II secolo, quando l'edilizia privata in altre città è inconsistente, a Chiusi si edificano dimore fornite di pavimenti musivi adeguati ai migliori livelli contemporanei 75, e il procedere dell'urbanizzazione coinvolge aree fino a quel momento - apparentemente - non occupate, dentro e fuori la cerchia urbana (Fig. 5, 2-4). Non è da escludere che le domus urbane abbiano un ruolo analogo a quello delle grandi ville suburbane, attestate soprattutto dal complesso di Monte Veneri 76, come dimora saltuaria dei grandi proprietari terrieri, di origine locale o esterna. Sono proprio le tombe che si incontrano sui pavimenti musivi 77 a indicare una cesura della vita cittadina; questa ha un indice affidabile anche nei materiali che segnano il disuso dei cunicoli di Piazza del Duomo, sul finire del IV secolo78. La fine del tradizionale sistema di "servizi" sotterranei della città etrusca e romana sembra coincidere con la nascita di una nuova vita; sui resti di una domus medioimperiale (Fig. 5, 1) - stando ai mosaici 79 - viene fondato, in età teodosiana, verosimilmente grazie all'intervento di un clarissimus cittadino, un edificio di culto di non ampie dimensioni, ma dal nobile pavimento musivo 80, che rinnova il ruolo della città nei confronti del territorio. Seppur di cronologia incerta, fra V e VI secolo, i corredi delle tombe impiantate su un edificio forse pubblico, al margine dell'area urbana (Fig. 5, 3) 81, segnalano il tono decoroso dell'aristocrazia municipale tardoantica; il rinnovamento e l'ampliamento della cattedrale, probabilmente negli anni finali delle guerre gotiche, deve essere però sostenuto dal vescovo Florentinus 82. La vera "ripresa" di Chiusi - nell'evidenza archeologica - è con la discesa longobarda; la città ha sin dal 570 un ruolo strategico eccezionale, dapprima come piazzaforte bizantina a protezione avanzata dell'asse Roma-Ravenna, e poi come spina nel fianco, longobarda, dello stesso sistema. Alla posizione, si aggiunge a Chiusi la dotazione di mura, e, soprattutto, l'evidente possibilità di ritagliare all'estremità occidentale dell'area protetta dall'antica cerchia (Fig. 5, 7) un vero e proprio castellarr', che le mura ''sillane'' 83 rendono arduo da espugnare alla mediocre poliorcetica delle soldatesche del VI e VII secolo. La ricchezza degli inumati nell'area extramuranea dell'Arcisa (Fig. 5, 6) che emerge dagli scavi ottocenteschi assai più che dal tratto di necropoli esplorata nel 1911-1912 84, sembra postolare, per i decenni finali del VI secolo, la benevolenza imperiale per il nucleo di Longobardi che da questa piazzaforte si oppone ai connazionali di Pavia 85. Anche quando la città entra far parte del Regno di Pavia, l'Arcisa continua ad essere area sepolcrale per eccellenza dei Longobardi 86. Nel corso del VII secolo, e forse anche agli inizi dell'VIII, la comunità longobarda sembra dotarsi di una propria necropoli anche entro l'antica cerchia urbana, seppure al margine dell'abitato (Figg. 5, 5; 6)87, ma ricorre anche a tombe nell'area del Duomo (Fig. 5, 1) 88, quasi fornendo il commento archeologico al processo di integrazione culturale e religioso che si conclude sul finire del secolo, e trova nel 729, nel rinnovamento della chiesa della santa locale, Mustiola, ad opera del dux Gregorio e di sua moglie, la celebrazione monumentale 89. Città frammentate e città-fortezza. Continuità e cesura fra tarda antichità e alto medioevo. 1. La tarda antichità La città che nel IV secolo emerge dalla pesante crisi che aveva sconvolto l'Etruria settentrionale nel corso del II secolo, culminando negli anni dei Severi 90, è radicalmente diversa dalla solida città
"centripeta" plasmata dai ceti affaristico-mercantili di estrazione libertina e dalle tradizionali aristocrazie municipali con il secolare impegno urbanistico iniziato in età augustea, e esaurito al volgere fra I e II secolo. Edifici pubblici in abbandono, o utilizzati solo in parte, quartieri residenziali sconvolti dalla crisi demografica e dei ceti produttivi, impongono di disegnare una nuova forma urbana, che trascura l'antico cuore monumentale, con le sue strutture rese ormai inutili dalla crisi delle istituzioni municipali, o dalla fine dei culti tradizionali, e valorizza piuttosto i settori periferici della città che già fra I e II secolo gli edifici per spettacolo e le terme avevano promosso a centro pulsante della vita quotidiana. Le indicazioni di Lucca e Firenze convergono nel proporre una città "frammentata" in nuclei distribuiti di preferenza intorno alle porte e agli assi viari principali, in cui continua l'attività artigianale, e i traffici possono cogliere anche le minori occasioni. Del tutto oscura è però la concreta articolazione dei nuovi quartieri; si può solo immaginare modesti edifici costruiti con materiale di recupero, o addossati a ruderi, alternati a spazi vuoti che possono essere impiegati anche per sepolcreti improvvisati. Nella crisi del tessuto urbano, le mura sono, anche "fisicamente", elemento di coesione, e garantiscono la continuità della vita cittadina. Grazie ai vecchi impianti tardorepubblicani o coloniali, o dotandosi di protezioni tumultuarie, le città dell'antica Etruria settentrionale riescono tutte (con la possibile eccezione di Cortona), a superare la crisi della media età imperiale, e a riproporsi come punto di riferimento della vita del territorio, ricalcando i ruoli che in questo già svolgevano: le città con una tangibile componente manifatturiera e commerciale, come Firenze, Lucca, Pisa, integrano ancora il ruolo militare, amministrativo, religioso, con quello produttivo; le città che, come Fiesole o Chiusi, erano essenzialmente "centro di servizi" del territorio, si propongono ora soprattutto per il peculiare "servizio" che la calamità dei tempi rende prioritario, la sicurezza. E un elemento di continuità anche l'impegno delle classi dominanti cittadine, o delle grandi famiglie superstiti, a corroborare il ruolo della città verso il territorio; ovviamente questo è affidato soprattutto agli edifici del culto cristiano, ma ancora nella seconda metà del IV secolo le terme continuano a svolgere il ruolo di cerniera fra città e territorio che avevano coperto fin dalla prima età imperiale. In città in crisi, o di modesto spessore demografico, come Volterra e Roselle, le terme che vengono costruite in età tardoantica al margine della città, "aperte" anche topograficamente al territorio, hanno un ruolo fondamentale nel richiamare dalle campagne alla città 91. La "costruzione" della città tardoantica si conclude negli anni della dinastia teodosiana, con il completamento delle cattedrali e delle chiese cimiteriali che sono il nuovo punto di riferimento dei quartieri. Parallelamente, si completa la ricostruzione della società cittadina, anche nella classe dirigente; le iscrizioni fiorentine di Santa Felicita e quelle aretine del Duomo Vecchio vedono i curiali omologati al clero, ai militari delle guarnigioni, ai mercanti 92. 2. La città in epoca longobarda (VI-VII secolo) L'evidenza archeologica contribuisce in maniera risolutiva a delineare le vicende del trentennio compreso fra l'irruzione longobarda a Sud degli Appennini, intorno al 570, e la definitiva conquista al Regno di Pavia, con Agilulfo. Le vicende di quegli anni ebbero conseguenze decisive per la storia delle città, e può quindi essere utile ripercorrerle brevemente. La Tuscia fu naturalmente coinvolta nelle offensive longobarde che nel decennio 570-580 giunsero fin sotto Roma, ma non sembra che queste abbiano portato ad una conquista capillare e definitiva. Lucca, punto d'arrivo in Toscana di un asse viario transappenninico ormai fondamentale 93, dovette probabilmente rimanere nelle mani di Longobardi fedeli al re, pur se la dedica di un comes bizantino dal nome germanico 94 può far insinuare il sospetto che anche i Longobardi insediati nella città e nei vici e castella del territorio lucchese 95 non fossero insensibili all'oro imperiale; questo accadde probabilmente a Chiusi, forse anche ad Arezzo 96, determinando una situazione precaria e foriera di turbam`~enti sociali e religiosi in città divenute di frontiera, come Fiesole 97.
Le città della Toscana meridionale, ritornate o mai sfuggite al controllo bizantino, dovevano essere esposte alternatamente all'azione dei Longobardi di Lucca, che con un dux crudelissimus giunsero, forse già nel decennio 570-580, ad impossessarsi di gran parte del territorio di Populonia, provocando la fuga dell'episcopato nella piazzaforte bizantina dell'Elba 98, e di quelli spoletini, che nel 592 costringevano Sovana a trattative 99. Pisa, ancora nei primi anni del nuovo secolo, sembra in grado di muoversi autonomamente nel groviglio dei conflitti 100. L'azione di Agilulfo, nel decennio iniziale del VII secolo, unifica la Tuscia centro-settentrionale, sino ai confini che finiranno per essere, con limitate trasformazioni, quelli della Toscana 101. La Tuscia Langobardordum è dunque regione di frontiera, su tre versanti: a nord Lucca, Pistoia, Fiesole, e forse Arezzo, presidiano gli itinerari transappenninici; Lucca, in particolare, garantisce l'unica via in mano al Regno, mentre Pistoia e Fiesole fronteggiano la Romania padana. A sud-est il ruolo chiave è affidato a Chiusi, mentre sul mare Pisa si contrappone alla catena di basi insulari che raccordano Roma alla Liguria bizantina. Ancor più che nella Tarda Antichità, le mura sono dunque l'elemento che condiziona l'articolazione e la vita delle città: Lucca, la più vivace nel VII e VIII secolo, oltre alla posizione strategica vanta mura di provata efficienza; a Fiesole, Arezzo tt, Chiusi, la conservazione delle antiche mura si combina con la possibilità di adattare l'antica acropoli a castellam che possa essere difeso anche da un manipolo di armati. Potrà non essere casuale che l'insediamento longobardo, attestato solo da necropoli, sia concentrato in queste città-fortezza. Un insediamento longobardo topograficamente distinto da quello romano può essere indiziato, almeno in alcuni casi, dalla collocazione del sepolcreto: il caso di Lucca e Pisa 103, dove le aree sepolcrali non sono distinte, potrebbe essere riferito alla peculiare storia delle due città, mentre a Chiusi-Arcisa e a Arezzo l'insediamento di nuclei longobardi, avvenuto verosimilmente d'intesa con l'autorità imperiale, potrebbe aver comportato l'acquartieramento in un settore urbano "esclusivo", collegato ai sepolcreti extramuranei; è ormai dentro l'area urbana il più tardo sepolcreto chiusino della Caserma dei Carabinieri. La vita di queste città di ruderi e di morti è nel VII secolo, anche nell'evidenza archeologica, a dir poco oscura: solo la continuità delle istituzioni religiose, e il ruolo amministrativo che le città comunque conservano, garantiscono che la strutturazione tardoantica sopravvive al cambiamento di classe dirigente. Con una semplificazione forse non eccessiva, si potrebbe concludere che la città toscana del VII secolo altro non è che la naturale evoluzione della città tardoantica: I'aristocrazia municipale, "civile", degli honestiores insigniti talora del rango di clarissimus, che le iscrizioni funerarie ancora del VI secolo, e la scarsa evidenza archeologica 104, indicano residente in città, è sostituita dalla classe dirigente longobarda, che stando all'evidenza dei contesti tombali è ugualmente concentrata nelle città. Se si vuole, anche questo non è elemento di frattura, ma estrema conseguenza della "militarizzazione" della città e del territorio avviata nella Tarda Antichità. La "continuità nel cambiamento" fra VI e VII secolo ha per sfondo, comunque, un drastico ridimensionamento, la cui spia più manifesta - nell'evidenza archeologica - è la fine della produzione scultorea lapidea 105 le classi dirigenti longobarde non sono interessate al rinnovamento degli edifici ecclesiastici, e quel che sopravvive della classe dirigente romana - dalle cui fila esce probabilmente l'episcopato cattolico - è manifestamente affranto. Ma forse l'indice archeologico migliore dell'evoluzione fra i due secoli è la produzione ceramica: tecnologia e forme segnano una sostanziale continuità con le produzioni tardoantiche, ma il repertorio morfologico si riduce a pochissime forme, polivalenti 106. Un caso di rapido adeguamento è offerto invece dalle produzioni di oggetti d'ornamento personale; la sostituzione di classe dirigente porta a modeste trasformazioni nella domanda di oggetti in metallo prezioso e in bronzo, subito assecondate dalle of ficine 107, che, come indicano i ritrovamenti di Lucca 108 e Luni 109, hanno sede in città. I più evidenti tratti di cesura fra città tardoantica e d'età longobarda sono dunque, nell'evidenza archeologica, la distinzione "etnica" dei sepolcreti, e l'esaurimento delle produzioni artistiche monumentali. Entrambi sono sanati già nel volgere del VII secolo, quando per impulso degli ambienti legati alla corte di Pavia riprende l'opera di restauro e abbellimento degli edifici di culto, partendo da
quelli che, dedicati ai culti cittadini, sono un fattore unificante della società urbana 110, e gli edifici di culto cattolici accolgono anche deposizioni di Longobardi: le croci auree della tomba "privilegiata" di Lucca-Santa Reparata 111 e di una tomba del sepolcreto fiesolano della chiesa di Sant'Alessandro, le tombe di Longobardi dell'area del Duomo di Chiusi, indicano la completa integrazione dei ceti urbani longobardi nei modelli culturali tardoantichi. A questi si richiamano esplicitamente le produzioni scultoree della fine del VII e dei primi decenni dell'VIII secolo, e anche la tecnica edilizia monumentale parrebbe recuperare i modi regionali tardoantichi 112. Il dax Gregorio celebra a Chiusi le sue imprese architettoniche recuperando i versi di un epigramma ravennate della metà del VI secolo 113. Con la scomparsa dell'uso della suppellettile funeraria, e nella perdurante difficoltà di datare i contesti ceramici dei secoli centrali del Medioevo, almeno nell'ambito regionale, la ricostruzione dell'assetto urbano d'età carolingia deve essere affidata essenzialmente alla documentazione scritta; le reliquie della produzione scultorea e la modesta evidenza archeologica segnalano soprattutto la recuperata centralità della cattedrale nella vita cittadina, anche nell'aspetto monumentale 114: la città di Carlo Magno ricalca anche in questo la città di Teodosio. GIULIO CIAMPOLTRINI
1 Un cenno in CIAMPOLTRINI 1993a, p. 52 e ss. 2 Si veda qualche timida proposta in CIAMPOLTRINI 1993a, passim. 3 Si veda la recente edizione: S. Reparata. 4 BELLI BARSALI 1973, p. 461 e ss. 5 CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990; CIAMPOLTRINI 1992a. 6 Scavi 1987- 1990 nell'area compresa fra Via di Poggio, Piazza San Michele in Foro, Corte Portici, inediti; per un cenno, CIAMPOLTRINI 1988. 7 Per il ruolo nodale svolto dal periodo anche nell'ambito regionale, cfr. CIAMPOLTRINI 1992d 8 CIAMPOLTRINI 1988, p. 95. 9 CIL XI, 204; CIAMPOLTRINI 1991a, p. 255 e ss.; per il sistema difensivo tardoantico dell'Etruria settentrionale, CIAMPOLTRINI 1989a, p. 247 e ss.; CIAMPOLTRINI 1990a, p. 379 e ss. Per un intervento tardoantico nell'area delle mura di Lucca, CIAMPOLTRINI NOTINI 1990, P 561 e ss. Sulle mura romane di Lucca, di prossima pubblicazione G. CIAMPOLTRINI, Lucca. La prima cerchia. 10, Cfr. G. CIAMPOLTRINI_P. NOTINI-P. RENDINI, Materiali tardoantichi e altomedievali della valle del Serchio, “ Archeologia Medievale”, XVIII (1991), p. 699 e ss. 11 CIAMPOLTRINI 1991a, p. 258; CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990, P. 590 e ss. 12 G. CIAMPOLTRINI, La chiesa dei SS. Giovanni e Reparata nell'assetto urbano d'età romana, in S. Reparata, p. 191 e ss. 13 G. DE ANGELIS D'OSSAT, La basilica episcopale d'età paleocristiana, in S. Reparata, p. 17 e ss. La suggestiva ricostruzione proposta dal De Angelis d'Ossat non impedisce di riconoscere nei grandi pilastri laterizi leggibili nella parete settentrionale dell'area esplorata - costruiti con materiale di spoglio - I'elemento di scansione fra la navata centrale e la navata settentrionale del pristino edificio, che si sarebbe articolato quindi su tre navate, a questa fase appartiene certamente la pavimentazione musiva, per la connessione fra partizioni musive e architettoniche Santa Reparata I avrebbe, con la "classica" pianta basilicale, mossa solo dalla piccola abside e con il canonico impianto di una solea con cui il presbiterio si prolungava nella navata centraie un impianto sostanzialmente esemplato su quello degli edifici costantiniani di Roma, e radicato nella tradizione della "basilica" laica tardoantica. I pilastri distribuiti nella navata centrale, cui il De Angelis assegna la destinazione di lampadofori, potrebbero piuttosto essere attribuiti ad un ridimensionamento del complesso, in cui la chiesa avrebbe acquisito un'icnografia cruciforme, "ambrosiana", per la soppressione delle antiche navate laterali, salvo che nelle due campate orientali, divenute transetto di Santa Reparata II. In questa fase il pavimento musivo - la cui rigorosa geometria è comunque ignorata dalle nuove scansioni architettoniche parrebbe abbandonato, sostituito da una semplice pavimentazione in calce, ben leggibile, a un livello superiore di ca. 20 cm., nel testimone superstite al centro della navata centrale, nell'area occidentale. In assenza di dati stratigrafici, la datazione delle due fasi, probabilmente non molto lontane nel tempo, sembra imposta rispettivamente dai mosaici
pavimentali, fortemente radicati nella tradizione attiva anche in area regionale fin dagli inizi del IV secolo (CIAMPOI,TRIN~ 1990a, p. 369 e ss.), e dagli affreschi sui pilastri della ristrutturazione, che certamente non escono dalla tradizione tardountica. Provvisoriamente, si potrebbe collocare la fondazione della cattedrale nei decenni centrali della seconda metà del IV secolo, e assegnare la ristrutturazione allo stesso momento di trasformazione, entro la metà del V secolo, a cui si deve anche l'accumulo di sedimenti sul pavimento del "battistero quadriconco" (per questo, G. DE MARINIS, Lo scavo del l~attistero, in S. Reparata, p. 113, note 87-89; la prudenza del De Marinis nel datare la produzione di sigillata chiara D, con stampigliature attribuibili - sulla scorta della descrizione fornitane - allo stile Hayes Aii-iii, fin entro il VI secolo sembra decisamente eccessiva). 14 Rispettivamente scavi inediti della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (1990-1); A. MINTO, Lucca. Pavimenti a mosaico..., “NOt. Scavi”, 1934, p. 22 e ss. 15 Sulla chiesa di San Vincenzo, CIAMPOLTRINI_NOTINI 1990, p. 574 e ss.; CIAMPOLTRINI l991b , p. 42 e ss. 16 CIAMPOLTRINI-NOTINI199O, P. 588 e ss. 17 CIAMPOLTRINI-NOTINI199O, P. 567 e ss. 18 Scavi della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (1991), inediti. 19 Cenni rispettivamente in CIAMPOLTRINI-NOTINI199O' P. 569; CIAMPOLTRINI 1992a, p. 714 e ss. 20 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 569 e ss. 21 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 588 e ss. 22 Cfr. CIAMPOLTRINI 1991b, p. 46; CIAMPOLTRINI 1992b, p. 44 e ss. 23 BELLI BARSALI 1973, p. 509 e ss. 24 Rispettivamente Gregorii, Dialogi, III, 17; Agathias, Hist., I, 12-18. 25 CIAMPOLTRINI-NOTINI 199O, p. 569 e ss., e p. 578 e ss. 26 Per una possibile evidenza archeologica dell'assedio, G. CIAMPOLTRINI, Un ritrovamento seicentesco di monete bizantine a Lucca, “Rivista Italiana di Numismatica”, XCIII (1991), p. 195 e ss. 27 Cenni in CIAMPOLTRINI l990b, p. 689 e ss . 28 CIAMPOLTRINI l991b, p. 42 e ss.; CIAMPOLTRINI 1991C, P. 59 e ss. 29 CIAMPOLTRINI 1991C, P. 64. 30 Cfr. in merito CIAMPOLTRINI 1992a, p. 725 e ss. 31 DE MARCO 1990, P. 25 e ss. 32 CIAMPOLTRINI,C.S. 33 CIL XI, 1545; per la datazione, cfr. CIAMPOLTRINI 1989b, p. 326. 34 G. DE MARINIS, in Archeologia urbana a Fiesole. Lo scavo di Via Marini - Via Portigiani, Firenze 1990, p. 21 e ss. 35 Arch. SAT, Relazione della Commissione Archeologica dell'anno 1891. 36 Cfr. CIAMPOLTRINI 1992c, p. 696 e ss. con rinviii bibl. e archivistici. 37 DE MARINIS, op. cit., (a nota 34) p. 22. 38 Per questa DE MARCO 1990, P. 27, con rinvii bibl. 39 Per questi J.J. HERRMANN, Thelonic(7apitalinLateAntiqueRome, Rome 1988, p.72, nota 40 L'eterogeneità che a Pisa, Lucca, Firenze, nell'XI e XII secolo caratterizza senza eccezioni i reimpieghi di materiale architettonico acquisito a Roma, fa preferire l'ipotesi che il materiale reimpiegato in Sant'Alessandro sia di provenienza locale all'alternativa, che sia stato sistematicamente smantellato un edificio dell'Urbe per comporre un carico omogeneo, da inviare nella piccola città toscana. 41 Procop., Bellum Gotlicum, II, 23-26. 42 Cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1992c, p. 696. 42 DE MARCO 1990, p. 28. Le puntualizzazioni di R. FRANCOVICH, Rivisitando il Museo di Fiesole, in Studi di antichità in onore di G. Maetcke, Roma 1984, p. 620, nota 6, sono confermate dalla testimonianza di G.F. GAMURRINI, Scoperte a Fiesole, “Bullettino dell'Istituto”, 1879, p. 43 Per la localizzazione della tomba di Villa Marchi, presso la Via dei Carri, U. PASQU Fiesole. Avanzi di caseggiati e tomoe d'età l’arvarica entro l'antica cinta muraria, “Not. Scavi”, 1907 p. 729 e ss.; E. GALLI, Avanzi di mura e vestigia di antichi monumenti sacri s?`ll'acropoli di Fiesole “Mon. Antichi Acc. Lincci”, XX (1910), col. 929. 44 Possibili presenze altomedievali fra i materiali della cisterna: GALLI, art. cit., col. 899 e ss., fig. 24. 45 DE MARCO 1990, p. 26. 46 Cfr. da ultimo OREFICE 1986. 47 Per una presentazione divulgativa, ma di grande efficacia, dei lavori di Piazza della Signoria, DE MARINIS 1993. 48 Per l'evoluzione dell'urbanistica residenziale, si veda CIAMPOLTRINI 1993a, p.54 e ss. 49 Cfr. CIAMPOLTRINI C.S.; per le terme di Piazza della Signoria, DE MARINIS 1993. 50 CIAMPOLTRINI 1989b, p. 321 e ss. 51 CIAMPOLTRINI 1989b, p. 324 e ss. 52 Cfr. in merito CIAMPOLTRINI 1990a, p. 371 e ss. 53 CORINTI, Cartolina 74 (da cui fig. 4); OREFICE 1986, p. 204 e ss. 54 TOKER 1975, p. 174.
55 OREFICE 1986, p. 225 e ss.; CORINTI, Cartolina 8. 56 DE MARINIS 1991, p. 56. 57 DE MARINIS 1991, P. 55 e SS. 59 Utile sintesi in M. LOPES PEGNA, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze 1974, p. 59 e ss. 60 Additamenta ad Prosp., AlGH, Cronica Minora, I, p. ?99, 535. 61 si veda la presentazione di DE MARINIS 1993. 62 TOKER 1975, p. 174 e s. 63 Esemplare il caso della Chiesa di San Tommaso, eretta sugli avanzi del frigidarium delle Terme Capitoline: CORINTI, Gartolina 72; si veda anche, ivi,43 e 46, il caso di S. Maria in Campidoglio. 64 OREFICE 1986, p. 203: “la copertura di tali sepolcri corrisponde ... al piano di livello delle strade romane”; le tombe erano costruite con materiale di spoglio. 65 Cfr., con bibl. ant., G. CIAMPOLTRINI, Aspetti dell'insediamento tardoantico ed altomedievale nella Tascia: due schede d'archivio, “Archeologia Medievale”, XVIII (1991), p. 691. 66 Claud., Bell?'m Gildonicam, v. 438 e ss.; si vedano anche le preoccupazioni della cancelleria teodoriciana per la navigazione sull'Arno e sull'Auser, chiaramente in funzione dell'approvvigionamento del legname per Pisa: Cassiodori, Variar~m, IV, 17 e ?0. Qui forse avevano sede i navicalarii Tuscine (Cassiodori, Variarum, IV, 5). 67 CIAMPOLTRINI 1989a, p. ?49 e s. 69 Procop., Bellum Gotlicum, II, 30. 70 Cfr. O. VON HESSEN, Reperti di età longobarda dagli scavi di Santa Reparata, “Archeologia Medievale”, II (1975), p. ?11 e ss. 71 Supra, nota 53. 72 CORINTI, Cartolina 8; LOPES PEGNA, op. cit., (a nota 59), fig. 6. 73 DE MARINIS 1992, p. 56 e Ss. 73 TOKER 1975, p. 181 e ss.; per Santa Cecilia, DE MARINIS 1993. 74 PAOLUCCI 1988, p. 105 e Ss. 75 Via della Violella (0g. 5, 4); Orto Golini (0g. 5, 2): G. ZAZZARETTA, Ritrovamenti di mosaici nel centro 7urtano, in / Romani di Chi7~si, cit., p. 143 e Ss. 76 Cfr. da ultimo A. CALLAIOLI, Agro chiusino: nun em~lema musivo da Monte Venere, in I Romani di Chiusi, Cit., p. 133 e Ss.; puntualizzazioni cronologiche di CIAMPOLTRINI 1992d. 77 PAOLUCCI 1988, p. 115 e ss.: via Arunte (0g. 5, 3); Orto Golini (0g. 5, 2). 78 D. LEVI, Chiusi. Scavi nel sottosuolo della città, “Not. Scavi”, 1933, p. 1 e Ss., in part. p. 30 e Ss. 79 ZAZZARETTA, art. cit., p. 143 e ss. 80 Cfr. per ora G. MAETZKE, in Actes de XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne I, Rome 1989, p. 120 e Ss.; per la datazione, cfr. anche CIAMPOLTRINI 1990a, p. 373 e Ss., nota 15. 81 G. NARDI Dei, “Not. Scavi” 1887, p. 399, PAOLUCCI 1988, p. 115, n. (0g. 5, 3); ZAZZARETTA, art. cit., (a nota 75), p. 143. 82 CIAMPOLTRINI 1992b, p. 46 e Ss. 83 PAOLUCCI 1988, p. 110 e Ss. 84 Cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e s. 85 G. CIAMPOLTRINI, Letombe 6-l Odelsepolcreto di Chiusi-Arcisa. Per7~n riesamedei materiali, “Archeologia Medievale”, XIII (1986), p. 555 e Ss. 86 Si attende da G. Paolucci il riesame sistematico dei trovamenti ottocenteschi all'Arcisa; per il momento CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e Ss. 87 Necropoli “della Caserma dei Carabinieri”. D. LEVI, Rinvenimenti di tombe barbariche nell'area della Caserma dei RR. Carabinieri, “Not. Scavi”, 1933, p. 38 e Ss., fig. 1; O. VON HESSEN, Secondo contributo alla archeologia longobarda in Toscana, Firenze 1975, p. 20e s., dalla documentazione d'archivio della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (9 Siena 18, 1925-1950) è tratta la fig. 6; lo schizzo del sax e del pettine in osso (da identificare dunque con quello edito da VON HESSEN, op. cit., p. 74, tav. 2,2) della sola tomba che restituì suppellettile è nella comunicazione del ritrovamento, del 30 maggio 1930. 88 G. MAETZKE, Tomba longobarda e medievale da Chiusi, “Archeologia Medievale”, XII (1975), p. 701 e ss. 89 Cfr. CIAMPOLTRINI, 1991d, p. 43 e S. 90 Cenni in CIAMPOLTRINI 199?d. 91 Per Roselle, cfr. in questa sede il contributo di M.G. CELTTZZA; per Volterra, Terme del Teatro, C. CORVO, Le terme di Vallebona, in Il teatro romano di Volterra, Firenze 1993, p. 77 e ss., con le precisazioni cronologiche, per la datazione alla fine del IV secolo, di A. MAGGIANI, ivi, p. 107. Sono ancora inedite le terme di San Felice, sul versante opposto della città, per le quali i mosaici ricomposti al Musco Guarnacci impongono almeno un completo rifacimento nei decenni iniziali del IV secolo. 92 CIAMPOLTRINI 1989a, p. Z49; CIAMPOLTRINI 1990a, p. 379 e ss. 93CIAMPOLTRINI 1992b, p. 45. 94 CIAMPoLTRINI-NoTINI-RENDINI, Mate7riali tardountichi, cit. (a nota 10), p.709 e ss.
