Wilbur Smith, La notte del leopardo. Copyright 1984 by Wilbur Smith. Scansione by roy Peliz. Trama. Non esiste niente di...
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Wilbur Smith, La notte del leopardo. Copyright 1984 by Wilbur Smith. Scansione by roy Peliz. Trama. Non esiste niente di peggio, per uno scrittore, del ritrovarsi all'improvviso 'inaridito', senza più stimoli e fantasia. E quanto succede a Clay Mellow, protagonista de 'La notte del leopardo', un romanziere di successo che da tempo non riesce a produrre il best-seller. Sul suo yacht ormeggiato nel porto di New York, Clay pensa con nostalgia agli incontaminati paesaggi africani dove è cresciuto. Sono ricordi lontani, che lo riportano ai tempi in cui la sua famiglia era una delle più ricche del luogo. Ma le proprietà non esistono più e persino quelle sensazioni che avevano ispirato il suo primo romanzo ambientato in Africa sembrano svanite per sempre... Proprio nel momento in cui Clay si sente al massimo dell'apatia, il destino ha in serbo per lui una carta che, se ben sfruttata, può riportargli fama e felicità: gli viene affidata una pericolosa missione nello Zambesi. Gli splendidi occhi di Sally, la donna che lo accompagna nel suo viaggio, riaccendono l'amore nel cuore di Clay ora, pieno di speranze e di nuova forza. Per riuscire nell'impresa sarà necessario molto spirito d'iniziativa e molto coraggio. Ma più prezioso di ogni altro aiuto si rivelerà per Clay la presenza, al suo fianco, della splendida Sally-Anne: una donna innamorata che condividerà appassionatamente ogni momento della 'grande avventura'. L'Autore. WILBUR SMITH E nato nello Zambia nel 1933 e ha compiuto gli studi in Sud Africa alla Rodhes University. Per accontentare il padre si diede agli affari acquistando una fattoria, ma gli articoli scritti sui giornali universitari avevano acceso la sua immaginazione. Comincio con brevi racconti, sotto lo pseudonimo di Lawrence, perchè Smith gli sembrava poco romantico. Poi fu la volta dei romanzi. Entusiasta cacciatore giocatore di golf, pescatore e alpinista Smith ha una rara capacità di concentrazione che gli permette di lavorare, spesso, a più libri contemporaneamente. E i risultati eccellenti si vedono: 13 romanzi tradotti in tutto il mondo, per un totale di 13 milioni di copie, due film tratti dalle sue storie e altri in progetto. Solo Come il mare (tra i più felici Libri Mese del Club) è stato pubblicato in 15 paesi; e il destino del leone, regge meravigliosamente il confronto. Altri best-seller sono stati L'orma del califfo, La voce del tuono, Gli eredi dell'eden, Dove finisce l'arcobaleno. Ma qual è la formula del suo successo? Smith ammette che i suoi personaggi, vigorosi uomini d'azione, sono un misto di se stesso e di ciò che vorrebbe essere. Definito il più grande scrittore d'avventure di oggi, Smith vive con la terza moglie Danielle, impiega il tempo libero a studiare il comportamento degli animali.
Era un venticello che aveva già percorso più di mille miglia, perché veniva dal Kalahari, il vasto e desolato deserto che i piccoli boscimani gialli chiamano "Il Gran Secco." Adesso che aveva raggiunto la valle dello Zambesi si rompeva in vortici e mulinelli tra le colline e le scarpate accidentate. L'elefante maschio era fermo appena sotto la cresta di una di queste colline. Era troppo furbo per commettere l'errore di stagliare la sua mole contro il cielo. Invece l'aveva nascosta dietro le tenere foglie appena messe dagli alberi di msasa, confondendola col grigio delle rocce retrostanti. Salì di qualche passo e succhiò l'aria nelle ampie narici pelose, poi ritirò la proboscide e delicatamente si soffiò in bocca. I due organi olfattivi piazzati sotto il labbro superiore si aprirono come
boccioli di rosa e l'elefante saggiò la brezza. Riconobbe la polvere fine e pepata dei lontani deserti, il polline di cento piante, la tiepida puzza bovina dei bufali che pascolavano nella vallata lì sotto e il fresco odore dell'acqua a cui si abbeveravano. Queste e altre uste colse, e giudicò accuratamente la distanza della fonte di ogni odore. Tuttavia non erano questi gli odori che cercava. Cercava l'acre fortore che vince tutti gli altri: la puzza di tabacco africano mista al rancido e inconfondibile miasma del carnivoro, il sudore seccato nella lana sporca, la paraffina, il sapone, il cuoio conciato degli stivali: insomma l'usta dell'uomo. Ed ecco che all'improvviso la colse, forte e vicina, come sempre dal giorno in cui era cominciata la caccia. Ancora una volta il vecchio maschio sentì che si ridestava in lui una furia atavica. Infinite