JAMES PATTERSON & HOWARD ROUGHAN HONEYMOON (Honeymoon, 2005) A Suzie e Jack con affetto, Jim A Christine, mia bellissima...
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JAMES PATTERSON & HOWARD ROUGHAN HONEYMOON (Honeymoon, 2005) A Suzie e Jack con affetto, Jim A Christine, mia bellissima sposa con affetto, Howard PROLOGO CHE COS'È SUCCESSO? CHI È STATO? Non sempre le cose sono come sembrano. Un attimo fa stavo benissimo. Adesso sono piegato in due e mi tengo lo stomaco, in preda a dolori atroci. Che cosa diavolo mi sta succedendo? Non ne ho la più pallida idea. So solo quello che sento, e non riesco a crederci. È come se mi si stesse staccando la parete interna dello stomaco, bruciata da qualche prodotto corrosivo. Urlo e gemo ma, più che altro, prego. Prego che mi passi. Invece non accade. Anzi, il bruciore aumenta, si forma un'ulcera, da cui comincia a uscire bile, che gocciola sfrigolando sulle mie budella. Sento nell'aria l'odore della mia stessa carne che si scioglie. Sto morendo. Ma no. È molto peggio che morire. Qualcosa mi sta scorticando vivo, dall'interno. Ed è solo l'inizio. Come un fuoco d'artificio, il dolore schizza verso l'alto e mi esplode in gola. Annaspo. Non riesco più a respirare. Poi crollo. Le braccia inerti non riescono a parare il colpo e vado a picchiare con la faccia sul pavimento di legno. Da sopra il sopracciglio destro cola un rivolo di sangue denso, rosso scuro. Sbatto gli occhi. Il taglio è niente, rispetto al resto. Il fatto di aver bisogno di una decina di punti è l'ultimo dei miei problemi, al momento. Il dolore aumenta, si espande. Mi esce dal naso, dalle orecchie, arriva agli occhi, dove mi sento scop-
piare i capillari come bolle di plastica da imballaggio. Provo ad alzarmi. Niente da fare. Quando finalmente ci riesco, tento di correre, ma mi accorgo di avere le gambe di piombo. Muovo qualche passo, barcollando. Il bagno è a tre metri da me, ma mi sembrano tre chilometri. Non so come, ci arrivo. Entro e chiudo a chiave la porta. Mi tremano le ginocchia e stramazzo di nuovo a terra, battendo la guancia sulle mattonelle gelate. Sento un crac che mi fa accapponare la pelle. Un molare mi si spacca in due. Vedo la tazza ma, come tutto il resto, si muove, mi gira intorno. Mi sporgo verso il lavabo, annaspando, e cerco di sorreggermi. Inutile. Il mio corpo è scosso da un tremito, come se avessi preso una scossa da mille volt. Provo a strisciare carponi. Adesso il dolore è ovunque, persino nelle unghie che conficco nel cemento tra una mattonella e l'altra cercando disperatamente di avanzare verso la tazza del gabinetto. Finalmente la abbraccio, sollevo la testa oltre il bordo. Per una frazione di secondo mi si apre la gola e riesco a prendere fiato, poi ho il primo conato, tutti i muscoli del torace si contraggono e si lacerano, a uno a uno, come se qualcuno mi stesse prendendo a rasoiate. Bussano alla porta. Giro velocemente la testa. Continuano a picchiare, sempre più forte. Se fosse la morte che viene a liberarmi da questo strazio... Ma non lo è - non ancora, perlomeno - e allora mi rendo conto che, se non so che cos'è che mi sta ammazzando stasera, di sicuro so chi è stato. PARTE PRIMA COPPIE PERFETTE 1 Nora si sentiva addosso gli occhi di Connor. La osservava sempre, quando faceva i bagagli per uno dei suoi viaggi, appoggiato allo stipite della porta della camera da letto, con le mani nelle tasche dei Dockers e il viso imbronciato. Detestava stare lontano da lei. Di solito non diceva niente. La guardava in silenzio, dall'alto del suo metro e novanta di statura, mentre lei preparava la valigia bevendo ogni tanto un sorso di Evian, la sua acqua minerale preferita. Quel pomeriggio, però,
non riuscì a trattenersi. «Non partire», le disse con la sua voce profonda. Nora si voltò a guardarlo con un sorriso affettuoso. «Devo andare, lo sai. E sai che dispiace anche a me.» «Sì, ma ho nostalgia di te prima ancora che tu sia partita. Per una volta di' di no, Nora. Mandali a quel paese.» Fin dal primo giorno Nora era rimasta conquistata dal fatto che Connor osasse mostrarsi tanto vulnerabile con lei, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati da un personaggio del suo calibro. Connor era un investment banker molto ricco e aggressivo, titolare di una società di Greenwich con un ufficio anche a Londra. I suoi occhi da cucciolo contrastavano con la corporatura imponente e l'aria possente e fiera da re della foresta. Pur essendo relativamente giovane - aveva quarant'anni -, Connor dominava incontrastato sul suo regno. E in Nora, trentatreenne, aveva trovato la sua regina, l'anima gemella con cui condividere l'esistenza. «Sai che potrei legarti e impedirti di partire», le disse in tono scherzoso. «Sarebbe divertente», rispose lei, stando al gioco. Sollevò il coperchio della valigia, aperta sul letto, in cerca di qualcosa. «Prima, però, mi aiuti a trovare il cardigan verde, per favore?» Connor sorrise. Nora riusciva sempre a divertirlo: aveva la risposta pronta in ogni occasione. «Quello con i bottoni di perle? È nell'armadio in camera mia.» Nora rise. «Hai giocato di nuovo a travestirti da donna?» Andò a prendere il cardigan nella stanza accanto e, quando tornò, trovò Connor ai piedi del letto. La guardava sorridendo, con gli occhi che brillavano. «Oh oh», disse lei. «Conosco quello sguardo.» «Quale?» «Quello che dice che vuoi un regalino d'addio.» Nora lasciò passare un attimo prima di sorridere a sua volta. Mise il cardigan nella valigia e si avvicinò lentamente all'uomo fermandosi a pochi centimetri da lui. Indosso aveva solo slip e reggiseno. «Un regalino tutto per te», gli bisbigliò nell'orecchio. Connor la baciò sul collo, poi scese con le labbra fino a lambirle le spalle e il seno, piccolo ma sodo, e vi indugiò. Mentre con una mano le accarezzava un braccio, con l'altra le slacciò il reggiseno. Nora rabbrividì, eccitata. Bello, spiritoso e bravissimo a letto. Che cosa si può volere di più da un uomo?
Connor si inginocchiò e le sfiorò il ventre con le labbra, tracciando con la lingua cerchi leggeri intorno all'ombelico. Le posò i pollici sui fianchi e cominciò ad abbassarle gli slip, baciando ogni centimetro di pelle che scopriva. «Molto... piacevole», mormorò Nora. A quel punto toccava a lei. Connor si alzò e lei cominciò a spogliarlo. Con gesti rapidi, esperti, ma sensuali. Era alto e muscoloso. Per qualche secondo rimasero in piedi l'uno di fronte all'altra, nudi, a guardarsi, a osservare ogni dettaglio. Mio Dio, che cosa può esserci di meglio? Nora scoppiò a ridere e lo spinse con dolcezza sul letto. Connor, eccitato, si lasciò cadere sul piumone. Lei prese dalla valigia aperta una cintura di pelle nera, di Ferragamo, e la srotolò tendendola con forza. «Chi ha parlato di legare chi?» chiese. 2 Mezz'ora dopo, avvolta in una morbida vestaglia di ciniglia rosa, Nora scese lo scalone della villa in stile neoclassico di Connor. Mille metri quadrati, suddivisi su tre piani: una casa di gran lusso perfino per gli standard di Briarcliff Manor e delle altre sofisticate località della contea di Westchester. Ed era arredata in maniera impeccabile, con un perfetto equilibrio fra design e funzionalità, eleganza e comfort. C'erano pezzi provenienti dai migliori negozi di antiquariato di New York e del Connecticut - Eleish Van Breems, New Canaan Antiques, Silk Purse, The Cellar -, opere di Monet, di Thomas Cole, fondatore della Hudson River School, e di Magritte; in biblioteca c'erano persino uno scrittoio Giorgio III che era appartenuto a J.P. Morgan e un humidor per sigari che Richard Nixon aveva regalato a Fidel Castro, con tanto di attestazione di provenienza. Nella spaziosa cantina erano conservate quattromila bottiglie di vino. Vero è che Connor aveva assoldato una delle migliori arredatoci di New York. Appena conosciuta, gli aveva fatto un'ottima impressione. Tant'è che l'aveva invitata a cena fuori e, a sei mesi di distanza, le permetteva di legarlo al letto. Connor non si era mai sentito così felice, eccitato e pieno di vita. Cinque anni prima aveva trovato l'amore, se n'era rallegrato e lo aveva coltivato con cura, ma la sua fidanzata, Moira, era morta di cancro. Pensa-
va di non potersi innamorare mai più, invece era arrivata lei, la splendida Nora Sinclair. Nora attraversò l'atrio dal pavimento di marmo e superò la sala da pranzo. Prima di partire le restava giusto il tempo di preparare qualcosa da mangiare per Connor. Entrò in cucina, la sua stanza preferita. Prima di iscriversi alla New York School of Interior Design sognava di fare la cuoca e aveva addirittura frequentato alcuni corsi al Cordon Bleu a Parigi. Poi aveva deciso di dedicarsi all'allestimento di case di lusso, anziché di pietanze sopraffine, ma cucinare aveva continuato a essere una delle sue passioni. La trovava un'attività rilassante, che la aiutava a liberare la mente, anche quando si trattava di preparare qualcosa di semplice, come il piatto preferito di Connor: doppio cheeseburger con cipolle e caviale. Un quarto d'ora dopo lo chiamò. «Tesoro, è quasi pronto. Tu a che punto sei?» In pantaloncini corti e polo, Connor scese al pianterreno e si avvicinò a Nora da dietro. «Non c'è un altro posto al mondo...» «... in cui preferirei essere», disse Nora, concludendo la frase per lui. Era una delle loro piccole usanze, una sorta di mantra con cui esprimevano la gioia di stare insieme. Dati gli impegni lavorativi di entrambi, il tempo che passavano l'uno in compagnia dell'altra era sempre poco. Connor allungò il collo per curiosare da dietro le spalle di Nora, intenta ad affettare una grossa cipolla. «Non ti fa piangere?» «No.» Lui andò a sedersi al tavolo. «Quando ti viene a prendere l'autista?» «Tra meno di un'ora.» Connor annuì, spostando leggermente il tovagliolo. «E dove sta questo tuo cliente che ti costringe a lavorare di domenica?» «A Boston. È un tizio in pensione che ha appena comprato e ristrutturato un enorme edificio nella Back Bay.» Nora tagliò a metà un panino con semi di papavero e vi sistemò il doppio cheeseburger appena cotto e le cipolle. Poi prese dal frigo una Amstel Light per Connor e un'altra Evian per sé. «Meglio di Smith & Wollensky», commentò lui dopo il primo boccone. «E la cuoca è molto più affascinante, vorrei precisare.» Nora sorrise. «E per concludere in bellezza c'è del Graeter's al lampone.» Era il miglior gelato che lei avesse mai assaggiato. Una vera specialità. Nora bevve un sorso d'acqua e lo guardò trangugiare il panino. Connor
mangiava sempre in fretta, con appetito. Buon per lui. «Ti amo, Nora», esclamò a un certo punto. «Anch'io», rispose lei fissandolo negli occhi azzurri. «Anzi, ti adoro.» Lui aprì le mani, con la palma rivolta verso l'alto. «Che cosa aspettiamo, allora?» «In che senso?» «Be', intendo dire, ci sono già più vestiti tuoi che miei, in questa casa.» Nora sbatté le palpebre. «Vorrebbe essere una proposta di matrimonio, questa?» «Lo è», ribatté lui. Prese dalla tasca una piccola scatola azzurra di Tiffany e gliela porse con un inchino. «Nora Sinclair, tu mi rendi indicibilmente felice. Non riesco a credere di averti incontrato. Vuoi sposarmi?» Senza fiato, Nora aprì la confezione. Alla vista dell'enorme diamante, gli occhi verdi le si riempirono di lacrime. «Sì! Certo che ti voglio sposare!» esclamò. «Sì, Connor Brown, ti amo!» Per festeggiare, stapparono una bottiglia di Dom Pérignon dell'85. Connor l'aveva messa in fresco per l'occasione. E si era comprato anche una bottiglia di Jack Daniel's, nel caso Nora gli avesse detto di no. Riempiti due calici, Connor alzò il proprio e fece un brindisi. «Alla nostra felicità, ora e per sempre.» «Alla nostra felicità, ora e per sempre», ripeté lei. «Evviva!» Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero un sorso di champagne, tenendosi per mano. Follemente innamorati, entusiasti, si baciarono e abbracciarono. Ben presto, però, furono interrotti dal suono di un clacson davanti al portone. L'autista di Nora era arrivato. Pochi minuti dopo, mentre la limousine si allontanava, Nora si sporse dal finestrino e gridò a Connor: «Sono la donna più fortunata del mondo!» 3 Nora non riuscì a staccare gli occhi dall'anello scintillante per tutto il viaggio fino all'aeroporto di Westchester. Connor aveva scelto bene. Un diamante tondo, di almeno quattro carati, colore D o E come minimo, e altri due tagliati a baguette ai lati, montati in platino. Al dito le stava benissimo. È assolutamente perfetto. «Desidera che la venga a prendere al ritorno, signorina Sinclair?» chiese lo chauffeur aiutandola a scendere dalla Lincoln davanti al terminal. «No, non occorre. Grazie.» Gli diede una mancia generosa, allungò il
manico del trolley e si avviò. Superò la fila lunghissima di passeggeri in attesa del check-in in classe economica e andò dritta al bancone della prima classe. A ogni passo le pareva di sentire la voce di Connor che intonava un altro dei loro mantra. «La comodità...» diceva. «... non ha prezzo», concludeva lei. Il decollo filò liscio e, quando l'aereo ebbe raggiunto la quota di crociera, Nora alzò finalmente gli occhi dall'anello di fidanzamento e aprì l'ultimo numero di House & Garden. C'era un articolo con un bel servizio fotografico sulla casa che aveva arredato per un suo cliente a Darien, nel Connecticut. Le foto erano splendide e i commenti molto lusinghieri. Mancava solo una cosa: il suo nome. Esattamente come voleva lei. Un'ora più tardi, l'aereo atterrò all'aeroporto di Boston. Nora ritirò la Chrysler Sebring decappottabile che aveva prenotato e, con il tettuccio abbassato e gli occhiali da sole sul naso, si diresse verso il quartiere di Back Bay. Le stazioni memorizzate sull'autoradio la convinsero di due cose. Primo, che nella città dei famosi baked beans c'erano troppi canali culturali. Secondo, che chi aveva noleggiato quella macchina prima di lei aveva scelto il modello sbagliato. Su una decappottabile non ci vuole cultura, ma musica. Premette il tasto della selezione automatica e trovò una canzone di suo gusto, I Only Have Eyes For You dei Flamingos. Capelli al vento, godendosi il sole caldo di metà giugno sulla pelle già abbronzata, si mise a cantare. Poco dopo arrivò in Commonwealth Avenue, a due passi dai giardini pubblici. Nella relativa calma di una domenica pomeriggio d'estate, ebbe un piccolo colpo di fortuna: un parcheggio proprio davanti al portone della casa. «Perfetto», commentò. Tirò il freno a mano e indugiò un attimo a sistemarsi i capelli. Fermaglio sì, fermaglio no? Decise per il sì. Prima di scendere lanciò un'occhiata all'orologio. Era tempo di entrare in scena. 4 Nora si diresse verso il grande portone a due battenti, frugando nella borsa. Quando l'aveva incaricata di arredare la casa, Jeffrey Walker aveva
preferito darle le chiavi in modo che potesse entrare liberamente, visto che la villa era così grande e il citofono un po' capriccioso. Che pensiero gentile! «Salve! C'è nessuno?» gridò varcando la soglia. «Signor Walker, è in casa?» Si fermò in mezzo all'atrio, in silenzio, e udì riecheggiare in lontananza le note della straordinaria tromba di Miles Davis. Provenivano dal piano di sopra. Chiamò di nuovo e questa volta sentì dei passi. «Nora, sei tu?» disse una voce in cima alle scale. «Aspettavi qualcun altro?» replicò lei. «Attento, sai...» Jeffrey Walker scese di corsa nell'atrio, la abbracciò, la sollevò da terra e la fece volteggiare. Poi si fermò e le diede un lunghissimo bacio. «Mio Dio, quanto sei bella!» esclamò, posandola di nuovo a terra. Nora gli diede un pugno amichevole nello stomaco con la sinistra. Il diamante da quattro carati di Connor era già stato sostituito dallo zaffiro da sei carati, affiancato da due brillanti, regalatole da Jeffrey. «Scommetto che lo dici a tutte le tue mogli.» «No, solo a quelle affascinanti come te. Quanto mi sei mancata, Nora! Del resto, come si può non avere nostalgia di una donna così?» Risero e si baciarono di nuovo appassionatamente. «Su, raccontami com'è andato il viaggio», continuò Jeffrey. «Bene, per essere un volo di linea. Come va il nuovo romanzo?» «Non è certo Guerra e pace. Né Il codice Da Vinci.» «Dici sempre così, Jeffrey.» «Perché è vero.» Grazie ai suoi best-seller storici, il quarantaduenne Jeffrey Sage Walker godeva di fama internazionale e aveva milioni di lettori affezionati. Il suo pubblico era prevalentemente composto da donne, che apprezzavano il suo stile e i suoi personaggi femminili forti, ma anche il suo fascino. Sul retro di copertina Jeffrey Sage Walker appariva biondissimo, un po' spettinato e con la barba di un giorno, bello da morire. Prese in braccio Nora, se la caricò in spalla e si avviò verso le scale. Nora urlò. Jeffrey era diretto verso la camera da letto, ma lei si aggrappò allo stipite di una porta e lo costrinse a entrare nella biblioteca. Con lo sguardo fisso sulla sedia preferita di Jeffrey - quella che usava quando scriveva - disse: «Hai sempre sostenuto che le cose migliori le fai stando seduto qui. Vediamo se è vero».
Lui la depose sul cuscino di pelle marrone un po' consunto e accese lo stereo. Nora Jones, una delle loro cantanti preferite. Mentre la voce calda e leggermente roca della cantante si alzava a poco a poco, riempiendo la stanza, Nora si appoggiò all'indietro e sollevò le gambe. Jeffrey le tolse i sandali, i pantaloni alla pescatora e gli slip. Poi la aiutò a sfilarsi il cardigan verde, mentre lei gli sbottonava i jeans. «Il mio marito bello e intellettuale», mormorò, abbassandogli i calzoni. 5 Quella sera Nora cucinò penne con una salsa alla vodka preparata al momento. Un'insalata mista e una bottiglia di Brunello della cantina privata di Jeffrey, e la cena era servita. Tutto esattamente come piaceva a lui, Mangiarono e parlarono del nuovo romanzo, ambientato all'epoca della Rivoluzione francese. Jeffrey era tornato da Parigi pochi giorni prima. Teneva molto alla fedeltà della ricostruzione e faceva sempre approfonditi sopralluoghi prima di iniziare a scrivere. Così, dal momento che anche Nora aveva molti impegni, passavano più tempo separati che insieme. Si erano sposati un sabato a Cuernavaca, in Messico, ed erano tornati a casa la domenica. Nessuna cerimonia, nessuna formalità, nessun documento: un matrimonio molto moderno, insomma. «Sai, Nora, pensavo che dovremmo proprio fare un viaggio insieme», disse Jeffrey mentre prendeva l'ultima forchettata di penne. «Non siamo neppure ancora andati in luna di miele!» Lui si mise una mano sul cuore e sorrise. «Amore mio, ogni giorno che passo con te è una luna di miele.» Nora gli sorrise a sua volta. «Grazie del complimento, caro il mio Autore Famoso, ma non credere di potertela cavare così.» «Okay. Dove ti piacerebbe andare?» «Che ne dici del Sud della Francia?» propose Nora. «Potremmo alloggiare all'hotel du Cap.» «Perché non in Italia? In Toscana?» chiese lui sollevando il bicchiere del vino. «Ehi, ora che ci penso: perché non facciamo Francia e Italia?» Jeffrey rovesciò la testa all'indietro ed emise una risata fragorosa. «Sei sempre incontentabile. Ma, in fondo, perché no?» Finirono di cenare parlando di altre possibili mete per la luna di miele: Madrid, Bali, Vienna, le Hawaii. L'unica cosa che decisero, arrivati al ge-
lato - un mastellino di Ben & Jerry's Cherry Garcia - fu di farsi aiutare da un'agenzia di viaggi. Alle undici erano a letto. Marito e moglie. Innamoratissimi. 6 L'indomani, poco dopo mezzogiorno, all'angolo tra 42nd Street e Park Avenue, di fronte alla Grand Central Station, una donna lanciò un urlo. Un'altra si voltò a guardare che cos'era successo e gridò a sua volta. Un uomo accanto a loro mormorò: «Cristo!» Poi tutti corsero via. Stava succedendo qualcosa - un attentato, forse? - davanti a una delle stazioni ferroviarie più famose del mondo. Scoppiò il panico e, nella confusione, il marciapiede si svuotò in un attimo. Rimasero solo tre persone. La prima era un uomo grasso con folte basette, capelli radi e baffi scuri, che indossava un completo marrone fuori moda, con la giacca dai risvolti larghi, e una cravatta blu ancora più larga. Ai suoi piedi c'era una valigia di media grandezza. La seconda era una ragazza carina, probabilmente sui venticinque anni, con il viso lentigginoso e i capelli rossi lunghi fino alle spalle; indossava una minigonna scozzese e una canottiera bianca, e aveva uno zainetto a tracolla. Il grassone e la ragazza non avevano praticamente nulla in comune, ma in quel momento c'era qualcosa di molto importante fra loro. Una pistola. «Se ti avvicini, la ammazzo!» gridò il grassone con un forte accento mediorientale, premendo la canna della pistola sulla tempia della ragazza. «Giuro che la faccio secca. Non è un problema per me.» Il destinatario di quelle parole era la terza persona rimasta sul marciapiede: un uomo fermo a circa tre metri di distanza, con un paio di pantaloni militari grigi e una T-shirt nera, che sembrava un normalissimo turista. Magari uno della West Coast, che veniva dall'Oregon o dallo Stato di Washington. Uno abituato a fare sport, a correre. Atletico, in forma. Anche lui tirò fuori una pistola. Fece un passo in avanti e la puntò contro il grassone con i baffi. Esattamente in mezzo agli occhi, come se il fatto che sulla sua traiettoria ci fosse la ragazza non lo turbasse minimamente. «Nemmeno per me è un problema, se muore», disse.
«Fermo!» gridò il grassone. «Non ti avvicinare. Resta dove sei.» Il Turista lo ignorò e compì un altro passo. «Giuro che le sparo, cazzo!» «Non credo proprio», replicò con calma il Turista. «Perché, se le spari, io sparo a te.» Fece un altro passo avanti, poi si fermò. «Pensaci bene. Non puoi permetterti di perdere quella valigia, d'accordo. Ma vale la pena di morire per la roba che c'è dentro?» L'uomo strizzò gli occhi con una smorfia di dolore, come riflettendo sulle parole del Turista, poi fece un sorriso da pazzo. E armò il cane. «Pietà», implorò la ragazza, tremando. «Pietà.» Piangeva e quasi non si reggeva in piedi. «Zitta tu! Cazzo, non riesco a pensare!» le gridò il grassone, praticamente nell'orecchio. Il Turista restò fermo dov'era, con gli occhi azzurri fissi sul dito del mediorientale appoggiato al grilletto della pistola. Non era una situazione facile. Il dito tremava! Quel bastardo stava per sparare veramente! Bisognava fermarlo. 7 «Un momento», disse il Turista, alzando una mano. «Stai calmo.» Indietreggiò di un passo e fece una risatina. «Ho esagerato: in realtà non ho una mira tanto infallibile. Non sono affatto sicuro di riuscire a prendere te, e non la ragazza.» «Lo sapevo», ribatté l'altro, tenendo saldamente la donna con il braccio destro. «Allora chi è che comanda, adesso?» «Tu», ammise il Turista, chinando ossequiosamente la testa. «Che cosa vuoi che faccia? Vuoi che posi la pistola per terra?» Il grassone squadrò il Turista per un momento, poi strizzò di nuovo gli occhi, con una smorfia. «Okay, ma fai piano», disse dopo un po'. «Certo. Pianissimo.» Cominciò ad abbassare la pistola. Dietro una cabina telefonica, qualcuno tirò un sospiro. Poi se ne sentì un altro proveniente dal retro di un furgone parcheggiato in 42nd Street. I curiosi che erano corsi a nascondersi e osservavano la scena stavano pensando tutti la stessa cosa: Non farlo, amico. Se posi la pistola, quello ammazza sia te sia la ragazza! Il Turista piegò le ginocchia e si accucciò per deporre lentamente l'arma. «Hai visto?» annunciò. «E ora, che cosa vuoi da me?»
Il grassone scoppiò a ridere, facendo vibrare i folti baffi ispidi. «Che cosa voglio?» disse, sganasciandosi. Poi, di colpo, si fece serio e si irrigidì; staccò la canna della pistola dalla tempia della ragazza e la puntò contro il Turista. «Voglio che tu muoia.» Fu in quel momento che il Turista reagì. Con mossa agile e rapidissima estrasse la Beretta calibro 9 che nascondeva in una fondina sul polpaccio, la puntò contro il grassone e fece fuoco. Lo sparo riecheggiò nella strada senza che nessuno si rendesse conto di quello che era successo. Nessuno, nemmeno il grassone. Gli si aprì un buco in fronte, largo quanto una monetina. Per un attimo rimase immobile come una statua, un colossale Buddha, poi la gente cominciò a gridare, la ragazza con lo zainetto cadde in ginocchio e lui, con un tonfo sinistro, stramazzò sul marciapiede pieno di cartacce con il sangue che gli zampillava dalla ferita come acqua da una fontana. Il Turista rimise la Beretta nella fondina sul polpaccio e l'altra pistola nel marsupio, si alzò in piedi, prese la valigia e la caricò su una Ford Mustang azzurra parcheggiata in seconda fila con il motore acceso. «Arrivederci», disse alla gente che lo osservava esterrefatta. «Ti è andata bene», aggiunse poi, rivolto alla ragazza che si stringeva al petto lo zaino. Si mise al volante della Ford Mustang e se ne andò. Con la valigia. 8 Appena il semaforo divenne verde, il tassista premette sul pedale dell'acceleratore come per schiacciare un insetto sotto la suola della scarpa. Ma rischiò di investire un ragazzo in motorino, un esponente di quell'audace e suicida razza newyorkese per la quale i semafori rossi e gli stop non sono altro che inutili suggerimenti da ignorare sistematicamente. L'autista del taxi inchiodò in mezzo all'incrocio e il ragazzo in motorino sterzò senza neppure fermarsi, passando a pochi centimetri dal paraurti dell'auto. «Coglione!» gridò il giovane, voltando appena la testa. «Vaffanculo!» rispose il tassista facendogli un gestaccio. Poi lanciò un'occhiata a Nora, che era seduta dietro, scosse il capo indignato e ripartì come se nulla fosse successo. Nora crollò la testa a sua volta e sorrise. Che bello essere di nuovo a casa.
Il tassista proseguì lungo la 2nd Avenue verso la parte sud di Manhattan. Percorso un tratto in relativo silenzio, accese la radio. Era sintonizzata su 1010 News. Un uomo dalla voce profonda e suadente, che stava leggendo un pezzo sull'ultima svolta nella crisi finanziaria del Comune di New York, si interruppe per dare notizia di un grave episodio avvenuto nei pressi della Grand Central Station e passò la linea a una giornalista che si trovava sul posto. «Circa mezz'ora fa all'angolo tra 42nd Street e Park Avenue, davanti alla stazione ferroviaria, si è consumato un misterioso omicidio in mezzo alla folla.» La cronista raccontò che un uomo armato aveva preso in ostaggio una giovane donna ed era stato ucciso da un individuo che tutti avevano dato per scontato essere un agente di polizia in borghese. «Invece, quando la polizia è finalmente arrivata sul posto, si è scoperto che l'omicida non apparteneva affatto al NYPD. Al momento nessuno sembra in grado di identificare lo sconosciuto che, dopo la sparatoria, si è allontanato rapidamente con la valigia del morto.» Quando la giornalista concluse promettendo ulteriori sviluppi, il tassista emise un gran sospiro e lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore. «Ci mancava solo questa, eh?» disse. «Un altro vigilante impazzito.» «Non mi pare», replicò Nora. «Perché?» «Per via della valigia. Mi sembra chiaro che è un elemento importante, comunque siano andate le cose.» Il tassista si strinse nelle spalle, poi annuì. «Sì, probabilmente ha ragione. Ma allora, secondo lei, che cosa è successo?» «Non lo so», disse Nora. «Scommetto però che dentro quella valigia non c'erano solo vestiti sporchi.» 9 C'era una frase, di chissà chi, che Nora amava molto e sottoscriveva in pieno: «La vera vita di un individuo è quella che uno non fa». Be', nel suo caso non era così. Si fece lasciare dal taxi all'angolo tra Mercer Street e Spring Street, a SoHo, ed entrò con la valigia nel lussuoso atrio interamente rivestito di marmo del palazzo in cui viveva, un ex magazzino trasformato in appartamenti di lusso. Un ossimoro ovunque, tranne che a New York City.
Nora aveva una mansarda che occupava metà dell'ultimo piano. Enorme, quindi. E molto chic. Mobili George Smith, parquet in legno nobile brasiliano, cucina Poggenpohl. Silenziosa, tranquilla ed elegante, era il suo rifugio. Quando si trovava lì, non c'era veramente altro posto al mondo in cui avrebbe preferito stare. A Nora piaceva mostrare la sua casa alle poche persone che le interessavano. Nell'ingresso c'era la sua sentinella: una statua di Javier Marin in terracotta di un nudo maschile a grandezza naturale. Poi c'erano due zone salotto molto intime, una in lussuosa pelle bianca e l'altra, complementare, in nero, entrambe opera sua. Le aveva progettate e aveva scelto personalmente i pezzi battendo negozi di antiquariato, mercatini delle pulci e gallerie d'arte, da SoHo al Pacific Northwest, da Londra a Parigi, e nei paesini più sperduti di Italia, Belgio e Svizzera. Per trovare cose che le piacessero veramente, doveva viaggiare. Argenti: vari tesori di Hermès e oltre una decina di ciotole. Vetri artistici: cornici di Émile Gallé, scatole di opalina bianca, verde e turchese. Quadri di pochi autori emergenti, accuratamente selezionati, di New York, Londra, Parigi, Berlino. E poi, naturalmente, la camera da letto: pareti color vinaccia, lampade a muro e specchi dorati, testiera di legno scolpito. Provate a capire che tipo sono dalla casa che mi sono scelta, se ci riuscite. Nora prese una bottiglia di Evian dal frigo e fece varie telefonate, di cui una a Connor. Definiva quel tipo di chiamata «manutenzione coniugale». In seguito ne riservò una simile anche a Jeffrey. La sera, poco dopo le otto, andò da Babbo, nel cuore del Greenwich Village. Sì, è proprio bello essere di nuovo a casa. Nonostante fosse lunedì, il ristorante era affollatissimo e nella sala a due livelli c'era un forte brusio: tintinnio di piatti e posate e conversazioni di newyorkesi in. Nora localizzò la sua migliore amica, Elaine, seduta a un tavolo vicino al muro nella parte bassa, che era la più informale, con un'altra cara amica, Allison. Ignorò l'addetta alle prenotazioni all'ingresso e andò dritta verso di loro. Grande scambio di baci sulle guance. Che gioia rivederle! «Allison si è innamorata del cameriere», annunciò Elaine mentre Nora si
accomodava. Allison alzò al cielo i grandi occhi castani. «Ho solo detto che era carino. Si chiama Ryan. Ryan Pedi. Anche il nome suona bene.» «Secondo me, è amore», decretò Nora, stando al gioco. «Visto? Lo dice anche lei: ho una testimonianza a favore!» esclamò Elaine, che lavorava in uno degli studi legali più noti della città, Eggers, Beck & Schmiedel, la cui vera specialità erano le parcelle esorbitanti. Parli del diavolo e spuntano le corna... Il cameriere, un ragazzo alto e bruno, si materializzò al tavolo per chiedere a Nora che cosa desiderava da bere. «Acqua minerale, grazie», rispose lei. «Frizzante.» «No, stasera devi tenerci compagnia, Nora. Non si discute. Le porti un Cosmopolitan.» «Sarà fatto.» Con un lieve inchino, il cameriere si voltò e si allontanò. Nascondendo la bocca con la mano, Nora bisbigliò: «È carino davvero...» «Te l'avevo detto», esclamò Allison. «Peccato che sia così giovane. Avrà vent'anni...» «Non arriva a diciotto, secondo me», rincarò Elaine. «O ci sembrano sempre più giovani perché invecchiamo?» Chinò la testa. «Okay, ora sì che sono depressa.» «Urge un cambio di argomento!» dichiarò Nora, e si rivolse ad Allison. «Allora, quale colore prenderà il posto del nero il prossimo autunno?» «Non ci crederai: il nero!» Allison faceva la redattrice di moda a W, l'unica rivista al mondo che se ti cade su un piede te lo rompe, diceva, la cui politica editoriale era basata su un principio molto semplice: le pubblicità a piena pagina con modelle scheletriche che indossano vestiti firmati non passeranno mai di moda. «Novità, Nora?» chiese Allison. «Non ti si vede più. Sei sempre fuori città...» «Lo so, è una follia. Sono rientrata oggi. Le seconde case vanno molto.» Allison sospirò. «Ho già abbastanza problemi a pagarmi la prima. Oh, a proposito... Vi ho raccontato del tizio che è venuto a stare sul mio pianerottolo?» «Lo scultore che ascolta strana musica new age?» chiese Elaine. «No, un altro. Quello se n'è andato diversi mesi fa», rispose Allison sottolineando le parole con un gesto un po' sprezzante della mano. «Questo si è appena comprato l'appartamento d'angolo.»
«Qual è il verdetto?» chiese Elaine, da buona avvocatessa. «Single, adorabile e oncologo», rispose Allison. Stringendosi nelle spalle, aggiunse: «Esiste un marito migliore di un bel medico ricco?» Non aveva ancora finito la frase che già se n'era pentita. Sulla tavola scese il silenzio. «Nessun problema», disse alla fine Nora. «Scusami!» replicò Allison imbarazzatissima. «L'ho detto senza pensare.» «Veramente, non devi scusarti.» «Urge un cambio di argomento!» dichiarò Elaine. «Ora state esagerando tutte e due. Sentite, solo perché Tom faceva il medico, non vuol dire che non possiamo più parlare di dottori», commentò Nora, posando una mano su quella di Allison. «Raccontaci del tuo oncologo.» Allison ubbidì e le tre continuarono a chiacchierare allegramente, forti di un'amicizia di lunga data che non si sarebbe certo incrinata per una battuta fuori luogo. Il cameriere tornò con il Cosmopolitan di Nora e illustrò loro i piatti del giorno. Le tre amiche bevvero, mangiarono, risero, spettegolarono. Nora pareva perfettamente a suo agio, tranquilla e rilassata, al punto che né Allison né Elaine si accorsero che per il resto della serata non fece altro che pensare alla morte del suo primo marito, il dottor Tom Hollis. O, meglio, all'omicidio del suo primo marito. 10 Un bel bicchiere d'acqua e un'aspirina costituivano l'antidoto cui Nora ricorreva ogni volta che beveva un po' troppo con Elaine e Allison. Non si ubriacava mai, perché detestava l'idea di perdere il controllo, ma contagiata dal buon umore e dalla compagnia delle due amiche quella sera aveva ecceduto un po'. Meglio prendere due aspirine. Poi indossò il suo pigiama di cotone preferito e aprì l'ultimo cassetto del grande comò. Nascosto sotto vari maglioni di cashmere Polo Ralph Lauren c'era un album di fotografie. Chiuse il cassetto e spense tutte le luci, tranne l'abat-jour sul comodino, si infilò a letto e aprì l'album. «Fu così che cominciò tutto quanto», mormorò tra sé guardando la prima
pagina. Le foto, disposte in ordine cronologico, permettevano di ricostruire dall'inizio la sua storia con il primo amore della sua vita, l'uomo che ancora adesso chiamava il dottor Tom. Il primo fine settimana trascorso insieme nei Berkshires, un concerto a Tanglewood, istantanee scattate nella suite del Gables Inn di Lenox. Nella pagina successiva c'erano le foto di un congresso medico a cui l'aveva portata, a Phoenix. Avevano dormito al Biltmore, che era uno degli alberghi preferiti di Nora. A patto che le dessero una camera nell'edificio principale, naturalmente. Poi c'erano alcuni scatti, non in posa, del matrimonio nella Conservatory Tent del giardino botanico di New York, seguiti dai ricordi della luna di miele sull'isola di Nevis. Splendida. Una delle settimane più belle della sua vita. Inframmezzate a queste c'erano immagini di altre ricorrenze - feste, cene - e primi piani divertenti. Nora che si toccava la punta del naso con la lingua. Tom che faceva il verso a Elvis. O forse imitava Bill Clinton? Poi le foto finivano. E cominciavano i ritagli di giornale. Nelle ultime pagine dell'album c'erano solo articoli di quotidiani e il necrologio, ormai ingialliti dal tempo. Nora aveva conservato tutto. «Noto medico di Manhattan muore per errore terapeutico», scriveva il New York Post. «Medico vittima della sua stessa medicina», titolava il Daily News. Quanto al New York Times, diceva semplicemente: «Deceduto a quarantadue anni il dottor Tom Hollis, noto cardiologo». Nora chiuse l'album e rimase sdraiata a pensare a Tom e a quello che era successo: era così che era cominciato tutto. L'inizio della sua vita. Le vennero in mente Connor e Jeffrey e abbassò lo sguardo sulla mano sinistra, in quel momento senza anelli. Sapeva di dover prendere una decisione. Istintivamente cominciò a compilare un elenco mentale, ordinato e conciso, delle cose che le piacevano nell'uno e nell'altro. Connor contro Jeffrey. Entrambi la divertivano molto: la facevano ridere e sentire speciale. E tutti e due erano innegabilmente molto bravi a letto, o in qualsiasi altro posto decidessero di fare l'amore. Alti, in forma perfetta, belli come attori. Anzi, no, più belli dei divi del cinema che conosceva. Il fatto era che a Nora piaceva stare tanto con Connor quanto con Jeffrey. E questo rendeva ancora più difficile la decisione.
Quale dei due uccidere? 11 Okay, a questo punto diventa difficile. E anche pericoloso. Il Turista era seduto a un tavolo d'angolo in uno Starbucks di West 23rd Street, nella zona di Chelsea. I posti erano praticamente tutti occupati da nullafacenti e perdigiorno, ma pareva un locale tranquillo e sicuro. Forse proprio per il fatto che c'erano tanti sfaccendati e sbandati. Del resto, visto che costava tre dollari e passa, oltre al caffè ti dovevano pure dare qualcosa, giusto? Aveva posato per terra la valigia di cui si era impossessato davanti alla Grand Central Station e aveva già scoperto un paio di cose al riguardo. Primo: era aperta, senza lucchetto né combinazione. Secondo: conteneva indumenti da uomo, perlopiù non stirati, e un nécessaire di pelle marrone. Terzo: nel nécessaire, oltre ai soliti accessori per farsi la barba, c'era un flash drive, una chiave USB che poteva essere innestata su tutti i computer, in vendita a novantanove dollari in qualsiasi negozio CompUSA. Quest'ultima era la causa di tutto. Strano, per una cosina più piccola di un dito... Minuscola, ma potenzialmente piena di informazioni. Nel caso specifico, informazioni preziose. Il Turista aveva già tirato fuori il suo Mac. Era venuto il momento della verità. Il coraggio non gli mancava. Forza! Inserì la chiave USB nell'apposita porta del Mac. Perché un povero grassone aveva dato la vita per quel flash drive in 42nd Street? Comparve l'icona del drive E. Il Turista cominciò a trascinare e spostare sul disco fisso i file memorizzati nella chiave, canticchiando tra sé. Un paio di minuti dopo, si accinse ad aprirli. Ma si fermò. Una ragazza carina seduta al tavolo accanto - capelli da punk, tinti di nero e rosso scarlatto - allungava il collo per guardare che cosa c'era sul suo schermo. Il Turista si voltò verso di lei e disse: «Hai presente la classica frase: 'Se
vuoi posso anche mostrarti quello che c'è qui dentro, ma poi sarei costretto a ucciderti'?» La ragazza sorrise. «E tu hai presente quell'altra: 'Fammi vedere il tuo, che io ti faccio vedere il mio'?» Il Turista rise. «Scusa, dov'è il tuo portatile? Non lo vedo.» «Peggio per te», ribatté lei con un'alzata di spalle, già in piedi. «Sei belloccio, ma non molto furbo.» «E tu dovresti cambiare pettinatura», replicò il Turista in tono scherzoso. Dopodiché tornò a concentrarsi sullo schermo del computer. Finalmente! Quello che vide gli parve avere una logica. Ammesso che qualcosa avesse ancora un senso in quel mondo di pazzi. Il file conteneva una lista di nomi, indirizzi e ragioni sociali di banche, in Svizzera e alle isole Cayman. Conti off-shore. Con relativi importi. Il Turista fece alcuni rapidi calcoli. Approssimativi, ma plausibili. Uno virgola quattro in totale, più o meno. Miliardi di dollari. 12 New York sarà pure la città che non dorme mai, ma alle quattro del mattino certi posti sono una vera desolazione. Il sotterraneo di un grande parcheggio nel Lower East Side, per esempio. Cinque piani sotto il livello stradale, era immerso nel più assoluto silenzio, rotto soltanto dal ronzio monotono delle luci al neon. E dal tamburellare del dito medio di un uomo sul volante di una Ford Mustang azzurra. A bordo dell'auto, il Turista guardò l'orologio e scosse la testa, continuando a battere il dito sul volante. Il suo contatto era in ritardo. In ritardo di due giorni, per la precisione. L'appuntamento era saltato. Guai in vista, c'era da scommetterci. Dieci minuti dopo, finalmente un paio di fari illuminò la parete vicino alla rampa che portava al piano superiore e comparve un furgone Chevy bianco, con il logo di un negozio di fiori sulla fiancata. FLOWERS BY LUCILLE, diceva la scritta.
Figuriamoci, pensò il Turista. Un furgone di fioraio? Il Chevy bianco si avvicinò lentamente alla Ford e si fermò a cinque o sei metri di distanza. Il motore si spense e scese un uomo alto e molto magro, vestito di grigio, con camicia bianca e cravatta, che si avviò verso l'auto. A bordo c'era anche un altro uomo, che però non si mosse. Il Turista andò incontro allo Spilungone e a metà strada disse: «Sei in ritardo». «E tu sei fortunato a essere ancora vivo», ribatté l'altro. «Qualcuno direbbe che sono in gamba, non fortunato.» «Che hai buona mira lo ammetto. Mi hanno detto che lo hai preso in piena fronte.» «Be', era molto stempiato, quindi il bersaglio era bello grande. La ragazza sta bene?» «Un po' scossa, ma le passerà. È una professionista. Come te.» Lo Spilungone si mise una mano in tasca, un gesto sempre pericoloso. Ma si limitò a tirare fuori un pacchetto di Marlboro e ne offrì una al Turista. «No, grazie. Ho smesso per la quaresima. Circa quindici quaresime fa.» L'altro si accese una sigaretta e spense il fiammifero. «Che cosa dice la polizia di New York?» chiese il Turista. «Non molto. È alle prese con dichiarazioni contraddittorie da parte dei testimoni oculari.» «Avete mandato qualcuno?» «Due testimoni a cui abbiamo chiesto di far circolare la voce che avevi il pizzetto e una cicatrice sul collo.» Il Turista sorrise e si sfregò il mento rasato. «Bene E i giornalisti?» «Non parlano d'altro. A parte la tua identità, il mistero più grande resta il contenuto della valigia. A proposito...» «È nel bagagliaio.» I due uomini andarono verso la Ford e il Turista aprì il portabagagli, prese la valigia e la posò a terra. L'altro la osservò per un po'. «Hai avuto la tentazione di aprirla?» chiese. «Come fai a sapere che non l'ho fatto?» «Lo so.» «Sì, ma come fai a esserne sicuro?» L'uomo fece un anello di fumo nell'aria. «Se l'avessi aperta, staremmo facendo discorsi ben diversi.» «Non ti seguo.»