95 CIAMPOLTRINI 1990b, p. 689 e ss. 96 Per il sepolcreto aretino del “sobborgo Santa Croce”, G. CIAMPOLTRINI, p. 597 e ss. 97 Cfr. G. CIAMPOLTRINI, Un contribato perla "la~nina diAgilalfo ", “Prospettiva ”,52 (1988), p. 52 e ss.; CIAMPOLTRINI 1992 c, p. 696 e ss. 98 Gregorii, Epist~lae, I, 15. 99 Gregorii, Epist?'lue, II, 30. 100 Gregorii, Epist~lae, XIII, 26. 101 Per la possibile evidenza archeologica e numismatica della campagna di Agilulfo, CIAMPOLTRINI 1990b, p. 691 e ss. 102 Per Arezzo, supra, nota 96. 103 Perla necropoli di Pisa-Piazza del Duomo, cfr. da ultimo CIAMPOLTRINI 1 993b, p. 595 e ss. 104 Cfr. p. es. G. CIAMPOLTRINI, Due orecchini bizantini da Luni, “Archeologia Medievale”, XVI (1989), p. 737 e ss. 105 CIAMPOLTRINI 1992b, p. 47. |106 Rinvio in merito a G. CIAMPOLTRINI P. NOTINI, Massaciuccoli (Com. Massarosa, Lucca) ricerche sull'insediamento post-classico nell'area della villa, “Archeologia Medievale”, Xx ( 1993), p.396es. 107 Per l'ambito regionale, cfr. G. CIAMPOLTRINI, Considerazioni sul "tesoro" di Perugia, “Prospettiva”, 40 (1985), p. 53 e ss. 108 CIAMPOLTRINI-NOTIN1 1990, p. 588 e ss. 109 S. CINI-A. PALUMBO-M. Rlocl, Materiali altomedievali conservati nei Musei di Luni e La Spezia, “Quaderni Centro Studi Lunensi”, 4-5 (1979-80), p. 42 e ss. 110 CIAMPOLTRINI 1991b, p. 45 e s. 111 C. AMANTE SIMONI, Lastrine di osso la~orato ..., in S. Reparata, p. 237 e Ss. 112 Si veda il caso del Sanvincenzo-San Erediano lucchese: CIAMPOLTRINI-NOTINI 1990 p. 574 e Ss. 113 CIAMPOLTRINI 1991d, p. 43 e S. 114 CIAMPOLTRINI 1991b, p. 59 e ss.
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Sul paesaggio urbano di Roma nell'Alto Medioevo
Le indagini archeologiche condotte nel centro di Roma nelle cantine degli stabili prospicienti il lato sud del tratto centrale della Via delle Botteghe oscure hanno consentito una ricostruzione abbastanza dettagliata della formazione e trasformazione del tracciato stradale che venne a formarsi nel corso della prima metà del V secolo tra i ruderi dell'antica Porticus Minicia e i muri - ancor massicci - della Crypta di Balbo 1. I risultati di quell'indagine hanno dimostrato in maniera evidente l'esistenza di un nuovo asse stradale, la sua continuità e manutenzione nei secoli successivi, sino almeno all'VIII secolo, ed il progressivo raggiungimento della sede storicamente definita, ed hanno contribuito a portare un elemento di maggiore concretezza sia nella ricostruzione dell'itinerario dell'Anonimo di Einsideln, sia nella valutazione dello stato della viabilità in formazione in questo tratto della Roma medioevale. Possiamo provare a delineare un quadro della viabilità che, sulle rovine della Roma imperiale, si era andata formando nel corso dell'Alto Medioevo in questi secoli all'interno e all'esterno dell'antico quadriportico frumentario (Fig. 1). Due direttrici principali, in senso E-W, si erano formate lungo gli assi maggiori del quadriportico: le future vie delle Botteghe oscure e della Pellicceria (Via Papale), che avrebbero giocato un ruolo di primo piano nell'urbanistica della Roma tardomedioevale 2. In senso N-S un tracciato viario principale si era andato formando nella fascia di terreno compresa tra il lato occidentale della PorticusMinucia e il portico di accesso all'Area Sacra di Largo Argentina. Destinato a divenire il centro della contrada del Calcarario, questo tracciato seguiva l'allineamento di un'antica fognatura 3, collegando 1'area del Pantheon al Tevere e lasciandosi ai lati i deri del portico frumentario e del teatro di Balbo a E, e quelli degli antichi santuari di età repubblicana a W. Altri due percorsi minori, paralleli a quest'ultimo, attraversavano l'area interna del quadriportico. Il primo, corrispondente all'attuale Via dell'Arco dei Ginnasi, collegava trasversalmente le due direttrici E-W. Nato forse già per collegare gli insediamenti sorti sui ruderi del Diribitore~m con quelli sviluppatisi sul complesso di Balbo, fu precocemente consolidato dall'affaccio che su di esso avrebbe presentato la chiesa di S. Lucia. Il secondo, corrispondente all'attuale Via Celsa, collegava i due assi viari maggiori sfociando nell'area della futura Piazza degli Altieri (Piazza del Gesù), che si sarebbe creata in un punto particolarmente debole dei ruderi antichi, corrispondente all'angolo N-E dell'antico quadriportico. L'antichità del tracciato sembra in questo caso confermata dal fatto che la via si apriva il varco tra l'allineamento del portico orientale della framentaria e il muro posteriore del tempio delle Ninfe, evidentemente entrambi ancora tanto emergenti da poter condizionare l'orientamento degli assi viari. Ad E della Porticus Minucia una strada, con andamento obliquo rispetto agli assi del tracciato viario prevalente, doveva indirizzarsi verso il Campidoglio. La futura Via Capitolina, destinata a progressivi ampliamenti e raddrizzamenti che ne avrebbero esaltato il ruolo di importante arteria cittadina, nasceva in realtà, a differenza degli altri tracciati ora esaminati, ricalcando da presso quello di un'antica via testimoniata in età imperiale da un frammento della Pianta marmorea severiana 4. Analogamente, I'antico sistema stradale romano sopravviveva, sia pure alterato e riadattato alle nuove esigenze, nel tracciato che si veniva a formare, ad E della Crypta di Balbo, sul luogo della futura Via dei Polacchi 5. La viabilità che abbiamo cercato di ricostruire trova dunque nell'asse della futura Via delle Botteghe oscure un suo principale punto di riferimento, confermato dalla concretezza dell'evidenza archeologica 6. Sembra probabile che questo tracciato svolgesse di fatto un ruolo di collegamento primario già nell'VIII secolo, in un'epoca dunque che vede l'abitato ancora concentrato prevalentemente nel Campo Marzio meridionale e non ancora espanso verso l'ansa del Tevere. Ma gli eventi dei secoli IX e X non hanno lasciato tracce nell'area indagata. Più precisamente, è il complesso della stratificazione urbana relativa a quei secoli che ci viene a mancare a causa delle attività
distruttive praticate nel sito in relazione con gli interventi edilizi di età basso-medioevale e rinascimentale 7. Il Castrum auream Sul terreno che si estendeva a S della via, corrispondente ai ruderi dell'antico teatro di Balbo e della sua crypta, sorge nel IX secolo un insediamento che i testi di XII secolo indicano con il nome di Castrum o Castellam auream. Nostra fonte principale è la bolla con la quale Celestino III nel 1192 confermava al rettore delle chiese di S. Maria domine Rose e S. Lorenzo i possessi e le donazioni ad essa attribuite da alcuni suoi predecessori nel corso dell'XI e del XII secolo 8. La bolla descrive con relativa dovizia di particolari il Castellum auream, che compare quale elemento centrale dei possessi confermati all'istituzione ecclesiastica. Sembra sia possibile distinguere due nuclei fondamentali: le parietes alta et antiquae in circuitu positae e l'ortum qui est iuxta castellum cam utilitatilibus suis et superiorius criptarum 9. Nella prima parte si deve riconoscere il nucleo edilizio vero e proprio, sorto sfruttando le rovine del teatro, identificabili nell'andamento circolare delle sue mura 10. A due secoli e mezzo di distanza dalla bolla quella forma semicircolare dell'edificio non sarebbe ancora del tutto scomparsa, se ad esso si riferirà Flavio Biondo come ad una exteriormuripinna ingirum arcata, la quale conservava quandam theatri speciem 11. Nella seconda parte dobbiamo invece riconoscere un'area annessa al fortilizio, aperta, ma circondata da mura, nella quale non può non identificarsi l'area un tempo occupata dalla Crypta di Balbo e dalla sua corte interna, le eui pareti perimetrali in opera quadrata ben si prestavano ad una funzione difensiva sui tre lati del complesso rivolti a meridione, oriente e settentrione. Due porte davano accesso al fortilizio a parte Gampitelli et regionis sancti Angeli e aparte Pinee, cioè sui lati sud e nord del complesso, almeno nel tardo XII secolo 12. Al centro di questo settore annesso al castello sorgeva la chiesa dedicata a S. Maria e a S. Lorenzo, definita in castello aureo poiché interna all'area recintata, e quindi alla Crypta di Balbo, anche se esterna al nucleo dell'edificio eretto sulle rovine del teatro. La bolla indica anche i nomi dei fondatori della chiesa: Graziano, Gregorio, Rosa e Imilla. Si tratta di personaggi che - nonostante l'esistenza di alcuni omonimi noti da documenti del Regesto Sul~lacense in anni compresi fra il 927 e il 994 ~3 - dovrebbero essere riferiti ad un'età anteriore alla fine del IX secolo. La bolla menziona alcuni possessi risalenti alla donazione di un certo Palus nobilissimus vir Romanorum consul Uvinisi comitis f lius temporil'us domniAdriani iunioris Pape (884-885), che il Marchetti Longhi 4 ha ritenuto di porre in relazione con il Paulus consul etdux teste nel 927 in una donazione al monastero di Subiaco~s. Ciò può indicare che la fondazione della chiesa, generalmente ritenuta del X secolotó, dovrebbe risalire ad età più antica, forse al tempo di Giovanni VIII (872-882), come ha suggerito lo stesso Marchetti Longhi, proponendo di riconoscere nei suoi fondatori, Graziano e Gregorio, alcuni personaggi noti nelle fonti coeve e forse in rapporto con la nobile famiglia degli Stofaneschi 17. Il riferimento è ad un Gregorius dux Gratianifili?'s attestato in un documento del 1211 e in via di ipotesi identificabile con un personaggio noto da un placito di Giovanni VIII dell'873 19. -A maggior ragione l'occupazione del complesso - se non la costruzione della chiesa che è comunque assente nella lista di Leone III dell'807- dovrebbe dunque risalire almeno al pieno IX secolo. Le chiese La bolla di Celestino III è inviata “Iohanni Primicerio nostro, rectori ecclesie S. Marie Domine Rose et B. Laurentii, quepositesuntin Castello aureo”. La definizione è ambigua; il testo infatti non specifica con chiarezza se siamo in presenza di una sola chiesa o di due, come nel proseguimento
della bolla potrebbe intendersi a proposito dei quattro citati personaggi, definiti “ ipsarum ecclesiarum fundatoribus”. L'esistenza di due edifici sembra convalidata dal Catalogo di Parigi, che menziona nella prima metà del XIII secolo due chiese distinte: S. MariudeRosa e S. La?'rencius de monte Domne Rose 20. La distinzione è ripresa nel catalogo quattrocentesco del Signorili, dove entrambe le chiese appaiono con la denominazione Downe Rose 21. Ma se le chiese inizialmente dovettero forse essere due, un documento del 1395 lascia tuttavia intendere che nel tardo Medioevo esse dovevano costituire ormai un insieme probabilmente unitario. Nella controversia sorta allora tra le due parrocchie di S. Valentino e di S. Maria domineRosecirca la delimitazione delle rispettive giurisdizioni vengono infatti citati il primicerio, i canonici e il capitolo “ecclesie Sancte Marie de Rosa Sancti Laurentii, posite intra Castellum aurcum”22. Questa ipotesi sembra confermata da un appunto del Grimaldi23 il~quale - pur errando nella identificazione dell'edificio, definito in Palatinis (Pallacinis) - testimonia che la chiesa di S. Lorenzo “e regione palatii Matthaciorum” fu demolita “in construendo puellarum eoenobio”, cioè al tempo della costruzione del nuovo monastero di S. Caterina nel XVI secoloz4, quando infatti venne demolita la chiesa di S. Maria. L'argomento necessita dunque di un approfondimento. Ma un elemento di novità giunge dalle indagini archeologiche effettuate nel centro dell'isolato (saggio XII), che hanno rimesso in luce l'area presbiteriale della chiesa di S. Maria precisamente là dove il Bufalini nella sua pianta la delineava25, evidenziando sulla parete di fondo della navata sinistra della chiesa un frammento superstite di intonaco dipinto che reca il nome di S. Lorenzo26. Sembra dunque di poter concludere che in piena età medioevale un unico edificio accogliesse i due culti, almeno a partire già dal XII secolo, come d'altronde lascia presumere - nonostante la diversa indicazione del catalogo parigino - I'assenza di una chiesa di S. Lorenzo in castello aureo tanto nella lista del presbiterio di Cencio Camerario quanto nel più tardo catalogo torinese 27. Questa situazione sarebbe pertanto riflessa dall'ambigua definizione data dalla bolla di Celestino III della fine dello stesso secolo. La conferma di questa ipotesi giunge per il XV secolo dalla menzione esplicita, a proposito della chiesa di S. Maria domine Rose, della esistenza di una “Capella sancti Laurentii sita in dicta ecclesia discoperta”, attestata da una bolla di Martino V del 142223. L'insediamento nel Calcarario L'insediamento del Castrum aurcum, quali che fossero i suoi primitivi proprietari, sembra dunque sorgesse nella tarda età carolingia quale residenza protetta in possesso di alcuni esponenti delle famiglie nobili romane del tempo. Un analogo fenomeno insediativo di rioccupazione delle rovine dei monu~enti pubblici antichi non sappiamo se si andasse manifestando in quel tempo anche nell'area del vicino teatro di Marcello 29. Traccia di insediamenti chiusi entro massicce mura emergono forse anche nell'area della antica Porticus Minucia vetus, dove ingenti strutture medievali, demolite nel corso degli scavi di questo secolo, lasciano supporre l'esistenza di un vasto e eomplesso insediamento - forse di natura ecclesiastica - affacciato sulla via dei Calcarari e recintato, o comunque protetto, da cospicoe mura in blocchi di tufo reimpiegati. D.M. L 'insediamento altomedievale nell'area di Largo Argentina L'ipotesi dell'esistenza di un recinto fortificato di epoca altomedievale che racchiudesse una parte almeno dell'antica Area Sacra di Largo Argentina fu avanzata già all'inizio degli anni Sessanta da
Giuseppe Marchetti Longhi 30, che aveva seguito in collaborazione con l'ing. Edoardo Gatti le attività di scavo svoltesi in quell'area a partire dal 1926 e proseguite poi per quasi un decennio 31. Il Marchetti Longhi credette di riconoscere le strutture di un castrum in due tratti di muro in grandi blocchi di tufo di reimpiego posti rispettivamente sul lato orientale e su quello meridionale dell'area (paralleli cioè alle attuali vie di S. Nicola dei Cesarini e Florida) e il cui andamento lasciava ipotizzare un loro congiungersi ad angolo retto proprio in corrispondenza del luogo dove sarebbe in seguito sorta la torre c.d. del Papito 32, il cui profilo caratterizza ancor oggi l'angolo della piazza moderna. Più incerto era in quell'ipotesi l'andamento della recinzione nelle sue zone settentrionale e orientale: lo studioso individuava infatti un probabile caposaldo angolare in una struttura quadrilatera posta nell'area compresa tra i templi A e B e nella quale credeva di riconoscere la fondazione di una torre medievale; egli indicava inoltre la presenza di un terzo muraglione, anch'esso in conci di tufo e orientato in direzione E-W, del quale non riusciva però a precisare l'esatta ubicazione 33. Il riesame della questione legata alla possibile esistenza di questo insediamento medievale nell'area si scontra con lo stato assai frammentario della documentazione oggi disponibile. Gran parte dei resti archeologici cui ci si è fin qui riferiti furono infatti distrutti e al pari di quasi tutte le altre emergenze medievali messe in luce nella prima fase degli scavi - nel corso di una frettolosa sistemazione provvisoria dell'area monumentale in occasione della sua inaugurazione ufficiale avvenuta il 21 aprile 192934. Tutto ciò che oggi ne rimane sono alcune fotografie generali e di dettaglio prese al momento dello scavo e conservate nell'archivio privato del Marchetti Longhi, oggi depositato in parte presso la X Ripartizione del Comune di Roma e in parte presso la Società Romana di Storia Patria 3s. La documentazione relativa alle fasi medievali dell'area è poi completata da alcuni appunti redatti al momento dello scavo e riemersi nel corso del riordinamento dell'archivio di Gugliemo Gatti, conservato presso l'Archivio Centrale dello Stato. Ancor oggi visibili, seppure anch'essi parzialmente demoliti nel corso della sistemazione definitiva dell'area, sono invece i resti del tratto di muro in blocchi posto nel settore meridionale dello scavo, venuti in luce solo dopo il 1930 e conservati al di sotto della moderna costruzione di Via Florida. A dispetto della disorganicità e della frammentarietà della documentazione disponibile, appare comunque oggi possibile condurre un riesame dei resti sussistenti o comunque documentati, al fine di cercare di precisare meglio l'effettiva consistenza monumentale delle strutture in questione, a partire proprio dall'unica emergenza conservatasi (Fig. 2). Le strutture documentate Al momento dello scavo, come documenta una fotografia dell'epoca (Fig. 3), il muro ancor oggi visibile sotto Via Florida si conservava per un tratto di oltre 10 m. e presentava uno sviluppo massimo in altezza di quattro assise di blocchi parallelopipedi di tufo, oltre all'assise di fondazione costituita da blocchi di forma più irregolare. Allo stato attuale il muro (Fig. 2, a) risulta ribassato a due sole assise oltre quella di fondazione e tagliato tanto verso W, nel lato che si approssima al basamento dell'antico tempio D, quanto verso E, dove appare ~ parzialmente inglobato nella parete di fondo di un locale destinato a magazzino. G Nonostante la riduzione dimensionale, ne rimangono ancora ben leggibi- ~ li le caratteristiche costruttive e strutturali (Fig. 4): l'alzato è costituito di blocchi G di tufo di reimpiego, apparecchiati con sufficiente regolarità secondo una tessitura pscudoisodoma e prevedendo l'impiego di sottili letti di malta tra blocco e blocco al fine di compensare le irregolarità superficiali dei singoli pezzi. I blocchi presentano dimensioni piuttosto regolari, con uno spessore e una profondità costanti intorno ai 50 cm. ed una lunghezza che varia da poco più di un metro a circa m. 1,25. La fondazione è invece costituita da un solo filare di blocchi di forma e dimensioni più irregolari, tra cui si notano conci analoghi a quelli che costituiscono l'alzato, impiegati però in questo caso di testa anziché di taglio. Ne deriva un'assise dell'altezza media di ca. 50 cm., sensibilmente più profonda rispetto a quelle dell'alzato, con una risega che verso N aggetta rispetto al filo del muro da un minimo di 20 ad un massimo di 55 centimetri, mentre verso S si allinea perfettamente ai filari sovrastanti.