generazioni della sua razza erano state perseguitate dai portatori di quell'odore. Fin da piccolo aveva imparato a odiarlo e temerlo, e quasi tutta la sua vita era trascorsa a sfuggirlo. Solo di recente c'era stata un'interruzione in questa vicenda di caccia e fuga continua. Undici anni di tregua, un po' di tranquillità per i branchi che pascolavano lungo lo Zambesi. L'elefante non poteva saperne né capirne la ragione: tra i persecutori era scoppiata una terribile guerra civile. La guerra aveva trasformato quelle vaste distese lungo la riva meridionale dello Zambesi in una specie di terra di nessuno, dove non osavano avventurarsi né i bracconieri a caccia d'avorio né i ranger del governo che avevano l'incarico di sfoltire periodicamente il sovrappiù della popolazione elefantina. Così in quegli anni i branchi avevano prosperato, ma ora la persecuzione era ricominciata con l'implacabile ferocia di prima. Con la rabbia e lo spavento ancora nel cuore, il vecchio maschio alzò la proboscide un'altra volta e risucchiò l'usta più temuta, saggiandola poi nei penetrali del cranio ossuto. Quindi si voltò e lentamente valicò la cresta rocciosa, stagliandosi per un istante, macchia grigiastra contro l'azzurro chiaro del cielo africano. Sempre valutando ciò che aveva appena fiutato, raggiunse il branco sparso sull'altro versante della collina. Sparpagliati tra gli alberi c'erano quasi trecento elefanti. La maggior parte delle elefantesse avevano i piccoli, alcuni appena nati, delle dimensioni di grossi porcelli. Ancora lattanti, si infilavano sotto la mole della madre, arrotolavano la proboscide sopra la testa e allungavano il collo verso la tetta gonfia che pendeva tra le zampe anteriori. I piccoli già un po' cresciuti scorrazzavano intorno, giocando rumorosamente tra i piedi degli animali adulti, finché qualcuno, scocciato, non strappava con la proboscide da un albero un ramo più nodoso che frondoso sculacciando con quello i piccoli pachidermi che fuggivano con scherzosi squittii, più che barriti di terrore. Gli elefanti si nutrivano, con metodica calma. Infilavano la proboscide nel folto dei rovi per raccogliere manciate di more che poi si piaZzavano in gola a una a una, come un vecchietto che prenda l'aspirina; oppure facendo leva con la zanna d'avorio macchiato cercavano di scorticare un albero di msasa, riuscivano a staccare una striscia di corteccia magari di due metri, e se la stipavano con voluttà nel capace sacco triangolare del labbro inferiore; oppure ancora si rizzaVanO sulle zampe posteriori come un cane che mendichi e, estendendo la proboscide, strappavano dalla cima degli alberi le foglie più tenerelle; oppure infine utilizzavano il loro peso di quattro tonnellate per scrollare a testate un grosso albero, facendo piovere una doccia di bacche mature. Più a valle due giovani maschi avevano unito le forze per sradicare un albero di trenta metri, di cui era impossibile raggiungere le foglie. Proprio mentre si schiantava a terra, il capo del branco valicava la cresta della collina: immediata-
mente tutti gli elefanti si interruppero, e ai lieti rumori del pasto succedette una calma che contrastava in modo sbalorditivo con l'attività di prima. I piccoli si avvicinarono ansiosi al fianco delle madri, e gli adulti si immobilizzarono, con le orecchie aperte e solo la punta della proboscide vibrante e protesa. Il capobranco scese verso il suo popolo con andatura trotterellante, con le spesse zanne d'avorio sollevate da terra e l'allarme evidente nella positura spalancata delle orecchie. Sentiva ancora nelle narici l'usta umana: quando raggiunse il più vicino gruppetto di femmine, alzò la proboscide e soffiò anche su di loro una boccata di quell'aria contaminata. Immediatamente esse si voltarono sottovento, in maniera da continuare a coglier l'usta. Il resto del branco vide la manovra e si rimise in ordine di marcia, le femmine coi piccoli al centro, le vecchie intorno, i maschi giovani all'avanguardia e gli adulti, con gli "ascari" che li servivano, sui fianchi; e in questa formazione si avviarono col trotto divora-terreno che erano in grado di tenere per un giorno, una notte e un altro giorno senza interruzione. Avviandosi, il vecchio maschio si sentì confuso. Non gli era mai capitato di essere inseguito tanto a lungo: ormai erano otto giorni che avevano gli uomini alle calcagna, ma non si erano mai avvicinati tanto da entrare in contatto col branco. Erano sempre a sud, a portata di fiuto ma fuori vista. Sembrava che fossero in molti, più di quanti gli fosse mai occorso di incontrarne in tutti i suoi vagabondaggi: formavano come