«È giusto così. Non puoi, non sei al corrente.» Il Turista lasciò perdere. «Allora adesso cosa faccio?» «Sparisci. Hai un altro lavoro, no?» «Un altro lavoro? Certo, sono già alle prese con una cosa interessante. Chi è quello seduto nell'abitacolo?» «Sei stato in gamba, stavolta, mi ha raccomandato di dirtelo.» «Io sono sempre in gamba. Per questo mi hanno chiamato.» Si strinsero la mano. Il Turista guardò lo Spilungone caricare la valigia sul furgone e allontanarsi. Si chiese se si sarebbero accorti che aveva visto il contenuto della chiave USB. In ogni caso, adesso era al corrente. Anche se forse avrebbe preferito diversamente. 13 Nora aveva un sacco di cose da fare quella mattina. Prima una gratificante ora di shopping da Sentiments in East 61st Street, poi alcuni acquisti per conto di una cliente da ABC Carpet & Home, vicino a Union Square. Da lì sarebbe andata allo showroom del D&D Building e per ultimo da Devonshire, un vivaio inglese. Gli acquisti erano per Constance McGrath, una delle sue clienti più affezionate, che aveva appena traslocato da un lussuoso appartamento con due camere da letto nell'East Side a uno ancor più sfarzoso, sempre con due camere da letto, in Central Park West. Per la precisione, nel palazzo dove fu girato Rosemary's Baby e dove fu poi assassinato John Lennon. Ex attrice di teatro, Constance - che non sopportava di essere chiamata Connie aveva ancora un certo gusto per il dramma. Spiegò a Nora il trasferimento da un lato all'altro di Central Park nei termini seguenti: «Il sole tramonta a ovest e così farò io: questo è l'appartamento in cui intendo finire i miei giorni». Nora la trovava simpatica, vivace e schietta. Ma, soprattutto, Constance era propensa a fare una delle dichiarazioni preferite dagli arredatori: «I soldi non sono un problema». Aveva anche seppellito due mariti. «Sogno o son desto?» esclamò una voce maschile. Nora si voltò e vide Evan Frazer con le braccia aperte, pronto ad abbracciarla. Era il rappresentante della Ballister Grove Antiques, un grande negozio di antiquariato. «Evan, che piacere vederti!» disse Nora. «Il piacere è mio», replicò lui baciandola su tutte e due le guance. «Sen-
tiamo, per quale riccone stai lavorando oggi?» A Nora parve quasi di vedere il simbolo del dollaro che gli brillava negli occhi. «Non farò nomi, ma per tua fortuna è una signora che intende liberarsi di un po' di mobili francesi per passare a un look inglese più tradizionale.» «Allora sei nel posto giusto», affermò lui con un sorriso a trentadue denti. «Del resto, non ne dubitavo.» Per circa un'ora Evan mostrò a Nora tutti i pezzi inglesi che aveva in stock. Era un venditore nato: sapeva che cosa dire e anche che cosa non dire. Soprattutto a Nora Sinclair. Lei, infatti, non sopportava che le vantassero i pregi di un oggetto: come se potesse lasciarsi influenzare da un negoziante... Aveva i suoi gusti, i suoi canoni estetici, in parte innati e in parte sviluppati e perfezionati con l'esperienza, e si fidava solo di se stessa. «Questo ha una prolunga o due?» chiese a Evan osservando un tavolo da pranzo di faggio con listelli in legno satin. «Una», rispose l'uomo. «Ma c'è spazio per due, e possiamo farne fare una seconda senza problemi.» «Una dovrebbe bastare.» Nora lanciò un'occhiata al cartellino del prezzo, benché fosse un gesto superfluo, trattandosi di un acquisto per conto di Constance McGrath. Fece un passo indietro, guardò ancora una volta il tavolo e si esibì nella sua versione personale di «lo prendo». Perché usare due parole quando si poteva essere molto più incisivi con una? «Aggiudicato!» dichiarò. Evan agguantò prontamente una targhetta con scritto VENDUTO dalla cartellina che aveva sottobraccio e la posò sul tavolo. Era la quarta, quella mattina: Nora si era aggiudicata anche una credenza, un cassettone e un divano. Poteva dichiararsi soddisfatta. Si sedette su un grande sofà mentre Evan le preparava la fattura. Non fecero cenno al dieci per cento di commissione per Nora: era sottinteso che le spettava. Congedatasi da Evan, Nora si fermò a mangiare un boccone nel ristorante accanto al negozio, La Mercado. A quel punto si rese conto che, tutto sommato, non era necessario andare anche da D&D o da Devonshire. Aveva trovato tutto quello che le serviva da Sentiments e Ballister Grove. Ordinò un'insalata con pollo e avocado e una crêpe al dulce de leche per dessert e fece varie telefonate. Chiamò Constance per riferirle gli ottimi risultati della sua spedizione
mattutina, quindi di nuovo Jeffrey e Connor, che l'avevano cercata entrambi, per provvedere alla quotidiana manutenzione coniugale. 14 A quel punto le restava una cosa importante da sbrigare, per la quale dovette recarsi in uno studio legale di East 49th Street, vicino all'East River. «Mi dica, signorina Sinclair, che cosa posso fare per lei?» le chiese l'avvocato Steven Keppler. Nora gli fece un bel sorriso e replicò: «La prego, mi chiami Olivia». «D'accordo, Olivia.» Keppler, dietro la grande scrivania, sorrise a sua volta, un po' troppo cordiale. «Sa che ho una barca che si chiama Olivia?» «Davvero?» esclamò Nora fingendosi stupita. «È un buon segno, spero.» Ancor più promettente le parve il fatto che Steven Keppler - fiscalista newyorkese di mezz'età con un vistoso riporto sulla testa pelata - le guardava spudoratamente il seno e le gambe. Tutto sembrava presagire una navigazione senza imprevisti. Gli altri avvocati dell'elenco di Nora non avevano un'ora libera nelle due o tre settimane successive. E lo stesso sarebbe valso per Steven Keppler, se un cliente non avesse rinunciato all'ultimo al proprio appuntamento perché stava poco bene. E così, fortunosamente, Nora era riuscita a farsi ricevere in meno di ventiquattr'ore. Non Nora, per la verità, ma Olivia. Per l'impresa che si accingeva a tentare, aveva deciso di prendere in prestito il nome di sua madre. Proseguì: «La cosa che può fare per me, Steven, è aiutarmi ad aprire una società». Tra parentesi, la informo che la sede legale non sarà nel mio reggiseno. «Combinazione, è proprio la mia specialità», rispose l'avvocato. Nora cercò di restare impassibile quando, nel concludere la frase, l'uomo le strizzò l'occhio e fece schioccare la lingua. «E dove avrà sede questa società?» domandò lui. «Alle isole Cayman.» «Oh.» L'avvocato fece una pausa e sul viso gli comparve un'espressione di lieve preoccupazione: la bella cliente in minigonna e camicetta di seta evidentemente stava cercando di sfuggire al fisco. «Spero che non sia un problema», disse Nora. Keppler continuava a guatarla in maniera scandalosa. «Oh, no, non direi... ehm... vediamo...» balbettò. «Il fatto è che per aprire una società alle
isole Cayman occorre appoggiarsi a un ufficio locale. In parole povere, ci vuole un residente delle Cayman che rappresenti la sua azienda, anche solo nominalmente. Mi segue?» Erano cose che Nora già sapeva, ma non lo diede a vedere. Annuì come una scolaretta. «Fortuna vuole che io ne abbia uno alle mie dipendenze», aggiunse Keppler. «Davvero una fortuna!» concordò Nora. «Ora, immagino che le occorra aprire anche un conto bancario laggiù, giusto?» Tombola. «Sì. Probabilmente è così. Lei è in grado di provvedere anche a questo?» «Veramente bisognerebbe farlo di persona», disse l'avvocato. Nora si agitò un po' sulla sedia. «Oh, che seccatura!» «Eh, lo so.» Keppler si chinò verso di lei. «Ma forse posso trovare il modo di risparmiarle il viaggio.» «Sarebbe meraviglioso! Lei è il mio salvatore.» L'avvocato aprì un cassetto e tirò fuori alcuni moduli. «Mi occorrono solo alcuni dati, Olivia.» 15 Quel venerdì la limousine uscì dalla trafficata Route 9, percorse a gran velocità la pittoresca Scarborough Road e l'altrettanto graziosa Central Drive e finalmente imboccò il viale lastricato di Connor poco prima del tramonto. L'autista scese per aprire la portiera a Nora, ma fu battuto sul tempo da Connor, che evidentemente non vedeva l'ora che tornasse. «Cara!» le disse. «Morivo dalla voglia di riaverti fra le mie braccia.» Nora scese e subito lo strinse a sé. Si baciarono, mentre l'autista - un uomo robusto, di una certa età, italiano - apriva il bagagliaio e tirava fuori la valigia di lei, cercando di non guardare. Ma era difficile far finta di niente: una coppia innamorata al sole del tramonto, in una giornata splendida, davanti a una delle case più belle che avesse mai visto... Se non è questo il paradiso, non so che cosa sia, pensò. «Questi sono per lei», disse Connor tirando fuori da una tasca un fascio di banconote e aggiungendo venti dollari di mancia. «Grazie. Troppo gentile», replicò l'uomo, con un forte accento. «E, oltre che gentile, è anche affascinante, non trova?» cinguettò Nora
passando un braccio intorno alla vita di Connor. Lo pensava davvero. L'autista fece una risatina divertita e tornò alla macchina. «Buona serata», disse prima di mettersi al volante. Nora e Connor risero e rimasero abbracciati a guardare la limousine che usciva dal cancello e si allontanava. Nora si staccò da Connor e gli chiese: «Allora, com'è andato il lavoro? Anzi, no, pensandoci bene, non ho voglia di parlare di questo». «Nemmeno io», disse lui. «Non esiste solo il lavoro...» «...per fortuna!» Era stato uno dei loro primi mantra, e restava uno dei loro preferiti. «Dovremmo farlo qui, in mezzo al prato», osservò Nora strizzandogli l'occhio. «Al diavolo i vicini. Che guardino pure, se vogliono! Magari impareranno qualcosa.» Connor la prese per mano. «Veramente avrei un'idea migliore.» «Che cosa c'è di meglio che fare l'amore con me, scusa?» «È una sorpresa. Vieni.» 16 «Vuoi farlo nel garage?» domandò Nora sogghignando. Connor si tratteneva a stento dal ridere. «No. La sorpresa è un'altra. Ma la tua non è una cattiva idea.» Le fece fare il giro della casa e si fermò a un paio di metri dal garage, grande abbastanza da contenere cinque macchine. Le porte erano tutte chiuse. Anche Nora si fermò, senza sapere che cosa aspettarsi. «Sei pronta?» le chiese Connor. Infilò la mano nell'altra tasca - non quella dove teneva i soldi - e tirò fuori il telecomando delle porte del garage. Aveva cinque pulsanti. Premette quello di mezzo. Lentamente, la saracinesca centrale cominciò ad alzarsi. «Oh, mio Dio!» esclamò Nora. Nel garage era parcheggiata una Mercedes SL 500 decappottabile rossa, nuova di zecca, con un enorme fiocco bianco sul cofano. «Allora?» disse Connor. Nora era senza parole. «Ho pensato che, se vuoi diventare mia moglie, avrai bisogno di una macchina tua.» Nora continuava a tacere.
Connor si stava divertendo. «Sei sorpresa?» Nora gli buttò le braccia al collo e finalmente ritrovò la voce. «Sei fantastico! Grazie, grazie, grazie!» Gli mostrò la mano sinistra. «Prima un gioiello meraviglioso e ora...» «...un altro gioiellino», completò lui come se fosse uno dei loro mantra. «Le chiavi sono nel cruscotto.» La prese in braccio e la portò dentro, depositandola con delicatezza al posto di guida. Poi corse dall'altro lato, togliendo il fiocco al volo, e gridò: «Arrivo!» Come un ragazzino, saltò nell'abitacolo senza aprire la portiera. Nora, ammirata, accarezzava il volante rivestito di pelle. «Cosa dici? Andiamo a fare un giro?» chiese. «Certo. L'ho comprata apposta.» Nora lo guardò con un sorriso birichino e spostò le mani dal volante alle cosce di Connor. «Oh», gemette lui. Nora balzò agilmente dal suo posto a quello di Connor e gli salì a cavalcioni, poi cominciò a passargli le dita tra i folti capelli neri e a baciargli teneramente la fronte, le guance e infine le labbra. Quindi gli sbottonò la camicia. «I sedili sono reclinabili, vero? Fin dove arrivano?» «Non lo so. Bisognerà controllare.» Lui allungò una mano sul fianco del sedile e, come per magia, lo schienale cominciò ad abbassarsi con un lieve ronzio. Si spogliarono vicendevolmente, rapidi come se avessero i vestiti in fiamme. Via la camicia di lui, la camicetta di Nora e il reggiseno. Poi pantaloni e gonna, e gli slip. «Ti amo», disse Connor guardandola negli occhi. Era impossibile non credergli e non ricambiare il suo sentimento. «Anch'io ti amo.» E fu così che, in garage, Nora inaugurò la sua nuova automobile. 17 «Ti rendi conto che resta una sola stanza in questa casa in cui non l'abbiamo mai fatto?» chiese Connor, come se stesse facendo l'inventario delle camere. «Be', la notte è ancora giovane», replicò Nora. Lui la strinse forte a sé. «Sei una donna insaziabile.» «E tu un uomo fortunato!» Erano finalmente rientrati in casa dal garage e si stavano abbracciando in
cucina, con i vestiti in mano. «A proposito di insaziabilità...» disse lui. Nora trattenne una risata. «Come mai me l'aspettavo? Okay, ragazzo nudo, che ne diresti di un'omelette?» «Fantastico. Usciamo? Vuoi che prenoti al ristorante di Pound Ridge? O all'Iron Horse?» Nora scosse la testa. «Che tipo di omelette preferiresti? Te la preparo io.» «Fammi un'improvvisata. Questa è la serata delle sorprese.» Per la prima volta, Nora avvertì una fitta al cuore. Ci siamo, pensò. Connor andò a fare una doccia veloce, ma prima portò dentro la valigia che era rimasta nel viale davanti alla casa. Nora la aprì in cucina e tirò fuori un paio di jeans piegati con cura e una T-shirt bianca di cotone. Una vocina che ben conosceva le disse: Su, Nora, sangue freddo, adesso. Si vestì e cominciò a preparare l'omelette. Aprì il frigo e prese una cipolla, un peperone verde e del prosciutto tagliato spesso. Decise di fare un'omelette messicana. Forza, hai già deciso. Sei solo un po' nervosa, ma puoi farcela, lo sai. Non è la prima volta. Nora guardò i coltelli appesi a una striscia magnetica fissata alla parete. Erano perfettamente allineati, affilatissimi. Prese il più grosso e lo impugnò saldamente, adattando le dita alla leggera curvatura del manico prima di stringerlo con forza. Non pensare né alla macchina, né all'anello. Non pensare all'anello. In piedi davanti al bancone, con la schiena rivolta alla porta della cucina, ruppe le uova e le sbatté. Tagliò a dadini il peperone e poi il prosciutto. Udì arrivare Connor. «Ho una fame che mangerei un ristorante», disse entrando. Forza, Nora, adesso! Connor si avvicinò ancora. Adesso, su! Nora continuò a tagliare il prosciutto e fissò il coltello, stringendolo con tanta forza che le nocche delle dita le diventarono bianche. La luce, dal soffitto, si rifletteva sulla lama. Era ancora in tempo, avrebbe potuto cambiare idea. Connor era ormai vicinissimo. Nora ne sentì il fiato sul collo. Si girò in fretta, con la mano alzata.
18 «Assaggia. Come ti sembra?» gli chiese. Connor aprì la bocca per addentare il pezzo di prosciutto che Nora gli faceva dondolare sotto il naso e masticò per qualche secondo. «Squisito!» «Bene. Non sapevo da quanto tempo lo avevi nel frigo», disse lei. «La doccia è stata piacevole?» «Sì. Ma stare qui con te lo è ancora di più.» Nora finì di tagliare il prosciutto e cominciò ad affettare la cipolla. Puoi ancora cambiare idea. Connor, con i capelli bagnati e i pantaloni di una tuta, andò a prendere una Amstel nel frigo. «Ne vuoi una anche tu?» chiese. «No, grazie. Ho qui la mia acqua», rispose lei mostrandogli una bottiglia di Evian. «Non voglio ingrassare. Lo faccio per te.» Lui aprì la birra e ne bevve un sorso, guardandola incuriosito. «Tesoro, ti senti bene?» Nora si voltò. Quando si accorse che aveva una lacrima che le scendeva lungo una guancia, fece: «Oh!» Se la asciugò e si sforzò di sorridere. Poi distolse lo sguardo e si giustificò: «A quanto pare le cipolle mi fanno piangere». Sorvegliò la cottura dell'omelette in modo che restasse morbida proprio come piaceva a lui e la trasferì nel piatto. Connor aggiunse sale e pepe e prese la prima forchettata. «Fantastica!» esclamò. «Così bene non ti era mai riuscita!» «Mi fa piacere», disse Nora sedendoglisi accanto. Connor continuò a mangiare mentre lei lo osservava. «Allora, che cosa vuoi fare domani?» le chiese dopo un paio di bocconi. «Non lo so. Potremmo inaugurare la mia nuova macchina.» «Uscendo dal garage?» ribatté lui. Poi fece una risata e si tagliò un altro pezzo di omelette. Ma rimase con la forchetta a mezz'aria, come paralizzato... In una frazione di secondo divenne pallidissimo, bianco come uno straccio, cominciò a dondolare la testa e lasciò cadere fragorosamente la forchetta nel piatto. «Connor, cos'hai?» «Non... Non so», rispose lui balbettando, con un filo di voce. «Di colpo mi sento...» Subito dopo si premette le mani sullo stomaco, come se qual-
cuno gli avesse appena dato un pugno, o una coltellata. Rovesciò gli occhi all'indietro, barcollò pericolosamente e stramazzò a terra con un tonfo. «Connor!» Nora balzò in piedi e cercò di aiutarlo a rialzarsi. «Ti prego, alzati.» Con le gambe che tremavano come gelatina, lui si tirò su e Nora lo accompagnò in bagno. Lì cadde di nuovo e per poco non svenne. Nora sollevò il coperchio del gabinetto e lui, strisciando, vi si aggrappò. «Sto per... Sto per vomitare», disse ansimando. Era già in iperventilazione. «Vado a prenderti qualcosa», fece Nora in tono ansioso. «Torno subito.» Corse in cucina, mentre Connor si sforzava di mettersi in ginocchio davanti alla tazza del gabinetto. Un bruciore intollerabile si era esteso dallo stomaco a tutto il corpo. Sudava come una fontana. Nora tornò con un bicchiere pieno di un liquido trasparente, effervescente, che sembrava Alka Seltzer. «Ecco, bevi questo», gli disse. Connor lo prese con mani tremanti. Quasi non ce la faceva a portarlo alle labbra, ma Nora lo aiutò a buttarne giù prima un sorso, poi un altro. «Ancora un po'. Cerca di finirlo», lo sollecitò. Connor bevve un altro sorso, poi si premette di nuovo una mano sullo stomaco e si rannicchiò su se stesso, con gli occhi chiusi e la mascella serrata, i muscoli così tesi che parevano scoppiare sotto la pelle. «Aiuto, Nora!» implorò. Poco dopo il tremore spaventoso che lo scuoteva cominciò a diminuire e, veloce com'era cominciato, cessò. «Credo che la medicina stia facendo effetto, tesoro», disse lei. Connor respirava di nuovo normalmente e aveva ripreso un po' di colore. Aprì gli occhi, dapprima lentamente, poi li spalancò e tirò un gran sospiro di sollievo. «Che cosa mi hai dato?» chiese. In quel momento la crisi ricominciò. Solo che questa volta era dieci volte peggio. Invece del tremito, fu colto da una serie di spasmi violentissimi che lo scossero dalla testa ai piedi. Gli mancava il respiro, si sentiva soffocare. Paonazzo, iniziò a strabuzzare gli occhi. Il bicchiere gli cadde di mano e andò in frantumi. In preda a forti convulsioni, Connor si contorceva dal dolore. A un certo punto si portò entrambe le mani al collo, boccheggiando. Cercava invano di gridare, ma dalla bocca non gli usciva alcun suono. Provò ad aggrapparsi a Nora, che fece un passo indietro.
Non voleva guardare e nello stesso tempo non riusciva a distogliere gli occhi da quella scena, in attesa che Connor smettesse di nuovo di tremare e dibattersi. Cosa che, di lì a poco, accadde. E fu definitivo. Connor, steso sul pavimento di uno dei bagni della sua villa di mille metri quadrati, era morto. 19 Per prima cosa Nora si preoccupò di raccogliere i cocci del bicchiere sparsi sul pavimento del bagno. In seconda battuta buttò gli avanzi dell'omelette nel tritarifiuti, lo azionò e lavò con cura piatto e forchetta. In terzo luogo si versò mezzo bicchiere di Johnnie Walker Blue, liscio, e lo buttò giù tutto d'un fiato. Poi ne aggiunse ancora un dito e si sedette al tavolo della cucina a riordinare le idee. Ripassò il copione, prese fiato ed espirò lentamente. Era ora di entrare in scena. Andò con calma al telefono e compose il 911, ripetendosi: I bugiardi più abili non entrano nei particolari. Al secondo squillo le rispose una donna. «Pronto intervento.» «Mio Dio!» gridò Nora. «La prego, mi aiuti! Non respira più!» «Chi non respira più, signora?» «Non so che cosa sia successo, stava mangiando e di colpo...» La centralinista la interruppe: «Signora, deve dirmi chi non respira più». Nora tirò su con il naso, ansimando, e gemette: «Il mio fidanzato!» «Gli è andato un boccone di traverso?» «No. Si è sentito male e... e poi...» Nora tacque, pensando che, se avesse lasciato la frase a metà, sarebbe suonata più convincente. «Dov'è, signora? Mi dia il suo indirizzo», disse la centralinista. «Mi serve un recapito.» Tra singhiozzi e parole smozzicate, Nora riuscì finalmente a darle l'indirizzo di Connor a Briarcliff Manor. «Okay, signora, resti dov'è. Cerchi di stare calma. Tra pochissimo arriverà l'ambulanza.» «Fate presto, vi prego!» Nora riattaccò e calcolò che le restavano almeno sei o sette minuti prima dell'arrivo dei soccorsi. Più che sufficienti per cancellare le ultime tracce.
Decise che avrebbe lasciato fuori la bottiglia di Johnnie Walker e il bicchiere in cui aveva bevuto. In fondo, chi poteva biasimarla per aver avuto bisogno di un goccetto in un frangente simile? La boccetta delle pillole, invece, non doveva rimanere in vista. La ripose nella valigia, nascondendola in fondo alla borsa delle medicine, che sistemò sotto i vestiti. Se qualcuno l'avesse trovata e avesse letto l'etichetta, avrebbe visto che prendeva Zirtec in pastiglie da 10 milligrammi per l'allergia stagionale di cui soffriva. L'importante era che non gliene chiedessero una... Nora chiuse la valigia e la portò in camera da letto dove, davanti allo specchio, approfittò per darsi gli ultimi ritocchi: tirò fuori dai jeans la maglietta di cotone e diede un paio di strattoni alla scollatura, dopodiché si strofinò gli occhi finché non si arrossarono. Battendo più volte le palpebre, riuscì a spremere qualche lacrima per rovinarsi il trucco in maniera convincente. Ecco, così dovrebbe andare. Nora era pronta per il terzo atto del dramma. 20 È eccitante, nel complesso. Uno sballo. L'ambulanza entrò nel viale davanti alla casa a sirene spiegate. Nora uscì di corsa dal portone gridando, isterica: «Sbrigatevi! Presto, muovetevi, per favore!» I soccorritori - due giovanotti con i capelli tagliati molto corti - afferrarono le borse dell'attrezzatura e si precipitarono nell'atrio. Lei fece loro strada verso il bagno del pianterreno, dove Connor giaceva riverso sul pavimento. Si inginocchiò accanto a lui, in lacrime, e gli posò il viso sul petto. Il più basso dei due soccorritori la dovette trascinare fuori della stanza in modo da avere spazio sufficiente per prestare le prime cure alla vittima. «La prego, signora. Ci lasci lavorare: dobbiamo cercare di rianimarlo.» Ci provarono per cinque minuti, ma per Connor Brown non c'era più niente da fare. Alla fine si scambiarono un'occhiata rassegnata, arrendendosi all'evidenza. Il più anziano dei due si voltò verso Nora, in piedi sulla soglia alle loro spalle, con un'espressione frastornata sul viso. Non c'era bisogno di parole, ma le disse comunque: «Ci dispiace».
Come a comando, Nora scoppiò di nuovo a piangere e gridò: «No, no, no! Oh, Connor, Connor!» Pochi minuti dopo si udì un'altra sirena nel viale davanti alla casa e arrivò la polizia di Briarcliff Manor. Nora sapeva che era la procedura di routine: quando una persona veniva trovata morta, la chiamata partiva automaticamente. Alcuni vicini erano usciti a curiosare. Sembrava passato un attimo da quando Nora e Connor avevano riso di loro, meditando se scandalizzarli facendo l'amore in giardino. A interrogarla fu il poliziotto più anziano dei due che si presentarono. Si chiamava Nate Pingry ed era chiaramente più esperto del collega, l'agente Joe Barreiro. Lo scopo era chiaro: mettere a verbale i fatti e le circostanze relativi alla morte di Connor Brown. In altre parole, rispettare l'iter burocratico. «Sappiamo che è un brutto momento per lei, signora Brown, ma cercheremo di fare il più in fretta possibile», le disse Pingry. Nora era seduta sull'ottomana nel salotto, dove i soccorritori l'avevano praticamente trasportata di peso, e teneva la faccia nascosta tra le mani. Alzò gli occhi e guardò Pingry e Barreiro. «Non eravamo sposati», mormorò tra i singhiozzi. Si accorse che i due guardavano il diamante da quattro carati che portava all'anulare sinistro, il regalo di Connor. «Eravamo...» Si interruppe e di nuovo si coprì il viso con le mani. «Ci eravamo appena fidanzati.» L'agente Pingry cercò di essere più discreto che poté. Era la parte del suo lavoro che maggiormente detestava, ma sapeva che era necessaria e che, per farla bene, ci voleva molta pazienza. Nora riferì ai due poliziotti tutto quello che era successo: era arrivata quella sera, aveva preparato un'omelette a Connor, a un certo punto lui le aveva detto che si sentiva male e lei lo aveva aiutato ad arrivare nel bagno in preda ad atroci sofferenze. Parlò a lungo, a tratti con estrema chiarezza, a tratti divagando. Un paio di volte si corresse. Aveva letto nei testi di psicologia forense che la caratteristica comune a tutti coloro che perdono una persona cara è l'instabilità dello stato emozionale e cognitivo. Riferì che lei e Connor avevano appena fatto l'amore. Per il referto dell'autopsia sarebbe stato necessario aspettare un giorno o due, ma Nora sapeva già che il medico legale della contea avrebbe dichiarato che Connor Brown era morto in seguito ad arresto cardiaco.
Dal momento che aveva solo quarant'anni, probabilmente si sarebbe concluso che il fattore scatenante fosse stato il rapporto sessuale. O forse il medico avrebbe attribuito il decesso all'eccessivo stress sul lavoro o a precedenti di cardiopatia in famiglia. Alla fine, nessuno avrebbe mai capito qual era stata la vera causa. Esattamente come voleva lei. Dopo averle rivolto l'ultima domanda, l'agente Pingry rilesse gli appunti che aveva preso e decise che non gli occorreva sapere altro. Nora gli aveva dato una spiegazione esauriente dell'accaduto, pur omettendo di dire che aveva avvelenato Connor ed era stata a guardarlo morire sul pavimento del bagno. «Abbiamo tutto quello che ci serve, mi sembra», decretò Pingry. «Se non le dispiace, vorremmo dare un'ultima occhiata alla casa.» «Certo. Accomodatevi», mormorò lei. I due agenti si incamminarono nel corridoio e Nora rimase sull'ottomana che aveva comprato da New Canaan Antiques per poco più di settemila dollari. Un attimo dopo si alzò. Pingry e il suo collega sembravano gentili, d'accordo, e si erano mostrati pieni di comprensione, ma il momento della verità doveva ancora venire. Che cosa pensano veramente? Con passo furtivo, Nora li seguì nel loro giro di stanza in stanza, tenendosi a una distanza tale da poter udire quello che dicevano senza che si accorgessero di lei. Era nel corridoio del primo piano quando finalmente li sentì parlare dentro la stanza della televisione. Nora origliò la conversazione, cercando di capire che cosa pensavano di lei. «Cazzo, guarda che roba!» esclamò Pingry. «Per comprare un televisore così il mio stipendio di un mese non basta!» «La ragazza stava per fare un gran bel colpo, sposandolo», commentò Barreiro. «Hai ragione, Joe. È stata proprio sfortunata.» «Già. Sarebbe diventata ricca...» «... ma lui è morto sul più bello.» Nora tornò indietro in punta di piedi e scese le scale. Aveva gli occhi arrossati e la faccia stravolta, ma dentro di sé provava sollievo. Brava, Nora. Sei stata in gamba. I poliziotti non sospettavano nulla. Aveva commesso un omicidio perfetto.
E non era la prima volta. 21 Il viavai di sconosciuti con la faccia compunta, il brusio e i rumori durarono per quasi due ore. A Nora non sfuggì l'ironia della situazione. L'atmosfera si anima, quando qualcuno muore all'improvviso. Alla fine, però, se ne andarono tutti: i soccorritori, i poliziotti, il carro funebre. E Nora rimase sola in casa. Era ora di mettersi all'opera, perché quello che la polizia avrebbe dovuto sapere non venisse invece mai scoperto. Lo studio di Connor era in fondo alla villa. Seguendo le indicazioni che le aveva dato quando si erano conosciuti, Nora l'aveva arredato come un circolo privato per soli uomini: divani di pelle, librerie di legno di ciliegio e, alle pareti, scene di caccia dipinte a olio. In un angolo c'era un'armatura medievale, in un altro una vetrina con una collezione di tabacchiere. Un sacco di stronzate costate un'esagerazione, parola di arredatrice. Quando aveva finito il lavoro, Nora si era concessa perfino una battuta: «Un'atmosfera così virile che non c'è neppure bisogno di fumarci il sigaro». E adesso era lì, da sola. Connor le mancava un po'. Si sedette sulla poltrona di pelle dietro la scrivania e accese il computer. Connor aveva tre schermi, per poter seguire più mercati finanziari contemporaneamente. La sua postazione di lavoro sembrava quella di un operatore della NASA o di una torre di controllo aeroportuale. Per prima cosa Nora digitò la password per accedere alla connessione Internet T3, poi inserì quella per la VPN a 128 bit encrypted, necessaria per trasmettere dati tra due punti del cyberspazio con la massima riservatezza, integrità e autenticità. Il punto numero uno era il computer di Connor. Il numero due la International Bank di Zurigo. Le erano occorsi quattro mesi per scoprire il codice della VPN. Con il senno di poi, le sarebbero potuti bastare quattro minuti, ma non immaginava che Connor fosse così prevedibile da memorizzare un codice sul suo computer palmare. E per di più alla voce «numeri di conto». Naturalmente non lo era stato al punto di indicare a quali conti corrispondevano i vari codici, e per questo Nora aveva dovuto fare vari tentativi nottetempo, mentre lui dormiva beatamente nel suo letto.
Considerati la complessità dell'accesso a un conto svizzero e il prestigio che questo comportava, la pagina «transazioni» della International Bank di Zurigo era piuttosto semplice e modesta, senza alcuna grafica elaborata o musica rilassante di Honegger in sottofondo. La schermata offriva solo tre opzioni, in semplice stampatello: DEPOSITO PRELIEVO BONIFICO Nora cliccò su BONIFICO. Si aprì un'altra pagina, altrettanto lineare, dov'era indicato il saldo del conto corrente di Connor. In un'apposita casella andava digitato l'importo da bonificare. Nora scrisse la cifra. Sul conto c'erano quattro milioni e trecentomila dollari. Lei intendeva trasferirne pochi di meno: per l'esattezza quattro milioni e duecentomila. L'unica cosa che restava da fare era specificare le coordinate bancarie di destinazione. Connor non era l'unico ad avere una VPN. Nora digitò il numero del proprio conto alle isole Cayman che, grazie al voglioso fiscalista Steven Keppler, stava per essere inaugurato in grande stile. Premette il tasto ESEGUI e si appoggiò allo schienale della poltrona di Connor. Una barra orizzontale del monitor indicava l'andamento della transazione. Posò i piedi sulla scrivania e guardò la barra cambiare progressivamente colore. Due minuti dopo, era ufficiale: Nora Sinclair aveva quattro milioni e duecentomila dollari più di prima. Il secondo colpaccio della giornata. 22 La mattina dopo, appena sveglia, Nora scese sbadigliando al piano di sotto per prepararsi un caffè. Tutto sommato non provava grandi rimorsi. In realtà, non sentiva quasi niente. Bevuta la prima tazza, iniziò a riflettere su ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno. Innanzitutto una serie di telefonate per informare i conoscenti della morte di Connor e una a Jeffrey, per la consueta manutenzione coniugale.
Per primo chiamò Mark Tillingham, legale ed esecutore testamentario, nonché intimo amico di Connor. Stava uscendo per la consueta partita a tennis del sabato mattina e a Nora parve di vederlo, vestito di bianco, i lineamenti sconvolti alla notizia della disgrazia. In un certo senso, gli invidiò la capacità di commuoversi. Poi andavano avvertiti i parenti stretti, nel caso specifico un'unica persona. I genitori di Connor erano morti e rimaneva solo una sorella più giovane, Elizabeth, che lui chiamava Lizzie o a volte, scherzosamente, Lizzard, lucertola. Erano molto vicini, in tutto tranne che dal punto di vista geografico: Lizzie viveva infatti a quasi cinquemila chilometri di distanza, a Santa Barbara, dove aveva uno studio di architettura molto ben avviato. Veniva raramente sulla West Coast e la sua ultima visita risaliva a prima che Connor e Nora si conoscessero. Nora si versò un'altra tazza di caffè e rifletté sul modo migliore per comunicare a una persona che non aveva mai visto e con cui non aveva neppure mai parlato che il fratello era morto improvvisamente a quarant'anni. Sapeva di non essere tenuta a fare quella telefonata: avrebbe potuto chiedere a Mark Tillingham di provvedere; ma siccome era consapevole che una donna che avesse amato veramente Connor avrebbe chiamato di persona, cercò il numero sul palmare e lo compose. «Pronto?» rispose una voce un po' assonnata, forse addirittura seccata. In California erano le sette del mattino. «Parlo con Elizabeth?» «Sì.» «Mi chiamo Nora Sinclair...» Stranamente la sorella non pianse, perlomeno non al telefono. Ci fu un lungo silenzio, poi una serie di domande fatte sottovoce. Nora le raccontò quello che aveva già riferito alla polizia. Parola per parola, come da copione. «Ma immagino che non sapremo niente di preciso finché non sarà stata fatta l'autopsia», terminò. Di nuovo Lizzie reagì con un lungo silenzio. Forse, pensò Nora, provava dei sensi di colpa perché non vedeva il fratello da tanto tempo. O magari, nel rendersi conto di essere l'unica superstite della famiglia, si sentiva all'improvviso sola. Oppure era semplicemente sconvolta, come Mark Tillingham. «Prenderò un aereo domani mattina», disse Elizabeth. «Hai già deciso per il funerale?»
«Volevo prima parlarne con te. Pensavo che...» Elizabeth replicò: «Spero che non mi giudicherai male, ma è l'ultima cosa che... Cioè, non mi sento proprio in grado di... Ti dispiacerebbe occupartene tu?» «No, certo», rispose Nora. Era sul punto di congedarsi quando Elizabeth, sforzandosi di non singhiozzare, chiese: «Da quanto tempo stavate insieme?» Nora non rispose subito. Stava per inscenare un bel pianto, poi ci ripensò e rispose in tono solenne: «Da una settimana soltanto». «Mi dispiace, mi dispiace tantissimo», disse Elizabeth. Dopo la telefonata, Nora passò il pomeriggio a organizzare il funerale. Dai fiori al rinfresco, riuscì a fare quasi tutto per telefono; ma ci sono cose nella vita - e soprattutto nella morte - che è meglio sbrigare di persona. Per esempio, scegliere l'impresa di pompe funebri. Anche in quella occasione Nora ebbe modo di dimostrare la sua competenza di arredatrice. Scelse la bara come se si trattasse di un mobile e, visto che era per Connor, optò per il modello più lussuoso, in noce, con maniglie di avorio intagliato. Appena l'impresario gliela mostrò, capì che era la più adatta. «Aggiudicata!» disse. 23 «Nora, mi rendo conto che non è il momento più adatto, ma c'è una cosa di cui devo parlarti», le disse Mark Tillingham. «Prima affrontiamo l'argomento, meglio è.» Era martedì mattina e mancavano dieci minuti al funerale. Il parcheggio della chiesa di St Mary in Albany Post Road, a Scarborough, era pieno di gente. Nora guardò l'avvocato di Connor da dietro un paio di occhiali da sole di Chanel, perfetti per il tailleur nero di Armani e le semplici scarpe Manolo, anch'esse nere. Erano all'ombra di un grande agrifoglio lungo il viale di ghiaia che portava all'ingresso. «Si tratta della sorella di Connor, Elizabeth. È sconvolta, naturalmente. Lei e Connor erano molto legati. È un po' preoccupata per le tue intenzioni.» «Le mie intenzioni?» «Riguardo al patrimonio.» «Che cosa ti ha detto? No, anzi, fammi indovinare: ha paura che io im-
pugni il testamento.» «Diciamo che potresti», rispose l'avvocato. «Lo Stato non riconosce diritti alle fidanzate, ma ciò non ha impedito in alcuni casi...» Nora scosse la testa. «Non lo farò, Mark. Oddio! Non mi interessano i soldi di Connor. Io lo amavo. Voglio che sia chiaro: non me ne frega niente, del suo patrimonio. Dillo a Lizzie.» Mark pareva imbarazzatissimo. «Certo. Scusami ancora, ma dovevo parlartene.» «Allora è per questo che Lizzie mi evita?» «No, penso che sia perché è disperata. Da ragazzi lei e Connor erano inseparabili. I loro genitori morirono quando loro due erano molto piccoli.» «Per curiosità, che cosa le ha lasciato Connor?» Mark si guardò le scarpe, un paio di mocassini neri con le nappine. «Sono informazioni riservate, Nora. Non posso rivelarti nulla.» «Non puoi dire niente alla donna che Connor amava?» Il senso di colpa ebbe la meglio sulla professionalità e, sottovoce, Mark rispose: «Elizabeth erediterà due terzi del patrimonio, compresa la casa. Come ti dicevo, erano molto legati». «E il resto?» «Connor ha lasciato dei soldi a due cugini che vivono a San Diego e il resto a vari enti di beneficenza.» «Che generoso...» disse Nora un po' commossa. «Sì, Connor era davvero una brava persona.» Nora assentì. «Era un uomo eccezionale. Sarà meglio entrare, adesso.» 24 Fu una bella cerimonia, triste e molto commovente. La chiesa di St Mary, con i prati curatissimi dello Sleepy Hollow Country Club sullo sfondo, era il posto ideale per celebrarla. O perlomeno così tutti dicevano a Nora, nel farle le condoglianze. C'erano amici e colleghi di Connor che conosceva già, altri che aveva sentito nominare e altri ancora che vennero a presentarsi quel giorno, mormorando parole di conforto. Elizabeth Brown, invece, mantenne le distanze sia in chiesa sia al cimitero. Non che Nora fosse particolarmente desiderosa di conversare con lei. In fondo la sorella di Connor, comportandosi così, le stava facendo un favore, dando implicita conferma al fatto che Nora era l'ultima persona a po-
ter volere la morte di Connor, visto che se lo avesse sposato sarebbe diventata ricchissima. Elizabeth le si avvicinò solo quando giunsero a casa, a Westchester, dov'era previsto un rinfresco per un ulteriore scambio di condoglianze dopo il funerale. «Ho notato che non bevi. Nemmeno in un giorno come questo», le disse. Nora aveva in mano un bicchiere d'acqua gassata. «Oh, non sono astemia. Ma oggi preferisco limitarmi all'acqua.» «Finora non abbiamo avuto modo di parlare, ma volevo ringraziarti per avere organizzato tutto. Non credo che io ce l'avrei fatta», continuò Elizabeth con le lacrime agli occhi. «Figurati. Mi è sembrato naturale, visto che io vivo qui. Voglio dire, non proprio qui, ma...» «Lo so, Nora. Anzi, volevo proprio parlarti di questo.» Stava passando uno dei soci di Connor ed Elizabeth tacque per non farsi udire da lui. «Vieni, usciamo un momento», propose Nora, avviandosi verso la porta. Si ritrovarono sole sui gradini lastricati davanti all'ingresso. Un momento di intimità. «Ho parlato con Mark Tillingham. Sembra che Connor mi abbia lasciato questa casa.» Nora reagì brillantemente. «Davvero? Mi fa piacere. Sono contenta che resti in famiglia. E soprattutto a te, Lizzie.» «Sei gentile. Ma l'ultima cosa che ho intenzione di fare è trasferirmi qui», disse Elizabeth. Poi chinò la testa e tacque, incapace di finire la frase, con il viso rigato di lacrime. «Non potrei.» «Capisco. Allora la venderai?» «Immagino di sì, ma senza fretta. È di questo che desideravo parlarti. Prima di tutto, vorrei che ti sentissi libera di restare in questa casa finché vuoi. So che Connor avrebbe voluto così.» «Troppo gentile. Davvero. Sono commossa.» «Ho dato istruzioni a Mark di pagare le spese e la manutenzione con i soldi dell'eredità. È il minimo che possiamo fare. E poi, Nora, vorrei che tenessi tu i mobili e tutto il resto... In fondo è la ragione che vi ha fatti incontrare.» Nora sorrise. Elizabeth trasudava sensi di colpa da tutti i pori. Aveva immaginato che la fidanzata di Connor andasse a batter cassa appena finito il funerale e invece doveva ammettere di essersi sbagliata. E si era sbagliata davvero, pensò Nora.
Non ho bisogno di chiedere: ho già incassato, grazie. Rimasero a parlare davanti alla grande villa finché Elizabeth non si rese conto che si stava facendo tardi. Mancavano meno di tre ore al suo volo per la California. «Sarà meglio che vada. È stato il giorno più triste della mia vita, Nora.» «Anche per me. Teniamoci in contatto, ti prego.» Elizabeth si congedò nientemeno che con un abbraccio e andò verso la macchina che aveva preso a noleggio, ferma nel viale. Nora rimase a guardarla compunta, con le braccia conserte. Ma dietro la facciata impassibile, il cuore le batteva all'impazzata. L'aveva fatta franca! Nessuno sospettava né dell'omicidio né della truffa. Si voltò per rientrare in casa. Ma, fatti due passi, si fermò: le era sembrato di sentire un rumore proveniente dalla siepe di sempreverde. Una serie di clic. Guardò verso il limitare della proprietà e tese l'orecchio, ma non udì più nulla. Decise che doveva essere stato un uccello. Mentre varcava la soglia, la fotocamera digitale Nikon D1-X cinguettò ancora un po', appollaiata sui rami di un rododendro. Clic. Clic. Clic. Nora Sinclair non era l'unica ad avere un piano ambizioso. PARTE SECONDA L'ASSICURATORE 25 Non sempre le cose sono come sembrano, figliolo. Mio padre me lo ripeteva continuamente, quando ero bambino. Mi diceva spesso anche di portare fuori la spazzatura, rastrellare le foglie secche in giardino, spalare la neve, non perdere tempo, tenere la schiena dritta e così via. Ma nessuna di queste raccomandazioni mi è rimasta impressa quanto quel suo primo insegnamento, così semplice eppure, come ho avuto modo di imparare negli anni, così vero! Ero seduto nel mio nuovo ufficio, che praticamente era uno sgabuzzino, talmente piccolo che persino Houdini ci si sarebbe sentito stretto, e guardavo sul monitor del computer le foto che avevo scattato con la fotocamera digitale: Nora elegantissima, in nero dalla testa ai piedi; Nora nella chiesa
di St Mary e al cimitero di Sleepy Hollow; Nora nella «modesta dimora» di Connor Brown. Le ultime gliele avevo scattate sui gradini davanti al portone della villa, mentre parlava con la sorella del caro estinto, Elizabeth. Elizabeth era alta e bionda e sembrava una campionessa di nuoto californiana. Nora invece era bruna, lievemente più bassa, ancora più bella. In realtà erano entrambe due splendide donne, persino vestite a lutto. Piangevano, e dopo un po' si abbracciavano. Che cosa stavo cercando esattamente? Non lo sapevo, ma più guardavo quelle foto, più mi tornavano in mente le parole di mio padre: Non sempre le cose sono come sembrano. Presi il telefono per chiamare il mio capo. Composi il numero diretto. Due squilli e mi sentii rispondere in tono vivace: «Susan». Né pronto, né altro: solo «Susan». «Buongiorno, sono il signor Tal dei Tali, della compagnia... Allora, che te ne pare?» «Sembri uno che vuole vendere un'assicurazione.» «Sono troppo newyorkese?» «In che senso? Troppo insistente? No.» «Bene.» «Dimmi ancora qualcosa, però. Per sicurezza», aggiunse. Riflettei per un attimo. «Okay. Allora, c'è un vecchietto che muore e va in paradiso», ricominciai con la stessa voce, che alle mie orecchie suonava molto newyorkese. «Se la sai già, fermami.» «La so già.» «Non è possibile. Fidati, fa morire dal ridere.» «Dici sempre così.» A questo punto va messo in chiaro, nel caso non si sia già capito, che tra me e il mio capo c'è un certo feeling. Ovviamente ci sono uomini che hanno dei problemi ad avere una donna come superiore e, quando Susan venne promossa direttore del dipartimento, ci furono quattro o cinque colleghi che le fecero la guerra fin dal primo giorno. Ragion per cui il secondo o il terzo lei li licenziò. Non scherzo. E nemmeno Susan. «Insomma, il vecchietto arriva davanti a san Pietro e vede due cartelli», continuai a raccontare. «Il primo cartello dice: UOMINI CONTROLLATI DALLA MOGLIE. Il vecchietto guarda e vede una fila lunga dieci chilometri.» «Naturale.»
«No comment. Allora guarda l'altro cartello, che dice: UOMINI NON CONTROLLATI DALLA MOGLIE, e si accorge meravigliato che in fila da quella parte c'è un tipo soltanto. Gli si avvicina lentamente e gli fa: 'Scusi, come mai lei è qui?' L'altro lo fissa e risponde: 'Non lo so. Me l'ha detto mia moglie'.» Tesi l'orecchio e, come prevedibile, udii una risatina leggera all'altro capo della linea. «Hai visto che ti ha fatto ridere? Dovrei fare il comico.» «Ammetto che era divertente. Se fossi in te, però, adesso mi occuperei dell'interessantissimo nuovo lavoro che ti è stato affidato.» Risi. «Questa sì che è esilarante: com'è che definisci 'interessantissimo' un lavoro che neanche rientra nelle mie competenze?» «Devo interpretare queste tue parole come un'ammissione di insicurezza?» «No, è pura e semplice paura.» «Perché? Sei molto portato per queste cose. Hai un grande...» Susan si interruppe a metà frase. «Oh, capisco. È perché si tratta di una donna, vero?» «No, è solo che è un po' diverso.» «Non preoccuparti, te la caverai benissimo. Indipendentemente dal tipo di donna che si rivelerà essere Nora Sinclair, tu sei l'uomo più adatto a gestirla», ribatté Susan. «Allora, a quando le presentazioni?» «Domani.» «Bene. Tienimi al corrente.» «Certo», dissi. «Ah, Susan, senti...» «Sì?» «Grazie per la fiducia.» «Accidenti!» «Cosa?» «Non sono abituata a simili dimostrazioni di modestia da parte tua.» «Ci provo. Dio solo sa con quanto impegno.» «Lo so. In bocca al lupo.» 26 L'ospedale psichiatrico pubblico di Pine Woods si trovava a Lafayetteville, nello Stato di New York, a circa un'ora e un quarto di macchina da Westchester. Per tutti tranne che per Nora, naturalmente. Lanciò la sua
nuova Mercedes decappottabile a più di centotrenta chilometri l'ora sulla Taconic Parkway e arrivò all'ospedale in cinquanta minuti. Fermò la macchina nel parcheggio, premette un pulsante e alzò la capote. Perfetto. Diede una controllatina nello specchietto retrovisore e si aggiustò i capelli. Il make-up era a posto. Anche perché si era truccata pochissimo quel giorno. Poi, chissà per quale ragione, le venne in mente la sorella di Connor, la Bionda di Ghiaccio. Il pensiero di Elizabeth la preoccupava un po', come se fosse rimasto qualcosa in sospeso tra loro. Con un'alzata di spalle, lo scacciò e chiuse a chiave la macchina, benché in quel posto sperduto non ce ne fosse bisogno. Indossava un paio di jeans e una semplice camicia bianca e sottobraccio aveva un libro appena comprato. Si avviò verso l'ingresso dell'edificio di mattoni. In giro non c'era anima viva. Conosceva a memoria la routine: erano quattordici anni che andava in quel posto una volta la settimana. Prima bisognava fermarsi all'accettazione, mostrare un documento d'identità, firmare un modulo e farsi dare il pass, poi prendere l'ascensore a sinistra del bancone. Il primo anno Nora saliva al secondo piano, poi sua madre era stata trasferita di sopra. Nessuno glielo aveva mai detto apertamente, ma Nora sapeva che più alto era il piano in cui veniva ricoverato un paziente, minori erano le probabilità che venisse dimesso. Entrò in ascensore e premette il bottone contrassegnato con il numero 8. L'ultimo. 27 Per la caposala Emily Barrows era proprio una giornata no. Non era successo niente di particolarmente grave, ma il computer faceva le bizze, era finito il toner della fotocopiatrice, aveva mal di schiena e una terribile emicrania e qualcuno del turno di notte aveva rovesciato il caffè su una cartella clinica. E non era nemmeno mezzogiorno. Inoltre, per l'ennesima volta si trovava a gestire una nuova infermiera, che aveva il difetto di sorridere troppo e di chiamarsi Patsy, un nome un tantino troppo allegro per i suoi gusti. Emily e Patsy erano nella sala infermieri dell'ottavo piano, quando le porte di uno degli ascensori si aprirono. Emily alzò gli occhi dalla cartella
macchiata di caffè e vide avvicinarsi un viso familiare. «Buongiorno, Emily.» «Salve, Nora.» «Come sta?» «Bene.» Questo breve dialogo tra le due si ripeteva praticamente identico in occasione di ogni visita e si concludeva sempre nello stesso modo. Le condizioni della madre di Nora erano stabili. Emily lanciò un'occhiata a Patsy che guardava e ascoltava con un sorriso insulso sulle labbra. «Patsy, ti presento Nora Sinclair», le disse. «È la figlia di Olivia, la otto zero nove.» «Oh», fece Patsy, con una lieve esitazione. Un errore da principiante. Nora annuì. «Piacere di conoscerla, Patsy.» Le augurò buona fortuna e si avviò per il lungo corridoio. A voce bassa, Patsy chiese preoccupata: «Olivia Sinclair? Quella che uccise il marito?» Sempre sottovoce, ma in tono più sbrigativo, Emily rispose: «Così decretò la giuria. Successe tanto tempo fa». «Secondo te non è stata lei ad ammazzarlo?» «Oh, sì che è stata lei.» «Non capisco. Come mai è finita qui?» Emily si accertò che Nora fosse abbastanza lontana. «A quanto ho saputo, ma tieni presente che è passato un sacco di tempo, fu condannata all'ergastolo. Per i primi cinque anni fu una detenuta modello, poi impazzì.» «E cioè?» «Perse il senso della realtà. Cominciò a parlare in una lingua inventata, a voler mangiare solo cose che cominciavano per 'b'.» «Cose che cominciavano per 'b'?» ripeté Patsy. «Be', sarebbe stato peggio se avesse scelto la 'x'. Se non altro così poteva mangiare biscotti, burro, banane...» Patsy, con la prontezza di un concorrente a un quiz televisivo, aggiunse: «Budino?» Emily sbatté gli occhi, perplessa. «Ehm... sì, certo. Comunque, dopo un po' Olivia tentò il suicidio e, di conseguenza, la spedirono qui.» Rifletté per un attimo. «O forse prima tentò di togliersi la vita e poi cominciò a comportarsi in modo strano. Fatto sta che, a oltre vent'anni di distanza, Olivia Sinclair non si ricorda neppure più come si chiama.»