Quest'ultimo elemento contribuisce a determinare con qualche attendibilità una quota assoluta di ca. 13,10-13,30 metri s.l.m. per i piani di calpestio riferibili alla struttura stessa, almeno per quel che concerne il settore immediatamente a N di quest'ultima 36. Rispetto a questo livello doveva quindi approssima al basamento dell'antico tempio D, quanto verso E, dove appare parzialmente inglobato nella parete di fondo di un locale destinato a magazzino. G Nonostante la riduzione dimensionale, ne rimangono ancora ben leggibili le caratteristiche costruttive e strutturali (Fig. 4): l'alzato è costituito di blocchi G di tufo di reimpiego, apparecchiati con sufficiente regolarità secondo una tessitura pscudoisodoma e prevedendo l'impiego di sottili letti di malta tra blocco e blocco al fine di compensare le irregolarità superficiali dei singoli pezzi. I blocchi presentano dimensioni piuttosto regolari, con uno spessore e una profondità costanti intorno ai 50 cm. ed una lunghezza che varia da poco più di un metro a circa m. 1,25. La fondazione è invece costituita da un solo filare di blocchi di forma e dimensioni più irregolari, tra cui si notano conci analoghi a quelli che costituiscono l'alzato, impiegati però in questo caso di testa anziché di taglio. Ne deriva un'assise dell'altezza media di ca. 50 cm., sensibilmente più profonda rispetto a quelle dell'alzato, con una risega che verso N aggetta rispetto al filo del muro da un minimo di 20 ad un massimo di 55 centimetri, mentre verso S si allinea perfettamente ai filari sovrastanti. Quest'ultimo elemento contribuisce a determinare con qualche attendibilità una quota assoluta di ca. 13,10-13,30 metri s.l.m. per i piani di calpestio riferibili alla struttura stessa, almeno per quel che concerne il settore immediatamente a N di quest'ultima36. Rispetto a questo livello doveva quindi ancora apparire leggermente sopraelevato il piano della cella del contiguo tempio D, che si trova infatti ad una quota di circa 14 metri. Un ultimo elemento interessante è costituito dall'allineamento del muro, che non riprende l'orientamento dei monumenti antichi in quella zona, ma corre in direzione E-W con andamento sensibilmente obliquo e convergente rispetto al tempio D, alle cui strutture poteva in qualche modo raccordarsi. Il secondo dei muri esplicitamente citati dal Marchetti Longhi, quello che correva in direzione N-S, e parallelo quindi alla linea del porticato orientale dell'antica Area Sacra (Fig. 2, g), è stato invece completamente demolito e la sua riscostruzione topografica e strutturale si basa solo sugli elementi desumibili dalle fotografie prese all'epoca dello scavo37 (Figg. 5-ó). Anche in questo caso si tratta di un muro rettilineo, costituito, tanto nelle tre assise dell'alzato quanto in quella di fondazione, di blocchi antichi reimpiegati. Nonostante l'indicazione contraria del Marchetti Longhi33, che assimila il materiale costruttivo di questo muro a quello del tratto conservato sotto Via Florida, questa struttura sembra essere realizzata in larga misura in blocchi di travertino (presenti sicuramente in tutta l'assise di fondazione e nel primo filare dell'alzato), con impiego anche di conci di tufo nelle assise superiori dell'elevato. Anche in questo caso le soluzioni tecniche adottate nella costruzione furono però analoghe a quelle già viste in precedenza: I'assise di fondazione è unica e costituita da blocchi disposti per testa, definendo una evidente risega sia verso E, dove sporge in maniera sensibile dal filo del muro sovrastante, sia verso W, dove l'aggetto appare assai più limitato. A causa della ripresa obliqua delle fotografie è difficile valutare le dimensioni dei singoli blocchi e di conseguenza quelle del tratto conservato: i conei appaiono comunque in generale di forma meno allungata che non nel caso precedente e apparecchiati secondo uno schema meno regolare. Assumendo però eome accettabile uno spessore dei conci pari a 50-60 cm. ed una loro lunghezza media, almeno per quanto riguarda la prima assise dell’alzato, di 6080 cm., se ne ricava per il tratto di muro nel suo complesso una lunghezza approssimativa compresa tra i 17 e i 20 m. ed uno sviluppo in alzato di 1,50-1,80 metri, esclusa la fondazione. Tale lunghezza presunta si rivela ben eompatibile con le informazioni che si possono ricavare dalle fotografie circa la posizione topografica del tratto di muro. Sulla base di una fotografia generale presa da W (Fig. 10), la sua testata meridionale sembra infatti coincidere grosso modo con l'allineamento del limite meridionale della scalinata del tempio B; un'altra fQtogr~fia (Fig. 6) mostra invece chiaramente come il muro medievale riprenda pressoché esattamente l'allineamento di un precedente muretto in opera listata, aneor oggi eonservato nell'area e
che corre parallelo all'antico porticato orientale ad una distanza di ca. 5,50 m. da quest'ultimo. Un'ultima fotografia mostra infine come il muraglione medievale in blocchi non giungesse fìno all'area occupata da un edificio quadrilatero in opera listata di epoca tardoantica o altomedievale (la c.d. sciola)' i cui resti si conservano nella zona nordorientale dell'attuale area monumentale. La sovrapposizione rispetto al muretto in opera listata permette di ottenere qualche informazione circa la quota dei piani di calpestio riferibili alla vita della struttura: dato che il muretto si conserva infatti attualmente per un'altezza massima di ca. 70 cm. al di sopra del livello del piano di travertino e ehe l'assise di fondazione del muro in blocchi sembra poggiarsi in quel punto direttamente sulla struttura più antica, ne deriverebbe una quota assoluta per il piano di calpestio medievale di ca. 13,30-13,40 metri s.l.m., praticamente coincidente con quella ipotizzabile per il muro meridionale e ben compatibile con quella del piano della cella del tempio B, che si trova a pochi metri di distanza dal nostro muro e le cui strutture dovevano ancora conservarsi almeno parzialmente in alzato. Le altre strutture ipoteticamente attribuite dal Marchetti Longhi alla fortificazione altomedievale sono di identificazione assai più incerta: la “fondazione quadrilatera a scaglie di marmo e selce [...} che si vede tuttora quasi al centro dell'Area tra il tempio A ed il tempio B”39 sembra infatti dover essere interpretata come struttura di epoca romana, cui vanno addirittura ad addossarsi altri tratti di muri antichi in opera laterizia. Altrettanto incerta appare l'identificazione di un tratto del muro di recinzione settentrionale, riconosciuto dal l\Iarehetti Longhi e genericamente indicato come facente angolo sul fianco del tempio rotondo B e del quale sarebbe esistita una fotografia eseguita al momento dello scavo40. Nelle fotografie pubblicate o disponibili negli archivi non compare alcun muro che possa essere interpretato come recinzione settentrionale di un ipotetico fortilizio medievale e che, se è corretta la posizione indicata dallo studioso, andrebbe ricercato nell'area compresa tra il tempio A e quello B, probabilmente a NW di quest'ultimo. Ad un muro medievale posto proprio in quella zona si riferisce invece un appunto corredato da uno schizzo, riprodotto in più copie nell'archivio Gatti. Stando al disegno e alla sua didascalia, si trattava di un muro in grandi blocchi tufacei di reimpiego dello spessore medio di 60 cm., che correva con andamento E-W e che fu visto per almeno 11,20 m. e proseguiva poi verso W sotto la strada antistante il teatro Argentina; la testata orientale del muro disegnava un angolo retto e proseguiva poi per un breve tratto verso . Del muro documentato dal Gatti non rimane oggi più alcuna traccia; la struttura venne probabilmente sacrificata nel corso del riassetto dell'area retrostante il tempio 13 per permettere un più agevole accesso alla rampa di servizio del cantiere il cui percorso è ancor oggi riconoscibile nel taglio delle strutture antiche retrostanti i templi C e D. Sembra tuttavia assai poco probabile che questo tratto di rnuro, di cui appare peraltro discutibile la cronologia medievale, possa essere interpretato come parte della recinzione settentrionale dell'insediamento fortificato 42. Fin qui giungono le indicazioni del Marchetti Longhi e le documentazioni contenute nell'archivio Gatti circa le strutture da riferire sicuramente o ipoteticamente ad una fase altomedievale dell'urbanizzazione dell'area di Largo Argentina; al t;orpas delle murature in opera quadrata di blocchi di reimpiego debbono però essere aggiunti alcuni altri tratti di muro emersi nel corso del riesame della documentazione fotografica dell'epoca. In una fotografia di dettaglio compare un primo segmento di muro in blocchi di tufo, che può essere posizionato con una certa precisione grazie a un'immagine più generale conservata nella parte dell'archivio Marchetti Longhi depositata presso la Società Romana di Storia Patria (Figg. 7-g). Si tratta di un muro rettilineo che corre in direzione E-W e che sembra partire proprio a ridosso I narlei edificati Riassumendo brevemente gli elementi fin qui analizzati appare del tutto prematuro avanzare qualsiasi conclusione circa la sistemazione edilizia dell'area;i invece possibile condurre qualche considerazione preliminare sogli aspetti più generah della sua topografia in epoca altomedievale. Allo stato attuale sembrano riconoscibili almeno tre nuclei edificati: uno costituito dalla costruzione rettangolare posta a ridosso del portico orientale, un secondo, ancora collocato a ridosso dello stesso
portico, ma più a S, ed un terzo, che sembra ruotare intorno ad un riutilizzo degli ambienti del tempio El. Nel primo caso la struttura dell'edificio appare chiaramente leggibile sui lati E, S e W- lungo quest'ultimo, meglio documentato dalle fotografie, appare anche possibile ipotizzare l'esistenza di un accesso posto all'estremità S – mentre manca qualsiasi informazione circa la terminazione settentrionale; verso N l'edificio non doveva comunque svilupparsi molto oltre il tratto conservato, anche tenendo conto del limite fisico costituito dai resti tuttora visibili del già citato edificio in opera listata, conservati ad una quota superiore a quella della fondazione del muro occidentale del nostro edificio. Meno chiaro è invece lo sviluppo del secondo nucleo quadrangolare posto a ridosso del portico antico, che potrebbe comunque ricalcare le strutture dell'edificio appena descritto. Ancora incerta è infine l'articolazione dell'edificio che poteva riutilizzare parte almeno delle strutture del tempio B, le quali, ben conservate in alzato, hanno peraltro caratterizzato e in parte condizionato fino ad epoca moderna lo sviluppo edilizio in quell'area. Più complesso appare il problema posto dai due muri che corrono isolati in direzione E-W: la loro pertinenza ad un recinzione difensiva non può essere né provata né smentita, né appare chiaro se essi appartengano ad una stessa fase edilizia e possano in qualche modo essere stati raccordati tra loro come parti di una stessa struttura. Ambedue, ben conservati in altezza al momento dello scavo, potrebbero tuttavia aver svolto un ruolo significativo nel determinare gli orientamenti di strade e corpi di fabbrica nati in epoca successiva in quell'area: il più settentrionale dei due, quello allineato con lo spazio tra i templi B e C, poté costituire, insieme a quello documentato a ridosso del tempio B, uno degli elementi che determinarono gli allineamenti degli edifici del pieno e tardo Medioevo in quel settore. La pianta delle strutture medievali individuate in elevato nel corso delle demolizioni degli anni Venti 4` evidenzia infatti chiaramente l'esistenza di diversi allineamenti paralleli, due dei quali sembrano riprendere esattamente proprio il tracciato dei due tratti di muro a blocchi. L'estremo muro meridionale, con il suo andamento angolato rispetto a quello del tempio D - il quale per parte sua conservava un orientamento parallelo a quello degli altri tre templi dell'Area Sacra potrebbe infine aver avuto un qualche ruolo nella definizione del tracciato medievale di Via Florida, al cui andamento sembra allinearsi. Come si è accennato in precedenza, mancano elementi certi circa la presenza di strutture di recinzione riferibili a questa fase lungo i lati occidentale e settentrionale dell'area, anche se va rilevato che la massiccia presenza dei portici pompciani, ancor oggi ben conservati in altezza, si prestava, almeno per quel che riguarda il settore sudoccidentale dell'area, ad essere agevolmente riutilizzata come limite di insediamento. La cronologia dell'insediamento L'insieme delle considerazioni fin qui svolte consente infine di avanzare qualche ipotesi circa la cronologia di questa fase medievale di insediamento nell'area di Largo Argentina. In mancanza dei dati ricavabili dai materiali associati ai piani d'uso delle diverse strutture individuate, indicazioni cronologiche possono essenzialmente trarsi dall'esame della tecnica edilizia, dallo studio dei livelli e dall'unico dato stratigrafico costituito dalla sovrapposizione del muraglione orientale già individuato da Marchetti Longhi ai resti della citata struttura in opera listata. La cronologia di quest'ultima struttura appare tutt'altro che chiara, ma anche in considerazione del fatto che essa era già completamente distrutta e interrata al momento della costruzione del grande muro in blocchi, se ne può ricavare per quest'ultimo una generica datazione post quem al V-VI secolo. Ad una cronologia più bassa sembra condurre l'analisi della tecnica edilizia: il reimpiego di grandi blocchi di tufo e travertino di epoca antica appare infatti uno degli elementi più caratteristici dell'architettura civile e religiosa a Roma nell'VIII e IX secolo. Lo si ritrova nei livelli di fondazione e nelle parti basse dello spiccato dei muri perimetrali di importanti chiese (per esempio S. Prassede, S. Silvestro in Capite, Ss. Quattro Coronati e S. Martino ai Monti 47), in opere di recinzione e tamponamento sempre collegate ad edifici ecclesiastici (per esempio a S. Saba e a S. Anastasia 48) e ancora in larghi tratti di muro pertinenti alla fase originaria delle fortificazioni del Vaticano fatte
erigere alla metà del IX secolo da papa Leone IV (847-855)49. Ad una cronologia nell'ambito dell'VIII-IX secolo potrebbe anche ipoteticamente riferirsi, almeno sulla base dei numerosi frammenti scultorei altomedievali rinvenuti nell'area, anche la primitiva trasformazione in chiesa dello stesso tempio A di Largo Argentina; in questo caso una muratura a grossi eonci di tufo di reimpiego è tutt'oggi visibile nelle fondazioni dell'abside e della testata della navata settentrionale (Fig. 2, i) mentre le fotografie eseguite al momento dello scavo la testimoniano impiegata in alzato nella tamponatura degli intercolumni del portico nord (Fig. 2, l), probabilmente eseguita proprio in funzione della trasformazione del rudere antico in chiesa. Un dato sicuramente congetturale ma in qualche maniera significativo è infine ricavabile dall'esame delle quote. Come si è visto infatti tutti i muri che è oggi possibile esaminare direttamente o attraverso le fotografie rimandano ad un piano di calpestio all'epoca della loro costruzione attestato intorno ad una quota di 13,30-13,40 metri s.l.m.; tale quota trova una corrispondenza piuttosto precisa nei livelli altomedievali scavati nelle cantine degli stabili posti lungo Via delle Botteghe Oscure. In quella zona è stato infatti individuato alla quota di ca. 13,20 metri s.l.m. un livello stradale ben databile sulla base dei materiali rinvenuti e della collocazione stratigrafica al pieno VII secolo, mentre ad una quota di ca. 13,50 metri s.l.m. è stato individuato un riporto di terra databile nell'ambito della prima metà dell'VIII secolos0. Considerando che i livelli delle pavimentazioni di età imperiale dell'Area Sacra dell'Argentina e della Porticus Minacia erano sostanzialmente coincidenti intorno ai 12,10-12,20 metri s.l.m. e che nello svilupparsi della stratificazione medievale e moderna l'area di Via delle Botteghe Oscure sembra denunciare una crescita dei livelli progressivamente magg~ore man mano che si procede verso E, anche l'esame delle quote sembr~a soggerire per la costruzione dei grandi muri in blocchi di reimpiego una datazione genericamente riferibile all'VIII-IX secolo. E.Z. Le caratteristiche dell'aristocrazia romana fra VIII e IX secolo: Considerazioni La presenza di insediamenti civili di una certa consistenza e in qualche misura protetti in questo settore della Roma altomedievale pone di fatto il problema di tentare di definire nelle linee essenziali i caratteri di quella classe sociale che a residenze di questo tipo avrebbe potuto almeno ipoteticamente fare riferimento. Il mondo dell'aristocrazia senatoria tardoimperiale che muore definitivamente al tempo di Gregorio Magno, quindi agli inizi del VII secolo, lascia un vuoto che si è nuovamente colmato, forse, all'interno della società romana, solo dopo l'unità d'Italia: vale a dire quello relativo alla presenza di un ceto preminente per il fatto di ricoprire funzioni di carattere burocraticoamministrativo. Le nuove leve, che dal terzo quarto del VII secolo in poi appaiono, spesso magmaticamente, a costituire il terzo polo di una società cittadina articolata in clero e popolo, sono raggruppate nell'exercitus Romanum, organizzato dai Bizantini a difesa dell'Urbe e, come sembra ormai fuor di dubbio, pienamente reclutato in loco 51. Questo ordo armato si presenta come uno dei tratti più fortemente e precocemente "medievalizzati" della società romana. Come acutamente osservava la Patlagean, quelle forze armate, che ancora al tempo di Gregorio sono considerate come uno strumento al servizio dell'ordine costituito imperiale, si trasformano via via in una componente stabile del "paesaggio umano" della città, e non si capisce più bene, agli inizi dell'VIII secolo, da chi prendano ordini, e se effettivamente vi sia ancora qualcuno in grado di darne a tutti. Quanto è fluido il processo che, nel corso della seconda metà dell'VIII secolo, porta progressivamente alla formazione di una signoria pontificia sui territori ex-bizantini dell'Italia Centrale 52, altrettanto, all'interno di Roma, risulta difficile incasellare in uno schema preciso i rapporti di potere che intercorrono fra le consorterie familiari, eredi dell'esercito bizantino, e le gerarchie ecclesiastiche del Laterano, chiamate a proporsi in qualità di nascente burocrazia della nuova Res Pablica Romanorum.
Il Bertolini parlava di contrasti, allo scorcio dell'VIII secolo, fra aristocrazia "laica" ed "ecclesiastica", come radice delle ondate di sanguinosi tumulti che attraversarono Roma fra la morte di Paolo I (767) e 1'elezione di Adriano I (772). In realtà, col Brezzi 53, dovremmo piuttosto dire che la situazione era, di regola, assai più sfumata: I'amministrazione pontificia aveva necessità di guadagnarsi delle protezioni di carattere militare, e queste non potevano prescindere da quella che, ancora nel 799, viene definita la militia Romanorum (LP, II, 6); e i laici, dal canto loro, non potevano sottrarsi all'attrazione del prestigio della Chiesa romana. Soffermandoci su aspetti particolari, non si può non considerare, in questo senso, la rapidissima "romanizzazione" del clero, che, sino alla metà del secolo VIII, era stato dominato da personaggi di provenienza orientale. Papa Adriano I (772-795), nipote e zio rispettivamente di un Teodoto e di un Teodoro, ambedue insigniti della dignità di consul et dax, esemplifica la saldatura di interessi tra le componenti laica ed ecclesiastica della società romana. L'istituzione, probabilmente alla fine dell'VIII secolo, della carica di superista, cioè di comandante militare del palazzo lateranense, che nel corso del IX secolo appare esercitata da personaggi di indubbia condizione laica, offre un altro esempio lampante di quanto appena detto54. Tuttavia non va dimenticato che, quantunque in termini tutti ancora da chiarire nei dettagli, il laicato romano eminente sembra andasse progressivamente acquisendo, nel corso del IX secolo, quella che si potrebbe definire una embrionale "coscienza di sé". Essa andava verso una definizione, tanto aulica quanto fluida, del corpo degli ottimati quale "senato cittadino": un consesso civile, quindi, che implicitamente poteva candidarsi a rappresentare autonomamente la città, e non una semplice nebulosa di uomini d'arme. Sebbene la riesumazione del termine senatus si abbia già a partire dalla metà dell'VIII secolo in ambito pontificio 55, è però indubitabilmente dal successivo che la coloritura prettamente militare dell'aristocrazia romana tende a mescolarsi con tinte diverse. Nel caso in cui i pontefici fossero essi stessi espressione di quelle stesse consorterie familiari "senatorie", come nel caso di Adriano I, Stofano IV (816817) o Sergio II (844-847), si assiste ad un sostanziale equilibrio, in Roma, tra le forze in campo. Quando, tuttavia, il soglio papale fu occupato da personaggi più decisi a conferire accenti autocratici al proprio ruolo - come Leone III (795-816), Pasquale I (817-824), Nicola I (858-867) o Giovanni VIII (872-882) -, gli scontri armati che puntualmente si verificavano tra questi e gruppi di ottimati romani, non senza appoggi nel cleroSó, riproponevano tutti i problemi irrisolti rispetto alla ripartizione dei poteri e dei compiti all'interno della città. Dunque, le fonti scritte ci dicono sen'altro che l'aristocrazia romana, fra VIII e IX secolo, pur tendendo a svolgere un ruolo più complesso nella vita cittadina, non cessa di costituire essenzialmente un ceto militare. Tuttavia, i personaggi che ne fanno parte si muovono come fantasmi entro uno scenario urbano che resta come uno sfondo indistinto su cui risultano, finché il Liber Pontif ralis ce ne parla, solo delle iniziative pontificie. Come ha opportunamente puntualizzato Etienne Huberts7, inserendo le concrete azioni degli uomini all'interno del grande affresco di Roma steso dal Krautheimer, si riesce a ricostruire, per il secolo X e gli inizi dell'XI, una tipologia della dimora aristocratica che si caratterizza come una parodia imbarbarita della domus tardoromana, ché tale ancora viene prevalentemente definita dalle fonti. La troviamo costituita da un corpo di fabbrica sovente a due piani decorato più o meno riccamente conspolia, circondato di spazi aperti, detti curtes, destinati a giardino o a coltura ed eventualmente ospitanti servizi accessori, quali pozzi, balnea o cappelle; il tutto delimitato talora da rovine di edifici antichi. Non troppo dissimili, forse, questi agglomerati, da quelli, purtuttavia più rozzi, emersi, per le fasi di VIII-X secolo, dagli scavi dei siti di Santa Corneliass e di Monte Gelato 59, i cui complessi residenziali sembrano essere delimitati da strutture di recinzione non troppo impegnative. In sostanza, resta ancora difficilmente superabile la discrasia tra l'immagine di un'aristocrazia romana politicamente assai attiva e turbolenta, talora protagonista di episodi di inaudita ferocia che le fonti narrative ci propongono, e quella, speculare, di un paesaggio urbano assai poco "militarizzato", che tale perm~rà sino all'XI secolo inoltrato. Una città "disaggregata", come ce la restituisce Hubert, bastava a rendere inutile il proliferare di apparecchi difensivi ? Oppure ci sfugge ancora qualcosa di molto importante riguardo la mentalità e i rapporti di forza nella Roma del tempo, che tratteneva i
singoli dal crearsi castelli privati e contribuiva a serbare presso i pubblici poteri (il pontof~ce, I'imperatore, il pr~nceps Romanore~m) il muna~s della fortificazione? Molto della risposta giace in una storia della società romana fra IX e X secolo, che non è ancora stata scritta. F.M. La continuità dell'insediamento Pur nella labilità delle fonti a disposizione sembra dunque che l'età carolingia segni in questo settore della città un mutamento significativo del paesaggio: il sistema viario ormai sufficientemente consolidato sembra svolgere un ruolo di raccordo tra diversi insediamenti, anche cintati, che sembrano svilupparsi in quest'area marginale dell'abitato. Il nucleo insediativo della città doveva infatti ormai essersi prevalentemente ristretto nella zona compresa tra Campidoglio e Tevere, includendo gli antichi portici del Circo Flaminio, ma non superando probabilmente in maniera consistente il limite segnato approssimativamente dall'attuale Via Arenula 60. Rispetto all'ipotesi 61, che descrive un sostanziale vuoto insediativo tra questa area e quella aggregatasi nel frattempo attorno al Pantheon, almeno fintanto che non venne a formarsi la contrada del Calcarario 62, sembra a noi dunque che il paesaggio urbano di questo settore si caratterizzasse, più che per una mancanza di insediamenti, per la presenza di pochi complessi, anche di considerevole mole, alternati ad aree aperte, destinati a condizionare lo sviluppo della viabilità e, in seguito, le forme della rinascita dell'abitato. Intorno alla fine del millennio l'asse, in particolare, della futura via delle Botteghe oscure ci si presenta pertanto come un segmento di una rete stradale che si snoda tra una serie di nuclei edificati e di aree più o meno aperte o abbandonate, dove si inseriscono insediamenti ecclesiastici che ne fiancheggiano sia il lato settentrionale (S. Lucia e, più defilati, S. Lorenzo e S. Salvatore de Calcarano), sia il lato meridionale (S. Maria e S. Lorenzo in Castro arureo, S. Lorenzo/Salvatore in pensilis). Possiamo domandarci se l'insediamento ecclesiastico della basilica di S. Marco possa aver svolto in questo contesto il ruolo di un rilevante polo di attrazione per un settore cittadino potenzialmente già periferico. Tra VIII e IX secolo l'iniziativa dei papi Adriano I e Gregorio IV concernente non solo il ripristino del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, ma anche il restauro della chiesa di S. Marcob3, potrebbe infatti iscriversi nel contesto della formazione dei nuclei residenziali di alcune preminenti famiglie romane in settori urbani o periurbani più adatti ad una espansione dell'insediamento ed al controllo dell'area ad esso circostante64. La presenza della residenza familiare di Adriano I nei pressi della basilicaóS può giustificare tale iniziativa ed insieme aiutare a definire il ruolo che il tracciato della via che attraversava l'antica Portic'4sMin?'cia era chiamato a svolgere nella Roma carolingia, tanto nella viabilità locale quanto come segmento del tracciato che collegava il Vaticano al complesso del Laterano. Le calcare Tra gli insediamenti abitativi ed ecclesiastici si sviluppano in questa età le attività delle calcare, in ideale successione con quelle dei lapicidi e marmorari tardoantichi. Dalla loro presenza trarrà il nome di Caleararo la contrada che avrà il suo centro nella omonima strada aperta tra le due anticheporticusMinaciae. Se la più remota denominazione della contrada non ci conduce 7~1 di là dell'XI secolo66, non vi è dubbio tuttavia che 1'attività di calcinazione dei marmi e dei travertini antichi di Roma si fosse andata sviluppando in questo settore del Campo Marzio assai per tempo, certo sin dal secolo VIII 67. Quel nome doveva dunque essere attribuito all'area urbana interessata dallo sviluppo dei forni da calce sin dai primi secoli dell'alto Medioevo. Confermano questa impressione le testimonianze archeologiche relative a calcare che vengono ad anticipare considerevolmente le numerose testimonianze scritte che
dall'XI al XVI secolo illustrano abbondantemente la diffusione di questa attività economica nell'area delle Botteghe oscure 68. Dall'area stessa della Crypta Ball~i sono infatti emersi i resti, assai ben conservati, di una calcara messa in opera nel vano dell'esedra antica, allorché il livello del suolo si era andato alzando di circa un metro rispetto al pavimento antico. Dopo un lungo abbandono il rudere dell'esedra si era quindi prestato alla installazione di una attività produttiva evidentemente alimentata innanzitutto con i materiali provenienti dalla demolizione dello stesso edificio ospitante, in un'epoca compresa tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo 69. Indipendentemente dalla episodicità delle testimonianze archeologiche finora riscontrate sul terreno, la calcinazione dei marmi antichi dovette comunque costituire l'attività economica prevalente di questo tratto di abitato, anzi forse di periferia urbana, che abbiamo visto purtuttavia caratterizzato da consistenti insediamenti, ma non da una densa rete di abitazioni. Ma accanto alle calcare sembra che altre attività produttive possano aver mantenuto a questo tratto del Campo Marzio una sia pur ridotta vocazione artigianale, che potrebbe aver caratterizzato anche gli anni centrali dell'alto Medioevo. Gli scavi delle fasi altomedioevali dell'antica esedra della Crypta Balói hanno dato testimonianza infatti nei contesti del VII secolo dell'esistenza in quest'area di un'officina adibita alla lavorazione del metallo e forse anche dell'osso e poi nell'VIII secolo avanzato di attività di carattere metallurgico, connesse alla lavorazione del rame, e verosimilmente riferibili alla vita del vicino insediamento ecclesiastico di S. Lorenzo 70. E non mancano le tracce archeologiche che lasciano supporre - sempre nell'VIII secolo - I'esistenza di attività relative anche alla lavorazione del vetro, forse estrema testimonianza nel tempo di quelle saltuarie attività di produzione vetraria che Lucia Saguì ha potuto individuare per l'età tardoantica nell'area della stessa antica esedra 71. Nel caso almeno delle attività dei calcarari, ci troveremmo in presenza di forme di insediamento produttivo concentrate in aree a vocazione artigianale ben definita, del genere che ci è parso di scorgere nell'attigua contrada del Caccabariam, dove - a partire dalla presenza di un arcaico santuario di Vulcano - I'attività metallurgica e bronzistica si sarebbe tramandata eccezionalmente intatta addirittura per millenni, e quindi anche nei secoli dell'Alto Medioevo, concentrandosi attorno alla chiesa di S. Maria in cacaóaris o de' calderai 72, il cui ricordo è traslato oggi nella chiesa di S. Carlo ai Catinari, sorta a ridosso dell'area consacrata già a Vulcano e alle sue arti 73. La rinascita dopo il Mille: la ripresa dell'abitato Una svolta nel paesaggio urbano dovette verificarsi in quest'area nel corso della prima metà dell'XI secolo, quando venne portata a compimento una massiccia opera di demolizione e recupero delle strutture antiche, e in particolare del muro sud della Porticus Minucia, verificata dallo scavo nelle diverse cantine sottoposte ad indagine 74. Nell'ambito di un processo di ampliamento dell'abitato, teso a favorire il ricongiungimento di quei nuclei che avevano mantenuto più di altri continuità di insediamento nel corso dell'Alto Medioevo la città riconquistava gli spazi e si espandeva verso nord 75. Prime tracce di attività edilizie di probabile carattere abitativo appaiono proprio in questo torno di tempo nella Via delle Botteghe oscure, come conseguenza - non sapremmo dire quanto diretta - del citato intervento di recupero delle rovine antiche. Si venne allora a formare una modesta unità abitativa, composta forse di due ambienti, I'uno ricavato nel rudere stesso, I'altro organizzato in quella fascia marginale alla via, che abbiamo visto progressivamente allargarsi nel corso dei secoli. Nello stesso tempo assistiamo al succedersi di attività edilizie anche sul lato orientale del Castrum aurem, nell'area dell'antica esedra della Crypta Baloi, che dall'inizio del millennio ospitava un bagno 76. La prima metà del XII secolo vede d'altronde accrescere il ruolo dell'area gravitante attorno al colle Capitolino 77. Questo processo economico e sociale che caratterizza la Roma del XII secolo trova un riscontro archeologico nelle grandi case che, per la prima volta, vengono a marcare in questo settore
urbano una ripresa generale delle attività edilizie, riflesso delle mutate condizioni economiche e demografiche e causa di un repentino cambiamento del paesaggio urbano. Nel corso del XII secolo, in concomitanza con una più intensa edificazione anche del bacino dell'antica esedra 76 sorge infatti lungo il fronte sud della via una serie di vere e proprie case di abitazione, affacciate sulla strada e addossate al muro esterno del Castrum auream. Quattro di queste, in condizioni di conservazione assai diverse, sono state evidenziate dallo scavo e dall'analisi, ancorché parziale, degli elevati sottoposti a restauro 77. Anche se il grado di conservazione delle singole unità abitative varia da casa a casa, esso non impedisce di cogliere nel suo complesso il risultato di una attività di edificazione concentrata nel tempo, che forse tradisce in quell'area un assetto della proprietà, e quindi una organizzazione degli spazi, ancora unitaria. Alla fine del XII secolo siamo già in presenza di un nucleo cospicuo di domussolarateetteg~late, che marcano uno stacco profondo rispetto al paesaggio urbano appena formatosi con la ripresa edilizia dei decenni precedenti, ma anche con il paesaggio urbano tuttora prevalente 60. In esse si insediano ceti sociali emergenti prevalentemente mercantili e in grado di dotarsi di abitazioni qualitativamente superiori al panorama esistente, puntigliosamente registrate nella bolla papale del 1192 attraverso la menzione specifica di domus e di caminate addossate alle parietes alte et antique del Castellum ó'. Queste case segnano dunque il radicamento nel rione di un nuovo ceto sociale e marcano al tempo stesso un sensibile mutamento dell'uso degli spazi su tutta l'area pomeriale esterna a N del Castrum aureum. Con la definizione anche architettonica del tracciato stradale, la formazione del gruppo di isolati gravitanti sulla via sorta nel V secolo è ormai definitiva. D.M. DANIELE MANACORDA, FEDERICO MARAZZI ENRICO ZANINI 1 Per un'analisi più dettagliata si rinvia a MANACORDA 1993 (ivi anche bibliografia precedente), di cui questo contributo costituisce una continuazione e un approfondimento. 2 La appartenenza della contrada della Pellicceria al tracciato della Via Papale (su cui cfr. ADINOLFI 1865) è certa nel XV secolo, anche se il nome di Via Papae appare talvolta limitato al tratto occidentale del percorso, come attesta, ad esempio, il Diario di Stofano Caffari nel 1442: “...et vie pelliparie usque ad domum R. Montanarii et ibi volvit et ivit per viam pape” (COLETTI 1885, p. 567). Il suo sbocco orientale coincideva con la piazza di S. Marco (cfr. ad esempio il Diario di Biagio da Cesena relativo all'ingresso di Carlo V in Roma nel 1536, in PODESTÀ 1878 p. 328); il tratto occidentale aveva invece inizio là dove alla fine del XV secolo sorgevano le case dei Cesarini, in corrispondenza del cosidetto Quatrivio Pellipariae (cfr. EGIDI 1908, I, p.326: fine del XIV secolo), dove la strada incrociava la Via dei Calcarari e dove sorgeva la già ricordata chiesa dei SS. Quaranta de Calcarariis, altrimenti detta de Pellicciaria (cfr. ibid., p. 346). Non sappiamo quando la Pellicceria ebbe a sostituire la sua parallela meridionale nei percorsi processionali e trionfali. È possibile che la formazione di alcuni insediamenti nobiliari di rilievo lungo il suo allineamento - tra cui principalmente quello degli Altieri accentrato attorno all'omonima piazza (cfr. PROIA-ROMANO 1936, p.112 e SCHIAVO 1962) -possa aver svolto un ruolo di attrazione rispetto alla via delle botteghe, cioè all'arteria mercantile lungo la quale non troviamo nel corso del tardo Medioevo insediamenti altrettanto cospicui. 3 LANCIANI 1893, tav. XXI, si veda anche la pianta pubblicata in MANACORDA 1990, p.40 fig. 4, lett. ~ (Chiavica dell'Olmo). RODRIGUEZ ALMEIDA 1981, tav. XXVI, 35cc=411. 5 RODRIGUEZ ALMEIDA 1981, tav. XXII, 3De=398; cfr. MANACORDA 1988/89, p. 78. 6 È possibile che il violento terremoto che colpì Roma nell'847 (Lib. Pont., II, p. 108 = V, XII; Terremoti 1989, pp. 613-614) abbia lasciato le sue tracce nel circondario, se ad esso dobbiamo attribuire il crollo delle ultime coperture dell'antica esedra della Crypta Balbi (SAGUì 1989, p. 33 Crypta Balti 5, p. 9) e probabilmente anche quello di parte almeno della facciata interna deli'intero monumento, il cui crollo è riemerso nell'area del Saggio X, attualmente in corso di studio (per una sua localizzazione si veda la piantina in MANACORDA 1987, p. 604; notizia del rinvenimento in MANACORDA 1988, p. lO).Quel terremoto potrebbe aver causato anche la caduta del rudere del tempio della Ninfe, sul lato opposto della via. Le colonne meridionali della sua petistasi vennero infatti rinvenute al suolo disposte in modo tale da lasciar supporre un evento sismico di carattere analogo a quello ipotizzato per il crollo dei muri del complesso di Balbo. Le osservazioni fatte al momento della scoperta del tempio nel 1938 non sono tuttavia sufficienti per proporre una
cronologia soddisfacente dell'evento. Un appunto del Lugli (1951, p. 488) potrebbe indicare una datazione del crollo ad età piuttosto antica, dal momento che le colonne del tempio sembra venissero rinvenute “sopraun leggero strato diterriccio”, al di sotto di uno “scarico” di circa 4 metri. In tal caso, considerato che i livelli di IX secolo si collocano sull'altro lato della via a circa 1,25-1,50 metri dal suolo di età imperiale, non si potrebbe escludere per il crollo del tempio una cronologia ancor più alta, da mettere in relazione con i citati terremoti del V secolo o con quelli che colpirono ripetutamente la città alla fine dello stesso secolo e ancora fino al 618 (cfr. Terre~noti 1989, pp. 148, 609-610). Risulta in proposito di grande interesse la notazione "giornalistica" di un testimone, che poté osservare la stratificazione dell'area in occasione di una visita agli scavi nel giugno 1938: “Il tempio, da quel che lo scavo ha rivelato in modo indiscutibile, è caduto in rovina in periodi ben distinti, ed, infatti, gli strati archeologici dànno per risultato che al livello antico sono i cornicioni, su questi è un alto strato di terreno di riporto, e sopra ancora sono i tamburi delle colonne. Da una breve indagine - breve come lo permetteva il tempo della visita - è sembrato di trovare, a chi scrive, nel terreno di riporto tre strati: il superiore è terriccio, il secondo, di frammenti fittili antichi ed in due punti allo stesso livello ma a distanza fra loro, anche con scorie di materiale combusto; il terzo strato che s'adagia sul livello antico è di terriccio pur esso. Gli strati sono inclinati come falde di un tumulo formatosi col vertice sul tempio. Un lasso di tempo piuttosto considerevole deve esser quindi passato tra il momento in cui sono caduti i cornicioni e quello che ha visto, invece, il crollo delle colonne” (traggo il testo da un ritaglio di giornale anonimo, firmato LAZZ, conservato presso l'archivio della X Ripartizione AA.BB.AA. del Comune di Roma; ringrazio per l'informazione R. Santangeli Valenzani). 7 MANACORDA-ZANINI 1989, pp. 30-31. 8 SCHIAPARELLI 1902, pp. 345-349, n. LXXIX; KEHR 1906, I, pp. 108-109, MARCHETTI LONGHI 1922, p. 667 ss.; Crypta Balti 1, p. 104, fig. 31. 9 Per il concetto di crypta in documenti coevi cfr. DE MINICIS 1988, p. 13 e HUBERT 1990, p. 204. 10 Dell'antico teatro doveva allora essersi persa infatti la memoria, ma non del tutto la forma, probabilmente ancora riconoscibile nel XIII secolo in quel che le fonti ci testimoniano per il 1203, allorché vi furono rinchiusi gli elettori al tempo della contesa che oppose il popolo di Roma ad Innocenzo III (R.l.S. 1723, pp. CXXXIX-CXL). 11 BIONDO 1531, II, c. CIX, p. 258; cfr. MARCHETTI LONGHI 1922, p. 662. 12 Cfr Crypta Balbi 5, p. 133. 13 ALEO DI-LEvl 1895, nn. 38, 40, 52, 62, 118, 167. 14 MARCHETTI LONGHI 1922, pp.669-670. 15 ALLODI-LEVI 1895, p.105. 16 HUELSEN 1927, p.331; ARMELLINI-CECCHELLI 1942, II, p.695. 17 MARCHETTI LONGHI 1926, pp.379-381. 18 llid., p. 380, nota 153. 19 Cfr. GEERTMAN 1975, p.97. 20 FABRE 1887, p.438, n.49, p.444, n.158. 21 HUELSEN 1927, p.331. 22 MARCHETTI LONGHI 1919, PP. 502-504. 23 GRIMALDI 1622, f.39r-v 24 Cfr. anche HUELSEN 1927, p.285. 25 Cfr. Crypta Balbi, p. 25 e un dettaglio della planimetria del Bufalini ibid., p. 105, fig. 32. 26 Per la localizzazione dell'area (XII) degli scavi - da molti anni purtroppo sospesi - cfr. Ia piantina in MANACORDA 1987, p. 604. 27 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1919, P. 428, nota 3 che a proposito delle due chiese parla di una non meglio definibile “contiguità assoluta”. 28 ASV, Reg.Lat 222, f. 274r 29 Cfr. per l'età più tarda HUELSEN 1923. 30MARCHETTI LONGHI 1960, p. 21; MARCHETTI LONGHI 1972. 31 Per la cronistoria delle diverse fasi dello scavo di quest'area cfr. MARCHETTI LONGHI 1930, pp. 11-18; MARCHETTI LONGHI 1932, pp. 253-276; MARCHETTI LONGHI 1960, pp. 4-8. 32 Per l'identificazione della torre e per i problemi connessi alla toponomastica della zona in epoca tardomedievale cfr. MARCHETTI LONGHI 1932a; CUSANNO 1992. 33 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1972, p. 28. 34 Cfr. MARCE1ETTI LONGHI 1930, p. 17, fig. a p. 8. 35 A questo proposito ci è gradito sottolineare la cortese collaborazione della prof. Maria Letizia Pani Ermini, Presidente della Società Romana di Storia Patria, e dei funzionari della X Ripartizione del Comune di Roma, che ci hanno agevolato nel reperimento e nella riproduzione del materiale loro affidato. Un ringraziamento particolare va a Riccardo Santangeli Valenzani, da tempo impegnato nello studio delle fasi tardoantiche e altomedievali dell'Area Sacra, con cui abbiamo potuto discutere molti dei problemi qui affrontati. 36 I filari di fondazione poggiano a loro volta su uno strato di terra dello spessore di ca. 50 cm. (ben visibile nella foto d'epoca e oggi pressoché totalmente sostituito da un moderno conglomerato cementizio di sostegno), che oblitera in quel punto il piano della pavimentazione in travertino di età imperiale, posto a una quota assoluta di ca. 12,10 m. s.l.m.
