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Este/le Blanc
... Que um con;unto rea! e verdadeiro è uma doença das nossas ideias. Pessoa
Paul Veyne
I greci ha...
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Este/le Blanc
... Que um con;unto rea! e verdadeiro è uma doença das nossas ideias. Pessoa
Paul Veyne
I greci hanno creduto ai loro miti?
il Mulino
VEYNE, Paul I greci hanno creduto ai loro miti? Bologna, Il Mulino, 1984. 177 p. 21 cm. (lntersezioni, 11). l. Mitologia e cultura - Grecia antica Grecia antica
2. Mitologia e Storiografia -
907.238 88-15-00530-7
ISBN
Edizione originale: Les Grecs ont-ils cru à /eurs mythes?, Paris, Editions du Seuil, 1983. Copyright © 1983 by Editions du Seuil, Paris. Copy· right © 1984 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Ca terina Nasalli Rocca di Corneliano. Per l'illustrazione in copertina: Copyright
© 1984 by SIAE, Roma.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effet
tuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non au torizzata.
Premessa
. Come si può credere a metà o credere a cose contrad dittorie? I bambini credono, nello stesso tempo, che sia Babbo Natale, attraverso il camino, a portare loro i giocat toli e che questi giocattoli siano stati messi sotto l'albero dai loro genitori; allora credono veramente a Babbo Na tale? Si, e la fede dei dor.cé non è da meno; agli occhi di questi etiopi, ci dice Dan Sperber, «il leopardo è un ani male cristiano, che rispetta i digiuni della Chiesa copta, os servanza che, in Etiopia, è la base della religione; tuttavia un dor.cé il mercoledi e il venerdi, giorni di digiuno, non è meno preoccupato di proteggere il suo bestiame degli altri giorni della settimana; egli crede sia che i leopardi digiu nino, sia che mangino tutti i giorni; che i leopardi siano pe ricolosi tutti i giorni, lo sa per esperienza; che siano cri stiani, glielo garantisce la tradizione». Sull'esempio della fede dei greci nei loro miti, mi ero dunque proposto di studiare la molteplicità delle modalità del credere: credere sulla parola, credere in base all'espe rienza, ecc. Questo studio mi ha, a due riprese, proiettato un po' piu lontano. Si è dovuto riconoscere che invece di parlare di convin zioni, si doveva proprio parlare di verità. E che le verità erano esse stesse delle immaginazioni. Noi non ci facciamo una falsa idea delle cose: è la verità delle cose che, attra verso i secoli, si è formata in modo tanto singolare. Lungi dall'essere la piu semplice esperienza della realtà, la verità è la piu storica di tutte. Vi fu un'epoca in cui i poeti o gli sto rici inventavano di sana pianta origini favolose alle dinastie reali, con il nome di ogni tiranno ed il suo albero genealo gico; non erano dei falsari e tanto meno erano in malafede: seguivano il metodo, allora normale, per arrivare a delle ve rità. Seguiamo questa idea fino in fondo e, una volta chiuso
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il libro, vedremo che noi riteniamo vere, nello stesso loro modo, quelle che noi chiamiamo finzioni: l' Iliade o Alice sono vere, né piu né meno che Fuste! de Coulanges. Come pure riteniamo fantasticherie, senza dubbio interessanti, tutte le produzioni del passato e non riteniamo vero, e in modo molto provvisorio, che l'«ultimo stadio della scien za». Ecco la cultura. Non voglio assolutamente affermare che l'immagina zione rivelerà le verità future e che dovrà trovarsi al potere, ma che le verità sono già esse stesse immaginazioni e che l'immaginazione è al potere da sempre; essa, e non la realtà, la ragione o il lungo lavorio del negativo. Questa immaginazione, lo si vede, non consiste nella fa coltà conosciuta sotto questo nome sul piano p$icologico e storico; essa non amplia né in sogno, né con profezie le di mensioni del vaso di vetro in cui noi siamo racchiusi: essa al contrario ne erige le pareti e, al di fuori di questo vaso, nulla esiste. Nemmeno le future verità: non si saprebbe dunque come dare a queste la parola. In tali vasi di vetro si plasmano le religioni o le letterature o anche le politiche, i comportamenti e le scienze. Questa immaginazione è una facoltà, ma nel senso kantiano del termine; è trascenden tale, costituisce il nostro mondo invece di esserne il lievito o il demone. Soltanto - cosa che farebbe fuggire per il di sgusto ogni kantiano responsabile - questo trascendentale è storico, perché le culture si susseguono e non si assomi gliano. Gli uomini non trovano la verità: essi la costrui scono come costruiscono la loro storia, ambedue secondo la � loro utilità. I miei ringraziamenti amichevoli vanno a Miche! Fou cault, con cui ho discusso di questo libro, ai miei colleghi dell' Association des étudés grecques, J. Bompaire e J. Bou squet, e a F. Wahl per i suoi suggerimenti e le sue critiche.
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Prologo
I greci credevano alla loro mitologia? La risposta è diffi cile, poiché credere vuoi dire tante cose . .. Non tutti crede vano che Minosse continuasse ad essere giudice 1 negli In feri, né che Teseo avesse combattuto il Minotauro 2, ed essi sapevano che i poeti «mentono». Tuttavia, il loro modo di non crederci continua a imbarazzare: poiché Teseo, ai loro occhi, era comunque esistito; bisogna solamente «epurare il Mito con la Ragione» 3 e ridurre la biografia del compagno di Eracle al suo nocciolo storico. Quanto a Minosse, Tuci dide - al termine di un prodigioso sforzo di pensiero arriva, da parte sua, alla stessa conclusione: «di tutti quelli che noi conosciamo per sentito dire, Minosse fu il primo a possedere una flotta» 4; il padre di Fedra, marito di Pasifae, non è altro che un re che fu signore del mare. L'epurazione del mitico attraverso il logos non è un episodio della lotta eterna, dalle origini a Voltaire e Renan, tra la superstizione e la ragione, che farebbe la gloria del genio greco; il mito e il logos, malgrado Nestle, non si contrappongono come l' er rore e la verità'. Il mito era argome.nto di approfondite ri flessioni 6 e i greci non avevano finito di preoccuparsene an cora sei secoli dopo quel movimento dei Sofisti che si dice sia stato il loro Aufk/iirung. Lungi dall ' essere un trionfo della ragione, l'epurazione del mito attraverso il logos è un programma molto superato, la cui assurdità sorprende: per ché i greci si sono voluti dare tanta pena per nulla nel voler separare il buon grano dal loglio, invece di rifiutare con un solo gesto, nella fabulazione, sia Teseo che il Minotauro, sia l'esistenza stessa di un certo Minosse, sia i fatti invero simili che la tradizione attribuisce a questo favoloso Mi nosse? Si vedrà l'ampiezza del problema quando si saprà che questo atteggiamento di fronte al mito è durato due buoni millenni; in un libro di storia dove le verità della reli7
Prologo
gione cristiana e le realtà del passato si appoggiano le une alle altre, il Discours sur l'histoire universelle, Bossuet ri prende a sua volta la cronologia mitica concordata con la cronologia sacra dalla creazione del mondo, e può dunque collocare nella data giusta, «poco dopo Abimelech», «fa mosi combattimenti di Eracle, figlio di Anfitrione» 7, ed alla morte di «Sarpedone, figlio di Zeus». Cosa aveva in te sta il vescovo di Meaux nel momento in cui scriveva que sto? Cosa abbiamo in testa quando crediamo nello stesso tempo a cose contraddittorie, come facciamo continua mente in politica o nel campo della psicanalisi? Avviene lo stesso ai nostri studiosi del folklore di fronte al patrimonio delle leggende popolari o a Freud di fronte alla logorrea del presidente Schreber: che fare di tanta futilità? Come potrebbe tutto ciò non avere un senso, una motiva zione, una funzione o almeno una struttura? Il problema di sapere se le favole hanno un contenuto autentico non si pone mai in termini positivi: per sapere se Minasse è esistito, biso gna prima decidere se i miti non siano che vaghi racconti o se siano storia alterata; nessuna critica positivistica arriva a capo della fabulazione e del soprannaturale 8 • Allora, come si può smettere di credere alle leggende? Come si è smesso di credere a Teseo, fondatore della democrazia ateniese, a Ro molo, e alla storicità dei primi secoli della storia romana? Come si è smesso di credere alle origini troiane della monar chia franca? Per i tempi moderni, noi possiamo vedere piu chiaro gra zie al bel libro di George Huppert su Estienne Pasquier 9 • La storia come noi la concepiamo è nata non quando è stata in ventata la critica, dato che essa esisteva già da molto tempo, ma il giorno in· cui il mestiere di critico e quello di storico sono diventati uno solo : «La ricerca storica è stata praticata per secoli senza intaccare seriamente il modo di scrivere la storia stessa, restando le due attività separate l'una ,dall'al tra, alle volte nella mente di una stessa persona>>. E stato cosi anche nell'antichità ed esiste una retta via della ra gione storica, la sola e la stessa in ogni epoca? Prendiamo come filo conduttore un'idea di Arnaldo Momigliano 10: «il metodo moderno della ricerca storica è tutto fondato sulla 8
Pro/()go
distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano». Non è molto certo che questa idea di un grande studioso sia giusta; io la credo anche non pertinente. Ma essa ha il merito, anche se non si è d'accordo, di porre un problema di metodo facendola ritenere valida. Pensiamo a Beaufort o a Niebuhr, il cui scetticismo riguardo ai primi secoli della storia di Roma si fondava sulla mancanza di fonti e di do cumenti contemporanei a quei tempi lontani, o, quanto meno, si giustificava con questa mancanza 1 1• La storia delle scienze non è quella della scoperta pro gressiva del buon metodo e delle vere verità. I greci hanno un modo, il loro, di credere alla loro mitologia o di essere scettici, e questo modo rassomiglia solamente in modo ap parente al nostro. Essi hanno anche il loro metodo di scri vere la storia, che non è il nostro, e questo metodo si basa su un presupposto implicito, cioè la distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano, che, lungi dall'essere ignorato per un vizio di metodo, non è pertinente al pro blema. Di tutto ciò, Pausania è un esempio che vale quanto un altro, e lo citeremo spesso. Pausania non è assolutamente una mente da sottovalu tare, e non è giusto dire che la sua Periegesi dell'El/ade fu il Baedeker della Grecia antica. Pausania è il parallelo di un filologo o di un archeologo tedesco del primo Ottocento; per descrivere i monumenti e raccontare la storia delle dif ferenti contrade della Grecia, ha frugato nelle biblioteche, ha viaggiato molto, si è documentato, ha visto tutto con i suoi occhi 12; mette tanto ardore nel raccogliere leggende lo cali dalla viva voce quanto un nostro studioso provinciale al tempo di Napoleone III; la precisione delle indicazioni e l'ampiezza dell'informazione sorprendono quanto la sicu rezza del colpo d'occhio (a forza di osservare delle sculture e di informarsi sulla loro data, Pausania ha imparato a da tare la scultura sulla base di un criterio stilistico) . Infine Pausania è stato ossessionato dal problema del mito e, come si vedrà, ha a lungo dibattuto su questo enigma.
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Prologo
Note 1 I morti continuano, sotto terra, a condurre la vita che avevano avuto da vivi; Minosse, agli Inferi, continua a giudicare, come Orione continua a cacciare sotto terra: M. Nilsson, Geschichtedergriechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2, vol. l, p. 677. Non bisogna dire, come Racine, che gli dei hanno fatto di Minosse il giu dice dei morti. Sulle menzogne molto consapevoli dei poeti, si veda Plutarco, Qu o modo aJulescens poetas, Il, pp. 16F - 17F.
2 Plutarco, Vita di Teseo, 15, 2-16, 2. Cfr. W. den Boer, Theseus, the Growth of Myth in History, in «Greece and Rome», XVI (1969), pp. 1- 1 3 . 3 Plutarco, Vita d i Teseo, l , 5 : cilnrythOdes epurato dal /ogos», l'opposizione del /ogos al nrythos viene da Platone, Gorgia, 523A.
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4 Tucidide, l, 4, l; «Conoscere per sentito dire» è conoscere attraverso il mito; si veda per esempio Pausania, VIII, 10, 2. Erodotò, III, 122, si faceva la stessa idea di Minosse. Si veda Aristotele, Politica, 1271B38.
' W. Nestle, Von Mythos zum Logos, Stuttgart, Metzler, 1940. Un altro impor tante libro per i diversi argomenti di cui noi qui ci occupiamo è quello diJohn Fors dyke, Greece before Homer: Ancient Crono/og:y and Mytho/og:y, New York, Norton, 1957.
6 A. Rostagni, Poeti alessandrini, Roma, Bretschneider, 1972, pp. 148 e 264. A prova di ciò, l'esegesi storica o naturalista dei miti, attraverso Tucidide o Eforo, l'e segesi allegorica degli stoici e dei retori, l'evemerismo e la stilizzazione romanesca dei miti attraverso i poeti ellenistici.
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Citata da G. Couton in un importante srudio su Les «Pensées» de in «XVII• siècle», XXXII (1980), p. 183.
Pasca/ contre
tèsedes Trois Imposteurs,
8 Come diceva pressappoco Renan, basta ammettere il soprannarurale, per non poter piu dimostrare l'inesistenza di un miracolo. Basta avere interesse a credere che Auschwitz non c'è stata, perché tutte le testimonianze su Auschwitz diventino incredibili. Nessuno ha mai nemmeno dimostrato che Zeus non esisteva. 9 G. Huppert, IO
L'idée de /'histoire parfaite,
Paris, Flammarion, 1973, p. 7.
Citato da Huppert, op.cit., p. 7, n. l. I diversi saggi di A.D. Momigliano rela tivi a questi problemi di storia e di metodo della storiografia si possono ora trovare agevolmente nelle sue due raccolte: Studies in Historiography, London, Weidenfeld & Nicholson, 1966, e Essays in Ancient and Modem Historiography, Oxford, Black well, 1977.
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Se si vuole vedere fino a che punto il «rigore», il «metodo», la «Critica delle fonti» servono poco in questi domini, basterà citare queste righe, dove, ancora nel 1838, V. Ledere vuole rifiutare Niebuhr: «Proscrivere la storia di un secolo, perché vi si uniscono delle favole, è proscrivere la storia di tutti i secoli. I primi secoli di Roma ci sono sospetti a causa della lupa di Romolo, degli scudi di Numa, dell'appa rizione di Castore e Polluce. Cancellereste dunque dalla storia romana tutta la sto ria di Cesare, a causa dell'astro che apparve alla sua morte, e quella di Augusto, per ché lo si diceva figlio di Apollo travestito da serpente?», in Des joumaux chez /es Ro mains, Paris, 1838, p. 166. Da dove si vede che lo scetticismo di Beaufort e Niebuhr non ha per fondamento la distinzione d_elle fonti primarie e di seconda mano, ma piuttosto la critica biblica dei pensatori del XVIII secolo.
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Ci si è domandati altre volte se Pausania non avesse viaggiato soprattutto nei libri; si può affermare che è sbagliato: Pausania ha lavorato soprattutto sul terreno; si veda la pagina molto viva di Ernst Meyer nella traduzione abbreviata da Pausa nia, Pausanias, Beschreibung Griechenllln ds, Miinchen e Ziirich, Artemis Ver lag, 1967 2 , introduzione p. 42. Su Pausania si veda infine K.O. Miiller, Geschichte der antiken Ethnografie, Wiesbaden, Steiner, 1980, vol. II, pp. 1 76-180.
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Capitolo primo
Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»
Vi è un buon motivo per cui uno storico antico rara mente ci dà l'occasione di sapere se distingue fonti primarie e informazioni di seconda mano: uno storico antico non cita mai le sue fonti o, al massimo, lo fa raramente, irrego larmente e non per le stesse ragioni per cui lo facciamo noi. Dunque, se ricerchiamo cosa voglia dire questo silenzio e se ne traiamo le conseguenze, tutto risulterà chiaro: vedremo che la storia di allora non aveva in comune che il nome con quella che noi conosciamo. Non voglio dire che fosse im perfetta e che dovesse progredire per diventare la scienza che è stata da sempre: nel suo genere era definita, come strumento per dimostrare il vero, quanto il nostro giornali smo, al quale assomiglia molto. Questa «parte nascosta del l'iceberg» di ciò che un tempo fu la storia è cosl grande . . . da non essere piu lo stesso iceberg. Uno storico antico non «mette mai note a pie' di pa gina». Sia che egli compia ricerche originali o lavori su ma teriale di seconda mano, vuole essere creduto sulla parola; a meno che non sia fiero di aver scoperto un autore poco co nosciuto o voglia valorizzare un testo raro e prezioso, che è, solo per lui, una specie di monumento piuttosto che una fonte 1• Piu spesso, Pausania si accontenta di dire: «ho ap preso che . . . » o «secondo i miei informatori . . . »; e questi in formatori o esegeti rappresentavano fonti scritte o informa zioni raccolte dalla viva voce di sacerdoti o di eruditi del luogo incontrati durante i suoi viaggi 2• Questo silenzio sulle fonti continua ad incuriosire . . . e ha dato luogo alla Quellenforschung.
Torniamo, dunque , a Estienne Pasquier, le cui Recher ches de la France vennero pubblicate nel 1560. Prima della
pubblicazione, ci dice George Huppert 3, Pasquier aveva fatto circolare il suo manoscritto tra i suoi 'amici; il rimpro11
Verità storica: tradizione e wu/gpta»
vero che costoro gli rivolgevano piu frequentemente riguar dava la sua abitudine di fornire molto spesso i riferimenti sulle fonti che citava; tale modo di procedere - gli si fece notare - ricordava fin troppo «l'umbre des escholes» e non si adattava affatto ad un'opera storica. Era veramente ne cessario che confermasse ogni volta «le sue parole con qual che autore antico?». Se si ·trattava di dare alla sua narra zione autorità e credibilità, il tempo ci avrebbe pensato da solo; dopo tutto, le opere degli antichi non venivano affa stellate di citazioni e, quindi, la loro autorità si è affermata con il tempo; che Pasquier lasci al tempo il giudizio sul suo libro! Queste righe sconcertanti mostrano quale abisso separi la nostra concezione della storia dall'altra concezione, che fu quella propria di tutti gli storici dell'antichità e che an cora era quella dei contemporanei di Pasquier. Secondo questa concezione, la verità storica era una vulgata che con sacra l'accordo degli spiriti nel corso dei secoli; questo ac cordo sancisce la verità come sancisce la reputazione degli scrittori ritenuti classici, o, ancora, immagino, la tradizione della Chiesa. Lungi dal dover stabilire la verità a colpi di ci tazioni, Pasquier avrebbe dovuto aspettare di essere lui stesso riconosciuto come testo autentico; mettendo note a piè di pagina, fornendo prove come fanno i giuristi, egli ha indiscretamente cercato di forzare il consenso della poste rità alla sua opera. In una simile concezione della verità sto rica, non si può affermare che venga dimenticata la distin zione delle fonti primarie e secondarie o ancora che essa venga ignorata e che non sia ancora stata scoperta; sempli cemente non ha né senso né utilità e, se si fosse fatto osser vare agli storici antichi la loro supposta omissione, essi avrebbero risposto di non aver nulla a che fare con questa distinzione. lo non dico che essi non abbiano avuto torto, ma soltanto che, data la loro diversa concezione della ve rità, tale lacuna non poteva essere una spiegazione. Per comprendere questa concezione della storia come tradizione o vulgata, possiamo riferirei al modo molto simile con cui si pubblicavano gli autori antichi, o le Pensées di Pasca! non piu di un secolo e mezzo fa. Quello che si stam12
Verità storica: tradizione e «VU/wtta»
pava era il testo tramandato, la vulgata; il manoscritto di Pasca! era accessibile a tutti gli editori, ma non lo si andava a consultare alla Bibliothèque du Roi : si ristampava il testo tradizionale. Gli editori di testi latini e greci, invece, ricor revano ai manoscritti; ma tuttavia non stabilivano l'albero genealogico di tali copie, non cercavano di costruire il testo su basi interamente critiche e facendo tabula rasa: essi pren devano un «buon manoscritto», lo mandavano alla stampa e si limitavano a migliorare, in alcuni dettagli, il testo tradi zionale J;icorrendo a qualche altro manoscritto che avevano consultato o scoperto; costoro non ponevano in discussione l' autenticità del testo ma completavano o miglioravano la
vulgata.