«Che tristezza!» esclamò Patsy che, con grande stupore di Emily, riusciva a esprimere preoccupazione senza perdere il sorriso. «Secondo te, che cosa le è successo?» «Non ne ho la più pallida idea. Sembra una via di mezzo tra l'autismo e l'Alzheimer. Riesce ancora a dire alcune parole e a fare qualcosa da sola, ma i suoi gesti sono insensati. Per esempio, hai visto il libro che sua figlia aveva sottobraccio?» Patsy scosse la testa. «Nora tutti i mesi le porta un romanzo. Ma lei lo 'legge' tenendolo capovolto.» «Nora lo sa?» «Sì, purtroppo.» Patsy sospirò. «Be', è una bella cosa che continui a venire a trovarla.» «Sì, tanto più che sua madre non la riconosce nemmeno.» 28 «Ciao, mamma, sono io.» Nora entrò nella stanza, prese la mano della madre tra le sue e la strinse, ma non ottenne alcuna reazione. Non che se l'aspettasse: ormai si era abituata. Olivia Sinclair era stesa sul letto fatto, sopra le coperte, la schiena appoggiata a due cuscini sottili. Pelle e ossa, con lo sguardo perso nel vuoto, aveva cinquantasette anni ma ne dimostrava ottanta. «Come stai? Tutto bene?» le chiese Nora. La guardò girare lentamente la testa verso di lei. «Sono io, Nora.» «Sei molto carina.» «Grazie. Sono stata dal parrucchiere. Per un funerale, figurati un po'.» «Mi piace leggere, sai?» disse Olivia. «Sì, lo so.» Nora le mostrò l'ultimo romanzo di John Grisham. «Infatti ti ho portato un altro libro.» Glielo porse, ma la madre non lo prese. Nora lo posò sul comodino e si sedette su una poltrona accanto al letto. «Mangi abbastanza?» «Sì.» «Che cos'hai avuto per colazione?» «Uova e pane tostato.» Nora si sforzò di sorridere. I momenti più dolorosi erano proprio quelli in cui sembrava che madre e figlia conversassero per davvero, quando in realtà era tutta una farsa. Volle comunque accertarsene, forse spinta da una
sorta di autolesionismo. «Sai come si chiama il presidente degli Stati Uniti?» «Sì, certo. Jimmy Carter.» Sapendo che era inutile correggerla, Nora si mise a parlarle del suo lavoro e le descrisse alcune delle case che aveva arredato ultimamente. Poi l'aggiornò sulle amiche di Manhattan: Elaine lavorava troppo nel nuovo studio legale e Allison era un'autorità in fatto di moda a W. «Mi sono davvero affezionate, mamma.» «Permesso?» La porta si aprì ed entrò Emily con un vassoio. «È l'ora delle medicine, Olivia.» L'infermiera si muoveva a scatti, un po' come un robot. Sollevò la brocca dell'acqua sul comodino e riempì un bicchiere. «Ecco qua.» La madre di Nora prese la pillola e la inghiottì senza fare storie. «Oh, è l'ultimo?» disse Emily adocchiando il romanzo sul comodino. «Sì, è appena uscito», rispose Nora. Olivia sorrise. «Mi piace leggere, sai?» «Bene», rispose Emily. Olivia prese il libro, lo aprì e cominciò a sfogliarlo, tenendolo a testa in giù. Emily guardò Nora, che sembrava una donna molto bella e coraggiosa, e si avviò verso la porta. Ma prima di uscire disse: «Oh, a proposito... Il coro del liceo si esibisce nella sala mensa. Stiamo per portare giù tutti i pazienti. Può venire anche lei, se le fa piacere, Nora». «No, grazie. Stavo per andare. Ho molto da fare in questo periodo.» Quando Emily fu uscita, Nora si alzò, si avvicinò al letto e diede un bacio in fronte alla madre mormorando: «Ti voglio bene. Mi piacerebbe che lo capissi». Olivia Sinclair non disse nulla e guardò la figlia uscire dalla stanza. Poco dopo, rimasta sola, sfilò la sovraccoperta al nuovo libro e la capovolse. Dopodiché, con la copertina a rovescio e le pagine per il verso giusto, cominciò a leggere. 29 Avevo pulito l'obiettivo della mia macchina digitale tre volte nel giro di venti minuti. Nel frattempo, avevo contato il numero di punti nella cucitura della fodera di pelle del volante (trecentododici), programmato la posizione del
sedile (un poco più alto e meno inclinato) e memorizzato una volta per tutte la pressione ottimale per i pneumatici della BMW 330i (2,5 bar gli anteriori, 2,7 i posteriori, diceva il manuale nel vano portaoggetti). Una noia mortale. Forse mi sarei dovuto annunciare con una telefonata. No, decisi. Le presentazioni andavano fatte di persona. Faccia a faccia. A costo di aspettare in macchina finché non mi si addormentavano le chiappe. Se avessi immaginato che la mia attesa era destinata a trasformarsi in un appostamento, mi sarei comprato qualcosa da mangiare, magari delle ciambelle da Dunkin' Donuts, Krispy Kreme, 7-Eleven, o in un posto qualsiasi. Ma dov'è finita? Dieci minuti dopo, dall'altro lato di Central Drive, vidi arrivare una Mercedes rossa decappottabile che imboccò il viale semicircolare davanti alla villa del fu Connor Brown. Si fermò e scese lei. Nora Sinclair. Ragazzi, che donna! Si chinò per prendere un sacchetto della spesa posato su quello che qualcuno ha il coraggio di chiamare «sedile posteriore». Quando cominciò a frugare nella borsa in cerca delle chiavi, io ero in mezzo al prato. «Mi scusi... Ehm, signorina, mi scusi!» gridai. Lei si voltò. Stavolta non era vestita di nero come al funerale, ma in jeans e camicia bianca. Gli occhiali da sole, però, erano gli stessi. Aveva splendidi capelli: lucidi, folti, di un bel color castano scuro. Mi rendo conto di essere ripetitivo, ma... ragazzi, che donna! Quando le fui di fronte, mi sforzai di non calcare troppo l'accento e chiesi: «Lei è Nora Sinclair?» Nonostante le lenti scure, vidi che mi stava studiando attentamente. «Dipende. Lei chi è?» «Oh, mi scusi. Non mi sono presentato.» Le porsi la mano. «Craig Reynolds.» Nora spostò il sacchetto della spesa nella sinistra e mi strinse la mano. «Piacere», disse in tono ancora diffidente. «Si chiama Craig Reynolds e...?» Infilai una mano nella tasca interna della giacca ed estrassi un biglietto da visita. «Sono della Centennial One Life Insurance», spiegai porgendoglielo. Lei lo guardò. «Condoglianze.» Nora si ammorbidi leggermente. «Grazie.» «Allora, lei è Nora Sinclair?»
«Sì, sono io.» «Immagino che fosse molto legata al signor Brown.» Di nuovo diffidente replicò: «Sì. Eravamo fidanzati. Mi dica, che cosa desidera?» Toccava a me fare la faccia disorientata. «Come, non lo sa?» «Che cosa?» Lasciai passare un momento. «Il signor Brown aveva un'assicurazione sulla vita. Parliamo di un milione e novecentomila dollari.» Mi fissò interdetta. Esattamente come mi aspettavo. «Immagino che non sappia neppure che l'unica beneficiaria è lei, signorina Sinclair.» 30 Nora fu molto brava a mantenere la calma. «Come ha detto che si chiama, scusi?» mi chiese. «Craig Reynolds. È scritto lì, sul biglietto da visita. Sono responsabile dell'agenzia locale della Centennial One qui a Briarcliff Manor.» Mentre Nora spostava il peso da un piede all'altro con estrema grazia e guardava di nuovo il mio biglietto da visita, le scivolò il sacchetto della spesa dal braccio. Mi chinai e lo presi al volo prima che finisse per terra. «Grazie», disse lei. «Sarebbe stato un disastro.» «Senta, glielo porto dentro io: tanto devo parlarle.» Sapevo benissimo che cosa stava pensando. Un tizio mai visto prima stava cercando di introdursi in casa sua. Uno sconosciuto che le aveva appena offerto una caramella. Sotto forma di un bel mucchio di soldoni. Rilesse ancora una volta il biglietto da visita. Tentai una battuta. «Non si preoccupi, non mordo.» Lei accennò un sorriso. «Mi scusi, non voglio sembrare troppo sospettosa, ma sono ancora un po'...» «Lo so, è un brutto momento. Non deve scusarsi. Se preferisce, possiamo parlare della polizza in un'altra occasione. Preferisce venire in ufficio da me?» «No, no, va bene. La prego, si accomodi.» Nora entrò in casa e io la seguii. Fin lì, tutto bene. Camminava con una grazia straordinaria. Guardarla ballare doveva essere uno spettacolo. «Vaniglia e nocciola?» domandai. Lei si voltò perplessa. «Come, scusi?»
Indicai il pacchetto di caffè che spuntava dal sacchetto della spesa. «L'ho riconosciuto dal profumo. Ultimamente ho assaggiato una nuova miscela alla crème brûlée che ha un aroma molto simile.» «Sì, è vaniglia e nocciola. Complimenti», rispose. «Avrei preferito avere un fisico bestiale, invece ho soltanto un olfatto eccezionale.» «Meglio di niente.» «Vedo che pensa positivo, signorina Sinclair.» «In questi giorni non tanto.» Mi diedi una pacca sulla fronte. «Scusi, sono veramente maldestro. Mi perdoni.» «Non importa», disse lei con un mezzo sorriso. Salimmo gli scalini ed entrammo nella villa. L'atrio era molto più grande di casa mia e il lampadario sopra le nostre teste doveva costare più o meno quanto io prendevo di stipendio in un anno. Per non parlare dei tappeti persiani, dei vasi cinesi... Un lusso esagerato! «La cucina è da questa parte», mi disse facendo strada. Anche quel locale era più grande di casa mia. Nora Sinclair mi indicò il bancone di marmo accanto al frigorifero e disse: «Appoggi pure lì. Grazie». Ubbidii e mi accinsi a svuotare il sacchetto della spesa. «Non è il caso.» «È il minimo che possa fare, dopo la gaffe di poco fa.» «Si figuri.» Mi si avvicinò e prese il pacchetto di caffè vaniglia e nocciola. «Posso offrirgliene una tazza?» «La accetto molto volentieri, grazie.» Mentre lei preparava il caffè, feci attenzione a tenermi sulle generali. Non volevo espormi troppo o troppo velocemente per evitare che mi facesse domande imbarazzanti. Era già abbastanza difficile così. Difatti, pochi minuti dopo, quando ci sedemmo al tavolo della cucina a prendere il caffè, Nora Sinclair mi disse: «C'è una cosa che non capisco: Connor aveva un sacco di soldi e non aveva né moglie né figli. Perché avrebbe fatto un'assicurazione sulla vita?» «Bella domanda. La spiegazione sta nel fatto che non fu il signor Brown a venire da noi, ma noi ad andare da lui. O, meglio, alla sua società.» «Non la seguo.» «La Centennial One sta puntando molto sulle polizze infortuni e, per incoraggiare le aziende a sottoscriverle per i loro dipendenti, offre ai dirigenti un'assicurazione gratuita sulla vita.»
«Non male come incentivo.» «Sì, in effetti funziona.» «A quanto ha detto che ammonta la polizza di Connor?» Come se lo avesse dimenticato. «Un milione e novecentomila dollari. Il massimo previsto per società delle dimensioni della sua.» Nora aggrottò la fronte. «E ha nominato me unica beneficiaria?» «Sì.» «Quando?» «Vuol sapere quando è stata sottoscritta la polizza?» Nora Sinclair fece di sì con la testa. «È piuttosto recente, in effetti. Risale a cinque mesi fa.» «Capisco. Stavamo insieme da pochissimo, allora.» Sorrisi. «Evidentemente teneva già molto a lei.» Nora Sinclair cercò di sorridere a sua volta, ma le lacrime le colavano lungo le guance. Si asciugò gli occhi e si scusò. Le assicurai che non c'era problema, la capivo benissimo. Era naturale che fosse commossa. O un'attrice consumata? «Connor mi ha già dato tanto! E ora anche questo...» Si asciugò un'altra lacrima. «Sapesse cosa non darei per riaverlo qui con me...» Bevve un sorso di caffè. Io feci altrettanto. «E adesso che cosa succede? Immagino che dovrò firmare delle carte per avere quei soldi, giusto?» Mi sporsi leggermente verso di lei, stringendo la tazza fra le mani. «Be', vede, è proprio per questo che sono qui, signorina Sinclair. C'è un piccolo problema.» 31 Aveva il tono e i modi di fare dell'assicuratore, ma il look non era convincente. Tanto per cominciare, Nora notò che non era affatto mal vestito. La cravatta era intonata alla giacca, non troppo fuori moda. E poi era simpatico. I pochi assicuratori che aveva conosciuto in vita sua erano totalmente privi di personalità. Craig Reynolds, invece, era un uomo interessante, si presentava bene e aveva una bella macchina. Era vero che si trovavano a Briarcliff Manor e non nel Bronx, e che per lavorare in una grossa compagnia di assicurazioni da quelle parti era indispensabile adeguarsi un po' all'ambiente, ma era comunque meglio andare con i piedi di
piombo. Aveva osservato Reynolds con cura, prendendo mentalmente nota di tutti i particolari, quando si era presentato e soprattutto dopo che aveva preso la tazza di caffè con due mani annunciando che c'era un «piccolo problema» con la polizza di Connor. «Che tipo di problema?» chiese. «Alla fine penso che si rivelerà una bolla di sapone ma, data l'età relativamente giovane del signor Brown, è stato deciso di procedere a una perizia.» «E chi lo ha deciso?» «Quelli della sede centrale a Chicago. Sono loro che comandano.» «Lei non ha voce in capitolo?» «Non molta, in questo caso. Come le ho detto, la polizza del signor Brown è stata emessa dalla divisione corporate, che dipende dalla sede centrale. La gestione operativa, tuttavia, spetta all'agente della zona di residenza del cliente. Voglio dire, se non fosse per la perizia, sbrigherei tutto io.» «Chi se ne occuperà, invece?» «Non me l'hanno ancora detto, ma immagino che sarà John O'Hara.» «Lo conosce?» «Solo di fama.» «Oh oh.» «Cosa c'è?» «Ha fatto la faccia scura.» «No, si figuri. Dicono che sia uno stronzo - scusi l'espressione - ma è normale, per un perito. A occhio, penso che sarà una procedura di routine.» Mentre Craig Reynolds sollevava la tazza per bere un sorso di caffè, Nora prese mentalmente nota di un altro particolare: non portava la fede. «Le piace il vaniglia e nocciola?» gli chiese. «Il sapore è ancora migliore del profumo.» Nora si appoggiò allo schienale e gratificò Reynolds di un bel sorriso. Sembrava proprio un tipo gentile e premuroso e quando rideva gli si formavano due graziose fossette sulle guance. Peccato che sia squattrinato. Non che Nora avesse di che lamentarsi. In quel momento l'assicuratore Craig Reynolds valeva ai suoi occhi un milione e novecentomila dollari: una manna inaspettata che non intendeva lasciarsi sfuggire. L'unico inconveniente era quella benedetta perizia che, per quanto di routine, la preoc-
cupava un po'. Giusto un pochino. Il suo piano era praticamente perfetto, studiato in modo da reggere a indagini ben più severe da parte della polizia, del medico legale e di chiunque provasse a metterle i bastoni fra le ruote. Compagnia di assicurazioni compresa. Ciononostante, quando Craig Reynolds se ne andò, quel pomeriggio, Nora decise di sparire dalla circolazione per qualche giorno. Quel fine settimana sarebbe dovuta andare a trovare Jeffrey in ogni caso. Tanto valeva partire con un giorno di anticipo e fargli una sorpresa. In fondo era suo marito. 32 L'indomani mattina, venerdì, Nora uscì dalla villa di Westchester, aprì il bagagliaio della Mercedes rossa ferma davanti al portone e vi caricò la valigia. Le previsioni del tempo promettevano cielo azzurro, sole e temperature massime intorno ai venticinque gradi. Una giornata ideale per viaggiare con la macchina scoperta. Premette il bottone del telecomando e stette a guardare la capote che si abbassava lentamente, senza far rumore. Fu in quel momento che notò un'altra macchina. Chi diavolo sarà? Ferma sotto gli aceri e le alte querce di Central Drive era parcheggiata la stessa BMW del giorno precedente. E seduto al volante, con gli occhiali da sole sul naso, c'era l'assicuratore. Craig Reynolds. Che cosa ci fa di nuovo qui? Il modo migliore per scoprirlo era andarglielo a chiedere. Nora si avviò verso la BMW pensando che il giorno prima il signor Reynolds era stato molto cordiale, ma il fatto che adesso la stesse spiando dalla macchina era un po' preoccupante. Anzi, sospetto. Per questo motivo stette molto attenta a non reagire in maniera eccessiva né in un senso né nell'altro. Vedendola arrivare, Craig scese prontamente dall'auto e, con indosso un completo estivo color tabacco, le andò incontro salutandola cordialmente con la mano. Si incontrarono a metà strada. Nora piegò la testa da una parte e sorrise. «Se non la conoscessi, direi che mi stava spiando.» «Se avessi voluto farlo avrei scelto un nascondiglio migliore, non le pare?» Anche lui sorrise e aggiunse: «Mi scusi. Non è come sembra. La col-
pa è dei Mets, per la verità». «Vuole dare la colpa a una squadra di baseball?» «Sì, commissario tecnico compreso. Stavo per entrare nel viale di casa sua, quando The Fan ha detto che i Mets vogliono acquistare un famoso giocatore dalla squadra di Houston, così ho accostato e mi sono fermato a sentire.» Nora lo guardò senza capire. «The Fan?» «È una stazione radio che trasmette solo sport.» «Capisco. Allora non mi stava spiando?» «No. Non sono James Bond, ma solo un povero tifoso dei Mets.» Nora annuì pensando che o le stava dicendo la verità, o era un bugiardo nato. «E come mai stava venendo da me?» domandò. «Per darle una buona notizia. John O'Hara, il perito della sede centrale di cui le ho parlato, è stato ufficialmente incaricato dell'inchiesta sulla morte del signor Brown.» «Non mi pare che sia una buona notizia.» «D'accordo. Ma la cosa positiva è che stamattina gli ho parlato e mi ha detto che crede non ci saranno difficoltà.» «Bene.» «Non solo: l'ho convinto a sbrigare la pratica al più presto. Mi sono dovuto sorbire la solita predica sul fatto che i clienti sono tutti uguali eccetera eccetera, ma gliel'ho chiesto come favore personale. Pensavo che le facesse piacere saperlo, signorina Sinclair.» «La ringrazio, signor Reynolds. È stato molto gentile.» «Perché non ci diamo del tu?» «Volentieri.» L'assicuratore lanciò un'occhiata in direzione della decappottabile rossa ferma davanti alla villa, con il bagagliaio ancora aperto, e disse: «Sei in partenza, Nora?» «Sì.» «E dove vai di bello?» «Non so se lo consideri un bel posto. Vado in Florida.» «Sai come si dice, ottimo per un viaggetto, ma non vorrei dover votare da quelle parti.» Nora scoppiò a ridere. «La racconterò al mio cliente di Palm Beach. O forse è meglio di no.» «Che lavoro fai, se non sono indiscreto?» «L'arredatrice.»
«Davvero? Dev'essere divertente. Voglio dire, non sono tanti i mestieri in cui si è pagati per spendere i soldi degli altri, no?» «No, effettivamente.» Nora guardò l'orologio. «Ops, qualcuno sta per arrivare in ritardo all'aeroporto.» «Scusami, non ti trattengo.» «Be', allora, signor Reyn...» Si corresse. «Grazie di tutto, Craig. Sei stato veramente gentile.» «Nessun problema, Nora. Appena saprò qualcosa a proposito della perizia, ti informerò.» «Grazie ancora.» Si strinsero la mano. Craig stava già per andarsene quando disse: «Senti, forse, visto che starai via per un po', sarebbe meglio che mi lasciassi il numero del cellulare». Per una frazione di secondo Nora esitò: era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma preferiva non mostrarsi diffidente. «Certo», rispose perciò. «Hai da scrivere?» 33 Appena salito in macchina, telefonai a Susan. I miei due primi incontri con Nora Sinclair meritavano un rapporto al capo. «Vista di persona è davvero così bella?» «È questa la prima cosa che mi chiedi?» «Certo», rispose Susan. «Non può fare quello che sospettiamo, a meno che non sia bellissima. Allora, sentiamo: com'è?» «Come faccio a dirtelo in maniera professionale?» «Basta che tu sia sincero.» «Be', allora la risposta è sì. Nora Sinclair è una donna affascinante. O, meglio, un gran pezzo di...» «Sei proprio un porco!» Risi. «Che impressione ti ha fatto?» mi domandò a quel punto Susan. «È troppo presto per dirlo. O non ha nulla da nascondere, o è una bugiarda nata.» «Scommetto dieci dollari sulla seconda ipotesi.» «Vedremo.» «Dato che te ne occupi tu, penso che vinceremo.» «Se continui a lusingarmi così, mi gonfierò fino a toccare il soffitto.»
«Lo faccio perché voglio che tu riesca nella missione.» «Ah, adesso capisco: il manuale di istruzioni dice che devi far leva sul mio orgoglio.» «Stai tranquillo, il manuale non prevede la gestione di tipi come te», ribatté lei. «Dove sei in questo momento?» «Davanti alla casa del povero Connor Brown.» «Sei già passato alla fase due?» «Sì.» «Quanto ci ha messo ad accorgersi che eri lì?» «Pochi minuti.» «Mets o Yankees?» «Mets. Gli Yankees hanno già chiuso la campagna acquisti di quest'anno.» «E pensi che lei lo sappia?» «No, ma una delle quattro virtù cardinali è la prudenza.» «Amen», disse Susan. «Se l'è bevuta?» «Penso di sì.» «Bene. Visto? Sapevo che eri l'uomo giusto per questo lavoro.» «Ahi!» «Cosa c'è?» «Ho battuto la testa contro il soffitto. Ti avevo avvertito che se continuavi a lodarmi...» «Tienimi aggiornata, mi raccomando.» «Sarà fatto, capo.» «Non essere irriverente.» «Pardon.» Susan riattaccò. 34 Nora non aveva percorso molta strada quando mise del tutto a fuoco la sgradevole sensazione lasciatale dall'incontro con l'assicuratore. A quel punto, all'altezza del campo da golf Trump National, frenò di colpo e fece una brusca inversione a U pensando che, se si fosse sbrigata, poteva ancora raggiungerlo. Craig Reynolds ha qualcosa che non mi convince. Non solo perché fa lo spiritoso. Premette sull'acceleratore e ripercorse a gran velocità la strada appena
fatta. In uno dei vari viali alberati sterzò per superare una Volvo che andava come una lumaca e poco più avanti ricevette un'occhiataccia di disapprovazione da un'anziana signora a passeggio con un cocker. Si chiese se non stesse sbagliando. Aveva avuto una reazione esagerata? Era veramente necessario tornare indietro a controllare? Ma la sensazione sgradevole permaneva, più forte di qualsiasi dubbio. Accelerò. Era quasi arrivata. Che cosa...? Nora inchiodò, incredula: la BMW nera era ancora ferma nello stesso punto. Craig Reynolds non se n'era andato. Perché? Che cosa sta facendo? Nora innestò la retromarcia e accostò al marciapiede, vicino a un gruppo di pini e di cespugli molto folti che nascondevano la Mercedes senza impedirle di osservare la scena. Da quella distanza, però, non riusciva a vedere che cosa stesse facendo Craig Reynolds. Forse parlava al telefono. Nel giro di circa un minuto le luci di posizione si accesero e la BMW partì, con uno sbuffo di fumo dalla marmitta. L'assicuratore toglieva il disturbo. Nora non sapeva dove fosse diretto, ma era fermamente intenzionata a scoprirlo. Abbandonò senza esitazione l'idea di fare una sorpresa a Jeffrey a Boston in favore di un nuovo piano, denominato «Alla scoperta del vero Craig Reynolds». 35 Eccolo che se ne va. Nora non poteva seguirlo troppo da vicino, perché Craig Reynolds conosceva la sua macchina. E il fatto che fosse rossa non aiutava. Peccato che la Mercedes non produca decappottabili mimetiche, BRIARCLIFF MANOR CITTÀ FONDATA NEL 1902 Prima ancora di vedere il cartello, Nora aveva indovinato che Craig era diretto in centro. Bene. Dopo due incroci alcune auto provenienti dalla Route 9A le erano passate davanti mentre lei era ferma allo stop, perciò riusciva a scorgerlo a stento. Fortunatamente il traffico era scarso, altrimenti l'avrebbe perso di vista.
Nora conosceva bene il centro della cittadina, perché c'era stata varie volte con Connor: le case popolari si alternavano a lussuosissimi palazzi; vi abitava gente che aveva fatto i soldi da poco o che non ne aveva per nulla. Lungo la via principale, piena di banche e negozietti, c'erano lampioni vecchio stile e i marciapiedi erano affollati di anziane signore e solerti mammine che spingevano passeggini. Amalfi, il ristorante italiano che piaceva tanto a Connor, era gremito per l'ora di pranzo. Nora temette nuovamente di aver perso Craig e tirò un sospiro di sollievo quando intravide la BMW nera che svoltava a sinistra poco più avanti. Quando anche lei girò, si accorse che lui aveva già parcheggiato e stava scendendo dall'automobile. Accostò immediatamente e lo vide entrare in un edificio dalla facciata di mattoni. Immaginò che fosse il suo ufficio. Vi passò lentamente davanti e, difatti, sopra le finestre del primo piano scorse un'insegna che diceva: CENTENNIAL ONE LIFE INSURANCE. Bene, pensò. Fece inversione e andò a parcheggiare a una quarantina di metri dal portone. A quanto pareva Craig Reynolds era quel che diceva di essere, ma Nora non era ancora del tutto convinta. Il suo sesto senso le suggeriva che quell'uomo nascondeva qualcosa. Si preparò a una lunga attesa. L'edificio era anonimo, a due piani, senza fronzoli. Forse persino i mattoni della facciata erano finti. Aveva visto un documentario in televisione che spiegava come venivano fatti. L'appostamento, in realtà, durò meno del previsto. Una ventina di minuti dopo Craig uscì dal portone e risalì in auto. Nora alzò la testa e aspettò che si avviasse. E adesso dove sei diretto, Assicuratore? Ovunque tu vada, io verrò con te. 36 Il Blue Ribbon Diner, un locale a pochi chilometri dal centro, in direzione est, non lontano dalla Saw Mill River Parkway. Ecco dov'era diretto Craig Reynolds. Un classico. L'edificio era un parallelepipedo con rifiniture cromate e finestre lungo tutti i lati. Nora trovò un parcheggio un po' defilato, ma con vista sull'ingresso, e guardò l'ora: era mezzogiorno passato. Quella mattina non aveva fatto colazione e aveva una fame da lupi. Se
ne rese conto solo in quel momento, anche perché si trovava sottovento rispetto alla cucina. Il profumo di hamburger e fritture la spinse a frugare nella borsa in cerca di un pacchetto di caramelle alla menta. Una quarantina di minuti dopo Craig uscì tranquillo dal locale. Osservandolo, Nora notò che, oltre a essere decisamente attraente, aveva un bel portamento, disinvolto e sicuro di sé, al limite della tracotanza. Il pedinamento ricominciò. Craig fece un paio di commissioni e poi tornò in ufficio. Quel pomeriggio Nora fu tentata di lasciar perdere almeno una decina di volte, ma sempre si convinse che fosse meglio rimanere dov'era, parcheggiata non lontano dall'ingresso della Centennial One. Le interessava soprattutto scoprire come Craig Reynolds passava le serate. Ha una vita sociale movimentata? Una donna? E dove abita esattamente? Verso le sei ebbe le prime risposte a quegli interrogativi. Nell'ufficio si spensero le luci e Craig Reynolds uscì dal portone. Ma non andò in un bar, in un ristorante o a un appuntamento con la fidanzata, perlomeno non quella sera. Comprò una pizza in un takeaway e tornò a casa. Fu a quel punto che Nora scoprì che Craig Reynolds mentiva almeno riguardo a una cosa. Non è affatto ricco come vuol far credere. A giudicare da dove abitava, spendeva tutto in automobili e vestiti. Stava in uno squallido condominio di Pleasantville, in mezzo a una serie di squallidi edifici e centri commerciali. Facciata bianca, persiane nere, giardinetto o terrazzino. Un alloggio tutt'altro che di lusso, insomma. Che paghi fior di alimenti alla ex moglie? O forse ha dei figli da mantenere... Che cosa nasconde? Nora si chiese se aspettare ancora un po' davanti agli Ashford Court Garden Apartments: magari Craig aveva qualche progetto per la serata, più tardi. Oppure, rifletté Nora, era lei che delirava perché non aveva mangiato niente in tutto il giorno. Le era bastato vedere la scatola della pizza di Craig perché le venisse l'acquolina in bocca. Le caramelle alla menta ormai erano finite: meglio mettere qualcosa sotto i denti. Magari all'Iron Horse a Pleasantville? Una cenetta al ristorante da sola. Che cosa insolita! Mise in moto, soddisfatta di aver seguito Craig Reynolds fin lì. Le persone sono spesso diverse da quello che sembrano e le bastava guardarsi allo specchio per ricordarsene. Questo le fece venire in mente un altro dei
suoi mantra: la prudenza non è mai troppa, a costo di sembrare paranoici. 37 L'inserzione sul Westchester Journal diceva che l'appartamento aveva una vista spettacolare. Non si capiva su che cosa, dal momento che la facciata dava su una traversa di Pleasantville e il retro su un parcheggio e un enorme cassonetto della spazzatura. L'interno era ancora peggio. Pavimento di linoleum in tutte le stanze, poltrona e divanetto di finta pelle nera e una «cucina moderna», si fa per dire. A meno che per cucina moderna gli inserzionisti non intendessero dire che c'erano l'acqua corrente e l'elettricità. Difficile definire «moderni» tavoli e mobiletti in formica gialla. La birra, però, era in fresco. Posai la pizza sul tavolo e presi una bottiglia dal frigo prima di sedermi sul divano un po' sfondato in mezzo al mio «ampio soggiorno». Per fortuna, non soffro di claustrofobia. Presi il telefono. Ero sicuro che Susan fosse ancora in ufficio. «Ti ha seguito?» mi chiese senza tanti preamboli. «Tutto il giorno.» «Ti ha visto entrare in casa?» «Sì.» «È ancora lì fuori?» Sbadigliai sonoramente. «Stai dicendo che dovrei alzarmi dal divano e andare a vedere?» «No, puoi portarti dietro il divano, se preferisci.» Sorrisi. Mi piacciono le donne con la battuta pronta. Alla finestra c'era una vecchia tenda avvolgibile completamente abbassata. Ne sollevai con cura un lembo e curiosai fuori. «Mm», mormorai. «Cosa c'è?» Nora aveva parcheggiato poco lontano, ma adesso la sua auto non c'era più. «Si dev'essere stufata», dissi. «Bene. Vuol dire che ti ha creduto.» «Secondo me, sarei stato più credibile se avessi avuto un appartamento decente. A Chappaqua, per esempio.» «Ti lamenti, forse?» «No, la mia era un'osservazione imparziale.»
«Non capisci. In questo modo Nora si sente in vantaggio», disse Susan. «Se hai una macchina e dei vestiti che non ti puoi permettere, sei più umano.» «Non più attraente?» «Nora lo è?» «Sì. Molto.» «Ecco, appunto.» «Ti ho detto che il tavolo e i mobili della cucina sono di formica gialla?» «Piantala, non può essere un appartamento così schifoso!» «Fai presto a dirlo, tu che non ci vivi.» «Neanche tu ci vivi. È solo una sistemazione temporanea.» «E meno male! Ora che ci penso, forse lo hai scelto apposta per invogliarmi a sbrigare la faccenda più in fretta», ribattei. «Be', in effetti...» «Pensi proprio a tutto, eh?» «Ci provo», rispose lei. «A parte gli scherzi: hai fatto un buon lavoro oggi.» «Grazie.» Susan fece un sospiro e concluse: «Okay, allora è ufficiale: Nora Sinclair ha seguito Craig Reynolds. E adesso?» «Facile: adesso tocca a me», risposi. 38 C'era un solo posto libero in prima classe. In circostanze normali, Nora si sarebbe rammaricata che non fosse quello proprio accanto al suo, ma il vicino era un gran bel ragazzo. Visto di profilo assomigliava un po' a Brad Pitt, ma senza la fede al dito e Jennifer a braccetto. Durante il decollo, controllò di sottecchi il suo compagno di viaggio, sicura che anche lui stesse facendo la stessa cosa. Naturale. Quale uomo potrebbe resistere? Neanche lei aveva la fede al dito. Era certa che, non appena il comandante avesse spento il segnale delle cinture di sicurezza, il bel ragazzo avrebbe fatto la prima mossa. «Io sono un impilariviste», esordì lui infatti. Nora si voltò fingendo di essersi accorta soltanto in quel momento della sua presenza. «Come, scusi?» «Vede le riviste sul tavolino?» Il bel ragazzo indicò con un sorriso il numero di Architectural Digest che Nora aveva aperto sulle ginocchia e i
giornali che aveva posato sul tavolino. Nella pagina a destra c'era una foto di un ampio soggiorno. «A questo mondo ci sono solo due categorie di persone», spiegò. «Quelle che tengono le riviste in pila e quelle che le spargono ovunque. Lei di quale categoria fa parte?» Nora lo guardò dritto negli occhi. Come pretesto per attaccare bottone, era piuttosto originale. «Be', dipende. Chi lo vuole sapere?» «Ha ragione», esclamò lui ridendo. «Non si rivelano informazioni così personali a un perfetto sconosciuto. Piacere, mi chiamo Brian Stewart.» «Nora Sinclair.» Le tese la mano, robusta e con le unghie curate. Nora gliela strinse. «Adesso che ci conosciamo, Nora, mi aspetto una risposta da te.» «Be', ti farà piacere sapere che anch'io sono un'impilariviste.» «Lo sapevo!» «Ah, sì?» «Sì.» Si sporse leggermente verso di lei, ma non troppo. «Hai un'aria molto rigorosa.» «È un complimento?» «Per me, sì.» Nora sorrise. Forse il vero Brad Pitt era più bello, ma Brian Stewart aveva innegabilmente un certo fascino. Quanto bastava per continuare a chiacchierare con lui. «Dimmi, Brian, chi c'è ad aspettarti a Boston oggi?» «Una decina di finanziatori. E una penna.» «Interessante. Immagino che la penna sia per firmare un contratto.» «Più o meno.» Nora si aspettava ulteriori spiegazioni, ma lui tacque. Sorridendo disse perciò: «Io ti ho rivelato di essere un'impilariviste e tu adesso fai il timido...» Brian Stewart cambiò posizione sulla sua poltrona accanto al finestrino e assunse un'aria divertita. «Anche questa volta hai ragione. Okay. L'anno scorso ho venduto la mia ditta di software e oggi pomeriggio sto per fondarne un'altra. Una noia...» «Non direi. Comunque, complimenti! E i finanziatori di cui parlavi sono disposti a investire su di te?» «Be', io la penso così: perché dovrei rischiare i miei soldi se ci sono altri disposti a rischiare i loro?» «Sono d'accordissimo.» «E tu, Nora? Chi ti aspetta a Boston?» «Un cliente», rispose. «Faccio l'arredatrice.»
Brian Stewart annuì. «E il tuo cliente abita in centro?» «Sì. Solo che non gli sto arredando la casa di Boston. Si è appena fatto costruire una villa alle isole Cayman.» «Gran bel posto.» «Io non ci sono mai stata. Ma prevedo di andarci presto.» Nora aprì la bocca come per aggiungere qualcosa, ma si fermò. «Che cosa stavi per dire?» le chiese lui. Lei alzò gli occhi al cielo. «Oh, una sciocchezza.» «Dài, sentiamo.» «Solo che, quando ho parlato di questo cliente con una mia amica, lei mi ha detto che probabilmente aveva scelto le Cayman perché sono un paradiso fiscale.» Scosse la testa con convincente ingenuità. «Voglio dire, spero di non restare coinvolta in qualcosa di losco.» Brian Stewart sorrise con l'aria di chi la sa lunga. «Oh, non preoccuparti. C'è un sacco di gente che ha conti in banche off-shore.» «Davvero?» Brian Stewart si avvicinò fino a pochi centimetri dalla faccia di lei e bisbigliò: «Ne ho uno anch'io». Poi sollevò il bicchiere di champagne e aggiunse: «Sarà il nostro piccolo segreto, d'accordo?» Nora alzò a sua volta il bicchiere e brindarono. Forse valeva la pena di approfondire la conoscenza con Brian Stewart. «Ai segreti», disse Nora. «Agli impilariviste», replicò lui. 39 «Che cosa gradisce da bere?» chiese la hostess. Alzai la testa e la osservai: era stanca e annoiata a morte, ma si sforzava di essere gentile anche con i passeggeri seduti in fondo. «Una Coca-Cola Light, per favore», dissi. «Mi dispiace, le ho finite dieci file fa.» «Ginger Ale?» La hostess guardò le lattine aperte sul carrello e borbottò: «Mm». Poi si chinò e uno dopo l'altro aprì tutti i cassetti. «Mi dispiace, non ne ho più.» «Perché non proviamo all'altro modo, allora? Lei mi dice che cos'è rimasto e io scelgo», proposi con un sorriso stentato. «Le piace il succo di pomodoro?» Solo con un sacco di vodka e un gambo di sedano. «Non ha altro?»
«Ho ancora una Sprite.» «Non più.» Ci mise un attimo a capire che era il mio modo per dire: «Okay, la prendo». Versò la Sprite in un bicchiere di plastica e me lo porse assieme a un sacchetto di salatini. Mentre si allontanava con il carrello, alzai il bicchiere e lo guardai controluce. Con un po' di fantasia, sarebbe potuto sembrare lo champagne che molto probabilmente Nora stava bevendo in prima classe. Mangiai un salatino e cercai di sgranchirmi le gambe. Vana speranza: con il tavolino abbassato, non mi restava un centimetro di spazio in nessuna direzione. Prevedevo il blocco totale della circolazione fino al polpaccio nel giro di pochi minuti. Mi venne in mente che il leitmotiv della mia impresa fino a quel momento era stato quello: la claustrofobia. Avevo un ufficio minuscolo, un appartamento che era un buco, un posto in ultima fila in classe economica dove non riuscivo neppure a muovere le gambe e sentivo la puzza della toilette. Ma c'erano anche dei lati positivi. Il bello di pedinare una persona in aereo è che durante il viaggio non devi preoccuparti di perderla di vista: non c'è pericolo che uno ti sfugga dalla porta di servizio a diecimila metri di quota. Lanciai un'occhiata in direzione della tenda azzurra che ci divideva dalla prima classe. Le probabilità che Nora per qualche motivo venisse a mescolarsi tra noi pezzenti in classe economica erano scarsissime, ma dovevo comunque stare attento. Ero sicuro che all'aeroporto di Westchester, prima della partenza, lei non mi aveva visto. E se anche mi avesse scorto, di certo non mi aveva riconosciuto. Oltre al berretto da baseball dei Red Sox, agli occhiali da sole, alla tuta da ginnastica e alla catenina d'oro al collo, sfoggiavo un bel paio di baffi finti. E, dulcis in fundo, tenevo una copia del Daily News aperta a un palmo dal naso. No, Nora non aveva il minimo sospetto di essere stata seguita in aereo. Non avevo dubbi. Quel che non sapevo, però, era la risposta alla domanda numero uno. Che cosa andava a fare a Boston? 40
Seguii Nora con la sua bella valigetta trolley sulle scale mobili e oltre il salone del ritiro bagagli. Come sempre, era bella vista da davanti, di fianco e di dietro. Aveva un'andatura favolosa e un sorriso radioso. Non alzò la testa una sola volta per leggere le indicazioni sui cartelli: era chiaro che non era la prima volta che atterrava al Logan Airport. Uscita dal terminal, si fermò bruscamente e si guardò in giro. Qualche minuto dopo capii che cosa cercava. Né un taxi, né l'automobile di un amico, ma la navetta della Hertz. Appena salì a bordo, mi precipitai verso i taxi in attesa. «Mi porti al parcheggio della Hertz!» urlai al conducente. Si voltò: aveva una faccia da vecchio lupo di mare, piena di rughe. «Cosa?» «Mi porti...» «Ho sentito benissimo, amico. Ma guardi che c'è la navetta gratis.» «Non mi piace aspettare.» «Nemmeno a me.» Puntò il dito verso il finestrino posteriore e disse: «Vede la fila di macchine dietro di me? Non ho atteso tutto questo tempo per fare una corsa da tre dollari». Guardai davanti. Il pulmino su cui era salita Nora si allontanava sempre di più. «Okay, spari una cifra», dissi. «Trenta dollari. È la mia ultima offerta.» «Venti.» «Venticinque.» «Affare fatto. Andiamo.» 41 Il taxi partì a razzo e io tirai fuori subito il cellulare. Avevo memorizzato i numeri di tutte le compagnie aeree, le catene di alberghi e le società di autonoleggio: era un must, nel mio mestiere. Chiamai la Hertz. Dopo un minuto di messaggi preregistrati, riuscii finalmente a parlare con un essere umano. «Per quando le serve la vettura?» mi chiese la signorina. «Tra cinque minuti. Forse anche meno.» «Oh.» Mi promise di fare del suo meglio per accontentarmi. Per prudenza, avvertii il tassista che forse avrei avuto ancora bisogno di lui. Ma per fortuna non fu così.
L'autista del pulmino di Nora aveva una guida molto tranquilla e lo sorpassammo addirittura prima di arrivare a destinazione. Quando Nora si accomodò su una Sebring decappottabile grigio metallizzato, io ero già al volante del mio minivan. Sì, un minivan. Voglio dire, chi si immagina di essere seguito da una vettura del genere? Ciononostante, ebbi cura di mantenere una certa distanza tra di noi. Finché Nora non dimostrò di avere una guida un po' più sportiva dell'autista del pulmino. Degna di un pilota di Formula Uno, per la verità. Più acceleravo, più mi sembrava che lei andasse veloce. Invece di mimetizzarmi tra le altre auto, ero costretto a continui sorpassi. Altro che anonimo minivan. Merda. Il semaforo era rosso. Ne avevo già ignorato uno, ma questa volta si trattava di un incrocio pericoloso. Nora era passata e io no. Vidi la sua auto rimpicciolirsi sempre di più e imprecai. Non mi restava che aspettare, benché il pensiero di essere arrivato fino a Boston per perderla in modo così stupido mi facesse venire i nervi. Verde! Premetti l'acceleratore, suonai il clacson e partii sgommando. Stavo rischiando di perdere quella partita a rimpiattino. Guardai il tachimetro: cento, centodieci, centoventi all'ora. Eccola! Vidi l'auto di Nora in lontananza e cercai di avvicinarmi cambiando corsia. Il traffico mi agevolava: riuscivo a zigzagare senza dare troppo nell'occhio. Sembravo essere a una svolta. Peccato che anche Nora stesse per svoltare. 42 Me ne sarei dovuto accorgere, ma ero troppo preso a fissare il grosso camion carico di materassi che mi preparavo a sorpassare e non vidi il cartello sul viadotto. Peccato. Con il piede sull'acceleratore, mi affiancai al camion e Nora uscì dalla mia visuale. Protesi il collo per individuarla. E, invece di Nora, mi si parò davanti una serie di quei bidoni verniciati di giallo pieni d'acqua che vengono messi davanti alle barriere spartitraffico in cemento per attutire l'impatto nel caso un veicolo ci vada a sbattere contro.
Guardai il camion. Eravamo alla stessa altezza e l'autista mi guardava dall'alto della cabina di guida. Fissai di nuovo i bidoni gialli, sempre più vicini. La carreggiata stava per biforcarsi. Io ero nella corsia di sinistra e Nora in quella di destra. Dovevo assolutamente spostarmi. Maledetto camion! Stavo per passarlo, ma l'autista accelerò. Strombazzai e diedi gas. Nora, più avanti, arrivò all'altezza dello spartitraffico e imboccò la corsia di destra. Io ero ancora in quella di sinistra e avevo sempre meno spazio di manovra. Cazzo! Frenai. Dal momento che ormai non potevo più sorpassare il camion, decisi di infilarmi dietro. Quando l'autotreno, che pesava almeno dieci tonnellate contro le due del mio veicolo, cominciò a sterzare, il minivan e io fummo scossi da un tremito: il camion stava cercando di spostarsi sulla mia corsia. Non sentii né le automobili che suonavano dietro di me né lo stridore dei freni: solo il cuore che mi batteva all'impazzata. Il muso del minivan era a pochi millimetri dalla coda del camion, metallo contro metallo. Vidi delle scintille e persi il controllo del volante. Dopo una serie di testa coda, rischiai addirittura di rovesciarmi. Ma poi... Splash! L'airbag si aprì e i bidoni pieni d'acqua fecero il resto. Presi una brutta botta, ma mi resi conto subito che in realtà era stato un gran colpo di fortuna. Quando scesi dal minivan, le altre macchine stavano già ripartendo. Non si era fatto male nessuno. Avevo allagato la strada, ma non mi ero fatto neanche un graffio. Che idiota! Ero furibondo con me stesso. Dopo un po' mi decisi a telefonare. «L'ho persa.» «Cosa?» esclamò Susan. «L'ho persa.» «Ho capito. Come hai fatto?» «Ho avuto un incidente.» Susan cambiò immediatamente tono, preoccupata. «Stai bene?» «Sì, tutto okay.»
«In tal caso... Come cazzo hai fatto a perderla?» «Guida come una forsennata.» «E tu no?» «Dico sul serio: avresti dovuto vederla.» «Anch'io dico sul serio!» urlò Susan. «Dovevi tenerle dietro!» Mi sforzai di non innervosirmi, ma Susan non mi stava facilitando il compito. Per quanto fossi tentato di risponderle per le rime, mi rendevo conto che la sua rabbia era giustificata. «Hai ragione», le dissi. «Ho fatto casino.» Leggermente più calma, Susan mi chiese: «Pensi che ti abbia visto?» «No, non credo. Non stava cercando di seminarmi. È solo che ha la guida veloce.» «Quanti bagagli aveva?» «Solo una piccola valigia trolley che ha portato come bagaglio a mano.» «Okay. Cerchiamo di limitare i danni. Torna a New York. Dovunque sia andata, presumibilmente presto rientrerà a casa di Connor Brown.» Pensai che mi conveniva cambiare argomento. «Abbiamo avuto l'okay all'operazione?» «Sì, partiamo nel giro di pochissimo. I documenti dovrebbero arrivare al più presto. Ti farò sapere.» La salutai, e la telefonata sarebbe dovuta finire lì. Susan, però, era fatta a modo suo: nel caso non avessi capito bene quanto era rimasta delusa, me lo ripeté ancora una volta. «Fai buon viaggio», mi disse. «E mi raccomando, cerca di non combinare altri casini, almeno per oggi.» Chiuse la comunicazione e io rimasi lì. Scossi la testa, poi iniziai ad andare avanti e indietro per smaltire la rabbia, senza risultato. Anzi, più camminavo, più mi infuriavo. A un certo punto sferrai un pugno nel minivan. E così dovetti restituirlo con un finestrino di meno. 43 Nora guardò di nuovo nello specchietto retrovisore. Dietro di lei era successo qualcosa, forse un incidente. In ogni caso, si trattava solo di una coincidenza: nulla che avesse a che fare con la strana sensazione che l'accompagnava da quando era uscita dal parcheggio della Hertz. L'impressione di non essere sola.
Adesso che era arrivata nel cuore della Back Bay, si era molto affievolita. In Commonwealth Avenue il traffico era tale che si procedeva a passo d'uomo. Anzi, forse a piedi si sarebbe fatto prima. C'era una manifestazione di protesta in Newbury Street, e gli effetti si ripercuotevano in tutte le strade adiacenti. Nora dovette fare tre giri per trovare un parcheggio. Sulla navetta si era messa la fede al dito. Dopo la consueta controllatina nello specchietto, si sentì pronta. Prese la valigia, chiuse la capote e via... È ora di andare in scena, bellezza. Come al solito, quando entrò aprendo con la propria chiave, trovò Jeffrey al lavoro. Ormai aveva capito che solo tre attività riuscivano a distoglierlo dalla scrittura: mangiare, dormire e fare sesso. Non necessariamente in questo ordine. Invece di chiamarlo, Nora andò in punta di piedi verso il retro della casa. Concentrato e con la musica di sottofondo, Jeffrey non l'avrebbe certamente udita. Aprì la porta accanto all'office e uscì nel cortile privato della villa. Grazie agli alti graticci coperti di edera e alle piante disposte in maniera strategica, era completamente al riparo da occhi indiscreti. Le bastò un minuto per prepararsi. Stesa sui cuscini di una chaise-longue di vimini, prese il cellulare e compose un numero. Sentì il telefono squillare all'interno della casa. Dopo un po' Jeffrey rispose. «Tesoro, sono io», disse Nora. «Oh, non dirmi che non vieni.» Lei rise. «Non ancora, no.» «Aspetta un momento: dove sei?» «Dai un'occhiata dalla finestra sul cortile.» Alzò gli occhi proprio mentre Jeffrey si affacciava dalla biblioteca. Lo vide rimanere a bocca aperta e poi scoppiare a ridere, mentre la sua voce al telefono balbettava: «Oh... Io...» Nora si era tolta tutto a parte i sandali. Mormorò civettuola: «Noti niente che ti piace?» «Sì. Anzi, per la verità, non c'è nulla che non mi piaccia.» «Bene. Attento a non farti male correndo giù per le scale.» «Chi ha detto che prendo le scale?» Jeffrey aprì la finestra, scavalcò il davanzale e si calò lungo la grondaia di rame con movimenti atletici. Nora lo osservò compiaciuta.