37 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1970/71, tav. XI. 38 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1960, P. 21. 39 MARCHETTI LONGHI 1960 P. 31. 40 MARCHETTI LONGHI 1972, P. 28. 4'1Si tratta dell'appunto conservato in più copie redatte in momenti diversi e contrassegnate dai numeri d'inventario 3433-3435. {Jna esplicita indicazione dell'orientamento ~lel muro viene fornita solo nel disegno contrassegnato dal numero d'inventario 3434 e che c~tituisce una copia redatta nel 1942 dell'appunto originario preso nel 1930 (cónservato a sua volta in due versioni: nn. 3433 e 3435). L'orientamento indicato appare però rovesciato ed evidentemente incompatibile con altre indicazioni contenute nell'appunto originario. 42 I dati relativi alle quote che si ricavano dalle indicazioni a corredo dello schizzo sembrano infatti incompatibili con tale interpretazione. Secondo l'appunto, la seconda assise dei blocchi che costituiscono il muro giaceva a una quota di ca. 5,00 metri sotto il piano stradale: considerando una quota assoluta del piano stradale al momento dello scavo valutabile intorno ai 17 m. s.l.m. (sulla base di altri appunti riferiti a zone vicine), se ne ricaverebbe che la quota assoluta del piano di fondazione si collocherebbe circa 60 cm. al di sotto del livello della pavimentazione in travertino di epoca imperiale, con un salto di quota di quasi due metri rispetto ai piani di fondazione delle strutture medievali fin qui esaminate. Va notato inoltre come i resti degli edifici antichi siano ancora conservati in quell'area a quote ben superiori e che l'unica zona in cui sarebbe potuto passare un muro di quelle dimensioni e a quella quota si colloca già dietro il tempio B, in posizione non facilmente compatibile con l'allineamento dettato dal tratto di muro medievale posto lungo il lato orientale dell'Area Sacra. La questione posta dall'appunto del Gatti è quindi piuttosto complessa e lascia spazio sostanzialmente a due ipotesi: o l'appunto, già peraltro impreciso in qualche particolare, contiene anche una errata modificazione delle quote, per cui il preteso muro medievale fu visto in realtà ad una quota sensibilmente più alta, o si tratta invece di un errore di interpretazione e il muro stesso deve essere letto come un resto di una struttura più antica, analoga a quelle dello stesso tipo che compaiono in quella zona all'incirca alle stesse quote. In ogni caso, anche alla luce della mancanza della documentazione fotografica citata dál Marchetti Longhi, sembra che sia di fatto da escludere una pertinenza di questa struttura al tessuto dell'ipotetico insediamento fortificato altomedievale. collocazione del muro in questione rispetto all'antistante palazzina e al portichetto della c.d. Torre del papito può essere ricavata solo in termini approssimativi. Al corpas delle murature altomedlevah m grandi blocchi di reimpiego presenti nell'area di Largo Argentina deve infine essere aggiunto un altro segmento di muro, costituito da due filari di blocchi squadrati di tufo, posti a sopraelevare precedenti tamponature in laterizio, in uno degli intercolumnij probabilmente il terzo da W, del porticato che correva quasi a ridosso del tempio A, costituendo di fatto il limite settentrionale dell'antica Area Sacra (Figg. 2, m; 12). 46 Cfr. MARCHETTI LONGHI 1932, p.12, fig.3. 47 Cfr. KRAUTHEIMER 1981, p.163,174; per S. Martino ai Monti cfr. anche BERTELLI GUIGLIA-ROVIGATT1 1976-77, pp.150-152 48 Cfr. \4ARTA 1989, pp.21-28 49 Cfr. GIBSON WARD PERKINS 1979, p.43, tavv. V,b e Vl,a-b. 50 Cfr. MANACORDA-ZANINI 1989, PP. 30-31. 51 Cfr. PATEAGEAN 1974; BROWN 1984. 52 Cfr. BERTOLINI 1941; ARNALDI 1987. 53 Cfr. BREZZI 1947, PP. 97-99. 54 Cfr. NOBLE 1984, PP. 235, 248-249. 55 Cfr. ARNALDI 1982. 56 Cfr. DUCHESNE 1447; LLEWELLYN 1975. 57 Cfr. HUBERT 1990, PP. 74-83; 179-189. 58 Cfr. CHRISTIE 1991. 59 Cfr. MARAZZI-POTTER-KING 1989. 60 Cfr. KRAUTHEIMER 1981, P. 304 SS. Sui caratteri essenziali della Roma d'età carolingia cfr. DEEOGU 1993, P. 24SS. 61 KRAUTHEIMER 1981, PP. 317-318. 62 SAGUI’ cfr. infra. 63 Per S. Marco cfr. KRAUTHEIMER 1962, P.219. SU S. Lorenzo in Pallacinis, probabilmente da identificare con S. Lorenzo/S. Salvatore in pensilis (su cui cfr. MANACORDA 1993, PP.43-46), tornerò in altra sede (per le fonti efr. FERRARI 1957, P. 192). 64 KRAUTHEIMER 1981, PP. 147, 321. 65 Lib.Pont.,1,486=XCVII,2;sullasuafigurainrapportoaRomacfr.KRAuTHEIMERl981, P. 143 SS. 66 Più precisamente al 1024: cfr. Ia citazione di un Rodalplo qui resedit ad Calearia in HARTMAN 1895, PP. 58-54, n. 47 e in CECCHEEEI 1932, P. 112, nota 3. 67 Sul fenomeno, in generale, osservato attraverso i documenti a partire dal X-XI secolo cir. HUBERT 1990, PP. 225-226. 68 Per la presenza di calcare nel XVI secolo si vedano, ad esempio, i dati archivistici ed archeologici esposti in Crypta Balbi 4, pp. 26-27.
69 Sullo scavo della calcara cfr. SAGUì 1986. Una calcara di dimensioni e struttura assai simili, definita come "medievale", è tornata in luce a non grande distanza dall'isolaro di S. Carerina nel corso dei lavori di demolizione degli stabili sulla Piazza Campirelli (cfr. COLINI 1941). 70 Cfr. rispertivamente SAGuì 1993a e CIPRIANO etal. 1991, pp. 9s-1o1. 71 SAGuì 1993, in part. p. 132 72 Cfr. HUELSEN 1927, p. 315, ARMEELINI-CECCHELLI 1942, II, p. 1350 e—per quanto attiene alla ropografia medioevale della zona - MARCHETTI LONGHI 1940, p. 264 ss. e GÙNTHER 981, pp. 371-372. 73 MANACORDA lsso, in part. p. 43. 74 Cfr. MANACORDA-ZANINI 1989 e MANACORDA 1993. 75 KRAuTHE1MER 1981, p. 337 ss., p. 309, fig. 193a; HUBERT 1989 e 1990, p. 127 ss.. 76 Cfr. Crypta Balbi 5, p. 15 ss. 77 Cfr. in generale FRUGONI 1950 e in particolare KRAUTHEIMER 1981, pp. 315, 354 e BONASEGAEE PITTEI 1983, p. 608. 78 C7:vpta Ball i 5, p p ~ 44-5 2 79 Cenni in MANACORDA 1988, pp. 111-1 12. 80 Cfr HUBERT 1990, PP. 172 ss. e in part. p. 174 per la stima di un rapporto quantitativo rra domus terranee e solarate di 4 a 1 in favore delle prime nel periodo compreso tra 1150 e 1200. 81 Sulla rarità delle caminate nelle case private del XII secolo cfr. HUBERT 1990, PP. 20s206; sul loro valore cfr. ibiid., p. 353.
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Villes, économie etsociété dans la province de Bruttium-Lucanie du IV au VIIe siècle
L'historiographie des villes de la province unissant le Bruttium, (devenu Ca,labre dans la seconde moitié du VIIe siècle, nom jusque là réservé à l'actuel Salento) à la Lucanie avait jusqu'à il y a peu un grand retard non sculement pour l'Antiquité tardive et le haut Moyen Age, mais aussi pour la période impériale. Les Romains, lorsqu'ils établirent lcur domination sur la Grande Grèce, maintinrent certes en vie les agglomératiQns urbaínes préexistantes, lcur accordant progressivement le statut de municipe ou y créant des colonies. Les memes raisons qui avaient fait élire le site de la polis grecque (I'ouverture sur la mer indispensable aux échanges, I'existence de plaines fluviales et littorales fertiles) assurent alors sa pérennité. Mais les villes, qui perdent lcur r81e politique et voient lcur superficie réduite de fa,con drastique au cours du IIIe siècle av. J.-C., sonffrent désormais de la comparaison avec l'age d'or qui précède et qui a longtemps accaparé l'attention des chercheurs. Citons le cas de Locres dont le périmètre hellénistique, défendu par une enccinte continne, est bien connu: la ville grecque, situce à 3~5 km de 1'actuelle Locri, entre les fiumare Gerace et Portigliola, s'étendait sur 230 ha à cheval sur la plaine c8tière et les collines. A I'époque romaine, I'habitat ne couvre plus guère qu'une trentaine d'hectarest. Crotone s'étalait elle aussi cntre les collines et la mer, de part et d'autre de l'embouchure de l'Esaro, jusqu'au prornontoire de l’actuel centre historique (618 ha), occupé par 1'acropole; la zone basse est progressivement abandonnée puis détruite au profit de cette hautour qui stavance dans la mer. Métaponte se réduit à un castrum presque carré défendu par un système vallum-agger qui ne convre qu'un dixieme de la superf~cie primitive. Ces agglomerations n'en constituent pas moins de véritables villes au sens romain du terme: centres administratifs et lieux d'échanges qui :4rainent les produits de I'arrière-pays pour lcur propre consommation et pour I'exportation et redistribuent les marchandises importées d'outremer. Si lcurs vestiges, longtemps négligés et méconnus, ont pu etre interprétés comme de simples bourgs de colons2, des progrès sensibles ont éré réalisés en ce domaine: les informations, encore éparses, convergent pour donner de la ville rornaine une image coherente et homogène. Les plans de Locres, Scolac~um, Vibona, Copia Thur~i et Métaponte obéissent à un urbanisme rationnel, organisé selon des réseaux orthogonaux de rues souvent dallées, hérites de la Grande Grèce. Surtout elles s'enorgueillissent d'une architecture monumentale, symbole de l'ancienneté et de la permanence de la civilisation3, manifestation tangible de la puissance et de l'aisance économique des grands propriétaires qui y résident dans des dom~us décorées de fresques et de mosa~ques. Enfin elles offrent un certain nombre de services et d'aménagements d'intéret public (forum, thermes, aqueducs). Ainsi, au nord de Reggio, immédiatement à l'extérieur des vieux murs grecs, le bord de mer est aménagé à grands frais, de part et d'autre du torrent Santa Lucia, dont l'embonchure est canalisée et régolarisée: un mur de terrassement orné de niches flanque un grand nymphée à exèdre onvrant sur la mer et communiquant avec la partie arrière où est installée une citerne; cette réalisation monumentale est nettoyée et entretenne pendant deux siècles4. Aux IVe-VIIe siècles5, comme partout aillcurs, ces agglomérations subissent une mutation radicale: quelques - unes sont désertées, d'autres survivent sous une forme différente. Surtout de nombrcux autres habitats groupés apparaissent alors qui ne sont pas officiellement urbains, sont sonvent inconnus des textes, mais concurrencent les villes et finissent parfois par les remplacer. Les données archéologiques des vingt dernières années ont déjà comblé de nombrcuses lacunes des sources écrites, immenses pour les IVe-Ve siècles, et bonleversent les typologies établies; elles facilitent une relocture des ccuvres qui éclairent en revanche le VIe siècle (Variae de Cassiodore, Guerre gotliq?`e de Procope, correspondance de Grégoire le Grand), mais ont été insuffisamment exploitoes pour l'histoire sociale. Mieux vaut donc partir de ces réalités parfois inattendues et très diversifiées, "urbaines", semi-urbaines, ex-urbaines ou en voie d'urbanisation, et tenter d'en dégager les caractères spécifiques par rapport aux autres habitats connus~;ce qui les distingue dans les structures matérielles et les
fonctions, la vision aussi qu'en avaient les contemporains. Les pages qui suivent s'efforcent d'utiliser de manière égale l'archéologie et les sources écrites, non sculement pour définir les modes de production et de consommation des deorées et des biens, mais pour tenter une approche des groupes dirigeants, de lcur comportement et de lcur évolution ainsi que du controle et de la territorialisation des ponvoirs étatique, religieux, économique et "seigneurial". Le IVe siècle est un bon point de départ pour l'étude de la transition: le cadre traditionnel s'est maintenu, avec l'organisation en villae et villes6 qui ont conservé lcur physionomie impériale. Il est marqué par deux faits majeurs: I'épanouissement du christianisme avec l'émergence de l'Église comme puissance économique et financière d'une part, la reprise d'une conjoncture économique favorable d'autre part. L'exposé de ces phénomènes fournira la matière de notre première partie. C'est aussi au IVe siècle que s'affirment les établissements intermédiaires et s'accentue un processus de séloction des villes, certaines connaissant un renouveau, d'autres un déclin rapide; I'évolution staccentue avec les invasions du Vò siècle qui finissent par provoquer un effacement général des agglomérations urbaines. Les années 530 sont décisives, qui voient s'inverser cette tendance sous l'impulsion d'événements surtout politiques: on observe un redémarrage des villes, marqué parl'apparition de caractères nouveaux, désormais spécifiquement médiévaux. Le tournant des VIe-VIIe siècles donne le signal d'une grave crise militaire et économique, mais le fait déterminant pour l'habitat est le maintien des échanges à longue distance jusqu'à la fin du VIIò siècle. 1. Éve^~ues, capitalistes et spéculateurs: les conditio~zs no?~velles de la repr~se économique La diffusion du christianisme est bien attestoe dans le Bruttium dès le IVe siècle par le mobilier et les inscriptions, notamment dans le Sud. L'encadrement pastoral n'est cependant sans doute mis en place que peu à peu, meme si nos informations sur les sièges épiscopaux sont certainement très lacunaires. Les sculs évechés connus au IVe siècle, par le hasard des inscriptions, sont ccux de Blanda et Tauriana7. Lorsque ccux de Scolaciam, C?opia Thurii et Vibor~a apparaissent dans la documentation écrite à la fin du Ve siècle, ils sont cependant déjà richement dotés et bien structurés, avec un clergé hiérarchisé et des archives. L'Église utilise d'abord les cadres administratifs disponibles, en instaurant des sièges dans les principales civitates: outre celles déjà citoes, à Temesa, surement aussi à Reggio et peut-etre à Cosenzaa. Le paysage urbain s'en tronve profondément transformé: I'éveque et son entourage habitent en ville; basiliques, baptistères, abris des archives et du trésor, résidence meme du prélat, de sa parentèle (à Scolaciums) et de son clergé, qui appara~t sonvent fourni à la fin du VIe siècle (pretres, sous-diacres, archidiacre, administratours, miles à Myr~a, Cosenza et Reggio~o, sans compter les réguliers), forment un ensemble d'édifices d'un certain niveau architectural qui constituent un nouveau p81e d'attraction, sans doute sonvent assez éloigné (pour des raisons idéologiques?~~) de l'ancien centre et de ses monuments abandonnés. Ces groupes épiscopaux ont rarement été identifiés (Métaponte en donne sans doute pourtant un bon exemple), en partie pour la meme raison probablement, mais tout semble indiquer qu'ils ont provoqué, ou contribué à l'éclatement de certaines villes en plusieurs noyaux ou à des glissements de sites et que lcur transfert sur des lieux plus protégés a pu etre déterminant. Mais l'Église, surtout, a concurrencé la ville en accaparant les largesses des fidèles: tot (code théodosien) en position juridique de recevoir et de gérer des biens, elle a vu son patrimoine foncier s'accro~^tre rapidement dans le Br~?ttium, par donation des empercurs, puis des rois goths~2, mais aussi des personnes privées. Les massae pontificales ~uvrent de vastes portions de l'agerpullicus montagneux~3 dans la chame tyrrhénienne et les Serrest4 pois la Sila~s, qui fournissent dès la fin du VIe siècle, et encore au tournant des VIIò-VIIIà siècles, le bois de charpente des églises romaines~ó; elles comprennent aussi les bonnes terres vinicoles et céréalicoles des hauts plateaux vallonnés du PorrO7 qui ravitaillent Rome en grains. La massa trapcia'~a? peutetre issue d'une donation de Constantin, est attestoe très probablement dès la première moitié du IVe siècle, en tout cas au milieu du siècle suivantt7 et celle de Nicorcra au VIe siècle~~. Quant aux biens des évechés et meme de lcurs églises paroissiales, ils sont assez étendus pour exciter la convoitise, notamment celle des gen?tes locales, surtout lorsque celles-ci epronvent des difficultés
économiques à la fin du Ve sièclet9 et au VIe siècle20. Les ministeria des églises de M>r~a et de Cosenza comprennent de la monnaie d'argent et des vases2~. Les monastères sont aussi dotés23. Les fidèles investissent pour lcur salut, mais aussi pour lcur profit immédiat car la construction d'églises est rentable; le patronage religieux 23 pourrait dans une certaine mesure se substituer à l'évcrgetisme, mais il prend souvent la forme d'oratoires privés qui, s?ur les domaines, cristallisent la population 24 et, dans les villa?e suburbaines, favorisent eux aussi la "polynucléarisatiQn". Et le surplus est desormais drainé de diverses manières, qui n'ont pas forcément laissé de traces archéologiques: en objets précieux, en argent pour l'entretien du clergé 25 et, malgré les interdictions, en paiement de certains serviceS:ó. Le sacerdoce est également très convoité, qui dispense de la curie et donne accès aux richesses ecclésias?tiques: malgré les interdictions, il pnise sans doute largement dans les élites; on en veut pour prcuve la violence des rivalités pour s'ass?urer du siège de Scolacium? 27 et les efforts du pape pour contr81er la nomination des éveques, en proposant des candidats venus d'autres diocès 28, De meme, de petits propriétaires ruinés, des curiales donc souvent, cedent lcurs bien$ à 1'Eglise, perdant lcur liberté, et on peut supposer que celleci les y contraint parfois, affaiblissant d'autant les villes 29. La modestie du réseau urbain provoque dès le IVe siècle 1?installation d ?autres évechés dans des stationes nées au cocur de grandes villae pourvues d'un sanctuaire (Tauriana); assez rapidement (au VIe siècle) le pape est en outre amené, pour convrir les besoins de ses massae, à crécr de nonveaux sièges dans des centres de gestion domaniaux (Tropea, Nicotera). Ces évechés, associés aux noyaux le$ plus dynamiques de 1'habitat, jonent un r81e caractéristique dans la naissance de la ville, comme ccux qui existent dans certains vici ou latifundia de Ponille30. Les souscriptions conciliaires et les notices épiscopales, notre source principale - parfois unique - de meme que la correspondance pontificale, qui s'adresse préférentiellement aux éveques, pourraient ainsi donner une image fausse de la hiérarchie des établissements. Elles ignorent en effet des regroupoments considérables, qui égalent ou éclipsent les cités épiscopales, les stationes du sud-est aux IVe-VIe siècles ou, aux VIe-VIIò siècles, I'ensemble de Tiriolo, connu par une scule mention hagiographique avant le Xe siècle. Aux VIIe-VIIIe siècles en revanche, les géographes et chroniqueurs lombards3i citent à plusieurs reprises comme les civitates les plus importantes de la Calabre, outre l'éveché de Cosenza, Malvito et Laino, qui ne sont pas villes épiscopales et non Bisignano, où l'existence d'un éveque est attestoe dès 74332. La renaissance de l'Italie méridionale à la fin de l'Antiquité, mise en évidence par F. De Robertis, qui défend l'idée d'une économie en pleine expansion et d'un progrès constant de l'agriculture au cours de la période, est acceptoe par K. Hannestad pour la fin du Ve et le VIò siècles. Cette thèse a été rejetoe par L. Cracco-Ruggini: en accord avec l'image traditionnellement sombre de la transition, celle-ci voit les provinces du Sud, meme si elles approvisionnent désormais le reste de l'Italie, engagées depuis la fin du IVe siècle dans un processus continu de décadence, qui s'aggrave surtout au VIe siècle33. En fait l'archéologie a renouvelé la question en montrant que l'intuition de F. De Robertis était juste et que l'Italie méridionale, au-delà d'un nombre non négligeable de caractères généraux distinctifs, présente des situations micro-régionales très diverses. Dans la mesure où l'équilibre agricole est fragile, les crises sont fréquentes; mais qu'elles soient de caractère naturel (sécheresse et tremblements de terre) ou événementiel (invasions terrestres ei raids maritimes), elles touchent très inégalement les différentes aires considérées. À cela stajoutent des productions relativement diversifiées qui subissent différemment la concurrence des provinces extra-italiennes, puis à l'inverse le contrecoup de lcur perte par l'empire. Ainsi la Ponille connaıt-elle aux IIe et IIIe siècles une période de récession, très sensible dans l'histoire des villae de la Capitanate34. Les désertions sont tout aussi nombrcuses en Lucanie, ainsi à San Giovanni di Ruoti, villa du Ier siècle av. J.-C. édifiée à 25 kilomètres au nordouest de Potenza3;. Métaponte, qui est encore au Ier siècle de notre ère un oppida~n jouissant du statut municipal, tombe en ruines: le fossé, volontairement comblé, est définitivement transformé en nécropole, les matériaux hellénistiques sont rcutilisés dans de rares et pauvres petites pièces tandis que l'agerse réduit notablement36.