Quando narrano della guerra del Peloponneso o dei se coli leggendari della piu antica storia di Roma, gli storici antichi si copiano l'un l'altro. E ciò non soltanto perché, in mancanza di altre fonti o di documenti autentici, erano co stretti a farlo; dato che noi stessi, che ancor meno di loro disponiamo di documenti e dobbiamo !imitarci alle affer mazioni di tali storici, ugualmente non crediamo loro. Ve diamo in costoro delle semplici fonti, allo stesso modo in cui loro stessi consideravano la versione tramandata dai loro predecessori come una tradizione. Anche se avessero potuto, non avrebbero cercato di porre in discussione que sta tradizione, ma soltanto di migliorarla. Del resto, per i periodi sui quali essi disponevano di documenti, non · Ii hanno utilizzati, o, se lo hanno fatto, li hanno utilizzati molto meno di quanto noi faremmo, e in tutt' altro modo. Tito Livio o Dionigi d'Alicarnasso hanno dunque rac contato imperturbabilmente i quattro secoli oscuri della storia primitiva di Roma, mettendo insieme tutto quello che avevano affermato i loro predecessori, senza doman darsi: «è vero?», ma limitandosi a trascurare quei dettagli che sembravano loro falsi o piuttosto inverosimili e inatten dibili; essi davano per scontato che il loro predecessore di cesse la verità. T ale predecessore poteva essere di parecchi secoli posteriore agli avvenimenti che raccontava, ma Dio nigi o Tito Livio, in proposito, non si sono mai posti quella domanda che a noi sembra cosi ovvia: «ma, allora, come 13
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
lo sa?». Forse perché supponevano che quel predecessore avesse egli stesso avuto dei predecessori, il primo dei quali era stato contemporaneo agli stessi avvenimenti? Certa mente no, essi erano esattamente informati che i piu anti chi storici di Roma erano stati di quattro secoli posteriori a Romolo e, del resto, essi non se ne preoccupavano affatto; questa era tradizione e la tradizione era verità, ecco tutto. Se avessero appreso come si era formata questa tradizione primaria, presso i primi storici di Roma, quali fonti, quali leggende e quali ricordi si fossero fusi nel loro crogiolo, avrebbero conosciuto soltanto la preistoria della tradizione: essi non l'avrebbero considerata come un testo piu auten tico; i contenuti di una tradizione non sono la tradizione stessa. Questa si presenta sempre come un testo, una narra zione che stabilisce l' autorità: la storia nasce come tradi zione e non si elabora partendo dalle fonti; abbiamo visto che, secondo Pausania, il ricordo di un'epoca è definitiva mente cancellato se coloro che sono vicini ai grandi non si curano di riportare la storia del loro periodo; nell'introdu zione della sua Guerra Giudaica, Flavio Giuseppe ritiene che lo storico piu meritevole sia chi narra gli avvenimenti del suo tempo ad uso della posterità. Perché era piu merite vole scrivere una storia contemporanea piuttosto che una storia dei tempi passati? Perché il passato ha i suoi storici, mentre l'epoca contemporanea attende che uno storico ne divenga la fonte storica e ne stabilisca la tradizione; lo si può vedere, uno storico antico non utilizza fonti e docu menti; è esso stesso fonte e documento; o piuttosto la sto ria non si elabora a partire dalle fonti: essa consiste nel ri petere quello che ne hanno detto gli storici, correggendo o, eventualmente, completando quello che essi ci hanno già fatto conoscere. Succede talvolta che uno storico antico segnali che le sue «autorità» presentano divergenze su· alcuni punti o, me glio, che dichiari di rinunciare a conoscere quale fosse la verità su questo punto, data la diversità delle versioni. Ma queste manifestazioni di spirito critico non costituiscono un apparato di prove e di varianti a sostegno di tutto il suo te sto, come l' apparato critico che sostiene le fondamenta di 14
Verità storica: tradizione e «Vu/gpta»
tutte le nostre pagine di storia: sono unicamente dei punti controversi ed incerti, dei dettagli sospetti. Lo storico an tico innanzitutto crede, e dubita soltanto dei dettagli che non può credere. Accade che uno storico citi un documento e lo trascriva o descriva qualche reperto archeologico. Fa questo o per ag giungere un dettaglio alla tradizione o, piuttosto, per illu strare il suo scritto ed aprire una parentesi di intimità con il lettore . In una pagina del suo libro IV, Tito Livio fa le due cose insieme. Si domanda se Cornelio Cosso, che uccise in un duello il re etrusco di Veio, fosse tribuno, come affer mavano tutte le sue fonti, o se fosse console, e fra queste sceglie la seconda soluzione, perché l'iscrizione sulla co razza di questo re, che Cosso vincitore consacrò in un tem pio, lo dice console: «ho sentito io stesso», scrive, «dire da Augusto, che ha fondato o restaurato tutti i templi, che en trando in questo santuario in rovina aveva letto la parola console scritta sulla tunica di lino del re; ecco perché trove rei quasi un sacrilegio togliere a Cosso, e al suo trofeo, la testimonianza dell'imperatore in persona». Tito Livio non ha ricercato documenti: ne ha trovato uno per caso o, piut tosto, ha raccolto la testimonianza dell'imperatore a quel proposito e questo documento non è una fonte di cono scenza bensi piuttosto una curiosità archeologica ed una reliquia, con la quale il prestigio del sovrano si aggiunge a quello di un eroe del passato. Spesso gli storici d'altri tempi, ed ancora quelli di oggi, citano dei monumenti sem pre visibili del passato, non tanto come prove di quello che dicono, ma piuttosto come illustrazioni che ricevono luce e splendore dalla storia, molto piu di quanto essi non illumi nino la storia stessa. Dal momento che uno storico è una fonte per i suoi suc cessori, succederà anche che essi lo critichino. Essi non hanno messo in discussione e rifatto da capo il suo lavoro per il fatto di aver scoperto in lui degli errori e di averli corretti : essi non ricostruiscono, correggono. O, ancora, lo stroncano; dal momento che l'individuazione degli errori può essere un processo alle intenzioni sulla base di un cam pione. In breve, non si critica un'interpretazione d'insieme 15
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
o il dettaglio, ma si può incominciare a demolire una repu tazione, a minare una attendibilità immeritata; la narra zione di Erodoto merita di essere considerata come una fonte o, piuttosto, Erodoto non è altro che un bugiardo? In materia di fonti, di tradizione, è come in materia di orto dossia: tutto o niente . Uno storico antico non menziona le sue fonti perché si sente egli stesso una fonte potenziale. A noi piacerebbe sa pere come Polibio sa tutto quello che sa. Ci piacerebbe an cora di pio sapere perché, ogni volta che la sua narrazione o quella di Tucidide acquistano una bellezza plastica e sem brano pio vere del vero, essi si adeguano a qualche raziona lità politica o strategica. Quando un testo è vulgata, si è tentati di confondere quello che il suo autore ha material mente scritto con quello che ha dovuto scrivere per essere degno di se stesso; quando la storia è vulgata, si distingue male quello che è effettivamente successo da quello che non è potuto non succedere, in nome della verità delle cose ; ogni avvenimento si uniforma alla sua tipologia; ed ecco perché la storia dei secoli oscuri di Roma è ricca di narra zioni molto dettagliate, i cui dettagli stanno alla realtà come i restauri alla Viollet-le-Duc stanno all'autenticità. Una simile concezione della ricostruzione storica offriva ai falsari, come vedremo, agevolazioni che la storiografia mo derna non offre pio loro. Se è consentito fare un' ipotesi circa il luogo di nascita di questo programma di verità, dove la storia è vulgata, cre deremo che il rispetto degli antichi storici per la tradizione trasmessa loro dai predecessori deriva dal fatto che in Gre cia la storia è nata non dalla controversia, come da noi, ma dalla ricerca (in effetti, questo è il significato della parola greca «historia») . Quando si fa una ricerca (come viaggia tore, geografo, etnografo o cronista) non si può non dire : ecco quello che ho constatato, quello che mi hanno detto negli ambienti bene informati; sarebbe forse utile aggiun gere I' elenco degli informatori, ma chi li andrebbe a con trollare? Dopo tutto, non è per il rispetto delle fonti che si giudica un giornalista, ma per la sua coerenza o, ancora, su qualche dettaglio dove lo si sarà colto per caso in flagrante 16
Verità storica: tradizione e
«VUIIJilta»
delitto d'errore o di parzialità. I passi stupefacenti di Estienne Pasquier non avrebbero piu nulla di stupefacente, se fossero dedicati ad uno dei nostri cronisti, e ci si potrebbe divertire a sviluppare l'analogia tra gli antichi storici e la deontologia o la metodologia del giornalista. Da noi un croni sta non aggiungerebbe nulla alla sua credibilità, se precisasse inutilmente l'identità dei suoi informatori; noi giudichiamo il suo valore con criteri nostri: ci basta leggerlo per sapere se è intelligente, imparziale, preciso e se possiede una solida cul tura generale, ed è in questo modo che Polibio, nel suo libro XII , giudica e condanna il suo predecessore Timeo; egli non discute sulle sue opere, salvo in un caso (la fondazione di Lo cri) dove Polibio, per un caso fortunato, ha avuto modo di trovarsi sulle tracce di Timeo. Un buono storico, dice Tuci dide, non accetta ciecamente tutte le tradizioni che gli ven gono riferite 4: deve essere capace di controllare l'informa zione, come dicono i nostri cronisti. Solamente, lo storico non metterà tutto questo lavoro sotto gli occhi dei suoi lettori. E tanto meno lo farà quanto piu sarà esigente per se stesso: Erodoto si diletta a riferire le differenti tradizioni contraddittorie che ha potuto racco gliere; Tucidide non lo fa quasi mai: riporta soltanto quello che pensa vero 5, si assume le sue responsabilità. Quando egli afferma categoricamente che gli Ateniesi si sbagliano sull' as sassinio dei Pisistratidi e ne dà la versione che ritiene piu esatta 6 ' si limita a fare delle affermazioni: non riporta nessun elemento di prova; non si vede d' altronde come avrebbe po tuto procurare ai suoi lettori il modo di controllare ciò che ha detto. Gli storici moderni propongono un'interpretazione dei fatti e forniscono al loro lettore i mezzi per controllare l'in formazione e per formulare un' altra interpretazione; gli sto rici antichi controllano essi stessi e non lasciano questa noia al loro lettore: questo è il loro dovere. Essi distinguevano molto bene, come si dice , la fonte primaria (testimonianza vi siva o, in mancanza, la tradizione) e le fonti di seconda mano, ma tenevano questi dettagli per loro, perché il loro lettore non era egli stesso uno storico, come i lettori del giornale non sono giornalisti. Questi e quelli credono alla professionalità. 17
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
Quando e perché il rapporto dello storico con i suoi let tori è cambiato? Quando e perché si è cominciato a fornire i propri riferimenti? Non sono un grande studioso di storia moderna, ma alcuni dettagli mi hanno colpito. Gassendi non dà riferimenti nel suo Syntagma philosophiae Epicureae; parafrasa o approfondisce Cicerone, Ermarco, Origene, senza che il lettore possa sapere se gli si sta presentando il pensiero di Epicuro stesso, o quello di Gassendi: cosi quest'ultimo non fa dell'erudizione, ma vuole far rinascere l'epicureismo nella sua verità eterna, e, insieme, la scuola epicurea. Nella sua Histoire des variations des Eglises prote stantes, Bossuet, in compenso, fornisce i suoi riferimenti, e Jurieu li fornirà anche nelle sue repliche; ma queste sono opere scritte per una controversia. La grande parola è pronunciata: l'abitudine di citare le fonti, l'annotazione erudita non è stata un'invenzione degli storici, ma deriva dalle controversie teologiche e dalla pra tica giuridica, dove si allegavano la Scrittura, le Pandette o gli atti di un processo; nella Summa contra Genti/es, San Tommaso non rimanda ai brani di Aristotele, poiché si as sume la responsabilità di reinterpretarli, e li considera la verità stessa, che è anonima; in compenso, cita le Scritture, che sono rivelazioni, e non verità dell'anonima ragione. In un ammirevole commento del Codex Theodosianus, nel 1695, Godefroy fornisce i propri riferimenti: questo storico del diritto, come diciamo, si considerava esso stesso un giu rista e non uno storico . In breve, l'annotazione erudita ha un'origine cavillosa e polemica: si è creata per se stessa delle prove prima di condividerle con gli altri membri della «comunità scientifica». La vera ragione è l'ascesa dell'uni versità con il suo monopolio sempre piu esclusivo sull'atti vità intellettuale. La causa è economica e sociale; non ci sono piu possidenti terrieri che vivono di passatempi, come Montaigne o Montesquieu, e non è piu neanche onorevole vivere alle spalle di un grande anziché lavorare . Ora, nell'università, uno storico non scrive .piu per dei semplici lettori, come fanno i giornalisti o gli «scrittori», ma per altri storici, suoi colleghi; e questo non era il caso degli storici dell'antichità. Anche questi hanno, di fronte al 18
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rigore scientifico, un atteggiamento in apparenza !assista che ci sorprende o ci colpisce . Arrivato all'ottavo dei dieci libri che costituiscono la sua grande opera, Pausania scrive: «all'inizio delle mie ricerche, non vedevo che stupida cre dulità nei nostri miti; ma, adesso che le mie ricerche arri vano all'Arcadia, sono diventato piu prudente. Nell'epoca arcaica, in effetti, coloro che chiamiamo i Saggi, si esprime vano per enigmi piuttosto che esplicitamente e suppongo che le leggende su Cronos contengano parte di questa sag gezza». Questa confessione forse tardiva ci insegna dunque, retrospettivamente, che Pausania non ha creduto a una sola parola delle innumerevoli ed incredibili leggende che ci ha imperturbabilmente raccontato nelle cento pagine prece denti. Riflettiamo su un'altra confessione non ··meno tar diva, quella di Erodoto alla fine del settimo dei suoi nove libri. Gli abitanti di Argo hanno tradito la causa greca nel 480 e si sono alleati con i Persiani, che pretendevano di avere il loro stesso mitico antenato, cioè Perseo? «Da parte mia», scrive Erodoto, «il mio dovere è di dire quello che mi è stato detto, ma non di credere a tutto, e ciò che sto di chiarando vale per tutto il resto della mia opera» 7• Se uno storico moderno desse in lettura alla comunità scientifica fatti o leggende alle quali esso stesso assoluta mente non crede, farebbe un attentato alla probità scienti fica. Gli storici antichi hanno, se non una diversa idea del l'onestà, comunque lettori diversi, che non sono dei profes sionisti e che costituiscono un pubblico eterogeneo come quello di un giornale; hanno anche un diritto, e un dovere, di riservatezza e dispongono di un margine di manovra. La verità stessa non si esprime attraverso le loro righe: spetta al lettore farsi l'idea di questa verità; ecco uno dei tanti particolari poco visibili che rivela come, malgrado le grandi rassomiglianze, il genere storico degli antichi sia molto dif ferente da quello dei moderni. Il pubblico degli storici anti chi è composito; alcuni lettori cercano una distrazione, altri leggono la storia con occhio critico, altri ancora sono dei professionisti della politica e della strategia. Ogni storico fa la sua scelta: scrivere per tutti, tenendo conto delle diverse categorie di lettori, o specializzarsi, come Tucidide o Poli19
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bio, nell'informazione tecnicamente sicura che fornirà dati sempre piu utllizzablli da parte dei politici e dei militari. Ma la scelta era obbligata; in piu, l'eterogeneità del pubblico la sciava. allo storico qualche margine: poteva presentare la ve rità sotto tinte piu forti o piu dolci, a suo piacimento, senza tuttavia tradirla. Non bisogna neanche stupirsi o scandaliz zarsi delle lettere, molto commentate dai moderni, dove Ci cerone domanda a Lucceio «di gonfiare i meriti del suo con solato» piu di quanto forse lui stesso non l' avrebbe fatto e oeta, ha familiarità con il mondo degli dei e degli eroi, ed innalza, fino al suo mondo, il vincitore, questo meritevole plebeo, trattandolo da pari a pari e parlandogli di questo mondo mitico, che, grazie a lui che ve l'ha introdotto , sarà ormai il suo. Non c'è necessariamente uno stretto rapporto tra la personalità del vincitore e gli argomenti su cui il poeta lo intrattiene: per Pindaro non è un punto d 'onore il far si che il mito contenga sempre una sottile allusione al vincitore; l'impor tante per lui è trattare il vincitore come suo pari, intratte nendolo con familiarità su questo mondo mitico. Nel nostro secolo, l'inclinazione naturale è quella di spiegare in chiave sociologica le opere dell'ingegno; di fronte ad un'opera ci domandiamo: «Cosa era destinata ad apportare alla società?». Questo significa lavorare troppo in fretta. Non bisogna · ridurre il significato della letteratura, o la sua ermeneutica, ad una sociologia della letteratura. Nella Paideia, Werner Jaeger ci sembra aver esagerato tali istanze. Secondo lui, quando l'aristocrazia ellenica abban donò le sue ultime lotte, trovò in Pindaro il suo poeta e poté soddisfare, grazie a lui, un bisogno sociale; in effetti, questa classe aristocratica di guerrieri si vedeva, secondo Jaeger, innalzata, con i suoi valori, nel mondo del mito; gli eroi dunque sarebbero stati altrettanti esempi per questi guerrieri; Pindaro avrebbe fatto l'elogio degli eroi mitici 29
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per esaltare il coraggio del suo nobile pubblico: nei suoi versi, il mondo mitico sarebbe l'immagine sublime di tale aristocrazia. È vero? In Pindaro, si osserva facilmente come il ri corso al mito non serva assolutamente ad esaltare l' aristo crazia ma piuttosto ad innalzare la posizione del poeta ri spetto ai suoi interlocutori; come poeta si degna di innal zare fino a lui il vincitore del quale fa l'elogio: non è questo che s 'innalza da solo. Il mito per Pindaro non svolge una funzione sociale, non ha per contenuto un messaggio; esso gioca ciò che la semiotica ha recentemente chiamato un ruolo pragmatico: stabilisce una certa relazione tra gli ascol tatori e lo stesso poeta. La letteratura non si riduce ad un rapporto di causa o effetto con la società, e la lingua non si riduce nemmeno a un codice o all'informazione : essa com porta anche una illocuzione, cioè l'istituzione di diversi rapporti specifici con l'interlocutore; il promettere o l'ordi nare sono atteggiamenti che non possono essere ridotti al contenuto del messaggio; essi non si limitano a comunicare una promessa o un comando. La letteratura non sta tutta quanta nel suo contenuto; quando Pindaro intona l'elogio degli eroi, non lascia al suo pubblico un messaggio sui va lori e su loro stessi: egli stabilisce con loro un certo tipo di rapporto dove lui stesso, poeta al quale i miti sono aperti, occupa una posizione dominante. Pindaro parla dall' alto in basso e, proprio per questo, può tributare elogi, onorare un vincitore, innalzarlo fino a lui. Il mito instaura una illocu zione di elogio. Lungi dali' assimilare l'aristocrazia alle figure eroiche del mito, Pindaro, al contrario, divide decisamente il mondo mitico da quello dei mortali; non smette mai di ricordare al suo nobile pubblico che gli uomini valgono molto meno de gli dei e che si deve quindi essere modesti; volersi parago nare agli dei sarebbe una hybris. Rileggiamo la decima Pi tica; Pindaro dà al guerriero di cui tesse l'elogio l'eroe Per seo come modello? No. Parla di leggende esaltanti, di un popolo lontano ed irraggiungibile, delle imprese sovrumane di Perseo, che una dea aiutò . Piu che per i loro meriti, gli eroi vengono onorati per la benevolenza degli dei che li giu30
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dicarono degni del loro appoggio; cosi che questo do vrebbe incitare i mortali alla modestia, dato che anche gli eroi non poterono riuscire senza l'aiuto di qualche divinità. Pindaro esalta la gloria del suo vincitore esaltando quell'al tro mondo piu elevato, dove la gloria è essa stessa piu grande. Questo mondo superiore è un modello o una le zione di modestia? L'uno o l'altro, secondo l'uso che ne po trà fare un predicatore, e Pindaro, che non è un predica tore, ne fa un piedistallo; esalta la festa e il vincitore esal tando se stesso. Proprio perché il mondo mitico è tutt'altra cosa, inaccessibile, differente ed esaltante, il problema della sua autenticità restava in sospeso ed il pubblico di Pindaro oscillava tra Io stupore e la credulità. Non si portano ad esempio storie di fate e di magia: se Perseo fosse stato dato come modello, alla maniera di Baiardo, il cavaliere «senza macchia e senza paura», questo mondo eterogeneo risulte rebbe piuttosto pura finzione e solo i Don Chisciotte ci cre derebbero ancora. È dunque un problema che non possiamo evitare di porci: i greci credevano a queste fabulazioni? Piu concreta mente, facevano la distinzione tra ciò che essi ritenevano autentico, la storicità della guerra di Troia, o l'esistenza di Agamennone o di Zeus e ciò che ritenevano invenzioni pa lesi del poeta desideroso di divertire il suo pubblico? Ascol tavano con la stessa fiducia gli elenchi geografici del cata logo dei vascelli e il racconto galante, degno di Boccaccio, sugli amori di Afrodite e di Ares sorpresi in flagrante dal marito tradito? Se credevano realmente alla favola, sape vano almeno distinguere la favola dalla finzione? Bisogne rebbe piuttosto sapere con esattezza se la letteratura o la religione sono finzioni piu della storia o della fisica, e vice versa; diciamo che un'opera d'arte, a suo modo, è ritenuta vera anche là dove passa per finzione; poiché la verità è una parola omonima che dovrebbe essere usata solo al plu rale: esistono solo programmi eterogenei di verità e Fustel de Coulanges non è né piu né meno vero di Omero, seb bene lo sia in modo diverso; possiamo dire della verità ciò che diciamo dell'Essere secondo Aristotele: essa è omoni mica e analogica, dato che tutte le verità ci sembrano tra 31