Se esisteva un record di velocità per lo spogliarello maschile, Jeffrey lo batté senza problemi. Poi le si avvicinò lentamente sulla chaise-longue, le salì a cavalcioni e la abbracciò. Sapeva essere molto sensuale, quando non era davanti al computer. Nora chiuse gli occhi e non li riaprì per tutto il tempo in cui fecero l'amore. Voleva provare qualcosa per Jeffrey, qualsiasi cosa: ma non riusciva a sentire nulla. Su, Nora. Sai come si fa. Ci sei già passata. La voce dentro la sua testa non sembrava più quella di una vecchia amica, ma piuttosto di un'estranea poco gradita. Cercò di ignorarla, ma fu inutile: quella alzava il tono, diventava sempre più insistente e prepotente. Jeffrey raggiunse l'orgasmo e si staccò da lei con il respiro affannoso. «Che magnifica sorpresa! Come te non c'è nessuno.» Chiedigli se ha fame, Nora. Avrebbe voluto gridare, ribellarsi alla vocina malefica, ma sarebbe stata una perdita di tempo: c'era un solo modo per metterla a tacere. E Nora sapeva qual era. «Dove vai?» le chiese Jeffrey. Nora si era alzata senza dire una parola e stava rientrando in casa. «In cucina», rispose voltando solo la testa. «Vado a vedere che cosa posso prepararti per cena. Ho voglia di farti qualcosa da mangiare.» 44 Santp cielo, che cosa devo fare? Finora è stato un disastro. Il Turista era seduto solo nella squallida saletta con un'altra Heineken. Ne aveva già bevute quattro. O cinque? A quel punto, tenere il conto non gli pareva molto importante, così come non gli interessava la partita degli Yankees alla TV, né la pizza con salsiccia e cipolla che si stava raffreddando nel piatto. Posati sul tavolo c'erano gli articoli sulla sparatoria di New York. Ne erano usciti almeno dieci o dodici. La vicenda aveva risvolti non del tutto inaspettati per lui. Gli interrogativi irrisolti erano tanti e le congetture e le ipotesi, alcune plausibili ma la maggior parte decisamente assurde, si sprecavano. Il bigliettino che accompagnava i ritagli di giornale le riassumeva bene. «Il circo è arrivato in città. Tieni la testa bassa, Turista. A presto.» Il Turista sorrise e rilesse le dichiarazioni contraddittorie dei testimoni
oculari. Un giornalista scriveva sul Daily News: «Com'è possibile che lo stesso episodio sia stato descritto in maniera così diversa da persone che si trovavano al massimo a cinque o sei metri di distanza?» «Già, com'è possibile?» disse il Turista ad alta voce. Si appoggiò all'indietro e mise i piedi sul tavolo. Non aveva alcun timore che la sua identità venisse scoperta. Aveva preso tutte le precauzioni e cancellato ogni traccia. Era invisibile come un fantasma. C'era una sola cosa che lo disturbava. Che cos'era l'elenco che aveva copiato dal flash drive? Cosa volevano dire tutti quei conti off-shore? Un miliardo e quattrocento milioni di dollari. Che cosa significavano? Valevano la vita di un povero fesso davanti alla Grand Central Station? A quanto pareva, sì. Valevano anche la vita di altre persone? Per esempio la sua? Decisamente no. Avrebbe mai capito il significato del disegno più vasto di cui tutto questo faceva parte? Chissà. Lui sperava ardentemente di sì. 45 Jeffrey guardò Nora seduta all'altro capo della tavola apparecchiata, oltre i candelabri. «Sei sicura che ti vada bene?» «Certo», rispose lei. «Non so, mi sei sembrata delusa, quando ho proposto di cenare fuori invece che a casa.» «Non dire sciocchezze. È un posto bellissimo.» Nora cercò di far corrispondere parole e linguaggio corporeo, ma le occorse un notevole sforzo per riuscirci. A quell'ora avrebbe dovuto essere a casa di Jeffrey, intenta a preparargli l'ultima cena della sua vita. Ormai era deciso. Invece erano nel ristorante preferito di Jeffrey e lei non si era mai sentita così tesa: le sembrava di essere un cavallo da corsa davanti a un cancello di partenza che non si apre. «Adoro questo locale», disse lui guardandosi intorno. Erano al ristorante La Primavera, nel North End di Boston. L'arredamento era semplice ed elegante, con tovaglie bianche di lino, stoviglie scintillanti e luci soffuse, e
appena si erano seduti un cameriere aveva posato sul tavolo una brocca d'acqua naturale. In quel momento, tuttavia, Nora non era dell'umore per apprezzare il servizio impeccabile. Jeffrey ordinò l'ossobuco e Nora il risotto con funghi porcini, ma non aveva assolutamente appetito. Avevano scelto un chianti classico Poggiarello riserva '94. Proprio quello che le ci voleva. Quando ebbero finito di mangiare, Nora portò la conversazione sul fine settimana successivo. Il lavoro lasciato in sospeso la preoccupava. «Ti farò sapere quando sarò di ritorno, tesoro» disse lui. «Vado a quella fiera del libro in Virginia.» «È vero, me n'ero scordata!» Nora avrebbe voluto urlare. «Probabilmente ho delle resistenze a lasciarti in balia di centinaia di fan adoranti!» Jeffrey intrecciò le dita e si sporse in avanti. «Ascolta, ho riflettuto sul nostro matrimonio», disse. «O, meglio, sull'atteggiamento che ho avuto finora al riguardo, sul fatto che l'ho voluto tenere segreto. Temo di essere stato ingiusto nei tuoi confronti.» «Perché dici così? Io non mi sento per niente...» «No, lo so, sei stata molto comprensiva. Ma questo mi fa sentire ancora più in colpa, capisci? Voglio dire, ho sposato una donna meravigliosa e mi sembra giusto farlo sapere a tutto il mondo.» Nora si sentì in dovere di sorridere, ma dentro di lei erano scattati tutti gli allarmi possibili e immaginabili. «E le tue ammirataci?» domandò. «Tutte le donne che la settimana prossima in Virginia aspettano di vedere uno degli scapoli più sexy e più appetibili degli Stati Uniti?» «Che vadano a farsi fottere.» «Lo vorrebbero tanto anche loro, credo», gli fece notare Nora con un sorriso. Jeffrey allungò le braccia e le prese le mani. «Tu sei stata molto comprensiva e io terribilmente egoista, ma ora basta», disse stringendogliele. Nora capì che era inutile cercare di dissuaderlo, perlomeno in quel momento. Come tutti gli uomini, quando prendeva quella che riteneva la decisione migliore per lei non c'era verso di fargli cambiare idea. «Senti, facciamo così», propose. «Vai alla fiera del libro, incanta le fan con la tua bellezza, il tuo fascino e la tua erudizione e quando torni ne riparliamo.» «Come vuoi», disse lui, con il tono di chi non è d'accordo. «C'è solo un piccolo problema.» «Quale?» chiese Nora. Vuoi chiedermi di nuovo di sposarti in mezzo a un ristorante affollato?
«Ieri ho rilasciato un'intervista a New York Magazine in cui ho parlato anche di te e delle nostre nozze a Cuernavaca. Avresti dovuto vedere la faccia della giornalista: non stava nella pelle dalla voglia di veder pubblicato il suo scoop. Mi ha chiesto qualche foto di noi due per la rivista e io le ho promesso che gliele avrei fatte avere.» Nora non riuscì a rimanere impassibile. «Le hai detto di sì?» esclamò, incredula. «Sì», ripeté lui stringendole le mani con più forza. «Non è un problema per te, vero?» «No, certo.» È una catastrofe, pensò. 46 Nora tornò a Manhattan nel tardo pomeriggio del giorno successivo. Il suo appartamento, con i comfort, la tranquillità e tutte le cose che si era comprata nel corso degli anni, le era mancato. Aveva nostalgia di quella che considerava la sua vita vera. Mentre riempiva la vasca da bagno, ascoltò i messaggi sulla segreteria telefonica. Li aveva controllati periodicamente durante la sua assenza, ma ce n'erano quattro nuovi. I primi tre riguardavano questioni di lavoro, clienti rompiscatole. L'ultimo era di Brian Stewart, il sosia di Brad Pitt conosciuto sull'aereo per Boston. Il messaggio era breve e molto tenero, di quelli che piacevano a lei. Brian diceva che gli aveva fatto molto piacere conoscerla e che sperava di rivederla. «Dovrei rientrare a New York alla fine della settimana e mi piacerebbe portarti fuori una sera. Ci divertiremo, vedrai.» Se proprio insisti, Brian. Nora fece il suo bagno caldo, poi ordinò la cena al ristorante cinese e controllò la posta. Prima della fine del telegiornale delle undici si addormentò sul divano. E la mattina dopo si svegliò tardi. Poco prima di mezzogiorno, entrò da Hargrove & Sons, nell'Upper East Side. Personalmente lo trovava un negozio molto noioso e non sopportava tutti quei commessi ancora più vecchi dei mobili che vendevano, ma era uno dei posti preferiti del famoso produttore cinematografico Dale Minton, che aveva insistito per darle appuntamento proprio lì. Nora girò per il negozio da sola per qualche minuto finché, passando accanto all'ennesimo divano scozzese, non si sentì battere su una spalla.
«Sei tu, Olivia!» Si trovò di fronte Steven Keppler, il fiscalista newyorkese di mezz'età, con il suo vistoso riporto, eccitatissimo. «Salve», disse Nora, cercando disperatamente di farsi venire in mente come si chiamava. «Come stai, Steven?» «Bene, grazie. Ti stavo chiamando da un po', ma tu non mi hai sentito.» Nora minimizzò. «Oh, mi capita spesso, quando faccio shopping: non mi accorgo di niente di quello che mi succede intorno.» Steven rise esclamando che era proprio una splendida combinazione incontrarla lì e a Nora vennero in mente gli sguardi libidinosi che le aveva rivolto quando era andata nel suo studio. Come poteva dimenticarsene? Anche quel giorno stava già cominciando a sbavare con gli occhi. È possibile sbavare con gli occhi? Be', Keppler ci riusciva. Nel frattempo, lei teneva sotto controllo l'ingresso sperando che Dale Minton non arrivasse proprio in quel momento. «Sei qui per diletto o per lavoro?» chiese Steven. «Ho appuntamento con un cliente», rispose lei guardando l'orologio. Proprio in quel momento Dale Minton varcò la soglia con passo sicuro, come se il negozio fosse suo. Peraltro, se lo sarebbe potuto tranquillamente comprare, se gli fosse saltato il ghiribizzo. «Anzi, eccolo che arriva», aggiunse Nora cercando di non lasciarsi prendere dal panico. Il pensiero che Dale la chiamasse Nora davanti a Steven o che Steven la chiamasse Olivia davanti a Dale la mandava in paranoia. «Ti lascio al tuo lavoro», le disse Steven. «Però devi promettermi che una sera di queste verrai a cena con me.» Da bravo opportunista, aveva capito che in quel momento Nora avrebbe detto di sì più facilmente: non aveva tempo per inventare qualche scusa. E infatti lei rispose: «Volentieri. Chiamami». «D'accordo. All'inizio della settimana prossima sono in ferie, ma appena rientro ti telefono. Promesso.» Steven Keppler le voltò le spalle prima che Dale Minton le si avvicinasse. Nora tirò un sospiro di sollievo: aveva schivato per un pelo un colpo potenzialmente mortale. «È stato un piacere rivederti, Olivia», concluse a gran voce Steven. Nora gli fece un sorriso poco convinto e lanciò un'occhiata a Dale, che sembrava confuso. «Sbaglio o quell'uomo ti ha appena chiamato Olivia?» le chiese.
Nora invocò in cuor suo la dea delle risposte pronte e la sua preghiera fu esaudita. Si avvicinò a Dale e gli bisbigliò all'orecchio: «L'ho conosciuto a una festa qualche mese fa e gli ho detto che mi chiamavo Olivia. Per ovvie ragioni». Dale annuì, tranquillizzato, e Nora sorrise. Poteva continuare a vivere la sua doppia vita. Almeno per il momento. 47 Una bionda nascosta dietro un paio di occhiali scuri si fermava a guardare ora un mobile, ora l'altro. Si sentiva un po' ridicola a giocare a fare la detective, ma doveva sorvegliare Nora Sinclair. In qualsiasi città che non fosse New York avrebbe dato nell'occhio, ma nell'Upper East Side di Manhattan, tra i clienti di Hargrove & Sons, nessuno faceva caso a lei. Si fermò davanti a un appendiabiti di rovere con lucidi ganci di ottone e finse di controllare il prezzo, fissando invece Nora Sinclair. O era forse Olivia? Non sapeva come interpretare la conversazione appena ascoltata. Chiunque risponda a due nomi, però, deve avere la coscienza sporca. Continuò a osservare Nora, che nel frattempo era stata raggiunta da un uomo di una certa età. Per prudenza seguitò a girovagare, allontanandosi un po' da loro, ma riuscì ugualmente a seguire almeno in parte la conversazione. L'uomo attempato era senza dubbio un cliente, e lei si comportava da perfetta arredatrice dandogli consigli e facendo i commenti giusti: era chiaro che se ne intendeva. D'altronde non era in discussione la sua professionalità, bensì la sua vita privata. O, meglio, le sue due vite. Per il momento non c'erano prove, tuttavia, ed era per questo che la bionda aveva deciso di controllare di persona. «Posso esserle d'aiuto, signora? Cerca qualcosa in particolare?» La bionda si voltò e si trovò di fronte un anziano commesso in giacca di tweed, farfallino e occhiali dalla montatura fuori moda. «No, grazie», rispose a voce bassissima. «Stavo dando un'occhiata in giro, ma finora non ho ancora trovato niente.»
48 Dopo aver perso le tracce di Nora a Boston quel sabato pomeriggio, trascorsi il classico fine settimana di merda. Nella graduatoria dei miei gesti inconsulti, tirare un pugno al finestrino di un minivan preso a noleggio meritava uno dei primi posti. Per fortuna non mi ero procurato fratture, almeno stando alla mia accurata autodiagnosi, che consisteva nel rispondere alla seguente domanda: muovi ancora le dita, pezzo d'idiota? Quando finalmente giunse il lunedì mattina, passai davanti alla casa di Connor Brown per vedere se Nora era rientrata. Non c'era. Tornai sul posto nel tardo pomeriggio e, non vedendo segni della sua presenza, decisi che era giunto il momento di chiamarla al cellulare. Tirai fuori il blocchetto sul quale avevo annotato il numero e lo composi, seduto in macchina. Rispose un uomo. «Scusi, devo aver sbagliato numero», dissi. «Cercavo Nora Sinclair.» L'uomo non conosceva nessuno con quel nome. Chiusi la conversazione e confrontai il numero sul blocchetto con quello che avevo appena digitato sul cellulare. Corrispondeva. Peccato che non fosse quello di Nora. Rimasi a fissare il volante per un po', poi ripresi in mano il telefono e chiamai un altro numero. Questa volta mi rispose una voce di donna, giovanile e cordiale. «Pronto, Centennial One Life Insurance.» «Brava, Molly. Molto convincente», dissi. «Davvero?» «Certo. Se non ti conoscessi, penserei che ti stavi limando le unghie.» Molly era la mia nuova centralinista. Dopo che Nora mi aveva seguito fin sotto l'ufficio, era stato deciso che la filiale della nostra compagnia di assicurazioni non poteva più avere un unico dipendente. «Fammi un favore», le dissi. «Vedi se riesci a trovarmi il numero di cellulare di Nora.» «Non è nel suo dossier?» «Può darsi, ma vorrei assicurarmi che non l'abbia cambiato ultimamente.» «Okay. Dammi dieci minuti.» «Cinque.»
«Ti sembra il modo di trattare la tua nuova centralinista?» «Hai ragione», convenni. «Facciamo quattro.» «Non è giusto!» «Tic... tic... tic...» Molly aveva finito le superiori da due anni soltanto ma, nonostante secondo Susan fosse ancora un po' inesperta e ogni tanto pigliasse qualche abbaglio, stava imparando in fretta. Non rimasi sorpreso, perciò, quando mi richiamò nel giro di tre minuti. «Ha sempre lo stesso numero che risulta nel dossier», mi comunicò. Me lo lesse e io lo confrontai con quello che mi aveva dato Nora. Non potei fare a meno di sorridere. L'unica differenza era nelle ultime due cifre. Che erano invertite. Interessante. Forse ero io che avevo sbagliato a scrivere. Oppure Nora voleva che io lo pensassi. O perlomeno che mi venisse il dubbio. «Ti serve altro?» «No, grazie. Tutto a posto.» La salutai, posai il telefono e ripresi in mano il blocchetto. Nora era riuscita a sfuggirmi ancora una volta, più o meno volontariamente. Che fare adesso? Avevo imparato che a volte c'è differenza tra possedere delle informazioni e poterle usare. Questo era uno di quei casi. Conoscevo il numero di telefono giusto, ma dovevo comportarmi come se non lo avessi. Con la mano ancora dolorante, scrissi un biglietto a Nora e lo infilai sotto la porta della villa di Connor Brown. Ero abbastanza sicuro che l'avrebbe letto. Il problema era quando. 49 Fu il desiderio di non lasciare nulla in sospeso che spinse Nora a tornare a Briarcliff Manor un paio di giorni dopo. Sebbene la sorella di Connor le avesse concesso di restare lì per tutto il tempo che voleva, Nora intendeva andarsene. E sperava di non rivedere mai più la bionda californiana. L'offerta che invece intendeva accettare era quella di tenersi i mobili della villa. Avendola arredata lei, sapeva quanto valeva ogni pezzo. E non si trattava di cifre da poco: nel complesso, in quei mille metri quadrati di casa era racchiusa una piccola fortuna. Se Elizabeth voleva placare i propri sensi di colpa regalandogliela, Nora era più che disposta ad accettare.
Aveva solo bisogno di un po' d'aiuto. «Pronto, Estate Treasures.» «Sono Nora Sinclair. C'è Harriet, per favore?» «Certo. Un attimo solo.» Nora, seduta sulla limousine che la stava portando a casa di Connor, spostò il cellulare all'altro orecchio. Le giunse la voce di Harriet che diceva: «Sentiamo, che cosa desidera la mia arredatrice preferita?» «Scommetto che lo dici a tutti i tuoi clienti.» «È vero, e la vuoi sapere una cosa? Ci credono tutti. Come va il lavoro, Nora?» «Abbastanza bene, grazie. Anzi, ti ho chiamato proprio per questo.» «Quando pensi di passare?» «Veramente stavo per farti la stessa domanda, Harriet. Dovresti venire a fare un sopralluogo con me.» «Oh. E dove? A New York, spero. Nora? Parla, non tenermi sulle spine.» «A Briarcliff Manor. Un mio cliente è mancato qualche giorno fa.» «Mi dispiace.» «Anche a me», rispose Nora in tono pacato. «Comunque, gli eredi mi hanno chiesto di occuparmi del mobilio.» «Vuoi metterlo in conto vendita?» «È quello che pensavo.» «Un sopralluogo, hai detto? Di quanti vani si tratta?» «Ventisei.» «Oh.» «Lo so. Per questo ti ho chiamato. Credo tu sia la persona adatta.» «Scommetto che lo dici a tutti i tuoi fornitori.» «E la vuoi sapere una cosa? Ci credono tutti», ribatté Nora. Parlarono ancora un po' dei mobili e presero un appuntamento. Quando si salutarono, la limousine stava entrando nel viale di Connor. Mentre l'autista scaricava la valigia, Nora scese e si diresse verso la porta. Fu allora che vide il biglietto di Craig Reynolds. «Chiamami appena puoi, per favore.» 50 Allo squillo del telefono dell'ufficio fece seguito la voce di Molly che
annunciava: «È lei». Sorrisi. Non poteva trattarsi che di Nora. Finalmente era tornata. «Ora ti spiego che cosa devi fare, Molly. Di' alla signorina Sinclair che stai per metterla in comunicazione con me, poi lasciala in attesa e inoltrami la telefonata fra quarantacinque secondi esatti.» «D'accordo.» Mi appoggiai allo schienale della poltrona e guardai il soffitto: era coperto di pannelli acustici bianchi, del tipo che fa venire voglia di lanciare delle freccette o delle matite appuntite. Avrei potuto approfittare di quel momento di pausa per raccogliere le idee, ma non facevo altro da una settimana e non sapevo su che altro riflettere. Drin. Grazie, Molly. Sollevai il ricevitore e mi esibii nella mia migliore imitazione dell'assicuratore superimpegnato. «Scusami tanto, Nora, ci sei ancora?» «Sì, sono qui», rispose lei, e dal tono capii subito che non era stata molto contenta di aspettare. «Abbi ancora un attimo di pazienza, ti dispiace?» Senza lasciarle il tempo di obiettare, la misi di nuovo in attesa. Poi guardai il soffitto e contai. Centoventuno centoventidue... A centotrentacinque ripresi la linea e feci un gran sospiro. «Mi dispiace, non volevo farti aspettare tanto», dissi passando alla mia migliore imitazione dell'assicuratore pentito. «Stavo finendo un discorso con un cliente sull'altra linea. Hai trovato il biglietto?» «Pochi minuti fa, sì. Sono a casa di Connor.» Mi parve il momento adatto per controllare quanto era brava a mentire. «Com'è andato il viaggio? Maryland, giusto?» «Veramente sono stata in Florida.» Veramente sei stata a Boston, avevo voglia di ribattere. Sapevo di non poterlo fare, però, e quindi dissi: «Oh, già. 'Ottimo per un viaggetto, ma non vorrei dover votare da quelle parti...' Tutto bene?» «Sì, grazie.» «Ti ho cercato sul cellulare, ma al numero che mi hai dato mi ha risposto un'altra persona.» «Che strano! Che numero hai fatto?» «Ora controllo, aspetta. Ce l'ho qui.» Glielo lessi. «Ho capito!» rispose Nora. «Le ultime due cifre sono otto quattro, non
quattro otto. Spero di non aver sbagliato a dettartelo. Mi dispiace.» Oh, quanto sei gentile. «Figurati. Avrò scritto male io. Non sarebbe il mio primo attacco di 'dislessia numerica'.» «Be', l'importante è che ci siamo trovati.» «Certo. Sai, ti ho cercato perché ti devo parlare della perizia.» «Ci sono novità?» «Diciamo di sì», risposi con una certa esitazione. «Non ti agitare, ma penso che sia meglio che ne discutiamo di persona.» «Brutte notizie, allora?» «No, non è questo che intendevo.» «Se fossero buone, me le avresti date per telefono. Ammettilo.» «Be', forse non sono proprio il massimo, ma ti assicuro che non c'è motivo di allarmarsi. Potremmo vederci più tardi, in giornata?» «Suppongo che potrei passare in ufficio da te verso le quattro.» E io suppongo che tu non abbia bisogno di spiegazioni su come arrivarci, visto che ci sei già stata. «Alle quattro va bene, anzi, benissimo. Però potremmo darci appuntamento da qualche altra parte. Stiamo facendo imbiancare le pareti e c'è una puzza terribile», inventai. «Sai dov'è il Blue Ribbon Diner?» «Sì, ci sono stata.» Lo so. «Bene. Ci vediamo là alle quattro e prendiamo un caffè. O forse, data l'ora, un tè con i pasticcini?» «Se stiamo parlando dello stesso posto, mi sembra più adatto per un caffè.» Risi e mi dichiarai d'accordo. «Ci vediamo alle quattro, allora», confermò. Contaci, Nora. 51 Il Blue Ribbon non avrebbe di certo vinto un premio per la cucina, l'arredamento o il servizio, ma per essere un locale di periferia lo trovavo più che dignitoso. Le uova erano immancabilmente cotte al punto giusto, le bottiglie del ketchup quasi sempre piene e le cameriere, pur non particolarmente cordiali, erano abbastanza professionali: sbagliavano raramente a prendere le ordinazioni ed erano veloci a servire. Quando entrai, pochi minuti prima delle quattro, il proprietario mi salutò con un cenno. Nel breve periodo trascorso in zona, ero diventato un habi-
tué. Senza dubbio c'erano posti in cui si mangiava meglio, ma io non avevo voglia di andarli a cercare. «Veramente aspetto una persona», gli dissi quando con gesto automatico mi porse un solo menu. Era greco e portava un gilè nero tutto macchiato e una camicia bianca stropicciata: era un cliché ambulante, è vero, ma di quelli simpatici. Nora arrivò un paio di minuti dopo. Le feci un cenno dal posto che mi ero scelto, in fondo, con le panche rosse di finta pelle. Indossava una gonna scura, una camicetta color crema che sembrava di seta e i tacchi alti. Per me, Nora? Non era il caso! Essendo troppo tardi per pranzare e troppo presto per cenare, il locale era semivuoto e lei mi scorse subito. Si avvicinò e ci salutammo con una stretta di mano. La ringraziai di essere venuta e notai, en passant, che aveva un buon profumo. Attento, Craig. Appena Nora si sedette, arrivò una cameriera con l'aria seria ed efficiente. Sulla targhetta, invece del nome, aveva scritto un ironico EHI, SIGNORINA. Ordinammo due caffè e io anche una fetta di torta di mele. Per la mia linea sarebbe stato meglio di no, ma mi parve un'astuta mossa strategica. Voglio dire, come si fa a sospettare di uno che sceglie la torta di mele? Mentre la cameriera si allontanava, osservai Nora e vidi che mi conveniva limitare al massimo i convenevoli. Il suo linguaggio corporeo era chiarissimo: tesa, controllata, sulle spine. Era venuta per sentirsi dare delle brutte notizie e non aveva alcuna voglia di prolungare l'attesa. Così arrivai subito al dunque. «Mi dispiace moltissimo», esordii. «Ti avevo detto che era una procedura di routine, niente di cui preoccuparsi. Poi, l'altro giorno...» Lasciai la frase a metà e scossi la testa, affranto. «Che cosa? L'altro giorno cosa...?» «Quel maledetto O'Hara!» esclamai. Non gridai proprio, ma lo dissi a voce sufficientemente alta da far voltare un paio di teste agli altri tavoli. Abbassai il tono e ripresi: «Non so perché affidano a lui le perizie. È talmente esagerato!» Nora mi guardò aspettando che continuassi. Mi resi conto che si stava spazientendo. «Pare che abbia contattato l'FBI», le riferii. Nora fece la faccia confusa. «Non capisco.» «Nemmeno io, Nora. O'Hara è senz'altro la persona più sospettosa che io abbia mai incontrato. Vede complotti da tutte le parti: è un caso patologi-
co, te lo assicuro.» «Straordinario.» Nora si appoggiò allo schienale, con le spalle chine e una luce perplessa negli occhi verdi. Quasi quasi mi faceva pena. «L'FBI? E questo che cosa implica?» «Comporta una cosa che non auguro a nessuno», spiegai. Feci una breve pausa drammatica e conclusi: «Il corpo del tuo fidanzato dovrà essere riesumato». «Come?» «Lo so, è terribile. Se potessi fare qualcosa per evitarlo, ti giuro che non esiterei. Ma ho le mani legate. Per qualche motivo, quell'idiota di O'Hara non concepisce che un quarantenne possa avere un infarto e morire per cause naturali e vuole che vengano fatti altri accertamenti.» «Ma hanno già eseguito l'autopsia.» «Lo so, lo so.» «Questo O'Hara non crede ai risultati dell'autopsia?» «Non si tratta di questo, Nora. È che vuole ulteriori indagini. Gli esami possono essere più o meno approfonditi: magari in fase di autopsia non sono state prese in considerazione certe cose.» «Cosa intendi dire? A quali cose ti riferisci?» La domanda rimase sospesa nell'aria perché in quel momento arrivò la cameriera con i due caffè e la mia fetta di torta di mele. Notai che Nora era sempre più agitata: sembrava sincera, ma non capivo bene il motivo di tanta inquietudine. Avevo di fronte una fidanzata che piangeva il suo compagno o un'assassina che si sentiva improvvisamente mancare la terra sotto i piedi? La cameriera se ne andò. «Quali cose?» Ripresi il discorso ripetendo la sua domanda. «Diverse. Per esempio - sono solo ipotesi, naturalmente - se Connor faceva uso di droghe o aveva una patologia pregressa che non era stata citata nella polizza: in entrambi i casi la compagnia non sarebbe tenuta a pagare.» «Connor non si drogava ed era sano come un pesce.» «Questo lo sappiamo tu e io, ma purtroppo O'Hara no.» Nora aprì una di quelle minuscole confezioni di panna che servono con il caffè e la versò nella tazza, insieme con due bustine di zucchero. «Sai una cosa?» disse poi. «Di' a O'Hara che si tenga pure i soldi dell'assicurazione. Non li voglio.» «Magari fosse così semplice, Nora. La legge prevede che la compagnia paghi il premio, salvo contestazioni. Non puoi rifiutarlo.»
Lei appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani. Quando la rialzò, vidi che lungo la guancia le colava una lacrima. Con un filo di voce chiese: «Volete veramente riesumare il corpo di Connor? È questo che intendete fare?» «Mi dispiace», risposi, ed era vero: se fosse stata innocente? «Ora capisci perché non te ne ho voluto parlare al telefono. L'unica cosa che posso dirti è che, se fossi O'Hara, non farei mai una cosa del genere.» Mentre parlavo così e la guardavo asciugarsi gli occhi con il tovagliolo, non potei fare a meno di pensare a mio padre e alla frase che ripeteva a ogni occasione. Non sempre le cose sono come sembrano. Continuavo a non capire se le sue lacrime erano vere o finte, ma di una cosa ero certo: Nora provava una profonda avversione per John O'Hara. E più O'Hara le stava antipatico, più si sarebbe fidata di me. Era una situazione paradossale. Perché John O'Hara non si trovava alla sede centrale della Centennial One Life Insurance di Chicago, ma era seduto a un tavolo del Blue Ribbon Diner a mangiare una fetta di torta di mele sotto le mentite spoglie di Craig Reynolds. E di mestiere non faceva l'assicuratore. PARTE TERZA GIOCHI MOLTO PERICOLOSI 52 Susan mi sbraitava nell'orecchio, arrabbiatissima. «Le hai detto che riesumiamo il cadavere di Connor? Ma sei impazzito?» «Fidati di me. L'ho fatto a fin di bene», risposi. «Nora è più convinta che mai che io sia dalla sua parte, adesso. Sei stata tu la prima a dire che la riesumazione comportava un certo rischio. Se Nora l'avesse scoperto per conto suo, sarebbe stato ancora peggio, no?» «Ho parlato di un rischio lieve.» «In ogni caso, lo abbiamo eliminato.» «Non parlare al plurale, O'Hara. È stata una tua iniziativa. Io non c'entro niente.» «Okay, ho improvvisato un po'...» «Parecchio, direi. Del resto sei fatto così, no? Tant'è vero che ti cacci sempre nei guai», brontolò. «La pianificazione serve ad agire in modo
concertato, così che ognuno sappia che cosa sta facendo l'altro.» «Però devi ammettere che non è stata una mossa sbagliata.» «Non è questo il punto. Devi fare gioco di squadra, capito? Non sei più un agente di polizia che lavora sotto copertura.» Ebbi un attimo di esitazione, ma poi lo dissi: «Hai ragione. Sono un agente federale che lavora sotto copertura». «Non per molto, se continui a prendere simili iniziative personali. Non mi piacciono i cowboy.» Per qualche secondo rimanemmo zitti tutti e due, poi io ripresi la parola. «Preferisco quando mi lusinghi, a essere sincero.» Susan fece una risatina frustrata e ribatté: «Dimmi una cosa, genio: dopo aver rivelato a Nora Sinclair che stiamo per riesumare il cadavere del suo fidanzato, che cosa intendi fare?» «Facile», risposi. «Aspettare i risultati degli esami di laboratorio. Se viene fuori che il povero Connor è stato ammazzato, sappiamo chi è stato.» «Ti ricordo che non abbiamo le prove per dimostrarlo.» «Lo so, ma è molto più facile trovarle, se hai un'idea di che cosa cercare.» «E se dagli esami di laboratorio non risultasse niente?» «Lo comunicherò a Nora Sinclair e cercherò di farla cadere in contraddizione.» «Dimentichi un piccolo particolare.» «E cioè?» «Che potrebbe essere innocente.» «Lo dici proprio tu, che pensi che siano tutti colpevoli?» «Non si può escludere che...» «No, ti capisco. Tutto è possibile. Ma due compagni di questa donna sono morti in circostanze misteriose, in due diversi Stati. Se è una coincidenza, Nora Sinclair è veramente iellata.» «Hai proprio ragione!» replicò Susan. «Mandiamola sulla sedia elettrica, allora.» «Ecco, così mi piaci. Per un attimo ho temuto che non fossi più tu.» «A proposito, c'è qualche probabilità che Nora si invaghisca del tuo alter ego?» «No. Craig Reynolds non è il suo tipo. Non guadagna abbastanza.» «Non si sa mai. Continui a dire che è convinta che tu sia dalla sua parte. Potrebbe anche decidere di mettersi con un poveraccio, per una volta.» «In tal caso ho l'appartamento giusto. Più da straccione di così...»
«Ricominci con le lamentele?» «No, ma se sarò costretto a passare ancora molto tempo in quel buco, sappi che chiederò un extra per rischio occupazionale.» «Pensi davvero che il rischio peggiore di questa missione sia abitare in quell'appartamento, O'Hara?» 53 Senza fare rumore, Nora aprì la porta della camera di sua madre all'ospedale psichiatrico di Pine Woods e si sforzò di sorridere. Era di pessimo umore e lo sapeva, come del resto chiunque avesse avuto a che fare con lei quel giorno. Per esempio Emily Barrows e la nuova infermiera, Patsy, che l'avevano appena vista entrare nel reparto. Per un po' Nora fece finta di non avere preso un caffè con Craig Reynolds il giorno prima e si comportò come se l'assicuratore non le avesse mai detto che il corpo di Connor stava per essere riesumato. «Ciao, mamma.» Olivia Sinclair era seduta sul letto con una camicia da notte gialla. Le rivolse un sorriso vago. «Oh, ciao.» Le nubi basse che avevano coperto il cielo per quasi tutta la giornata cominciavano a diradarsi e nella stanza entrava qualche raggio di sole attraverso le veneziane. Nora prese la sedia nell'angolo e la avvicinò al letto. «Ti trovo bene, mamma.» Era quello che avrebbe detto qualsiasi figlia. La differenza, nel caso di Nora, era che lei ci credeva. Da tempo aveva smesso di vedere la madre con i propri occhi e si sforzava di guardarla solo attraverso i ricordi. Non era stata autorizzata ad andare a farle visita in prigione, quando era stata condannata, e per questo nella sua mente l'immagine della madre era rimasta immutata. Nora era stata data in affidamento a una serie di famiglie diverse e ovunque aveva portato con sé l'idea di Olivia, una delle poche costanti nella sua vita. «Mi piace leggere, sai?» Oh, merda. «Lo so, mamma. Purtroppo questa volta mi sono dimenticata di portarti un libro. Ultimamente ho avuto un po' di problemi...» Fuori qualcuno mise in moto un tosaerba. Il rumore giunse fino all'ottavo piano e fece trasalire Nora, che di colpo si sentì come paralizzata, cominciò a respirare affannosamente e non riuscì più a trattenere le lacrime. La facciata era crollata sotto il peso delle emozioni. Si asciugò gli occhi.
«Mi dispiace, mamma.» Per la prima volta, Nora raccontò alla madre di un sogno ricorrente in cui vedeva Olivia sparare al marito. Quella notte era rimasta vivida nella sua mente e lei ricordava tutto quello che si erano detti, come erano vestiti, e persino l'odore di zolfo. Perché le parlo? Non sa neppure chi sono. Prese un fazzoletto di carta dal comodino. Era come se la barriera che aveva eretto per arginare le proprie emozioni avesse di colpo ceduto e le cateratte si fossero aperte. Stava perdendo il controllo, aveva bisogno di parlare con qualcuno. Prese fiato, sforzandosi di allargare i polmoni. Poi espirò, chiuse gli occhi e cominciò a parlare. «Ho fatto delle cose terribili, mamma. Devo raccontartele.» Aprì gli occhi e stava quasi per confessarle tutto, quando si accorse che a sua madre stava succedendo qualcosa di spaventoso. Si alzò di scatto e corse nel corridoio gridando: «Aiuto! Presto! Aiutatemi! Mia madre sta morendo!» 54 La caposala Emily Barrows alzò gli occhi dal registro e si voltò di scatto nella direzione da cui provenivano le grida. Riconobbe immediatamente la voce di Nora e si precipitò fuori della sala infermiere, chiamando Patsy. Arrivata nel corridoio, vide Nora che gesticolava disperatamente sulla porta della camera di Olivia Sinclair, a una trentina di metri di distanza. Si mise a correre molto più velocemente di quanto ci si sarebbe aspettati da un donnone come lei. «Cosa c'è?» gridò. «Che cos'è successo?» «Non lo so», rispose Nora. «È...» La caposala entrò di corsa nella stanza e si trovò davanti a una scena che sembrava presa direttamente dall'Esorcista. Olivia Sinclair, in preda alle convulsioni, inarcava la schiena e aveva gambe e braccia scosse da un tremito talmente forte che il letto di metallo vibrava con un rumore assordante. Malgrado lo stato di Olivia e la crisi di panico di Nora, Emily Barrows non perse la calma. Si voltò e vide che Patsy l'aveva raggiunta. «Dammi una mano», le disse. La giovane infermiera si avvicinò a passo svelto, preoccupata.
«È la prima crisi epilettica che vedi?» le chiese Emily. Patsy fece di sì con la testa. «Bene. Si fa così: prima di tutto la giri sul fianco in modo che non soffochi, se dovesse vomitare», spiegò Emily. Incrociò le braccia e fece un cenno a Patsy, che sembrava paralizzata. «Non stare lì impalata, cara.» Goffamente, Patsy girò Olivia su un fianco. «Okay, e adesso?» «Adesso aspetti.» «Che cosa?» «Che le passi.» «Stai dicendo che non devo fare altro?» «Già. Non cercare di trattenerla e tieni d'occhio l'orologio. Nove volte su dieci dura non più di cinque minuti. Altrimenti chiamiamo il dottore.» Nora osservava sconvolta: la caposala aveva trasformato la crisi epilettica di sua madre in un'esercitazione. «Possibile che non si possa fare altro?» esclamò. «Purtroppo è così. Si fidi di me, Nora: è molto meno grave di quello che sembra.» «E la lingua? Non c'è il rischio che si strozzi con la sua stessa lingua?» Emily scosse la testa, cercando di non perdere la pazienza. «È una leggenda. Non è materialmente possibile», rispose. Nora non era affatto convinta e stava per insistere perché chiamassero un medico, quando all'improvviso tutto finì. Il letto smise di tremare e le convulsioni cessarono. Nella stanza scese il silenzio. Emily aiutò Olivia a stendersi di nuovo sulla schiena, sistemandole i cuscini sotto la testa, e Nora le corse accanto e le prese la mano. Per la prima volta da che riusciva a ricordare, sentì che la madre rispondeva alla sua stretta. «Va tutto bene, mamma», le disse sottovoce. «È passato.» «Su, su», mormorò la caposala Barrows con fare rassicurante, posando una mano sulla spalla di Nora. «So che ha pensato che sua madre se ne stesse andando, ma le assicuro che quando una persona sta per morire è impossibile non accorgersene.» 55 Six feet under? Non so da dove venga l'espressione «sei piedi sotto terra» che da il titolo
alla famosa serie di telefilm della HBO, ma di certo non dal famoso cimitero di Sleepy Hollow vicino alla chiesa olandese di Northern Westchester, in cui riposavano Washington Irving e, si diceva, vari Rockefeller. Accanto alla lapide di Connor Brown era ammonticchiato ormai un metro e mezzo di terra, ma della bara non c'era ancora traccia. Fu solo quando il mucchio raggiunse i tre metri di altezza che sentii finalmente il rumore della vanga che batteva sul legno. Per fortuna non ero io a scavare. «Avrebbero dovuto intitolarlo Dodici piedi sotto terra», dissi al poliziotto accanto a me, il quale evidentemente non guardava la TV via cavo, perché non colse la battuta. O forse era soltanto stanco, risentito e dotato di scarso senso dell'umorismo. Volendo effettuare l'esumazione il più velocemente e discretamente possibile, avevo optato per una squadra ridotta, niente macchinari rumorosi e un'ora assurda: le due del mattino. Scavare in pieno giorno e con grande dispiego di mezzi era l'ultima cosa che desiderassi. Oltre al poliziotto impassibile, con me c'erano tre operai del cimitero che, dopo aver sistemato un paio di faretti, spalarono terra per circa un'ora. L'unica altra persona presente era un impiegato del laboratorio di patologia dell'FBI, giovanissimo, praticamente un ragazzino. Guardai di nuovo il poliziotto. «Ci sono lavori peggiori del nostro, eh?» Né una parola, né l'ombra di un sorriso. Arrangiati, pensai. E tornai a osservare la fossa. I tre operai armeggiavano intorno alla bara di Connor Brown, ormai quasi completamente scoperta. Stavano facendo passare nelle maniglie delle cinghie, che a me non parevano abbastanza robuste. «Sicuri che reggano?» chiesi. I tre alzarono la testa. «Dovrebbero», rispose il più alto, che non arrivava al metro e settanta. Era l'unico che ogni tanto spiccicava qualche parola, mentre gli altri due sapevano solo scuotere il capo. Finito di assicurare le cinghie intorno alla cassa, i tre risalirono in superficie e montarono un'incastellatura di alluminio a cavallo della fossa, dopodiché attaccarono le cinghie al gancio di un argano. All'improvviso si udì un rumore come di ramoscelli spezzati, forse di passi. Cosa diavolo è stato? Nessuno parlò, ma dall'espressione sulle loro facce si capiva che stavamo pensando tutti la stessa cosa: un fantasma?
Paralizzati, tendemmo l'orecchio. Sopra le nostre teste oscillavano scricchiolando i rami di una grande quercia, il vento faceva frusciare le foglie intorno al tronco ma, per il resto, era silenzio. Il rumore non si fece più sentire. I tre operai - meno spaventati di noi - si rimisero al lavoro e cominciarono a girare la manovella. Lentamente la bara di Connor Brown uscì dalla fossa. Manco a farlo apposta, si alzò di nuovo il vento e una folata di aria fredda mi fece correre un brivido lungo la schiena. Non sono molto religioso, ma non potevo fare a meno di chiedermi se non fosse un sacrilegio disturbare in quel modo il riposo di un morto, interferire nell'ordine delle cose. Avevo un brutto presentimento. Snap! Il rumore riecheggiò nella notte, più forte del fruscio del vento e molto più forte del presunto ramoscello spezzato di poco prima: le maniglie su un lato della cassa si erano staccate e, con un terrificante stridore, il coperchio si stava aprendo, lasciando rotolare fuori il corpo di Connor Brown. Il poliziotto si lasciò sfuggire una bestemmia. Tutti ci precipitammo sul bordo della fossa e fummo assaliti da un puzzo insopportabile. In preda alla nausea, feci un passo indietro, ma intravidi comunque il viso semidecomposto, brandelli di carne biancastra, occhi vitrei e fuori delle orbite che sembravano fissare proprio me. Gli operai imprecavano in un misto d'inglese e spagnolo, mentre il ragazzino del laboratorio scuoteva la testa. Il poliziotto vomitava l'anima. «E adesso come cacchio facciamo?» chiesi. Per tutta risposta, gli operai tirarono fuori una scala a pioli. Bisognava calarsi nel buco e prendere in braccio il cadavere. «Da soli non ce la facciamo. Ci serve una mano», disse il portavoce degli operai. Fu la decisione più facile che avessi mai preso. Mi voltai verso il poliziotto, che era ancora piegato in due a vomitare. Pallidissimo, mi guardò incredulo. «Io? Là dentro?» domandò ansimando. Il mio sorriso diceva tutto. Mi dispiace, amico, ma avresti dovuto ridere delle mie battute. 56 Nora non era sicura che l'avessero vista, ma di certo l'avevano sentita. Il
ramo che le si era spezzato sotto i piedi mentre cercava di avvicinarsi aveva fatto un rumore terribile. Quando tutti si erano voltati a guardare, si era buttata a terra, nascondendosi dietro una lapide. Rannicchiata con le ginocchia sotto il mento, aveva trattenuto il fiato e si era chiesta se andare fin lì non fosse stato un rischio eccessivo. Ma non aveva alternative. Doveva vedere, per quanto inquietante e macabro fosse lo spettacolo: avevano davvero intenzione di riesumare la salma di Connor? Sì. Nora rabbrividì. Un'antica leggenda voleva che da qualche parte, in quel cimitero, fosse sepolta una strega. Nonostante il maglione che aveva indosso, il marmo freddo della lapide contro cui era appoggiata la faceva rabbrividire. Lentamente, si sporse a guardare. Per fortuna nessuno la vide: gli uomini si erano rimessi al lavoro. Avevano agganciato delle cinghie a un aggeggio sopra la fossa di Connor e stavano cominciando a sollevare la bara. Osservò, incapace di credere ai propri occhi, sempre più agitata a ogni giro di manovella. Era andato tutto così liscio, senza complicazioni. Lei era libera, l'aveva fatta franca, e guarda ora cosa stava succedendo. Ma chi crede di essere questo O'Hara? Stronzo! Bastardo! Quel pensiero gliene richiamò alla mente un altro. Dove diavolo è, a proposito? Nora aveva immaginato che, seguendo Craig Reynolds, quella notte avrebbe visto per la prima volta John O'Hara, ed era quello il motivo principale per cui era andata al cimitero. Ma il perito non poteva essere né uno dei tre che spalavano la terra, né il poliziotto e, a parte Craig, c'era solo un altro uomo presente, sempre che quel ragazzino potesse definirsi tale. È escluso che quello sia John O'Hara, concluse Nora. Mentre faceva queste riflessioni la bara emerse dalla fossa. Lei si voltò dall'altra parte per non vedere e appoggiò la schiena contro la lapide. Sentiva solo il battito del proprio cuore. Un attimo dopo, però, udì un frastuono spaventoso. Uno schianto, uno stridore agghiacciante. Con tutti i muscoli contratti, Nora rimase immobile. Non sapeva che cosa fosse successo e forse preferiva ignorarlo. Ma doveva guardare.