Dans le Bruttium en revanche, I'épanonissement architectural de l'ensemble des établissements est attribué aux Ier-IIIe siècles; scules les villes, après une période faste au IIe siècle (ainsi Scolacium où les monuments sont embellis), sont touchées par la crise générale du IIIe siècle, sensible à Reggio, dépeuplée par la peste de 24637. La baisse continne des prix du vin, du blé et du lard aux Ve-VIe siècles, alors que l'Italie est de plus en plus réduite à l'autosuffisance, n'est sans doute que partiellement due à une diminution de la population33. Celle-ci est sure à Rome au VIe siècle39 et est en partie à 1'origine d'une notable réduction de l'annone adaerata du Bru~tiam-Lucanie par rapport au milieu du IVò siècle, mais le Sud lui n'est victime d'ancune chute démographique notable, au moins perceptible par l'archéologie; le Bruttiam en particulier ne semble pas avoir été touché par la peste de Justinien et peut-etre Hannestad a-t-il meme raison de supposer une augmentation de la population. Les divisions planimétriques internes des habitats l'attestent dans les villes40, dont 1'abandon se double toujours par aillcurs de la création d'un, voire de plusieurs autres centres, comme dans les agglomérations intermédiaires4~. La réduction drastique des sites ruraux, générale du IVe au VIe siècle42, résulte surtout du rassemblement d'une main- d'ccuvre jusqutalors dispersée en petits noyaux sur les lieux memés d'exploitation et de la concentration des fundi en massae. Et ces regroopements ne doivent pas etre interprétés uniquement en termes de récessigln: la sécurité jone tout autant que de nonvelles nécessités économiques. Des villue sont réoccupoes et agrandies au tournant des IIIe-IVò siècles43, tandis que de nouveaux sites sont aménagés en grand nombre. Reste la reprise de la production, celle des porcs et de l'huile, du vin et du blé, tous phénomènes que L. Cracco-Ruggini n'admet qu'avec de fortes nuances et repentirs. Trois factours ont été déterminants de ce point de vue pour l'Italie méridionale: I'annone d'abord joue de manière très contradictoire, mais toujours positive pour le Sud, directement en régularisant les prélèvements et en libérant le surplus pour le commerce libre, ou par contrecoup. En provoquant aillcurs le recul de certains sectours de l'activité agricole qutelle grève trop lourdement, elle laisse en effet le champ libre aux régions qui ne sont pas tonchées dans ces domaines spécifiques. Viennent ensuite la persistance d'une forte demande privée, à Rome notamment jusqu'à la guerre grécogothique, et le maintien d'un commerce libre qui incitent à la spéculation44, certaines provinces, comme la Campanie aux IVò-Ve siècles, ne suffisant pas à lcurs propres besoins en porc, vin4S et blé; la conquete enfin de nombrcuses provinces par les Vandales au Ve siècle. C'est sans doute pour les besoins de l'imp8t en nature que les routes, dont les sources littéraires décrivaient l'état d'abandon dans le Sud, sont restaurées, la route littorale ionienne tout particulièrement, à partir de Constantin46. Elles servent la croissance d'autres productions agricoles commercialisables et celle de l'artisanat, qu'il y soit lié ou non (amphores, céramique), et favorisent l'essor des statiores qui s'y échelonnent. Malgré un relief essentiellement accidenté, un réseau hydrographique très articulé autorise, avec les plaines littorales, un système de circulation organique et efficace. Trois grands axes traversent le Sud de l'Italie: la Traiana, parallèle à la cote orientale de la Ponille; I'Appia, de Capone à Tarente, et son diverticule, la Popilia qui de Salerne se dirige vers Reggio par l'intérieur pnis par le littoral au sud du Savuto. La plus grande partie du Bruttium et de la Lucanie jonissent d'une économie à prédominance silvo-pastorale, stimulée au départ par l'annone. L'exemple de San Giovanni di Ruoti montre de manière éclatante qu'il en est ainsi pour l'élevage des porcs en Lucanie, de manière encore limitoe au IVe siècle, beancoop plus nette ensuite avec l'occupation de la Sardaigne, autre gros fournisscur, vers 45547. Le meme phénomène se produit sans doute pour celui des bocufs du Bruttiam qui semble avoir fourni les fonds nécessaires à l'essor de la viticulture et de la fabrication d'amphores, toutes entreprises exigeant des investissements en capitaux et en main- d'ccuvre. La province suffit toujours au ravitaillement de Rome en viande et en lard au Ve siècle, alors que la ville est encore très peuplée43; et au VIe siècle, meme si, on l'a vu, le montant global de sa contribution49 est fortement réduit par rapport au IVò siècle, bien que la consommation se maintienne: L. Cracco-Ruggini y voit d'abord le signe d'une crise, puis admet une certaine reprise de l'élevage, tout en supposant que le marché libre a du de plus en plus suffire aux besoinsSo. On ajoutera à ce tableau les ovins des
plateaux calcaires de Pouille et, à partir du Ve siècle en tout cas, les vastes troupeaux de chevaux du Bruttiumst. Dans le meme domaine, bois et poix sont plus que jamais utiles durant cette période avec le recul de la ma,connerie et les besoins de la marine byzantine, mais aussi l'essor de la production artisanale. Or les forets, malgré la fragilité écologique du milieu, ne sont que très partiellement épniséesS2. Mais la relative variété des sols et des reliefs permet à ces régions une production diversifiée. La vigne, déjà traditionnelle dans le Bruttiam, s'y développe considérablement au IVe siècle, en partie grace à la crise agri~le et à la pression fiscale qui frappent le Nord. Un vin de renom est, comme l'indique la distribution de la Keay LII, exportéS3 non sculement sur la cote ouest de l'Italie centro-septentrionale, où son prix baisse aux VIe-VIIe siècles, mais dans tout le bassin occidental de la Méditerranée, dans l'Adriatique et en Grèce. Les aléas du ravitaillement au IVe siècleS4 et surtout 1'occupation de l'Afrique par les Vandales dans les années 430-440 favorisent par aillcurs certainement le développoment de l'oléicultureSS. L'olivier, qui se satisfait des memes sols et exige le meme travail spécialisé, est le plus sonvent associé à la vigne, tant dans le sud-est du Bra~ttia~ms6 qu'en Ponilles7, presque toujours dans les territoires les plus proches des villes, mais on ignore encore $i 1'huile est destinée à 1'exportation ou sculement à la consommation locale. Du reste l'essor de ces cultures à risque, qui exigent une abondante main- d'ccuvre constitue en lui-meme une prcuve de prospérités8. À partir du moment où le blé d'Égypte est accaparé par Constantinople, Rome est ravitaillée en grains par l'Afriquess et par 1'Italie septentrionale60. Dès ce moment cependantóó, le Sud paraıt développer une céréaliculture déjà traditionnelle en de nombrcuses régions (dans la plaine de Sibari par exemple) pour la consommation locale, avec parfois un surplus pour le marché libre et déjà sans doute la spéculation62. De plus en plus à partir de la fın du IVe siècle, I'annone recourt au blé méridional, celui de l'Apulie-Calabre et de la Sicile en particulier, qui remplacent enfin l'Afrique conquise par les Vandales dans les années 43063. Les razzias en Sicile à partir des années 440 et 1'occupation de 1'ıle en 468 entraınent une intensifícation de la céréaliculture dans le sud de la péninsule, peut-etre moins en Ponille où les villue du Tavoliere par exemple conservent lcurs structures de production de l'huile pendant tout le siècle64, que dans d'autres régions fertiles qui ne sont pas écrasées par la coemptio et peuvent conce~rer, éventuellement par voie fluviale, les grains dans les ports, d'où ils sont convoyés sur les marchés libresóS: tel est le cas du golfe de Tarente66 et de certaines régions du Bruttium comme le massif du Porro où la cote entre Soverato et Botricello (à Scolacium en particulier)67. Une telle évolution rend compte en partie de la baisse de l'annone du porc et des bccufs, et explique l'essor connu par la massa pontificale de Tropea au Ve siècle. Elle prend diverses formes: petites ou moyennes propriétés gravitant autour de la statio portuaire de Métaponte (cf. infra) ou possessores-negotiantes pratiquant une céréaliculture intensive sur lcur indominicatum et se livrant à des spéculations du genre de celles que décrit Cassiodore pour une zone non spécifiée6s. Enfin la peche alimente la consommation locale (on pense aux viviers de Cassiodore) et l'exportation de luxe, ainsi que des industries. LeBruttium et la Lucanie exportentdoncvers l'onestetle nord l'excédent de lcur production agricole; ils forment aussi avec la Sicile dont ils constituent le prolongement un pont naturel entre l'Afrique et l'Italie centrale d'une part, entre l'est et I jonest du bassin méditerranécn d'autre part; d'où lcur importance stratégique pour Byzance, comme pivot de la reconquete de la pars occidentalis, d'où lcur double appartenance aux deux aires culturelles et commerciales aussi. Les échanges interrégionaux et à longue distance ne semblent guère y avoir faibli du IVe au VIe siècle et se maintiennent jusqu'à la fın du siècle suivant, avec un net flochissement il est vrai. Les troupeaux, à qui le trajet faisait perdre une bonne partie de lcur poids, étaient conduits par voie de terre70. Les porcs de Lucanie pouvaient emprunter les multiples axes reliant le golfe de Tarente à la Popilia. L'Appennin lucanien en particulier était drainé au Bas Empire par une route nord-sud unissant la Popilia à l'Appia par Potenza, sur laquelle était placce, à proximité d'un col, la villa de Ruoti, vouce à l'élevage des porcs. Les bocufs suivaient les sentiers de transhumance bien attestés dans la Sila7i et franchissaient le Pollino par le Vallo di Diano où ils étaient vendus annnellement avec d'autres betes à la foire de Marcellianz~m72.
Certaines denrées étaient transportoes, en cas de nécessité (péril sur mer par exemple en période de guerre) par chariots à bocufs73. Mais les trajets terrestres sont extremement lents74, lcur cout est prohibitif pour les marchandises et ils présentent des difficultés parfois insurmontables. Aussi a-t-on le plus souvent possible recours aux navicularii. Les produits sont souvent acheminés vers les grands ports par les fleuves, pnis par cabotage le long des cates. Ainsi les grains de la plaine métapontine sont-ils stocl~és dans les magasins du port fluvial relié à la mer. Les importations arrivent et se diffusent de la meme manière: Cassiodore se fait l'écho de ce trafıc intense qui s'effectue dans les deux sens sur l'ensemble des cotes de la province75. Les produits africains en premier lieu sont, comme dans toute l'Italie méridionale76, largement majoritaires jusqu'à la fin de la période. Mais scul le versant adriatique ou ionien entretient, à partir du Ve et surtout du VIò siècles, des rapports de toutes sortes avec la Dalmatie, ce qui est naturel, mais aus$javec la Grèce et avec l'Orient, phénomène qui confère à sa physionomie sociale un aspect original. C'estparlac8te occidentale que passe 1'axe principal reliant Rome au Sud par le littoral ou par la Popilia. Les ports stratégiques et commerciaux de Reggio et Vibona drainent par la route cotière et l'isthme de Catanzaro les produits de toute l'extrémité de la péninsule, recoivent les importations d'Afrique (à Tropea par exemple) et distribuent le tout vers l'Italie du Nord et l'onest de la Méditerranée, vers lesquels ils constituent une escale. Par son orientation géographique, ce versant du Bruttiam gravite dans une aire occidentale incluant l'Espagne et la Sardaigne77; ses liens avec Rome (qutil ravitaille en bois et en blé) sont renforcés par le développoment des massae pontifıcales. Les rapports de la cote orientale et de la Lucanie avec l'Afrique sont tout aussi étroits et continus, qutil s'agisse d'échanges commerciaux ou d'influences socio-culturelles, celles-ci pénétrant notamment les sphères chrétiennes et aisées. La céramique africaine est bien attestoe jusqu'à une date tardive sur tous les sites du littoral ionien, qu'il s'agisse de sites urbains7s, de ~illue etlou de stationes ou autres regroupoments79, jusqu?au golfe de Tarente. Et elle est largement imitoe sur place à partir du IV~ siècle, dans le nord-est de la Lucanie où des fours ont été retrouvés à Calle di Tricarico, et sans doute dans le sud-est du Br~ttiamso: la sigillée par un revetement d'argile ocre, rouge ou brune délayée, d'abord étendu sur l'ensemble du vase, puis réduit à quelques larges bandes pcintes, simples conlures ou ornements géométriques sonvent grossiers; les amphores ensuites~, et les lampes. C'est d'une véritable symbiose avec l'Afrique qutil faut parler pour le sud de la péninsule, qui sert aussi de relais vers Rome, notamment pour les pèlerins qui empruntent la route ionienne jusqu'à l'isthme de Catanzaro (cf. infra): les affinités des classes dirigeantes avec celles de l'Afrique y sont grandes pour le mode de vie et les mentalités; elles se traduisent notamment dans le plan des villae ~ Brattiam ou les motifs de lcurs mosa~ques. Les communautés juives également semblent lices à celles de Tunisies3 et de Rome: elles se ramifient au long des axes sud-nord passant par Reggio etlou le littoral orientals4. Si une baisse des importations africaines a été observée sur certains marchés, dans le Brutti?'m elles ne semblent pas sonffrir de l'installation des Vandales, qui avaient évidemment tout intéret à maintenir le trafic. Mais la guerre a forcément ralenti les livraisons, poussant les grands propriétaires à développer l'oléiculture et la fabrication locale non sculement d'amphores, mais aussi de vaisselle de table: le fait que l'imitation de la céramique africaine prenne justement son essor au Vò siècle incite à mettre en relation les deux phénomènes, ainsi que la prépondérance de la Keay LII sur certains sites du sud-est cultivant la vigne et les oliviers (Bova par exemple); à partir du moment où des structures artisanales sont mises en place, il est évidemment tentant de développer la production d'autres terres cuites et l'archéologie a bien montré que les ateliers étaient polyvalents. L'essor de la viticulture et les débonchés commerciaux offerts par une population dense ont joné dans le meme sens. Des motivations idéologiques ont du aussi exister, si on pense justement à la haine suscitoe chez les propriétaires fonciers africains, expropriés et parfois exilés, certains précisément en Italie, par les Vandales ariens. C'est d'autre part au meme moment que les amphores d'Asie mineure et de Palestine, qui coexistent partout avec les africaines, les concurrencent sériensement dans les principaux établissements
méridionaux. Elles y affluent à partir de la fin du VIe siècle, tandis que la céramique fine de meme provenance y est aussi représentoe. Dès le IVess, mais surtout du Ve au VIIò siècle, I'Italie méridionale produit de la céramique à grande échelle. Pichets, cruches et petites amphores de production locale, portant parfois sur l'épaole un décor incisé et sonvent ornés de larges bandes pcintes se retronvent dans toute l'Italie méridionales6 et forment un groupe cohérent qui frappe par son amplcur et son homogénéité. Ils abondent dans les niveaux tardifs de tous les sites urbains en Lucanie et dans le Brattium (à l'est Copia Thur~i, Locres, Scolacium romaine et tardo-antiques;, Reggio-Lido et, sur l'autre cote, Vióona, Nicotera et Tropeass) et y caractérisent, comme en Pouille et en Campaniess, les habitats mineurs des VIe-VIIe sièclesso. Si une certaine irrégularité dans l'exécution montre qu'il ne s'agit plus désormais d'une production industrielle, le nombre et l'aspect relativement standardisé des formes et le maintien d'une certaine qualité dans la technique de la pate, le tournage et la cuisson sont cependant le fait d'ateliers professionnels; on se sert d'une céramique de cuisine strictement locale, mais on achète aussi partout, meme dans les petits établissements ruraux, de la vaisselle de table importoe ou non. Ceci suppose l'existence d'un niveau de prospérité agricole assez élevé pour dégager un surplus et d'entrepreneurs en mesure d'organiser la production et la distribution. La capillarité de cette dernière, comme l'intensité de l'ensemble des échanges rendent amplement compte du maintien de l'importance des quelques grands ports et de l'installation systématique des habitats de tous types sur les petits fleuves sans doute encore navigables pour la plupart. 2. IVe-Ve siècles. Aristocrates ruinés et parvenas orientaux: le déclin des vieilles familles et la prolétarisation des villes Malgré l'absence presque totale de témoignages écrits pour le IVe siècle, I'archéologie montre donc qu'en dépit de désastres naturels répétés (tremblements de terre et raz-de-marée surtout dans la seconde moitié du siècle) tous les faits de société et d'habitat doivent etre interprétés e~Italie méridionale dans un contexte de croissance. Cette courbe ascendante est ralentie ou momentanément interrompue cette fois, au Ve siècle, par une série d'événements de type "catastrophique". Le tournant des IVe-Ve siècles avait déjà été marqué par une série de mauvaises récoltesst et une crise politique. La descente des Wisigoths dans le Sud en 410 semble s'etre accompagnée, dans la ligne du sac de Rome, de ravages assez désastrcux pour justifier de gros dégrèvements fiscaux et crécr une crise durable92. Les raids vandales ont pu atteindre les cotes d'Italie à partir de 44093, avec unc rccrudescence vcrs 455 ~I, jusqu'à la mort de C'enséric cn 477. Mais unc fois de plus, lcs différentes rogions paraissent avoir été tres incgalement attcintes: la Pouillc beaucoup plus par les WisigotUs 5, le Bruttium dc manière continne, surtout le littoral où les dcstructions sont nombrcuses (Rcggio I,ido peut-ctrc, Casignana l'alazzi surement ). 1,a 1,ucanie quant à elle semblc preservée, sur la cotc comme à l'intcrieur, OU la villa de San Giovanni di Ruoti cst rcconstruite et cmbollie à deux rcprises. Seol un petit nombre dc villes profite dc la renaissance cconomique. Ce sont les centres dc pouvoir(Reggio etCanosa) et les ports en mesure d'accueillir les navircs dc gros tonnagc sur des sites stratégiques favorablcs aux échangcs à longuc distance: Tarentc, aboutissement de l'Appio~, Otrantc et Crotone, tctes de pont vers l'Orient, ou Vilona. Comme à Canosa, la nonvelle organisation provinciale confèrc à Keggio, siègc du corrertor, un rolc de premier plan ct y fixe la population de rnanière stable (foncrionnaires et burcaux) ou provisoirc avec les multiplcs déplacements administratifs. Les hesoins nés de ces rassemblcments et lcur role motour dc contre de commandcment, ne peuvent qu'accro~trc unc vitalité commerciale due à la position de Canosa sur la 7raiarna, de Rcggio sur le détroit, à l'extrémitc de la Pop~lia. 'I`outes ces villcs drainent ensuitc lcs ressources dc l'arrière-pays pour lcurproprc consommation etpourles redistribucr. Elles stimulentune production diversifiée, en partic destinée à l'cxportation: huilc, vin, légomes pour le tcrritoire de Rcggio, voué par ses sols à ce type dc cultures qui nécessite une abondante main- d'o_uvre~7. Tarente, comme certainement Reggio et Canosa, Crotone sans doute aussi sont de gros marchés de l'huile etlou du vin. Il en est de mcme pourVibora, lieu
d'embarquemcnt vers Rome de la poix, du bois, pnis du grain lorsque les papes ont pris en mains le ravitaillement de la ville. Ce sont aussi des centres de transformation dcs produits de la peche (scctcur peut-etre stimulé par l'occupation de l'Afrique tant pour la teinture que pour les sauces de poisson), de l'élevage et évcntuellement de l'extraction minière. En Ponille, le murex et la laine des troupeaux d'ovins alimentent dès le IVò siècle l'industrie textile de Canosa et de Venosa'~, ainsi que des tcintureries à'I'arente' et peut-etre aussi à Otrantc où la pourpre est cn tout cas récoltoe depuis le Ve siècle au moinsit. A Reggio de petites structures d'habitat et d'artisanat (fonte du bronze et pcut-etre travail des peaux) sont installées, vers le début du IVe siècle, sur le littoral à l'intérieur de la grande fa,cade à niches (cf. supra). Ces activités provoquent une expansion de la ville en direction de la mer, comme à Marseille entre le Ve et le VIIe siècles et à Otrante où un quartier de petites boutiques remplace au IVe siècle une nécropole abandonnée, employant de nombrcux ouvriers et faisant prcuve d'une remarquable vitalité'`~~. Reste que celle-ci peut aussi donner, du point de vue archéologique, une impression de paupérisationlt, . Ainsi à Reggio-Lido, les structures fonctionnelles sont privilégices au détriment de l'aspect monumental: le mur de terrassement, les digues et la converture du fleuve sont refaits au début du Ve siècle, mais si on y ajoute encore un portique et un escalier menant à la fontaine impériale de la terrasse supérieure, aucun sonci édilitaire ne transparalt plus ensuite, tandis que les murs se réduisent à des galets ou des briques mal cuites assemblés à sec et quton substitue de la terre battue aux pavements. L'abandon de certaines dom~xs luxuenses (phénomène autant lié à l'installation de lcurs propriétaires à la campagne qu'à la concentration accrue des richesses) et lcur réaménagement précaire ne signif~ent pas déclin de la ville, mais afflux de salariés, accentuation de son caractère productif aux dépens de l'aspect résidentiel; ce salariat urbain s'appauvrit-il réellement? Le fait est loin d'etre sur, avant la guerre gréco-gothique tout au moins~03; les points de comparaison manquent pour en décider, car on ignore tout des habitats modestes de la période impériale. Ces industries centrées sur la ville sont gérées par l'État (une teinturerie impériale à Tarente au IVe siècle, la gestion de la pourpre à Otrante au VIe siècle) alors qu'à l'extérieur un artisanat davantage lié à l'agriculture semble pris en main par les possessores, et peut-etre faut-il y voir un élément de lcur désaffection à l'égard de la ville. Mais toute la main- d'ccuvre ne réside pas intra muros: à Otrante, souligne Cassiodore, la pourpre fait vivre tot artifices, tot rautarum catervae, mais aussi tot familiae r~sticorum; le fait qu'entre Canosa et Venosa tout un système de manufactures impériales s'échelonne dans la vallée de l'Ofanto~o4, plaide pour une décentralisation du travail plutot que pour des paysans allant travailler en ville. Tout ce qui précède montre que les grandes villes vivent en symbiose avec un territoire densément peuplé qu'elles animent et où une certaine hiérarchie de la propriété semble s'etre maintenue, puisqu'on y tronve aussi bien des villue que des vici ou cio^riatoS. La plupart des nombrcuses villue impériales qui s'étagent sur des terrasses fertiles et panoramiques au nordouest de Vil~ora survivent jusqu'au Ve siècle inclus; particulièrement denses vers la cote où elles sont sonvent desservies par de petits ports, elles allient l'exploitation du bois à une économie agricole et marine: on y élève le poisson pour la fabrication de conserves salées, de thon surtout. Elles re~coivent la céramique africaine et cristallisent le peuplement. Le IVe siècle voit aussi une floraison d'habitats groupés sur les cotes sud et sud-est, véritable capillarisation de l'occupation du littoral: villae imp~iales ou agglomérations avec lcurs nécropoles associces. La production de vin et d'huile a suscité la concentration dans la meme zone, riche par ailleurs en argile de qualité et largement fournie en bois par l'Aspromonte, d'ateliers fabriquant des amphores. La fonille de l'un d'entre eux, à Pellaro, a confirmé pour la première fois de manière sure que la fabrication de la forme Keay LII, ultérieure manifestation du redémarrage économique de la région, devait bien etre attribuce au Brattium, tout en fournissant une datation sure aux IVe-Ve siècles. Il stagit d'un gros centre regroupant, comme sans doute la plupart des autres, plusieurs fours et vasques de décantation et associant à celle des amphores la fabrication d'autres terres cuites, dont la
céramique commune. Des fours ou dépotoirs de ratés de cuisson ont été repérés sur quatre autres sites voisins, datés par le matériel associé des IVe-VIe siècles. Ils s'échelonnent, comme tous les autres établissements, sur la route c8tière, à proximité des rivières assurant l'indispensable ravitaillement en eau, avec la possibilité d'utiliser lcur embonchure comme ports-canaux, en mesure donc d'exporter lcurs produits. À l'exception de celui de Pellaro, implanté sur un site neuf, ces ateliers sont associés à de grandes villae impériales, le plus sonvent à celles qui, du IVe au VIe siècle, ont développé autour d'elles de vastes stationes~06. Ainsi la croissance semble avoir été prise en main dans la majeure partie des cas par la frange la plus dynamique des grands propriétaires terriens, des clarissimi sonvent ( Lazzaro est peut-etre la villa où Cicéron a été re ,cu par Pul~lius Valerius), les sculs à disposer de réserves financières et qui les investissent dans la vigne et la production industrielleto7, prenant en mains 1'exportation du vin et peutetre de l'huile. Ils rassemblent une main- d'ccovre rurale et artisanale autour des centres de gestion de lcurs domaines et intriguent peut-etre meme pour que des stationes y soient installéesto8. Le meme modèle se retronve sur les fertiles plateaux céréalicoles et vinicoles qui bordent la cote au nord-est de Reggio. Tauriana n'est à l'origine qu'une des villae qui s'y développent dans les deux premiers siècles de notre ère, à quelques centaines de mètres sculement d'un port mineur mais suros. Son nymphée semi-enterré est transformé dès la première moitié du IVe siècle en basilique funéraire pour la nécropole désormais chrétienne de l'établissement. Saint Fantino y est enseveli, tandis que la statio qui s'est développoe autourtt~ devient siège épiscopal. L'ancien nymphée, devenu la crypte du sanctuaire décrit~ans la vita du saint au début du IXè siècle sans doute, par l'éveque Pierre de Tauriana, est en effet expressément qualifié d 'agiasiailatiolikèsekklèsias. Parmi les entrepreneurs figurent certainement les communautés juives vennes de Tunisie, ainsi à San Lazzaro et surtout à Bova-San Pasquale où une synagogue est construite au début du IVe siècle, et fonctionne aux Vò-VIe siècles un four produisant céramique de table et amphores ornées d'une ménorahttS. Peut-etre meme les Juifs ont-ils acquis au IVe siècle la villa voisine du premier age impérìal, devenant d'abord propriétaires terriens et passant au Ve siècle à une activité marchandet. L'exploitation des ressources semble aussi avoir eu pour cadre des petites communautés de propriétaires indépendants, peut-etre soudées par la nécessité de planifier et coordonner l'organisation des récoltes, I'utilisation des pressoirs et les rapports avec le marchét. Certains établissements des environs de Vil~ona pourraient etre ainsi des pré-villages, tot pourvus d'églisestt3 comme d'autres sur le promontoire du Porrot~9. Il en est de meme de quelques petits vici et stationes sur le territoire de Reggio; il n'est cependant pas toujours possible de savoir si une villa n'est pas à l'origine de ces regroupoments. Spontanés, ils peuvent avoir été favorisés par les besoins créés par la croissance, ne serait-ce que du point de vue des échanges. Les grandes villes ont scules maintenu avec le territoire qui constitue lcur support économique les rapports harmonieux qui caractérisaient la vie romaine. Les grosses agglomérations intermédiaires dotoes comme Bova-San Pasquale'20 d'un véritable port et très étendues, ont certainement lcur propre marché et se passent de mieux en mieux des anciennes citést2~. Lespossessores-negotiantes ont cependant tout intéret à posséder lcur siège principal à Reggio, lieu d'échanges et de commandement, les Juifs comme les autres, qui y disposent d'une synagogue. D'autres établissements comme Locres souffrent en revanche de cette concurrence. Sa période de splendeur remonte aux Ie'-IIIe siècles où elle s'orne d'imposants édifices publics, exemple de symbiose idéale entre une ville et son agerriche et densément peuplé,22 Et de nombrcuses familles dominantes, qui possèdent de grandes villue extraurbaines, y résident. Au IIIe et surtout au IVe siècle le territoire conna~^t une phase de grande prospérité, fondée sur l'association d'une probable céréaliculture d'autosubsistance et de la production de l'huile et du vin, celle-ci surement pour l'exportation~23. Cette conjoncture favorable semble avoir suscité une vague édilitaire rurale de la part des citadins ou d'immigrés: en sont témoins les villae qui y fleurissent alors. On y distingue deux catégories de propriétaires terriens. Un bon nombre de domaines d'importance moyenne subsistent, dont la villa du Naniglio fournit un bon exemple: construite à la f~n du Ier siècle