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loro analoghe, come ci sembra che Racine abbia dipinto la verità dell'animo umano. Partiamo dal fatto che tutte le leggende, siano la guerra di Troia, i Sette contro Tebe o la spedizione degli Argo nauti, passavano per essere globalmente autentiche; un let tore dell'Iliade era dunque nella stessa posizione nella quale si trova oggi un lettore di storia romanzata. Quest'ultima si riconosce dal fatto che i suoi autori mettono in scena i fatti autentici che raccontano; se raccontano gli amori di Bona parte e di Giuseppina, li metteranno sotto forma di dialogo e faranno dire al dittatore corso e alla sua bella moglie creola discorsi che, alla lettera, non hanno alcuna autenti cità; i loro lettori lo sanno, non se ne curano e nemmeno ci pensano. Ciò non toglie che questi lettori non vedano in questi amori una finzione: Bonaparte è esistito e ha vera mente amato Giuseppina; questa globale fiducia è suffi ciente, e non trovano da ridire sul dettaglio che, come si di rebbe nei termini dell'esegesi neotestamentaria, è solo «re dazionale». I lettori di Omero credevano alla verità globale e non si sottraevano al piacere del racconto di Ares e Afrodite. Sta di fatto comunque che la biografia di Napoleone è, non soltanto vera, ma verosimile; in compenso, si dirà, il mondo dell'Iliade, la cui temporalità è quella dei racconti e in cui gli dei si confondono con gli uomini, è un mondo di finzione. Certamente una Madame Bovary credeva vera mente che Napoli fosse un mondo diverso dal suo, che la felicità vi regnasse intensamente ventiquattr'ore su venti quattro con la densità di un «in sé» sartriano; altri hanno creduto che nella Cina maoista gli uomini e le cose non avessero la stessa umile quotidianità che da noi; prende vano disgraziatamente questa fiabesca verità per un pro gramma di verità politica. Un mondo non può essere fitti zio di per sé, dipende solo dal fatto che ci si creda o meno; tra una cosa reale ed una finzione la differenza non è ogget tiva, non è nella cosa in se stessa, ma è dentro di noi, nella misura in cui soggettivamente vediamo o meno in essa una finzione: l'oggetto non è mai incredibile di per sé e la sua lontananza dalla realtà non potrebbe toccarci, dato che non 32
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ce ne accorgiamo quasi, essendo tutte le verità fondate sul l'analogia. Einstein è vero per noi nel contesto di un programma di verità, quello della fisica deduttiva e quantificata; ma se noi crediamo nell'Iliade essa non sarà meno vera, nel suo programma di verità mitica. E cosi Alice nel paese delle meraviglie. Poiché, anche se noi pensiamo che Alice o Ra cine siano finzioni, tuttavia vi crediamo mentre leggiamo o piangiamo nella nostra poltrona a teatro. Il mondo di Alice, nel suo programma di magia, ci sembra essere plausibile e vero come il nostro, altrettanto reale in rapporto a se stesso, per cosi dire; abbiamo cambiato piano di verità, ma restiamo sempre nel vero o nella sua analogia. Ciò av viene perché la letteratura realista è falsamente somigliante (essa non è la realtà) e possiede nello stesso tempo un fer vore inutile (il fiabesco sarebbe non meno reale) e la piu estrema sofisticazione (fabbricare realtà con la nostra realtà, che preziosità! ) . Lungi dal contrapporsi alla verità, la finzione ne è solamente un sottoprodotto: ci basta aprire l'Iliade per immergerci nella finzione, come si dice, e per diamo l'orientamento; la sola differenza è che dopo non vi crediamo piu. Vi sono società in cui, una volta chiuso il li bro, si crede ancora, ed altre in cui non si crede piu. Cambiamo piano di verità quando dalla nostra routine quotidiana passiamo a Racine, ma non ce ne rendiamo conto. Noi scriviamo una lettera di gelosia confusa ed in terminabile, che un'ora piu tardi precipitosamente smen tiamo con un telegramma, e passiamo poi a Racine o a Ca tullo dove un grido di gelosia, nella sua intensità, dura quattro versi, senza fare una piega: troviamo che questo grido è proprio vero! La letteratura è un tappeto magico che ci trasporta da una verità all' altra, ma come in uno stato di letargo : quando ci risvegliamo, arrivati alla nuova verità, crediamo ancora nella precedente ed ecco perché è impossibile far comprendere a degli ingenui che Racine o Catullo non hanno né disegnato il cuore umano né raccon tato la loro vita, e ancora meno Properzio. Pertanto questi ingenui, a modo loro, hanno ragione; sembra che tutte le verità ne costituiscano una sola; Madame Bovary è «un ca33
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polavoro per chi ha vissuto in provincia». È l' analogia dei sistemi di verità che ci consente di entrare nelle finzioni ro manzesche, di trovare «viventi» i loro eroi e di dare senso e interesse alle filosofie ed ai pensieri di un tempo. Ed a quelle di oggi. Le verità, quella dell'Iliade, e quella di Ein stein, sono figlie dell 'immaginazione e non della luce natu rale. Letteratura ante litteram, né vera, né fittizia, perché al di là del mondo empirico, ma di questo piu nobile; il mito ha un' altra particolarità: come dice il suo nome, è un rac conto, ma anonimo, che si può ascoltare e ripetere, ma di cui non si potrebbe essere l' autore. Quello che lo spirito ra zionalista, a cominciare da Tucidide, interpreterà come «tradizione» storica, come un ricordo che chi ha vissuto o assistito a quegli avvenimenti ha trasmesso ai suoi discen denti. Prima che venisse mascherato da storia in questo modo, il mito era un' altra cosa: consisteva non nel comuni care ciò che si era visto ma nel ripetere ciò che «si diceva» sugli dei e sugli eroi. Come si riconosceva formalmente un mito? Dal fatto che l'esegeta parlava di un mondo superiore facendo del suo discorso un discorso indiretto: «si dice che . . . », «La M usa canta che . . . », «un logos dice che . . . »; il locutore diretto non compare mai, dato che la stessa Musa non faceva che «ripetere», ricordare, questo discorso che era per lei il suo stesso padre 8• Quando si tratta di dei o di eroi, la sola fonte informativa è il «si dice», e questa fonte ha una misteriosa autorità . Non che non vi siano degli im postori : le Muse, Esiodo sanno dire il vero come sanno mentire 9, e i poeti che mentono si ricollegano ugualmente alle stesse Muse che hanno ispirato sia Omero che Esiodo . Il mito è un'informazione; esistono delle persone infor mate che la sanno lunga non per una rivelazione, ma sem plicemente per una conoscenza diffusa che hanno avuto la fortuna di captare: se sono dei poeti, saranno le Muse le loro informatrici accreditate, che faranno loro sapere ciò che si sa e si dice; il mito non è dunque una rivelazione dal l' alto o un arcano: la M usa non fa che ripetere loro ciò che si sa e che, come risorsa naturale, è a disposizione di coloro che vi potranno attingere. Il mito non è dunque una forma 34
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di pensiero specifico; non è altro che la conoscenza attra verso l'informazione riferita a campi del sapere che, per noi, sono soggetti di discussione, sperimentazione ecc . Come scrive Osvald Ducrot in Dire et ne pas dire, l'informazione è un'illocuzione che non può aver senso se il de&tinatario non riconosce innanzi tutto a colui che comunica competenza ed onestà; in tal modo l'informazione è posta subito fuori del l'alternativa del vero e del falso. Per osservare questo genere di conoscenza mentre sta operando, si può leggere una pa gina dove l'ammirevole padre Huc racconta come, un secolo e mezzo fa, convertiva i Tibetani: «abbiamo adottato una modalità d'insegnamento del tutto storica, avendo cura di bandire tutto ciò che poteva avere un sapore di disputa e di spirito di contesa; facevano loro molta piu impressione i nomi propri, e le date ben precise, dei piu logici ragiona menti. Quando conoscevano i nomi di Gesu, di Gerusa lemme, di Ponzio Pilato e le date di quattromila anni dalla creazione del mondo, non dubitavano piu del mistero della Redenzione e della predicazione del Vangelo; del resto, non abbiamo mai osservato che i misteri o i miracoli creassero loro la pur minima difficoltà. Siamo persuasi che attraverso l'informazione, e non attraverso il metodo della polemica, si possa efficacemente lavorare alla conversione degli infedeli». Pa.rallelamente, esisteva in Grecia un campo, quello del soprannaturale, dove c'era tutto da imparare dalla gente che era informata; questo campo era costituito da avvenimenti e non da verità astratte alle quali l' ascoltatore avrebbe potuto opporre la sua stessa ragione; i fatti erano precisi: i nomi de gli eroi e i loro patronimici non mancavano mai e l'indica zione del luogo della scena non era meno precisa (Pelio, Cite rone, Titarese . . . ; esiste nella mitologia greca tutta una «ar monia» nei nomi di luogo) . Questo stato di cose sarebbe po tuto durare piu di mille anni; non è cambiato perché i greci hanno scoperto la ragione o inventato la democrazia, ma per ché il campo del sapere è stato sconvolto dalla formazione di modi piu efficaci di dimostrazione (l'indagine storica, la fi sica speculativa), che facevano concorrenza al mito e, a diffe renza del mito, ponevano espressamente l' alternativa del vero e del falso. 35
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Ecco allora la mitologia che ogni storico critica, senza, al contrario, abbandonarsi al gusto del meraviglioso, e senza riconoscerne, peraltro, il carattere: la prenderà per storiografia; prenderà il mithos per semplice «tradizione» locale; parlerà della temporalità mitica come se essa fosse quella del tempo storico. Non è tutto . Lo storico era ugual mente alle prese con un secondo tipo di letteratura mitolo gica, in versi epici o in prosa: quella delle genealogie miti che, delle eziologie, dei racconti di fondazioni, delle storie o epopee locali; questa letteratura è fiorita nel sesto secolo e dura ancora, in Asia Minore, sotto gli Antonini e oltre 10• Opera di uomini di lettere, questa soddisfaceva piu il desi derio di conoscere le origini, che il gusto del meraviglioso. Riflettiamo, da noi, sulla leggenda delle origini troiane della monarchia franca, da Fredegario a Ronsard; poiché sono stati i troiani che hanno fondato i reami degni di que sto nome, sono dunque questi che hanno fondato anche quello dei franchi e, poiché il nome dei luoghi ha origine da quello degli uomini, il troiano in questione non poteva che chiamarsi Francione . Pausania, per le sue ricerche sulla Messenia, ha utiliz zato sia un poeta epico della tarda epoca ellenistica, Riano, sia lo storico Mirone di Priene 1 1 ; per l'Arcadia, ha seguito una «genealogia raccontata dagli Arqtdi», cioè una tradi zione raccolta probabilmente da un poeta del ciclo epico, Asio 1 2 ; il nostro autore conosce anche la dinastia dei re del l' Arcadia per numerose generazioni, da Pelasgo, contempo raneo di Cecrope, alla guerra di Troia; conosce i loro nomi, i loro patronimici, i nomi dei loro figli; ha ricostruito que sta genealogia sulla base del tempo storico e può anche sta bilire che Enotria, fondata da Enotro, figlio di Licaone, è sicuramente la piu antica colonia che i greci abbiano fon dato, e di gran lunga. Questa letteratura genealogica, dove Pausania ha visto una storiografia, in realtà raccontava degli aitia, delle ori gini, cioè ha tracciato le grandi linee dell'ordine delle cose; l'idea implicita (ancora presente nel libro V del poeta Lu crezio) è che il nostro mondo è finito, costituito, com pleto 1 3 (ho sentito un bambino dire, non senza stupore, 36
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guardando dei muratori lavorare: «Papà, non sono già state costruite tutte le case?») . Fondazione che per definizione si colloca prima dell'inizio della storia, nel tempo mitico degli eroi; il tutto si riduce al racconto delle origini di un uomo, un costume o una città. Una volta nata, la città non dovrà fare altro che vivere la sua esistenza storica, che non appar tiene alla conoscenza delle origini. L'eziologia, che un Polibio 14 troverà puerile, si accon tentava dunque di spiegare una cosa dalla sua origine: una città, dal suo fondatore; un rito, da un avvenimento che è servito da precedente, poiché lo si è ripetuto; un popolo, da un primo uomo, nato dalla terra o da un primo re. Tra que sto primo fatto e la nostra epoca, che inizia con. la guerra di Troia, si articola la successione delle generazioni mitiche; il mitografo ricostituisce o piuttosto trasforma in favola una genealogia regale senza lacune che si estende attraverso tutta l'era mitica e, quando l'ha inventata, prova la soddi sfazione di un sapere completo. Da dove tira fuori tutti i nomi propri che aggancia ad ogni stadio della sua genealo gia? Dalla sua immaginazione, alle volte dall' allegoria e, piu spesso, dai nomi dei luoghi: i fiumi, le montagne e le città di un paese provengono dai nomi dei primi individui che l'hanno abitata e che talvolta si pensa possano essere stati i re del paese o semplicemente i suoi abitanti; la traccia umana senza età che costituisce i toponimi ha per origine l' onomastica umana dei tempi mitici. Quando il nome di un fiume deriva dal nome di un uomo siamo portati a risalire alla originaria presenza umana dopo la quale la regione è di ventata un territorio abitato 1 � . Ma in base a quale avvenimento il nome di quel tal re di allora è scomparso o è stato dato a questo fiume? Ecco qualcosa che il genealogista nemmeno si chiede: gli basta l'analogia delle parole ed il tipo di spiegazione che preferi sce è archetipo; sarebbe come domandarsi che rapporto concreto vi sia tra Fauno e i fauni, tra Elleno e gli Ell�ni, tra Pelasgo ed i Pelasgi, tra l'Elefante e gli elefanti, come in questa parodia di eziologia: «una volta gli elefanti non ave vano la proboscide, ma un dio tirò il naso dell'Elefante per punirlo di qualche inganno e, da quel giorno, tutti gli ele37
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fanti hanno una proboscide». Pausania non capisce più que sta logica archetipica e prende l'archetipo, che, come Adamo, era il solo ad esistere, come il primo re del paese: «gli Arcadi» dice 1 6 , «dicono che Pelasgo fu il primo abitante del loro paese, ma, secondo la logica, sarebbe piu plausibile pensare che non fosse solo ma avesse altri uomini con sé; al trimenti, su chi avrebbe regnato questo re? Erano la sua sta tura, la sua forza, la sua bellezza che lo distinguevano ed an che la sua intelligenza, ed è per questo, immagino, che fu scelto per regnare su di loro. Da parte sua il poeta Asio ha composto su di lui i versi che seguono: "Pelasgo, eguale agli dei fu creato con la terra nera dei monti boschivi, affinché nascesse la razza degli Umani"». Queste poche righe sono una specie di collage; la vecchia verità mitica si fonde con il genere di razionalismo proprio di Pausania, mentre questi sembra essere poco sensibile alla differenza di questi mate riali. Note
1 M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2 , vol. l, pp. 14 e 3 7 1 ; A . D . Nock, Essay on Re/igjon and the Ancient Wor/d, Oxford, Clarendon Press, 1972, .vol. l, p. 26 1 ; non sono neanche sicuro che bisognasse mettere da parte i miti eziologici: pochissimi miti greci spiegano i riti e quelli che lo fanno non sono tanto l'invenzione di sacerdoti che vogliono fondare un mito, quanto il risultato dell'immaginazione di ingegnose menti locali che hanno inven tato una spiegazione romanzesca a questa particolarità culturale che incuriosiva i viaggiatori; il mito spiega il rito, ma questo rito è solo una curiosità locale. La tri partizione stoica di V arrone, che .distingueva gli dei della città, ai quali gli uomini tributavano un culto, gli dei dei poeti, cioè quelli della mitologia, e quelli dei filo sofi, resta fondamentale (P. Boyancé, Etudes sur la re/igjon romaine, Rome, Ecole Française de Rome, 1972, p. 254). Sui rapporti tra il mito, la sovranità e la genea logia dell'epoca arcaica, il problema è stato rinnovato da J.P. Vernant, Les Origj nes da la pensée grecque, Paris, PUF, 1962, e Mythe et pensée chez le grecs, Paris, Maspero, 1 965 ; e da M . l . Finley, Myth, Memory and History, in «History and Theory», IV ( 1 965), pp. 28 1 -302; noi parliamo molto superficialmente di questo pensiero mitico, essendo il nostro argomento la sua trasformazione fino all'epoca ellenistica-romana, ma siamo d'accordo con la dottrina della storicità della ra gione di J.P. Vernant, Re/igions, Histoires, Raisons, Paris, Payot, 1979, p. 97. 2 Un esempio tra mille ma molto gustoso: Pausania, VIII, 23; sugli eruditi lo cali, W. Kroll, Studien zum Verstiindnis des romischen Literatur, S tuttgart, Metzler, 1 924, p. 308. ) A. van Gennep, Religjons, moeurs et légende, Paris, 19 1 1 , vol. III, p. 150; E. Male, L 'art religieux du XIII siècle en France, Paris, Colin, 1948, p. 269; L 'Art reli gjeux de la fin du XVI siècle, Paris, Armand Colin, 1 95 1 , p. 1 32 . 38
Pluralità e analogia dei mondi di verità 4 Cfr. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, Paris, Seuil, 1976, p. 589 (trad. it. Il pane e il circo, Bologna, Il Mulino, 1 984) . 5 Sant'Agostino non crede alla storicità di Enea, ma essendo il mito riportato alla verosimiglianza, Enea non è piu figlio di Venere come Romolo non è figlio di Marte, Città di Dio, I, 4 e III, 2-6. Noi vedremo che Cicerone, Tito Livio e Dio nigi d'Alicarnasso non credevano tuttavia alla nascita divina di Romolo. 6 La molteplicità dei modi di credere è un fatto troppo banale perché sia utile insistere; cfr. J. Piaget, La formation du symbole che: l'enfant, Paris, Delachaux e Niestlé, 1939, p. 1 7 7 ; trad. it. La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1979 2 . Alfred Schutz, Colkcted Papers, La Haye, Nijhoff, coli. «Phaenomenologica», 1960- 1966, vol. I, p. 232: On multiple rea/ities; vol . 2, p. 1 3 5 : Don Quixote and the probkm of reality (trad. it. Scritti sociologici, Torino, U.T.E.T., 1 9 8 1 ) ; Pierre Janet, De l'angoisse à l'extase, Paris, Alcan, 1926, vol. I , p. 2 4 4 . N o n è meno banale che si creda a verità diverse sull o stesso argomento; i bambini sanno contemporaneamente che i giochi sono portati da Babbo Natale e regalati dai loro genitori. J. Piaget, Le ]ugement et le Raisonnement che: l'enfant ( 1924), Paris, Delachaux et Niestlé, 1945, p. 2 1 7 , trad. it. Giudizio e ragiona mento nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1 966 . M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Miinchen, Beck, 1955 2 , vol. I, p. 50: «un bambino di tre dici anni che faceva il bagno in un ruscello dalle mille piccole onde diceva: "il ru scello arriccia le sopracciglia" ; se quell'espressione fosse presa alla lettera, sa rebbe un mito; ma il bambino non sapeva nemmeno che, allo stesso tempo, il ru scello era acqua, che ci si poteva bere, ecc. Allo stesso modo, un primitivo può vedere ovunque nella natura gli spiriti, può vedere in un albero forze sensibili e operose, che deve placare o onorare; ma un'altra volta nondimeno taglierà questo albero per farne materiali da costruzione e combustibile». Cfr. anche Max We ber, Wirtschaft und Gesellschaft ( 1 922), Tiibingen, Mohr, 1 976, vol. I, p. 245 ; trad. it. Economia e società, Milano, Comunità, 1 968 2 . Wolfgang Leonard, Die Revo/ution ent/lisst ihre Kinder, Frankfurt, Ullstein, 195 5 , p. 58 (l'autore ha di ciannove anni ed è un komsomol al momento della Grande Purga del 1937): «Mia madre era stata arrestata, io avevo assistito all'arresto dei miei professori e di sei miei amici e, beninteso, avevo notato da molto tempo che la realtà sovie tica non assomigliava per niente al modo in cui era rappresentata sulla "Pravda " . Ma in un certo modo separavo queste cose, cosi come l e mie manifestazioni e le mie esperienze personali, dalle mie convinzioni politiche di principio. Era un po' come se ci fossero stati due piani: quello degli avvenimenti quotidiani o delle mie proprie esperienze (sul quale non era raro che io dessi prova di spirito critico) e un altro piano, quello della Linea Generale del Partito che continuavo, malgrado un certo disagio, a ritenere giusta, "almeno fondamentalmente" . Credo che molti komsomol conoscano una simile frattura». Non sembra affatto che si sia preso il mito per storia, che si sia abolita la differenza tra leggenda e storia, malgrado E. Kohler, Idea/ und Wirklichkeit in der hofische Epik, Tiibingen, Max Niemeyer, 1970; diciamo piuttosto che possono crederci tanto quanto alla storia, ma non al posto della storia né alle stesse condizioni della storia; i bambini non pretendono piu dai loro genitori i doni della !evirazione, dell'ubiquità e della invisibilità che attribuiscono a Babbo Natale. Bambini, primitivi e credenti di ogni genere non sono degli ingenui. «Anche i primitivi non confonddno un riferimento immagina rio con un riferimento reale», E . E . Evans Pritchard, Theories of Primitive Re ligion, Oxford, Oxford University Press, 1 967; il simbolismo degli Huichol am mette identità tra il grano e il cervo; M. Levy-Bruhl non vuole che si parli qui del simbolismo, ma piuttosto di pensiero prelogico. Ma la logica degli Huichol sarebbe prelogica «solo il giorno in cui preparasse un bollito di grano credendo di fare ragli di cervo» (Olivier Leroy, La Raison Primitive, Paris, Geuthner, 192 7 , p.