una lunghissima rete, che gli precludeva tutti i sentieri che portavano a sud. Soltanto una volta era riuscito a scorgerli, con la miope vista degli elefanti: era accaduto il quinto giorno, allorché, persa la pazienza, aveva ordinato al branco di fare dietro front per cercar di sfondare le loro file. Allora a un tratto erano comparse, sbucando dall'erba gialla, le ritte figurette a bastoncino, così apparentemente fragili e invece mortali: e a furia di battere su scatole di latta e sventolargli coperte davanti agli occhi erano riusciti a fargli rifare dietro front, spingendolo assieme al branco giù dalle colline, verso il grande fiume che scorreva nel fondovalle. Quelle pendici erano solcate dalle innumerevoli piste tracciate in diecimila anni dai branchi d'elefanti: piste che seguivano i percorsi di minima pendenza e sfruttavano tutti i valichi e i passaggi di quelle colline rocciose. Il vecchio maschio ne imboccò una: gli elefanti lo seguirono in fila indiana e, dopo le strettoie della discesa, sbucarono sulla piana. La marcia proseguì tutta la notte. Non c'era luna, ma le stelle erano luminosissime, e il branco mosse quasi senza rumore per la foresta tenebrosa. Una volta, dopo mezzanotte, il vecchio maschio si fermò, lasciando andare avanti il branco, e si mise fuori del sentiero battuto ad aspettare. Nel giro di un'ora tornò a cogliere nel vento la fatale usta dell'uomo. Era molto debole e distante ma c'era, c'era ancora, e il capobranco si rimise in marcia per raggiungere le femmine. All'alba gli elefanti raggiunsero una zona da cui mancavano da dieci anni. Era la breve striscia lungo il fiume che era stata teatro, durante la guerra, di una intensa attività dell'uomo, ragion per cui esso l'aveva accuratamente evitata fino a quel momento, quand'era stato costretto a tornarci. Il branco si muoveva ora con meno fretta: si erano lasciati gli inseguitori ben dietro le spalle, potevano rallentare per nutrirsi per via. La foresta era più verde e lussureggiante lì sul fondovalle. Gli alberi di msasa avevano ceduto il posto a quelli di mopani e ai baobab giganti che prosperavano nella più torrida calura, e il vecchio maschio, con le viscere assetate che brontolavano nella sua prodigiosa mole, già sentiva l'odore dell'acqua poco davanti a loro. Tuttavia un misterioso istinto lo avvertiva che c'era un pericolo
anche di fronte, oltre a quello che già li incalzava. Così si fermò spesso, muovendo lentamente la testa da una parte e dall'altra, le enormi orecchie aperte come radar e gli occhi miopi che scrutavano con cautela prima di avventurarsi a proseguire. E di colpo si fermò ancora una volta. Al limitare del suo campo visivo un barbaglio metallico scintillava al sole mattutino. Il pachiderma si impennò allarmato, e dietro di lui tutto il branco, contagiato dal suo timore, si arrestò. Il vecchio maschio si fermò a guardare il riflesso abbagliante, e pian piano la paura gli passò, perché niente si muoveva a parte la brezza che faceva stormire la foresta, e i rumori della vita che vi si svolgeva del tutto indifferente, canti di uccelli, frinire di insetti, denunciavano una perfetta normalità. Eppure il vecchio maschio aspettò, guardando avanti, e quando la luce mutò scorse altri oggetti metallici disposti in fila davanti a lui. Allora spostò il peso del corpo da una zampa all'altra, a disagio, emettendo un brontolio di indecisione. Ciò che allarmava l'elefante era una fila di cartelli di lamiera applicati a dei paletti piantati nel terreno tanto di quel tempo prima che l'odore dell'uomo ne era ormai svanito. Su ogni cartello c'era un laconico avvertimento dipinto a vernice rossa che il sole cocente aveva sbiadito fino al rosa pallido: teschio e tibie incrociate accompagnavano la scritta PERICOLO, CAMPO MINATO. Il campo minato era stato creato anni prima dalle forze di sicurezza dell'estinto governo rhodesiano bianco, per formare un cordon sanitaEre lungo lo Zambesi nel tentativo di impedire ai partigiani dello ZIPRA e della zANu di penetrare nel territorio dello Stato dalle loro basi situate oltre il fiume nello Zambia. Milioni di mine antiuomo, e di Claymore più grosse, formavano una striscia impenetrabile, così lunga e profonda che era impossibile bonificarla tutta: e comunqùe il costo di un simile lavoro risultava proibitivo per il nuovo governo negro del paese, che già si dibatteva in serie difficoltà economiche. Mentre il vecchio maschio ancora esitava, l'aria si riempì di un suono assordante, il suono di mille uragani. Veniva da dietro il branco, ancora da sud, e il vecchio maschio si girò a vedere di che si trattava. La