av. J.-C., elle est réaménagée jusqu'au IIIe siècle au moins, sinon au IVe, sur un plan connu par les mosa~ques africaines et pourvue de thermes. Son luxe est modéré: les matériaux, de provenance locale si l'on excepte quelques marbres, ont été travaillés par des ma~tres d'ccuvre du pays. La villa pourvoit à ses propres besoins en métaux et terres cuites et les importations, africaines ou orientales, y sont limitoes. Des propriétaires traditionnels de ce style, sans doute de racines locales (ou installés dès le tournant des IIIe-IVe siècles), largement onverts aux influences africaines, sont encore profondément imprégnés des valcurs de la civilisation romaine, cultivent le respect de la vie citadine et conservènt sans doute lcur demoure principale en ville. Mais l'enjeu politique y a depuis longtemps disparu et l'attention d'autres possessores est en train de se reporter sur le profit qui d'aillcurs sous - tend désormais le ponvoir: déjà quelques - uns d'entre eux semblent gérer lcurs fundi de manière novatrice et y adapter lcurs modes de vie. L'ensemble de Casignana de Palazzi présente en effet un tableau bien différent de celui du Naniglio, avec son luxe ostentatoire, ses marbres importés à grands frais, la qualité de ses mosa~ques, sa vaisselle et ses amphores d'Afrique. Ses propriétaires ont rassemblé autour du centre d'exploitation une agglomération qui convre 15 pas, mais ils doivent abandonner les batiments devenus dangereux faute d'un entretien, très coutoux pour des structures de cette amplcur. La vie se poursuit cependant à coté, jusqu'à la seconde moitié du VIIe, peut-etre jusqu'au VIIIe siècle. Les idées toujours rebattues d'abandon des villae, de lcur "réoccupation" par une catégorie sociale inférieure, de l'appauvrissement des techniques de construction, ne traduisent sans doute pas la réalité: I'habitat des cultivatours et des dépendants, auxquels se joignent peut-etre les possessores ruinés, perdure à c8té de la résidence devenue inhabitable sous la forme qui a toujours été la sienne (solins de pierres liés d'argile, élévation de torchis ou de briques crues, sols de terre battue). Comme on l'observe à Casignana, saccagée après 425, les propriétaires n'ont plus assez d'argent pour reconstruire les thermes, mais ils occupent peutetre encore une partie, meme réduite, des autres structures; en tout cas, les dalles de marbre et le métal sont récupérés et les ruines sont utilisées comme dépotoir par l'habitat voisin, d'abord la partie centrale, pnis sans doute lorsque celle-ci devient impraticable, les pièces périphériques, jusqu'à la fin du VIIe siècle et peut-etre au VIIIe et meme au-delà. Les débris de tombeaux profanés lors du raid semblent avoir été mis à l'abri au meme endroit, le plus décent dont on disposait alors. Par la suite d'aillcurs, les ruines, qui fournissent une sorte d'enclos et de protection aux sépultures (toutes appuyées aux murs), servent toujours de cimetière. Tout cela n'empeche ancunement que, dans d'autres cas, des populations en quete de stabilité et d'identité aient pu s'installer à coté de villue abandonnées depnis un siècle ou plus, mais dont les vestiges marquaient encore le paysage, assurant, outre des materiaux de remploi, un point d'ancrage et de référence sur des sites par aillcurs favorables. Quoi qu'il en soit, c'est bien la débacle de la catégorie dominante traditionnelle qui semble avoir entra~né l'abandon de Locres où la céramique de surface se raréfie de manière drastique au VIe siècle. Elle sera remplacce par cette nonvelle génération de possessores qu'on a déjà vue émerger: très atteinte elle aussi par les Vandales, elle est plus à meme de réparer ses forces et ses rescapés concentrent alors lesfundi en immenses domaines. Le changement de gout perceptible dans certaines villae comme Casignana dès le IVe siècle traduit tout autant les transformations culturelles et mentales introduites par le boom économique que l'origine souvent orientale de ces parvenus, plus tournés vers lcurs propres intérets que vers le bien public. Scolacium, sur le territoire de laquelle lesfundi associent certainement vigne, oliviers et élevage, suit une évolution semblable, mais son importance stratégique, au carrefour de la voie isthmique et de la route ionienne, lui confère une capacité de résistance majeure. Siège d'une importante colonie et dotoe elle aussi de monuments considérables'3~, son éveché est le premier attesté de manière sure dans le Brattium~32. En dépit de l'abondance et de la qualité de la céramique et des importations, le théatre, détruit par un incendie, est enseveli dès le milieu du IVe sièclet33; I'édifice public à abside et leforz~m y font encore l'objet de réaménagements de style monumental, de peu d'envergure, mais le début du siècle suivant ne verra plus que des interventions limitoes. Bon nombre de possessoresy font
cependant encore vivre les mediocressans doute plus que jamais de lcurs largesses: les émoutes qui y ont lieu à la fin du Ve siècle (cf. supra) sont le fait d'une plèbe urbaine qui constitue la clientèle des Grands. Mais si ccux-ci y ont toujours lcur champ d'action, ils consacrent désormais une bonne part de lcurs richesses au patronage religieux et à lcurs villae suburbaines: des sépultures sont pratiquces aux Ve-VIIe siècles sur la colline jusqu'alors inoccupoe qui domine le théatre, autour et au-dessus d'un édifice à fonction sans doute cultuellet34. La ville est alors victime, comme celle de Locres, d'une "polynucléarisation" qui privilégie les positions dominantes plus sures et le voisinage du fleuve: au nord, une nécropole des N7e-VIe siècles est proche de la villa de Casa Donnaci. Mais la ville est encore capable de fournir un gros effort militaire. Valentinien III abandonne en effet aux populations méridionales, vers le milieu du Ve siècle, le soin de défendre lcur propre pays contre les Vandales jusqu'à ce que Rome soit en mesure de prendre le relais. La résistance est organisée par les Grands, sans doute officiellement mandatés: il semble que des troupes commandées par l'arrière-grand-père de Cassiodore aient alors empeché Genséric d'envahir la Sicile et le Bruttium~36 et qu'une sorte de limes ait été constitué sur les cotes méridionale et orientalet37, axé sur la fortification de points-clés: (:opia Thariiau nord et Reggio au sud, les scules villes respectivement qualifiées de pirourion et d'oppidum au début de la guerre gréco-gothiquet38. Peut-etre en est-il ainsi à Scolacium, patrie des Cassiodore: un mur d'enceinte, flanqué de tours en galets et briques de remploi, est en effet élevé à l'onest, délimitant une aire semble-t-il encore non urbanisée~39. Il n'est pas impossible qu'ait été planifié assez tot un véritable glissement de la ville sur les hautour~`de l'arrière-pays: c'est vers le milieu du Ve siècle qu'est entreprise sans doute par les habitants eux-memes, dans le centre jusque là fréquenté de manière normale, une récupération systématique des éléments métalliques et des dalles de marbre~40. Mais le projet ne semble pas avoir été porté à son terme. En tout cas, les émoutes de la fin du Ve siècle traduisent ici aussi une crise sociale grave. L'Église semble avoir maille à partir avec ces nouvelles familles, dont le plus bel exemple est fourni par la dynastie des Cassiodore qui arrive d'Orient pour faire fortune dans l'élevage des chevaux. Le bisa~eul de Cassiodore occupait une fonction administrative et a certainement lutté contre les Vandales ès qualités; reste que l'appel aux Grands d'Italie méridionale, fruit de l'impuissance de l'armoe d'État, a officialisé lcur autonomie croissante et préludé à la création de milices privées. Les possessores se fortifient dès lors sur lcurs terres où se développe une nonvelle structuré sociale qui ne doit plus rien aux villes. À San Giovanni di Ruoti, résidence au Ve siècle d'un dominus et de safamilia~4~, de lcurs domestiques et d'un groope de dépendants, les traditions classique et tardive sont associces, avec les thermes d'une parr42, le praetorium d 'autre part. L'aula d e réception du premier étage est l'expression d e nonveaux rapports sociaux, comme aussi la défense forcément assurée par un groope de dépendants. L'ensemble résidentiel de Quote San Francesco reproduit ce modèle à la meme époque au sud de Locrest4~, avec le meme luxe relatif des thermes. Le plan, déconvert sculement en partie, storganise, sur 60 mètres environ, autour de deux édifices rectangolaires affrontés, terminés par des absides polygonales. Le secteur nord-est scul a été exploré: il s'agit d'une grande a~la basilicale. Le rez-de-chaussée assez bas, au simple sol de terre battue, chichement éclairé par d'étroites monophores ébrasées, a un caractère nettement défensif et devait servir de magasin ou d'étable-écurie et la partie de résidence et de représentation se tronvait à l'étage supérieur. Ce type de résidence "seigneuriale" est caractéristique du saltus montagneux et de ses franges (comme dans le Pollino ou en Lucanie où les massae sont bien attestoes dans la première moitié du VIe sièclet44). C'est par excellence le royaume du bois et de l'élevage où la rivalité attestoe à l'origine avec lesfundi agricoles de la plainet4S semble s'etre résolue dans une économie mixte. Un tel système est, on y reviendra au chapitre suivant, peu compatible avec la prospérité des villes. Ce n'est pas un hasard si à Otrante, Reggio, et Copia Thurii d'abord, à Crotone et Tarente ensuite on fortifie la ville elle-meme et à Locres plut8t le platpays. Grumentum, dans les montagnes de Lucanie, densément fréquentoe et prospère au IVe siècle, t8Ot pourvue d'un évechét46, est rapidement abandonnée vers le
milieu du siècle suivant: la ville, peut-etre saccagée par les Wisigoths, éclate en noyaux périphériques centrés sur les lieux de culte sonvent flanqués de petites nécropoles utilisées aux VIò-VIIe siècles. La situation est bien différente dans les plaines céréalicoles du nord du Bruttium et du golfe de Tarente. Celle de Sibari est encore fertile et certainement pas impaludée avant la reprise des déboisements intensifs vers le XIIIe siècle, s?uf peut-etre la frange littorale; les grains y sont encore cultivés au haut Moyen Age et jusqu'aux XIe-XIIe siècles~4~. La plaine, d'où part la route isthmique par la vallée de l'Esaro, constitue en outre un p81e d'attraction pour les principales voies nord-sud~4s. La ville portuaire romaine, Copia Thurii, est situce entre le Crati et son actuel aMuent, le Coscile, qui se jette alors séparément à 4 kilomètres au nord dans la mer ionienne~49. Un certain nombre de petites villare rustiques correspondent au sud à sa zone de colonisation, mais la quasidisparition des etablissements à l'ouest et au nord dans l'Antiquité`tardive semblerait indiquer que le territoire est alors exploité, au moins dans ~ rayon correspondant à un parcours quotidien pour rejoindre les champs, par des cultivatours résidant dans l'agglomération urbaine. Celle-ci est d'aillcurs relice à l'arrière-pays par une multitude de chemins secondaires et reste densément peuplée aux IVò et Ve siècles. On n'y observe aucun changement dans l'édilité publique ou privée ponvant traduire un appauvrissement notable ou des perturbations sociales. Une certaine hiérarchie de la propriété s'est sans doute maintem~c, préservant une communatlté de petits et moyens propriétaires (encore en mesure d'entretenir lcurs monuments). Dès ce moment, les sites occupés se réduisent eertes de manière drastique dans le reste de la plaine, phenomène qui s'accentuera aux VlC et Vllò siècles, et la distribution réguliere des habitats survivants par rapport à ccux qui sont abandonnés suggère la sélocrion d'un etablissement par unité micro-régionale - une dizaine de kilomètres carrés - suite sans doute à une concentration des domaines. ~lais les grandes v~i~l~e "seigneuriales" s'échelonnent sur la pente de l'amphithéatre dc collines et un peu en amont au long des vallées fluviales suivies par les routes, donc loin de la ville . 1,e siège épiscopal, atteste en 492-496, se maintient malgré de brèves periodes cle vacance jusqu'en 680 au moins ;~. Mais la ville, qtli est pourtant tot christianisée~~, n'a livré anenne trace d'église, meme aménagée dans une structure preexistante; et elle est totalement désertoe à la fin du Vò siècle, au moment meme où l'éveché appara~t dans les textes. Procope d'aillcurs, certainement ignorant des lieux, ne cite plus 77urium qu'à 1'occasion de descriptions géographiques, certainement sur la foi de sources plus anciennes';, et, étrangement, ne lui fait joner ancun role lors des batailles qui se déronlcut dans la plaine de Sibari en 547-548. Lep~rourion qui est alors assiégé par Totila a été construit à l'entrée du Br~ttium, nous dit l'autour, par les “anciens }(omains” ce qui situe l'événement au vc siècle, lors de la descentc d'Alaric ou de la constitution du limes contre les Vandales~~~. Les dates incitent à penser que Ie notlveau centre religieux de 77urium s'est rapidement installé dans cette pnissante fortification et a contribué à y attirer les habitants de la ville au début du VIC sièele. 1,e transfert, effectué sans hate et méthodiquement, n'cst pas du à un événement traumatique, mais plutot à la perte de fonetion du port qui avait assuré la richesse de la ville. I,n premier alluvionnement, encore limité, avait en effet eotra~né, dès le ler siècle de notte ère, une avancée de la cote et des variations du tracé des fleuvcs justifiant des modifications de la viabilité intcrne. I,e port est cnsablé, ainsi pcut-etre que le canal qui le relie à un des cours d'eau, ce qui oblige l'agglomération, exportatrice de blé et toujours largement onverte aux trafics d'outre-mer, à utiliser celui de la st~ztio cotière de llossano';;. Il est donc possible que les habitants aient cherché à se rapprocher d'un monillage à l'embonchure du Crati, encore navigable ou du moins utilisable dans son cours inférieur pour le transport des marchandises~ . C'est probablement la fixation de la frontière lombardo-byzantine dans la plaine à la fin du Vlle siècle qui provoque l'abandon, peut-etre volontaire, du p~rourior pour eréer un espaee vide, une sorte de marehe en somme. La position de l'établissement en plaine, alors que tous les habitats se protégeaient par le perehement, devait etre d'aillcurs de plus en plus difficile à tenir. Métaponte, eommunauté de petirs et moyens propriétaires, offre une image semblable. L'établissement renaı^t, d'abord timidement à la fin du IIIe siècle, de manière plus éclatante au siècle
suivant, comme statio de la route cOtière. Elle se repeuple alors d'agricultours dont le niveau économique et s,ocial paraıt assez homogène. Ceux-ci résident dans des fermes constituant des ~noyaux séparés qui regroupent chacun plusieurs pièces dont certaines sont réservées au stockage des aliments. Leur aisance économique est attestoe par l'activité édilitaire (un four à chaux y fonctionne pendant toute la période) et l'abondance de la céramique. Témoin également le caractère véritablement urbain de l'agglomération, qui s'organise autour d'un portique à colonnes cannelées, d'une fontaine monumentale et de thermes et traduit le maintien d'une structure civique. Un tel phénomène, lié à l'absence de grands domaines aussi sur le territoire, donne tout son sens à une lettre de Cassiodore évoquant, en Lucanie, une nette supériorité des curiales, qui s'y distinguent des mediocres, sur lespossessores' sa. Les habitants disposentégalementderessources suffisantes pour édifier dès avant 350 une première basilique qui, malgré des dimensions relativement modestes, tranche sur les autres batiments par sa ma,connerie de blocs équarris de remploi et possède un preskyteriam légèrement surélevé. Flanquce, dès la deuxième moitié du IVe siècle, d'un grand baptistère à l'architecture soignée~s9 qui reste en fonction jusqu'à 1'abandon de la ville, elle est de plus certainement remplacce par une seconde basilique après sa désaffectation au Ve siècle. Enfın, au nord-onest de cet ensemble, s'élève une autre construction que tout désigne comme un édifice public ou religieux et qui est restaurée au moins une fois. Une route rectiligne relie l'agglomération à son port, situé au liendit Mele, dans les dunes du bord de mer, à proximité d'une anse antìque du Basento~óó. L'activité commerciale y est intense: exportation de blé et importations de produits d'Afrique et, surtout à partir du Ve siècle, d'Orient. Les amphores sont stockées sur les planchers de magasins rectangulaires, celles qui contiennent les grains à l'abri d'appentis appuyés au dos des batiments. Les ~ergot~atores pèsent et eoregistrent les deorées dans un ou plusieurs bureaux. Métaponte est atteinte de plein fouet par l'expédition navale byzantine de 508 qui ravage le littoral apulien jusqu'à Tarente et certainement audelàt63. Le froment est alors brulé, comme vraisemblablement dans les autres ports où il est stocké en attendant l'embarquement; c'est sans doute la raison pour laquelle les cosndurtores des domaines royaux, dont les récoltes sur pi~l ou les réserves sont plus à l'abri vers l'intérieur des terres sont moins ruinés que les regotiatores de Siponto. Les massae pontificales présentent sans doute une physionomie assez semblable, mais dans un contexte de latifundia, une sorte de compromis en somme entre deux situations extremes. Tropea n'est au départ qu'un centre de gestion domaniale, mais qui présente cette particularité d'etre implanté au Vò siècle sur un site nenf aux défenses naturelles impressionnantes: il s'agit d'un promontoire entouré de falaises rochenses à pic dans la mer, dont l'accès est barré par un profond ravin. Le sommet est cependant assez vaste pour que s'y développe un habitat important qui domine en outre un des rares points d'approche entre Vibona et le cap VaticanotóS. Peut-etre faut-il y voir une entreprise de regroupomentetde controledeshommes, àl'initiative de l'Église cette fois, sur un site protégé tourné vers Rome, pour assurer la mise en valcur des propriétés pontifıcales. Ici, malgré la présence d'une condurtr~x, pas de villa luxuense mais une communauté prospèret66, peut-etre divisée à 1'origine en deux noyaux, qui se distingue par son encadrement religieux (un pretre et une pres~ytera) et son haut niveau culturel, attesté par le nombre considérable d'inscriptions. Un petit édifice religieux y est bientat édifıé dans le centre, à l'emplacement de la future cathédrale, puis un couvent, attesté dans la seconde moitié du VIe siècle. La massa de Nicotera prend le nom d'une statio, encore mal localisée, qui pourrait correspondre au port utilisé de l'Antiquité au Moyen Age en contrebas de la ville actuelle: elle se serait alors constituce de manière classique, autour de la résidence luxuense dont subsistent de nombrcux vestiges, celle de l'intendant ou du locataire d'un ancien domaine impérial. D'autres établiss~ments sont attestés dans le massif du Porro et, au sud de Nicotera, dans la plaine du Mesima. Il s'agit surtout, semble-t-il, d'agglomérations rurales, probablement déjà constituces en paroisses où résident des pretres~70. Dans cette région aussi la crise du Vò siècle paraı^t avoir été suivie d'un mouvement de concentration au profit de sites de monillage comme celui de la massa de Tropea: le rythme des inhumations n'y faiblit pas jusqu'au début du VIIe siècle, date à laquelle la désaffectation du cimetière au centre de
l'établissement pourrait résulter d'une densité majeure de la population; c'est aussi alors qu'apparaıAt l'éveché dans les listes conciliaires. Le processus est plus lent autour de Nicotera où ce sont les “ habitants de la massa” qui réclament en 596 I'ordination d'un pretre, expression qui soggère le maintien d'une population dispersée, hypothèse confirmoe par la prospection archéologique. Le transfert du centre sur l'éperon qu'il occupe actuellement, protégé sur trois c8tés par des à-pics et placé sur une crete stratégique controlant à la fois les hautours de l'arrière-pays, la plaine et la mer n'est pas postérieur au VIIe siècle: peut-etre est-il en partie lié à la création de l'éveché dans le courant du VIe siècle. 3. VIe-VIIe siècles: legénocide desgrandesfarmilles et la renaissarnce des ~illes a) L'apogée de la crise urbaine La phase la plus aigue de la crise urbaine au tournant des Ve et VIe siècles co~ncide avec l'apogée des grandes familles latifundiaires. Leur ascension politique a été facilitoe par la réduction des moyens d'intervention du ponvoir central dans le Sud; Odoacre (comme Théodoric) maintient les cadres traditionnels, auliques et sénatoriaux, et favorise la noblesse provinciale. Il semble que celle-ci soit déjà assez puissante au Ve siècle comme elle le sera avant le débarquement de Bélisaire dans les années 530 pour faire payer sa loyauté par de fortes réductions dimpots. L'aristocratie profite certainement des troubles engendrés par l'installation des Ostrogoths et c'est elle qui lcur rallie les provinces méridionales; lorsque Théodoric cherche à reprendre la situation en mains, il est trop tard et il ne peut que chercher l'appui des Grands. S'il n'installe aucune garnison dans le Sud, c'est bien sur pour épargner sa principale source de ravitaillement, mais aussi pour conserver la faveur des possessores. Les troopes pèsent, il est vrai, lourdement sur le pays: s'il ne stagit pas de pillages purs et simples dus à l'indiscipline, la réquisition à très bas prix des denrées et chevaux disponibles stajoute à l'impot. Lorsqutune région ne peut fournir le ravitaillement, l'armoe exige probablement des habitants son importation ou une adaeratio à prix très élevés. Sans doute l'accueil favorable réservé par le Bruttiam à Bélisaire résulte-t-il en partie de la rupture des Ostrogoths avec le Sénat et de lcur arianisme, objet d'une haine clairement exprimoe. Surtout, les possessores n'ont pas supporté le séjour des armoes et la multiplication des evertionest'ó: ils se rebellent alors onvertement. Ils constituent désormais une minorité très pnissante, formoe de quelques "maisons" t78 dont les membres sont qualifíés d e possessores validi ou de domini (cf. supra). Propriétaires privés etlou conduetores des patrimoines impériaux ou sénatoriaux, ils gèrent des massue~so d'étendue considérable qui s'étendent sur plusieurs provinces~s~. Un bon exemple est fourni par le loyer et les taxes dus pour des prardia royaux apuliens concédés, sans doute en emphytéose, à un certain Thomas et qui atteignent pour deux indictions la somme colossale de dix mille sous d'or~s2. Cespossessores tiennent lcur ponvoir des hautes fonctions qu'ils assument localement dans le cadre traditionnel de la carrière sénatoriale provinciale. Formant de véritables dynasties~s3, ils sont corrertores cor~ne les Cassiodore et ce Venantius qui, s'il est bien le père du magnat Tullien, actour de la guerre gréco-gothique, possède des biens étendus dans le Bruttium et en Lucanie~s4; praepositi comme N7alérien, à qui Cassiodore s'adresse en 533-536 comme à l'un des cond~óctores et possessores concernés par sa missive~85; arcarii comme Jean qui, cautionnant la dette de Thomas, sera dédommagé par ses biens si celui-ci s'avère incapable de la régler dans le délai donné. Ils tirent lcurs richesses de lcurs patrimoines, mais aussi de lcurs fonctions memesis7. Les Varinefournissentun large échantillon de prévarications auxquelles donnent lieu les evertiones~ss et la perception meme des impOts~s9, surtout celle de l'annone, à des fins probables de spéculation (pracemptio à des prix inférieurs au marché, perception au détriment des negotiatores de sommes illicites au nom de l'interpretium, etc). La corruption ressort à l'évidence du cas de Thomas qui n'a pu rcussir que per diversas l?'difrationes avec aussi la nécessaire complicité d'agents locaux, à accumuler un pareil arriéré sur deux indictions. Les menaces de répression et les précautions prises par l'État à propos de l'annone montrent que ces abus relèvent de la pratique courante; la répétition meme de ces mesures tend à prouver lcur inefficacité. La ruine des propriétaires moyens n'a laissé que les mediocres et minores ou ten~es, face aux prarpotentes, sous l'égide desquels textes et archéologie laissent entrevoir la mise en place d'une
nonvelle structure sociale par le biais du clientélisme et du patronage. Le fait est sensible dans la manière ambigue dont gonvernent les correctores: Cassiodore I fait ainsi régner son autorité dans sa province moins par la force du droit que par sa noblesse et ses continnels bienfaits (I'ingénuité avec laquelle l'autour rapporte ce trait montre à quel point ce comportement était passé dans les mccurs). Les ravages du siècle précédent ontcertainementaussi ruiné bon nombre de petits propriétaires libres: dépourvus de mar.ges financières, ccux-ci, lorsque plusieurs récoltes ont été mauvaises ou détruites, doivent contracter un emprunt pnis vendre lcurs terres ou les céder à lcurs créanciers, devenant ainsi colons, à moins que 1'insécurité ne les pousse à aliéner lcur liberté contre une protection. Ainsi l'agglomération de Métaponte, qui a vu ses récoltes brolées lors du raid byzantin, reste affaiblie: sa population, appauvrie, diminue progressivement jusqu'au milieu du VIe siècle. L'abandon de l'établissement, où entrent aussi, on y reviendra, d'autres raisons, n'est cependant pas total: dans la seconde moitié du VIe et au VIIe siècles subsiste un groupe d'agricultours d'un haut niveau sociali93, dont la résidence, certainement proche et sans doute ma,connée (comme le soggèrent de nombrcux imbrices décorés au doigt), n'a pas été explorée. Le blé joue un role non négligeable dans ces transformations sociales. C'est en effet désormais l'Italie qui fournit scule l'annone de Romet94, la Sicile surtout - et c'est pour épargner ce grenier que les Ostrogoths n'y laissent pas de garnisons, toujours lourdes pour le pays - la Campanie et 1'ApulieCalabre. Les raids barbares, en anéantissant les cultures traditionnelles et en coupant l'Italie de l'Afrique, puis de la Sicile et de la Sardaigne, ont contribué à la conversion de nombrcuses zones, meme de celles d'élevage, à la céréaliculture, surtout dans les provinces sur lesquelles ne pesait pas lourdement la cormptio; ainsi en Lucanie, où les grains apparaissent dans la dernière période de S. Giovanni di Ruoti, et dans le Bruttiam (cf. supra) dont certaines régions comme celle de Scolacium et la plaine de Sibari sont en mesure de ravitailler des armoes. Peut-etre sont-ce surtout ces contrées qui exportent alors des grains hors de la péninsule, comme le suggère 1'acheminement de vivres vers des régions affamoes par des naviculaires de Lucanie. Lespossessores étendent certainement lcur indominicatum pour une céréaliculture intensive au détriment des petits tenanciers que la spéculation contribue encore à ruiner. La désertion de nombrcux sites ruraux illustre parfaitement le phénomène, de meme que le brigandage recrute chez les petits cultivatours dépossédés et la main-d'ccuvre salarice au chomage: témoins le vol des chevaux d'un voyageur près de Scolacium et le sac des stocks de marchandises à la foire d eMarcellianum, dans le Vallo di Diano, attribué à des rustici, ainsi que 1'appauvrissement général des paysans dans ces régions de massae associant élevage et grains. Ces bandes organisées peuvent constituer, avec les colons, des milices privées qui, avec le conflit gréco-gothique, prennent l'allure de véritables troupes quton voit intervenir au début de la guerre à Scolacium, pnis lorsque Tullien est en mesure de lever une armoe de paysans pour barrer les cols de Lucanie. Dans le premier tiers du VIe siècle, il est clair que les Grands ont atteint chez eux une quasi-autonomie, renforcce par l'absence de garnison: les pouvoirs publics, reconnaissant implicitement lcur incapacité, les invitent à exercer euxmemes police et justice dans lcurs massae et Cassiodore s'adresse plusieurs fois directement à eux. Ils tiennent en mains des régions entières (Tullien se fait fort de rallier aux Grecs toutes les populations du golfe de Tarente) et lcur appni est déterminant durant la guerre. Le salt~s, 1'arrière-pays qui constitue traditionnellement une zone répulsive du monde romain, domaine de la barbarie, échappe au contr81e du réseau urbain, qui y était plus fragile et reprend la préominence qu'il avait connu avec les Brettii et les Lucani. On verra d'aillcurs que la trame des habitats perchés et fortifiés, qui avaient été démantelés lors de la conquete, se reconstitue alors. En exagérant à pcine, on peut dire que ce sont les villes, grignotoes par les grands domaines, qui se trouvent à lcur tour marginalisées. Les possessores et conductores y sont systématiquement distingués des ca~riales, qui semblent désormais s'identif~er aux moyens propriétaires, constituant une sorte d'échelon intermédiaire entre les praepotentes et les petits. Cette distinction confirme que nombre de Grands sont des parvenus du Ve siècle qui ont obtenu une dispense de curie ou qu'ils ont déjà quitté la ville depuis fort longtemps.