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Pluralità e analogia dei mondi di verità 70) . «l Sedang Moi d'Indocina, che hanno istituito dei modi di permettere al l'uomo di rinunciare al suo stato di essere umano, e di diventare cinghiale, reagi scono non meno differentemente, secondo che abbiano a che fare con un cin ghiale vero o un cinghiale nominale» (G . Deveureux, Ethnopsychanalyse Complé mentariste, Paris, Flammarion, 1972, p. 1 0 1). «A dispetto delle tradizioni verbali, raramente si prende un mito nello stesso senso di come si prende una verità em pirica; tutte le dottrine che sono nate nel mondo riguardo all'immortalità dell'a nima hanno a mala pena intaccato il sentimento naturale dell'uomo di fronte alla morte» (G. Santayana, The Li/e of Reason, III. Reason in Religion, New York, 1905, p. 52). Sono dunque molteplici i modi di credere o, per meglio dire, i re gimi di verità di uno stesso oggetto. 7 Hermann Friinkel, Wege und Formen friihgriechisches Denkens, Miinchen, Beck, 1960 2 , p. 366. Pindaro, parlandogli del bel mondo degli eroi, onora piu il vincitore di quanto non lo farebbe se pronunciasse il suo elogio; essere ricevuti dai Guermantes è piu lusinghiero che ricevere dei complimenti; anche, dice Friinkel, «l'immagine del vincitore resta spesso piu evanescente di quella degli eroi». Bisogna dire perciò, con lo stesso Friinkel (Dichtung und Phi/osophie des friihen Griechentums, Miinchen, Beck, 1 962, p. 557), che questo mondo eroico e divino sia un «mondo di valori»? Ma non si vede assolutamente come dei ed eroi possano essere dei santi; essi onorano i valori come lo fanno gli stessi illustri mor tali, né piu né meno. Qui ancora non disconosciamo lo «snobismo» mitologico: il mondo degli eroi ha valore, è piu grande di quello dei mortali. Come, per Proust, una duchessa è al di sopra di una borghese, ma non perché essa coltivi tutti i va lori e tutte le virtu: soltanto perché è duchessa. Certo, come duchessa e �rché duchessa, avrà una distinzione morale e la coltiverà, ma per forza di cose. E per essenza e non per i suoi meriti, che il mondo ha piu valore di quello dei mortali. Se si pensasse che la parola snobismo, detta anche cum grano sa/is, è troppo forte per Pindaro e per i vincitori, si rilegga un divertente passo delle Leggi di Platone, 205CD, che meriterebbe di essere messo in epigrafe in tutte le edizioni di Pin daro. l , 8: Musa, mihi causas memora, per questa 8 È ancora cosi nell' Eneide espressione ellenistica, Virgilio domanda alla Musa di «ripetergli» e garantire ciò che «si dice» a proposito di �nea, e non di «ricordargli» qualche cosa che avrebbe dimenticato o ignorerebbe. E per questo, si potrebbe credere, che le Muse sono figlie di Mnemosine, la memoria. Contra Nilsson, Geschichte der griechischen Re/i gian, cit . , vol. I, p. 254. ,
9 W. Kroll, Studien zum Verstiindnis, cit . , pp. 49-58 . I versi 27 e 28 della Teo gonia non sono semplici; le Muse ispirano menzogne ma anche verità. I posteri capiranno che spesso i poeti sostituiscono, confondendole, verità alle menzogne o menzogne alle verità. Cfr. Strabone, l , 2, 9, C. 20, su Omero. Altri vedranno l'opposizione tra l'epoca, che mente, e la poesia didattica, che dice il vero. Senza dubbio sarebbe meglio sapere che, senza spacciarsi per poeta «didattico», Esiodo oppone la propria versione delle genealogie divine ed umane alla versione di Omero, che egli considera suo predecessore e rivale. IO Su questa storiografia cfr. per esempio ]. Forsdyke, Greece be/ore Homer: Crono/ogy and Mythology, New York, Norton, 1967; M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit. , vol. II, pp. 5 1 -54. 1 1 Pausania, IV, 6, l , per Mirone: per Riano, IV, 1 -24 passim. Su questo Riano, A. Lesky, Geschichte des griechischen Litth'atur, Bern e Miinchen, Francke, 1 963, p. 788; non ho detto di J. Kroymann, Pausanias und Rhianos, Berlin, 1943, né di F. Kiechle, Messenische Studien, Kallmiinz, 1959. Sulle fonti dell'archeologia arcadiana di Pausania, W. Nestle, Vom Mythos zum Logos, Stutt-
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Pluralità e analogia dei mondi di verità gart, Metzler, 1940, p. 1 4 5 . Sulle nozioni d'inizio, istituzione (Katastasis) e «ar cheologie», cfr. E. Norden, Agnostos Theos, Darmstadt, Wiss. Buchg. , 1965 , p. 372 . 12 Pausania, VIII, 6, l. Ma tutto l'inizio dell'ottavo libro sarebbe da citare. Per la fondazione di Enotria, cfr. VIII, 3, 5 . 1 3 Qualunque cosa s i dica, l e concezioni piu diffuse nel tempo non sono, né quelle del tempo ciclico, né quelle del tempo lineare, ma quelle del declino (Lu crezio la considera una prova) : tutto è fatto o inventato, il mondo è adulto e non ha dunque piu che da invecchiare, cfr. P. Veyne, Comment on écrit l'histoire, Pa ris, Seui!, 1979 2 , p. 57 (trad. it. Come si scrive la storia, Bari, Laterza, 1973). Questa concezione è la chiave implicita di una frase difficile di Platone, Leggi, 677C, secondo cui non ci sarebbe piu posto per le invenzioni (che non sono che reinvenzioni), se la maggior parte dell'umanità non fosse periodicamente di strutta con tutta la sua esperienza culturale. 1 4 Polibio, X, 2 1 (sulle fondazioni delle città) ; XII, 260 (vanteria di Ti � eo sulle fondazioni e le parentele tra le città) ; XXXVIII, 6 (racconti storici che si li mitano a raccontare le origini e non dicono niente del seguito della storia) . Il pensiero popolare opponeva il passato delle «fondazioni» e il monotono presente; il primo era incantevole: quando lppia andava a fare conferenze a Sparta, parlava di «genealogie eroiche, o umane, di fondazione di città all'epoca primitiva, piu generalmente di ciò che si riferiva all'epoca antica» (Platone, Ippia maggiore, 285E). Questa visione del mondo comprende tre elementi: «la fondazione della città, l'invenzione delle arti e la stesura delle leggi» (Flavio Giuseppe, Contro Apione, l, 2, 7). Erodoto percorre il mondo, descrive ogni popolo, come si de scriverebbe una casa, e passa al sottosuolo: ecco l'origine di questo popolo. 15 Di tutti questi fatti, si troveranno esempi in tutte le pagine di Pausania e particolarmente nei primi capitoli dei suoi diversi libri. La spiegazione di un to ponimo attraverso un antroponimo permette di risalire alle origini umane, tanto che si preferisce spiegare una montagna chiamata Nomia con il nome di una ninfa piuttosto che con la parola che vuoi dire «pascoli», che sarebbe piu eviden temente la migliore spiegazione, come insinua Pausania stesso (VIII, 38, 1 1 ); Pausania vorrebbe anche spiegare il nome di Egiale con la parola aigialos, n vedo che in teresse avrebbero i geografi e le agenzie di viaggio ad im brogliarmi 2• Questa situazione può durare finché chi crede dà fiducia a dei professionisti o fino al momento in cui non esistessero più professionisti capaci di dettare legge sull' ar gomento: gli occidentali, o almeno quelli tra loro che non sono batteriologi, credono nei microbi e moltiplicano le precauzioni asettiche per la stessa ragione per cui gli Zande credono agli stregoni e moltiplicano le precauzioni magiche contro di loro : essi ci credono ad occhi chiusi. Per i con temporanei di Pindaro o di Omero, la verità si definiva sia a partire dall'esperienza quotidiana, sia a partire da chi rac contava, leale o mistificatore che fosse; le affermazioni che rimanevano estranee all'esperienza non erano né vere né false; non erano neanche menzognere, poiché non c'è men zogna quando il mentitore non ha niente da guadagnarci e non fa torto a nessuno: la menzogna disinteressata non è un inganno . Il mito era un tertium quid, né vero né falso. Lo stesso potremmo dire di Einstein se la verità non prove nisse da una terza fonte, quella dell' autorità dei professio nisti. In quel tempo lontano, questa autorità non era nata e non esisteva teologia, fisica o storia. L'universo intellet tuale era esclusivamente letterario; i veri miti e le inven zioni dei poeti si alternavano all'orecchio del pubblico, che ascoltava docilmente l'uomo che sapeva, non aveva nessun interesse nel separare la verità dalla menzogna e non era in dignato di fronte a finzioni che non contrastavano con l' au torità di nessuna scienza. Gli uomini ascoltavano nello 44
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stesso modo i miti veri e le invenzioni; Esiodo sarà obbli gato a creare uno scandalo ed a proclamare che spesso i poeti mentono, per far uscire i suoi contemporanei da que sto letargo; poiché Esiodo, per suo interesse personale, vorrà costituire un quadro di verità dove non si possa piu raccontare qualsiasi cosa sugli dei. La credenza fondata sull'altrui fede, con la sua man canza di simmetria, poteva servire in effetti come supporto ad iniziative individuali che opponevano la loro verità al l'errore generale o all'ignoranza. Questo vale per la teogo nia speculativa di Esiodo, che non è una rivelazione data dagli dei: Esiodo ha appreso dalle Muse, cioè dalla sua pro pria riflessione. Riflettendo su tutto ciò che si diceva sugli dei e sul mondo, ha capito molte cose e può disporre di un vero e completo repertorio delle gene alogie : prima ci fu rono Caos e Gea, la terra, come anche Eros, l'amore; Caos generò la Notte, Gea creò Urano, il cielo, e Oceano; que st'ultimo ebbe quaranta figli di cui Esiodo dice i nomi: Pei tho, Admeto, lante, la bella Polidora ecc. Molte di queste genealogie sono delle allegorie e si ha l'impressione che Esiodo prenda i suoi dei-concetti piu seriamente di quelli dell' Olimpo. Ma come fa lui ad avere una conoscenza tanto precisa e con tanti nomi? Come accade che tutte le vecchie cosmogonie sono veri romanzi? Dipende dall' asimmetria che caratterizza la conoscenza basata sulla fede di altri; Esiodo sa che gli si crederà sulla parola e tratta se stesso come lo si tratterà: egli è il primo a credere a tutto quello che gli passa per la testa. Riguardo ai grandi problemi, dice il Pedone, quando non si è riusciti a trovare da soli la verità, e non si è nem meno ricevuta la rivelazione da qualche dio, non resta che adottare quanto si dice di meglio o imparare da uno che sa 3• Il «si dice» del mito, allora, cambia di significato; il mito non è piu un'informazione che vola per aria, una ri sorsa naturale, e coloro che riescono a captarla non si di stinguono solamente per maggiore fortuna o abilità: è un privilegio delle grandi menti, il cui insegnamento si ripete. «Dicono che, quando si muore, si diventa come stelle in cielo», dichiara un eroe di Aristofane che ha sentito parlare 45
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del grande e profondo sapere detenuto da alcune sette del l'epoca 4 . Accanto alle speculazioni piu o meno esoteriche, la ve rità basata sulla fiducia era caratterizzata da un altro genere di eroi: il solutore di enigmi; questa fu la nascita della fisica o della metafisica, cioè niente di meno che i supposti inizi del pensiero occidentale. Creare una «fisica», una scienza della natura consisteva nel trovare la chiave dell'enigma del mondo 5, poiché vi era l'enigma ma, una volta risolto que sto, tutti i segreti si rivelavano improvvisamente o, per me glio dire, svaniva il mistero e ci si aprivano gli occhi. Ecco come, per esempio, la tradizione greca dipingerà gli inizi della filosofia. Talete, per primo, troverà la chiave della spiegazione di ogni cosa: «tutto è acqua». Credeva nell'unità del mondo, era sulla strada che doveva portare al monismo, ai problemi dell' Essere e dell'unità della natura? In effetti la sua ipotesi, se vogliamo credere alla tradizione, non era metafisica, né ontologica, ma piuttosto allegorica e . . . chimica: le cose sono composte di acqua come per noi il sale marino è composto di cloro e di sodio, e, dato che tutto è acqua, tutto passa, scorre, cambia e fugge. Strana chimica: come pretende di ricomporre la diversità dei com ponenti partendo da un unico elemento semplice? Non pre tende nulla di ciò; non vuole essere una spiegazione, ma una chiave di lettura del mondo, e una chiave di lettura deve essere semplice. Monismo? Neppure: non è per moni smo che noi parliamo al singolare del «motto» di un e�ma. Ora una chiave non è una spiegazione. Mentre una spiegazione dimostra un fenomeno, una chiave fa dimenti care l'enigma, lo cancella, lo sostituisce nello stesso modo in cui la frase chiara fa scomparire la precedente formula zione confusa e poco comprensibile. Talete, cosi come lo presenterà la tradizione filosofica greca, non cerca di spie gare il mondo nella sua diversità: egli ne dà il vero signifi cato che è «acqua» e che si sostituisce ad una confusione enigmatica, subito dimenticata. Si dimentica infatti il testo di un indovinello, esso serve solo a condurre alla soluzione. La spiegazione si cerca e si dimostra; la chiave di un enigma si trova e, una volta trovata, agisce istantanea46
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mente : non c'è nessun bisogno di discutere: i veli cadono e gli occhi si aprono, basta pronunciare la formula magica. Ciascuno dei primi fisici dell'antica Grecia credeva che tutto si fosse rivelato a lui solo, tutto in una volta; due secoli piu tardi, la fisica di Epicuro sarà ancora un romanzo di questo genere . Quel che può darcene un'idea è l'opera di Freud; è sorprendente che la sua stranezza ci stupisca cosi poco: questi opuscoli penetrano nella profondità della psi che, senza l' omb,ra di una prova, senza una dimostrazione, senza alcun esempio, neanche a scopo di chiarezza, senza la minima spiegazione clinica, senza che si possa comprendere donde Freud abbia ricavato tutto questo e come lo sappia; dall'osservazione dei suoi pazienti? O piu probabilmente da se stesso? Non ci si stupirà che quell'opera cosi arcaica sia stata seguita da una forma di sapere altrettanto arcaica: il commento. Cos'altro si può fare se non commentare quando è stata trovata la soluzione dell'enigma? Per di piu, solo un genio, un ispirato, quasi un dio, può indovinare la risposta di un simile enigma: Epicuro è un dio, si, proprio un dio, proclama il suo discepolo Lucrezio. Colui che ha decifrato l'enigma è creduto sulla parola e non esigerà da se stesso piu di quanto i suoi ammiratori esigano da lui; i suoi discepoli non sviluppano la sua opera: se la trasmettono senza aggiun gervi nulla; si limitano a difenderla, ad ill u strarla, ad appli carla. Abbiamo dunque parlato di discepoli e di maestri. E precisamente, per ritornare al mito stesso, l'incredulità ha cominciato ad essere tenuta in considerazione per alm•o due motivi: un guizzo di indocilità di fronte alla parola di al tri e la costituzione di centri professionali di verità. Nei confronti delle leggende, l'aristocrazia greca oscil lava tra due atteggiamenti, come avverrà ancora nel caso dell' aristocrazia nel diciottesimo secolo: favorire la credulità popolare a proprio vantaggio, poiché il popolo crede con la stessa docilità con cui obbedisce, oppure respingere, da parte sua, una sottomissione umiliante, sentita come espres sione di ingenuità; essere illuminati è il primo dei privilegi. Nel primo caso, gli aristocratici traggono vantaggio, tra l'altro, dal potersi richiamare alle genealogie mitiche; il Li47
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side di Platone aveva come antenato un figlio naturale di Zeus che aveva ricevuto in casa il fratellastro Eracle, altro figlio illegittimo del dio 6 • Altri membri del bel mondo, al contrario, preferivano essere colti e pensare in modo di verso dalla massa. Senofane non vuole che "durante i ban chetti i commensali si abbandonino a dispute e dicano sciocchezze e proibisce di conseguenza di parlare «di Ti tani, di Giganti, di Centauri, tutte invenzioni degli Anti chi» 7• La lezione fu appresa; alla fine dd Calabroni di Ari stofane, un figlio che cerca di inculcare un po' di educa zione a suo padre, le cui idee sono plebee, gli insegna che a tavola non è conveniente raccontare miti: bisogna parlare di cose che riguardano gli uomini 8; è questa, conclude, la conversazione delle persone per bene . Non credere a tutto era una qualità greca per eccellenza; «non è da oggi - dice Erodoto - che la Grecità si è distinta dalle popolazioni barbare nell'essere piu attenta e piu libera da una stupida credulità». La mancanza di sottomissione alla parola di altri è un tratto di carattere piu che una questione d'interesse di classe, e si avrebbe torto nel vederne un privilegio dell' ari stocrazia; non si avrebbe meno torto nel supporre che que sta sia caratteristica di certe epoche che si alternano con epoche di fede. Che si rifletta sulle pagine degli Etudes de sociologie religieuse in cui Gabriel Le Bras 9 analizza i rap porti che facevano i vescovi dell'Ancien Régime dopo aver ispezionato le loro diocesi: ogni vill aggio aveva i suoi mi s.denti, che, non osando sottrarsi all'obbligo della dome nica, restavano in fondo alla chiesa durante la Messa op pure restavano sul sagrato. Ogni società ha avuto i suoi in dolenti di fronte alle pratiche di fede, piu o meno numerosi e sfacciati a seconda che l'autorità fosse piu o meno indul gente. La Grecia ha avuto i suoi, come dimostra un verso eccellente dei Cavalieri di Aristofane; uno schiavo che ha perso la speranza di vivere dice al suo compagno di sven tura: «non ci resta che gettarci ai piedi delle immagini degli dei», e il suo compagno gli risponde: «veramente! Dimmi, credi veramente che esistano gli dei?» 1 0 • Io non sono sicuro che fosse stato il sapere dei sofisti ad aprire gli occhi a que48
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sto schiavo: egli appartiene alla schiera irriducibile degli in creduli, il cui rifiuto è dovuto meno a ragionamenti e cor renti di pensiero che non ad una reazione contro una sottile forma di autorità, quella stessa che Polibio attribuiva al se nato romano e che praticheranno tutti coloro che assoce ranno i loro troni all' altare n. Non che la religione abbia necessariamente un'influenza conservatrice: un certo modo di credere rappresenta una forma di obbedienza simbolica; credere è obbedire. Il ruolo politico della religione non è as solutamente un fatto di contenuto ideologico. Una seconda ragione per non credere piu a tutto quello che veniva tramandato fu che in materia di informazione il mito subl la concorrenza di alcuni esperti del vero, i «ri cercatori», o storici, che, come professionisti, nutrivano la speranza e l'ambizione di «fare testo». Ora, ai loro occhi, era necessario che i miti fossero coerenti con il resto della realtà, dal momento che essi li davano per veri. Facendo una ricerca in Egitto, Erodoto scopre là il culto di Eracle 1 2 (un dio infatti è dovunque un dio, nello stesso modo in cui una quercia è dovunque una quercia, ma ogni popolo gli dà un nome differente, anche se i nomi divini si traducono da una lingua all'altra esattamente come i nomi comuni) ; poi ché l'epoca che gli egiziani assegnavano a questo Eracle non coincideva assolutamente con la cronologia leggendaria dei greci, Erodoto cercò di risolvere la difficoltà informan dosi sull'epoca che i fenici attribuivano al loro Eracle e la sua confusione non fece che aumentare; tutto ciò che poté concludere su questo argomento fu che tutti gli uomini erano d' accordo nel vedere in Eracle un dio molto antico e che si poteva superare la difficoltà distinguendo due Eracli. Non è tutto; «i greci dicono molte altre cose inconsulte; non piu credibile è un mito che raccontano su Eracle, se condo il quale, quando costui arrivò in Egitto», gli abitanti di questo paese avrebbero deciso d'immolarlo a Zeus, ma Eracle non lo avrebbe permesso e li avrebbe uccisi tutti; impossibile, protesta Erodoto: gli egiziani non sacrificano degli esseri viventi, come sanno coloro che conoscono le loro leggi; e poi Eracle era ancora solo un uomo, a quel che si dice (egli diventa dio infatti solo alla sua morte) : ora «sa49
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rebbe possibile che un uomo da solo riuscisse ad ucciderne una quantità enorme?». Si vede quanto Erodoto è lontano dalla conoscenza basata sulla fede di altri. Questo fornisce alcune informazioni: qual è la città capitale di questo re gno? Quali sono i vincoli di parentela di Tizio? A quale epoca risale Eracle? Coloro che vi informano sono dunque informati e, in questo campo, la verità si oppone meno al l'errore di quanto l'informazione non si opponga all' igno ranza. Soltanto, un ricercatore di professione non ha la stessa acquiescenza degli altri uomini nei confronti dell'in formazione: egli appura e verifica l' informazione . La distri buzione sociale del sapere ne è trasformata: ormai gli altri uomini dovranno riferirsi di preferenza a questo professio nista se non vorranno essere considerati persone ignoranti. E come il ricercatore o l'informatore impongono alla realtà l'obbligo della coerenza, il tempo mitico non può piu re stare unitamente eterogeneo alla nostra temporalità: non è piu altro che passato. La critica del mito ha avuto origine dai metodi di ri cerca e non ha niente a che vedere con la scuola dei Sofisti, che si indirizzavano piu verso una critica della religione e della società, né con le cosmologie della Fisica. Qual è la spiegazione di una simile trasformazione? Non ne so nulla, e non sono ansioso di saperlo. Da tempo la storia è stata definita un racconto esplicativo, una narra zione con delle cause; il dare spiegazioni era considerato la parte sublime del mestiere dello storico . Si pensava infatti che la spiegazione consistesse nel trovare, come causa, una ragione, cioè uno schema (l'ascesa della borghesia, i fattori della produzione, la rivolta delle masse} che mettesse in gioco grandi idee avvincenti. Ma supponiamo che la spiega zione si riduca al considerare un insieme di cause irrilevanti che cambiano da un contesto all' altro senza riempire gli spazi specifici che uno schema avrebbe loro precedente mente assegnato: in tal caso la spiegazione diventa occasio nale e aneddotica e non sarà altro che un insieme di ele menti casuali e perderà quasi ogni interesse. In compenso si presenta un altro compito non meno in teressante : chiarire i contorni imprevedibili di questo in50