Così si affacciò da dietro la lapide. Spalancò gli occhi e per poco non lanciò un urlo: la bara di Connor dondolava agganciata da un lato soltanto, aperta. La fantasia le suggerì quel che non aveva visto e, guardando il poliziotto scosso dai conati, si sentì male anche lei. Avrebbe vomitato, se non avesse prevalso in lei un altro istinto. Quello di scappare. 57 Il giorno dopo Nora tornò a Manhattan e andò direttamente alla sauna Bliss vicino a casa sua, a SoHo. Si fece fare un peeling alla carota e sesamo e un massaggio con olio caldo, seguiti da manicure e pedicure. Di solito lo trovava molto rilassante, ma tre ore e quattrocento dollari dopo non stava affatto meglio. Il ricordo della notte precedente continuava ad assillarla. Era ormai tardo pomeriggio e l'idea di passare la serata da sola le dava i brividi. Pensò di telefonare a Elaine e Allison per sentire se avevano voglia di organizzare qualcosa all'ultimo momento, ma quando prese in mano il cellulare cambiò idea. Gliene venne una migliore, che forse l'avrebbe distratta di più. Invece di soffermarsi sul passato, meglio pensare al futuro. Ai prossimi candidati. È il tuo turno, Brian Stewart. Telefonò al magnate del software conosciuto in aereo e gli chiese se aveva impegni per quella sera. «Nulla che io non possa disdire», rispose lui prontamente. «Dammi solo un momento.» Quando la richiamò, poco dopo, era libero da qualsiasi impegno, tutto per lei. «Spero che non ti debba alzare troppo presto domani mattina», le disse ridendo. Poi le descrisse animatamente il programma della serata. Aperitivo al King Cole Bar. Cena da Vong. E poi un salto a ballare nel West Village, al Lotus. Nora era contentissima. Dopo una notte passata in un cimitero, aveva bisogno di svagarsi un po'. 58
Davanti a una bottiglia di Perrier Jouët al King Cole Bar, Brian Stewart intrattenne Nora raccontandole una serie di buffi episodi della propria infanzia. Lei ascoltò e rise, notando quanto era importante la famiglia per lui: si capiva subito il forte legame che aveva con i suoi. Nora era invidiosa: essendo passata da un affido all'altro, si considerava fortunata quando qualcuno si ricordava del suo compleanno. Ma non aveva certo intenzione di raccontarlo a Brian. Aveva confezionato una versione pubblica della sua infanzia - padre architetto e madre insegnante che vivevano felici con la loro unica figlia tra le morbide colline di Litchfield, nel Connecticut - e più la raccontava, più le era facile dimenticare la verità. Andando avanti così, forse un giorno o l'altro si sarebbe scordata persino di quando sua madre aveva ucciso suo padre sotto i suoi occhi. A cena da Vong, Brian passò al vino e Nora all'acqua San Pellegrino e, mangiando e bevendo, l'atmosfera si fece sempre più amichevole e intima. Nora riuscì addirittura a guardarlo senza pensare a Brad Pitt. Era abbastanza bello di suo, oltre che spiritoso e divertente, doti non comuni fra gli uomini facoltosi. La maggior parte dei ricchi che lei conosceva erano noiosissimi palloni gonfiati. Era molto difficile trovare uno che avesse i soldi e fosse anche simpatico. Ragione di più per rallegrarsi di aver conosciuto Brian. L'intesa pareva reciproca. A giudicare da come andavano le cose, difficilmente sarebbero arrivati al Lotus. Nora cercò di immaginare l'appartamento di Brian. Doveva essere enorme, probabilmente un attico o un loft. L'avrebbe scoperto di lì a breve. «Ti diverti?» le chiese lui. «Moltissimo.» Brian sorrise, poco convinto: c'era qualcosa che lo turbava, aveva l'aria preoccupata. Nora si sporse in avanti. «Cosa c'è?» Brian giocherellava con il cucchiaino da dessert, imbarazzato, come se stesse cercando il coraggio per dirle qualcosa di spiacevole. E infatti: «Devo farti una confessione». «Sei sposato.» «No, non sono sposato, Nora.» «Che cosa, allora?» Il cucchiaino continuava le sue evoluzioni. «Non solo non sono sposato,
ma non sono neanche...» Lo posò e prese fiato. «Non sono neanche un ricco softwarista.» Le sue parole rimasero come sospese a mezz'aria, nel silenzio che seguì. Nora era attonita. Brian era rosso come un pomodoro, e non perché avesse bevuto troppo. L'atmosfera di allegria si era spezzata. «Te lo dico perché non voglio continuare a mentirti», proseguì. «E perché hai cominciato?» «Avevo paura che non mi degnassi nemmeno di uno sguardo, altrimenti.» Nora sbatté gli occhi. «Che lavoro fai?» domandò. «Il pubblicitario.» «Ah, be', allora mentire è il tuo mestiere. Quindi non c'era nessun finanziatore ad aspettarti a Boston?» «No, solo un cliente. La Gillette.» Nora scosse la testa. «Fammi capire: hai pensato che io non ti avrei neppure considerato, se non fossi stato ricco?» «Sì, più o meno.» «O hai pensato che non sarei venuta a letto con te, se non fossi stato ricco, ed è solo per questo che siamo usciti stasera?» «No, ti sbagli.» Nora lo guardò con aria scettica. «Sicuro?» «Okay, in parte è vero», ammise Brian. «All'inizio l'ho pensato ma, come ti ho detto, non voglio continuare a mentirti.» «Mi hai raccontato solo frottole o anche qualcosa di vero?» «Tutto il resto è vero. Ogni cosa, a parte il fatto di essere ricchissimo. Scusami. Potrai mai perdonarmi?» Nora fece una pausa teatrale, poi gli prese la mano e disse: «Sì, certo che posso. Sei perdonato, Brian». Qualche minuto dopo, quando tutto pareva tornato a posto, Nora disse che doveva andare alla toilette, che era vicino all'ingresso del ristorante, e si alzò. Mentre usciva e fermava un taxi per tornare a casa, si chiese quanto avrebbe impiegato Brian per rendersi conto che non l'avrebbe rivista mai più. 59 La bionda si voltò rapidamente dall'altra parte, quando Nora le passò accanto. Erano così vicine che le parve di sentirne il calore. Era un grosso ri-
schio. Anzi, no, era un errore che non avrebbe dovuto commettere. La bionda aveva sorseggiato un martini al bar del Vong e aveva osservato Nora tutta la sera. Era con un bell'uomo e dal loro linguaggio corporeo si poteva dedurre che fosse la prima volta che uscivano insieme. E, sebbene non riuscisse a sentire quello che si dicevano, era chiaro che si piacevano. Ma allora perché a un certo punto Nora se n'era andata? Passarono alcuni minuti. La bionda infilzò l'oliva del martini con uno stuzzicadenti e prese in esame diverse ipotesi. Poteva essere uscita un momento per fare una telefonata. Anzi, no. Era più probabile che fosse andata a fumare. Però non l'aveva mai vista con una sigaretta in mano. La bionda guardò l'amico di Nora che continuava ad aspettare al tavolo. Indubbiamente è affascinante. Assomiglia a... «Scusi», disse una voce alle sue spalle. Si voltò e vide un uomo di mezz'età, con i capelli brizzolati, in maglione dolcevita e giacca sportiva. Doveva aver esagerato con il dopobarba. Lo guardò in silenzio, aspettando che continuasse. L'uomo posò una mano sullo sgabello vuoto accanto al suo. «È occupato?» «Non mi pare.» Lui sorrise e si sedette. «È incredibile che ci sia un posto libero vicino a una donna così bella», disse appoggiandosi al bancone. «Posso offrirle un altro drink?» «Non ho ancora finito questo.» «Non importa, aspetterò», replicò lui tranquillamente. «Anche tutta la notte, se necessario.» La bionda gli fece un sorriso civettuolo, poi sollevò il bicchiere e gli rovesciò quel che restava del martini sulla testa. «A mai più rivederci», disse. Si alzò e si allontanò. Non in direzione della porta, tuttavia, ma del tavolo di Nora, ormai convinta che non tornasse più. «Mi scusi, aspetta Nora Sinclair?» L'uomo la guardò leggermente sorpreso. «Mm... Be', sì...» «Temo che non tornerà.» «Come sarebbe a dire?» «L'ho appena vista uscire dal ristorante.» Sempre più stupito, il giovanotto si voltò a guardare verso la porta, poi scrutò la sala e fece per alzarsi. «Lasci perdere», gli disse la bionda. «È andata via da almeno cinque mi-
nuti.» Lui tornò a sedersi. «Non capisco. È una sua amica, o qualcosa del genere?» «Tutt'altro.» La bionda si accomodò al posto di Nora. «Le dispiace se le faccio un paio di domande?» 60 Nora doveva allontanarsi da New York almeno per qualche giorno. Fortunatamente sapeva dove andare. Non c'era molto traffico sulla I-95. A circa mezz'ora da Boston, tuttavia, le cose cambiarono. Un camion a rimorchio fermo di traverso sull'autostrada aveva causato una coda di parecchi chilometri. Nora si ricordò improvvisamente il motivo per cui preferiva viaggiare in aereo. Pazienza... Dopo l'esperienza al cimitero e la cena con lo squattrinato dongiovanni Brian Stewart, sentiva il bisogno di starsene un po' per conto suo e andare a Boston in macchina le avrebbe fatto bene. Come pure passare la notte con il suo maritino. «Mi sei mancata!» le sussurrò Jeffrey abbracciandola nell'atrio della sua villa nella Back Bay e baciandola sulle labbra, sulle guance, sul collo e poi di nuovo sulla bocca. «Devo crederci?» ribatté lei scherzosa. «Non ti sei dimenticato di me, con la fiera del libro e tutte le tue fan adoranti in Virginia?» «Come potrei scordarmi di questo, e questo, e questo?» disse Jeffrey continuando a baciarla. «Allora ti credo...» Senza smettere di flirtare e di ridere salirono le scale ed entrarono nella stanza di Jeffrey. Abbandonati i vestiti sul pavimento, fecero l'amore quel pomeriggio e poi di nuovo verso sera. Lui si allontanò dal letto solo un momento, per andare ad aprire al fattorino del ristorante vietnamita cui avevano ordinato la cena. Mangiarono insalata di alghe, pollo Cuu Long e manzo con la citronella, guardando abbracciati Intrigo internazionale. Nora adorava Hitchcock, lo trovava una delle menti più geniali e impertinenti della storia del cinema. Quando Cary Grant cominciò ad arrampicarsi sul monte Rushmore, Jeffrey si era già addormentato. Lei aspettò con pazienza che si mettesse a russare leggermente, poi, sen-
za far rumore, scese dal letto e uscì nel corridoio. Andò in biblioteca e accese il computer. Tutto filò liscio. Entrò senza difficoltà nel conto cifrato di Jeffrey e vide che i suoi risparmi ammontavano a quasi sei milioni di dollari. Il momento della verità si stava avvicinando e sarebbe certamente arrivato prima della giornalista del New York Magazine. Ma occorreva procedere con ordine. Prima Nora doveva chiudere alcune faccende rimaste in sospeso a Briarcliff Manor, riguardo a un certo assicuratore e ai risultati delle analisi. Che cosa avrebbe fatto il buon vecchio Hitchcock in un caso del genere? Avrebbe sfruttato al massimo la scena del cimitero, pensò Nora, e non poté fare a meno di sorridere. 61 Il Turista, poveraccio, era inquieto, frustrato e arrabbiatissimo. Sarebbe andato in mille altri posti piuttosto che stare lì, in quell'alloggio temporaneo lontano dalla sua vera casa. Non era ancora riuscito a raccapezzarsi nell'elenco di conti off-shore. Era chiaro che appartenevano ad altrettanti evasori fiscali, ma com'era possibile dar loro un nome? Come si faceva a diventare un numero di quell'elenco? Possibile che valesse la vita di una persona? Aveva già letto il giornale e finito un lungo romanzo di Nelson DeMille sul Vietnam. Seduto sul divano a sfogliare l'ultimo numero di Sports Illustrated, a metà di un articolo sulle vane speranze dei Boston Red Sox di vincere il campionato, sentì suonare il campanello. Prese la Beretta e si alzò senza fare rumore. Andò alla finestra e scostò leggermente la tenda per guardare fuori. Davanti alla porta c'erano un tizio con una sottile scatola quadrata in mano e, ferma nel vialetto, una Toyota Camry con il motore acceso. Il Turista sorrise. La cena è servita. Nascose la pistola dietro la schiena, nella cintura dei pantaloni, aprì la porta e accolse l'ennesimo fattorino della Pepe's House of Pizza, da cui si era servito almeno cinque o sei volte da quando era arrivato. «Salsiccia e cipolla?» chiese il ragazzo. Sembrava uno studente universitario, o forse era un po' più vecchio, ma era difficile dargli un'età, visto che aveva il volto nascosto sotto la visiera di un berretto degli Yankees. «Sì. Quant'è?» «Sedici e cinquanta.»
«A quest'ora avrei già dovuto impararlo», borbottò tra sé il Turista cercando i soldi in tasca. Poi, accorgendosi di non averli, disse: «Aspetti un attimo, vado a prendere il portafogli». Stava per voltarsi quando notò che pioveva. «Venga dentro, così non si bagna», disse. «Grazie, molto gentile.» Il fattorino entrò e il Turista andò in cucina a prendere i soldi commentando: «Che tempaccio!» «Sì. E quando piove abbiamo più lavoro del solito.» «Lo credo. Perché sfidare le intemperie, quando ci si può far portare una pizza a domicilio?» Tornò con una banconota da venti dollari in mano. «Ecco qua. Tenga pure il resto. Siamo pari», disse. Il ragazzo gli porse la pizza e prese i soldi dicendo: «Grazie, molto gentile». Poi infilò una mano sotto l'impermeabile e sorrise. «Ma non siamo ancora pari.» Il Turista fece per prendere la Beretta dietro la schiena, ma non fu abbastanza veloce. L'altro gli stava già puntando contro una pistola. «Non ti muovere!» gli ordinò, avvicinandosi per disarmarlo. Gli sfilò il revolver dalla cintura dei pantaloni e intimò: «E adesso faccia al muro, con le mani bene in vista». «Chi sei?» «Quello che ti farà rimpiangere di non aver ordinato riso alla cantonese, O'Hara.» 62 Sentendosi incredibilmente stupido, John O'Hara, alias il Turista, si lasciò perquisire. Non riusciva a credere di essersi fatto infinocchiare da uno stupido principiante. «Okay, adesso voltati lentamente.» O'Hara fece mezzo giro su se stesso. Molto adagio. «E ora dimmi dov'è la valigia. Che cosa c'è dentro? Cos'hai scoperto?» «Non lo so. Non ne ho la più pallida idea.» «Non dire stronzate.» «È la verità. L'ho presa e l'ho consegnata subito. In un garage, a New York.» Il fattorino gli premette la canna della pistola sulla fronte con maggior forza, fino a fargli male. «Allora non abbiamo altro da dirci.»
«Se mi ammazzi, entro ventiquattr'ore fanno fuori anche te. Veramente. È così che funziona.» «Stronzate», ribatté il Pizzaiolo, armando il cane. O'Hara cercò di leggergli negli occhi che intenzioni aveva e vide una luce assassina che non lo tranquillizzò per niente. Lo sguardo di quell'uomo era freddo e deciso. Probabilmente lavorava per conto di chi aveva venduto il file. O forse era stato lui a venderlo. «Okay, okay, aspetta un momento. So dov'è.» «Dove?» «Qui. L'ho tenuta sempre io.» «Mostramela.» O'Hara gli fece strada nel corridoio ed entrò in camera. In sottofondo si sentiva lo stereo di un vicino. Meditò se chiamare aiuto, poi disse: «È sotto il letto. Te la prendo. È nella mia sacca da viaggio». «Tu resta dove sei, intanto che controllo.» Si chinò e vide che effettivamente sotto il letto c'era una sacca da viaggio nera. Sorrise. «Non sai cosa c'è dentro, vero?» «Perché dici così?» «Se lo sapessi, non ci dormiresti sopra.» «Immagino che dovrei essere contento di restituirtela, allora.» «Già. Tirala fuori. Piano e senza fare scherzi.» «Ma tu chi sei? Il venditore o un altro intermediario?» «Prendi la borsa e taci. Comunque, sì, sono un intermediario. Come il mio amico, quello che hai ammazzato davanti alla Grand Central Station. Era come un fratello per me.» Il Turista si inginocchiò e protese lentamente un braccio sotto il letto. «Tieni l'altra mano ben in vista», gli ordinò il Pizzaiolo. «Agli ordini.» Con la sinistra appoggiata al lenzuolo, il Turista allungò la destra per prendere la sacca. E la pistola che ci aveva attaccato con lo scotch. «Quanto ci metti?» incalzò il fattorino. «Non fare cazzate.» «Ci sono quasi. Rilassati, su. Siamo due professionisti, no?» «Uno di noi di sicuro lo è.» O'Hara si voltò di scatto e fece fuoco due volte, colpendo al petto il Pizzaiolo, che stramazzò a terra. Il doppio specchio dell'armadio rimandava l'immagine di due cadaveri, a rendere la scena doppiamente sinistra. Cercò i documenti del morto e non rimase sorpreso quando non li trovò. Il ragazzo non aveva nemmeno il portafogli. Poi tornò in cucina e fece la
telefonata di prammatica. Presto sarebbero venuti a prelevare il corpo e a togliere le macchie di sangue dalla moquette. Quella era gente molto efficiente. Nell'attesa, che cosa doveva fare? Aprì la scatola e si tagliò una fetta di pizza con salsiccia e cipolle. Il primo boccone è sempre il migliore. Mangiando, si chiese le uniche due o tre cose importanti. Chi aveva mandato a casa un killer? Chi sapeva dove trovarlo? Chi lo voleva morto? E come volgere la situazione a suo vantaggio in futuro? Se c'era, un futuro. 63 «Cos'hai fatto di bello ultimamente, O'Hara?» «Oh, tante cose. Mi conosci, sai che non mi piace stare con le mani in mano. Cosa mi dici delle analisi sulla buonanima di Connor Brown?» «Niente. Nada. Zero assoluto», rispose Susan, delusa. Erano due giorni che aspettavo nel mio appartamento temporaneo, quando finalmente Susan mi telefonò nella tarda mattinata. Le era appena arrivato il referto della seconda autopsia sul corpo di Connor Brown. Mi riferì che dagli esami più approfonditi non risultava praticamente nulla di nuovo. Morte per arresto cardiaco. Nessuna traccia sospetta. Niente. Nada. Zero assoluto. «Non è spuntato nemmeno un elemento nuovo?» chiesi. «Solo una brutta ulcera. Ma visto che si tratta di uno che lavorava nel campo della finanza ed è morto d'infarto a quarant'anni non la si può considerare una sorpresa.» «Immagino di no. Tutto qui, allora? Non c'è altro?» «A parte le abrasioni riportate dal cadavere cadendo dalla bara... Ti dicono qualcosa?» «Merda, il ragazzino del laboratorio ha fatto la spia, dunque?» «No. È stato il poliziotto che ha ancora lo stomaco in subbuglio dopo tre giorni, grazie a te.» Sorrisi, ricordando la scena. «Era un lavoraccio e i tre operai da soli non ce la facevano.» «E tu non ti sei voluto sporcare le mani, naturalmente.» «Quell'uomo non ha riso a una sola delle mie battute.» «Ti prego, risparmiami.» «Immagino che sia giunto il momento di telefonare a Nora.»
«Ho fatto una riflessione, a questo proposito», mi disse Susan. «Forse dovresti aspettare a riferirle i risultati dell'autopsia, per vedere se dà segni di cedimento.» «Se si trattasse di qualcun altro, seguirei il tuo consiglio, ma con Nora no. Servirebbe solo a insospettirla. Si tirerebbe indietro, temo.» «Sei sicuro?» «Sicurissimo. Secondo me, se mai abbasserà la guardia, sarà quando penserà di essere in una botte di ferro.» «Cioè quando starà per incassare i soldi?» «Sì. Bisogna darle la certezza che sta per intascare un milione e novecentomila dollari.» «Con quella cifra, mi sentirei in una botte di ferro anch'io.» «Non dirlo a me.» «Allora è meglio che tu ti dia una mossa. Una scusa del genere 'l'assegno è già stato spedito' non ti permetterà di tergiversare più di tanto.» «Non dovrebbero esserci problemi. Craig Reynolds le è simpatico e lo diventerà ancora di più, quando le darà la buona notizia.» «Ricordati solo una cosa», mi ammonì Susan. «Con quella donna c'è sempre un 'ma'.» «Ovvero? Spiegati meglio.» «Quando cercherai di farle abbassare la guardia, vedi di non abbassare la tua.» 64 Non persi tempo. Appena finito di parlare con Susan, chiamai Nora sul cellulare. Non rispose. Lasciai un messaggio premurandomi di specificare che avevo buone notizie da darle. Nemmeno Nora perse tempo. Mi richiamò quasi subito, dicendo: «Ho proprio bisogno di sentire qualche bella novità, di questi tempi». «Lo immaginavo. Per questo ti ho telefonato subito.» «Si tratta di...?» Non finì la frase. «Sì, sono arrivati i risultati della seconda autopsia», dissi. «Non so se si possano veramente definire 'buone notizie', ma insomma: confermano le conclusioni della prima.» Silenzio. «Nora, ci sei ancora?» «Sono qui», rispose. Dopo un'altra lunga pausa, disse: «Hai ragione, for-
se il termine non è appropriato». «Poteva andare peggio, però. Diciamocelo.» «Hai ragione», rispose con la voce un po' strozzata. «Almeno adesso Connor può finalmente riposare in pace.» Scoppiò in un pianto sommesso e, devo ammettere, piuttosto convincente. Tirò su con il naso un'ultima volta e si scusò. «Non giustificarti. Immagino che sia un bruttissimo momento, per te. Anzi, credo che sia impossibile capire quanto, se non si è coinvolti.» «Mi fa male pensare che abbiate dovuto addirittura riesumare la salma.» «È stata una delle esperienze più brutte della mia vita, te l'assicuro.» «Intendi dire che c'eri anche tu?» La verità rende liberi. «Purtroppo sì.» «E il perito che l'ha voluta?» «Intendi O'Hara?» «Sì. Mi dà l'idea di essere uno che in queste cose ci sguazza.» «Può darsi», risposi. «Ma è rimasto a Chicago. Detto tra noi, non è il tipo da sporcarsi le mani. La buona notizia, però - e questa volta credo proprio che la si possa definire tale -, è che finalmente sta per chiudere l'inchiesta.» «Non ha più sospetti, allora.» «Oh, sospetti ne avrà sempre, su tutto e tutti. In questo caso, però, penso che si sia reso conto che non c'è niente di strano e che la Centennial One dovrà sborsare il milione e novecentomila dollari di premio fino all'ultimo centesimo.» «Quando me lo verserete?» «Ci sono dei tempi tecnici. Formalità burocratiche, scartoffie da compilare, la solita roba. Ma direi che nel giro di una settimana l'assegno dovrebbe essere pronto. Va bene?» «Altroché. Io devo fare qualcosa? Firmare dei documenti?» «La liberatoria, una volta avvenuto il pagamento. A parte questo, dovresti...» «Che cosa?» domandò. «Accettare un invito a pranzo con me. Dopo tutto quello che ti ho fatto passare, è il minimo che io possa fare.» «Non è il caso, veramente. Non è mica stata colpa tua. Anzi, tu sei stato un tesoro, Craig. Dico sul serio.» «Hai proprio ragione!» esclamai ridendo. «Metterò il pranzo in conto spese.»
«Ah, be', allora!» esclamò lei, ridendo a sua volta. Tranquilla e rilassata, senza inibizioni. Musica per le mie orecchie. Stava iniziando ad abbassare la guardia. 65 All'ora di pranzo, Susan entrò da Angelo's, uno dei ristoranti più vecchi e rinomati di Little Italy, non lontano dagli uffici dell'FBI. Il dottor Marcuse la aspettava a un tavolo in disparte, in fondo alla sala. «Susan, quale onore! Non speravo di riuscire a strapparti alla scrivania.» Lei sorrise, suo malgrado. Donald Marcuse sapeva che scherzare era il modo migliore per metterla a suo agio perché, oltre a essere uno specialista di psichiatria forense che collaborava spesso con il Bureau, aveva avuto con Susan una relazione durata circa sei mesi, dopo che lei si era separata dal marito. «A proposito, bel taglio di capelli», le disse. Lei aveva cambiato di recente pettinatura e si era fatta ritoccare il colore. «Per curiosità - non che me ne freghi qualcosa -, non è considerato un commento sessista, di questi tempi?» Lo psichiatra alzò le spalle. «La mia teoria è che quello che può dire una donna può dirlo anche un uomo. Non so se nella pratica regga, per la verità.» «Probabilmente no. È troppo logica.» Ordinarono da mangiare, parlarono di attualità e delle magagne di New York e a un certo punto Susan guardò l'orologio. «Okay, bando alle ciance», decretò Donald Marcuse con un sorriso affabile. «Di che cosa mi volevi parlare?» Susan gli raccontò brevemente tutto quello che sapeva di Nora Sinclair e gli chiese un'opinione professionale. Che cosa poteva averla spinta a diventare un'assassina? A quale categoria omicida apparteneva? Come sua abitudine, Susan prese appunti mentre Marcuse parlava, per poterli rivedere in ufficio e magari discuterne con O'Hara. Secondo Marcuse, Nora poteva essere una Vedova Nera, ovvero una donna che ammazzava sistematicamente mariti e partner sessuali e in certi casi anche altri membri della famiglia. Era anche possibile che uccidesse «a fini di lucro», e che il denaro fosse l'unico movente. «Quasi tutte le assassine seriali lo fanno per interesse», affermò lo psi-
chiatra, che di queste cose se ne intendeva. Spiegò che Nora doveva avere un rapporto molto conflittuale con gli uomini e non si fidava di loro. Probabilmente aveva sofferto a causa di un uomo in passato o, più verosimilmente, aveva visto soffrire la madre da piccola. «Molti miei colleghi direbbero che potrebbe aver subito degli abusi in tenera età, ma a me le risposte troppo semplicistiche non piacciono. Mi diverte trovare la soluzione caso per caso.» Finito di parlare di Nora, Donald Marcuse guardò in faccia Susan. «Ti sta antipatica, eh? Eppure non è da te.» Susan alzò gli occhi dagli appunti. «È una donna pericolosa, Donald. Mi dispiace per lei se ha subito delle violenze, ma non è mica il caso di vendicarsi ammazzando tutti quelli che incontra! È bella e affascinante e continuerà a uccidere.» 66 L'indomani mattina, verso le undici, nella villa di Westchester squillò il telefono. Nora andò a rispondere pensando che fosse Craig che confermava l'appuntamento per il pranzo. Ma si sbagliava. «Nora, sei tu?» «Sì. Chi parla?» «Elizabeth. Elizabeth Brown.» Merda. La sorella di Connor che chiamava da Santa Barbara. Come aveva fatto a non riconoscerla? Si sentì un'idiota. Formalmente, era ospite in casa sua. Scoprì subito che non era il caso di farsi problemi, però: Elizabeth la trattò con la stessa gentilezza di quando si erano salutate. Evidentemente era ancora oppressa dai sensi di colpa. «Ero in pensiero per te», le disse con estrema sollecitudine. «Come stai?» Nora sorrise tra sé. «Grazie, Elizabeth. Me la cavo. Ti ringrazio di aver chiamato. Sai, lì per lì sono stata in dubbio se accettare la tua offerta o no. Non vorrei approfittarmene.» «Ma figurati! Non crederai che abbia telefonato per questo, spero. Guarda, è l'ultimo dei miei pensieri.» «Sul serio?»
«Certo. A parte il fatto che non avrei il tempo di occuparmi di vendere la casa, nemmeno se volessi.» «Sei molto presa dal lavoro?» «Sì. Ho due progetti in corso d'opera e un terzo cantiere che partirà a giorni.» «Bella la vita dell'architetto, eh?» «Già», disse Elizabeth con un sospiro. «Non ti dico quante ore lavoro al giorno, perché non voglio annoiarti. Per certi versi è un toccasana, comunque, così non ho il tempo di pensare a Connor.» «Lo so», mormorò Nora. «Questo mese anch'io ho accettato tre nuovi clienti, nonostante fossi già oberata, per non avere nemmeno un minuto per riflettere.» Chiacchierarono tranquillamente ancora per qualche minuto con grande naturalezza, senza forzature o esitazioni. «Sai, è proprio un peccato», disse Elizabeth. «Che cosa?» «Che ci siamo conosciute in questa circostanza. Abbiamo un sacco di cose in comune, tu e io.» «È vero, hai ragione.» «Se capiti da queste parti, avvertimi: magari pranziamo insieme, o comunque ci vediamo. Anch'io, la prossima volta che vengo a New York, ti chiamo.» «Mi farebbe molto piacere, davvero», disse Nora. «Allora siamo d'accordo.» Col cavolo. 67 Poco prima delle dodici e mezzo entrai nel viale che portava all'abitazione di Connor Brown (perché io la consideravo ancora la sua casa). Nora si affacciò sul portone prima ancora che avessi spento il motore. Si era messa un vestito estivo leggero, senza maniche, con un disegno a fiori rossi e verdi, che faceva risaltare la sua abbronzatura, per non parlare delle gambe. Salì in macchina e dichiarò di avere una fame da lupo. «Allora siamo in due», dissi. Andammo a Chappaqua, in un ristorante che si chiamava Le Jardin du Roi, elegante ma non troppo, con quel mix di tovaglie bianche e travi a vista che si definisce generalmente suburban chic. Ci sistemammo a un tavo-
lo per due in fondo alla sala. La clientela era composta per metà da uomini d'affari e per l'altra metà da ricche signore abituate a pranzare fuori. Nora e io - lei con il suo bel vestito colorato e io in giacca e cravatta - rientravamo nelle rispettive categorie. L'unico elemento distintivo era che Nora era di gran lunga la più bella delle donne presenti, e le teste che si voltavano a guardarla lo confermavano. Si avvicinò un cameriere. «Gradite qualcosa da bere?» Nora si sporse verso di me e chiese: «È un problema se ordiniamo una bottiglia di vino?» «Dipende da quanto ne beviamo», risposi con un mezzo sorriso. Quando vidi che anche lei sorrideva, la rassicurai: «No, il regolamento dell'azienda non vieta di bere a pranzo, per fortuna». «Bene.» Prese la carta dei vini e me la porse. «No, no. Scegli tu», dissi. «Se insisti.» «Torno dopo?» propose il cameriere. «Non è il caso», rispose Nora. Lesse velocemente la carta dei vini scorrendo l'elenco con il dito e si fermò a metà pagina. «Prendiamo lo Châteauneuf du Pape», dichiarò. Aveva deciso in meno di sei secondi. «Sei una donna che sa quello che vuole», commentai mentre il cameriere faceva un leggero inchino e si allontanava. Nora si strinse nelle spalle. «Finché si tratta di vino...» «Io intendevo più in generale.» Mi lanciò un'occhiata incuriosita. «In che senso, scusa?» «Be', prendiamo il lavoro, per esempio. Ho l'impressione che tu abbia sempre saputo che da grande avresti fatto l'arredatrice.» «Non è vero.» «Non passavi il tuo tempo a spostare i mobili nella casa della Barbie?» Rise. Sembrava che si stesse divertendo, almeno per il momento. «Okay, lo ammetto. E tu? Hai sempre saputo che mestiere avresti fatto da grande?» «No, da ragazzo vendevo limonata in un chiosco davanti a casa e non avevo la più pallida idea di cosa fossero le polizze d'assicurazione.» «Be', non mi sorprende», fece lei con un sorrisino. «Non fraintendermi, ma non mi dai l'impressione di essere tagliato per fare l'assicuratore.» «E per che cosa, allora? Che impressione ti faccio?» «Non so, mi sembra che dovresti occuparti di qualcosa un po' più... Un
po' meno...» «Un po' meno noioso?» «Non volevo dire questo.» «Sì, invece. Non c'è niente di male. Guarda che non me la prendo.» «Non era mia intenzione offenderti. Al contrario, volevo farti un complimento.» Ridacchiai. «Ora sì, che esageri.» «No, dico sul serio. Hai un bel modo di fare e sembri molto determinato... E poi sei spiritoso.» Arrivò il cameriere con il vino, risparmiandomi l'imbarazzo di dover rispondere. Mentre stappava la bottiglia, Nora mi guardò negli occhi da dietro il menu e io mi chiesi se ci stava provando. E no, caro! Se mai ci state provando tutti e due! Nora fece roteare lo Châteauneuf du Pape, lo assaggiò e diede la sua approvazione. Il cameriere ci riempì i bicchieri e, appena si fu allontanato, lei propose un brindisi. «A Craig Reynolds. Che è stato di una gentilezza incredibile con me in questo momento così difficile.» La ringraziai e facemmo tintinnare i calici, guardandoci negli occhi. Non sapevo che il momento più difficile doveva ancora arrivare. 68 Gli uomini d'affari se n'erano andati, le ricche signore anche e nella sala del Jardin du Roi restavano solo due irriducibili, Nora e io. Pàté della casa, insalata di cuori di palma, salmone al forno e conchiglie di san Giacomo erano ormai finiti e sul nostro tavolo c'erano solo poche dita di vino. In fondo alla terza bottiglia di Châteauneuf du Pape. Tengo a precisare che in origine il mio piano non prevedeva di bere mezzo vigneto per pranzo, ma quando fui lì, lo rielaborai varie volte. In vino veritas, no? Non era quello il modo migliore per scoprire sul conto di Nora qualcosa che lei avrebbe preferito tenere nascosto? Più parlavamo, più le possibilità aumentavano. O perlomeno questa è la giustificazione che mi diedi. Alla fine lanciai un'occhiata ai camerieri che stavano apparecchiando i tavoli per la cena e ramazzando pigramente il pavimento. Mi voltai verso Nora. «Sai, c'è una linea di demarcazione molto sottile tra prendersela comoda e intralciare il lavoro altrui, e credo che noi l'abbiamo superata da un pezzo.»
Lei si guardò intorno per capire a cosa mi riferivo e poi, con un sorriso imbarazzato, disse: «Hai ragione. Sarà meglio che andiamo, prima che ci sbattano fuori». Feci cenno al cameriere di portarci il conto e gli lasciai il trenta per cento di mancia per mettere a tacere i sensi di colpa. Poi ce ne andammo, non propriamente sobri. Che Nora fosse brilla era più che prevedibile, visto che era magrissima, ma anch'io che pesavo una quarantina di chili più di lei ero un po' alticcio. «Perché non facciamo due passi?» proposi mentre uscivamo. Con mio grande sollievo, acconsentì. Bere sul lavoro era un conto, guidare in stato d'ebbrezza un altro. Un po' d'aria fresca non poteva che farmi bene. «Magari incontriamo i Clinton», annunciò garrula Nora. «Abitano qui vicino.» Decisi di risparmiarle le battute. Era troppo facile. Passeggiando, passammo davanti a varie vetrine. Mi fermai a osservare quella di una merceria che si chiamava Silver Needle. «Questo negozio piacerebbe a mia madre», dissi. «Adora lavorare a maglia.» «Che cosa confeziona?» chiese Nora. Era sorprendentemente attenta e meno egocentrica di quanto mi fossi aspettato. «Le solite cose. Coperte, cuscini, maglioni. Non scorderò mai il Natale in cui mi fece addirittura due maglioni, uno rosso e l'altro blu. Andavo ancora al liceo.» «Che brava!» «Sì, ma sta' a sentire», continuai. «La sera di Natale mi presentai a cena con il maglione rosso, e sai che cosa mi disse? 'Non ti è piaciuto quello blu?'» Nora mi diede una pacca su una spalla. «È una barzelletta!» Sì, infatti: è una barzelletta. «No, è successo veramente», protestai. Riprendemmo a camminare. «Anche tua madre lavora a maglia?» Nora parve improvvisamente a disagio. «Mia madre... è morta qualche anno fa.» «Mi dispiace.» «Grazie. È stata un'ottima mamma, finché c'è stata.» Continuammo a camminare in silenzio. Scossi la testa. «Visto cos'ho combinato?» «Cosa?»
«Stavamo così bene, e io ho rovinato tutto.» «Non dire sciocchezze», ribatté Nora minimizzando con un gesto della mano. «Stiamo ancora bene. Anzi, era un sacco che non mi sentivo così. Ne avevo proprio bisogno.» «Lo dici solo per consolarmi.» «No, tutt'altro. Sei tu che conforti me. Come puoi immaginare, queste ultime settimane sono state terribili. Poi, all'improvviso, sei arrivato tu.» «Sì, a complicarti la vita.» «All'inizio forse, ma solo in apparenza. In realtà sei stato la mia salvezza», disse. Cercai di rimanere impassibile. Eravamo fermi a un semaforo e aspettavamo di attraversare. Il sole del pomeriggio cominciava a scendere dietro le cime degli alberi. Nora si strinse le braccia al petto e rabbrividì leggermente. Sembrava addirittura vulnerabile. «Prendi questa», dissi togliendomi la giacca e mettendogliela sulle spalle. Quando afferrò i due lembi del colletto per sistemarsela meglio, le nostre mani per un attimo si sfiorarono. Nel frattempo era scattato il verde, ma nessuno dei due procedette. Rimanemmo assolutamente immobili a guardarci negli occhi. «Non voglio che ci salutiamo ora», disse. Poi si avvicinò e mi sussurrò all'orecchio: «Restiamo ancora un po' insieme, okay?» 69 Non bisognava essere Johnny Casanova per capire che cosa intendesse. Restiamo ancora un po' insieme. Qualsiasi Johnny Testa di Rapa avrebbe compreso che Nora non stava proponendo di andare a bere un caffè per snebbiarci un po' la mente. Questo era evidente. Ma ciò che mi appariva molto meno chiaro era come dovesse reagire Johnny O'Hara. Per tutto il pranzo il fatto che Nora e io avessimo iniziato a conoscerci, ci trovassimo simpatici e flirtassimo un po' non mi aveva dato alcun fastidio. Anzi. Tutt'a un tratto, però, mi parve che fossimo entrati un po' troppo in confidenza. Possibile che le interessassi? Ovviamente non io, ma Craig Reynolds, l'assicuratore. Forse era stato a causa del vino, oppure di qualcos'altro che mi era sfug-
gito, una mossa strategica. Una cosa era certa: non era per i soldi che voleva restare ancora un po' con me. A vendere assicurazioni sulla vita notoriamente non ci si arricchisce. Anche nella migliore delle ipotesi, non c'è paragone rispetto agli introiti di un guru della finanza come Connor Brown. E poi, Nora aveva visto la squallida residenza di Craig Reynolds e sapeva già che la BMW e i bei vestiti erano solo una facciata. Ciononostante, aveva detto proprio restiamo ancora un po' insieme. A quell'incrocio nel centro di Chappaqua la guardai negli occhi verdi, cercando di capire che strada dovevo prendere. «Vieni con me», le dissi. Tornammo alla mia auto, parcheggiata davanti al ristorante. Le aprii la portiera del passeggero. «Dove mi porti?» chiese. «Vedrai.» Feci il giro, mi sedetti al volante, ci allacciammo la cintura e misi in moto, dando un paio di colpi d'acceleratore prima ancora di ingranare la marcia. Poi partii. 70 Nora capì un paio di chilometri prima che arrivassimo a destinazione. «Mi stai riportando a casa, vero?» Mi voltai a guardarla e annuii lentamente. «Mi dispiace.» «Anche a me, ma hai perfettamente ragione. Devo aver bevuto un po' troppo. Sono imbarazzata.» Cercai di fargliela passare per una decisione presa in tutta tranquillità, come se il pensiero di stare con lei non mi avesse mai neppure sfiorato. Magari fosse andata così! Nora era una donna splendida e mi aveva fatto una proposta incredibile. Dovetti ricordare a me stesso, con notevole sforzo, il motivo per cui ero andato a pranzo con lei. Eppure era innegabile che un certo feeling, un legame tra noi esisteva. Era impossibile che fingesse. E comunque, anche se finge, chi se ne frega? Percorremmo in silenzio l'ultimo tratto di strada fino a «casa di Connor». L'unica volta che mi voltai brevemente verso di lei, non potei fare a meno di notare che il vestito le era salito un po' sulle cosce snelle e abbronzate. E mi ricordai a che cosa stavo rinunciando.
Imboccai il viale circolare e mi fermai sulla ghiaia. Nora scelse quel momento per perdonarmi. «Ti capisco», disse. «Probabilmente non era una buona idea, date le circostanze.» «Forse no.» «Grazie del pranzo. Mi ha fatto molto piacere.» Si sporse e mi diede un bacio leggero sulla guancia, sfiorandomi la faccia con i capelli. Sentii il suo profumo, molto buono, con un vago sentore di agrumi. «Ti...» Mi interruppi e mi schiarii la voce. «Appena saranno pronte le pratiche per il pagamento, ti avverto. Okay?» «D'accordo. Grazie di tutto, Craig.» Nora scese dall'auto e salì lentamente gli scalini davanti al portone. Sta uscendo definitivamente dalla mia vita? Aspettai che tirasse fuori le chiavi dalla borsetta. Distolsi un momento lo sguardo per regolare l'autoradio e, quando lo rialzai, vidi che stava ancora cercando di aprire la porta. Abbassai il finestrino. «Tutto a posto?» Si voltò e scosse la testa, sospirando frustrata. «La serratura si è inceppata. Oh, che vergogna! Non so come fare...» «Aspetta.» Scesi per andare a dare un'occhiata e vidi che la chiave era bloccata a metà nella serratura. Ma non era affatto inceppata. Entrò senza difficoltà appena provai a spingerla. Mi voltai verso Nora. Era lì, vicinissima. «Il mio eroe», mi sussurrò, sfiorandomi. Aveva le gambe muscolose, il seno morbido. Mi abbracciò e cominciò a baciarmi il labbro inferiore. «Scherzavo, prima. Non mi sembra affatto una cattiva idea.» A quel punto l'istinto prevalse e la mia forza di volontà andò a farsi friggere. La baciai. 71 Come un'onda che si abbatte sulla riva, ci precipitammo dentro e io chiusi il portone alle nostre spalle con un calcio. Che cosa fai, O'Hara? Ero ancora in tempo, potevo fermarmi, tirarmi indietro. Bastava che smettessi di baciarla. Ma non ci riuscivo. Era così bella fra le mie braccia, così morbida e profumata, con gli occhi verdi tanto vicini ai miei...
Mi prese la mano e la guidò sotto il vestito, tra le gambe abbronzate. Quando le sfiorai la seta liscia degli slip, fece un sospiro e mi strinse più forte. Poi cominciò a muovere le anche al ritmo della mia mano. A un certo punto emise un gemito che non poteva essere finto. Perché avrebbe dovuto recitare con me? Via la giacca, la camicia, e poi i pantaloni. Smettemmo di baciarci per una frazione di secondo, giusto il tempo di sfilarle il vestito da sopra la testa. «Scopami», sussurrò, con il respiro corto. Così, brutale. Solo che lo fece suonare come un invito estremamente sexy, irresistibile. Mi fece sdraiare per terra e mi salì a cavalcioni, si scostò gli slip e mi guidò dentro di sé con una mano. Nonostante l'eccitazione, ebbi la lucidità di pensare: Sta per fotterti, O'Hara. Mi girava la testa, mi sembrava che tutta la stanza vorticasse intorno a me. La stanza? Eravamo sul pavimento di marmo dell'atrio della villa di Connor Brown, il suo ex fidanzato. L'uomo che forse Nora aveva ucciso. Peggio di così non sarebbe potuta andare, dissi a me stesso. Ripensaci, O'Hara. Un attimo dopo, sentii uno squillo ai miei piedi. Ci misi un po' a capire che cos'era. Il mio cellulare. Cristo. Sapevo anche chi era: Susan che, con un tempismo veramente straordinario, mi stava chiedendo di fare rapporto. «Non rispondere», disse Nora. Tranquilla, non me lo sogno nemmeno. Il telefono smise di suonare, ma noi non ci fermammo: avevamo trovato il ritmo, una sintonia incredibile. Gli splendidi capelli di Nora mi sfioravano la faccia. Lei era sopra, poi era sotto, quindi carponi, con la schiena inarcata, e gemeva: «Ancora, ancora...» Raggiungemmo l'orgasmo insieme. Per un paio di minuti, o forse più, restammo tutti e due a contemplare il soffitto in silenzio, riprendendo fiato. Alla fine le chiesi ammiccando: «La chiave si era inceppata?» «Peggio per te che ci sei cascato.» «Ah, sì?» Scoppiammo a ridere, come se fosse la cosa più buffa che ci era mai successa. Quando si lasciava andare, l'ilarità di Nora era contagiosa. «Hai fame?» mi chiese poi. «Ti andrebbe una bistecca? Ne ho di ottime nel congelatore. Oppure preferiresti un'omelette?» «E sai anche cucinare...»
«È il tuo modo di dire sì? Se vuoi, c'è una doccia nella camera degli ospiti. In cima alle scale, la prima porta a destra.» «Perfetto.» Si girò su un fianco e mi baciò. «Mai quanto te, Craig Reynolds.» 72 Uscii dalla doccia e passai il dorso della mano sullo specchio appannato per vedere che faccia avevo. Scossi la testa una volta, poi un'altra. Stavolta l'hai combinata grossa, O'Hara. Per lavorare sotto copertura occorre un certo margine di manovra, ma in questo caso avevo veramente esagerato. Avevo fatto assai più di quanto richiesto nell'esercizio delle mie funzioni, ma dubitavo che a Washington mi avrebbero dato una medaglia per questo. Adesso la situazione era molto, molto delicata. «Tutto bene, Craig?» Nora mi chiamava dal piano di sotto. Aprii la porta del bagno e gridai: «Ho appena finito di fare la doccia. Arrivo». «Bene. La tua omelette è quasi pronta.» Mi pettinai, mi rivestii e scesi le scale per raggiungere Nora in cucina. Era bellissima, in slip e reggiseno, con una spatola in mano. Che fisico! E che sorriso! Notai che aveva apparecchiato solo per me. «Tu non mangi?» chiesi. «No, ho assaggiato un po' di prosciutto, e ho qui la mia acqua minerale.» Mi mostrò una bottiglia. «Devo stare attenta alla linea.» «Non mi pare che tu abbia nulla di cui preoccuparti, veramente.» Mi sedetti e la guardai tener d'occhio l'omelette che friggeva nella padella. La fissava come se volesse ipnotizzarla. Nora era uno schianto vista sia da dietro sia da davanti. Quanto alla linea, poi... Quale linea? Datti una calmata, O'Hara. Ma non c'era verso. Avevo una strana sensazione, e all'improvviso mi venne in mente un tale che conoscevo una volta, un agente della Narcotici, un amico. Era una gran brava persona, un ottimo professionista, ma poi commise un errore fatale: stupidamente, una volta si lasciò tentare e diventò tossicodipendente. Era difficile non vedere il nesso con la mia situazione: pur avendo fatto la doccia, sentivo ancora l'odore di Nora sulla pelle, il suo sapore sulle mie labbra. E avevo voglia di lei. Temevo di non riuscire più a fermarmi.
«Ecco qua», disse. Guardai la grossa omelette messicana che mi aveva messo nel piatto. «Sembra squisita.» Avevo un certo appetito, forse per tutte le calorie bruciate poco prima, nell'atrio. Presi la forchetta e l'assaggiai. «Spettacolare!» Nora inclinò la testa da una parte. «Non mi diresti mai una bugia, vero?» «Chi? Io?» «Sì, tu, Craig Reynolds.» Nora si chinò e mi accarezzò la testa. «Vuoi una birra, o qualcos'altro da bere?» «Un po' d'acqua, grazie.» Non potevo ingurgitare altro alcol. Nora andò a prendere un bicchiere e io finii l'omelette. A onor del vero, era squisita. «Puoi fermarti stanotte?» mi chiese poi. «Ti prego, resta.» Quella domanda mi colse alla sprovvista anche se, a ben pensarci, avrei dovuto aspettarmela. Mi guardai intorno e pensai a Connor Brown, il proprietario di quella casa favolosa: arredamento di gran lusso, curato fin nei minimi particolari. Viking, Traulsen, Miele, Gaggia: le marche migliori del mondo. Nora lanciò un'occhiata in direzione dell'atrio. Il suo vestito a fiori era ancora lì per terra. «Mi sembra un po' tardi per fare quella faccia stupita», disse. Aveva ragione. Stavo per ammetterlo, quando di colpo avvertii una strana sensazione allo stomaco. 73 «Cosa c'è?» chiese Nora. «Non lo so», risposi. «Tutto a un tratto mi sento...» ... Come se stessi per vomitare su tutta la cucina. Mi alzai di scatto dalla sedia e corsi nel bagno. Arrivai alla tazza appena in tempo, mi inginocchiai ed ebbi un conato violentissimo. Insieme all'omelette rigettai anche il pranzo. «Craig, stai bene?» mi chiese lei da dietro la porta chiusa. No, per niente. Investito da un'onda anomala di nausea, barcollavo, avevo la vista annebbiata e l'unica cosa che riuscivo a fare era tenermi forte in attesa che la buriana passasse. Se il poliziotto del cimitero mi avesse visto in quel momento... «Craig? Mi stai facendo paura.» Ero troppo occupato a vomitare per rispondere a qualsiasi domanda, mi
girava la testa e mi sentivo debolissimo. «Hai bisogno di qualcosa?» Abbracciato alla tazza del gabinetto, fui colto da un pensiero raccapricciante: e se non mi fosse passato? Da questo si può capire quanto fossi a pezzi e terrorizzato. «Craig, ti prego, di' qualcosa.» Un attimo dopo, tuttavia, mi sentii meglio: impiegabilmente e rapidamente com'era venuto, il malessere cessò all'improvviso. «Sto bene», dissi, sorpreso e sollevato. «Mi è passato. Adesso esco.» Mi trascinai al lavabo, mi sciacquai la bocca e mi lavai la faccia, dopodiché mi guardai di nuovo allo specchio. Non poteva che essere un'intossicazione alimentare, giusto? Però non potevo escludere un'altra possibilità, e cioè che mi avesse colto un attacco di pura e semplice ansia, al pensiero del casino in cui mi ero cacciato. In parole povere, l'omelette era stata troppo per il mio povero stomaco già roso dalle preoccupazioni. Cristo, O'Hara. Datti una regolata! Tornai in cucina e vidi Nora che mi aspettava confusa. Mi disse: «Mi hai fatto prendere una paura terribile». «Scusa. È stato stranissimo.» Cercai di trovare una spiegazione plausibile al mio malessere. «Forse c'era un uovo andato a male.» «Può darsi. Mi dispiace, Craig! Adesso però stai meglio, vero?» Feci di sì con la testa. «Sei sicuro? Non fare l'eroe.» «Sto meglio, davvero.» «Sono mortificata. Adesso non mangerai mai più nulla di cucinato da me.» «Non dire sciocchezze, non è stata colpa tua.» Sporse in avanti il labbro inferiore con aria offesa e spaventata. Le andai vicino e la abbracciai. «Ti bacerei, ma...» Sorrise. «Credo di poterti trovare uno spazzolino da denti. A una condizione, però...» «Quale?» «Che accetti di fermarti qui stanotte. Te lo chiedo di nuovo, per favore.» Forse, se non fosse stata in slip e reggiseno, o se non l'avessi tenuta tra le braccia, le avrei detto di no. Forse, ma ne dubito. «Anch'io ho una condizione.» «So già che cosa stai per dire. Non voglio neanch'io, stai tranquillo.»