L'origine souvent orientale des familles d'extraction récente joue en effet contre les institutions municipales. Elles apportent une idéologie nonvelle, conforme au modèle constantinopolitain, et lcur indifférence envers la capitale ostrogothe ne cesse de grandir. Au Ve siècle, c'est une mentalité de parvenus plus sonciense des intérets propres de son groupe social que du bien public. Ce qui vient d'etre dit en est déjà une illustration; Cassiodore ne constitue à cet égard qu'une exception relative, les nombrcuses mesures qu'il prend en faveur de ses amis d u Bruttium étant probablement moins dues à l'appauvrissement de la province qu'à son esprit de corps. Dans le meme ordre d'idées, des Juifs s'appuient sur des lois orientales pour refuser les charges de la curie à la fm du IVt siècle. Seols les possessores rcussissent à ne pas payer lcur part des impots2is, qui du coup pèsent sur les plus faibles. Sous la pression des perceptours et des saiones, les curiales, responsables du bon versement des sommes, en sont réduits, et en premier lieu les moins riches d'entre eux, à vendre lcurs propres biens et parfois meme à aliéner lcur liberté. Le famonx édit de 527 rappelle 1'idéal romain de la ville: foyer de patriotisme et de civilisation, institution autonome et tremplin pour la vie publique. La description de Cassiodore est déjà caduque, mais pas depnis longtemps, c'est pourquoi il peut la regretter et parler encore au présent. Les titres, dignités et avantages qu'il énumère ont en effet bel et bien disparu. Ils peuvent etre regroupés en trois rnbriques. La ville d'abord est libre de s'administrer et d'édicter ses propres lois. Il est inutile de revenir ici sur les empiétements qui ont peu à peu au Bas Empire rongé les institutions municipales; ce qui a été dit plus haut suffit à montrer que les villes constituent de moins en moins un centre de référence politique ou meme administratif. L'État semble alors avoir compris son intéret à la défense des communautés urbaines et de la petite propriété, garantes d'une fiscalité régulière et d'un véritable contr81e politique. Il les défend énergiquement (mais la fréquence de ses prises de position les réduit à de pienses paroles), se déclare pret à accueillir lcurs plaintes, menace de graves sanctions ccux qui les molestent et lcur assure sa protection et celle des gonverneurs contre les abus des perceptours. En outre il ne mesure pas ses efforts pour revaloriser les fonctions municipales, dans les faits, et surtout dans les termes. Mais son action est condamnée par l'ambigu~té à laquelle il ne peut échapper: tout en luttant contre l'autonomie croissante des Grands, il se voit contraint de les utiliser. De meme la ville n'est plus le piédestal des ambitions politiques, où les enfants apprennent la vie publique, où la reconnaissance de vos mérites par vos concitoyens vous assure la notoriété. En ville, dit encore Cassiodore, les enfants sont éduqués dans les écoles, on y cultive les arts et les lettres. C'est enfin un lieu de convivialité et de plaisirs qui nécessitent un forum, des bains et de confortables domus. L'autour insiste longuement sur cet aspect: aux rapports en quelque sorte horizontaux qu'il préconise entre concitoyens s'opposent les rapports sociaux verticaux qui se sont instaurés dans les grands domaines. Cassiodore n'est pas choqué225 par le contraste entre le role dévolu à la ville et la réalité. Lorsqutil se livre à une évocation dithyrambique de sa ville natale,prima a~rbium Bruttiorz~m, on a du mal à croire, meme en faisant la part de son langage fleuri et rhétorique et de son esprit de clocher, qu'il s'agit bien de Scolacium telle que nous l'avons vue réduite au début du VIe siècle. Il la décrit en tout cas largement onverte sur les champs dont ne la sépare ancun mur et trouce de parcelles cultivées; ce ne sont plus ses monuments qui y attirent les fraudeursparaveredor~m etannonarum, mais bien son caractère campagnard. Et le texte laisse supposer que la plupart des autres villes sont comme elle dépeuplées et fortement ruralisées, lcurs marges se fondant insensiblement dans la campagne. En dehors de Reggio et dupirourion ecluro^taton de la plaine de Tharii, elles ne sont pas entourées de murs: le fait, confirmé par Procope, notamment à propos de Crotone, est d'aillcurs général en Italie méridionale et en Sicile où scules sont f~tifiées Palerme, Syracuse, Naples, Bénévent et Otrante. Mais la lettre de Cassiodore montre dans le meme temps que survit dans l'esprit des contemporains une hiérarchie théorique des habitats où ces agglomérations sont bien considérées comme des villes et dignes de l'etre. Cependant l'auteur, qui vante aillcurs les délices de son domaine de vivariam où il s'est doté de tous les instruments culturels, fait ici prcove d'une certaine hypocrisie. À son image, les possessores vivent dans un petit nombre de villae somptueuses, comme celle de Piano della Musica, à l'onest de la plaine de Sibari, ou celles des zones de vitona et Tropea.
On ne peut guère à lcur propos parler de fuite, d'abord parce que les sites sont sonvent proches des villes, ainsi du praetorium de Quote S. Francesco qui s'élève à 500 mètres de la Locres romaine et disposent d'un accès facile, ensuite parce que la plupart de lcurs propriétaires sont exonérés ou, on l'a vu, toujours plus en mesure, avec le temps, d'échapper aux impots. Les sculs qui ont pu alors commencer à fu~r sont les curiales et mediocres laminés. Il ne faut pas non plus parler, à propos de ces domaines, d'autarcie et d'économie naturelle, puisqutils visent au contraire à produire pour l'exportation. Seules quelques-unes des grandes villes du IVe siècle semblent avoir rcussi à maintenir un certain équilibre avec lcur territoire. Ainsi la concentration des domaines semble avoir été forte sur le territoire de Vil~ona vers la fin du Ve siècle: les établissements y sont alors abandonnés en très grand nombre au profit de quelques villae luxuenses. Mais les Grands ne délaissent pas pour autant la ville. Les trois domus qui y ont été explorées, vastes et décorées de marbres polychromes et de mosa~ques souvent figurées, sont toujours occupoes et réame~nagées au VIe et meme parfois au VIIe siècles232. Certes on y distingue les signes de la classique "polynucléarisation": une ~illa suburbaine, sur la colline de Piscino di Piscopio, où Frédéric II refondera plus tard la ville, est flanquce d'un ensemble religieux (ou sépulcre monumental), doté au VIe siècle d'une mosa~que à trois coulcurs portant une inscription chrétienne233. L'évergétisme y est privé et la richesse est celle d'une strate sociale, pas de la ville; les Grands y affrontent une église toujours plus puissante. L'éveque est en effet l'interlocutour attitré du pape, son chargé d'affaires en quelque sorte; il intervient à deux reprises, sur son ordre, dans les affaires de l'église de Squillace et se rend au concile romain de 499. Il conserve un r81e de premier plan au VIe siècle et, au lendemain du désastre lombard, prend en mains la vallée du Crati et la région qui stétend au sud-ouest de sa ville. Lorsque Bélisaire, arrivant de Sicile, débarque à Reggio en mai 536, c'est une population désignant elle- meme ses habitats comme des cho^ria onverts qui vient lui faire sa soomission, et non des délégations des villes. Alors que I'armoe grecque est obligée d'assiéger Naples, les villes du Sud ne jonent ancun role dans cette première partie de la guerre. b) La renaissance des villes sous la domination byzantine au VIe siècle Close la parenthèse du Ve siècle, le Bruttium et la Lucanie retronvent, avee les Ostrogoths, lcur bien-etre économique. Se~le la prospérité peut d'aillcurs expliquer ia renaissance urbaine qui y pnise les rnoyens, les homrnes et y tronve une de ses fustifications. hlise à part la forte poussée du blé, I'exploitation des ressources ne change guère, au moins jusquta la fin du VIe siècle: I'élevage se maintient et le bois est toujours exporté (ci:. sapra). La vigr~e et l'olivier sont de nonveau cultivés, comme les jar~lins, au sud et à l'est du B,uttium en tout cas, ou la fabrication d'amphores et de céramique achrome n'a pas cessé. La densité démographique s'y rnaintient: outre Cassiodore, plusieurs autres sources témoignent en ce scns. Les réfugiés amuent des BalLans sous la poussée des "Barbares" (slaves et avars), qu'il s'agisse d'individus corome l'évec~ue de Scolacin~ Jean, chasse de Durazzo au tournant des ~TIe-VIIe siècles, ou de populations entières comrne celle de Patras qui s'instalLe dans la zone de Reggio, peut-etre attirée par la prospérité et le marché elu travail. La tradition attribuant à 13élisaire le repeuplement de Naples avec les habitants cles civitates de Reggio, Malvito et Cosenza va dans le rneme sens. La plupart des établissernents cotiers productcurs etlou utilisatours de Keay LII prospèrent: à Bova7 la eommunauté, qui s'accro~t sans doute, est assez ~ynamique pour entreprendre de gros travaux tandis que la synagogue est restructurée clans un sens monumental. hlerne si une partie cles scories retrouvées à S. Maria del Mare, Locres et Tiriolo sont ecrtainement des résidus de forge, les gisements métallifères et le bois de la région alimentent probablement extraction minière et fabrication du métal. Le gonvernement ostrogoth jone un role non négligeable dans la relance de l'économie, surtout dans ce dornaine qui l'intéresse au premier chef: ainsi des prospections sont el~fectuces sur son initiative `}ans le Pruttium dans la massa K~stician~z (de localisation inconnne,~, certainement suivies de i'onverture de mines pour l'extractior~ de l'or et de l'argent, avec des corps de métier spécialisés. Il semble d'aillcurs avoir rnaintenu le eontrdie de 1'État sur les industries textiles à Tarente et à OtranEe,
où existent aussi des ateliers de production citamphores; et contribué ainsi au maintien des g~uel~E~es grandes agglomérations. A Reggio- Lido est installé au début du VIe siecle un ensemble artisanal sans ~loute spécialisé dans la production d;e sance de poisson (gar~m), qui fonctionne eneore pendant tout ie \7IIà siècle; ia ville reste une pla~ue tournante qui re,eoit les productions du l~or`1 (fragments de '`vetrina p~ante" fabriquce à lRome ou en Gampaf~ie) et des am~hores a~ricaines au \711 e siècle. Ces quelques grands ports sont cependant, comme les autres, dépeuplés (ou le travail est, on l'a vu, largement décentralisé sur le territoire ou bien toute la main- d'ocuvre ne réside pas en ville). C'est certainement le cas de Tarente, si Bélisaire parvient à rassembler à l'intérieur de la nouvelle enccinte les habitants du golfe; comme ccux de Reggio, ses environs sont d'aillcurs parsemés de nombrcux établissements secondaires. On peut supposer que, dans de nombrcux cas, ces agglomérations intermédiaires se sont désormais affranchies de toute emprise des propriétaires des villue voisines, ruinés au Ve siècle, premières manifestations d'un phénomène qui se développera largement pendant tout le VIe siècle avec l'élimination physique des possessores. La guerre gréco-gothique a certes épronvé la province, aussi bien lors du séjour prolongé de l'armoe gothe dans la phase préliminaire qu'ensuite lorsque les troupes grecques s'y livrent aux memes méfaits, comme sten lamentent les possessores. Mais on n'y dénombre que trois batailles, dont l'une s'est déronlée en pleine montagne, et quelques sièges de places portuaires sur la c8te est. Les destructions semblent limitoes à certaines zones stratégiques comme les cols et passages lucaniens (Ruoti) ou l'isthme (Reggio), et le Bruttium apparaıt beancoup moins ravagé que l'Italie du centre ou du nord. Il faut aussi, on l'a vu, faire la part des causes réelles de certaines mesures de réduction fiscale. Les richesses existent toujours: témoins le luxe frappant de la grande majorité des nécropoles, dont un grand nombre sont connues aux VIe-VIIe siècle, notamment sur le golfe de Tarente et sur le rebord oriental de la Sila et, dans la meme région, le montant de la ran~con exigée par les Lombards pour le rach~t des captifs de Crotone et de Myria (cf. infra). Peut-etre les différences sociales sont-elles plus marquces et investit-on surtout dans des biens mobiliers, objets précieux offerts aux églises et retronvés dans les tombes. Cette période de prospérité est en effet caractérisée, pendant tout le VIe siècle, malgré une certaine insécurité, par une grande mobilité des hommes et des marchandises, et par une hellénisation croissante de la société. La vitalité des échanges interrégionaux est illustrée par la foire de Marcellianum qui draine en Lucanie les esclaves, animaux, vetements et produits de tout type apportés par des marchands de l'ensemble des provinces méridionales. Les hommes se déplacent beaucoop, aussi bien les particuliers, possessores-condurtores et négotiants pour lcurs affaires ou pèlerins que les clercs et les fonctionnaires: les éveques en particulier traversent couramment une bonne partie du 13ruttium pour visiter un diocèse momentanément vacant, sonvent éloigné. Les invasions ou l'action autoritaire de l'État sont, on l'a vu, à l'origine d'une certaine mobilité démographique. Celle-ci existe également dans la société: on connaıt au moins un exemple de passage of ficiel de la catégorie des curiales à celle d es possessores; à l'inverse, les déclassements sont fréquents, qui jettent les petits propriétaires dans le colonat ou le vagabondage. La reconquete byzantine du milieu du VIe siècle stimule l'ensemble des trafics à longue distance: elle s'inscrit dans la droite ligne de celle de l'Afrique du Nord qui constitue par la Sicile une des deux voies reliant Byzance à l'Italie; surtout elle resserre et diversifie les liens de l'Italie méridionale avec Byzance, ne serait-ce que par la multiplication des allées et vennes des troupes, du clergé et l'arrivée des fonctionnaires civils et militaires (Cassiodore lui-meme, les éveques de Scolaciam et de Crotone se trouvent alors à Constantinoplezs9). L'élite à nonveau décimoe par la guerre est ainsi en partie renouvelée et son gout toujours plus soomis aux influences orientales. Les importations prennent d'aillcurs à partir du VIe siècle un caractère somptuaire qui s'accentue au siècle suivant. Celles de marbres et de fragments architecturaux asiatiques ou grecs, qui s'inscrivent dans une longue tradition, sont bien attestoes aux VIe-VIIe siècles à Scolaciam et à Materaainsi que par la petite église préfabriquce coulée avec son navire transportour à Marzemini, aux abords de la Sicile. Des vases de
bronze byzantins et du verre sans doute travaillé en Asie mineure ont été retronvés en Lucanie orientale; des objets de métaux précieux et de verre circulent, comme les influences, le long de la c8te adriatique depuis la Sicile26s jusqu'à la Dalmatie et l'Albanie. Vers le milieu et dans la seconde moitié du VIe siècle le conflit grécogothique, I'installation des Byzantins et l'invasion lombarde jonent en faveur d'un renonveau urbain, marqué par l'apparition de caractères défensifs, tandis que l'ccuvre de rassemblement des hommes s'accentue. L'extrémité de la péninsule revet une grande importance stratégique pour les Grecs à qui se pose rapidement le problème des liaisons que Totila s'efforce de couper. Il s'agit en effet d'acheminer renforts et soldes et d'assurer le ravitaillement de Rome depnis les provinces méridionales266. La reconquete de l'Italie part d'abord de la Sicile, d'où les armoes remontent vers le nord par la Popilia267, empruntant éventuellement après l'isthme de Catanzaro la route c8tière, tandis que les bateaux chargés de grains suivent le littoral tyrrhénien. Le contr81e du détroit de Messine est donc constamment au centre des préoccupations des deux parties. Meme si Procope mentionne encore quatre arrivées de la flotte grecque en Sicile dans la suite de la guerre, les convois de la méditerranée orientale, qui transitent souvent par la Dalmatie dans la deuxième partie du confli, accostent surtout sur la c8te orientale du Sud de la péninsule, où sa position favorable fait d'Otrante, déjà fortement défendue au dél~t des hostilités, la plus grande base navale. De là, les bateaux peuvent repartir soit vers l'Adriatique, soit, pour gagner rapidement Rome, vers le détroit de Scylla, en faisant escale à Tarente274 et à Crotone qui servent plusieurs fois d'ancrage ou ~ie point de ralliement lors des combats autour d u phro~r~on de Th'ónun. La reprise de Bénévent, pnis de la Campanie en 543, renforcce par une flottille qui coupe les liaisons tyrrhéniennes, I'occupation enfın d'Acerenza et de la c8te moyenne de la Ponille, font des passages montagneux de la Lucanie orientale et de l'isthme de Sibari un enJeu durement disputé, les Goths tenant désormais les tron~ons septentrionaux de l'Appia et de la Tra~ana. C'est à ce moment que les Grees inaugurent lcur monvernent de fortification, qui correspond également à une transformation de la tactique militaire. La stratégie est au début eelle de la guerre romaine "classique" telle qu'elle est encore pratiquce dans l'Ant~quité tardive, avec des mouvements d'armoe et de véritables batailles. La rareté des fortifications dans le Sud interdit d'y placer des garnisons, aucune troupe, Procope le sonligne à plusieurs reprises, ne ponvant tenir un établissement ouvert contre 1'ennemi. Il n'est pas rare que les armoes négligent les rares points d'appni fortifiés, ainsi des armoes gothiques envo~rées défendre le détroit de l\Iessine. Enfin la population, indifférente à des armoes étrangères qui emploient toutes deux des Barbares et lui font violence, ne prend aucune part à l'action: certes l'Italie méridionale se livre sans coop férir aux Byzantins, mais elle ne réagit pas plus à la reconquete de Totila dans les années 540. La précarite des résultats obtenus et la faiblesse des effectifs amènent rapidement les belligérants à recourir aux forces locales et à accorder une importa~ce sans cesse grandissante aux fortifications. Ainsi Totila recrute-t-il des paysàns lucaniens. Surtout, les Grands s'engagent aux cotés des Grecs, entraınant l'adhésion du Bruttiu?n et de la Lucanie. Les Ostrogot~s, dé,cus par la première trahison des provinces méridionales, se sont en effet, avec logique, vengés sur les possessores q2utils avaient tant favorises: Totila, qui sten était déjà pris aux sénatours romains titolaires de biens dans le Sud, per,cut après la reconquete de la région non sculement les impots, comme il est naturel, mais aussi les revenus des domaines à la place des propriétaires, ee qui équivalait à une véritable confiseation. Le résultat ne se fit pas attendre: Tullien, au nom des Grands de la Lucanie et du Brutti~f~, négocie avec Jean le ralliement des habitants du golfe de Tarente et s'engage à défendre, avec une armoe levée sur ses terres et celles voisines des sénatours, I'accès des cols de Lucanie. Totila, pour démobiliser ces dépendants, semble alors stengager ~ians une véritable lutte de classes: il fait prornettre par les senatours aux paysans qu'ils garderont désormais la part de fruit due aux propriétaires. La guerre semble d'aillcurs tourner ensuite, de la part des Got~s, à un règlement de compte sons merci avec cette catégorie sociale: témoins lcur attitude à l'égard des villes du Br~ttiam qui lcur résistent et sans doute aussi la destruction de S. Giovanni di 3Ruoti; I'incendie de la villa n'est peut-etre en effet pas
sculetuent du aux hasards de la guerre, mais à une résistance de son ~orninus qui a pu participer, avec Tullien, à la défense du col voisin. La fortification permettait en tout cas une résistance. - Les populations doivent cependant disposer de retranchements, de meme que les positions prises doivent etre tennes. Un premier indice de cette évolution tactique est le démantèlement des murs de Bénévent et de Naples par Totila en 542-543, afin que des armoes byzantines ne puissent les utiliser comme bases. À la prolifération des fortifications défendues par des garnisons et les habitants répond désormais l'importance prise par les sièges dans les opérations. Très révélatours sont les énormes travaux entrepris par Jean à Tarente dans la dernière phase de la guerre: 1'isthme est complètement entouré d'une enccinte ma3connée et barré en outre d'un fossé des deux c8tés. Il y rassemble avec les habitants de la ville ccux des environs, jusqu'alors relativement dispersés, et confie lcur défense à une grosse garnison. Cela suffit, ajoute Procope, pour que les populations du golfe de Tarente se rangent définitivement aux c8tés des Byzantins. On assiste donc à une réduction drastique de la ville auparavant très étendue, qui est désormais delimitoe par une enccinte. La construction du mur garantit certes une protection, mais revet surtout une forte valcur symbolique: tous les habitants de la région n'ont sans doute pas pu y trouver place. Il s'agit donc d'une prise de position, d'une affirmation de pnissance de la part des Grecs. Au général revient l'initiative au nom du basile~s; aux architectes de l'État sans doute la conception de l'ouvrage, meme s'il est ensuite réalisé non sculement par les soldats, mais par la population locale. La concentration autoritaire des hommes à l'intérieur de l'enccinte est aussi réelle: la désertion de Métaponte au meme moment donne en effet du poids aux paroles de Procope. Jean stempare alors du phro?'r~on de Thz~r~um et y laisse des forces considérables. Crotone, qui soutient à la fin de la guerre un siège très dur, est certainement aussi fortifiée au cours des hostilité comme peut-etre la nouvelle Scolaciurn. Cette dernière est en tout cas construite sous Justinien à ~ lcilomètres au sud de la ville romaine, sur la pointe sud du promontoire de Staletti, à S. Maria del Mare. Le site a été de toute évidence choisi pour son caractère stratégique (il domine l'ensemble du golfe de Squillace) et ses fortes défenses na~relles: il s'agit d'un éperon protégé à l'est par une pente abrupte, au sommet duquel subsistent les vestiges d'une fortification des Ve-IVò siècles av. J.-C., rcutilisés comme fondation de l'enccinte et fournissant des matériaux de remploi. L'entreprise répond parfaitement aux prescriptions des traités d'architecture grecs du moment qui recommandent le recours aux défenses naturelles pour renforcer la sécurité et épargner le cout de la ma,connerie. L'établissement domine en outre un port fréquenté à l'époque romaine qui peut alors se développer. Il représente, avec Otrante, le type le plus achevé du pirozmon hectares, la statio d'Altana7m probablement, aux habitants de laquelle est peutetre réservée une partie des thermes et il est tentant d'y voir les effets d'une démarche similaire à celle qui se devine aux environs de Reggio. On est ici en présence de familles extremement riches, qui pourraient appartenir à la classe sénatoriale locale: exonérées de charges municipales s'il s'agit bien d'honorati, elles tronvent certainement plus rentable de se fixer sur lcurs domaines pour mieux en surveiller l'exploitation et y gérer au plus près lcurs intérets; économiquement Locres n'est plus incontournable, pnisqutelle n'est plus relice directement à un grand port. Les marchés se déplacent vers ces gros bourgs nés autour des villae, dans des sites bien plus favorables aux échanges. C'est là que les propriétaires investissent désormais pour améliorer le confort des résidences et c'est là qu'ils se font inhumer. Le sépulcre monumental de la villa de Giudeo à Ardore montre que ses dominit2S adoptent sans doute un comportement similaire, ainsi surtout que ccux de Gioiosa Marina dont le théatre à pcine plus petit que celui de Locres se justifie par l'existence d'une agglomération née autour de la villa, qui a peutetre meme été pourvue d'un éveché. Seols quelques - uns de ces grands possessores maintiennent lcur point d'attache à Locres, comme en témoignent des tombes monumentales. Au total, malgré une désertion, certainement importante, au profit des fonctions ecclésiastiques et impériales, la curie subsiste grace aux moyens propriétaires. Si l'on observe déjà une réduction de l'aire urbaine, à l'est notamment, la fréquentation reste dense aux IVe-Ve siècles. Mais si les richesses circulent, la ville en tant qu'institution en profite de moin.<en moins: I'édilité publique disparalt peu à peu. Les investissements vont aux édifices religieux comme le grand édifice rectangulaire de Marasa.
La désaffection progressive à l'égard du centre de la ville se traduit par un éclatement en noyaux périphériques, autour de foyers religieux ou de villae suburbaines, comme celle de Casale Macri. Deux de ces établissements, I'un proche de la fiumara Portigliola, I'autre de la mer cristalliseront la population au VIe siècle. La villa de Quote San Francesco comprend ainsi une partie résidentielle et, à 30 mètres de distance au sud-onest, un ensemble thermal de briques du IVe siècle. Le second noyau, lui, s'est maintenu, peut-etre pendant tout l'empire, contre l'enccinte grecque, à Centocamere: on y connal^t une nécropole et des tombes d'un certain niveau social, ainsi qu'un édifice du Bas Empire (peut-etre un grenier) et trois autres petites structures~26. Les invasions du Ve siècle stavèrent assez destructrices pour ruiner les cultures fragiles comme la vigne et démanteler le réseau des villue moyennes. On observe une décadence progressive, sinon une totale désertion de la plupart des villue à partir du milieu du siècle. Celle du Naniglio, sans doute épronvée par des ravages divers, réduit sa productiont29. Les propriétaires appauvris occupent la villa jusqu'à la fin du siècle avec un train de vie réduit et lcurs moyens ne lcur permettent plus de faire face aux réparations que nécessitent les dégats d'une inondation à fort alluvionnement: peut-etre ne s'en vont-ils dans le Sud de la péninsule, qui associe une citadelle à l'enccinte entourant l'habitat. À S. Maria del Mare, la première est une sorte d'acropole protégée par une courtine qui occupe le sommet de l'éperon: un pnissant mur de barrage en défend l'accès, flanqué de cinq tours en U, dont deux entourent la porte principale. Le dispositif frappe par sa sophistication: un chemin de ronde en bois reposant sur des piliers mac,onnés suit son parcours, renforcé à l'extérieur par un avant-mur et un fossé aménagé dans une dépression naturelle; la tour situce sur le point le plus élevé tient lieu de donjon. Enfin un système de canalisation amenant l'eau depuis la montagne voisine est inséré dès l'origine dans le rempart. Les travaux de construction ont donné lieu à l'onverture d'un vaste chantier comportant une série d'aires de gachage du mortier et au moins une calvaria. Non loin du barrage, deux batiments de plan allongé comportant des foyers semblent assez vastes pour avoir abrité, comme d'aillcurs les tours elles-memes, la garnison. La ville, entourée d'une enccinte polygonale, convre la pente occidentale de la hautour. On possède moins d'informations sur lopirourion de Tharium. Il comporte en tout cas une enccinte autour de l'habitat, sans laquelle la population n'aurait pu résister aussi longuement à Totila289. Il en est probablement de meme à Crotone, défendue par les habitants, les soldats et la garnison: les secours tardant, les assiégés prévoient, selon les termes de Procope, de rendre euxmemes et la ville2so. À Reggio en revanche, le mur (péribolos) semble correspondre à une citadelle s'élevant à l'intérieur de l'habitat: la langue de Procope, très précise en la matière, distingue en effet ce second type de fortification par l'expres~on én Reggio, au lieu d'employer le génitif. C'est là que se retranche une garnison composée cette fois simplement de soldats de l'armoe, que scul le blocus amène à se rendre. Il faut noter que ces fortifications sont toutes réellement efficaces: ancune ne succombe à un assaut et toutes résistent à de très longs sièges qui permettent souvent l'arrivée de secours. Justinien, comme en Afrique, a donc sans doute bel et bien con,cu un programme de fortification des provinces méridionales reconquises. Il stagissait, dans la perspective d'une reconquete du bassin méditerranécn occidental, de garantir des bases sures pour le maintien des liaisons avec le cccur de l'empire sur les deux cótes, à l'est surtout292, mais aussi sans doute à 1'ouest au débouché des routes principales: à Amantea par exemple293, immense place-forte installée au sommet d'une table rocheuse isolée de tous cotés par des abrupts et entourée pourtant d'une muraille périphérique. L'empercur avait d'autre part hérité à son tour des vastes domaines du patrimoine, qu'il devait protéger et faire fructifier. Quelques indices laissent en outre supposer que la Calabre constitue encore au VIIe siècle et meme au VIIIe siècle une source fiscale et un réservoir d'hommes294 non négligeables. La conception d'une défense en profondeur, axée sur de puissants points d'appui, continue à prévaloir par la suite, Byzance, mobilisée sur d'autres fronts, s'avérant incapable de défendre le Bruttiam et la Lucanie contre les invasions. La scule résistance opposée aux Lombards semble le fait de garnisons locales centrées sur les villes fortifiées (Crotone, Scolacium, Reggio), sans ancune coordination. Les populations, si elles ne s'enfuient pas en Sicile, s'y réfugient.