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sieme di elementi che non ha piu la forma convenzionale, l'ampio drappeggio che fa della storia una nobile tragedia. Restituire agli avvenimenti il loro profilo originale che si nasconde sotto vesti fittizie. La vera forma infatti, distorta in tal modo, non è piu assolutamente visibile: i presupposti «vanno da sé», passano inosservati, e, al loro posto, com paiono genericità convenzionali. Non si scorge ricerca né polemica: la coscienza storica appare attraverso i secoli ed i loro progressi; la critica greca del mito diventa un episodio del progresso della Ragione e la democrazia greca sarebbe Democrazia eterna, non tara dello schiavismo. Se dunque la storia si propone di strappare questi drap peggi e di chiarire ciò che si determina autonomamente, essa smette di essere esplicativa; diventa ermeneutica. Non domandiamoci, dunque, quali cause sociali sono all'origine della critica del mito; ad una specie di storia sacra dei Lumi o della Società, dobbiamo preferire e sostituire una conti nua ridistribuzione casuale di piccole cause sempre diverse, che generano effetti non meno casuali ma che sono conside rate grandi e rivelatrici del destino dell'uomo. Schema per schema, quello di Pierre Bourdieu, che considera la specifi cità e l' autonomia di un campo simbolico diviso tra centri di forza, ci sembra preferibile allo schema per classi sociali: due schemi valgono piu di uno. Apriamo qui . quella che potrà apparire inizialmente una divagazione di qualche pagina ma che porterà, in effetti, al centro del nostro problema del mito. Se bisogna dire tutto, è tanto piu facile rassegnarsi a non spiegare quanto siamo propensi a credere , vale a dire che l'imprevedibilità della storia tenga meno alla sua occasionalità (la quale non impe dirà una spiegazione post eventum) che alla sua capacità di invenzione . L'idea farà sorridere poiché tutti sanno che ,è mitico ed antiscientifico credere a dei principi assoluti. E allora spiacevole constatare che il pensiero scientifico ed esplicativo si fonda, senza saperlo, su dei presupposti altret tanto arbitrari . Diciamo qualche parola destinata a coloro che, nella loro vita pubblica o privata, si sono trovati un bel mattino a fare o pensare cose di cui il giorno prima non avevano ancora la minima idea; destinata anche a coloro 51
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che si sono trovati nell'incapacità di prevedere il comporta mento del loro piu intimo amico, ma che dopo un avveni mento hanno trovato retrospettivamente nel carattere o nel passato di questi un tratto che si scopriva essere stato premonitore. Non vi è niente di piu empirico e di piu semplice, in ap parenza, della causalità; il fuoco fa bollire l' acqua, l'ascesa di una nuova classe conduce ad una nuova ideologia. Que sta apparente semplicità maschera una complessità che viene ignorata: una polarità tra l'azione e la passività; il fuoco è un agente che si fa obbedire, l' acqua è passiva e fa ciò che il fuoco le impone di fare. Per sapere quello che ac cadrà basta dunque vedere quale direzione la causa fa pren dere all'effetto, il quale nori può apportare piu modifica zioni di quanto lo possa una pallina da biliardo spinta verso una determinata direzione da un' altra pallina. Stessa causa, stesso effetto: causalità significherà successione regolare . L'interpretazione empiristica della causalità non è diffe rente: essa rinuncia alla concezione antropomorfica di un effetto obbligato, che obbedirebbe regolarmente all'ordine impartitogli dalla sua causa, ma ne conserva l'essenziale: l'i dea della regolarità; la falsa sobrietà dell'empirismo na sconde una metafora. Ora, dato che una metafora vale l'altra, si potrebbe an che parlare del fuoco e dell'ebollizione, o di una classe in ascesa e della sua rivoluzione, in termini differenti, in cui tutti i soggetti sarebbero attivi: si direbbe allora che, quando si ha un dispositivo contenente insieme fuoco, pen tola, acqua e un'infinità di altri dettagli, l'acqua «inventa» la bollitura; e che essa la «inventerà» di nuovo ogni volta che la si metterà sul fuoco: come un attore, essa reagisce ad una situazione, attualizza un complesso di possibilità, svolge un' attività che canalizza un insieme di piccole cause; queste sono piu ostacoli che limitano questa energia che non motori. La metafora non è piu quella di una palla lan ciata verso una determinata direzione ma quella di un gas elastico che occupa tutto lo spazio che gli è permesso . Non è piu considerando «la» causa che si potrà sapere cosa farà questo gas, o piuttosto non esiste una causa: l'insieme di 52
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piccole cause consente di prevedere le future configurazioni di questa energia in espansione meno di quanto non venga rivelato dall'espansione stessa. Questa elasticità naturale è chiamata anche volontà di potenza. Se noi vivessimo in una società in cui questo schema metaforico fosse legittimato, non avremmo nessuna diffi coltà ad ammettere che una rivoluzione, una moda intellet tu ale, un'ondata di imperialismo o il successo di un sistema politico non rispondono alla natura umana, ai bisogni della società o alla logica delle cose, ma che sono mode, progetti che provocano entusiasmo. Non solo avrebbe potuto non scoppiare la rivoluzione del 1 789 (dato che la storia è con tingente) , ma inoltre la borghesia avrebbe potuto «inven tare» un sistema tutto diverso. Accettando questo schema energetico e indeterminato, noi ci rappresenteremmo il di venire come l'opera piu o meno imprevedibile di soggetti esclusivamente attivi, che non obbediscono ad alcuna legge. Si potrebbe obiettare a questo schema di non essere ve rificabile e di essere metafisico come gli altri, che lo sono altrettanto; questo è vero, ma esso ha il vantaggio sugli altri di essere una soluzione alternativa che ci permette di sba razzarci dei falsi problemi e di liberare la nostra immagina zione: cominciavamo ad annoiarci nelJa nostra prigione del funzionalismo sociale ed ideologico . Si potrebbe ugual mente obiettare che, se il divenire non presuppone che sog getti attivi, diventano incomprensibili quelle regolarità cau sali che riappaiono qua e là. Non necessariamente: se met tiamo di fronte due pugili, un peso massimo ed un peso piuma, sarà sicuramente il pugile piu pesante che vincerà. Ma se supponiamo che nel mondo i pugili siano mescolati e accoppiati a caso dalla fortuna, questa regolarità nelle vitto rie cesserà di essere la regola generale, e il mondo della boxe diventerà un arcobaleno che va dalla completa regola rità all'irregolarità totale ed al colpo di genio . Nello stesso modo tratteremo i momenti piu significativi del divenire storico : sono costituiti da una serie di avvenimenti che vanno dai piu prevedibili e regolari ai piu imprevedibili. Il nostro energetismo è un monismo casuale, cioè un plurali smo: noi non opporremmo, come fanno i monarchi, l'iner53
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zia al cambiamento, la materia allo slancio vitale e alle altre trasformazioni del Male e del Bene. L' accoppiamento a caso dei pugili diversi ci spiega bene tanto la necessità fisica quanto l'innovazione radicale; tutto è invenzione o reinven zione, volta per volta. A dire il vero, la parte di successione regolare, di rein venzione, è l'effetto di una suddivisione post eventum o an che di una illusione retrospettiva. Il fuoco spiegherà l' ebolli zione e l'asfalto sdrucciolevole spiegherà un tipo frequente di incidente automobilistico se noi prescindiamo da tutte le altre circostanze, infinitamente diversificate, che fanno parte di questi innumerevoli e inestricabili intrecci. Anche gli storici e i sociologi non possono non prevedere mai nulla ed avere sempre ragione; come dice Bergson nel suo mirabile saggio sul possibile ed il reale, la creatività del divenire è tale che il possibile sembra preesistere al reale solo attraverso un'illu sione retrospettiva: «come non vedere che, se l'avve nimento si spiega sempre, a posteriori, con questi o quegli av venimenti precedenti, un avvenimento completamente di verso si sarebbe potuto ben spiegare, nelle stesse circo stanze, attraverso precedenti scelti in modo diverso - che dico? attraverso gli stessi precedenti scomposti, distribuiti, percepiti in modo diverso, infine, attraverso un esame retro spettivo?». Noi non ci accaniremo quindi a favore o contro l'analisi post eventum delle strutture causali nella popola zione degli studenti di Nanterre nell' aprile 1 968; nel maggio 1 968 o nel luglio 1 789, se i rivoluzionari, per qualche piccolo motivo, avessero inventato di infervorarsi per una nuova re ligiosità, noi troveremmo senz' altro, nella loro mentalità, la via per rendere questo atteggiamento comprensibile a poste riori. La cosa piu semplice è scomporre comodamente lo stesso avvenimento, piuttosto che le sue cause: se il maggio del 1 968 è un'esplosione di malcontento nei confronti del l'amministrazione (circondata, ahimè, da una farsa che, es sendo esagerata, non esiste veramente) , la vera spiegazione del maggio 1 968 starà sicuramente nella cattiva organizza zione amministrativa del sistema universitario dell'epoca. La seriosità richiede che, dopo Marx, noi ci raffiguriamo il divenire della storia e delle scienze come una successione 54
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di problemi che l'umanità si pone e risolve, mentre l'evi denza dei fatti dimostra che l'umanità, agitata o saggia che sia, non smette di dimenticare i problemi per pensare ad al tro, tanto che sarebbe meno realistico chiedersi: «Come fi nirà tutto questo?» piuttosto che: «Cosa vogliono ancora in ventare, questa volta?». Il fatto che vi sia creatività signi fica che la storia non si adatta a degli schemi: l'hitlerismo fu un'invenzione, nel senso che non si spiega attraverso l'e terna politica né attraverso i fattori di produzione: fu un incontro di piccole serie causali. La famosa idea che «i fatti non esistono» (queste parole sono di Nietzsche e non di Max Weber) non si riferisce alla metodologia della cono scenza storica né alla molteplicità delle interpretazioni del passato da parte dei diversi storici: essa descrive la strut tura della realtà fisica ed umana; ogni fatto (il rapporto di produzione, il «potere», il «bisogno religioso» o le esigenze del sociale) non gioca lo stesso ruolo o, piuttosto, non è la stessa cosa, passando da una situazione all'altra; deriva ruolo ed identità solo dalle circostanze. Del resto, se c'è qualche cosa di strabiliante, non sta tanto nella spiegazione degli avvenimenti storici quanto piuttosto nel vero e proprio verificarsi di simili avveni menti; la storia è complicata quanto creativa: cos'è questa capacità che possiedono gli uomini di attualizzare, per nulla e a proposito di nulla, quelle grandiose costruzioni che sono le opere e le prassi sociali e culturali, complesse e sorpren denti come le specie viventi, come se essi non sapessero cosa fare della loro energia? L'elasticità naturale, o volontà di potenza, spiega un pa radosso conosciuto sotto il nome di «effetto Tocqueville»: le rivoluzioni scoppiano quando un regime comincia ad es sere piu liberale. Le sommosse - non essendo come una pentola che, a forza di bollire, fa saltare il suo coperchio consistono, invece, in un leggero sollevamento del coper chio, sollevamento dovuto a qualche causa estranea che fa entrare la pentola in ebollizione, cosa che finisce per rove sciare il coperchio. Questa lunga parentesi ci porta al nocciolo del nostro tema: il fiorire del mito e delle sciocchezze di qualsiasi ge55
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nere cessa di essere misterioso, con tutta la sua arbitrarietà e la sua futilità, se la storia stessa è continuamente inven zione e non conduce la vita razionale di un piccolo bor ghese. Si ha l'abitudine di spiegare gli avvenimenti attra verso una causa che spinge qualche cosa che passivamente si muove in una direzione prevedibile («Guardie, obbedi temi! ») ma, dato che il futuro è imprevedibile, ci si rasse gna alla soluzione di compromesso di risolvere l'intelligibi lità con la contingenza: un sassolino può fermare o deviare l'oggetto in movimento, la guardia può non obbedire (e, se avesse obbedito, scrive Trockij , non ci sarebbe stata a Le ningrado la rivoluzione del febbraio 1 9 1 7) e la rivoluzione può non scoppiare (e, scrive Trockij , se vi fosse stato un sassolino nella vescica di Lenin, la rivoluzione dell'ottobre 1 9 1 7 non sarebbe scoppiata) . Sassi cosi piccoli, che non hanno né la dignità di schemi comprensibili né quella di screditare i suddetti schemi. Ma supponiamo che al posto di una causa, corretta dal caso, noi avessimo l'elasticità e un poligono con un numero indefinito di lati (poiché spesso il taglio dei lati sarà con dotto alla luce retrospettiva dell' avvenimento) . L'avveni mento prodotto è esso stesso attivo: occupa come un gas tutto Io spazio lasciato libero tra le cause, e Io occupa in vece di non occuparlo: la storia si prodiga per nulla e non viene incontro solo ai suoi bisogni. La possibilità di fare una previsione dipenderà dalla configurazione di ciascun poligono e sarà sempre limitata, dal momento che noi non saremo mai capaci di prendere in considerazione un nu mero in(de)finito di lati, ciascuno dei quali non è piu deter minante degli altri. Il dualismo della intelligibilità, corretta dall'approvazione della contingenza, scompare o piuttosto viene sostituito dalle contingenze con un significato diverso e, a dire il vero, piu ricco di quello del naso di Cleopatra: negazione di un primo motore della storia (quali il rapporto di produzione, il politico, il desiderio di potere) e afferma zione della molteplicità dei motori (noi diremmo piuttosto: la molteplicità di quegli ostacoli che sono i lati del poli gono) . Mille piccole cause prendono il posto di una intelli gibilità. Questa scompare anche perché un poligono non è 56
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uno schema: non c'è uno schema transtorico delle rivolu zioni o delle preferenze sociali in materia di letteratura o di cucina. Quindi ogni avvenimento assomiglia piu o meno ad una imprevedibile invenzione . Rendere esplicito questo av venimento sarà piu interessante che snocciolare le sue pic cole cause e sarà in ogni caso il compito preliminare . Infine, se tutto è storia e se ci sono tanti differenti poligoni quante rivoluzioni, di cosa potrebbero ancora parlare le scienze umane? Cosa potrebbero ancora insegnarci sul mito greco che la storia non ci abbia insegnato? Note 1 Sul possesso e la distribuzione del vero, cfr. il bellissimo libro di Marcel Detienne, Les Maitres de vérité dans la Grèce archai"que, Paris, Maspero, 1 967 (trad. it. I maestri d i verità nella Grecia arcaica, Bari, Laterza, 1 983); sulla distri buzione del sapere, cfr. Alfred Schutz, Collected Papers, coli. «Phaenomenolo gica», voli. XI e XV, vol. l, p. 1 4 : The social Distribution of Knowledge, e vol. 2 , p. 1 2 0 : The WelJ.Informed Citizen (trad. i t . Scritti sociologici, cit.); G . Deleuze, Différence et Répétition, Paris , PUF, 1 968, p. 203 (trad. it. Differenza e ripeti zione, Bologna, Il Mulino, 1 9 7 1 ) . I pensatori cristiani sono stati portati ad appro fondire questa idea, soprattutto S. Agostino; la chiesa non è una società basata sulla credenza? Il De utilitate credendi di S. Agostino spiega che noi crediamo so prattutto sulla parola, che c'è un commercio di conoscenze non ugualmente di stribuite e anche forzando la gente a credere si finisce per credere realmente: è il fondamento del dovere del persecutore e del tristemente celebre Compelle in trare. Bisogna fare il bene delle persone malgrado loro (le ineguaglianze del sa pere e del potere vanno insieme) e il sapere è un bene. Questa sociologia della fede si leggeva già presso Origene, Contro Celso, l , 9 - 1 0 e III, 38. Donde la dot trina della fede implicita: chi ha fiducia nella Chiesa si penserà che sappia tutto ciò che questa professa; problema: a cominciare da quale grado di ignoranza un cristiano fedele sarà solo cristiano di nome? Si ha la fede, se il solo articolo di fede che si conosca è che la Chiesa sa e ha ragione? Cfr. B. Groethuysen, Origi nes de l'esprit bourgeois en France: l'église et la bourgeoisie, Paris, Gallimard, 1 952, p. 12. Su tutto questo e su S . Agostino, cfr. G . E . Leibniz, Nouveaux Essais, IV, 20. Oltre alle sue conseguenze politiche e sociali, la distribuzione del sapere ha degli effetti sul sapere stesso (non si impara e non si inventa se non se ne ha il diritto socialmente riconosciuto: altrimenti si esita, si dubita di sé) . Quando non si ha il diritto di sapere e di interrogare, s'ignora sinceramente e si resta ciechi; anche Proust diceva: «non confessate mai». Le fonti e le prove del sapere sono esse stesse storiche. Per esempio, «se l'idea greca della verità è quella di una tesi vera perché non contraddittoria e verificabile, l'idea giudeo-cristiana di verità ri guarda la sincerità, l'assenza di frode o di duplicità nelle relazioni personali», R. Mehl, Traité de sociologie du protestantisme, Paris e Neuchitel, Delachaux e Nie stlé, 1 966, p. 76. Donde, suppongo, la strana conclusione del Quarto Vangelo, dove il gruppo di discepoli di San Giovanni dichiara: «Noi supponiamo che la sua testimonianza è veritiera», XXI , 24; se vi era là una testimonianza nel senso greco della parola (il testimone era là e ha visto la cosa con i suoi occhi), la frase
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Distribuzione sociale del sapere sarebbe assurda: come possono testimoniare della veridicità del racconto che fa San Giovanni sulla morte di C risto, dato che non era là? Ma i discepoli vogliono dire che hanno ben conosciuto Giovanni ed hanno riconosciuto in lui un cuore sincero e incapace di mentire. 2 Questa idea di cui si sa l'importanza presso S. Agostino, in particolare nella De utilitate credendi, si legge anche in Galeno, A Trasibu/o, 1 5 . ' Platone, Fedone, 85 C e 9 9 C D . 4 Aristofane, Pace, 832; cfr. Uccelli, 471 sq. 5 F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, scelta di frammenti po stumi 1 879- 1 8 8 1 , edizione italiana a cura di G. Colli e F. Masini, Milano, Adel phi, 1964, p. 258 § 547 : «l tiranni dello spirito . Oggi il cammino della scienza non è piu ostacolato dal fatto casuale che l'uomo vive per circa settant'anni, eventualità, questa, già troppo a lungo verificatasi. Una volta c'era chi voleva, in questo spazio di tempo, pervenire al termine della conoscenza, e i metodi cono scitivi venivano valutati secondo questo generale desiderio [ . . ] dato che tutto nel mondo pareva ordinato in vista dell'uomo, si pensava che anche la conoscibilità delle cose fosse ordinata su una misura temporale umana. Risolvere tutto d'un colpo, con una parola, era questo il segreto desiderio: si pensava al compito ricor rendo all'immagine del nodo gordiano o a quella dell'uovo di Colombo; non si dubitava sulla possibilità di giungere alla meta, anche nella conoscenza, alla ma niera di Alessandro o di Colombo e di liquidare tutti i problemi con una sola ri sposta [ . . ] si doveva innanzitutto trovare l'enigma e condensare il problema del mondo nella semplice forma dell'enigma [ . . ] uno stadio di sviluppo della vita umana . . . Risolvere tutto in un sol colpo, con una sola parola, questo era il desi derio segreto; ci si raffigurava questo compito sotto l'aspetto del nodo gordiano o dell'uovo di Colombo: non si dubitava che fosse possibile . . . liquidare tutte le domande con una sola risposta: cioè che si doveva risolvere un enigma». 6 Platone, Liside, 205 CD. 7 Senofane, frammento l. 8 Aristofane, Calabroni, 1 1 79; Erodoto, l, 60. 9 G . Le Bras, Etudes de sociologie religieuse, Paris, PUF, 1955, pp. 60, 62, 68, 75, 1 12, 1 99, 240, 249, 26 7 , 564, 583 (trad. it . Studi di socio/ogia religiosa, Milano, Feltrinelli, 1969 ) . Questa relazione di docilità nel campo del sapere (il campo simbolico di Bourdieu) ci sembra almeno tanto importante quanto il con tenuto ideologico della religione, piu facile da vedere, piu facile da attribuire a degli interessi sociali, ma anche piu equivoco. Per Proudhon, il culto cattolico in segnava il rispetto della gerarchia sociale, poiché, a messa, e ovunque dove le precedenze sono marcate, la pratica mette in rilievo la gerarchia sociale; senza dubbio, ma c'è nel Dictionnaire Phi/osophique di Voltaire una frase anticristiana nell'intenzione dell'autore che non lascia di essere curiosa: «un volgo grossolano e superstizioso . . . che andava ai templi per ozio e perché i piccoli sono uguali ai grandi (sub voce Idoles)». IO Aristofane, Cavalieri, 32, cfr. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Miinchen, Beck, 1952 2 , vol. I, p. 780. I l Polibio, VI, 56; per Flavio Giuseppe, Contro Apione, Mosè ha visto nella religione un mezzo per far rispettare la virtu (Il, 1 60) . Stesso legame utile della religione e della morale presso Platone, Leggi , 839 C e 838 BD. E presso Aristo tele, Metafisica, 1074 84. 12 Erodoto, Il, 42-4 5 , citato da M . Untersteiner, La Fisiologia del mito, Fi renze, La Nuova Italia, 1 972 2, p. 262 . .