Così non dormimmo nella camera da letto del padrone di casa. In realtà, quasi non chiudemmo occhio. Mi ripromisi che sarebbe stata l'unica notte, che l'indomani avrei chiuso con Nora Sinclair. Avrei trovato qualche altro modo per starle vicino senza entrare in intimità. Eppure, in fondo in fondo, sapevo che cosa mi stava succedendo. Lo sentivo. Non potevo più fare a meno di Nora. 74 La mattina dopo fui svegliato brutalmente dal suono del campanello al piano di sotto. Nora si tirò su a sedere di colpo. «Chi sarà mai, così presto?» Guardai l'orologio. «Merda!» «Cosa?» «Non è affatto presto. Sono quasi le nove e mezzo.» Lei reagì con un bel sorriso che, non so come, riusciva a essere sexy e allegro al tempo stesso. «Ci siamo un po' stancati ieri sera.» «Scherzi, tu. Io dovevo essere in ufficio un'ora fa.» «Non preoccuparti, ti scrivo la giustificazione.» Il campanello suonò di nuovo, e questa volta con maggiore insistenza. «Non ci sono per nessuno», disse Nora e, meravigliosamente nuda, si alzò, andò alla finestra, sbirciò fuori da dietro la tenda ed esclamò: «Maledizione, me n'ero scordata!» «Di cosa?» «È Harriet.» Non avevo idea di chi fosse Harriet, e non me ne importava niente. Sapevo solo che non volevo né lei né nessun altro in quella casa, finché c'ero dentro io. «La mandi via, vero?» «Veramente non posso. È venuta per farmi un grosso favore.» «E se mi vede qui con te?» «Non ti preoccupare. Le ho chiesto di venire a vedere i mobili per metterli in conto vendita nel suo negozio. Tu aspetta qui, farò in modo di non entrare in questa stanza. Non ci metteremo molto.» Per John O'Hara non era un problema, ma Craig Reynolds doveva andare a lavorare. «Nora, sono già in ritardo. Non posso uscire da una porta di servizio o qualcosa del genere?» «Ormai ha visto la tua macchina. Se quando se ne va non c'è più, s'inso-
spettirà. È meglio evitare domande, no?» Inspirai, espirai e chiesi: «Quanto tempo ci vorrà?» «Te l'ho detto, non ci metteremo molto.» Aprì la finestra e si affacciò. «Scusami, Harriet, scendo subito!» gridò. Poi aggiunse: «Bel cappello, tesoro!» Si voltò, fece alcuni passi di corsa e saltò sul letto accanto a me. Infilando una mano sotto le lenzuola, disse poi: «Quanto ad andare a lavorare oggi, non mi sembra una buona idea». «Ah, no?» «No, assolutamente. Secondo me dovresti bigiare e restare qui con me a divertirti. Cosa ne dici?» Non risposi: la mano di Nora sotto le lenzuola aveva già intuito che cosa ne pensavo. «Potrei prendermi un giorno libero, in fondo», dissi alla fine. «Bravo, così ti voglio.» «Che cosa ti piacerebbe fare?» Nora lanciò un'occhiata al lenzuolo. «Ho la sensazione che qualcuno vorrebbe farsi un giretto.» Scese dal letto con un agile balzo. Molto agile: deve allenarsi parecchio, pensai. «Aspetta, non puoi andartene proprio adesso.» «Devo. Harriet è giù che mi aspetta e mi devo vestire.» Guardò di nuovo il lenzuolo sopra di me e sfoderò lo stesso sorriso allegro di poco prima. «Tu aspettami, però.» 75 Rimasi a letto a guardare il soffitto e ad aspettare, come mi aveva ordinato Nora, in quella che doveva essere la stanza della cameriera o della tata: in realtà era molto più bella della mia. Dopo un po' mi misi a fare progetti per il resto della giornata e a pensare a dove andare con Nora. Ma soprattutto meditai su come comportarmi rispetto al fatto che avevamo una relazione, o quello che era. Era chiaro che lei sapeva ottenere quello che voleva. Restava da chiarire se volesse proprio me. E io, comunque, che cosa volevo? Dimostrare che Nora era innocente? Basta con le stronzate, mi dissi. L'unica cosa su cui far luce era se Nora avesse ammazzato Connor Brown e fatto sparire i suoi soldi. E toccava a me scoprirlo. Chiusi gli occhi. Pochi secondi dopo, li riaprii di colpo.
Scesi dal letto e corsi verso la poltrona dove erano appoggiati i miei vestiti. Tirai fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare che squillava e controllai il numero per avere conferma di quel che già sapevo: Susan! Non potevo ignorarla per la seconda volta. Sapeva che non mi separavo mai dal telefono e che ero sempre raggiungibile. Sii te stesso, O'Hara. «Pronto?» «Perché bisbigli?» «Sono a un torneo di golf.» «Ah ah. Dimmi la verità: dove ti trovi?» «Nella biblioteca di Briarcliff Manor.» «Ancora meno credibile, come risposta.» «Peccato che sia vero», ribattei. «Mi sto facendo una cultura.» «Perché?» «Nora mi ha fatto un sacco di domande. È furba. Non so se vuole mettermi alla prova o se è solo curiosa. In ogni caso, devo sapere cosa risponderle.» «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» Tutta la scorsa notte. Decisi che era meglio non sbilanciarsi. «Ieri», dissi. «Craig Reynolds l'ha invitata a pranzo per scusarsi di tutti i fastidi che le ha procurato John O'Hara.» «Bella mossa, furbone. Le hai riferito che i soldi stanno per arrivare, vero?» «Sì, e mi è parsa sollevata. A quel punto ha cominciato a farmi delle domande, però.» «Pensi che abbia dei sospetti sul tuo conto?» «È difficile dirlo.» «Devi riuscire a farla aprire di più.» Deglutii. «Ho un'idea: se Craig Reynolds, dopo il pranzo, la invitasse anche a cena?» «Intendi una cena romantica?» «Non la metterei in questi termini: le è appena morto il fidanzato! Però, sì, in sostanza pensavo a una cosa del genere. Se devo aiutarla ad aprirsi...» «Non so se è la mossa giusta», commentò Susan. «Nemmeno io, veramente. Però ho esaurito le idee. E anche il tempo.» «E se ti dice di no?» Risi. «Sottovaluti il fascino di O'Hara.» «Lungi da me. Non a caso ti ho affidato questa missione, mio caro. Ma,
come hai sostenuto anche tu, Nora non sembra il tipo che si innamora di un assicuratore.» Mi morsi la lingua. «Pensavo ti preoccupasse di più l'idea che Nora dicesse di sì.» «Infatti», rispose. «Ma forse hai ragione: è la nostra unica chance.» Stavo per approvare, quando sentii delle voci fuori della camera da letto. Nora e Harriet salivano le scale chiacchierando. «Merda!» «Cosa c'è?» «Devo salutarti», dissi. «C'è un bibliotecario che mi guarda male.» «Okay. Mi raccomando, O'Hara, sii prudente.» «Senz'altro. Questo bibliotecario ha l'aria da vero stronzo.» «Spiritoso.» Chiusi la comunicazione e ripresi a contemplare il soffitto. Non mi piaceva mentire a Susan, ma non avevo scelta. Mi aveva chiesto se pensavo che Nora sospettasse qualcosa. Io, però, mi chiedevo se si era insospettita lei: si era accorta che mentivo? Susan era una delle persone meno ingenue che conoscessi. Non a caso era il capo. 76 Nora tornò tutta sorrisi, piena di brio. Irresistibile. Saltò sul letto e mi coprì di baci il petto, le guance, le labbra, poi alzò gli occhi al cielo e fece una smorfia buffa che mi avrebbe conquistato anche in circostanze molto più normali. «Ti sono mancata?» «Terribilmente. Com'è andata con Harriet?» «Benissimo. Te l'avevo detto che non ci avremmo messo molto. Sono una donna di parola, hai visto?» «Sì, ma intanto io sono stato chiuso qui dentro.» «Oh, poverino, avrai bisogno di prendere un po' d'aria, adesso», mi prese in giro. «Ragione di più per non andare a lavorare oggi.» «Non ti arrendi mai, eh?» «In effetti...» Indicai con un cenno la giacca e i pantaloni appoggiati sulla poltrona. «Okay, ma sei sicura di voler passare due giorni con un uomo che indossa sempre gli stessi vestiti?» «Te li ho tolti una volta, posso farlo di nuovo», ribatté lei con un'alzata
di spalle. Facemmo la doccia, ci vestimmo e decidemmo di portare a spasso la sua Mercedes. «Allora dove siamo diretti?» chiesi. Nora inforcò gli occhiali da sole. «Tranquillo, ci penso io.» La prima sosta fu in una rosticceria del centro che si chiamava Villarina's, dove io naturalmente feci finta di essere già stato. Mentre entravamo, Nora s'informò sulle mie intolleranze alimentari. «A parte le mie omelette» precisò. «Non amo le sardine, ma se escludi quelle mangio di tutto», risposi. Comprò cibo sufficiente per un piccolo banchetto: varie qualità di formaggio, peperoni arrosto, un'insalata di pasta, olive, affettati e una baguette. Mi offrii di pagare, ma Nora tirò fuori il portafogli e non volle sentire ragioni. La tappa successiva fu in una bottiglieria. «Che ne dici di un buon bianco, oggi? A me piace il pinot grigio», propose. Guardò cosa avevano in fresco e prese dal frigorifero una bottiglia di Tiefenbrunner. Il nostro picnic era pronto. Tornati alla macchina, lei aprì il bagagliaio e mi mostrò che aveva anche un plaid: di cashmere, con il logo Polo Ralph Lauren. L'aveva preso mentre io ero sotto la doccia. Andammo al lago Pocantico, che non era lontano, e ci sistemammo in uno spiazzo erboso che offriva una certa privacy, nonché una splendida vista sulla tenuta dei Rockefeller. «Non è meglio che lavorare?» disse quando ci fummo sistemati sulla coperta. Ma io stavo lavorando. Tra un boccone e l'altro, feci il possibile per scoprire con discrezione qualcosa che dimostrasse che era coinvolta nella morte di Connor Brown e nel trasferimento di fondi che aveva dato l'avvio alle indagini. Per sapere quanto si intendeva di computer, accennai come per caso al firewall di un nuovo programma che usavo in ufficio per navigare in Internet. Vedendo che annuiva, aggiunsi: «E pensare che un anno fa non sapevo nemmeno che esistessero». «Nemmeno io. L'ho scoperto grazie a un mio ex cliente, un pezzo grosso del settore informatico.» «Uno di quelli che si sono arricchiti con le dot com? Incredibile, quanti soldi ha fatto certa gente! Chissà come fanno a spenderli!»
Nora fece un'altra delle sue smorfie ridicole. «Va tutto a mio vantaggio: non hai idea di quante case ristrutturano!» «Vero. Non oso pensare all'entità delle tasse!» «Già. Ma hanno i loro sistemi per pagarne il meno possibile», disse lei. «Evadono il fisco?» Mi guardò in faccia per un attimo. «Be', sì», disse con una luce strana negli occhi. Intuii che si stava insospettendo e feci subito marcia indietro. Così, per il resto del pomeriggio recitai la parte di quello che si gode un giorno di vacanza inaspettata in compagnia di una bella donna per la quale ha perso la testa. 77 Torna a casa, O'Hara. Dattela a gambe finché sei in tempo, cretino. Ma non scappai. Dopo il picnic, andammo al cinema. Anche quella fu un'idea di Nora. Davano La finestra sul cortile al Jacob Burns, il cinema d'essai di Pleasantville. Lei mi disse che era uno dei suoi film preferiti. «Adoro Hitchcock, sai? È divertente e nello stesso tempo ti mostra il lato oscuro della vita. Due piccioni con una fava, insomma.» Alla fine della proiezione avevamo mangiato tanto di quel popcorn che decidemmo di rinunciare alla cena al vicino Iron Horse Grill, come Nora aveva programmato dapprincipio. Così mi ritrovai in piedi di fronte a lei nel parcheggio, come un liceale che non sa bene come concludere la serata. Nora, invece, aveva le idee molto chiare. «Andiamo da te», disse. La guardai per un momento, cercando di decifrare la sua espressione. Aveva già visto il posto squallido dove stavo: mi prendeva in giro, voleva vedere come reagivo? O davvero non le importava del mio tenore di vita? «A casa mia?» «Non vuoi?» «No, figurati», dissi. «Però ti avverto, forse non è come te l'aspetti.» «E cioè?» «Diciamo che è molto diversa dalle case cui sei abituata.» Nora mi guardò di nuovo negli occhi. «Craig, tu mi piaci. È per questo che sono qui, per stare con te. È chiaro?» Annuii. «Lampante.» «Posso fidarmi di te? Vorrei tanto poterlo fare.»
«Certo che puoi. Sono il tuo assicuratore.» Detto questo, andammo a casa mia. Nora non batté ciglio quando la vide, per la seconda volta. Ashford Court Gardens, casa dolce casa. Entrammo mano nella mano. «Forse avrei dovuto avvertirti che la mia cameriera è in sciopero», dissi sorridendo. «Le condizioni di lavoro sono inaccettabili, dice.» Nora si guardò intorno: l'ambiente non si poteva definire propriamente ordinato. «Non c'è male. Si capisce che non hai un'altra. Mi piace.» Le offrii una birra e lei accettò. Mentre le porgevo il bicchiere, ebbi l'accortezza di fare una battuta sui mobili di formica gialla, cercando così di anticiparla. Bevve un sorso e posò la borsa di pelle rossa. «Be', non mi fai fare il giro della casa?» «È tutta qui, temo.». «Non hai una camera da letto?» Mi dissi che quella storia doveva finire, e subito. Ovviamente, però, se l'avessi pensato sul serio non sarei stato lì con lei, a casa mia. Avrei accennato qualcosa al cinema, avrei fatto finta di non voler «correre troppo». Invece la stavo baciando, sempre più vicino alla mia camera da letto. Altro che sotto copertura, stavo per finire di nuovo sotto le lenzuola con Nora! Ma avevo intenzione di volgere la situazione a mio vantaggio. E credevo di sapere esattamente da che parte cominciare. 78 «Come hai fatto a frugarle nella borsa senza che se ne accorgesse?» chiese Susan. Be', vedi, capo, dopo aver fatto sesso selvaggio con lei nel mio pied-àterre, ho aspettato che si addormentasse. Poi sono andato in cucina in punta di piedi e ho curiosato nella sua borsa. No, meglio di no. «Ho i miei metodi», risposi semplicemente. «Non è per questo che mi hai affidato la missione?» «Diciamo che hai un discreto curriculum, O'Hara. E che eri disponibile.» Ero in ufficio dietro la scrivania, il giorno dopo, e stavo aggiornando telefonicamente Susan sull'ultima cosa di cui avevamo discusso, ovvero la mia «cena romantica» con Nora. Susan temeva che avessi la mano un po'
pesante e che Nora si spaventasse. Ah ah. Quando l'ebbi rassicurata che non era così, cominciò a interessarsi al contenuto della borsa di Nora. «Come hai detto che si chiama quel tale?» chiese Susan. «Steven A. Keppler.» «E fa il fiscalista a New York?» «Così dice il biglietto da visita.» «Quando pensi di riuscire a parlargli?» «Il problema è proprio questo. Ho telefonato e mi hanno detto che è in ferie fino alla settimana prossima.» «Potrebbe non sapere niente, in realtà.» «Sì, ma potrebbe anche essere informato di tutto. Io sono ottimista.» «Si rifiuterà di rispondere con la scusa del segreto professionale, se Nora è sua cliente.» «Probabile.» «E allora cosa pensi di fare?» «Te l'ho detto, ho i miei metodi.» «Lo so, ed è questo che mi preoccupa», ribatté. «Ricordati che con gli avvocati bisogna stare attenti perché in qualche caso, per quanto ti possa sembrare incredibile, conoscono la legge.» «Sorprendente.» «Mi terrai informata? Devi, perché te lo ordino.» «Io ti aggiorno sempre, capo.» Finita la telefonata, allontanai la sedia dalla scrivania e tirai il fiato. Ero nervoso, agitato. Sul monitor del computer era visualizzato lo screensaver. Con il tacco della scarpa premetti la barra spaziatrice e lo schermo si illuminò. Mi avvicinai, aprii il file che avevo creato su Nora e iniziai a guardare le prime foto che le avevo scattato con la fotocamera digitale dopo il funerale di Connor Brown. Mi fermai sull'ultima e la esaminai con cura. Nora parlava con la sorella di Connor, Elizabeth, sugli scalini davanti al portone della villa. Era vestita di nero e aveva gli stessi occhiali da sole di quando eravamo andati a fare il nostro picnic insieme. Elizabeth Brown era bella quasi quanto lei, solo che era una bionda californiana. A quanto mi risultava, faceva l'architetto. Mi chinai per guardare la foto ancora più da vicino. A prima vista non c'era nulla di strano in quello che avevo davanti, ma esiste una bella differenza tra la percezione delle cose e la realtà. O Nora non aveva nulla da
nascondere, oppure aveva ingannato tutti, a cominciare dalla polizia, gli amici ed Elizabeth Brown. Cristo! Possibile che riuscisse a chiacchierare così tranquillamente con la sorella dell'uomo che aveva assassinato? Che fosse davvero così convincente e così infida? Il fatto che io non l'avessi ancora capito poteva significare che era realmente pericolosa. C'era una cosa che avevo perfettamente compreso, però: avevo una gran voglia di rivederla. Chiusi il file dicendomi che avevo perso il controllo della situazione e dovevo assolutamente rimediare. Avevo giocato con il fuoco e stavo rischiando di scottarmi. Dovevo smetterla. Datti una regolata, O'Hara. Almeno per qualche giorno. In quel momento mi venne un'idea brillante: forse avevo trovato il modo per rimettere ordine tra le mie priorità. Richiamai Susan e le dissi che cosa intendevo fare. «Mi servono un paio di giorni di permesso.» 79 Nora uscì dall'ascensore all'ottavo piano dell'ospedale psichiatrico di Pine Woods con una bottiglia d'acqua minerale in mano, bevve l'ultimo sorso e la buttò in un cestino. Come sempre, andò verso la sala infermiere. Solo che quel giorno era vuota: non c'erano né Emily, né Patsy - che nome da cretina -, né nessun altro. «Buongiorno», gridò, ma le rispose soltanto l'eco della sua stessa voce. Esitò un momento prima di decidersi a proseguire nel corridoio. Per una volta poteva anche entrare senza firmare il registro, pensò. «Ciao, mamma.» Olivia Sinclair si voltò verso la figlia, che era ferma sulla porta, e con il solito sorriso vuoto rispose: «Ciao». Nora le diede un bacio su una guancia e avvicinò una sedia al letto. «Come stai?» «Mi piace leggere, sai.» «Sì.» Posò la borsa per terra e tirò fuori da un sacchetto di plastica l'ultimo romanzo di Patricia Cornwell. «Ecco qua. Questa volta mi sono ricordata.» Olivia Sinclair prese il libro e passò lentamente la mano sulla copertina, seguendo con il dito le lettere in rilievo del titolo. «Ti trovo molto meglio, mamma. Mi hai fatto prendere uno spavento,
l'ultima volta.» Olivia continuava a fissare la sovraccoperta lucida e Nora pensò che non si rendeva conto di nulla, che viveva in un mondo tutto suo. L'isolamento della madre, che tanto la addolorava ogni volta che andava a trovarla, quel giorno la riempì di sollievo. Nora aveva temuto infatti di essere stata la causa della crisi epilettica. Pensava che fossero state le lacrime, le emozioni, l'improvviso desiderio di confessare i suoi peccati tutte cose che non avrebbe dovuto portare con sé in quella stanza - a scatenare una simile reazione in Olivia. Più rifletteva, più quella spiegazione le sembrava plausibile. In quel momento, però, capì che non era così. Le bastava guardare sua madre, così distaccata, immersa nell'oblio, per rendersi conto che non era stata lei a provocare la crisi. Da un certo punto di vista, era ancora più deprimente. «Credo che ti piacerà, mamma. È un'indagine di Kay Scarpetta. La prossima volta me lo racconti, okay?» «Mi piace leggere, sai.» Nora sorrise e per il resto della visita parlò solo di cose positive, divertenti. Ogni tanto la madre la guardava, ma perlopiù fissava lo schermo del televisore spento. «Be', ora devo andare», disse Nora dopo circa un'ora. La madre prese il bicchiere di plastica che era sul comodino. Era vuoto. «Vuoi un po' d'acqua?» le chiese Nora. L'anziana degente annuì e Nora fece per prendere la brocca. «Oh, è vuota anche questa. Torno subito», disse dirigendosi verso il bagno. La madre annuì nuovamente. Aspettò di sentire il rumore dell'acqua che scorreva dal rubinetto e da sotto le coperte tirò fuori la lettera che aveva scritto alla figlia, in cui le spiegava tante cose che da anni desiderava dire, ma che non aveva mai avuto il coraggio di raccontare. Sentiva che era giunto il momento della verità. Si mise a sedere sul bordo del letto, si sporse e lasciò cadere la lettera dentro la borsa aperta di Nora. Dopo tanto tempo... 80 «Eccola qua!»
Sorpresa, Emily Barrows alzò la testa dal libro che stava leggendo nella sala infermiere e vide Nora in piedi sulla porta, più bella che mai. Non l'aveva sentita arrivare, perché era troppo assorta nella lettura. «Oh, buongiorno, Nora.» «Quando sono arrivata, non l'ho vista.» «Mi dispiace, forse ero in bagno», rispose Emily. «Sono da sola oggi pomeriggio.» «Che fine ha fatto l'altra infermiera? La nuova?» «Patsy? Oggi non è venuta, non sta bene.» Emily accennò al libro aperto davanti a sé e disse: «Grazie al cielo, è una giornata tranquilla». «Che cosa legge di bello?» Emily sollevò il libro e le mostrò la copertina. A Time for Mercy di Jeffrey Walker. Nora sorrise. «Bravo, eh?» «Eccezionale.» «E pure bello.» «Se le piacciono gli uomini alti con l'aria rude, senza dubbio.» Nora scoppiò a ridere e la caposala pensò che era meno preoccupata e tesa della volta precedente. Anzi, sembrava di ottimo umore. «Com'è andata con sua madre, Nora? A vederla, direi bene.» «Sì, sì. Molto meglio dell'ultima volta.» Nora si sistemò i capelli dietro le orecchie e aggiunse: «A proposito, volevo scusarmi per il mio comportamento. Per fortuna ha dimostrato un gran sangue freddo, Emily. È stata molto brava. Grazie». «Prego. Ma sono qui apposta.» «Be', sono contenta che ci fosse lei, quel giorno.» Guardò il libro di Emily e propose: «Sa una cosa? Quando esce il prossimo, gliene farò avere una copia firmata». «Davvero?» «Certo. Combinazione, conosco Jeffrey Walker. Ho lavorato per lui.» Il viso di Emily s'illuminò. «Grazie! Ne sarei felicissima!» «È il minimo che possa fare», rispose Nora con un sorriso affettuoso. «A cosa servono gli amici, se no?» Era una frase fatta, d'accordo, ma Emily apprezzò la buona fede. Si salutarono e Nora si diresse verso gli ascensori. La caposala la seguì con lo sguardo mentre premeva il pulsante del pianterreno e tornò al romanzo di Jeffrey Walker. Sentì le porte dell'ascensore che si chiudevano, alzò gli occhi e vide la borsa.
La borsa di Nora, posata sul bancone. Probabilmente se ne sarebbe accorta prima ancora di arrivare alla portineria, ma decise di avvertire lo stesso le guardie all'ingresso. Posò il telefono e abbassò lo sguardo sul libro. Poi, però, guardò di nuovo la borsa. Era elegante e costosa. E aperta. 81 Elaine e Allison stentavano a credere alle loro orecchie: non era mai successo che Nora parlasse di un altro uomo, da quando era morto suo marito Tom. Eppure era proprio quello che stava facendo mentre cenavano nella Mercer Kitchen di SoHo, quella sera. Anzi, dire che parlava era poco: Nora si stava confidando con un entusiasmo che non era da lei. «Ha un'incredibile energia e una sicurezza che mi piacciono da morire. È un tipo normalissimo, con i piedi per terra. Ma è anche speciale.» «Wow. Non avrei mai detto che gli assicuratori fossero così sexy», commentò Elaine scherzosamente. «Neanch'io», ribatté Nora. «Ma Craig non dovrebbe fare l'assicuratore, credimi.» «Parliamo delle cose importanti: come si veste?» chiese Allison, da brava redattrice di moda. «Giacca elegante ma non troppo seriosa. Porta spesso la camicia aperta. Di rado l'ho visto con la cravatta.» «Okay, andiamo al sodo», incalzò Elaine, accantonando l'argomento. «Com'è a letto?» Allison alzò gli occhi al cielo. «Elaine!» «Cosa c'è di male? Ci raccontiamo sempre tutto.» «Sì, ma si sono appena conosciuti. Come fai a sapere che sono stati a letto?» Allison si voltò verso Nora con un sorriso malizioso. «Sì, è già successo», confermò lei. Elaine e Allison, con i gomiti sul tavolo, si sporsero nella sua direzione. «E com'è?» chiesero contemporaneamente. Nora, padrona della situazione, bevve un sorso del suo Cosmopolitan. «Così così... No, scherzavo: è stato fantastico.» Tutte e tre scoppiarono a ridere come adolescenti. «Quanto ti invidio!» esclamò Elaine.
Nora, con sua stessa sorpresa, divenne subito seria. «Quando sono con lui, non mi sento sola. Era tantissimo tempo che non mi succedeva. Credo... credo che siamo molto simili.» Elaine si voltò verso Allison. «Forse finora abbiamo cercato nel posto sbagliato. In questa città ci sono un milione di uomini single e lei incontra l'anima gemella in mezzo alla campagna...» «Però non ci hai ancora detto che cosa sei andata a fare da quelle parti», indagò Allison. «Ho un cliente a Briarcliff Manor», rispose Nora. «Ero a Chappaqua in un negozio di antiquariato e lui era lì, in cerca di vecchie canne da pesca. Le colleziona.» «E il resto lo sappiamo», disse Allison. «Lo ha preso all'amo in un negozio di antiquariato! Ah, quanto sono invidiosa!» aggiunse Elaine. Non era vero, e Nora lo sapeva: Elaine era felice, felicissima, che la sua amica avesse finalmente trovato qualcuno. E anche Allison era contenta per Nora. «Allora, quando ci presenterai questo Craig?» chiese. «Già», fece eco Elaine. «Quando avremo l'onore di conoscerlo?» 82 Nora tornò a casa dopo cena con un solo pensiero in testa: Craig. Tutto quel parlare di sesso le aveva fatto venire voglia di averlo vicino, ma purtroppo doveva accontentarsi di sentire la sua voce. Si mise il pigiama, si coricò sul letto e lo chiamò. Il telefono squillò cinque volte prima che lui rispondesse. «Ti ho svegliato?» «No no», rispose Craig. «Ero nell'altra stanza a leggere.» «Qualcosa di bello?» «Purtroppo no. Roba di lavoro.» «Che noia.» «Sì. Motivo di più per rallegrarmi di sentire la tua voce.» «Ti sono mancata?» «Più di quanto immagini.» «Idem per me», disse Nora. «Vorrei tanto essere lì con te. Ho la sensazione che smetteresti subito di leggere.» «Dici? E per fare cosa?»
«Mi abbracceresti.» «E poi?» Nora ansimò nel telefono. «Mi baceresti.» «E dove ti bacerei?» «Sulla bocca.» «Piano o forte?» «Prima delicatamente, poi con passione.» «Dove sono le mie mani?» chiese lui. «In vari posti interessanti.» «Dove, esattamente?» «Sul mio seno, tanto per cominciare.» «Mm. Buon inizio. E poi?» «Sulle cosce.» «Oh, questo mi piace.» «Aspetta. Stanno salendo. Mi fai il solletico.» «Sempre più interessante...» Nora si morse il labbro. «Lo penso anch'io.» «Mi senti?» mormorò lui. «Sì.» «Sono dentro di te?» Clic. «Cos'è stato?» chiese Craig. «Merda, mi chiamano sull'altra linea.» «Non rispondere.» Nora guardò il numero della chiamata. «Devo. È una mia amica.» «Bene. Mi piacciono i giochetti a tre», commentò lui ridendo. «Molto spiritoso. Resta un momento in linea, ti dispiace? Abbiamo cenato insieme e se non rispondo penserà che mi sia successo qualcosa.» Nora passò sull'altra linea. «Elaine?» «Non dormivi ancora, vero?» «No, ero sveglissima.» «Un momento, hai l'affanno.» «Sono sull'altra linea.» «Non dirmi che è... Craig.» «Sì.» «E io vi ho interrotto sul più bello, eh?» «Non preoccuparti.» «Coitus interruptus da avviso di chiamata? Scusami.»
«Figurati.» «Volevo solo dirti di nuovo quanto sono felice per te. Torna pure da lui.» «Okay.» «Quanto ti invidio!» Clic. «Ci sei ancora?» disse Nora. «Sono qui.» «Allora, dove eravamo rimasti?» «A un punto tale per cui farò fatica a dormire stanotte.» «Anch'io. Domani prendo la macchina e vengo a trovarti.» Nora aspettò che lui dicesse qualcosa, ma dall'altra parte ci fu solo silenzio. A che cosa sta pensando? «Domani non posso», le disse dopo un po'. «Perché?» «Ho un appuntamento a cui non posso mancare in sede, a Chicago. È per quello che stavo studiando.» «Non puoi dare buca?» «Vorrei tanto, ma è un seminario e io sono uno dei relatori.» «Oh», fece lei scoraggiata. «Peccato.» «Tornerò tra un paio di giorni.» «Mi telefonerai da Chicago?» «Certo. Così ricominciamo da dove siamo rimasti.» «Dipende. Se farai il bravo.» «Oh, farò il bravo, stai tranquilla», disse. «Non preoccuparti per me.» 83 Nora invece si preoccupò, eccome. Si arrovellò per tutta la notte. Aveva detto che non sarebbe riuscita a dormire, ed era vero. Voleva disperatamente sapere se Craig era stato sincero. Il tono con cui le aveva parlato di quel seminario l'aveva messa in allarme. Aveva provato la stessa sensazione d'inquietudine della prima volta che si erano incontrati. C'è qualcosa che non quadra. L'indomani si svegliò all'alba e, senza sprecare un minuto per fare la doccia o truccarsi, s'infilò una vecchia felpa e un berretto da baseball, prese l'auto e partì per Westchester. Prima di tutto andò a casa di Connor a Briarcliff Manor, dove lasciò la Mercedes rossa e prese una delle altre due
macchine in garage, una Jaguar XJR verde. Non voleva farsi riconoscere da Craig, e comunque quel gioiellino le piaceva quasi quanto la Mercedes. Venti minuti dopo era appostata in fondo alla strada in cui abitava lui, con un caffè appena comprato da Starbucks. Se la prima volta che lo aveva seguito non sapeva esattamente che cosa aspettarsi, quel giorno le era chiaro. Craig le aveva detto che sarebbe partito con un volo verso mezzogiorno. Intorno alle dieci, lo vide uscire dal portone scrostato in maglietta gialla e giacca sportiva marrone. Stava bene. Era l'ora giusta, se doveva andare all'aeroporto. E aveva anche una valigia in mano. Nora tirò un sospiro di sollievo. Poi lui salì sulla BMW nera, con i capelli ancora umidi dopo la doccia. Era proprio bello, pensò. Sentiva già la sua mancanza prima ancora che fosse partito. Lo osservò mentre usciva in retromarcia dal parcheggio davanti a casa e svoltava nella sua direzione. Si chinò precipitosamente per non farsi vedere e aspettò che la superasse. Sarà anche stata la più bella, ma la Jaguar verde era semplicemente una delle tante auto lungo la strada. Nora decise di seguirlo per qualche chilometro, in modo da avere la certezza assoluta che stesse andando all'aeroporto. Voleva disperatamente che procedesse tutto liscio e che quella sera lui la chiamasse da Chicago. Lei gli avrebbe detto che le mancava tanto - il che era vero - e si sarebbero scambiati calde effusioni per telefono. Sorrise al pensiero. Che cosa mi è preso? si chiese subito dopo. Era a un centinaio di metri di distanza dall'automobile di Craig sulla strada che portava all'aeroporto di Westchester, che lei conosceva molto bene. Per quanto convinta della necessità di essere prudente, stava cominciando a credere di avere esagerato. Aveva avuto dei dubbi sul conto di Craig ma, come la prima volta, si stavano rivelando infondati. Poi, però, vide che metteva la freccia. 84 C'erano molte strade che portavano all'aeroporto di Westchester, ma quella che Craig aveva appena imboccato non era una di queste. E non era nemmeno una via panoramica. Craig Reynolds era diretto altrove.
Nora non volle trarre conclusioni affrettate. A volte si mente a fin di bene e lei non voleva rinunciare a sperare. Forse Craig voleva farle una sorpresa. Parecchi chilometri più avanti, quando vide il primo cartello per Greenwich, nel Connecticut, pensò alla sua gioielleria preferita, Betteridge, e immaginò Craig che si presentava da lei con una scatolina legata con un fiocco e le diceva di essersi inventato il viaggio a Chicago per poterle fare un regalo inaspettato. Ma lui superò Greenwich e tirò dritto. Le speranze di Nora svanirono. Si sforzava di mantenere la calma, ma stava per cedere alla rabbia, alla delusione e a molte altre emozioni confuse ma inevitabilmente negative. Vide che Craig entrava a Riverside. Da come guidava era chiaro che conosceva bene la zona. Come mai? A un certo punto imboccò una strada senza uscita. Nora si fermò all'angolo, spense il motore e guardò le case, non particolarmente grandi né lussuose, ma ben tenute. Molto diverse dal condominio di Westchester. Che cosa ci fa Craig Reynolds nel Connecticut? Perché ha con sé una valigia? Perché mi ha mentito? A circa metà della via la BMW imboccò un vialetto con una cassetta rossa per la posta. Nora lo vide scendere dall'auto, stiracchiarsi e poi dirigersi verso la porta di una casa bianca, in stile coloniale, con le persiane verde scuro. Prima ancora che bussasse, la porta si spalancò e due bambini gli corsero incontro. Gli buttarono le braccia al collo e lui li abbracciò e li baciò in un modo per cui Nora capì che non era lo zio, né il cugino, né il fratello maggiore, ma il padre. Vuol dire che... che è sposato? Con il cuore che batteva all'impazzata e lo stomaco in subbuglio, allungò il collo per vedere l'altra persona che era comparsa nel frattempo sulla porta e capì subito che non poteva trattarsi della signora Reynolds. A meno che Craig non avesse un debole per le straniere di una certa età. Doveva essere la tata. Poi notò la donna affacciata a una finestra del primo piano, un po' ordinaria, ma carina. Salutava Craig con la mano. Era chiaramente sua moglie. Nora, sulla sua Jaguar, si appoggiò al sedile e borbottò una sfilza di im-
properi. «Stronzo bastardo bugiardo di merda!» Lo osservò mentre entrava in casa con i bambini, incapace di staccare gli occhi da quella scena. Cercava di capire, ma c'erano cose che non riusciva a spiegarsi: perché Craig aveva un appartamento a Westchester, se abitava lì? Non aveva ancora finito di rimuginarci sopra, che la porta si riaprì e Craig e i bambini uscirono di casa ridendo e scherzando. Adesso i due ragazzini avevano uno zaino per uno e lui una sacca da viaggio. Salirono tutti sulla BMW. Partivano. Ma per dove? Nora guardò di nuovo il cartello che diceva STRADA SENZA USCITA e mise in moto. Non poteva lasciare che Craig passasse davanti a una Jaguar verde per due volte nella stessa mattina. Si spostò nella traversa vicina e rimase qualche minuto a meditare sul da farsi. Non le interessava sapere dove stessero andando Craig e i suoi figli. Di sicuro non erano diretti a Chicago a un seminario in cui lui figurava tra i relatori. Cos'altro c'era di interessante da scoprire, a parte il fatto che tradiva la moglie? Niente. Nora decise di tornare a Westchester a riprendere la sua macchina. Più tardi Craig le avrebbe telefonato. Era proprio curiosa di sentire che cosa le avrebbe raccontato. Ma prima di rimettersi in viaggio non resistette alla tentazione di dare un'ultima occhiata a quella graziosa casetta di periferia. Voleva guardarla da vicino, come se non riuscisse a credere a quel che aveva appena visto. Craig Reynolds non era quel che diceva di essere. E questo lo rendeva più simile a lei di quanto immaginasse. Che fosse proprio questo ad attirarla tanto? Imboccò la strada senza uscita e si avvicinò lentamente alla casa bianca. A un certo punto sgranò gli occhi e inchiodò: sulla cassetta della posta c'era scritto un nome, un po' sbiadito ma ancora leggibile: O'HARA. Nora non riusciva a credere ai propri occhi. 85 In preda a un'ira funesta, Nora tornò a Westchester guidando in maniera sconsiderata. Era delusa, amareggiata, fuori di sé. Si sentiva tradita e abbandonata. E confusa: c'erano molte domande a cui doveva trovare una risposta.
Perché O'Hara aveva organizzato quella messinscena? La famosa polizza di assicurazione esisteva veramente? E per quale ragione era stato a letto con lei? Di certo O'Hara era un vero esperto in fatto di menzogne. Ironia della sorte, trovarsi ad avere a che fare con un bugiardo professionista... Arrivata a Westchester, sfogò la propria rabbia spaccando tutti gli oggetti di valore che le capitarono a tiro: rovesciò un tavolo, strappò una tela dalla cornice, lanciò un vaso di Baccarat contro un muro provocando una pioggia di schegge di cristallo. Quindi infierì su se stessa. Bevve più di mezza bottiglia di vodka, imprecando e parlando da sola con voce sempre più strascicata. Era decisa a vendicarsi, ma non era in grado di decidere come e a metà pomeriggio si addormentò sul divano del salotto. Si risvegliò solo l'indomani mattina, con uno spaventoso mal di testa. In realtà era una fortuna, perché stava talmente male da non poter pensare al motivo per cui si era ubriacata. Non per molto, tuttavia. Andò a preparare un caffè e nel sentirne l'aroma le tornò la rabbia. Vaniglia e nocciola, la stessa miscela che aveva bevuto con Craig Reynolds il giorno in cui si era presentato. Solo che non era Craig Reynolds, non lo era mai stato. Alla fine il mal di testa le passò e, con la mente più libera, riesaminò gli interrogativi irrisolti. Prima di tutto, perché O'Hara si spacciava per qualcun altro? Prima di accertare se c'è veramente la polizza, forse vale la pena di controllare se esiste la Centennial One. Avendo visto l'insegna, Nora l'aveva dato per scontato, ma a questo punto nutriva seri dubbi. Prese il telefono, chiamò l'ufficio informazioni abbonati e chiese il numero della presunta sede centrale della compagnia a Chicago. «Resti in linea, il numero le verrà dettato fra un momento», rispose l'operatore. Non contenta, Nora lo scrisse e lo compose. «Buongiorno, Centennial One Life Insurance», rispose una voce cordiale di donna. «Potrei parlare con il signor John O'Hara, per cortesia?» «Mi dispiace, ma il signor O'Hara è fuori sede.» «Posso lasciare un messaggio sulla sua casella vocale?»
«Purtroppo non è possibile. Il sistema è momentaneamente fuori servizio.» «Ma guarda che combinazione!» «Come ha detto, scusi?» «Niente, niente.» «Se vuole, può lasciare un messaggio a me.» «No, grazie, non importa.» Nora stava per riattaccare. «Scusi, con chi ho parlato?» «Con Susan.» «Veramente, Susan, avrei un'altra domanda da farle. Può dirmi se un certo Craig Reynolds lavora ancora per voi?» «Un momento che controllo nell'elenco interno. Reynolds, ha detto, giusto?» «Sì.» «Oh, eccolo qui. Il signor Reynolds lavora in uno degli uffici nello Stato di New York. A Briarcliff Manor, per la precisione. Vuole il numero?» «Certo.» Nora scrisse. «Grazie, Susan.» «Non c'è di che, signora...» Esitò. «Scusi, come ha detto che si chiama?» «Non l'ho mai detto.» Nora riattaccò e si precipitò a cercare nella borsa il biglietto da visita che le aveva dato Craig Reynolds. Come prevedibile, il numero coincideva. «Sei in gamba, O'Hara», borbottò fra sé mentre prendeva le chiavi della macchina. Ma la luna di miele è finita. PARTE QUARTA FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI 86 Nora continuò a premere il tasto della selezione automatica dell'autoradio passando da una stazione all'altra fino a Briarcliff Manor, ma non c'era una sola canzone che le piacesse. Perlopiù erano porcherie rap che le facevano venir voglia di mettersi a gridare. Alla fine, esasperata, urlò veramente. Era nervosa, agitatissima, e non solo perché aveva bevuto troppi caffè. Il pensiero di O'Hara la mandava in bestia. Quando squillò il cellulare, rischiò di finire fuori strada. È lui.
Lì per lì fu tentata di affrontarlo subito e di dirgli con poche parole ben scelte che aveva scoperto la sua vera identità. Mentre prendeva in mano il telefono, però, decise che era meglio aspettare: O'Hara non meritava di cavarsela con così poco. Guardò il display, ma per via del riflesso del sole non riuscì a leggere il numero. Era pronta a scommettere che fosse lui, però. «Pronto?» «Dove diavolo eri finita?» Per fortuna non c'era nessuno con cui scommettere. La voce leggermente irritata che le aveva rivolto quella domanda era di Jeffrey. Erano due giorni che non si faceva viva e non rispondeva alle sue telefonate. «Scusami, amore, stavo proprio per chiamarti», disse. «Mi hai battuto sul tempo.» Jeffrey si ammorbidi subito. «Cominciavo a preoccuparmi, tesoro. Non sapevo dove fossi.» Nora doveva trovare una scusa, e credibile. «È sempre la stessa cliente, maledizione. Prima o poi mi farà morire. Hai presente quella che aveva minacciato di rivolgersi a qualcun altro se non andavo a scegliere i tessuti con lei?» «Come potrei dimenticarla? Ho dovuto rinunciare a un fine settimana con te per causa sua.» Nora non replicò, lasciandolo sulle spine. «Oh, no!» esclamò Jeffrey. «Non dirmi che...» «Sto cercando di liberarmi.» «Che cosa vuole stavolta?» «Che vada da lei a East Hampton a vedere la nuova serra. È una buona cliente, una delle più affezionate.» «È già venerdì, Nora. Quando saprai qualcosa di preciso?» È arrabbiato. Mi chiama Nora solo quando è arrabbiato. «Ti richiamo nel pomeriggio. Credimi, all'idea di passare un altro fine settimana con quella donna mi sento male. Ho tanta voglia di vederti...» «Sembri stressata, amore. Per il resto, va tutto bene?» «Sì, sì.» Con gli occhi della mente vide l'immagine di O'Hara e aggiunse: «A volte basta una persona a mandarti in paranoia, sai». «Ragione di più per stare con l'unica persona che ti può far dimenticare tutti i tuoi problemi», disse Jeffrey. «Allora mi chiami più tardi? Ti amo.» Nora disse di sì e lo salutò, chiudendo la telefonata con un «anch'io ti amo tanto».
Era abbastanza soddisfatta di quell'intervento di manutenzione coniugale improvvisato, ma aveva i nervi a fior di pelle. Cominciava a far fatica a tenere il filo di tutte le bugie che raccontava, e questo era un rischio. Ciononostante, non aveva intenzione di impegnarsi con Jeffrey per tutto il weekend prima di avere le idee chiare su O'Hara e sulle prossime mosse da fare. Arrivò nel centro di Briarcliff Manor, trovò miracolosamente parcheggio, scese dalla macchina e guardò l'insegna che diceva CENTENNIAL ONE LIFE INSURANCE alle finestre del primo piano. La lesse lentamente, come se la prima volta le fosse sfuggito qualcosa. Non intendeva dare nulla per scontato, ormai. Non se c'è di mezzo O'Hara. 87 «Buongiorno, desidera?» Nora, con gli occhiali scuri, studiò la ragazza sorridente seduta dietro la scrivania: dimostrava poco più di vent'anni, aveva lo sguardo intelligente e sembrava troppo colta e preparata per fare la segretaria. «Sono venuta per parlare con Craig Reynolds. È in ufficio?» La ragazza ebbe un attimo d'esitazione. Dev'essere d'accordo anche lei. E recita piuttosto bene. «Mi dispiace, il signor Reynolds in questo momento non c'è.» Nora guardò l'orologio. «È andato a pranzo? Va all'Amalfi, di solito?» «No, è fuori città.» «Quando rientra?» «Lunedì, credo», rispose la ragazza. «Aveva un appuntamento? Vuole che gliene prenda uno?» «No. Craig mi ha pregato di passare, appena avevo un momento libero. Ma forse mi può aiutare lei. Mi serve una copia di una polizza d'assicurazione.» Altro attimo di esitazione. A parte questo, la ragazza recitava benissimo. «Intestata a lei?» domandò. «No. Io sono la beneficiaria.» «Capisco.» La ragazza scosse la testa. «Purtroppo, sono autorizzata a consegnare copie solo all'intestatario della polizza.» Nora lesse la targhetta con il nome sulla scrivania. «Molly, giusto?» «Sì.»
«Be', vede, Molly, l'intestatario della polizza in questione è morto.» «Oh, mi dispiace.» «Anche a me. Era il mio fidanzato.» Molly si illuminò. «Lei è la signorina Sinclair?» «Come fa a saperlo?» Molly fece un gesto come per indicare la piccolezza dell'ufficio. «Siamo solo in due, quindi ho presente la sua pratica. Di nuovo, condoglianze vivissime.» Nora si tolse gli occhiali da sole e guardò Molly dritto negli occhi. «A questo punto immagino che non avrà difficoltà a darmi una copia della polizza.» Molly sbatté gli occhi e sorrise. «Certo che no. Vado a vedere se la trovo nell'ufficio del signor Reynolds.» Mentre si alzava e andava nell'altra stanza, Nora si guardò intorno. Il posto era davvero piccolo e sembrava autentico, con brochure e pratiche posate qua e là. Ma c'era qualcosa che non quadrava: Molly. Per essere una che sosteneva di sapere tutto quel che succedeva lì dentro, dava risposte un po' troppo evasive. Quando la ragazza tornò, era a mani vuote. Scosse la testa e disse: «Mi dispiace, signorina Sinclair, ma non riesco a trovarla». Nora si diede una leggera manata sulla fronte. «Sa una cosa? Mi è venuto in mente che Reynolds mi aveva detto che era in sede, a Hartford.» «Davvero? Allora sarà là.» Nora studiò Molly per un attimo. La ragazza aveva commesso un errore. Oppure il suo «capo» si era dimenticato di dirle che la presunta sede della Centennial One Life Insurance era a Chicago? Inforcò di nuovo gli occhiali da sole. «Ho capito che mi toccherà aspettare che rientri Reynolds lunedì.» «Gli dirò che è passata, va bene?» Non ho dubbi, mia cara. Nora tornò all'auto e tirò fuori il cellulare. Le conseguenze dell'incontro fra lei e O'Hara si stavano facendo pesanti. Premette il tasto per la composizione veloce dei numeri. Veloce: era quella la parola d'ordine da quel momento in poi. Doveva lavorare in fretta e chiudere tutti i conti in sospeso. «Pronto?» «Ho una bella notizia da darti, tesoro», esordì. «Sei riuscita a liberarti?»