Dès 599, la plus grande partie du Bruttium est sans doute aux mains des Lombards qui y installent rapidement une administration. Seuls le Sud et quelques forteresses de la c8te orientale (Thurium) et peut-etre les massae de Tropea et Nicotera (mais pas Vil~ona) sont encore aux mains des Grecs. Les fortifications du milieu du VIe siècle s'inscrivent dans une reprise de la concentration de l'habitat, dont on n'est pas toujours en mesure d'identifier les promotours. Les nécessités des échanges prévalent encore sur celles de la défense jusqu'à la fin du VIe siècle: ce sont souvent, comme par le passé, les sites cotiers qui sont séloctionnés. Ainsi à Botricello, proche de l'embouchure d'un fleuve important, le Tacina, qui constitue un axe de pénétration vers la Sila et est relié à la cote ionienne par le bassin du Savuto, une agglomération riche et importante, organisée autour d'une église flanquce d'un baptistère, apparalt vers le milieu du VIe siècle. Il est aussi certain que l'Église, pour faire cultiver ses domaines, continue à rassembler les hommes et que le monvement est repris à son compte par Byzance après la reconquete. Il s'agit de stabiliser une population nombrcuse, mais, on l'a vu, très mobile. Dans la zone des massae, on connalt au moins un village-paroisse. Et le nouveau castrum de Squillace s'est développé autour des maisons d'un groupe de cultivatours vivant sur les terres du monastère Castellense297. L'État quant à lui est intéressé à la fixation de ses sujets, ne serait-ce que pour mieux les controler: outre d'évidents impératifs de sécurité jouent également des nécessités fiscales. Il s'intéresse surtout aux villes que Justinien semble bien avoir tenté de ranimer aussi dans le Br~ótti?'m. Le site de la Locres romaine semble désormais abandonné. La population, encore relativement nombrcuse, s'est peut-etre déjà en partie retranchée sur les collines qui protégeaient les arrières de la ville grecque, fertiles et riches en sources300, mais s'est surtout regroupoe dans les zones proches de la mer, à Centocamere et un peu au sud, près de l'embouchure de la fiumara Portigliola, où une vaste agglomération du VIe siècle a été découverte récemment au lieudit Paleapoli. Couvrant 2 ou 3 hectares, elle s'étendait probablement jusqu'à la villa fortifiée de Quote San Francesco, qui pourrait en avoir constitué le noyau d'origine. L'a~la de la partie résidentielle, qui semble abandonnée au Ve siècle, a pu etre transformoe en église, ce qui rendrait compte de l'absence de mobilier. Un habitat densément occupé existe en tout cas au voisin~ge des thermes, alors qu'ils sont abandonnés et en voie d'écroulement au VIIe siècle. Ce qu'on peut appeler désormais la ville de Locres connalt un nonvel épanonissement au cours du VIe siècle. Bien qu'on ignore tout de l'aspect institutionnel du phénomène, I'apparition du siège épiscopal à la meme époque ne peut etre fortuite. Le site n'est abandonné que dans la seconde moitié du VIIe siècle, lorsque l'éveché est transféré à Gerace. Squillace est une véritable refondation, marquce nous l'avons vu par la s~onstruction d'un ac ueduc et d'une enccinte qui confère à la ville une nette individualité par rapport au plat pays et constitue désormais son caractère le plus rnarquant, privilégié dans la terminologie (il s'agit désormais d'un castrum) au détrimentd'autres aspects. L'établissementde plaine estalors définitivement abandonné après avoir été détrwt par un nouveau tremblement de terre; le nom est transféré avant 59X309. On est ici de toute évidence, comme à Tarente, en présence d'une entreprise conc,ue et dirigée par l'État. Si les travaux paraissent trop importants pour ne pas avoir bénéficié, comme dans d'autres cas, d'une subvention publique, ils ne peuvent guère se concevoir hors d'un contexte économique resté favorable. La tentative justinienne de restauration urbaine n'est ici sans doute pas tot:alement artificielle, ni dépourvue d'effets, au moins pour une certaine période. Quelques indices, dans les sources écrites, laissent en effet supposer un retour des Grands vers la ville. Déophéron, frère de Tullien, fait ainsi partie de la garnison d u pirourion de Thuri?'m avec de nombrcux italiens de haut rang (logimoi). Lors de la prise de Crotone en 596, de nombrcux nobiles, hommes et femmes, incapables de payer immédiatement la ran,con élevée qutexigent les Lombards, sont restés captifs. Enfin, vers la meme date, I'ex-préfet Grégoire, ses hommes et ses biens se tronvent à Reggio. Byzance reprend à lcur égard la politique de Théodoric et y est d'aillcurs contrainte par la faiblesse de ses moyens. L'archéologie montre que la ville redevient un centre administratif et il y a fort à parier que les Grands se jettent sur les nouvelles fonctions. La refondation est parachevée par le transfert du siège
épiscopal, la construction d'une église par l'éveque et sa consécration . Édifice administratif et cathédrale trouvent lcur place dans la citadelle avec quelques maisons. Il est intéressant de noter qu'on retrouve dans la ville byzantine les éléments énumérés par Cassiodore, avec leforum (situé à Squillace à l'extrémité de la citadelle) et sans doute des bains. Si on tente maintenant de préciser les rapports de force à l'intérieur de la ville, on constate une évolution: I'éveque a pris le pas sur les Grands et la petite propriété est revalorisée. La fonille de Squillace donne l'image d'une économie associant la céréaliculture à la consommation des porcs nourris sur un ircultum, qui pourrait etre le fait d'un groupe de petits propriétaires jouissant de biens communaux. La papauté combat d'autre part efficacement, au moins jusqu'à la fin du VIIe siècle, I'infiuence grecque. Car le Sud revet une importance fondamentale pour l'Église, à partir du moment où elle reprend en mains l'annone de Rome, assurée par l'Etat byzantin pendant et après la guerre, mais certainement plus apres l'arrivée des Lombards. Le fait qu'elle s'approvisionne alors dans ses massae méridionales est attesté. La désorganisation de l'administration byzantine dans le Br~ttiam à la fin du VIe siècle transparat dans les textes: c'est le pape qui apprend en 597 à la sccur de 1'empereur, Theoctista, la prise de Crotone l'année précédente et c'est au recteur du patrimoine de Saint-Pierre et non a un fonctionnaire byzantin que celle-ci remet l'argent de la ran,con des captifs. Bien que nos informations soient fortement conditionnées par les sources, il semble que les éveques, présents dans les principaux castra, gardent sculs le controle de la situation, sous l'égide de Rome, et ce d'autant plus que le pape a très vite instauré de bons rapports avec le duc de Bénévent et que les évechés ont rapidement retronvé un fonctionnement normal dans les zones occupoes. L'éveque parvient sonvent dans les provinces méridionales à prendre en mains la construction et l'entretien des structures urbaines fondamentales, murs et aqueduc et gère, pour cela, les fonds publics. Le fait qu'il entre ainsi en rivalité avec le curator civitatis pourrait indiquer qu'il ne s'agit pas, comme le soutient la thèse légaliste, d'une délégation de l'autorité publique, mais d'un état de fait. L'invasion lombarde semble d'autre part avoir eu, pour l'élite sociale, les memes conséquences que la guerre gréco-gothique. Le clergé et les administratours de l'Église, ainsi que les possessores (à Cosenza) se sentent en effet particulièrement menacés et sont d'aillcurs les plus durement touchés. Ce sont eux qui s'enfuient en emportant lcurs trésors et ccux qui n'ont pu s'échapper sont ran,connés: c'est le cas des filles d'un miles (probable notaire) de Myria et, on l'a vu, des nobles de Crotone. Les Lombards ont logiquement cherché le butin là où il se tronvait, mais ils ont sans doute aussi sciemment éliminé un certain nombre de propriétaires. S'ils ont souvent pris lcur place, on peut aussi supposer que ces disparitions ont favorisé l'émancipation non sculement des vici et autres statiores nées à l'ombre des villae, mais aussi celle des colons, dont les petites propriétés avaient survécu, sous une autriÙ forme juridique, à l'intérieur des massae. Le système des pagi et vici de la zone interne des Brettii, démantelé à l'arrivée des Romains, semble remis en vigueur par les Byzantins327. Des sites très perchés, fortifiés aux IVe-Ve siècles av. J.-C., abandonnés ensuite au profit de villae en contrebas, sont en effet réoccupés aux VIIe-VIIIe siècles, peut-etre parfois dès le VIe siècle. Il s'agit d'éperons ou de hautours tabulaires protégés par des abrupts, occupant des points-clés contr81ant de vastes territoires ou des passages stratégiques. Ils associent parfois une citadelle-acropole à un habitat s'échelonnant en terrasses sur la partie supérieure des pentes et sonvent luimeme protégé par une enccinte. Leur fortification doit etre sonvent lice à la stabilisation de la frontière gréco-lombarde. Sur l'isthme de Catanzaro, un certain nombre de ces enccintes semblent servir de référence à des villages onverts gravitant alentour. Le site de Tiriolo, sur la montagne qui domine la ville actuelle, associe ainsi à une citadelle un habitat permanent et une probable enccinte-refuge. La citadelle, édifiée aux VIe-VIIò siècles329, est délimitoe par une courtine à laquelle s'appuient de probables logements de garnison très proches de ccux de Squillace. L'ensemble évoque une sorte de vaste caravansérail, point de contact et d'échanges entre les communautés d'éleveurs semi-itinérants de la Sila et les agricultours de la plaine, qui prend sans doute rapidement l'importance d'une ville. L'État byzantin a probablement favorisé, à partir du VIIe
siècle, ce système, à l'origine des cio^r~a qui apparaissent déjà bien constitués dans les textes au début du IXe siècle. Les invasions lombardes, qui provoquent de nombrcuses destructions (Reggio-Lido, Bova), donnent le signal de la décroissance. C'est sculement du coté lombard que s'observe la formation d'un certain nombre de villes, sonvent probablement à partir de centres domaniaux qui se retranchent sur des positions naturellement très défendues (Malvito, Cassano), entreprises privées donc. Les importations se maintiennent cependant et les établissements ne désertent pas les ~aines littorales: ainsi Vilona semble meme avoir été concurrencce par son port, où l'éveché a pu etre transféré. La désertion des c8tes se produit au VIIIe siècle, pour des motifs variés: cessation des importations d'outremer en premier lieu, installation de la frontière sans doute, on l'a vu, dans le cas de Thur`am, guerres lombardes peut-etre dans d'autres cas, raids sarrasins enfin. Dans les années 730, la conjoncture s'inverse de nonveau et Byzance encourage sans doute la fondation de kastra, dans le cadre d'une hellénisation poussée à son terme et, peut-etre, d'une recolonisation de l'intérieur. GHISEAINE NOYÉ
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Discussione
1. La crise de la basse Antiquité et du haut Moyen Age est apparemment composite. Tout le monde s'accorde à en placer la phase la plus aigue entre la fin du VIe et le VIIIe siècle, et la date symbolique de 680 choisie par Paolo Delogu peut très bien en marquer approximativement le fond. Il stagit alors d'une crise structurelle globale, qui se manifeste en particulier par la disparition d'un grand nombre de cités antiques et le rétrécissement déf nitif de celles qui survivent. Tout en outre porte à croire que la population a alors diminné sensiblement: les abandons et rétrécissements ne paraissent pas compensés, il sten faut, par des fondations réelles mais rares. Nous tendons à attribuer cette baisse démographique à la peste de VI e siècle. Certes, les documents locaux la signalent à pcine; mais les travaux de J.-N. Biraben, confortés par l'amplcur de la catastrophe semblable qu'a connu le XIVe siècle, incitent à voir dans cette épidémie (dont l'existence meme ne peut plus etre mise en doute) un factour démographique déterminant. En Italie, les multiples causes de la crise ont été longtemps occultoes par l'une d'entre elles: I'invasion lombarde, qui est de fait la mieux documentoe; la polémique qui opposait il y a près d'un siècle L. Duchesne et A. Crivellucci ne portait que sur le r81e dévastatour de cette conquete. Nous avons montré qu'elle avait pu avoir des effets déterminants, mais indirects sur les abandons dans les régions les plus vulnérables; on ne peut plus en faire la cause de tous les maux, qui frappent aussi les zones restoes byzantines. Ses effets se greffent sur ccux de monvements plus profonds pour les accentuer. Le moment de l'inversion de conjoncture qui amorce la fın de la crise mériterait d'etre précisé. Pour la plupart des archéologues, le VIIIò siècle, très mal documenté, représenterait le fond de la courbe; les historiens des textes tendent au contraire, en analysant la quantité non négligeable de doc~nents conservés, à y discerner un début de reprise, renvoyant au VIIe siècle, pratiquement moet de lcur point de vue, le point le plus bas. Un tel décalage, qui, à notre avis, ne rend pas vraiment incompatibles les deux optiques, mérite d'etre étudié fınement: on doit pouvoir analyser le rythme de l'ajustement sectour par sectour. 2. Avant la crise structurelle globale des VIe-VIIIe siècles, nombre d'archéologues constatent, en particulier sur les sites urbains, des éléments de malaise dès les IVe et Và siècles, rejoignant ainsi l'opinion traditionelle des historiens sur l'existence d'une longue crise diffuse du Bas-Empire. En Italie méridionale, un tel phénomène est peu sensible à qui travaille sur les textes. Certes, on connaıt quelques mesures prises pour sauvegarder les institutions citadines menacces; mais on voit aussi que meme la guerre gothique n'a pas laissé de traces précises de ruines et que des constructions religieuses sont entreprises au lendemain de la reconquete byzantine, prcove de la vitalité persistante de certains organismes urbains. Aussi se pose-t-on deux questions. La première concerne la nature de cette première crise; elle ne semble pas affecter le commerce, pnisque les archéologues continuent de voir arriver des céramiques africaines et orientales; rien non plus ne semble attester une baisse démographique sérieuse. Le sonci principal des autorités semble etre de revenir en arrière, comme s'il stagissait simplement d'une mauvaise conjoncture. La crise est-elle purement conjoncturelle? Est-elle due simplement à un abus des dépenses de prestige jusq'alors destinées à embellir les cités et qu'on refuse désormais? Si elle est plus profonde, quels sectours économiques précis tonche-t-elle? La seconde question est d'ordre géographique. Si la malaise des IVe et Ve siècles nous semble peu sensible en Italie méridionale, on en nie jusqu'à l'existence en Afrique, alors qu'on l'évoque dans des régions plus septentrionales. Une telle disparité correspond-elle à la réalité? 3. En tout cas, la crise des VIò-VIIIe siècles, bien qu'universelle, n'affecte pas du toutde lameme fa,con les différentesvilles (“successful” et “unsuccessful towns” d'H. Patterson Coccia) et surtout les différentes régions: elle aboutit à des abandons défınitifs de cités plus nombrcux d'une part en territoire lombard qu'enpays resté byzantin, mais aussi, globalement, dans le sud que dans le nord (Emilie par exemple). Aussi est-on conduit à se demander à quels factours est due la volnérabilité
supérieure du sud. On en verrait volontiers une cause (non la scule) dans la nature meme du réseau de cités antiques, formé, dans bien des régions méridionales, d'un semis serré de petits établissements. On n'est pas sur en outre que, dans ces régions, le vicus ait tenu une place aussi importante qu'en Italie du Nord (aux archéologues de nous le dire), ce qui pose accessoprement aussi le problème institutionnel de la ple~s, pratiquement inexistante dans le Midi pendant le haut Moyen Age d'après les sources écrites. On sait que, durant la période le plus brillante du Moyen Age, la ville méridionale n'est comparable à celle de l'Italie communale ni par ses institutions, ni par son role politique et économique. Mais, dans la basse Antiquité, la ville méridionale n'était-elle pas déjà en fait (et sauf de rares exceptions, comme Naples) plus fragile et moins importante que celle du nord? JEAN-MARIE MARTIN Une bonne partie des controverses qui ont eu lieu autour des villes de l'antiquité tardive auraient été évitoes ou, au moins, auraient gagné en clarté si deux points de vue avaient été pris en compte: la prospérité des villes, lice certes à la prospérité générale de l'empire, mais aussi à des conditions locales particulières; I'existence, par aillcurs, de ce que l'on doit appeler un modèle, c'est-à-dire un statut politique, économique, social, sous-tendu et renforcé par une certaine conception de la ville. Chaque fois que l'on lie le déclin de la ville antique à la scule notion de crise de l'empire et que l'on considère, par exernple, que les invasions, éventuellement aidées par les tremblements de terre ou les épidémies, sont la cause essentielle du déclin de la cité, telle qu'elle avait pris forme dans le monde romain, un des aspects de la question est ignoré. Au-delà des difficultés d'une période de crise, il faut rendre compte du caractère irréversible du phénomène observé, qui est bien du à une cause plus profonde, la disparition d'un modèle de la ville, dont le statut de cité et les monuments ne sont que l'aspect le plus apparent. Il faut donc aller au-delà du problème sur loquel stest focalisé le discours sur les villes, I'interprétation des données archéologiques. L'arehéologie, par sa nature meme, nous renseigne d'abord sur une situation locale qui est l'objet propre de l'interprétation, en fonction d'une histoire particulière dont il faut démeler les incidents et les accidents. Elle nous renseigne sur des faits, parfois sur les causes d'une destruction, plus rarement sur les raisons qui font qu'une ville n'est pas reconstruite ou ne re,coit plus de monuments. Je vondrais montrer qu'au-delà des réelles et profondes mutations géopolitiques de l'Antiquité tardive qui peuvent provoquer des ruptures dans la prospérité d'un certain nombre de villes, sinon dans lcur existence meme, les règles du jeu changent aussi à un niveau conceptuel. Je partirai d'une définition du modèle de la cité, proposé pour la partie orientale de l'empire romain (A. CAMERON, ChristianityandtheRhetoricafEmpire, Berkeley 1991, pp.76-78), mais valable en fait, avec quelques adaptations, pour l'ensemble de l'empire: les villes sont dirigées par des aristocraties locales, qui imitent le modèle romain. Les dépenses somptuaires, qui consistent essentiellement en constructions, sont un élément fondamental de cette culture, dans la mesure où elles permettent une compétition à l'intérieur des cités et entre les cités. Cette compétition est appuyée par une rhétorique qui la justifie et la met en scène. Ces aristocraties justifient et légitiment lcur ponvoir par lcur reconnaissance du ponvoir impérial romain (voir l'exemple du Sébasteion d'Aphrodisias et de son décor sculpté cité par A. Cameron). Ce modèle, comme l'a montré B. Ward-Perkins (From ClassicalAntiq~ity totheMiddleAges, Oxford 1984) pourl'Italie, s'estompe. Lepatronagetraditionnel décline, ce qui est lié à la constatation que le ponvoir local n'est plus gratifiant. Les surplus de richesses s'orientent vers des destinations lices au christianisme (fondations d'églises, ocuvres charitables en particulier). Un signe notable de ce changement est la présence à l'épiscopat de personnages d'un haut niveau social (Ambroise, Paulin de Nole par exemple). Les éveques de la Gaole aussi, aux Ve et VIe s., proviennent d'un petit nombre de familles qui se distinguent par lcur statut économique et culturel (voir par exemple R. MARKUS, The End of Ancient Christianity, Cambridge 1990, pp. 199-200). Mais le changement est longtemps masqué par le maintien de formes traditionnelles; dans l'Empire d'Orient, la monumentalité des villes
n'est pas mise en cause jusque sous le règne de Justinien. La construction des églises apporte meme un élément nonveau, s'ajoutant aux constructions traditionnelles plutat que s'y substituant. Plus profondément, l'Eglise utilise le cadre de la cité pour provoquer une évolution. Par exemple, une agglomération peut obtenir le droit de cité grace au culte des saints. Un exemple classique en est Euchaita du Pont qu~ devient cité et siège épiscopal grace à la ferveur que montre l'empercur Anastase envers lemartyrThéodore d'Euchaita. Les éveques revendiquent aussi très consciemment le role d'évergète traditionnellement assigné à ccux qui ont le pouvoir dans la cité: Grégoire de Nazianze l'Ancien, mort en 374, avait doté sa ville d'une église neuve construite essentiellement sur sa propre fortune. Les donations pour des constructions religieuses sont ainsi l'expression de conduites de meme nature que les constructions traditionnelles. L'opposition que cherche à voir B. Ward-Perkins entre dons à destination "civique", qui relèveraient plutat d'une conduite sociale, et dons à destination religieuse, qui relèveraient d'une conduite individuelle, projette sur la réalité de l'Antiquité tardive une distinction beancoup plus récente, qui tend à méconnaıtre ou à diminuer la composante sociale du christianisme et de son développoment. La continuité l'emporterait sur le renonveau si scule la nature des monuments construits changeait. Il convient de faire intervenir un certain nombre de faits, moins apparents et moins spectaculaires, qui se passent en quelque sorte à l'arrière-plan. Ils échappent à l'historien d'autant plus facilement que les contemporains eux-memes ont eu du mal à saisir les changements dont ils étaient actours: l'historiographie traditionnelle narre ce dont elle rend compte dans les cadres traditionnels de la cité, sans soop,conner que cela se passe "autrement". Cet "autrement" ne peut se lire que dans des textes qui se situent en-dehors du cadre habituel et qui ont déjà adopté un nonveau point de vue, d où l importance des textes hagiographiques (E. PATUAGEAN, Ancienne hagiographiel~yzantineetlistoiresociale, “Annales E.S.C.”, 1968, pp. 106-126). L'historien des villes ne peut ignorer des évolutions fondamentales qui modifıent profondément le système de redistribution des richesses, dans sa forme et dans le discours qui rend celle-ci légitime. Les conclusions auxquelles est arrivée E. Patlagean, sontparticulièrementimportantes. La rétribution sans travail, déjà largement acceptée dans la cité antique, va devenir essentielle dans une vision chrétienne, sous la forme de l'aumone, qui va remplacer des formes traditionnelles de distribution. Je ne sais pas si on peut aller jusqu'à parler d'invention de la pauvreté, mais nous tonchons là un point central de la justification du prélèvement chrétien. Par aillcurs, toujours comme l'a montré E. Patlagean, le don monumental chrétien prend une forme différente du don traditionnel: il n'est pas enfermé dans le cadre de la cité. Il n'est plus réservé à ccux qui ponvaient engager de très grosses dépenses: des fortunes moyennes peuvent etre mobilisées dans les dons, par exemple de parties de mosaiques (A. CUTTER, Art in Byzantine Society: Motive Forces of Byzantine Patronage, “JOB ” 31/2, 1981, pp. 759-787). Le succès de cet évergétisme chrétien suffit pour montrer qu'il est efficace et gratifiant: en effet, si de nombrcux indices montrent l'évergétisme traditiònnel “stessouffler” au IIIe s. (voir par ex. C.M. ROUECHÉ, Aphrodisias in LateAntiquity, Londres 1989), le meme milieu social, qui relachait son effort dans ce domaine, va investir largement dans un contexte chrétien. Ce n'est pas le lieu ici de chercher à comprendre pourquoi et comment ces nouvelles formes de redistribution sont ressenties comme gratifiantes par ccux qui les pratiquent. Mais le role, comme intermédiaire, d'une institution, l'Eglise, qui permet des accumulations qui échappent à l'individu et qui tient un discours qui valorise ces pratiques, est un élément fondamental de cette transformation. On doit surtout se demander comment un modèle aussi fondamental dans le fonctionnement social et politique de l'Antiquité tardive a pu etre éliminé. Un modèle qui fonctionne est nécessairement intégré dans un réseau de relations qui elles-memes paraissent légitimes, car allant de soi. Ce réseau est constitué par la mémoire, par l'inscription d'une mémoire sociale dans les mémoires individuelles (voir le livre précurseur de M. HA~swAcHs, La mémoire collertive, Paris 1950). Le temps et l'espace sont des constituants essentiels de cette mémoire (cfr., par exemple, P. BERGER and T. LUCKMANN, The social construrtion of reality, New York 1967). L'appropriation du temps par l'Eglise chrétienne est bien connne, que ce soit par la construction d'une chronologie qui part de la
Création ou par l'élaboration du calendrier annuel. Mais l'appropriation de l'espace doit aussi etre prise en compte (pour une étude d'un tel processus en ocuvre, voir T. RANGER, Talingl old of the Land: holy places and pilgrimages in 20th cent. Zimle, “Past and Present”, 117 (1987), pp.158194). Par le don monumental chrétien, on construit de nouveaux lieux de mémoire. Non sculement ils tendent à remplacer ccux qui existaient et à les dévaloriser, mais par lcur situation, lcur fonctionnement, lcur structure meme, ils prennent le contre-pied du réseau existant: ce sont les cimetières qui sont investis, c'est l'or et la splendeur de l'intérieur de l'église où l'homme est mis face à son dieu, représenté dans la voute de l'abside, qui remplacent l'espace onvert, suó divo, de la ville antique. Parallèlement, l'homme de l'ame, l'homme qui scrute son intérieur, remplace, dans le nouveau discours, I'homme que son corps inscrit dans le monde. Ces changements ne sont pas l'ocuvre spontanée du peuple chrétien. Il n'est pas besoin de rappeler combien de textes patristiques sont préoccupés de christianiser le temps et l'espace, christianisant ainsi la mémoire sociale. Ces transformations très profondes, ces nouvelles valcurs qui informent les esprits retirent toute légitimité au modèle traditionnel de la ville. Les villes ellesmemes se modifient lentement, ne serait-ce que parce que lcurs monuments étaient faits pour durer et qu'ils entraınaient donc une grande inertie dans l'évolution du paysage urbain. Mais, de manière irréversible pour de très longs siècles au moins, est créce une situation où, en dehors de tout problème de prospérité, est rendu impossible, parce que non légitime, un modèle de circulation des richesses permettant de recrécr des villes caractérisées par un urbanisme monumental. Dans cette perspective, le christianisme est la forme prise par la mutation de la société de l'Antiquité Tardive, lorsque après avoir beancoup tatonné, le changement a fini par se stabiliser dans une forme qui permettait à une société en évolution de se penser elle-meme, avec de nonvelles valcurs, un mode de pensée élargissant l'horizon au-delà de la cité, cassant de vieux clivages sociaux, permettant en meme temps de penser la légitimité d'un pouvoir unique sur le monde. La transformation de la cité antique n'est qu'un aspect de ce vaste phénomène. JEAN-MICHEL SPIESER