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C apitolo quarto
Diversità sociale delle credenze e «balcanizzazione» dei cervelli
Non si sa ciò che non si ha il diritto di cercare di sapere (donde la sincera cecità di tanti mariti o genitori) e non si dubita di quello che credono gli altri se questi sono degni di rispetto: i rapporti tra le verità sono rapporti di forza. Da ciò nasce quella che si chiama malafede. Si distinguevano due domini: gli dei e gli eroi; dato che non si conosceva la favola o la funzione della finzione in generale ma si giudicavano i miti dal loro contenuto. La critica delle generazioni eroiche consisteva nel trasformare gli eroi in semplici uomini e nel rendere le loro generazioni simili a quelle che si chiamavano le generazioni umane, cioè alla storia dopo la guerra di Troia. Il primo passo di questa critica fu quello di eliminare dalla storia l'intervento visi bile degli dei. La stessa esistenza di questi dei non era asso lutamente messa in dubbio; ma, ai giorni nostri, gli dei vi vono quasi sempre invisibili agli uomini : non era cosi prima della guerra di Troia e tutto il meraviglioso di Omero non è altro che invenzione o ingenuità. Certamente esi steva una critica delle credenze religiose ma essa era molto diversa: alcuni pensatori negavano semplicemente e senza riserve o l'esistenza di qualche dio particolare o forse addi rittura di tutti gli dei nei quali si credeva; in compenso la stragrande maggioranza dei filosofi, e con loro le persone colte, criticavano meno gli dei di quanto non ricercassero una dottrina che non fosse indegna della maestà divina: la critica religiosa consisteva nel salvare l'idea degli dei, depu randola di tutte le superstizioni, e la critica dei miti eroici salvava gli eroi rendendoli cosi verosimili da sembrare semplici uomini. Le due critiche erano indipendenti e gli animi piu de voti sarebbero stati i primi ad eliminare dall'epoca detta «eroica» gli interventi puerili, i miracoli e le battaglie degli ·
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Divenità sociale delle credenze
dei che Omero racconta nell'Iliade; nessuno sognava di
«écraser l'infame» e di fare della critica degli eroi una mac
china da guerra o una guerriglia di allusioni contro la reli gione. Ecco il paradosso: c'era chi non credeva nell'esi stenza degli dei, ma mai nessuno che dubitasse di quella de gli eroi. E a ragione: gli eroi sono stati semplicemente uo mini, che la credulità ha rivestito di un che di meraviglioso, e come dubitare che gli esseri umani esistano e siano esi stiti? In compenso non tutti erano disposti a credere nell'e sistenza degli dei, poiché non li potevano vedere con i loro occhi. Ne risulta che, durante il periodo che prendiamo in considerazione e che si estende per circa un millennio dal quinto secolo avanti Cristo al quarto dopo Cristo, assoluta mente nessuno, cristiani compresi, ha avuto il minimo dub bio sulla storicità di Enea, di Romolo, di Teseo, di Eracle, di Achille e dello stesso Dioniso, o meglio, tutti hanno di chiarato la loro storicità. Preciseremo piu tardi i presuppo sti di questa lontana convinzione; vediamo prima quali greci credevano e a che cosa nel corso di questi nove secoli. Esisteva, a livello popolare, una pluralità di supersti zioni folcloristiche che talvolta si ritrovavano anche in quella che già era chiamata «mitologia». Nelle classi sociali colte questa mitologia era accettata con fede totale, come all'epoca di Pindaro: il grosso pubblico credeva all'esistenza dei Centauri, e non criticava minimamente la leggenda di Eracle o quella di Dioniso; l'ingenuità dei lettori della Le genda Aurea sarà la stessa per le stesse ragioni; essi crede ranno ai miracoli di San Nicola e alle leggende di Santa Ca terina (la «Minerva dei Papisti», come la chiameranno i protestanti) , per accondiscendenza alla parola di altri, per l'assenza di una sistematizzazione dell'esperienza quoti diana e per uno stato d'animo rispettoso e pio. Gli eruditi, infine, facevano la critica storica dei miti con il successo che conosciamo . Il risultato curioso, da un punto di vista sociologico, è questo: l'ingenuità del pubblico e la critica degli eruditi non si abbandonavano a dispute per il trionfo della ragione, né la prima era, da un punto di vista cultu rale, piu disprezzabile; ne risultava, nel campo dei rapporti di forza simbolici, una coesistenza pacifica che ogni indivi60
Diversità sociale delle credenze
duo, anche se apparteneva alla coterie degli eruditi, interio rizzava: ciò creava in costui, da un lato, semicredenze, esi tazioni, contraddizioni, e dall'altro, la possibilità di giocare su diversi tavoli. Ne deriva, in particolare, un uso «ideolo gico», o meglio retorico, della mitologia. Nel Satyricon di Petronio, un nuovo ricco racconta, nella sua ingenuità, di aver visto con i suoi occhi una Sibilla, magicamente miniaturizzata e chiusa in una bottiglia come si racconta di un genio delle Mille e una notte: nell' Atrabi liare di Menandro, un misantropo pagherebbe caro per pos sedere magici oggetti dell'eroe Perseo: il cappello che lo rendeva invisibile e la maschera di Medusa che gli permet teva di trasformare i seccatori in altrettante statue; egli non parla per metafora; crede a tutte queste cose mirabili. Nella stessa epoca, quegli eruditi che appartenevano ad una classe sociale elevata, e che erano scrittori celebri, come Plinio il Giovane, si domandavano se bisognasse credere ai fantasmi con la stessa serietà con cui se lo domanderanno gli inglesi contemporanei di Shakespeare. Non si può dubitare che i greci abbiano creduto alla loro mitologia per tutto il tempo in cui la loro nutrice o la loro madre la raccontavano loro; «Arianna 1 fu abbandonata mentre dormiva nell'isola di Dia dal perfido Teseo; la tua nutrice ha dovuto farti questo racconto, poiché le donne di questa condizione sono preparate su simili argomenti, e piangono apposta mentre raccontano; non ho bisogno per ciò bambino mio, di dirti che è Teseo ad essere portato via dalla nave e che è Dioniso che si · vede sulla riva . . ». Noi supporremo dunque che «la fede nei mitF è l' accettazione di avvenimenti non autentici ed inventati, come i miti rela tivi a Cronos, per esempio; in realtà tale ipotesi è condivisa da molti». Ma quali miti le nutrici raccontavano ai bambini? Parla vano loro degli dei sicuramente perché lo richiedeva la reli giosità e la superstizione; li spaventavano con spauracchi e Lamie; raccontavano, poiché piacevano a loro stesse, favole sentimentali, Arianna o Psiche, e piangevano. Ma esse inse gnavano loro i grandi cicli mitici, Tebe, Edipo, gli Argo nauti? I ragazzini e le ragazzine 3 non dovevano forse .
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Diversità
sociale delle credenze
aspettare di essere sotto la bacchetta del maestro per cono scere le grandi leggende? 4 Bisogna dire una parola su un testo celebre ma ancora poco studiato, il Discorso eroico di Filostrato; testo difficile, poiché la stilizzazione, la fantasia e l'ideologia nostalgica e patriottica, come accade nella Seconda Sofistica, si fondono con la realtà contemporanea. Filostrato ha conosciuto un povero contadino 5 che coltivava delle vigne vicino alla tomba dell'eroe Protesilao; il vignaiolo lascia incolta una parte delle sue terre (lui stesso le coltiva e le ha liberate dai suoi schiavi, che gli rendevano troppo poco) , perché queste terre sono state consacrate all'eroe dal proprietario prece dente, cui era apparso il fantasma di Protesilao. Questo fantasma continua ad apparire al nostro vignaiolo ed ai pae sani del vicinato, come anche i fantasmi degli Achei partiti con Protesilao per l'assedio di Troia: ogni tanto si vedono le loro ombre piumate agitarsi nella pianura. Lungi dal far paura, il fantasma dell'eroe è molto amato; dà consigli ai coltivatori, è presagio di pioggia e di bel tempo; la gente del paese indirizza voti a questo eroe, scrive confusamente la sua preghiera sulla statua 6 divenuta ormai informe che si erge sulla sua tomba, poiché Protesilao guarisce tutte le ma lattie. Favorisce anche le iniziative degli innamorati che ri cercano i favori di un adolescente; in compenso, è implaca bile verso gli adulteri, poiché possiede un senso morale . Come si vede, questa storia del culto degli eroi è anche una storia di fantasmi 7• Il seguito del dialogo consiste in una fantasia america, come piaceva allora, in cui il vignaiolo ri vela una quantità di dettagli sconosciuti sulla guerra di Troia e sui suoi eroi; egli apprende questi dettagli dal suo amico Protesilao in persona; questa parte del dialogo è la piu lunga e, secondo Filostrato, la piu importante. Si ha l'impressione che Filostrato abbia conosciuto l'esistenza di qualche superstizione contadina relativa a un vecchio san tuario rustico e che l'abbia messa in relazione con la mito logia, divenuta classica e scolastica; inoltre egli immerge i lettori, suoi compatrioti, in un ellenismo senza età, quello di Luciano o di Longo, nella Grecia eterna cosi cara al classicismo nazionalista del suo tempo, dove il patriottismo 62
Diversità soci4/e delle credenze
ellenico reagiva contro la dominazione romana. È certo che i contadini che gli sono serviti da modello non sapevano nulla della guerra di Troia; è facile a credersi che il loro culto ingenuo avesse per centro una vecchia tomba di Pro tesilao; ma cosa sapevano di piu sull'eroe cui continuavano a dare questo nome? Il popolo aveva le sue leggende in cui si parlava di certi miti; vi erano anche eroi come Eracle, di cui tutti conosce vano il nome e la natura, se non i particolari delle avven ture; altre leggende, del tutto classiche, erano conosciute attraverso canti 8• In ogni modo, la letteratura orale e l'ico nografia facevano conoscere a tutti l'esistenza ed il tipo di finzione di un mondo mitologico, di cui si conosceva il sa pore, anche se se ne ignoravano i dettagli. Questi dettagli erano conosciuti soltanto da chi aveva frequentato la scuola. Ma, in modo un po' diverso, non era sempre stato cosi? Si crede veramente che l'Atene classica sia stata una grande collettività civica con una sola anima, dove il teatro suggellava l'unione dei cuori ed il ceto medio sapeva tutto su Giocasta o sul ritorno degli Eraclidi? L'essenza di un mito non sta tanto nell'essere cono sciuto da tutti quanto nel fatto che se ne riconosca l'esi stenza e lo si ritenga degno di esistere ; dopotutto general mente non lo si conosceva. Nella Poetica 9 vi sono parole che vanno lontano; non siamo affatto tenuti, dice Aristo tele, a !imitarci ai miti consacrati quando scriviamo una tra gedia. Il pubblico ateniese conosceva globalmente l'esi stenza di un mondo mitico, al quale si ispiravano le trage die, ma ignorava i dettagli delle storie; non aveva nemmeno bisogno di conoscere i piu piccoli dettagli della leggenda di Edipo per seguire Antigone o i Fenici: il poeta tragico aveva cura di insegnare tutto al suo pubblico, come se avesse in ventato lui l'intreccio . Ma il poeta non si collocava al di so pra del suo pubblico poiché si presumeva che il mito fosse conosciuto; non ne sapeva piu degli altri, non faceva della letteratura erudita. Tutto cambia nell'epoca ellenistica; si pretende una let teratura erudita; non che essa venga destinata ad un'élite per la prima volta (Pindaro o Eschilo non erano proprio 63
Diversità sociale delle credenze
scrittori popolari) : ma essa esige dal suo pubblico uno sforzo culturale che mette da parte gli amatori; i miti fanno posto allora a quella che noi chiamiamo ancora mito logia e che sopravviverà fino al XVIII secolo. Il popolo continuava ad avere le sue storie e le sue superstizioni, ma la mitologia, diventata erudita, si allontanava da esso: pos sedeva ai suoi occhi il prestigio di una cultura di élite 1 0 , che dà prestigio a chi la possiede. All'epoca ellenistica, quando la letteratura è diventata un'attività specifica che autori e lettori coltivano per se stessa, la mitologia diventa una disciplina che ben presto si imparerà a scuola. Non sarà tuttavia una cosa morta, ma resta al contrario un elemento importante della cultura e continua a rappresentare un impegno per i letterati. Calli maco raccoglieva versioni rare delle grandi leggende e dei miti locali, non certo con frivolezza (non c'è niente di meno frivolo dell'alessandrinismo) , ma con un fervore da patriota; si è anche supposto che lui ed i suoi emuli percor ressero il mondo greco con il deliberato proposito di racco gliere tali leggende 1 1 • Quattro secoli dopo, Pausania ha percorso la Grecia ed ispezionato le biblioteche con la stessa passione. Diventata libresca, la mitologia continuava a svilupparsi, ma le pubblicazioni erano influenzate dalle preferenze del momento: la nuova letteratura leggendaria 12 di intrattenimento preferiva coltivare le metamorfosi ed i catasterismi, che saranno ancora coltivati al tempo di Ca tullo , della Ciris e di Ovidio. Infine, grazie agli studiosi di grammatica ed ai retori, la favola, scritta in manuali, cono scerà una codificazione che la semplificherà, conferirà ai suoi granc!i cicli una versione ufficiale e farà dimenticare le varianti. E questa versione popolare scolastica, destinata allo studio degli autori classici, che costituisce quella mito logia che si ritrova in Luciano; è la stessa che verrà inse gnata agli studenti dell'Europa classica. Rimaneva l'aspetto serio della questione: cosa pensare di tutti questi racconti? Abbiamo due scuole, che a torto si confondono sotto il termine troppo moderno di trattamento razionale del mito; da una parte gli ingenui, come Diodoro, ma anche Eve mero; dall'altra gli eruditi. 64
Diversità sociale delle creden:le
Esisteva in effetti un pubblico ingenuo ma colto, che esigeva un meraviglioso diverso; questo meraviglioso non doveva piu essere situato al di là del vero e del falso, in un passato senza età: volevano che fosse «scientifico», o piut tosto storico. Non si poteva piu credere infatti al meravi glioso alla vecchia maniera; la ragione non è, credo, l' Aufkliiru ng dei Sofisti, ma il successo del genere storico; per far presa ormai il mito dovrà passare per storia. Ciò darà a questa mistificazione l'apparenza ingannatrice di una razionalizzazione; da qui l'aspetto falsamente contrad dittorio di Timeo, uno dei grandi operatori del genere: Ti meo ha scritto una storia «piena di sogni, di prodigi, di storie incredibili, in una parola, di superstizioni grosso lane, e di racconti da comari 13»; lo stesso Timeo dà una in terpretazione razionale dei miti. Molti storici, scrive Diodoro 14, «hanno schivato come una difficoltà la storia dei tempi favolosi»; lui stesso cer cherà di colmare questa lacuna. Zeus fu un re, figlio di un certo Cronos, che regnò a sua volta su tutto l' Occidente; questo Zeus fu veramente maestro del mondo; non si con fonderà Zeus con uno dei suoi omonimi 1 5, che fu solo re di Creta ed ebbe dieci figli, chiamati Cureti. È lo stesso Diodoro 1 6 che prende per oro colato, cento pagine dopo, i viaggi immaginari di Evemero in isole meravigliose, una delle quali ebbe per re Urano, Cronos e Zeus, che furono consacrati a causa delle loro «evergesie», come lo provano le iscrizioni incise nella lingua di questo paese, e che noi abbiamo preso per dei. Evemero ha forse nascosto sotto forma di fantasia qualche tentativo di demistificazione religiosa o anche po litica? Non vuole invece fornire ai suoi lettori giustifica zioni moderne per credere al mito ed al meraviglioso? C 'era tanta indulgenza per i fabulatori. Non si dava grande importanza alle favole scritte dagli stessi storici, anche se essi non riconoscevano di aver fatto della mito grafia, poiché, dice Strabone 17, si sapeva che essi non ave vano avuto altra intenzione che divertire e sorprendere con un meraviglioso d'invenzione. Solo il meraviglioso del l' epoca ellenistica ha tinte razionaliste tanto che i moderni 65
Divmità sociale delle credenze
sono tentati di riconoscervi per sbaglio una lotta in nome della verità e dei lumi. In effetti vi erano lettori per cui esisteva l'esigenza di verità ed altri,per cui non esisteva. Un brano di Diodoro ce lo dimostra. E difficile, dice questo storico, raccontare la storia dei tempi mitici non fosse altro che per l'impreci sione della cronologia; questa imprecisione fa si che molti lettori non prendano sul serio 18 la storia mitica. Inoltre gli avvenimenti di quell'epoca remota sono troppo lontani ed inverosimili per poterei credere facilmente 1 9• Cosa fare? Le imprese di Eracle sono tanto gloriose quanto sovrumane; «o si passeranno sotto silenzio alcune di queste imprese glo riose e la gloria del Dio verrà diminuita, o si racconteranno tutte e non si sarà creduti. Molti lettori infatti esigono in giustamente nelle vecchie leggende lo stesso rigore degli av venimenti del nostro tempo; essi giudicano le prodezze e le contestano sulla base di una forza fisica che è quella attuale e si raffigurano la forza di Eracle sul modello della debo lezza degli uomini di oggi». Questi lettori, che erronea mente giudicano Eracle con il metro delle cose attuali, hanno anche il torto di pretendere che sulla scena le cose si svolgano come nella realtà, e questo significa mancare di ri spetto agli eroi: «Per quanto riguarda la storia leggendaria non si può pretendere rigorosamente la verità poiché tutto si svolge come a teatro: qui non crediamo all'esistenza dei Centauri mezzi-uomini e mezzi-animali, né a quella di un Gerione con tre corpi, ma non per questo apprezziamo di meno le favole di questo genere e nell' applaudirle rendiamo omaggio al Dio. Dato che Eracle ha trascorso la sua vita a rendere la terra abitabile, sarebbe scandaloso che gli uomini perdessero il ricordo del loro comune antenato e gli conte stas�ero la sua parte di merito». E un testo rivelatore, nel suo ingegnoso candore. Pos siamo scorgervi la coesistenza conflittuale dei due pro grammi di verità: l'uno critico e l'altro rispettoso 20• Il con flitto aveva portato i sostenitori di quest'ultimo dalla spon taneità alla fedeltà a sè stessi: essi avevano ormai delle «convinzioni» e ne esigevano il rispetto; il problema della verità passava in secondo piano : la mancanza di rispetto era 66
Diversità sociale delle credenze
scandalosa e ciò che era scandaloso era anche falso. Es sendo ciò che è buono anche vero, diventa vero solo ciò che è buono. Diodoro, che si vende al suo pubblico, tiene il piede in due staffe; arriva a vedere le cose dall'uno e dal l' altro punto di vista, a dare l'impressione ai benpensanti di conciliare il punto di vista dei critici con il loro e schierarsi cosi dalla parte dei benpensanti. Sembra essere in mala fede poiché mostra di credere nel rispetto come questi, usando il linguaggio critico degli altri. Ciò ci prova quanto meno che i credenti erano sempre numerosi: nella loro ver sione modernizzata Eracle e Dioniso non erano piu figure divine, ma dei che erano stati uomini o uomini divini ai quali l'umanità doveva la civilizzazione. Ed in effetti, pas sando da un'epoca all'altra, un avvenimento sensazionale 2 1 rivelò che la massa e l'élite continuavano a credere in que sto meraviglioso semidivino. Le testimonianze sono convergenti: la maggior parte del pubblico credeva alle leggende di Cronos, dice Sesto Empi rico; essa crede a quello che le tragedie raccontano su Pro meteo, Niobe e Teseo, scrivono Artemidoro e Pausania. Perché no? Anche gli eruditi credevano certamente a Te seo: la massa si limitava a non epurare il mito; come nell'e poca arcaica il passato dell'umanità era stato preceduto, ai suoi occhi, da un periodo meraviglioso, un mondo diverso. Reale per se stesso ed irreale in rapporto al nostro. Quando un personaggio di Plauto 22 , privo di risorse, dichiara: «Pre gherò Achille di darmi l'oro che ha ricevuto per il riscatto di Ettore», indica il mezzo piu fantastico di procurarsi l'oro. In questa cultura non si scorgeva nulla al di là di un orizzonte temporale molto ravvicinato: ci si chiedeva con Epicuro se il mondo fosse vecchio un millennio o due, non di piu, o ci si chiedeva con Aristotele e Platone se esso non fosse eterno, ma sconvolto da catastrofi periodiche, dopo ciascuna delle quali tutto ricominciava · come prima, il che riportava a pensare come Epicuro. Essendo cosi breve il ciclo di vita del nostro mondo, questo ha potuto raggiun gere evoluzioni considerevoli; l'epoca omerica, quella delle generazioni eroiche, costituiva l'Antichità agli occhi di que sta cultura antica. Quando Virgilio vuole descrivere Carta67
Diversità sociale delle credenze