«Sì. Sono tutta tua, questo fine settimana.» «Fantastico!» disse Jeffrey. «Muoio dalla voglia di rivederti.» 88 C'era un silenzio assoluto, quella sera, quando i miei figli e io c'incamminammo verso il nostro specialissimo campeggio, pronti a una straordinaria avventura. «Passeremo dei guai, papà?» Mi voltai a guardare Max, il più piccolo. Aveva sei anni e stava cominciando a capire il concetto di responsabilità. Suo padre, invece, avrebbe dovuto riflettere un po' sulle proprie lacune in materia. Non nel caso specifico, però. «No, abbiamo il permesso di fermarci qui stanotte», spiegai. «Cosa credi, zuccone? Il papà non ci porterebbe, senza permesso. Vero, papà?» esclamò John Jr., che aveva nove anni e sapeva godere malignamente delle gioie di essere il fratello maggiore. «Zitto, J.J.», gli dissi. «Max ha fatto una domanda giusta, intelligente. Davvero, Max.» «Sì! Intelligente!» si rallegrò il piccolo. Sorrisi tra me e me e allungai il passo. «Forza, ragazzi. Siamo quasi arrivati.» Insieme avevamo fatto gite impegnative: li avevo portati sulla Bear Mountain, sulla Mohawk Trail e addirittura una settimana a Yellowstone. Quel giorno, però, avevo voglia di qualcosa di diverso, o forse dovevo placare il senso di colpa per via di Nora, fatto sta che avevo una sera a disposizione con i miei figli ed ero deciso a renderla memorabile. Mi fermai di colpo e mi voltai a guardarli. «Allora, ragazzi, che ne dite?» Max e John Jr. mi fissavano con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Per una volta, ero riuscito a lasciarli senza parole. Non ci sono molti campeggi nel Bronx, ma ero sicuro di aver trovato il migliore. «Benvenuti nello stadio degli Yankees, ragazzi.» Mollarono immediatamente gli zaini e corsero verso il campo. Era tardo pomeriggio e non c'era anima viva, a parte noi tre. Derek Jeter e compagnia erano in trasferta sulla West Coast e lo stadio che aveva visto i trionfi di Babe Ruth era a nostra disposizione. «Ricordati di chiudere a chiave prima di andartene», mi aveva detto il mio amico all'ingresso, ben contento
di fare un piacere a un agente dell'FBI. Aprii la sacca e tirai fuori tutto il necessario: mazze, guanti, berretti, maglie e una dozzina di palle da baseball. «Allora, chi batte per primo?» «Io, io, io!» «No! Io, io, io!» Fino a quando gli ultimi raggi di sole non scomparvero dietro il tabellone e gli spalti, i miei figli e io giocammo nello stadio degli Yankees di New York. «Davvero possiamo dormire qui?» mi chiese incredulo John Jr. «Certo, zuccone!» disse Max tutto contento di poter rendere pan per focaccia al fratello maggiore. «L'ha detto il papà!» «È vero», confermai. Andai a prendere la tenda. «Da che parte vogliamo guardare?» Con un dito indicai il campo esterno e con l'altro la casa base. «Vi propongo un compromesso: montiamo la tenda girata verso la terza base. È lì che giocava il mio Yankee preferito quando ero giovane.» «Sì, anche il mio!» gridò John Jr. «A-Rod!» Montammo la canadese, o, meglio, fui io a occuparmene mentre Max e John Jr. giocavano a rincorrersi nel campo interno, entusiasti. Era una gioia vederli. Forse stavo finalmente mettendo nel giusto ordine le mie priorità. 89 Si abbracciarono e baciarono come due adolescenti nell'atrio della casa nella Back Bay. Nora era appena arrivata. «Che bellezza!» disse Jeffrey tenendola stretta e accarezzandole i capelli. «Sei tutta mia per un intero fine settimana. Che lusso!» «Risparmiami il sarcasmo. Mi dispiace distrarti dal tuo romanzo, però. So che stai per finirlo», replicò lei. «Non è affatto così.» Nora lo guardò, confusa, e lui fece un gran sorriso. «L'hai già finito?» «Ieri. Sono stato al computer per tutta la notte. Ho riversato nel lavoro la frustrazione di non avere tue notizie.» «Visto?» disse lei dandogli una spintarella scherzosa. «Dovrei tenerti sulla corda più spesso.» «Strano che tu dica così.» «Come, scusa?» «'Tenere sulla corda.' Ho cambiato il finale: adesso il protagonista muore
impiccato.» «Davvero? Me lo fai leggere?» «Certo. Ma prima voglio farti vedere una cosa. Vieni.» «Sì, padrone. Ogni tuo desiderio è un ordine.» Jeffrey la prese per mano e la condusse al piano di sopra. Passarono davanti alla biblioteca e proseguirono verso la camera da letto. «Se stai per mostrarmi quello che penso, l'ho già visto», scherzò lei. Lui rise. «Non pensi ad altro?» A pochi passi dalla porta della camera, si fermò e si voltò. «Ora chiudi gli occhi», le bisbigliò. Nora ubbidì e si lasciò guidare nella stanza. «Okay, adesso puoi riaprire gli occhi.» Nora guardò e la sua reazione fu immediata. «Oh, mio Dio!» Osservò prima Jeffrey e poi il dipinto a olio sopra il caminetto. Si avvicinò lentamente alla tela. Era un suo ritratto. «Allora?» «È bellissimo», esclamò Nora. Poi si rese conto che, trattandosi di un ritratto, poteva sembrare un commento immodesto. «Voglio dire...» «Hai ragione, è stupendo.» La abbracciò da dietro e le posò il mento sopra la testa. «Come potrebbe non esserlo?» Nora continuava a fissare il quadro, con gli occhi lucidi. Allora Jeffrey l'amava veramente. Quel dono esprimeva i sentimenti che provava per lei. Jeffrey la abbracciò con calore. «Visto? Non volevo mostrarti un materasso, ma una tela.» Poi lanciò un'occhiata al letto a baldacchino alle loro spalle. «Comunque, già che siamo qui...» Nora si voltò a guardarlo in faccia. «Tu sì che sai che cosa fare per portare a letto una donna, eh?» Jeffrey sorrise. «Per te, farei qualsiasi cosa...» «Mi piace moltissimo, grazie.» «E a me piaci tu.» Si baciarono e si spogliarono, andando verso il letto. Jeffrey la sollevò senza sforzo, la stese sul piumone e la ammirò prima di sdraiarsi accanto a lei. Voleva semplicemente godere della vista della sua bellezza, e Nora lo lasciò fare. Se lo meritava. È così buono con me... Fecero l'amore, dapprima lentamente, poi con slancio, senza riserve, braccia e gambe intrecciate, finché non raggiunsero l'orgasmo. O, perlomeno, Jeffrey. Ma Nora recitò la sua parte alla perfezione, come Meg Ryan in Harry, ti presento Sally. Senza l'intento comico, però. Passò un minuto, durante il quale rimasero abbracciati in silenzio. Poi,
espirando profondamente, Jeffrey rotolò su un fianco. «Ho fame», annunciò. «E tu?» Nora appoggiò la testa sul cuscino. Non poteva fare a meno di vedere il proprio ritratto sulla parete e, per un attimo, si ritrovò a fissare i suoi stessi occhi e si chiese se esisteva una donna al mondo uguale a lei. «Sì», disse poi a bassa voce. «Sono affamata anch'io.» 90 Nora era in piedi davanti ai fornelli in acciaio inossidabile della cucina Viking, bella come un sogno, quando Jeffrey la raggiunse. «Avevi ragione. Una bella doccia ci voleva», le disse. «Visto? Ti avevo avvertito: Nora non sbaglia mai.» Da dietro le spalle, Jeffrey curiosò nella padella. «Sicura di non volere che faccia qualcosa?» «Sicurissima. Ho tutto sotto controllo.» Cercò la spatola. No, Jeffrey non poteva aiutarla in alcun modo: la decisione ormai era stata presa. Mentre lui si sedeva, girò per l'ultima volta l'omelette. Niente ripensamenti. Devo farlo. Stasera. «Ah, ho dimenticato di dirti che la giornalista di New York Magazine verrà il prossimo fine settimana. Abbiamo appuntamento sabato pomeriggio per scegliere le foto per l'articolo.» «Ne deduco che hai riflettuto sulla cosa e hai preso una decisione.» «Di dire a tutti quanto sono fortunato? Sì. Jeffrey Walker e Nora Sinclair sono felicemente sposati. Sono sempre più convinto che sia arrivato il momento di annunciarlo al mondo.» Nora soffocò una risatina. «Cosa c'è?» «Detto così, sembra che tu voglia svelare un segreto di Stato», disse lei. Si voltò di nuovo verso i fornelli e trasferì l'omelette dalla padella a un piatto. Per un minuto stette seduta di fronte a lui a guardarlo mangiare, apparentemente felice e contento. Perché non avrebbe dovuto esserlo, del resto? «Allora, raccontami del romanzo», gli disse dopo un po'. «Finisce con un'impiccagione?» Jeffrey annuì. «Ho descritto ghigliottine, duelli all'arma bianca e plotoni d'esecuzione, ma l'impiccagione mi mancava.» Si portò le mani al collo e boccheggiò per scherzo, scoppiando poi a ridere.
Lei fece del proprio meglio per sorridere a sua volta. «Sai, Nora, dovremmo parlare del...» «Cosa c'è?» Jeffrey spalancò gli occhi. Con voce un po' roca, rispose: «Niente». Poi si schiarì la gola. «Cosa stavo dicendo? Ah, sì, che dovremmo parlare del...» Ma si interruppe di nuovo. Nora lo osservò con attenzione. Il farmaco stava facendo effetto, ma forse la dose non era sufficiente. A quest'ora dovrebbe stare già peggio. C'è qualcosa che non va. «Che cosa stavo dicendo?» riprese Jeffrey, sforzandosi di parlare normalmente, Non appena ebbe pronunciato quella frase, cominciò a oscillare sulla sedia e a balbettare. «Dovremmo parlare del... parlare del... della luna di miele.» Si portò una mano allo stomaco in preda a una fitta, boccheggiando, e guardò Nora negli occhi, disperato. Lei si alzò e andò al lavandino a riempire un bicchiere d'acqua. Dandogli le spalle versò velocemente la polverina, una robusta dose di prostigmina. Quella che il suo primo marito Tom, cardiologo, chiamava «la botta finale». Sommata alla clorochina fosfato che aveva messo nell'omelette, avrebbe aggravato l'insufficienza respiratoria e, di conseguenza, quella cardiaca. Senza lasciare tracce, perché sarebbe stata assorbita completamente dall'organismo. «Ecco, bevi», disse porgendogli il bicchiere. Jeffrey tossì e, riuscendo a stento a mettere a fuoco il liquido effervescente, balbettò: «Che cos'è?» «Bevi», ripeté Nora. «Vedrai che ti passa tutto.» 91 Gli servivano delle risposte. Doveva trovare il nesso, l'ultima tessera che gli avrebbe permesso di dare un senso al puzzle. A quel punto O'Hara - il Turista - si sentiva personalmente coinvolto. Il file misterioso che aveva ricuperato davanti alla Grand Central Station. L'elenco di nomi, indirizzi, conti bancari, cifre. Il fattorino di una pizzeria che aveva cercato di farlo secco. Chi c'era dietro? Chi aveva venduto quel file? I suoi colleghi? Ma perché? Sapevano che aveva copiato i dati o avevano soltanto dei
sospetti e si volevano cautelare in caso lo avesse fatto veramente? Loro non si fidano di me, né io di loro. Ma che bello. Così va il mondo, al giorno d'oggi. Appena aveva un momento libero - come per esempio dopo la notte in tenda con i figli allo stadio degli Yankees - si concentrava su quell'elenco, cercando di capirci qualcosa. Purtroppo, però, non era molto bravo in quel genere di lavoro. Qualcosa aveva scoperto, comunque. Le persone elencate avevano depositato illegalmente denaro in conti offshore. Per un totale di un miliardo e quattrocento milioni di dollari. Aveva contattato diverse banche della lista, ma probabilmente non era quella la strada migliore da seguire. Aveva chiamato alcuni dei presunti intestatari, ma non si era rivelato un buon metodo. Non poteva certo aspettarsi che confessassero. Poi, la domenica sera tardi, si ritrovò a leggere la rubrica «Style» del New York Times alla ricerca di argomenti di cui poter parlare con Nora Sinclair. Ed eccoli lì! Eureka! Tombola! Tre, quattro, cinque, nove, undici dei nomi dell'elenco figuravano tra gli invitati di un party di VIP al Waldorf Astoria. Finalmente gli fu tutto chiaro: il ricatto, la truffa, la paura di essere scoperti, e persino il motivo per cui avevano chiamato lui per assicurarsi che andasse tutto liscio. E la ragione per cui adesso lo volevano morto, nell'eventualità che avesse scoperto qualcosa. Eventualità che, a questo punto, si era concretizzata. O'Hara sapeva molto di più di quel che avrebbe voluto su tutti e due i casi di cui si stava occupando. 92 Sbrigati, O'Hara. Datti una mossa. Susan voleva arrivare quanto prima a un arresto e questo significava che, con la scusa dell'«urgenza», probabilmente mi era concesso di trasgredire a qualche regola. O, perlomeno, questa era la mia interpretazione. Forse un tantino forzata.
A colloquio con Steven Keppler, non potei fare a meno di notare subito un paio di cosette. Prima di tutto, che il fiscalista di Nora aveva uno spaventoso riporto: la pelata era troppo estesa per il numero esiguo di capelli superstiti. In secondo luogo, che era molto inquieto. C'è da dire che la presenza di un agente dell'FBI rende nervosi tutti o quasi, anche se non ne hanno motivo. Senza tanti preamboli, tirai fuori dalla tasca della giacca una delle foto che avevo scattato con la fotocamera digitale a Westchester. «Riconosce questa donna?» chiesi mostrandogliela. Keppler si sporse a guardare e rispose pronto: «No, non mi pare». Allungai il braccio sulla scrivania perché la vedesse meglio. «Ecco, la guardi più da vicino, per favore.» Prese la foto e finse di studiarla, ma non era un grande attore: aggrottò la fronte, socchiuse gli occhi e infine si strinse nelle spalle scuotendo energicamente la testa. «No, non mi sembra di conoscerla», disse. «Bella donna, però.» Me la restituì e io, grattandomi il mento, dissi: «Mi sembra così strano...» «Perché?» «Com'è possibile che questa bella signora avesse il suo biglietto da visita, se non vi siete mai conosciuti?» Il fiscalista si agitò sulla sedia, a disagio. «Gliel'avrà dato qualcuno.» «Può darsi. Ma la signora mi ha detto di conoscerla.» Keppler si aggiustò la cravatta con una mano e il riporto con l'altra, sempre più sulle spine. «Me la faccia vedere di nuovo, per favore.» Gli porsi la foto e lo osservai, pronto ad assistere a un'altra goffa messinscena. Infatti, un attimo dopo esclamò: «Ma certo! Ora mi viene in mente...» Batté varie volte con il dito sulla foto. «Simpson... Singleton?» «Sinclair», suggerii. «Ma certo! Olivia Sinclair.» «Nora Sinclair, vorrà dire.» Keppler scosse la testa. «No, sono sicuro che si chiama Olivia.» Ma se fino a un attimo fa hai sostenuto di non sapere chi fosse! «È sua cliente?» chiesi. «Bella donna, ha ragione. Mi sembrava strano che non se ne ricordasse.» «Mi sono occupato di una o due cose per lei, è vero.» «Che genere di cose?» «Agente O'Hara, sa che non posso dirglielo.»
«Sì che può.» «No, e farebbe bene a non insistere.» «Dice? Io so solo che lei ha sostenuto di non conoscere una sua cliente, sulla quale io sto indagando. In altre parole, che ha mentito a un agente federale.» «Le ricordo che sono un avvocato.» «E io le faccio presente che posso tornare tra un'ora con un mandato di perquisizione e rivoltare il suo studio da cima a fondo.» Mi aspettavo che Keppler decidesse di limitare i danni e cedere, invece si rivelò un osso duro: partì al contrattacco. «Può darsi che le sue minacce con qualcuno attacchino, ma io sono abituato a difendere la privacy dei miei clienti», ribatté. «Se ne vada.» Mi alzai e, con un sospiro, dissi: «Ha ragione. Lei è vincolato dal segreto professionale e io ho esagerato. Le chiedo scusa». Mi infilai una mano in tasca. «Guardi, le lascio il mio biglietto da visita. Se dovesse cambiare idea, o se desidera la nostra protezione, chiami il mio ufficio.» Keppler si rabbuiò. «Perché dovrei chiedere la vostra protezione? Sta cercando di dirmi che questa donna è pericolosa? Per quale motivo Olivia Sinclair è indagata?» «Temo di non poterglielo dire, avvocato Keppler. Ma sono sicuro che, se le ha affidato i suoi interessi, conta sulla sua discrezione.» Il tono di Keppler salì di un'ottava. «Un momento... Dov'è Olivia Sinclair? Voglio dire, la state tenendo d'occhio, vero?» «Il punto è proprio questo», risposi. «La sorvegliavamo, ma abbiamo perso le sue tracce. Avvocato Keppler, non posso fornirle tutti i dettagli, ma voglio confidarle una cosa: stiamo indagando su alcuni omicidi.» La grinta del fiscalista svanì di colpo, e con essa la difesa a spada tratta del segreto professionale. Quando riuscì finalmente ad articolare parola, Keppler mi invitò a sedermi di nuovo. «Con piacere», dissi. 93 Il capitolo Jeffrey era chiuso. Il suo conto cifrato era stato praticamente svuotato senza che ci fosse l'ombra di un sospetto da parte delle autorità. La giornalista di New York Magazine non aveva ottenuto nessuna fotografia e l'intervista era stata archiviata. Tutto sommato, Nora avrebbe dovuto essere soddisfatta di com'erano andate le cose a Boston. Ma quando tornò
a Manhattan e mise piede nel suo loft a SoHo era tutt'altro che contenta. Non riusciva a togliersi dalla testa O'Hara. Prima di prendere il cellulare si fermò a riflettere un momento: non doveva lasciar trapelare assolutamente nulla di quello che sapeva. Compose il numero e premette il tasto CHIAMATA. «Pronto?» È lui. «Parlo con il mio amante telefonico?» disse Nora. Dall'altra parte si udì una risata. «Sei tu, mamma?» Nonostante tutto, anche Nora rise. «Maleducato!» «Veramente volevo essere spiritoso.» «Allora, signor Craig Reynolds, perché non mi hai chiamato da Chicago? Hai avuto troppo da fare?» «Scusami. Mi sono lasciato prendere dal seminario.» «Dev'essere stato davvero appassionante! Hai fatto una bella figura?» «Avresti dovuto vedermi.» Nora si trattenne dal ridere. Ti ho visto, eccome, John O'Hara. «Senti», continuò lui. «Ti prometto che mi farò perdonare.» «È il minimo. Che cosa fai stasera?» «La stessa cosa che ho fatto tutto il pomeriggio. Lavoro.» «Pensavo che con la trasferta avessi finito.» «Non ci crederai, ma devo scrivere una relazione sul seminario e non ho avuto un...» «Balle!» lo interruppe Nora. «Ti osservo, sai? Stai guardando la televisione. Una partita di baseball, se non sbaglio.» «Ma che cosa...?» Era praticamente senza parole. «Affacciati alla finestra, Craig. Vedi la Mercedes rossa? Con una bella ragazza al volante che ti saluta con la mano? Ciao ciao, Craig.» O'Hara si sporse e le domandò esterrefatto: «Da quanto tempo sei lì?» «Da quanto basta per sapere che menti. Baseball? Preferisci una partita a me?» «Stavo facendo una pausa tra una relazione e l'altra, tutto qui.» «Certo. Visto che è così, puoi uscire, no?» «Perché non sali tu, invece?» «Preferirei fare un giro in macchina.» «Dove?» «È una sorpresa. Spegni il televisore, bugiardo. E piantala di far finta di lavorare.» «A proposito...» intervenne lui.
«Cosa c'è?» «Mi turba il fatto che tu sia una mia cliente, Nora.» «Non ti sembra un po' tardi per gli scrupoli?» Siccome lui taceva, Nora insistette. «Su, Craig, tu vuoi stare con me e io voglio stare con te: lo sappiamo tutti e due. Più semplice di così...» «È quello su cui stavo riflettendo.» «Io invece stavo pensando a te. Non ho mai conosciuto nessuno che ti somigli», gli disse. «Ho la sensazione che a te potrei dire tutto.» Ci fu un attimo di silenzio, poi un sospiro. «Un giro in macchina, hai detto, eh?» 94 Non ero dell'umore più adatto per una gita in auto al chiaro di luna, ma eccomi qua, Tête-à-tête con Nora Sinclair. La capote della Mercedes era abbassata e l'aria della notte era fresca, tonificante. Guardavo l'asfalto sfrecciarmi accanto a grande velocità mentre Nora guidava come se le strade semideserte di Westchester fossero la sua autobahn personale. Perché sono qui? Peccato che non sapessi dare una risposta a quell'interrogativo. Le informazioni che Steven Keppler, il fiscalista con il riporto, mi aveva generosamente messo a disposizione erano state comunicate a Susan e quindi agli informatici del Bureau, i quali si accingevano a entrare nel conto off-shore di Nora e a controllarne tutti i movimenti, dal primo all'ultimo. Non sapevamo quanti potessero essere, ma i nostri hacker avevano istruzioni di prestare la massima attenzione a tutto ciò che aveva a che fare con un certo Connor Brown. Prima e dopo la sua morte. Avremmo avuto i risultati in ventiquattr'ore, mi aveva promesso Susan, al massimo in trentasei. Nel frattempo io dovevo fare una cosa sola: stare alla larga da Nora. E invece ero lì, seduto al suo fianco, e la trovavo più bella, più affascinante, più irresistibile che mai. Che cosa stavo facendo? Volevo negare l'evidenza? Ero momentaneamente impazzito? Speravo che gli hacker non trovassero nulla, che lei fosse innocente? O volevo che la facesse franca pur essendo un'assassina? Mi voltai verso di lei. «Scusa, come hai detto?»
Stava parlando, ma non riuscivo a sentire per via del rombo del motore della Mercedes e della confusione che avevo in testa. «Ho detto: non sei contento di essere venuto?» ripeté. «Ancora non lo so», risposi a voce altissima. «Te lo dirò quando avrò visto dove mi stai portando.» «Ti avevo avvertito, è una sorpresa.» «Non mi piacciono le sorprese.» «Non è vero», ribatté. «È solo che sei a disagio se non hai tu il controllo della situazione. Buono a sapersi.» Non ebbi il tempo di rispondere. Nora affrontò una curva senza accennare a frenare. I pneumatici stridettero sull'asfalto e l'auto si inclinò come se avesse tutte le intenzioni di rovesciarsi. Lei piegò la testa all'indietro e rise al vento. «Non ti senti vivo?» gridò. 95 Ci volle un semaforo rosso perché si decidesse finalmente a rallentare. Dopo circa mezz'ora d'automobile, ci trovavamo al centro di Putnam Lake, un paesino dotato di un unico incrocio. La Mercedes era l'unica macchina ferma al semaforo. Mancavano pochi minuti alle nove. Ricordo tutti i particolari. «Siamo arrivati?» domandai. «Quasi. Ti piacerà, Craig, vedrai. Rilassati.» Guardai alla mia destra mentre lei armeggiava con l'autoradio. A una stazione di servizio Mobil c'era un uomo anziano con un cappellino della University of Connecticut che faceva il pieno alla sua jeep Cherokee. Per un attimo i nostri sguardi s'incrociarono e mi ricordò mio padre. Non sempre le cose sono come sembrano. Scattò il verde e Nora ripartì sgommando. «Hai fretta?» «Be', sì. Non vedevo l'ora. Mi sei mancato.» Proseguimmo per qualche chilometro senza dire nulla, con la radio a tutto volume che faceva a gara con gli otto cilindri del motore. La musica si sentiva appena, ma dopo un po' riconobbi la canzone: Hotel California. Per come guidava Nora, sarebbe stata più adatta Life in the Fast Lane. Imboccammo un'altra curva. Non vidi cartelli e la strada era stretta e buia. Guardai il cielo: la luna era nascosta dagli alberi. Eravamo in mezzo a un bosco.
«Escludo che tu mi stia portando a Disneyland», dissi. Rise. «Ci andremo la prossima volta.» «Tu almeno sai dove siamo diretti?» «Non ti fidi di me, forse?» «Chiedevo soltanto.» «Già.» Dopo un po' aggiunse: «A proposito, avevo proprio ragione». «Riguardo a cosa?» «Al fatto che sei a disagio se non hai il controllo della situazione.» Poco dopo l'asfalto finì, ma noi continuammo ad andare. Lo sterrato, pieno di pietre, era sempre più stretto. Come fuoristrada, la Mercedes non era un granché e mentre procedevamo tra mille scossoni guardai Nora senza dire niente. «Ormai manca poco», annunciò, sempre con lo stesso sorriso in faccia. Ed effettivamente poche centinaia di metri più avanti giungemmo in una radura: si scorgeva un'ombra in lontananza. Cercai di capire che cosa fosse e intravidi una piccola casa su un lago. Nora si fermò davanti alla porta e tirò il freno a mano. «Non la trovi molto romantica?» «Di chi è?» «Mia.» Guardai meglio: gli occhi si erano abituati all'oscurità, e grazie ai fari dell'auto riuscii a distinguere un cottage di tronchi di legno, rustico ma ben tenuto. Non era il genere di casa che mi aspettavo da Nora. «Sorpresa!» esclamò lei. «Bella, vero? Non ti piace la mia casetta sul lago?» «Certo.» Spense il motore e scendemmo dalla macchina. Era veramente un posto delizioso, quasi perfetto. Ma per che cosa? «Ho scordato lo spazzolino da denti», dissi. «Non preoccuparti. Ho pensato io a tutto. Anche per te, Craig.» Premette il telecomando e il bagagliaio si aprì all'istante. Era pieno all'inverosimile. «Ti sei attrezzata», commentai guardando una sacca da viaggio e un piccolo frigorifero portatile. Sì, ma per cosa? «Ho portato tutto il necessario per una bella cenetta a lume di candela. Più vari accessori, compreso uno spazzolino da denti per te. Allora, che cosa aspetti?» Rinforzi, avrei voluto risponderle.
Presi la sacca e il frigo portatile e salimmo alcuni gradini di legno. Una volta entrato, scossi la testa e sorrisi. Vista da fuori, sembrava la modesta casa natale di Abraham Lincoln, ma all'interno era degna di Architectural Digest. Avrei dovuto immaginarlo. «Era di un mio ex cliente», spiegò Nora mentre tiravamo fuori le vivande. «Sapevo che gli piaceva come l'avevo arredata, ma sono rimasta di stucco quando me l'ha lasciata.» Mi venne vicino e mi abbracciò. Come sempre, era morbida e profumata. «Basta parlare del passato, però. Concentriamoci sul futuro. Che cosa facciamo per prima cosa? L'amore o la cena?» «Domanda difficile», risposi con la faccia compunta. In realtà non avrebbe dovuto essere una scelta troppo ardua, lo sapevamo tutti e due. Quel che Nora non aveva capito, però, era che avevo detto sul serio: prima o poi la nostra storia doveva finire. Non puoi andare avanti così, O'Hara. Devi smetterla! Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto visto che la stavo stringendo tra le braccia. La tentazione era troppo forte. «Penserai che io sia pazzo, ma è da stamattina che non mangio», dissi. «Lo credo davvero, ma facciamo come vuoi. C'è solo un piccolo problema.» «Quale?» Si voltò e guardò la stufa economica. Era a legna, e non c'era la materia prima. «Fuori, dietro la casa. C'è una baracca a una cinquantina di metri. Ti dispiace andarci tu?» Presi una torcia dall'appendiabiti vicino alla porta e uscii. Era molto buio e, per quanto non sia un tipo che si spaventa facilmente, quando sentii un fruscio nei cespugli lungo il sentiero non pensai che fosse Bambi. Dove diavolo è questa capanna? Ho fatto bene ad avventurarmi qua fuori? Finalmente la trovai, mi caricai le braccia di legna sufficiente per tutta la sera e tornai verso la casa. Come ho detto, l'atmosfera era un po' sinistra. Forse per via dell'uomo che avevo visto alla stazione di servizio, mi tornò in mente mio padre. Non sempre le cose sono come sembrano. 96 Rientrai in casa con la legna e accesi la stufa, poi chiesi a Nora cos'altro potevo fare per aiutarla.
«Assolutamente nulla», rispose dandomi un bacio su una guancia. «Mi occupo di tutto io.» La lasciai in cucina e mi accomodai sul divano del soggiorno a leggere l'unica cosa che trovai, una rivista di caccia e pesca di quattro anni prima. A metà di un noiosissimo articolo sulla pesca al salmone alla Sheen Falls Lodge in Irlanda, Nora gridò: «La cena è servita!» Tornai in cucina e mi sedetti davanti a un piatto di conchiglie di san Giacomo gratinate con contorno di riso selvatico, insalata di lattuga romana e radicchio e una bottiglia di pinot grigio. Era un menu degno di Gourmet Magazine. Nora alzò il bicchiere e propose un brindisi. «A una notte memorabile.» «A una notte memorabile», ripetei. Facemmo tintinnare i calici e cominciammo a mangiare. Mi chiese che cosa avevo letto mentre lei cucinava e le raccontai dell'articolo sulla pesca al salmone. «Ti piace pescare?» si informò. «Da matti.» Era una piccola bugia, sulla quale mi sorpresi un attimo dopo a ricamare. Evidentemente la mia storia con Nora era fatta così. «Quando ne becchi uno grosso, la soddisfazione ti compensa di tutti gli sforzi.» «Dove vai di solito?» «Mah, in questa zona ci sono diversi laghi e fiumi niente male. A volte si pesca bene, da queste parti. Niente in confronto alle isole, però: la Giamaica, St Thomas, le Cayman. Ci sei stata, immagino.» «Sì. Anzi, alle Cayman sono andata di recente.» «In vacanza?» «Per lavoro.» «Davvero?» «Ho arredato la casa al mare di un finanziere. Un posto bellissimo, sulla spiaggia.» «Interessante», dissi approvando con la testa e mettendomi in bocca un'altra forchettata. «A proposito, è squisito.» «Mi fa piacere.» Mi posò una mano sul braccio. «Allora, sei contento di essere qui con me?» «Certo.» «Bene. Sai, ero un po' preoccupata. Quando prima hai detto che in fondo sono una cliente...» «Mi riferivo alle circostanze in cui ci siamo conosciuti», spiegai. «Voglio dire, se non fosse per la morte di Connor, non saremmo qui.»
«È vero, non posso negarlo. Ma...» Lasciò la frase in sospeso. «Cosa stavi per dire?» «Probabilmente farei meglio a tacere.» «Non aver paura.» Mi guardai intorno e sorrisi. «Non ti sente nessuno.» Reagì con un mezzo sorriso. «Non vorrei sembrarti cinica, ma facendo il mio lavoro ho imparato che si può perdere la testa per più di una casa. Non pensi che possa succedere anche con le persone?» La guardai dritto negli occhi. Dove voleva andare a parare? Che cosa stava cercando di dirmi? «Devo prenderla come una dichiarazione d'amore?» Mi rispose guardandomi negli occhi. «Forse. Credo di essermi innamorata di te. È sbagliato?» La ascoltai e deglutii. Le emozioni di quella serata mi stavano chiudendo lo stomaco. Peggio, mi veniva da vomitare. Che fosse una reazione a quel che Nora mi aveva appena detto? Controllati, O'Hara. Anche l'ultima volta che mi aveva preparato da mangiare mi ero sentito male. Non poteva essere colpa di una conchiglia di san Giacomo andata a male... Restai zitto e sperai che mi passasse. Ma non accadde. Un attimo dopo, non avrei potuto parlare neanche volendo. Non riuscivo più a respirare. 97 Nora rimase seduta a guardare O'Hara che cadeva dalla sedia e batteva la testa sul pavimento, procurandosi un taglio sopra l'occhio destro che cominciò subito a sanguinare copiosamente. Era una brutta ferita, ma lui pareva non essersene neppure accorto. Evidentemente era molto più preoccupato di quel che gli stava succedendo dentro. Facevano tutti così. Eppure, rispetto agli altri - tra cui Jeffrey, Connor e il suo primo marito, Tom Hollis - O'Hara si stava rivelando il più difficile. L'attrazione che aveva provato per il sedicente Craig Reynolds era autentica, il feeling c'era sempre stato. Era spiritoso, affascinante, bello. Aveva un'intelligenza molto simile alla sua. Era il migliore, sotto tutti i punti di vista, e sapeva che le
sarebbe mancato: era quasi dispiaciuta. Ma è inevitabile. O'Hara si contorceva e soffocava nel suo stesso vomito. Provò a rialzarsi, ma non si reggeva in piedi. La prima delle due sostanze non l'avrebbe ucciso, aveva il compito di preparare il terreno. Nora temeva però di avergliene somministrata una dose eccessiva. Doveva dire qualcosa, fingersi preoccupata, recitare la parte della spettatrice innocente che non capiva che cosa stava succedendo. Bisognava che lui la credesse veramente in preda al panico. «Ti vado a prendere qualcosa. Lascia che ti aiuti.» Andò al rubinetto e riempì d'acqua un bicchiere, quindi versò la polverina da una fialetta che aveva in tasca e il liquido divenne frizzante, come champagne. Si voltò e... lui era scomparso. Dov'è andato? Non poteva essersi allontanato molto. Fece due passi e sentì sbattere la porta in fondo al corridoio e una chiave girare nella serratura. Era riuscito a chiudersi nel bagno. Nora corse con il bicchiere in mano. «Tutto bene, tesoro?» chiamò. «Craig?» Lo sentì vomitare, poveraccio. Il suono era spaventoso, ma dal suo punto di vista era un buon segno. Era pronto per la dose di bollicine. Bisognava solo che le aprisse la porta. Bussò delicatamente. «Caro, ti ho portato una cosa che ti farà stare meglio. So che non ci credi, ma ti giuro che ti farà passare tutto.» Siccome lui non rispondeva, chiamò di nuovo. Vedendo che continuava a tacere, bussò con forza. «Ti prego, fidati di me.» Dopo un po', tra un conato e l'altro, lui gridò: «Sicuro!» «Dico sul serio, Craig. Lascia che ti aiuti», insistette lei. «Se bevi questo, vedrai che ti passerà tutto.» «Col cazzo!» Nora era furibonda. Vuoi il gioco duro, eh? Lo avrai. «Sei sicuro?» chiese. «Davvero non vuoi aprire la porta... O'Hara?» Nel silenzio che seguì, tese l'orecchio e cercò di immaginare la sua sorpresa. Quanto le sarebbe piaciuto vedere la sua faccia in quel momento! Continuò a provocarlo. «È così che ti chiami, vero? John O'Hara?» Il silenzio finì. «Sì», gridò lui con rabbia. «E sono un agente dell'FBI.» Nora sgranò gli occhi nel vedere confermati i propri sospetti ma, paradossalmente, scoppiò a ridere. «Davvero? Ma bravo! Lo dicevo che eri ta-
gliato per qualcosa di maggior responsabilità delle assicurazioni. Secondo me...» John O'Hara la interruppe, con voce più forte. «È finita, Nora. So troppe cose, e le racconterò. Hai ucciso Connor per i soldi, come il tuo primo marito.» «Bugiardo!» gridò lei. «Sei tu la bugiarda, Nora. O ti chiami Olivia? In ogni caso, puoi dire addio ai soldi che hai imboscato alle Cayman. Non preoccuparti, comunque, nel posto dove sei diretta vitto e alloggio sono gratis.» «Io non vado da nessuna parte, stronzo! Sarai tu ad andartene!» «Vedremo. Ora, se non ti dispiace, devo fare una telefonata.» Nora udì tre toni acuti provenienti dal bagno: O'Hara stava chiamando il 911. Di nuovo le venne da ridere. «Imbecille! Siamo in mezzo alla campagna più sperduta. Non c'è segnale qui!» Questa volta toccò a lui ridere. «Lo credi tu, tesoro.» 98 Ero steso sul pavimento del bagno, coperto di sangue, di vomito e di vari altri liquidi corporei che non avrebbero dovuto essere lì, ma tutto a un tratto mi sentivo felice come un maiale che si rotola nel letame. Non importava se mi faceva ancora male dappertutto, dentro e fuori. Sono vivo. E stavo parlando al telefono. «Novecentoundici, servizio emergenze...» Il satellite aveva trasmesso la mia chiamata. I soccorsi sarebbero arrivati entro breve. Dovevo solo spiegare dov'ero. Dissi all'operatrice: «Sono l'agente John O'Hara dell'FBI e mi...» ... Mi stanno sparando! Udii la detonazione e vidi la porta di legno che andava a pezzi. Una pallottola mi sfiorò un orecchio e andò a conficcarsi nella parete piastrellata alle mie spalle. Fu un attimo, ma mi parve che la scena si svolgesse al rallentatore. Finché non arrivò il secondo colpo e l'unica cosa che sentii fu un dolore spaventoso. La prima volta mi era andata bene, adesso no. Mi aveva colpito a una spalla. Abbassai lo sguardo e vidi un buco nella camicia, che si stava colorando di rosso. Cazzo, mi ha beccato.
Mi cadde il telefono di mano e per una frazione di secondo rimasi come paralizzato. Se non mi fossi ripreso subito, sarei morto. Ma l'istinto prevalse e io rotolai sul fianco, allontanandomi dalla porta e uscendo dalla traiettoria di Nora. Il terzo colpo trapassò il battente e mandò in frantumi la piastrella davanti a cui un secondo prima mi trovavo io. Se non mi fossi spostato, mi avrebbe centrato in pieno petto. «Che ne dici, O'Hara?» gridò Nora. «Ecco la mia assicurazione sulla vita!» Non risposi. Parlare era come invitarla a sparare di nuovo. Aspettai che dicesse qualcosa lei, ma taceva. L'unico rumore era la voce metallica e attutita dell'operatrice del 911 che proveniva dal cellulare abbandonato per terra, vicino alla porta. Diceva qualcosa tipo: «Signore? È ancora in linea? Che cosa sta succedendo?» Non capivo bene, ma non mi importava. L'unica cosa che contava in quel momento era che io non mi trovavo vicino al telefono. Lentamente piegai il ginocchio sinistro e sollevai i pantaloni. Non avevo portato con me lo spazzolino da denti, ma qualche precauzione l'avevo presa. Aprii la fondina ed estrassi la mia Beretta calibro 9. Se Nora avesse sfondato la porta, le avrei dato un caloroso benvenuto. Strinsi la pistola con entrambe le mani e rimasi ad aspettare. Dove sei, Nora, amore mio? 99 Nella casetta nel bosco tutto taceva, compreso il mio telefono. Il 911 aveva il mio nome e, anche se non ero riuscito a dare le mie coordinate, i satelliti avrebbero provveduto a localizzarmi. Sempre che l'operatrice avesse fatto il suo dovere, e cioè chiamare il suo superiore perché avvertisse il Bureau, che avrebbe dovuto rilevare le mie coordinate dagli impulsi del cellulare con GPS e mandare sul posto la squadra di pronto intervento più vicina. Semplicissimo. Io non dovevo fare altro che sopravvivere fino all'arrivo dei soccorsi. Ma allora, perché non sparare a Nora? Conoscevo la risposta, ma non sapevo che cosa farmene. Cercai di alzarmi in piedi senza fare rumore. Il dolore lancinante alla spalla non mi rese facile il compito, ma riuscii ad avvicinarmi in punta di
piedi alla porta e ad appoggiarmi contro il muro. Impugnando la pistola in una mano, con l'altra girai lentamente la chiave nella toppa. Presi fiato e sbattei gli occhi un paio di volte. Volevo scoprire se Nora era ancora lì dietro. Il mio unico vantaggio era che l'uscio si apriva verso il corridoio. Tre. Due. Uno. Diedi un calcio alla porta con tutta la forza che mi restava. Si spalancò e io mi precipitai nel corridoio, strisciando più basso che potei, con l'arma spianata. La puntai a destra e a sinistra, ma non vidi alcun movimento. Presi di mira una lampada, poi per un pelo non sparai al mio riflesso in uno specchio del corridoio. Di Nora non c'era traccia. Procedendo di fianco, con le spalle al muro, mi diressi verso la cucina. «Non sei l'unica ad avere una pistola», gridai. «Non voglio ucciderti.» Silenzio. Arrivai alla porta del soggiorno e sbirciai velocemente dentro. Nessun movimento. Nora non c'era. La cucina era a pochi metri di distanza. Sentii uno scricchiolio, dei passi: doveva essere lì che mi aspettava. Aprii la bocca per parlare, ma non dissi niente. Tutt'a un tratto ebbi un giramento di testa e mi appoggiai al muro per non cadere a terra, ma le ginocchia mi tremavano. Udii altri scricchiolii. Nora si stava avvicinando? Alzai il braccio e puntai la pistola. La canna tremava. Un rumore, più forte, questa volta. Cristo, O'Hara! Di colpo ebbi un'illuminazione: quel suono, in realtà, era un crepitio. Ma fu la puzza a farmi fare due più due: qualcosa stava bruciando. Avanzai con cautela fino alla porta della cucina e mi arrischiai a guardare dentro. Vidi la pentola e un sacco di fumo: il riso avanzato era rimasto sul fornello acceso e bruciava. Tirai un sospiro di sollievo. Subito dopo feci un salto nel sentire sbattere una porta. Il rumore proveniva da fuori. La portiera della macchina? Che Nora se ne stesse andando? Quando uscii, barcollando, la Mercedes era già in moto. Mancai il primo scalino davanti alla porta della casetta e caddi in avanti, atterrando su un fianco. Il dolore mi lasciò senza fiato.
Quando mi rialzai, Nora stava innestando la marcia. Si guardò alle spalle e per un attimo i nostri sguardi si incontrarono. «Nora, fermati!» «Sicuro. Per amor tuo, O'Hara?» Alzai il braccio e, benché tremasse, mirai verso l'auto, o meglio quel poco che riuscivo a vedere alla luce della luna. «Nora!» gridai di nuovo. Era al margine della radura e stava per imboccare la strada sterrata. Feci fuoco una volta, quindi un'altra e un'altra ancora, affidandomi alla fortuna. Poi vidi tutto nero. 100 L'odore del riso bruciato in cucina era profumo rispetto ai sali ammoniacali. Quando alzai la testa e aprii gli occhi, ero steso per terra e avevo vicino due poliziotti che mi guardavano dall'alto. Il più anziano mi stava fasciando la spalla mentre il giovane, che avrà avuto a dir tanto ventidue anni, mi guardava incredulo. Non occorreva avere doti telepatiche per sapere che cosa stava pensando. Cosa caspita ti è successo, amico? Ma ero io ad avere delle domande da fare. «L'avete presa?» chiesi con voce impastata. «No», rispose il più anziano. «Non abbiamo idea di chi cercare. Conosciamo il suo nome, nient'altro. Non sappiamo neppure che macchina ha.» Lentamente descrissi loro Nora e la sua Mercedes rossa decappottabile e diedi l'indirizzo di Briarcliff Manor, benché ritenessi altamente improbabile che si azzardasse a tornare a casa di Connor Brown. Il poliziotto giovane riferì le informazioni alla centrale via radio e chiese notizie dell'ambulanza per me. «Dovrebbero essere già qui», mi disse poi. «Non sono mai stato considerato una priorità», ribattei io scherzando. Nel frattempo il suo collega finì di stringermi un laccio improvvisato intorno alla spalla. «Ecco, questo dovrebbe reggere finché non arrivano i soccorsi.» Ringraziai prima uno e poi l'altro e notai che si assomigliavano molto. Mi informai e scoprii che erano padre e figlio. Gli agenti Will e Mitch Cravens erano un simbolo della provincia americana. Feci per alzarmi.
«Piano, piano», li sentii esclamare all'unisono. Mi raccomandarono di starmene lì tranquillo e non pensare a niente. «Ho bisogno del telefono.» «Dov'è?» chiese Mitch Cravens. «Vado a prenderlo io.» «Dev'essere nel bagno. E, già che ci sei, spegni la stufa», risposi. Mitch fece un cenno al padre. «Torno subito.» Mentre si allontanava, mi ricordai che Nora aveva detto che quella casa era sua e che gliel'aveva lasciata un ex cliente. «Ehi, Will, forse la conosci», dissi. «Quella che mi ha sparato è la proprietaria. Ha ereditato la casa da un suo cliente che è morto.» «È questo che ti ha raccontato?» Dal tono, capii che Nora mi aveva mentito. «E come si sarebbe chiamato questo presunto cliente?» «Non me l'ha detto. Però aveva le chiavi...» Will scosse la testa. «Questa casa è di un certo Dave Hale. Può anche darsi che sia stato suo cliente, ma ti assicuro che è vivo e vegeto.» «È ricco, per caso?» Il poliziotto si strinse nelle spalle. «Credo di sì. L'ho visto solo un paio di volte. Abita a Manhattan. Perché? Pensi che sia in pericolo?» «Fino a stanotte probabilmente sì, ma adesso non più.» Mitch tornò con il mio cellulare in mano. «Trovato.» Lo presi e lo aprii per chiamare Susan. Prima che finissi di comporre il numero, squillò. Mi aveva battuto sul tempo. «Pronto?» «Ti sei portato a letto la donna sbagliata, O'Hara. Hai combinato un casino.» Mi ero sbagliato: non era Susan. Il tono era calmissimo, fin troppo, e per la prima volta ebbi paura di Nora Sinclair. «Verrò a cercarti a casa, O'Hara. Quella vera», disse. «Riverside, giusto?» E riattaccò. Clic. Il telefono mi cadde di mano. Mi rialzai, con le gambe che tremavano. I due poliziotti si affrettarono a sorreggermi. «Cosa c'è?» chiese Mitch. «La mia famiglia», balbettai. «Se la prenderà con la mia famiglia.» 101
Compresero al volo. Qualsiasi poliziotto avrebbe capito, ma Will e Mitch Cravens si mostrarono ancor più perspicaci, forse perché erano padre e figlio. Star lì ad aspettare l'ambulanza era impensabile. Preferivo morire dissanguato piuttosto che rimanere anche solo un altro minuto in mezzo a quel bosco. Mi sistemai alla meglio sul sedile posteriore della loro macchina e Mitch, con i riflessi pronti dei giovani, partì a sirene spiegate mentre Will avvertiva via radio la polizia di Riverside di mandare subito qualcuno a casa mia. Nel frattempo io chiamai con il cellulare. «Per favore, rispondete», mormorai mentre il telefono squillava. Ma continuò a suonare a vuoto. «Merda! Non rispondono!» Finalmente scattò la segreteria telefonica e lasciai un messaggio angosciato alla mia ex moglie, dicendole di andare da un vicino e aspettare l'arrivo della polizia. Immaginavo già scene orribili, raccapriccianti. Nora era a casa mia? Come faceva a sapere dove vivevano i miei figli? Will finì di parlare alla radio e si voltò per informarmi che la polizia di Riverside sarebbe stata sul posto a minuti, poi indicò con un cenno il cellulare e mi chiese: «Non sei riuscito a parlargli?» «No.» «Non hanno il cellulare?» «Sto per provare.» Feci il numero memorizzato in rubrica, ma automaticamente scattò la segreteria. Lasciai un messaggio analogo al precedente, con lo stesso preambolo sinistro. Sembrava un film. Sono John. Se sei in casa con i bambini, uscite subito! Se siete fuori, non rientrate. Appoggiai la testa all'indietro e lanciai un urlo di frustrazione. Non avevo abbastanza adrenalina in corpo e la testa aveva ripreso a girarmi. Cercai di calmarmi e di non pensare al peggio, ma non ci riuscivo. «Più veloce!» Andavamo già a centotrenta all'ora. Avevamo attraversato il confine del Connecticut e filavamo dritti in direzione sud, verso Riverside. Mi sentivo completamente impotente quando, all'improvviso, ebbi un'idea. Telefona a Nora. Forse era quello che voleva. Magari con la sua minaccia intendeva solo spaventarmi e indurmi a continuare il gioco. Lo speravo. Immaginai di
chiamarla e di sentire la sua risata maligna: non era vero che stava andando a Riverside, era a chilometri di distanza. Pregando che fosse così, composi il suo numero. Dieci squilli. Niente segreteria. Niente Nora. In quel momento l'operatore radio della polizia si fece vivo e ci mise in comunicazione con l'agente di Riverside che si trovava davanti a casa mia. Le porte erano chiuse a chiave, c'erano alcune luci accese, ma sembrava che all'interno non ci fosse nessuno. Guardai l'orologio. Erano le 21.10. I bambini di solito andavano a letto alle nove: non potevano non essere in casa! Will chiese alla radio: «Segni di effrazione?» «Negativo», rispose l'agente. «Avete chiesto ai vicini?» disse Mitch, rallentando prima di una curva molto stretta. «Potrebbero essere dai Picotte, che abitano di fronte», suggerii. «Mike e Margi Picotte. Sono nostri amici.» «Okay, andiamo a controllare», disse l'agente. «Tra quanto arriverete?» «Tra dieci minuti», rispose Will. «Agente O'Hara, mi sente?» chiese l'uomo. «Eccomi.» «Vorrei smontare la serratura di una delle porte di casa. Mi autorizza? Per assicurarmi che non ci sia veramente nessuno.» «Certo», dissi. «Sfondi la porta, se necessario.» «Roger.» La comunicazione si interruppe. Fuori della macchina la sirena ululava nella notte e dentro nessuno parlava: né i poliziotti di provincia Will e Mitch Cravens né io. Incrociai lo sguardo di Mitch nello specchietto retrovisore. «Lo so, lo so», mi disse. «Più in fretta.» 102 Mitch accelerò e invece di dieci minuti ne impiegammo solo cinque. Ci fermammo davanti a casa mia con una frenata di una quindicina di metri. La via era piena di auto della polizia con i lampeggianti accesi che tingevano di rosso e di blu il cielo notturno. I vicini erano usciti a guardare in-
curiositi che cosa stava succedendo dagli O'Hara. Per il momento, nulla. Entrai in casa di corsa e trovai quattro poliziotti che parlavano nell'atrio. Avevano appena finito di perlustrare dappertutto, stanza per stanza. «Niente di niente», mi disse uno. Andai in cucina. C'erano alcuni piatti nel lavello, un rotolo di pellicola per alimenti sul tavolo. Hanno cenato qui. Controllai il telefono accanto al frigorifero: la spia dei messaggi lampeggiava, ma ce n'era uno solo, il mio. Tutti i poliziotti, compresi Will e Mitch, si erano riuniti nel soggiorno. Li raggiunsi e dissi: «Dobbiamo decidere come muoverci. Io non so che cosa suggerire, non sono molto in forma». Un agente basso e scuro di capelli, che si chiamava Nicolò e aveva l'aria molto autorevole e organizzata, mi informò che era già stato diramato un comunicato per segnalare la Mercedes rossa di Nora in tutto il territorio di New York, New Jersey e Connecticut. Era stata allertata anche la polizia aeroportuale. Mi propose di usare la casa come «centrale operativa» e a me venne in mente una cosa. Mercedes rossa... auto... garage... Non avevo guardato se il furgoncino era al suo posto. Avevo fatto due soli passi verso la porta quando sentii un sospiro di sollievo collettivo alle mie spalle. Mi voltai. Sulla porta della cucina c'erano Max e John Jr. con la loro madre e un cono della gelateria Baskin Robbins in mano. Nel vedere la polizia erano rimasti a bocca aperta, ma quando scorsero me, e si resero conto dello stato in cui ero, la spalancarono ancora di più. Corsi ad abbracciarli. Ero così commosso che non sentii neppure lo squillo del telefono. Mitch Cravens invece lo udì e fece per andare a rispondere, ma suo padre lo fermò. Ci fece segno di tacere e alzò il ricevitore. «Bene, ho un pubblico», disse la voce inconfondibile di Nora. Tutti si guardarono intorno stupiti. In effetti Nora aveva un pubblico, e molto attento. Soprattutto nel mio caso. Ma non era con me che voleva parlare, questa volta. «So che è in casa, signora O'Hara», continuò Nora con la stessa voce calma. «Volevo solo dirle una cosa. Mi sono scopata suo marito. Buona serata.» E riattaccò. Nella stanza piombò un silenzio assoluto. Guardai negli occhi la donna
da cui mi ero separato due anni prima. Vidi che scuoteva la testa. «E ti stupisci che io abbia voluto il divorzio?» PARTE QUINTA LA FUGA 103 C'eravamo arrivati. Era molto semplice. Era la fine. «Non ti avevo riconosciuto, senza il tuo fidato zainetto, Fitzgerald», disse il Turista. «Sempre spiritoso, O'Hara. Non ti ho ancora ringraziato per avermi salvato la pellaccia alla Grand Central Station. Magari ce l'avrei fatta anche senza di te, ma forse no.» Il Turista aveva incontrato la Ragazza con lo Zainetto al self-service dell'aeroporto La Guardia. Il ricattatore, quello che aveva venduto le informazioni sui conti alle Cayman, stava per arrivare. Sempre che non andasse storto qualcosa. «È una follia, ti pare? Pensi che si farà vivo?» gli domandò. O'Hara bevve un sorso della maxi Coca-Cola che si era comprato da McDonald's. «Se vuole i soldi, verrà. E immagino che sia così. Insomma, ha due milioni di motivi per non mancare.» La Fitzgerald aggrottò la fronte e scosse la testa. «Okay. Supponiamo che arrivi. Come facciamo a sapere che rinuncerà a quello che ha? Possiede una copia di tutto. Perché non dovrebbe cercare di ammazzarci?» «Come abbiamo fatto noi con lui davanti alla Grand Central Station, intendi? O, meglio, con il suo rappresentante.» «II cattivo è lui, ricordatelo.» «Sì, certo. Me lo ripeto spesso: il cattivo è lui, il cattivo è lui...» In quel momento, O'Hara sentì una voce nell'auricolare. «Sta arrivando. L'abbiamo individuato. Questa volta è venuto di persona». La Fitzgerald non lo sapeva ancora. «Perché dovrebbe presentarsi qui? Non sospetta la trappola?» O'Hara le si avvicinò. «Chiedilo direttamente a lui. Sono certo che ti saprà rispondere meglio di me.» Un uomo sulla trentina in abito blu, occhiali da sole Aviator e valigetta si andò a sedere al loro tavolo. Senza preamboli, domandò: «Avete i miei soldi, stavolta?»