gine arcaica, come doveva essere undici secoli prima, le at tribuisce un carattere omerico; niente di meno flaubertiano della città di Didone . . . Erodoto distingueva già le generazioni eroiche da quelle umane. Molto piu tardi, quando Cicerone vorrà bearsi in un sogno filosofico di immortalità, cui darà il carattere di un idillio nell'Elisio 2 3 , gli piacerà pensare che, in questo giar dino luminoso, la sua anima converserà con quella del saggio Ulisse o del sagace Sisifo; se la fantasticheria di Cicerone fosse stata meno fiabesca, si sarebbe piuttosto ripromesso di intrattenersi con delle figure storiche romane come Sci pione, Catone o Marcello, di cui rievoca il ricordo quattro pagine dopo. Un erudito della stessa epoca aveva chiarito di datticamente questi problemi: secondo Varrone 2 4 , da Deu calione al diluvio si estendeva l'età oscura; dal diluvio alla prima olimpiade (e qui la cronologia diventa certa) era l'età mitica, «cosi chiamata perché caratterizzata da molte fa vole>>; dalla prima olimpiade, nel 776 avanti Cristo, all'e poca di Varrone e di Cicerone, si estende l'età storica, i cui «avvenimenti sono riportati in alcuni libri di storia che si at tengono alla verità». Gli eruditi, è chiaro, non sono disposti a lasciarsi ingan nare; ma, primo paradosso, dubitano molto piu facilmente degli dei che degli eroi. Prendiamo come esempio Cicerone. Nella politica e nella morale è molto simile a Victor Cousin ed è capace di credere in ciò che piu conviene ai suoi interessi. Al contra rio, ha un temperamento freddo da un punto di vista reli gioso, ed è incapace di professare ciò che non crede affatto; chiunque abbia letto il suo trattato sulla natura degli dei sarà d'accordo nel pensare che egli non crede molto in que sti e non tenta neppure di far credere il contrario, per un calcolo di tipo politico. Egli fa capire che alla sua epoca, in quanto a religione, gli individui erano divisi come alla no stra epoca; Castore e Polluce erano realmente apparsi ad un certo Vatinio su una strada nelle vicinanze di Roma? Se ne discuteva tra devoti all'antica maniera e scettici 25 ; ci si di videva anche sulle leggende: secondo Cicerone, l'amicizia di Teseo e di Piritoo e la loro discesa agli Inferi erano 68
Diversità sociale delle credenze
un'invenzione, una fabula ficta. Risparmiamo dunque ai no stri lettori le considerazioni di rigore sull'interesse di classe della religione e della mitologia. Ora lo stesso Cicerone, che non crede all'apparizione di Castore e di suo fratello, né crede certamente all'esistenza stessa di Castore, e che non lo nasconde, ammette sicuramente la storicità di Enea e di Romolo; questa storicità infatti non è stata messa in dubbio che nel XIX secolo. Secondo paradosso, quasi tutto ciò che si racconta di questi personaggi non è che una favola inconsistente, ma il totale di questi zeri dà una somma positiva: Teseo è pro prio esistito . Nel suo De Legibus, Cicerone, fin dalla prima pagina, scherza piacevolmente sulla pretesa apparizione di Romolo dopo la sua morte e sui colloqui del buon re Numa con la ninfa Egeria: nel De re publica 26 non crede neanche che Romolo sia figlio del dio Marte, che avrebbe messo in cinta una vestale: una favola venerabile, ma comunque una favola; nello stesso modo non crede all'apoteosi del fonda tore di Roma: la divinizzazione postuma di Romolo non è che una leggenda buona per le età ingenue. Romolo non è neanche un personaggio storicamente autentico e ciò che la sua divinizzazione ha di curioso, secondo Cicerone, è pro prio il fatto di essere stata inventata in piena era storica, dato che si colloca dopo la settima olimpiade. Per quanto riguarda Romolo e Numa, Cicerone mette in dubbio tutto tranne la loro stessa esistenza. Piu precisamente abbiamo qui un terzo paradosso: talvolta gli eruditi sembrano molto scettici sulla leggenda nel suo insieme e la liquidano in po che parole, talvolta invece sembra siano tornati a credere, e questo ritorno alla credulità avviene ogni volta che, di fronte a qualche episodio della leggenda, si propongono di essere pensatori seri e responsabili. Malafede? No, piutto sto oscillazione tra due criteri di verità, uno dei quali era il rifiuto del meraviglioso e l' altro la persuasione che non fosse possibile mentire del tutto. La favola è vera o falsa? Essa è sospetta; da qui ha ori gine il loro cattivo umore: questi sono racconti da comari. Le differenti città, scrive un retore 27 , devono la loro origine o a qualche dio, o ad un eroe, o all'uomo che è stato loro fonda69
Divmità sociale delle credenze
tore; «di queste diverse eziologie, quelle divine ed eroiche sono leggendarie (mythodes) mentre quelle umane sono piu degne di fede». La parola mito ha cambiato valore dall'e poca arcaica; quando un autore non si prende la responsabi lità di un racconto e lo riporta in forma indiretta («un mito dice che . . . ») non pretende piu di rendere nota a tutti un'in formazione che vaga nell'aria: egli intende cavarsela con eleganza e lasciare che ognuno ne pensi ciò che vuole. «Mito» è diventata una parola con senso leggermente peg giorativo, che qualifica una tradizione sospetta. Un testo è decisivo: Isocrate 28 un giorno senti il bisogno di affer mare virtuosamente che una leggenda non trovava incre duli; «Zeus, egli scrive, generò Eracle e Tantalo, come di cono i miti e come tutti credono»; questo zelo inopportuno tradisce un senso di colpa. Non sapendo piu cosa pensare, lo storico Eforo decise di iniziare la sua storia con il rac conto del ritorno degli Eraclidi 29 e si rifiutò di risalire piu indietro; ai nostri occhi questo rappresentava ancora una grossa parte di passato leggenç ario: Eforo rifiutava i rac conti piu antichi perché falsi? E piu facile pensare che egli non avesse speranze di trame la verità, e preferisse aste nersi. In effetti gli dispiaceva dover rinunciare alla ten denza degli storici antichi di accettare in blocco tutte le tra dizioni come vulgata. Eforo si asterrà dall'approvare, ma sia lui che i suoi pari si asterranno comunque dal condannare; qui ha inizio il se condo movimento di cui parliamo: il ritorno alla credulità attraverso una critica metodica. C ' è un fondo di verità in ogni leggenda; di conseguenza, quando passano dal gene rale, che è sospetto, al particolare ed ai miti analizzati uno per uno, tornano ad essere prudenti. Dubitano dei miti presi in blocco, ma nessuno di loro ha negato un fondo di storicità ad ogni leggenda; quando non si tratta piu di ma nifestare il proprio dubbio globale, ma di pronunciare una sentenza su di un aspetto determinato e di impegnare la propria parola di erudito serio, lo storico ritorna a credere. Egli si impegna a sfrondare e salvare quel fondo di verità. Stiamo attenti: quando Cicerone, nel suo De re publica, o Tito Livio riconoscevano che gli avvenimenti «che hanno 70
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preceduto la fondazione di Roma» sono conosciuti unica mente perché «esaltati da leggende buone giusto per dei poeti e non trasmesse attraverso opere importanti non alte rate», essi non intuiscono quella che sarà la critica storica moderna, non sono sullo stesso piano di Beaufort, Niebuhr o Dumézil, non denunciano l'incertezza generale dei quat tro secoli che hanno seguito la fondazione, né denunciano l'assenza di un qualsiasi documento contemporaneo a que sto periodo : essi si lamentano semplicemente che i docu menti relativi ad un periodo ancora piu antico non siano certi; poiché questi documenti esistono: sono tradizioni, ma sospette. Non perché esse sono molto posteriori ai fatti ma perché sono contaminate da credulità. Ciò che Tito Livio o Cicerone rifiutano di condividere è la nascita divina di Ro molo o il miracolo della navi di Enea trasformate in ninfe. La conoscenza dei periodi leggendari sta derivando dunque da una modalità di sapere che a noi è del tutto abi tuale, ma che metteva a disagio gli antichi, quando si trat tava di storia: la critica, la conoscenza congetturale, l'ipo tesi scientifica, la congettura, l' eikasis, si sostituiscono alla fiducia nella tradizione . Il suo fondamento sarà questo: il passato è simile al presente. Questo era già stato il fonda mento su cui Tucidide, cercando di sapere piu della tradi zione, aveva basato la sua ricostruzione geniale ma perfet tamente falsa e gratuita dei primi tempi della Grecia. Dal momento che questo principio permetteva anche di sfrondare il mito della sua parte di meraviglioso, diventa possibile credere a tutte le leggende ed è quello che hanno fatto gli uomini piu grandi di questa epoca famosa. Aristo tele, per esempio, è padrone delle sue parole e, quando vuoi dire «si racconta che . . . » o «secondo ciò che si crede», lo dice; egli distingue il mito da ciò che non è mitico 30 • Or bene, l' abbiamo visto non dubitare della storicità di Teseo e dare una versione razionale del racconto del Minotauro H . Tucidide 32 , che come lui non dubitava della storicità di Mi nosse, credeva anche a quella di Elleno, antico re degli El leni, e ricostruf il vero ruolo politico che avevano avuto lti, Pandione, Procne e Filomene (i quali, secondo le leg gende, furono trasformati in uccelli) ; si rifiuta, in com71
Diversità sociale delle credenze
penso, di pronunciarsi sui Ciclopi e sui mostruosi Lestri goni: ognuno ne pensi quello che vuole o quello che ne di cono i poeti! H Infatti una cosa è credere che nel passato siano già esistiti dei re, un'altra cosa è credere che siano esistiti dei mostri come non ne esistono piu. Per il millen nio che seguirà, i principi della critica delle tradizioni erano stati determinati: li troviamo già in Platone 34 • Strabone può allora, da degno erudito, separare il vero dal falso; Dioniso ed Eracle sono esistiti, furono grandi viaggiatori e geografi, tanto che la leggenda vuole che essi abbiano percorso in trionfo la terra intera; Ulisse è esistito, ma non ha fatto tutti i viaggi che gli attribuisce Omero, il quale è ricorso a questo pretesto per poter fornire delle co noscenze geografiche utili al suo pubblico; per quanto ri guarda Giasone, la nave Argo, Eeta, «tutti sono d' accordo nel crederci» e fino a qui, «Omero è d' accordo con i dati storici»: l'invenzione comincia quando il poeta vuoi far cre dere che gli Argonauti abbiano raggiunto l'Oceano. Altri grandi viaggiatori sono Teseo e Piritoo: essi hanno esplo rato il mondo spingendosi tanto lontano che la leggenda li fa arrivare sino agli Inferi 3 5 • Gli spiriti non conformisti non ragionavano i n modo di verso da questo geografo stoico; per l'epicureo Lucrezio 36 , che aborriva le favole, le guerre di Troia e di Tebe non fanno sorgere alcun dubbio: sono i piu antichi avvenimenti conosciuti. Finiamo con il grande Polibio 37 • Quando si trova di fronte ad una versione ufficiale, la riporta senza commenti: «gli Achei hanno avuto come primo re un figlio di Oreste, Tisamene, che fu esiliato da Sparta al ritorno de gli Eraclidi»; quando riferisce un mito senza importanza, prende le sue distanze: quella casupola in un paese acheo «era stata costruita da Eracle, per quanto dicono i miti»; ma quando è coinvolta la sua responsabilità di storico, sot toppone i miti alla metodologia critica che si è dimostrata valida e può sostenere che «Eolo indicava la direzione da prendere nello stretto di Messina, là dove una doppia cor rente rende il passaggio difficile a causa del riflusso; si è poi raccontato che fosse il padrone dei venti, lo si è preso per il re dei venti; nello stesso modo Danao, che insegnò la tec72
Diversità sociale delle credenze
nica delle cisterne che si vedono ad Argo, o Atreo, che in segnò il movimento retrogrado del sole, sono stati descritti come re, dei, profeti». Oggetto di un'ingenua credulità, di un esitante scettici smo e di rischiose congetture, il mito è diventato qualcosa di cui non si parlava piu se non con mille precauzioni. Ma queste precauzioni erano molto calcolate. Quando raccon tano i dettagli di qualche leggenda, gli scrittori dell'epoca ellenistica e romana sembrano esitanti; spesso si rifiutano di pronunciarsi di persona; «si dice che . . . », scrivono, o «se condo il mito»; ma poi, nella frase dopo, accetteranno senza esitazioni un punto diverso della stessa leggenda. Questo alternarsi di audacia e di riservatezza non avviene a caso; esso segue tre regole: non pronunciarsi sul meravi glioso ed il soprannaturale, ammettere un fondo di storicità e declinare ogni responsabilità per quanto si riferisce ai det tagli. Basterà un esempio. Parlando della fuga di Pompeo verso Brindisi e Durazzo, dopo che Cesare aveva attraver sato il Rubicone, Appiano ricollega a questo avvenimento le origini della città di Durazzo, l'antica Dirrachia, sul mar Jonio. La città deve il suo nome a Dirraco, figlio di una principessa «e, si dice, di Poseidone»; questo Dirraco, af ferma Appiano, «ebbe come alleato Eracle» in una guerra che sostenne contro i principi suoi fratelli ed è per questo che l'eroe è onorato come un dio dalla gente del paese; que sti indigeni «dicono che, durante la battaglia, Eracle uccise per errore Jonio, proprio il figlio del suo alleato Dirraco, e che gettò il cadavere nel mare affinché quel mare prendesse il nome dello sventurato». Appiano crede ad Eracle ed alla guerra, non crede alla paternità di Poseidone e lascia agli abitanti del luogo la responsabilità di un aneddoto . Tra gli eruditi la credulità critica, per cosi dire, si al ternava ad uno scetticismo globale ed andava di pari passo con la credulità impulsiva dei meno eruditi; questi tre at teggiamenti non erano incompatibili tra loro e la credulità popolare non era culturalmente svalorizzata. Questa coesi stenza pacifica di credenze contraddittorie ebbe un effetto sociologicamente curioso: ogni individuo interiorizzava la contraddizione e pensava del mito cose inconciliabili, per lo 73
Diversità sociale delle credenze
meno agli occhi di una persona logica; l'individuo non sof friva delle proprie contraddizioni ma al contrario ognuna di esse serviva a scopi diversi. Prendiamo per esempio una mente filosofica di prim'or dine, il medico Galeno 3 8 • Crede o non crede alla realtà dei Centauri? Dipende. Quando si esprime da competente ed espone le sue teo rie personali, parla dei Centauri in termini che implicano che, sia per lui che per i suoi piu selezionati lettori, questi esseri meravigliosi non avevano nessuna esistenza; la medi cina, dice Galeno, insegna conoscenze basate sulla ragione o «Teoremi» e la prima condizione di un buon teorema è di poter essere comprensibile; «poiché, se il teoremi! non è ve rificabile, come questo: la bile del Centauro calma l'apoples sia, è inutile, poiché sfugge alla nostra percezione»; non ci sono Centauri, perlomeno nessuno ne ha mai visto uno. I Centauri appartenevano ad un bestiario meraviglioso, come quello del nostro Medio Evo, e si intuisce che la realtà di questo bestiario era oggetto di imbarazzo o di irritazione . Galeno trova puerile la serietà con cui gli Stoici scrutavano le finzioni poetiche cosi come il loro accanimento nel dare un senso allegorico a tutto ciò che i poeti raccontavano sugli dei; cosi facendo, aggiunge imitando Platone, si arriverà a «rettificare l'idea dei Centauri, delle Chimere, ed allora di lagherà la confusione sulle Gorgoni, su Pegaso e su altri es seri assurdi ed irreali di questo genere; se, senza credere alla loro realtà, si cerca di renderli verosimili, in nome di una saggezza un po' rustica, ci si darà molto da fare per niente». Se nessuno, ai tempi di Galeno, avesse preso alla lettera la leggenda dei Centauri, che necessità avrebbero avuto i filo sofi di parlarne seriamente e di renderli verosimili? Se nes suno ci avesse creduto, che necessità avrebbe avuto lo stesso Galeno di distinguere espressamente quelli che non ci crede vano? Anche Galeno, nel suo grande libro sulle finalità delle parti dell'organismo, si batte a lungo contro l'idea che pos sano esistere nature miste come i Centauri; sarebbero stato ridicolo farlo se non vi fosse stato chi credeva ai Centauri. Ma quando lo stesso Galeno non cerca piu di imporre le sue idee, ma piuttosto di trovare nuovi discepoli, sembra 74
Diversità sociale delle credenze
passare dalla parte dei credenti; riassumendo in cento pa gine tutta la sua medicina e deciso a fornire la migliore im magine di questa scienza, ce ne riporta l'origine elevata; i greci, dice, attribuiscono la scoperta delle diverse arti ai fi gli o ai familiari degli dei; Apollo ha insegnato la medicina a suo figlio Asclepio. Prima di lui, gli uomini avevano un'e sperienza limitata a qualche semplice rimedio «e in Grecia c'era, per esempio, tutto il sapere del centauro Chirone e degli eroi di cui divenne educatore». Questo ruolo storico assegnato ad un centauro sicura mente non è altro che linguaggio pomposo e convenzione: è certamente ciò che l' antichità diceva della retorica, e la re torica era l'arte di vincere, piti che di aver ragione; per vin cere, il che significa convincere, bisognava partire da ciò che pensava la gente piuttosto che contraddire i giuristi e dir loro che si sbagliavano in tutto e che dovevano cam biare la propria visione del mondo per assolvere l'accusato; Parigi val bene una messa, ed un discepolo in piti vale un centauro. Sarebbe però pretestuoso contrapporre la reto rica, come atteggiamento interessato, alla filosofia; non vo glio dire che la retorica non abbia una dignità filosofica: al contrario, ritengo che la filosofia e la verità sono interes sate; non è vero che gli intellettuali mentono quando sono interessati e che essi sono disinteressati quando dicono il vero. Galeno aveva tutto l'interesse a dire il vero sui Cen tauri, a negarne l'esistenza, quando il suo interesse si ba sava sulla vittoria delle sue idee personali a fianco dei suoi discepoli piuttosto che sul reclutamento di nuovi discepoli. A seconda del momento infatti i ricercatori adottano di versi obiettivi di battaglia e differenti strategie; questo vale per tutti noi, anche se prendiamo le nostre gelosie per sa crosanti sdegni e facciamo un ideale del nostro disinteressa mento scientifico ed etico, ed i nostri discepoli insieme a noi. Noi facciamo la guerra per quella che Jean-Claude Pas seron chiama la spartizione della simbolica bistecca e le no stre politiche sono diverse come quelle degli stati e dei par titi: conservare le proprie posizioni, organizzare un' alleanza di aiuto reciproco, un'alleanza di conquista, regnare senza governare, stabilire la Pax Romana, farsi un impero, divi75
Diversità sociale delle credenze
dere i propri domini, ricercare terre vergini, avere una dot trina di Monroe, organizzare una rete di public relations per controllare un gruppo di reciproco sostegno . . . Ma quando, come succede spesso, questa politica di idee ignora la propria natura, si interiorizza; è difficile, per esem pio, non credere un poco ai principi d'altri con cui si è costi tuita un'alleanza offensiva o difensiva. Si mettono le pro prie credenze in accordo con le proprie parole. Cosi si fini sce per non sapere piu ciò che si pensa veramente. Dunque, al momento in cui si appoggiava alla credenza popolare nei Centauri, Galeno, in assenza di cinismo, fu preso probabil mente da un vortice di vaniloquio nobile ed indulgente da non capire piu molto bene cosa pensare. Cosi ha origine questo modo esitante di credere, questa capacità di credere nello stesso tempo a verità incompatibili, che caratterizza i periodi di confusione intellettuale: la «balcanizzazione» del campo simbolico si riflette su ogni cervello. Questa confu sione corrisponde ad una politica di alleanza tra sette. Per ciò che riguarda il mito, i greci hanno vissuto mille anni in questo stato. A partire dal momento in cui si vuole convin cere e farsi accettare bisogna rispettare le idee degli altri, se questi sono forti, e bisogna un po' condividerle. Ora noi sappiamo che gli eruditi rispettavano le idee popolari sul mito e che essi stessi si dividevano tra due principi: il rifiuto del meraviglioso e la persuasione che le leggende avessero un fondo di verità; qui è la causa della loro confusione mentale. Aristotele o Polibio, cosi differenti di fronte alla fa vola, non hanno creduto alla storicità di Teseo o di Eolo, re dei venti, per conforrtrismo o per calcolo politico; non hanno neanche cercato di rifiutare i miti, ma soltanto di rettifi carli. Perché rettificarli? Perché non si può credere in qual cosa che attualmente non esiste. Ma allora perché non rifiu tarli in blocco? Poiché i greci non hanno mai ammesso che la leggenda potesse mentire del tutto; l'antica problematica del mito, si vedrà, è limitata da due dogmi che s'ignorano poi ché erano evidenti: nessuno puo mentire inizialmente o completamente poiché la conoscenza· non è che uno spec chio; e lo specchio si confonde con ciò che riflette cosi che il mezzo non si distingue dal messaggio. 76
Diversità sociale delle credenze Note 1 Filostrato, Immagini, l, 14, ( 1 5 ) , Arianna. Il tema della balia o della madre che raccontano favole risale a Platone, Repubblica, 3 78C e Leggi , 887D. Le balie raccontavano storie spaventose sulle Lamie o sui capelli del Sole, scrive Tertul liano, Ad Valentinianos, 3 . Per Platone, sono questi i racconti delle vecchie, Li side, 205D ; sono le Ani/es fabulae di cui parla Minucio Felice, XX, 4, che noi ab biamo dai nostri imperiti parentes XXIV, l . Nell'Eroica di Filostrato, il vignaiolo domanda all'autore: «Quando hai cominciato a trovare le favole incredibili?• e Filostrato o il suo portavoce, risponde: «Da molto tempo da quando ero adole scente; perché quando ero bambino, credevo a queste favole e la mia balia mi di vertiva con questi racconti, che accompagnava con una deliziosa canzone; alcune di queste favole, la facevano anche piangere; ma, diventato ragazzo, ho pensato che non bisognasse piu accettare alla leggera queste favole•, Heroikos, 136- 1 3 7 Kayser; p. 8, 3 d e Lannoy. Anche Quintiliano parla d i Ani/es /abulae (lnst. , l , 8, 19). Neii'Ippolito di Euripide, la balia compromette i dotti in questo caso: prima di riportare la favola di Semele, ella cita alcuni dotti che hanno letto dei libri ri guardo questa leggenda (45 1 ) . In un sorprendente epitaffio metrico di Chios (Kaibel, Epigrammata, 232) due vecchie «di una eccellente famiglia di Cos• rim piangono la luce: «Oh dolce Aurora, te per la quale abbiamo cantato alla luce della lampada, i miti dei semidei !». Può essere: in effetti, le canzoni che erano sulle bocche di tutti avevano per soggetto un mito: Orazio, Odi, l, 1 7 , 20. La bella Tindari canterà ad Orazio, nell'intimità, Penelopen vitramque Circen.
2 Sesto Empirico, Lineamenti di Pirromismo, l, 147.
' Dato che le bambine seguivano l'insegnamento del grammatico, ma si fer mavano prima di passare sotto la bacchetta del retore; aggiungo che le classi erano «miste•: bambine e bambini ascoltavano fianco a fianco il grammatico. Questo dettaglio, che sembra poco conosciuto, si legge presso Marziale, VIII, 3 , 15 e I X , 58, 2, e presso Sorano, Sulla malauia delle donne, cap. 92; cfr. Friedliin der, Siuengeschichte Roms, Leipzig, Hirzel, 1 9 1 9 9 , !, p. 409. La mitologia si im parava a scuola. 4 Sulle Lamie ed altri mangiabambini greci, cfr. soprattutto Strabone, l, 8, C. 19, in un capitolo del resto importante per lo studio degli atteggiamenti di fronte al mito. Su Amore e Psiche, O. Weinreich, Das Marchen von Amor und Psyche und Andere Volksmarchen im Altertum, nella nona edizione della Sittenge schichte Roms di Friedliinder, cit . , vol. IV, p. 89.
' Cosi povero che, sebbene non viva in autarchia, ignora l'uso della moneta e baratta il suo grano con un bue o una pecora, l, 129, 7 Kayser. Questo è plau sibile; cfr. J. Crawford in «]ournal of Roman Studies•, LX, 1970, sulla rarità delle scoperte monetarie nelle località non urbane. 6 Heroikos, IX, 1 4 1 , 6. Alle fonti del Cliturnno, i muri e le colonne del san tuario erano coperti da graffiti «che celebrano il Dio•, Plinio, Epistolario, VIII, 8 . Cfr. in Mitteis-Wilcken, Chrestomathie der Papyruskunde, Hildesheim, Olms, 1 963, una lettera di un certo Nearco (n. 1 1 7). Si conosce l'esistenza di simili graffiti di proscyneme in Egitto (per esempio, sulle pietre di un tempio, a T almis, A.D. Nock, Essays, Oxford, Clarendon Press, 1972, p. 358) . Il primo frammento dei Priapei (di cui si dispone anche di una copia epigrafica, Corpus inscriptionum latinarum, V, 2803 . . . a meno che non si tratti dell'originale) vi fa allusione: «Per poco che valgano i versi che seguono, che ho scritto a volontà sulle mura del tem pio, compiacciati di interpretarli in bene, te ne prego [o Priapo]•. 7 Sulla «disputa dei fantasmi• nel secondo secolo, cfr. Plinio, Epistolario, VII, 27; Luciano, Fi/opseude; Plutarco, Introduzione alla Vita di Dione.
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Diversità sociale delle creden�e 8
Su queste canzoni, cfr. nota l, ad finem. Aggiungere Euripide, Ione, 507.
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Aristotele, Poetica, IX, 8 . W . Jaeger, Paideia, Paris, Gallimard, 1 964, vol. I, p. 326. 1 0 È l'idea che si fa Trimalcione (Petronio, Satyricon, XXXIX, 3-4; XLVIII, 7 ; LII, 1-2). 1 1 E . Rohde, Der griechische Roman, Berlin, 1 876, pp . 24 e 99. 2 . 1 M Nilsson, Geschichte der griechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2, vol. II, p. 5 8 . 13
Polibio, X I I , 2 4 , 5 .
14 Diodoro, I , 3 . 1 5 Diodoro, III, 6 1 ; i libri I V e V I sono consacrati alle generazioni eroiche e divine della Grecia. La guerra di Troia figurava senza dubbio nel libro VII. Que sti primi libri di Diodoro, con il loro giro d'orizzonte geografico e l'enorme parte di mitico, danno un'idea di quello che furono i primi libri del Timeo. 1 6 Nel V, 4 1 -46, e nel frammento del VI libro conservato da Eusebio, Prepa ratio evangelica, Il, 59. H. Dorrie, Der Konigskult des Antiochos von Kommagene, in «Abhandlungen der Akademie Gottingen», III, 60 ( 1 964), p. 128, reputa che il romanzo di Evemero fosse un'utopia politica e uno specchio dei principi; dava il modello o la giustificazione del re Evergete. Può essere; comunque, la parte di meraviglioso e di pittoresco sorpassa di gran lunga quella delle allusioni politiche; del resto, tutta l'isola di Panchaia non obbediva ad un re: ci si trova anche una città, una specie di repubblica sacerdotale. Infatti, l'idea che gli dei sono degli uomini meritevoli che abbiamo divinizzato e che abbiamo preso per dei è dovun que e sorpassa largamente l'opera di Evemero, che si è limitato a prenderne una parte per scrivere un racconto. 17
Strabone, I, 2, 3 5 , p. 43C
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Diodoro, IV, l, l .
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l 9 Diodoro, IV, 8. Nella Preparatio evangelica, nel libro Il, Eusebio cita lun gamente le mitografie di Diodoro su Cadmo o Eracle. 2 0 Verso il 1 873, Nietzsche scriveva: «A quale libertà poetica non erano ahi· tuati i Greci con i loro dei ! Noi abbiamo preso troppo l'abitudine di paragonare la verità e la non-verità; quando si pensa che bisogna assolutamente che i miti cristiani si credano storicamente autentici! [ . ]. L'uomo esige la verità e l'ap· porta (Leistet sie) nel commercio etico con altri uomini; tutta la vita collettiva poggia qui sopra: si anticipano gli effetti nefasti delle menzogne reciproche; è da qui che nasce il dovere di dire il vero . Ma si permettono le menzogne al narra tore epico, dato che lf non c'è da temere nessuna conseguenza nociva; dunque la menzogna è permessa, là dove procura dell' approvaziope: bellezza e grazia della menzogna, ma a condizione che non faccia del male! E cosi che i sacerdoti inventano i miti dei loro dei : la menzogna serve a provare che gli dei sono su blimi. Noi abbiamo molte difficoltà a rivivere il sentimento mitico della libertà di mentire; i grandi filosofi greci vivevano ancora interamente con questo diritto alla menzogna (Berechtigung �ur Liige) . La ricerca della verità è un'acquisizione che l'umanità ha fatto con estrema lentezza». Philosophenbuch, 44 e 70, al vo lume X dell'edizione Kroner. . .
21 Dione Cassio, LXXIX, 1 8 , trovandosi in Asia, è stato nel 22 1 il piu vicino testimone dell'avvenimento che segue, al quale crede senza riserve: «un daimon che dice di essere il famoso Alessandro di Macedonia, che gli rassomigliava di faccia, ed era equipaggiato come lui, spuntò dalle regioni danubiane, dove era ap parso non so come; traversò la Mesia (?) e la Tracia, comportandosi come Dio78
Diversità sociale delle credenze niso, con quattrocento uomini, muniti del tirso e di un nebris, che non facevano del male a nessuno». La gente si prodigò, governatori e procuratori in testa; «Si trasportò [o: «gli si fece un corteo»] firio a Bisanzio, di giorno, cosi come l'a veva annunciato, poi lasciò questa città per Calcedonia; là compi un rito not turno, sotterrò un cavallo di legno e disparve». 22 Plauto, Mercator, 487, commentato da E . Fraenkel, Elementi Plautini in P/auto, Firenze, La Nuova Italia, 1 960, p. 74. 2 3 Cicerone, Tuscolanae, l, 4 1 , 98. 2 4 V arrone, citato da Censorino, De die Natali, 21 (Jahn, p. 62) . 2 5 Cicerone, De natura deorum, III, 5, 1 1 . Nell'Arte di amare, l, 637, Ovidio confessa che crede agli dei solo con esitazione e riserva, dr. Herman Friinkel, Ovid, ein Dichter zwischen zwei Welten, Darmstadt, Wiss . Buchg . , 1 974, p. 98 e n. 65 , p. 194. Filemone aveva scritto: «Abbi degli dei e professa per loro un culto, ma non ti chiedere nulla su di loro; la tua ricerca non ti porterà niente di piu; non voler sapere se esistono o no; adorali come se esistessero e come molto vicini a te», frammento 1 1 8 AB Kock, di S tobeo, Il, l, 5. Cfr. già Aristofane, Cavalieri, 32. Per l'amicizia di Teseo e di Piritoo come fabula ficta, cfr. il De fini bus, l, 20, 64. 26 Cicerone, De re publica, 2, 4 e lO, 1 8 . Si è creduto alla storicità di Romolo fino in pieno diciannovesimo secolo, ma per altre ragioni da quelle di Cicerone, come si vedrà: Cicerone crede a Romolo, fondatore di Roma perché il mito con tiene un nocciolo storico (non ci sono fumate senza fuoco) e che la storia è la po litica del passato; Bossuet crede a Romolo e a Ercole per rispetto ai testi, che di stingue male dalla realtà. 27 Menandro di Laodicea, Trattato sugli encomi (Rhetores Graeci, vol. III, p. 359, 9 Spengel). 2 8 Isocrate, Demonico, 50. 29 Diodoro, IV l , 2 . 30 Cfr. per esempio Politica, 1284A: > vero pen siero di questa gente ed è ugualmente inutile voler risolvere la contraddittorietà di questi pensieri attribuendone uno alla religione popolare e l'altro alla classe sociale privile giata. I fedeli non consideravano il loro potentissimo si gnore come un uomo ordinario e l'iperbole ufficiale che fa ceva di questo mortale un dio era vera nello spirito: essa corrispondeva alla loro devozione filiale e, trascinati da questo verbalismo, essi provavano ancora piu forte questo sentimento di dipendenza; la mancanza di ex-voto, tuttavia, dimostra che essi non prendevano alla lettera l'iperbole. Essi sapevano anche che il loro sublime maestro era allo stesso tempo un pover'uomo come a Versailles si adorava Luigi XIV e si spettegolava sulle sue mediocri avventure. G. Posener ha chiarito come, nei racconti popolari dell'an tico Egitto, il faraone fosse ormai solo un despota banale e a volte ridicolo. Ciò non impedisce che, in questo stesso Egitto, gli intellettuali ed i teologi abbiano elaborato una teologia faraonica in cui il faraone non è divinizzato attra verso una semplice iperbole o slittamento m.etonimico; que sta dottrina fu «una scoperta intellettuale, frutto di ragio namenti metafisici e teologici», scrive François Daumas, che la qualifica, in un'espressione contraddittoria ed inge gnosa, come realtà verbale; perché no? I testi costituzionali del diciannovesimo e ventesimo secolo, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo o il marxismo ufficiale sono altrettanto 123
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
reali ed altrettanto verbali. In Grecia e a Roma, al contra rio, la divinità degli imperatori non è mai stata oggetto di una dottrina ufficiale e lo scetticismo di Pausania era nor male presso gli intellettuali o presso gli stessi imperatori, che erano spesso i primi a ridere della propria divinità. Tutto questo è storia, poiché miti, apoteosi o Dichiara zione dei diritti, immaginari o non, rappresentarono co munque forze storiche, ed anche perché un mondo immagi nario in cui gli dei possono essere uomini e sollo maschi o femmine è datato: è anteriore al cristianesimo. E storia an che per una terza ragione: poiché queste verità non sono al tro che il mascheramento di forze, esistono su un piano pratico e non teorico; quando gli uomini dipendono da un uomo molto potente, lo sperimentano come uomo e vedono in lui un semplice mortale, secondo l'ottica del cameriere, ma lo sperimentano anche come loro padrone e lo vedono dunque nello stesso tempo come un dio. La molteplicità delle verità, paradossale per la logica, è la conseguenza nor male della molteplicità di forze. L'uomo debole, il «roseau pensant» di Pasca!, nella sua umiltà, si inorgoglisce di op porre la sua fragile e pura verità alle forze brute, dal mo mento che questa verità è essa stessa una di queste forze; il pensiero appartiene al rnonismo infinitamente pluralizzato della volontà di potere. Forze di ogni genere: potere poli ' tico, autorità culturale, socializzazione ed addestramento. Ed è proprio perché il pensiero è una forza che esso non si distingue dalla pratica come l'anima si distingue dal corpo: ne fa parte; Marx ha parlato di ideologia per sottolineare che il pensiero era azione e non semplice teoria ma, mate rialista alla vecchia maniera, egli ha riattaccato l'anima al corpo, invece di non distinguerla per niente da esso e di la vorare sulla pratica in blocco; il che ha obbligato gli storici ad esercizi dialettici (l'anima reagisce sul corpo) per ripa rare a questo disordine. La verità è balcanizzata da forze e bloccata da forze. L'adorazione e l' amore per il sovrano sono tentativi impor tanti di riacquistare il sopravvento sulla sottomissione : «se io lo arno, egli non può volermi male». (Un amico tedesco mi ha raccontato che suo padre aveva votato per Hitler, per 124
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rassicurarsi: dato che io voto per lui, ebreo come sono, vuoi dire che in fondo egli pensa come me.) E , se l'imperatore si faceva o, piu spesso, si lasciava adorare, questo serviva come «monito minaccioso»: dal momento che egli è degno d' adorazione, nessuno si azzardi a contestare la sua auto rità. I teologi egiziani, che hanno elaborato tutta un'ideolo gia del re-dio, dovevano certamente avere un interesse a farlo, se non altro quello di fabbricare un romanzo esal tante. Sotto l' Ancien Régime si credeva, si voleva credere, alla bontà del re mentre tutto il male proveniva solo dai suoi ministri; altrimenti, non vi sarebbe stata piu alcuna speranza, poiché non si poteva sperare di cacciare il re come si può cacciare un semplice ministro. Come potete ve dere, la causalità è sempre attiva anche presso le cause pre sunte: il padrone non cerca di inculcare un'ideologia allo schiavo, gli basta farsi vedere piu potente di lui; lo schiavo farà quello che potrà per reagire, creandosi una verità im maginaria. Lo schiavo fa ciò che Leon Festinger, psicologo istruttivo, perché nato scaltro, chiama una riduzione della dissonanza. Psicologia, in effetti, poiché spesso la contraddizione dei comportamenti diventa manifesta e tradisce gli sposta menti delle forze che agiscono al di sotto; affiorano il senso di colpa e la malafede o il farisaismo; la vita quotidiana ne è piena e tutta una psicologia aneddotica ci permetterà di concludere piu velocemente in tono minore. Poiché le forze sono la verità delle verità, noi sappiamo solo ciò che ci è permesso sapere: noi ignoriamo sinceramente quello che non abbiamo il diritto di conoscere. «Non confessare mai», consigliava Proust all'autore di Corydon; cosi nessuno ve drà l'evidenza, poiché la giustizia dei salotti accetta solo le confessioni e condanna chi si fa inquisitore dei suoi pari. Nello stesso modo i mariti ingannati sono ciechi poiché essi non hanno il diritto di sospettare la loro moglie senza indizi di prova; non resta loro che ignorare, fino a quando un fatto capita sotto i loro occhi. Ma ignorano troppo: li si sente tacere. Nel Tristano del . vecchio Béroul, c'è un episodio che la scia perplessi. lsotta ha lasciato il re Marco ed è fuggita con 125
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Tristano nella foresta. Dopo tre anni i due amanti si sve gliano un mattino senza provare piu niente l'uno per l'al tro: il filtro d'amore, nei cui effetti eterni Béroul non crede, ha esaurito il suo potere; Tristano decide che la cosa piu saggia da fare è che Isotta ritorni da suo marito. Egli la restituisce dunque a Marco, sfidando a duello d' ordalia chiunque affermi che egli abbia mai toccato Isotta; nessuno accetta la sfida e l'innocenza della regina appare incontesta bile. Che ne pensava Béroul o il suo pubblico? Niente qui può sostituire il testo ed il suo profondo candore. Béroul è convinto che, come amante geloso, Marco sa peva tutto, ma che, come marito e re, non aveva il diritto di sapere. In Marco ed in Béroul, questo conflitto si svolge nella coscienza o meglio ad un livello situato appena al di sotto della coscienza, dove noi sappiamo molto bene di cosa non dobbiamo diventare coscienti: mariti ingannati o geni tori ciechi vedono arrivare da molto lontano ciò che non devono vedere ed il tono di voce furioso ed angosciato con cui preparano veloci una scenata non lascia alcun dubbio sulla loro lucidità inconscia. Da questa cecità alla malafede ed al vaniloquio dei salamelecchi tutti i gradi psicologici sono concepibili; accadeva lo stesso presso i greci in materia · di miti, a cominciare da Isocrate : Platone tradisce un senso di disagio quando, nel libro VII delle Leggi , dice di avere due ragioni per credere che le donne siano adatte al me stiere della guerra: «Da una parte, io credo in un mito che si racconta», quello delle Amazzoni, «e dall'altra, io so (poi ché questo è il termine) che, ai giorni nostri», le donne della tribu dei Sauromati praticano il tiro con l' arco. Detto ciò, gli aneddoti psicologici sono una cosa e l'immagina zione creativa è un'altra: nonostante il suo senso di colpa, o proprio a causa di questo, Platone non getta alle ortiche i miti ma ricerca il loro indubitabile nocciolo di verità, poi ché egli era prigioniero di questo programma, ed insieme a lui tutti i suoi contemporanei. Il fatto è che noi sappiamo (o crediamo, è lo stesso) solo ciò che abbiamo diritto di sapere: la chiarezza è prigioniera di questo rapporto di forza, che si scambia facilmente per superiorità di competenze. Da qui un certo numero di casi 126
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tipo. Abbiamo già visto come è importante sapere che le opi nioni sono divise e questo porta alla balcanizzazione di ogni cervello; a meno che non si voglia coltivare la mancanza di rispetto come metodo di ricerca, non si può condannare con due parole ciò che molti credono, né si può, di colpo, condannarlo completamente neanche nel pensiero: ci si crede un po' noi stessi. Nello stesso modo è importante sa pere che si può sapere; Raymond Ruyer ha scritto da qualche parte che i russi per fabbricare a loro volta la bomba ato mica non avevano assolutamente bisogno di spiare gli ame ricani; bastava loro sapere che era possibile fabbricarne una, ciò che sapevano da quando sapevano che gli ameri cani l'avevano fatto. In questo consiste tutta la superiorità degli «eredi» culturali; lo si vede per contrasto nel caso de gli autodidatti: ciò che è decisivo per questi non sta nel fatto che si indichino loro buoni libri, ma che essi vengano loro indicati da autodidatti come loro; essi riterranno allora possibile capire questi libri, dato che i loro simili li hanno capiti. Un erede è qualcuno che sa che non ci sono misteri: egli si ritiene in grado di fare quello che i suoi antenati sono riusciti a fare e, se vi fossero stati dei misteri, i suoi antenati avrebbero avuto accesso ad essi. Poiché è fonda mentale sapere che altri sanno o, al contrario, sapere che non c'è nient'altro da sapere e che, al di fuori del piccolo am bito di conoscenza che si possiede, non esiste una zona mi nata dove solo altri, piu competenti, possono avventurarsi; se si crede che esistono anche misteri che solo altri cono scono, la ricerca e l'invenzione sono paralizzati: non si osa fare un passo da soli. In una visione ottimistica delle cose, la distribuzione sociale del sapere (nessuno sa tutto ed ognuno beneficia della competenza degli altri) porta ad effetti neutri e bene fici come lo scambio dei beni sul mercato ideale degli eco nomisti; cosa c'è di piu innocente, di piu disinteressato, della coqoscenza della verità? Essa è l'opposto dei rapporti brutali. E vero che c'è competenza e competenza; nel libro IV delle Leggi, questa volta Platone oppone il sapere servile dello schiavo del medico, che applica senza capirli i proce dimenti che gli ha insegnato il suo maestro, alla vera com127
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
petenza dell'uomo libero, il medico, che conosce il perché di questi procedimenti e che, avend