O'Hara fece di no con la testa. «Niente da fare. No, fermo dove sei. Il self-service è circondato. Ti hanno già fotografato per USA Today e Time. E per il Sing Sing News, naturalmente.» «Sbagli, caro mio. Sei fottuto», replicò l'uomo. E fece per alzarsi. O'Hara lo trattenne. «Non credo proprio. Ascolta, voglio proporti un patto. Tu non intaschi un centesimo per il file che hai rubato e cercato di rivenderci, ma non vai nemmeno nelle grane. Come se non fosse successo niente. Naturalmente dovrai lasciarci la valigetta e le copie che hai fatto. Sappiamo chi sei, agente Viseltear. Se ci riprovi o se trapela qualcosa, ti roviniamo. Non scherzo. Questa è la mia proposta. Non male, ti pare?» O'Hara fissò a lungo Viseltear, che faceva l'analista a Quantico ed era un ladro. «Mi segui? È tutto chiaro?» Viseltear scosse lentamente la testa. «Non volete che la questione finisca in tribunale», disse. «Non potete permettervelo. È chiarissimo.» O'Hara si strinse nelle spalle. «Se ci riprovi, ti roviniamo. Voglio che ti sia chiaro questo.» E gli mollò un pugno in faccia. Viseltear per un pelo non finì a terra. «Come hai cercato di fare tu mandandomi lo scagnozzo con la pizza a Pleasantville. Adesso vattene, per favore. E lascia qui la valigetta.» Viseltear si alzò dal tavolo massaggiandosi la mascella. E se ne andò, un po' malfermo sulle gambe. Era finita. O quasi. O'Hara era assolutamente convinto che la faccenda non fosse ancora chiusa, anche perché sapeva più di quanto avrebbe dovuto. Aveva guardato dentro la valigia, aveva letto il file sui flash drive e il trafiletto nella rubrica «Style» del New York Times. Aveva fatto due più due. Per un totale di un miliardo e quattrocentomila dollari. E forse questo sarebbe andato a suo vantaggio. O forse no. Non sempre le cose sono come sembrano. 104 «O'Hara.» «Susan. Mi fa piacere vederti.» «Anche in queste circostanze?» «Sempre. In qualsiasi caso.» Eravamo diretti all'ufficio di Frank Walsh al dodicesimo piano della se-
de dell'FBI nel centro di Manhattan. Walsh era il nostro supervisore, anche se facevamo parte di divisioni diverse. Frank Walsh si occupava infatti di più dipartimenti a New York. «Susan. John.» Ci accolse nel suo ufficio con un sorriso. È un uomo molto affabile, educato e diplomatico, ma questo non significa che non sia estremamente efficiente. Dopotutto, è il capo mio e di Susan. Ci avviammo verso la sala riunioni. «Mi piacerebbe potervi dedicare più tempo, ma purtroppo oggi sono molto impegnato. Magari una di queste sere andiamo a cena da Neary's. Susan, scusa, ma tu non puoi entrare. Mi dispiace.» «Capisco», replicò Susan, che non ammira Frank Walsh quanto lo ammiro io, ma lo tollera. «Allora, vediamo di affrontare il problema», disse Walsh entrando nella stanza. «La seduta è aperta.» Nella sala l'atmosfera era alquanto tesa e pesante: del genere che ti mette in soggezione, ti fa sentire come un bambino che ha rubato la marmellata. Presi posto davanti alla commissione disciplinare. Tra la sera in cui Nora era scomparsa e la convocazione era passato un po' di tempo, che avevo trascorso in ospedale per via della spalla e a casa in convalescenza. A parte la puntatina sotto copertura all'aeroporto La Guardia. Evidentemente la commissione disciplinare voleva darmi un po' di tempo per riprendermi, prima di bacchettarmi. Frank Walsh esordì con una breve cronistoria dei miei trascorsi professionali. I membri della commissione ascoltarono attentamente, mentre il registratore davanti a Frank memorizzava ogni sua parola. L'agente John Michael O'Hara... ex capitano dell'Esercito statunitense... ex funzionario di polizia nel dipartimento di New York, pluridecorato... Attualmente agente speciale della divisione antiterrorismo dell'FBI, settore finanza... Ha svolto incarichi importanti sotto copertura.... «Frank?» A interromperlo era stato un anziano signore seduto in fondo a destra che, oltre a far parte della commissione disciplinare, lavorava alla sezione Omicidi seriali. Si chiamava Edward Vointman. «Può dirci perché il caso Sinclair è stato affidato all'agente O'Hara?» Trattenni un sorriso. Quello di Vointman era un modo diplomatico per arrivare alla domanda che gli stava veramente a cuore. E cioè: Perché diavolo non sono stato informato? Walsh fece una faccia scocciata. Accade di frequente, e non solo nelle agenzie governative, che la mano sinistra non sappia che cosa fa la destra.
Nel caso specifico, tuttavia, era successa una cosa più grave: la mano destra non sapeva che cosa stava facendo un suo dito. Walsh si chinò e spense il registratore. Poi abbandonò l'atteggiamento ingessato che aveva avuto sino a quel momento. «Te lo spiego subito, Ed», replicò. «La task force dell'antiterrorismo di New York sta indagando con la sezione finanza della divisione antiterrorismo e la Sicurezza interna su un traffico internazionale di valuta.» Vointman stava per ribattere qualcosa - probabilmente: Che cosa vuol dire «sta indagando su un traffico internazionale di valuta»? - ma Walsh lo bloccò. «Non posso dirti niente di più, Ed. Non farmi domande.» Si schiarì la voce. «Un po' di tempo fa abbiamo notato un ingente trasferimento di denaro dal conto di un certo Connor Brown di Westchester. Abbiamo svolto delle indagini e scoperto che la fidanzata di questo Brown, tale Nora Sinclair, era stata precedentemente sposata con un medico newyorkese morto nelle stesse circostanze del signor Brown. Da notare che l'uomo di mestiere faceva il cardiologo. Probabilmente la signora Sinclair non finanziava gruppi terroristici, ma era possibile che fosse un'assassina.» Vointman fece di nuovo per dire qualcosa, quasi certamente la stessa di prima. Essendo il capo della sezione Omicidi seriali, avrebbe dovuto essere informato. Ancora una volta Walsh gli impedì di parlare. «Premetto che non potevamo informare la tua sezione, Ed, prima di avere la certezza assoluta che questa Sinclair non faceva parte di alcuna organizzazione legata al terrorismo», spiegò. «Comunque, per tornare alla tua domanda, l'indagine è stata affidata a O'Hara perché aveva esperienza di casi analoghi. Ha svolto operazioni simili sotto copertura quando era al dipartimento di polizia di New York e si stava già occupando di un caso legato a quello Sinclair. In altre parole, lo ritenevamo la persona giusta.» Si voltò verso di me e mi lanciò un'occhiataccia. «Naturalmente, davamo per scontato che ragionasse con la testa e non con il pisello.» Walsh fece ripartire il registratore. «È stato un errore», decretò. Da lì in poi, le cose andarono di male in peggio per me. Per un'ora fui costretto a dare spiegazioni su tutti gli aspetti delle indagini che avevo svolto su Nora Sinclair, sulle decisioni che avevo preso o che non avevo preso. Anzi, soprattutto su queste ultime. La commissione non mi diede tregua e mi tartassò dall'inizio alla fine. Quando l'interrogatorio ebbe termine, Walsh ringraziò tutti gli interve-
nuti e li congedò. Pensavo di potermene andare anch'io, ma Walsh mi disse di non muovermi di lì. 105 I membri della commissione disciplinare uscirono e rimanemmo solo noi tre: Walsh, io e il registratore. Il silenzio era totale. Per venti, trenta secondi, Walsh mi squadrò. «Devo aggiungere altro?» domandai. Walsh scosse la testa. «No.» «Vuoi aggiungere qualcosa tu?» «Probabilmente non dovrei, ma te lo chiederò lo stesso.» Si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia, fissandomi negli occhi. «Riceverò una telefonata dal piano di sopra, vero?» Quell'uomo era un mago. «Che cosa te lo fa pensare?» «Non so, è una sensazione», replicò con una smorfia. «Sei troppo in gamba, per essere così scemo.» «Ho ricevuto complimenti peggiori, immagino.» Walsh ignorò il mio sarcasmo. «Ti sei fatto beccare con le brache calate, letteralmente. Ma qualcosa mi dice che non avevi il culo scoperto.» Non risposi subito. Volevo aspettare di vedere se aggiungeva qualcosa, magari rivelandomi la fonte della sua «sensazione». Ma Walsh stette zitto. «Complimenti, Frank.» «Non è proprio il caso», replicò. «Ce l'avevi scritto in faccia.» «Ricordami di non giocare mai a poker con te.» «Posso ancora renderti la vita difficile.» «Lo so benissimo.» «Rimane comunque il fatto che hai sbagliato.» «Lo so.» Walsh chiuse la pratica. «Puoi andare, adesso.» Mi alzai in piedi. «Un'ultima cosa, O'Hara.» «Sì?» «So tutto anche dell'altro tuo incarico. Ne sono informato dall'inizio. Ci sono dentro. So che sei il Turista.» 106
Quando arrivai nell'ufficio di Susan, pochi minuti dopo, la trovai davanti alla finestra che guardava la pioggia, dandomi le spalle. Era difficile non cogliere il simbolismo. «È stato brutto?» mi chiese senza voltarsi. «Bruttissimo.» «Quanto, in una scala da uno a dieci?» «Diciotto, diciannove...» «Dico sul serio.» «Nove, forse», risposi. «Ci vorrà una settimana prima di sapere qualcosa.» «E fino allora?» «Mi incateneranno le caviglie alla scrivania.» «Dovrebbero incatenarti qualcos'altro.» «Per la cronaca, è la seconda allusione della giornata a questo aspetto della vicenda.» «Ti sorprende?» «Non lo so. Mi stupisce invece che continui a parlarmi dandomi le spalle. Anzi, direi piuttosto che mi dà fastidio.» Susan si voltò. Era una donna tosta e non si scomponeva quasi mai, perciò non mi aspettavo di leggerle in faccia così tanta preoccupazione e disappunto. «Mi hai fatto fare una figura orribile, John.» «Lo so», dissi un po' troppo in fretta. «Sul serio, John. Orribile.» Abbassai lo sguardo. «Scusami», sussurrai. «Perdio, sapevi benissimo che occuparti del caso attraverso il mio dipartimento era già di per sé una violazione del regolamento.» Non replicai. Conoscevo Susan e sapevo che stava cercando di vincere la collera, la frustrazione e il senso di abbandono. Probabilmente doveva sfogarsi ancora un po', per sentirsi meglio. «Cristo, John, come hai potuto essere così cretino?» Proprio come mi aspettavo. Quando il palazzo smise di tremare per quell'urlo, Susan ritrovò la calma e assunse di nuovo l'atteggiamento stoico e compassato di sempre. C'era un'assassina a piede libero e noi dovevamo fermarla. Purtroppo i rapporti degli agenti sul campo non facevano sperare in nulla di buono: Nora Sinclair sembrava sparita dalla faccia della terra. «Cosa dicono i nostri contatti alle Cayman?» domandai. «Niente», rispose Susan. «Non si è fatta vedere né ai Caraibi, né a Briar-
cliff Manor, né nell'appartamento di New York e dintorni.» «Cristo santo! Dove sarà?» «Domanda da sessantaquattromila dollari.» Susan abbassò gli occhi su un foglietto posato sulla sua scrivania: il saldo del conto di Nora, che era stato congelato. «Anzi, da diciotto milioni e quattrocentoventiseimila dollari.» Una cifra da capogiro. «A proposito», dissi. «Cosa ne è stato del fiscalista, Keppler?» «Quello che hai sconfitto a braccio di ferro?» «Sei fuori strada. Semplicemente si è lasciato convincere.» «Be', comunque Nora non l'ha contattato.» «Forse dovrei tornare da lui e...» Susan mi interruppe. «Ti hanno incatenato alla scrivania o sbaglio? E non sappiamo che cosa ti faranno dopo.» Fece un sorriso tirato. «Volendo considerare il lato positivo della faccenda, se ti sospendono forse avrai più tempo da passare con i ragazzi.» «Non lo so», risposi. «Bisogna vedere se la madre me lo concederà.» Susan si voltò di nuovo a guardare dalla finestra. «Sai, se tu fossi bravo come marito quanto lo sei come padre, forse non ci saremmo mai separati.» 107 Ho sempre fatto una gran fatica a stare fermo. E adesso sarei stato costretto all'immobilità per chissà quanto. Ero incatenato alla scrivania da due giorni e già davo in escandescenze. Dovevo mettere in ordine delle carte e non lo facevo. Guardavo dalla finestra il grigiore di Manhattan e riflettevo. Dove diavolo si è andata a cacciare? I rapporti degli agenti sul campo erano concisi e poco incoraggianti. Non c'era traccia di Nora da nessuna parte. Come aveva fatto a sparire? Il lavoro di routine mi faceva impazzire. Suonava il telefono, io rispondevo, ascoltavo quello che mi dicevano e poi buttavo giù, frustrato. Mandavo messaggi subliminali che tutti recepivano: TENETEVI A DISTANZA DI SICUREZZA, STO PER SCOPPIARE. Il telefono squillò. Risposi, cercando di farmi coraggio. «O'Hara.» Nessuna risposta. «Pronto?» Niente.
«C'è nessuno?» «Mi sei mancato», sussurrò. Mi alzai di scatto. «Non dici niente?» domandò Nora. «Io non ti sono mancata? Non ti è mancato fare l'amore con me? Nemmeno questo?» Stavo per rispondere in malo modo, ma mi trattenni. Dovevo tenerla in linea. Premetti il tasto RECORD sul telefono e poi anche il pulsante accanto, quello che permetteva di rintracciare le telefonate. Trassi un respiro profondo e chiesi: «Come stai, Nora?» Lei scoppiò a ridere. «Come, non mi urli di tutto? L'uomo che ho conosciuto non era tipo da trattenersi.» «Craig Reynolds, intendi?» «Non vorrai nasconderti di nuovo dietro la maschera dell'assicuratore!» «Non è mai esistito, Nora. Nulla è mai stato reale.» «Ti piacerebbe! In realtà sei ancora indeciso, io lo so. Non ti è ancora chiaro se hai più voglia di scoparmi o di uccidermi.» «Sbagli, lo so benissimo», ribattei. «È il tuo orgoglio ferito a parlare, adesso», replicò lei. «A proposito di ferite, come stai? Quella sera sembravi conciato maluccio.» «Grazie a te.» «Voglio dirti una cosa, O'Hara. Mi dispiace sapere che non ci rivedremo mai più.» «Non ne sarei così sicuro», sibilai a denti stretti. «Ti troverò, fidati.» «Dovrei? Dimmi, tua moglie si fida di te? Non più, immagino. Ho forse rovinato il vostro matrimonio?» «Tranquilla, hai sbagliato i tempi. Sono separato da due anni.» «Davvero? Ne deduco che sei disponibile, O'Hara.» Guardai l'ora. Eravamo al telefono da più di un minuto. Continua a parlare, O'Hara. Cambiai discorso. «Come te la cavi senza soldi?» chiesi. Nora sbuffò. «Ce ne sono tanti, in giro. Basta saperli arraffare.» «È questa l'unica cosa che ti interessa, Nora? I soldi?» «Lo dici come se fossero una cosa sporca. Una ragazza deve pensare al proprio futuro, no?» «Mi sembra che tu abbia scelto un modo un po' sui generis.» «Okay, ci metto un po' di mio. Il fatto è che siamo arrabbiate, O'Hara. Le donne ce l'hanno con gli uomini. Non te n'eri mai accorto, caro?» Stava perdendo l'aplomb. Forse avevo toccato un nervo scoperto. Me-
glio. «Perché te la prendi tanto con gli uomini, Nora?» «Dovrei avere un'ora a disposizione, per poterti fare un elenco esaustivo.» «Ti concedo tutto il tempo che ti serve.» «Sono io che non ce l'ho», replicò lei. «Devo andare.» «Aspetta!» «Non posso, O'Hara. Ci vediamo nei tuoi sogni.» Clic. Guardai l'orologio. Ti prego! Chiamai il tecnico preposto a rintracciare le chiamate. «Dimmi che sapete da dove chiamava», esclamai. Il silenzio che ottenni in risposta mi tolse ogni speranza. «Spiacente, non siamo riusciti a rintracciarla.» Presi il telefono e lo scaraventai contro il muro, facendolo a pezzi. Ci vediamo nei tuoi sogni. 108 Il tecnico che la mattina dopo venne a installarmi un nuovo telefono guardò quel che rimaneva del precedente e poi mi rivolse un'occhiata con l'aria di chi ha capito tutto. «Le è caduto dalla scrivania, eh?» «Succedono le cose più strane», replicai. «Mi creda.» Pochi minuti dopo avevo un nuovo apparecchio, ma ero sempre incatenato alla mia scrivania, in preda a una noia mortale e roso dai dubbi e dai sensi di colpa. Il mio nuovo telefono cominciò a squillare. Lì per lì pensai che Nora volesse continuare la conversazione del giorno prima, ma mi ricredetti subito. Era evidente che quel colloquio non avrebbe avuto seguito. Risposi, sicurissimo che non fosse lei. Infatti era l'altra donna della mia vita che ce l'aveva con me. Non c'è bisogno di spiegare che Susan e io stavamo passando un brutto momento. Ma cercavamo comunque di essere professionali. «Che cosa dicono quelli del laboratorio audio?» le chiesi subito. La registrazione della mia telefonata con Nora era stata analizzata, alla ricerca dei più piccoli rumori di sottofondo per capire da dove avesse chiamato. Si potevano dedurre molte cose dal frangersi di un'onda in lontananza o da due parole in una lingua straniera dette da un passante... Il fatto che io
non avessi udito nulla non escludeva che ci fosse qualcosa da sentire. «Ho appena ricevuto il rapporto», mi comunicò Susan. «Zero assoluto.» In teoria avrebbe dovuto essere una brutta notizia, ma dal tono di Susan capii che non lo riteneva importante. Susan sa qualcosa che io ignoro. «Altre novità?» indagai. «Novità? Sei proprio un cretino, John. Se avessi ancora qualche illusione sul tuo conto, rimarrei delusa.» Mi sta tenendo sulla corda. «Susan, ho capito benissimo che ci sono novità.» Scoppiò a ridere. «Fra quanto tempo pensi di potermi raggiungere nel mio ufficio?» 109 Venti minuti dopo, Susan e io eravamo diretti fuori New York e un'ora e cinquanta minuti più tardi parcheggiammo davanti all'ospedale psichiatrico di Pine Woods, a Lafayetteville, nello Stato di New York. «Penso che la troverai un'esperienza istruttiva», disse Susan scendendo dalla mia auto e dirigendosi verso un palazzo di otto piani. «Stai per conoscere la mamma di Nora, O'Hara.» Feci un mezzo sorriso. Era chiaro che Susan si stava divertendo. Ci ritrovammo in una piccola sala riunioni all'ultimo piano dell'ospedale, seduti di fronte alla caposala del reparto in cui era ricoverata Olivia Sinclair. Non riuscivo a capire se era spaventata o soltanto un po' nervosa. In ogni caso, la sua tensione era palpabile. È abbastanza normale, quando si hanno davanti due agenti dell'FBI. «Agente O'Hara, ti presento Emily Barrows», annunciò Susan, che aveva già avuto contatti con il personale di Pine Woods. Mi voltai verso la caposala e le strinsi la mano. «Piacere», dissi. «Credo che la signora Barrows abbia alcune informazioni interessanti da darci sul conto di Nora», continuò Susan. Ero emozionato come un bambino la vigilia di Natale. Fissavo l'infermiera, che indossava la divisa bianca e aveva i capelli raccolti sulla nuca. Era una donna semplice e schietta. Lei cominciò con voce tremante: «Olivia Sinclair è ricoverata qui». Questo già lo sapevo. «Nora è sua figlia», continuò la caposala. «O, perlomeno, io l'ho sempre
creduto. In realtà non ho documenti che lo comprovino.» «Io sì», intervenne Susan. «Dopo che ci siamo parlate per telefono, sono andata a controllare negli archivi del carcere.» La guardai sbigottito. «Carcere?» «Olivia Sinclair fu condannata all'ergastolo quando Nora aveva sei anni», mi informò. «Con quale accusa?» «Omicidio», rispose Susan. «Scherzi?» Susan fece di no con la testa. «Non finisce qui, O'Hara. Uccise il marito. E Nora era presente, quando successe il fattaccio. Dopo qualche anno di detenzione, Olivia Sinclair cominciò a perdere il contatto con la realtà e fu trasferita a Pine Woods. Nora passò da un affidamento all'altro. Cambiò talmente tante famiglie che non si riescono a ricostruire i suoi movimenti con precisione.» Susan lanciò un'occhiata a Emily, che sembrava confusa. «Mi scusi», le disse. «Abbiamo motivo di credere che qualche anno fa Nora abbia ucciso il suo primo marito. Sulla base di questo e di molte altre circostanze verificatesi nel frattempo, riteniamo che abbia assassinato anche il secondo.» «Connor Brown era solo il suo fidanzato», le ricordai. «Sto parlando di Jeffrey Walker», precisò Susan. Ero ancor più confuso di Emily Barrows. «Jeffrey Walker?» «Ce l'hai presente? Quello che scrive melensi romanzi storici. O, meglio, scriveva.» «Certo che lo conosco. Stai dicendo che lui e Nora erano...» «... sposati.» «Cristo!» esclamai, mettendo insieme i pezzi. «Ho letto sul giornale che è morto d'infarto, anche lui. Aspetta...» Riflettei. «Viveva a Boston.» Susan si toccò il naso con la punta dell'indice. «Torniamo alla signora Barrows», disse, voltandosi verso la caposala. «Vuole riferire al mio collega quello che ha detto a me? Sta' bene a sentire, O'Hara.» Emily Barrows annuì e ci chiese di seguirla. «Vi faccio vedere», spiegò. «Andiamo da Olivia.» 110 Ci incamminammo lungo un corridoio alla volta della camera di Olivia Sinclair.
«Un giorno parlai con Nora di Jeffrey Walker e subito dopo venni a sapere che era morto», ci raccontò la caposala. Susan e io la stavamo ad ascoltare con attenzione. «Naturalmente non pensai che ci fosse un collegamento fra le due cose. Non sapevo nemmeno che Nora fosse nei guai, prima che ne parlassero in televisione.» Si fermò nel corridoio. Evidentemente voleva dirci qualcosa prima di entrare nella camera di Olivia. «Qualche settimana fa, lessi una lettera che la madre aveva scritto a Nora, in cui le faceva una confessione che ci sconvolse. Rivelava molto sul conto di Olivia, ma forse anche di Nora. Ve la mostrerò fra poco.» Riprese a camminare, passò davanti ad altre due o tre stanze e quindi si fermò. «Ecco, Olivia è qui.» Aprì la porta e vedemmo una vecchia sdraiata sul letto intenta a leggere un libro. Non alzò neppure lo sguardo quando entrammo. «Ciao, Olivia. Ti ho portato le persone di cui ti parlavo», fece Emily a voce alta e chiara. Olivia ci guardò. «Buongiorno», disse. «Mi piace leggere.» «Sì, a Olivia piace molto leggere», confermò Emily con un sorriso. Si voltò verso di noi. «Ci ha ingannato per un sacco di tempo. Faceva finta di essere molto più ammalata di quanto non sia in realtà. Una volta, in presenza di sua figlia, finse addirittura una crisi epilettica, perché Nora stava per farle una confidenza pericolosa e lei sapeva benissimo che registriamo tutti i colloqui che i pazienti hanno con i loro visitatori. Olivia è una grande attrice. Non è vero, cara?» Olivia fissava me e Susan, ma aveva ascoltato le parole di Emily e disse: «Sì». «Ci siamo messi d'accordo, comunque, e la faremo restare qui a Pine Woods. Perché ha deciso di aiutarvi.» Olivia assentì, sempre guardandoci fisso. «Sì, vi aiuterò», replicò con un filo di voce. «Che alternative ho?» Posò il libro, scese dal letto e andò verso l'armadietto. Emily spiegò: «Tutte le volte che Nora veniva a trovarla, portava alla madre un romanzo, anche se pensava che lei non li leggesse». Olivia tirò fuori dall'armadio una scatola di cartone. Vidi che conteneva dei libri e delle buste. «Un paio di settimane fa Nora smise di venire. Poi però arrivò un pacco per Olivia. A mandarlo era la figlia. Conteneva anche un biglietto», disse Emily. Cominciavo a provare una certa eccitazione. Un pacco? Saremmo cer-
tamente riusciti a capire da dove l'aveva spedito. E se Nora fosse stata così incauta da specificare l'indirizzo del mittente? Sarebbe stato troppo bello per essere vero! E infatti... Emily ci spiegò che dal pacco era impossibile capire dove fosse Nora. «Non ci sono né l'indirizzo di provenienza, né francobolli esteri, e il timbro è illeggibile.» Si voltò verso Olivia. «Dai il biglietto all'agente O'Hara, per favore.» Lo presi e lo lessi ad alta voce. «Cara mamma, scusa se non posso venire a trovarti. Spero che il libro ti piaccia. Con affetto, tua figlia Nora.» Lo rilessi, scuotendo la testa. «Che cos'ha di speciale?» Fu Susan a rispondere. «Tutto. Benché non volesse farsi scoprire, Nora ha commesso un passo falso.» Guardò Emily. Io feci lo stesso. E la caposala, finalmente, mi spiegò quello che evidentemente a Susan aveva già detto. «Controlli bene il foglio, agente O'Hara. Lo osservi controluce», mi consigliò. «Vede? Nell'angolo in basso a destra?» Alzai il biglietto verso la finestra, poi lo avvicinai agli occhi. Per la miseria! Il foglio era filigranato. Guardai Susan, la caposala e poi Olivia, che era scoppiata in lacrime. «Che brava figlia! Un amore...» 111 Nora passeggiava sulla sua terrazza al sole del pomeriggio con indosso soltanto gli slip di un bikini azzurro; aveva un gran sorriso sulle labbra. Bevve un sorso di Evian dalla bottiglia e se la appoggiò su una guancia. Non si era ancora stancata di Baie Longue, delle sue spiagge bianchissime e del mare turchese dei Caraibi. Il panorama era stupendo. L'hotel La Samanna sull'isola di St Maarten aveva fama di essere molto esclusivo e riservato. E la discrezione era importante per Nora. Durante il giorno si nascondeva dietro gli occhiali Chanel e si atteggiava a ricca signora, prendendo il sole ai bordi della piscina. Alla sera di solito lei e Jordan tendevano a passare gran parte del tempo a letto e si facevano portare qualcosa da mangiare in stanza. Certi giorni non mettevano il naso fuori, come due sposini in luna di
miele. Per fortuna La Samanna aveva un servizio in camera impeccabile. «Cara, preferisci del Duval-Leroy o del Dom Pérignon?» le chiese Jordan dalla stanza da letto. Decisioni, decisioni... «Scegli tu, tesoro», rispose Nora. Jordan Mauch, magnate del mercato immobiliare di Dallas, era un decisionista nato. La risoluzione che gli aveva fruttato più quattrini era stato capire prima degli altri che Scottsdale, in Arizona, poteva diventare una novella West Palm Beach. L'ultima che aveva preso, invece, era più personale. Affidare a Nora Sinclair il compito di arredare la sua nuova casa di Austin e ricompensarla con un piccolo viaggio ai Caraibi. La chiamò di nuovo dalla camera dopo aver ordinato il pranzo. «Cara, ti rendi conto che sei vestita un po' troppo succintamente per stare lì fuori?» Nora replicò: «Non voglio che mi resti il segno del costume». Lo sentì ridere. «E poi siamo nella parte francese dell'isola», aggiunse. Qualche giorno prima lei e Jordan erano andati a Grand Case, nella spiaggia per nudisti di Orient Bay. Nora si sarebbe volentieri svestita, ma Jordan si era rifiutato. Niente da fare: non voleva nemmeno prenderlo in considerazione. Lei non aveva insistito: aveva imparato che gli uomini ricchi con nutriti conti all'estero non amano spogliarsi in pubblico. Mai mettere a nudo i propri tesori. Nora tornò dentro e indossò un morbido accappatoio bianco, poi si sdraiò accanto a Jordan e gli posò la testa sulla spalla. C'era un unico problema. Non riusciva a togliersi dalla testa John O'Hara. Il suo odore, il suo sapore, il modo in cui le leggeva nel pensiero come mai nessuno prima di lui. Era irritante essere fra le braccia di un uomo - Jordan Mauch o chiunque altro - e pensare a John O'Hara. E per di più era doloroso. Che cosa mi è preso? Io non mi innamoro mai. «A che cosa pensi?» chiese Jordan. Nora si riscosse dai suoi sogni a occhi aperti. «Scusa, tesoro. Riflettevo sul fatto che è tutto così perfetto...» Jordan sorrise. «Un altro giorno in paradiso.» Si baciarono, ma subito dopo sentirono bussare alla porta. Era arrivato il pranzo. Jordan si alzò e andò ad aprire la porta. «Grazie», disse ai due inservienti che stavano entrando nella stanza con il carrello. Indossavano i tipici calzoncini corti, scarpe da barca, camicia di lino e un copricapo di paglia a
larghe tese. Di punto in bianco si tolsero il cappello. «Ciao, Nora. Te l'avevo detto che ci saremmo rivisti», disse O'Hara. «Non osare rivolgerle la parola!» lo redarguì Susan estraendo la pistola e puntandola contro Nora. «Sei fregata, troia!» Poi si voltò verso Jordan Mauch. «Lei non sa quanto è fortunato, caro signore.» 112 Quel pomeriggio accadde una cosa stranissima e piacevolmente inaspettata: mi rimase un po' di tempo libero e lo passai con Susan. Decidemmo saggiamente di scendere nella spiaggia dell'hotel La Samanna, che era lunghissima, larghissima e bianchissima. C'era persino un vecchio relitto sulla battigia. «Sicuro che possiamo fidarci dei ragazzi del posto?» domandai a Susan mentre eravamo stesi al sole ad abbronzarci. «Non sono mica i poliziotti delle barzellette!» esclamò lei. Mi riferivo alla gendarmerie, la polizia di St Maarten. Avevano messo Nora sotto custodia in attesa che venisse completata la pratica di estradizione negli Stati Uniti. «Sarà, ma mi riesce difficile fidarmi di agenti in pantaloncini corti. Così aderenti, poi. Ma li hai visti? Basta uno sguardo per capire di che religione sono.» Susan mi lanciò una delle sue occhiatacce. «Piantala, John.» Aveva ragione, come sempre. A St Maarten ormai non avevamo più nulla da fare: Nora era al sicuro, il caso chiuso. Avevamo telefonato a John Jr. e a Max, che sembravano contenti di stare con i nonni materni, i quali continuavano a trovarmi simpatico, nonostante tutto. Susan e io potevamo concederci un po' di relax, fianco a fianco sulle sdraio in quel posto incredibile, ammirando il cielo arancione al tramonto. Avevamo persino fatto il bagno insieme. Sollevai il calice per proporle un brindisi. «Alla caposala Emily Barrows.» Susan fece cin cin con la sua piña colada. Mi misi comodo e trassi un profondo respiro, soddisfatto e sollevato in ugual misura. C'era qualcosa che continuava a rodermi, però, anche se non
riuscivo a metterlo bene a fuoco. Senso di colpa, forse? Guardai Susan, che aveva il viso sereno e mi sembrava particolarmente carina. L'avevo fatta soffrire e mi dispiaceva terribilmente. Non lo meritava proprio. Le presi una mano e gliela strinsi. «Mi dispiace.» Lei mi restituì la stretta. «Lo so», rispose a bassa voce. Ecco, era un bel lieto fine: un cocktail in una mano e nell'altra stretta la mano della prima donna che avessi veramente amato. E Nora Sinclair era in procinto di essere condannata all'ergastolo per tutti gli omicidi commessi. Naturalmente, avrei dovuto immaginare che non poteva finire lì. 113 Il venerdì successivo mi trovavo nell'ufficio di Susan a New York. Ero stato convocato dal mio capo, che aveva appena finito di parlare per telefono con Frank Walsh. «O'Hara, non so come dirtelo.» «Senza giri di parole. Me la sono cercata, no?» «Non è questo, John. Il fatto è che... le accuse contro Nora Sinclair sono state ritirate.» Fu come un pugno nello stomaco. Improvviso, doloroso e del tutto inaspettato. Per alcuni secondi non riuscii a spiccicare parola. «Come sarebbe 'sono state ritirate'?» Susan mi guardò impassibile. Le leggevo negli occhi che era agitata, ma stava cercando di controllarsi. Al contrario di me. Mi misi a camminare avanti e indietro per l'ufficio imprecando e minacciando di andare a spifferare tutto al New York Times. «Siediti, John.» Non potevo. «Io non capisco. Ma perché? È un'assassina!» «Lo so anch'io. È una vera e propria serpe. Una psicopatica.» «Perché allora la vogliono lasciare a piede libero?» «È una faccenda complicata.» «Una faccenda complicata? Una stronzata, vorrai dire. È inaccettabile.» «Sono d'accordo con te», replicò Susan in tono misurato. «Se urlare e strepitare ti fa sentire meglio, sfogati pure. Ma sappi che è inutile: la situazione non cambierà. Le alte sfere hanno già deciso.»
La odiavo quando aveva ragione. Come quella volta che mi aveva detto che ero troppo egocentrico perché potessimo andare d'accordo. Aveva colpito nel segno. E avevamo divorziato. Alla fine mi sedetti e feci un respiro profondo. «Okay, spiegami i motivi.» «In realtà, se ci pensi bene, li conosci già.» Aveva di nuovo ragione. Forse volevo negare la realtà, illudermi, ma avevo sempre saputo che processare Nora avrebbe potuto comportare seri problemi per l'FBI. In tribunale sarebbe inevitabilmente venuto fuori che mi ero comportato in maniera vergognosa e il Bureau voleva risparmiarsi l'infamia. E non solo. C'era anche un'altra difficoltà, ben più grave, ne ero perfettamente consapevole. Mi ci ero trovato in mezzo quando mi ero fatto passare per il Turista. C'erano le questioni della valigia e dell'elenco di numeri di conto corrente. La mia liaison con l'imputata non era niente, in confronto a questi fatti, molto più delicati e infamanti. Che pertanto era meglio insabbiare. Frank Walsh vi aveva alluso quando ero stato convocato davanti alla commissione disciplinare, esprimendosi in maniera quantomeno ambigua. Sta indagando su un traffico internazionale di valuta. Non c'era bisogno di precisare che non andavamo nelle banche a fare semplici controlli alla luce del sole, ma investigavamo in accordo con la Sicurezza interna e grazie ad accordi privati con diverse banche multinazionali. Il motivo? L'unica cosa più pericolosa di un gruppo terroristico è un gruppo terroristico con solidi appoggi finanziari. La logica, almeno in teoria, era semplice: bloccare i finanziamenti significava bloccare anche loro. Il problema era trovare chi erogava il denaro. Non seguivamo regole di alcun tipo. Il che significa che molte delle cose che facevamo erano illegali. Nessuno era al sicuro o al di sopra di ogni sospetto: indagavamo su tutto e su tutti, in qualsiasi parte del mondo, dai casinò agli enti di beneficenza, dalle corporation agli speculatori di borsa. Controllavamo ogni trasferimento di denaro superiore a una certa cifra e, se era segreto, stavamo ancora più attenti. I conti cifrati non avevano misteri per noi. Piacere, Connor Brown. Piacere, Nora. «È per questo, dunque?» chiesi a Susan.
«Che cos'altro ti posso dire? Nora rappresenta il minore dei mali, per loro.» Fece una smorfia. «Voglio dire, se anche muore qualche riccastro, l'importante è che salviamo la democrazia mondiale, no? La rilasceranno, O'Hara. Anzi, per quel che ne so io, potrebbe essere già a piede libero.» 114 Nora percorse ad alta velocità le strade di Manhattan a bordo della Mercedes rossa finché non si convinse di non essere seguita né dai giornalisti né dalla polizia. Nessuno. A quel punto imboccò la West Side Highway in direzione nord, verso Westchester. Aveva bisogno di passare un po' di tempo da sola. Sfiorando i centoquaranta chilometri orari, assaporò l'aria sul viso e la libertà. Che meraviglia! Era la cosa migliore che potesse capitarle. Sarebbe stata a casa di Connor per qualche giorno, avrebbe finito di vendere i mobili e quindi avrebbe pianificato la sua prossima mossa. Stranamente, pensò che forse era giunto il momento di sistemarsi, di sposarsi veramente, di fare un figlio. Magari due. Scoppiò a ridere a quell'idea, ma non la liquidò subito. Succedevano le cose più incredibili, non ultimo il suo rilascio dalla prigione. Poco dopo imboccò il viale che portava alla casa di Connor, il luogo del delitto. Che strano, che bello! L'aveva fatta franca. E quei pochi giorni in carcere, nella famosa Riker's Island vicino all'aeroporto La Guardia, rendevano la sua libertà ancora più meravigliosa. Straordinaria. Scese dall'auto e le parve di sentire un rumore che le fece tornare in mente Craig Reynolds, alias John O'Hara. Che cosa le era preso? Non era ancora riuscita a fare chiarezza nei propri sentimenti, ma sapeva che l'attrazione che aveva provato per lui era stata travolgente, vera, ed emotivamente molto intensa. Ormai però le era passata, no? Certo! Entrò nella villa, che odorava di chiuso e di polvere. Niente di grave, tuttavia. Aveva intenzione di trattenersi solo qualche giorno, in ogni caso: poteva sopportare che non fosse tutto perfettamente in ordine. Andò in cucina, aprì il frigo, il Traulsen. Oddio, che disastro! Verdure marce e formaggio ammuffito. Prese una bottiglia di Evian e richiuse la porta in gran fretta, nauseata.
«Che schifo!» Pulì la bottiglia con uno strofinaccio, svitò il tappo e bevve quasi metà del contenuto. E adesso? Un bel bagno caldo? Una nuotata in piscina? Una sauna? Spalancò la bocca, ma non le uscì alcun suono. Solo un gemito. Poi un urlo. Improvvisamente si portò le mani allo stomaco e sentì che le gambe non la reggevano più. Il mio stomaco sta bruciando, pensò. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Il dolore le salì fino in gola e le parve di non riuscire più a respirare. Le veniva da vomitare, ma non riusciva a fare neppure quello. Le girava la testa. Cadde a terra. Forse batté la testa, ma non se ne preoccupò. Non le importava di niente, a parte il fuoco che la stava consumando dall'interno. Le si annebbiò la vista, in preda al dolore più terribile che avesse mai provato. Poi sentì un rumore, dei passi che venivano verso la cucina. In casa c'è qualcuno. 115 Doveva assolutamente capire chi fosse. Chi è là? Aveva la vista annebbiata, non riusciva a distinguere nulla e si sentiva come se il suo corpo si stesse disintegrando. «O'Hara?» gridò. «O'Hara, sei tu?» A quel punto vide una sagoma entrare in cucina. Non era O'Hara. Chi è? Una donna bionda, alta, una faccia nota. Cosa? Era lì, vicinissima a lei. «Chi sei?» chiese Nora con un filo di voce, in preda a un bruciore insopportabile alla gola e al petto. La donna sollevò una mano e - si è staccata la testa dal collo... - si tolse la parrucca. «Così va meglio?» le domandò. «Adesso mi riconosci?» Aveva capelli corti, chiari. Nora la riconobbe. «Tu?» gemette. «Sì, io.» Elizabeth Brown, la sorella di Connor. Lizzie. «Ti seguo da molto tempo, Nora. Volevo sapere che cosa stavi facendo.
Assassina! Non ero neppure sicura che mi riconoscessi», disse. «Non sono un tipo che fa colpo.» «Aiutami», sussurrò Nora. Il bruciore le era salito fino alla testa, alla faccia. Era orribile, il dolore più atroce che potesse immaginare. «Ti prego, aiutami», implorò. «Lizzie, ti prego!» Non riusciva più a vedere la faccia della sorella di Connor, ma sentì le sue parole. «Va' all'inferno, Nora.» 116 La polizia di Briarcliff Manor ricevette uno strano messaggio: «Ho catturato l'assassina di Connor Brown. È a casa sua. Venite a prenderla». Mi contattarono e io feci New York-Westchester in un tempo da record: poco più di quaranta minuti di guida superveloce fra il traffico di Manhattan, lungo la Saw Mill Parkway e la Route 9A. Intorno alla villa di Connor Brown erano parcheggiate una decina fra macchine della polizia locale e di Stato e un'auto medica del Westchester Medical Center. Inspirai, espirai lentamente e corsi dentro. Tremavo come una foglia. Dovetti mostrare il distintivo all'agente di guardia all'ingresso. «Sono in cucina. Qui avanti, poi...» «Conosco la strada, grazie», risposi. Mi resi conto che non ero pronto per quello che mi aspettava quando attraversai il salotto e la sala da pranzo. Forse il fatto di essere già stato in quella casa forse rendeva le cose più difficili. Ero lì, ma mi sembrava di trovarmi altrove, come succede nei sogni. Anzi, negli incubi. I tecnici della Scientifica erano già al lavoro, il che significava che gli investigatori avevano finito. Riconobbi Stringer e Shaw di White Plains, che avevo conosciuto quando avevo organizzato la messinscena dell'assicurazione per poter arrivare a Nora. Lei era lì, stesa per terra, con accanto una bottiglia di acqua minerale in frantumi. Il fotografo della polizia stava scattando delle foto. Ogni volta che partiva il flash, mi sembrava che scoppiasse una bomba. «L'hanno ammazzata.» Shaw mi raggiunse. «Avvelenata. Chi può essere stato, secondo te?» Scossi la testa. Non ne avevo la più pallida idea. «Non saprei. Ma non credo che ci daremo granché da fare per scoprirlo.» «Ha avuto quel che le spettava, dici?»
«Be', insomma... Brutta morte, però.» Mi allontanai perché avevo paura di non riuscire più a trattenermi e di mollargli un pugno. Che non meritava, peraltro. Poi andai a vedere il corpo di Nora. Chiesi al fotografo di allontanarsi un momento. Mi accucciai, cercai di farmi coraggio e la guardai in faccia. Doveva aver sofferto moltissimo, questo era chiaro, ma era sempre bellissima. Era sempre Nora. Riconobbi persino la camicetta di lino bianco che indossava, il braccialetto di brillanti che le piaceva tanto. Non ho idea di che cosa avrei dovuto provare in quel momento, ma mi sentivo terribilmente triste e stavo per mettermi a piangere. Provavo una pena terribile per Nora, e anche per me, per Susan e per i miei figli. Perché era successo? Non so quanto tempo rimasi lì a guardarla, ma quando mi rialzai vidi che tutti in cucina si erano zittiti e mi fissavano. L'ennesima brutta figura. 117 Tornai a Manhattan quel pomeriggio stesso, con l'autoradio a tutto volume. Ma non la sentivo nemmeno, avevo la mente altrove. Sapevo esattamente che cosa volevo fare. Che cosa dovevo fare. La morte di Nora mi aveva fatto capire molte cose. Ero certo di non averla mai amata. Ci eravamo usati a vicenda, con risultati disastrosi. Tornai in ufficio e vi rimasi il tempo necessario per ricuperare una pratica. Dovevo andare subito ai piani superiori. Nelle alte sfere. «La riceverà fra un istante», mi disse la segretaria di Frank Walsh. Entrai e mi sedetti davanti all'imponente scrivania di rovere. «John, a che cosa devo questa tua visita?» mi domandò. «Ho alcune cose da dirti. A proposito, Nora Sinclair è morta.» Walsh fece una faccia sorpresa e mi chiesi se stesse fingendo. In genere restava impassibile di fronte a qualsiasi notizia, motivo per cui era sopravvissuto tanti anni in quell'ufficio. «Questo semplifica le cose, immagino», replicò. «Stai bene?» «Sì, certo.» Giunse la punta delle dita artritiche e insistette. «Non mi sembra. Che cosa ti succede?» «Voglio un congedo temporaneo, Frank. Pagato. Ho lavorato troppo, ho fatto un sacco di straordinari.»
Questa volta Walsh rimase veramente sorpreso. «Wow!» esclamò dopo un po'. «Prima che ti risponda di no, John, vuoi aggiungere qualcos'altro?» Assentii. «Ho fatto una copia», dissi, e gli porsi la pratica. «Che cos'è?» «Quello che c'era dentro una valigia piuttosto consunta, Frank. Insieme a dei vestiti che probabilmente avevano lo scopo di proteggerlo, o di mascherarlo nel caso la persona sbagliata avesse cercato di aprirla.» Walsh annuì. «Come puntualmente è successo.» «Forse invece l'ha aperta la persona giusta, Frank. Susan dice che lo scopo di tutto questo è rendere il mondo più sicuro. Controllavamo i trasferimenti di valuta da e verso gli Stati Uniti, indagavamo su conti offshore. Abbiamo scoperto Nora così. Per un bonifico. Una somma molto alta.» Walsh annuì nuovamente, poi sorrise. Fu quel sogghigno viscido a tradirlo. Falso, decisamente teso. «È andata così, John.» «Più o meno», replicai. «Non è andata proprio così. Susan ti ha creduto, Frank, ma io ho avuto qualche dubbio. Chi se ne frega se l'FBI e la Sicurezza interna andavano contro qualche regolamento per controllare i canali di finanziamento ai gruppi terroristici? L'uomo della strada queste cose le capisce.» Frank Walsh non sorrideva più, ma continuava ad ascoltarmi con la massima attenzione. «E così, sì, ho guardato in quella valigia. Pensavo che un giorno o l'altro certe informazioni mi sarebbero potute tornare utili, che quello che c'era là dentro potesse servirmi. L'ho fatto per motivi puramente egoistici, insomma. Non immaginavo nulla. Apri la busta, Frank. Guarda che cosa c'è all'interno. Tieniti forte. O forse non ce n'è bisogno.» Walsh sospirò, poi aprì la busta. Trovò un oggetto piccolo come un dito. Una chiave USB. La mia copia dell'originale. «C'è anche la stampata, se preferisci. Strano, però: non si tratta di finanziamenti a gruppi terroristici, Frank.» «Davvero?» domandò Walsh, scuotendo lentamente la testa. «E di che cosa, John?» A quel punto toccò a me sorridere. «Non ne ho l'assoluta certezza e premetto che non sostengo con particolare entusiasmo nessun partito. Stimo alcuni presidenti del passato, sia dell'uno sia dell'altro. Forse dovrei dire che sono agnostico.»
«Che cosa c'è nella stampata, John?» «La mia teoria è questa. Qualcuno dell'FBI ha scoperto alcuni trasferimenti di valuta da e verso una serie di conti all'estero. Individui che cercavano di nascondere somme ingentissime, quasi un miliardo e mezzo di dollari. E mi sembrano tutti finanziatori o 'amici' del partito politico attualmente all'opposizione. Mele marce, forse? Ora, questa sì che sarebbe stata una cosa imbarazzante per l'FBI e per il partito al governo, se fosse venuta fuori al processo di Nora Sinclair. Una cosa illegale e immorale. Molto peggio che portarsi a letto Nora Sinclair. Cosa di cui, fra parentesi, mi vergogno tantissimo.» Mi alzai in piedi e mi resi conto che mi tremavano un po' le gambe. Per qualche oscuro motivo strinsi la mano a Frank Walsh. Forse fu perché sapevamo entrambi che quello era un addio. «Vada per il congedo, allora», disse. «Te lo sei meritato, John.» Presi la porta, uscii e mi diressi verso casa. A Riverside. Da Max, John Jr. e Susan, sempre che fosse disposta ad accogliermi. Lungo tutta la strada, pregai che lo facesse. E Susan, donna incredibile, meravigliosa, alla fine mi disse di sì. FINE