nuova minaccia che si profilava sopra gli alberi della foresta poteva sembrare un grottesco uccellaccio nero appeso a un disco lucente. Riempiendo il cielo di frastuono, si abbassò sul branco serrato, si abbassò tanto che il vento del rotore piegò le fronde degli alberi come un temporale, alzando dalla terra secca una nuvola di polvere rossa. Spinto dal rombo incalzante, il vecchio maschio fece un altro dietro front gettandosi oltre i cartelli, seguito nel campo minato dall'intero branco in preda al panico. Aveva percorso una cinquantina di metri allorché la prima mina esplose sotto di lui. Come un poderoso colpo d'ascia, l'ordigno antiuomo gli fece volar via metà della zampa posteriore destra. Brandelli di carne viva e sanguinante presero a pendere, mentre in fondo alla ferita si vedeva biancheggiare il grande osso. Su tre zampe, il vecchio maschio si trascinò avanti, e la mina successiva gli scoppiò proprio sotto l'anteriore destra. Stavolta maciullò il coriaceo piede fino alla caviglia. Il maschio emise un barrito di dolore, e non potendo più appoggiarsi sul lato destro si rovesciò impotente sul fianco, mentre tutt'intorno a lui il suo branco invadeva il campo minato. Il bum-bum degli scoppi era intermittente, sul principio, al limitare del campo minato, ma ben presto accelerò come un pazzesco assolo di tamburi. Ogni tanto quattro o cinque mine esplodevano contemporaneamente, con una detonazione fortissima che rimbombava sulle colline rocciose creando echi a centinaia. Il sottofondo, come la sezione degli archi di qualche diabolica orchestra, era il rombo del rotore dell'elicottero, che si alzava e abbassava come un cane-pastore per spingere gli elefanti in fuga di nuovo sulle mine, andando a riprendere e a far tornare indietro un giovane elefante miracolosamente arrivato sulla riva del fiume, finché una
mina non esplose strappandogli una zampa e la povera bestia non si mise a girare barrendo disperatamente su se stessa. Ormai l'esplosione era continua, come un bombardamento navale, e ogni scoppio sollevava nell'aria ferma della vallata un'alta nuvola di polvere, sicché la nebbia rossastra cancellò un po' di quell'orrore. La polvere vorticava alta come la cima degli alberi, trasformando gli animali in scuri spettri tormentati che a tratti le esplosioni illuminavano. Una vecchia femmina mutilata delle quattro zampe giaceva su un fianco e, puntando la testa sulla terra, cercava invano di rialzarsi. Un'altra si trascinava sulla pancia, con gli arti posteriori maciullati, cercando di proteggere con la proboscide il piccolo che aveva vicino, finché una mina Claymore non scoppiò sotto di lei svellendole le costole come doghe di un'enorme botte, e contemporaneamente dilaniando il piccolo. Altri elefantini, separati dalle madri, si aggiravano barrendo nella nuvola di polvere, con le orecchie appiattite contro il cranio per il terrore, finché qualche bomba non li dilaniava proiettando dappertutto le loro membra. Continuò per un pezzo, e poi le esplosioni si diradarono, tornarOno intermittenti, e infine gradualmente cessarono. L'elicottero atterrò, fuori del campo minato. Si spense il motore, le pale si fermaronO. Ormai l'unico rumore era quello delle bestie mutilate e moribonde, che urlavano sdraiate sul terreno sconvolto fra gli alberi coperti di polvere rossastra. Il portello dell'elicottero si aprì e un uomo saltò agilmente a terra. Era un negro, vestito con un giubbotto di denim sbiadito, da cui erano state accuratamente scucite le maniche, e jeans aderenti. All'epoca della guerra rhodesiana, la tela jeans era praticamente l'uniforme dei partigiani indipendentisti. Questo aveva ai piedi degli scarponi borchiati, di fattura occidentale, e in testa gli occhiali Polaroid antiriflesso, da aviatore, che si era tirato su dal naso. Con la fila di biro appuntate al taschino del giubbotto, c'erano le insegne che, fra i guerriglieri, distinguevano i veterani. Sotto il braccio destro portava la mitraglietta d'assalto AK 47. Andò al limite del campo minato e rimase cinque minuti buoni a osservare, impassibile, la carneficina che aveva appena avuto luogo nella foresta. Poi si avviò di nuovo all'elicottero. Dietro la cupola di perspex il pilota lo guardava con attenzione, con la cuffia ancora in testa sopra un'elaborata pettinatura afro: ma l'ufficiale lo ignorò per concentrarsi invece sulla fusoliera del velivolo. Qui le insegne e il numero di identificazione erano stati accuratamente ricoperti con del nastro adesivo, su cui poi era stata spruzzata una bomboletta di vernice nera. In un punto il nastro adesivo si era staccato, esponendo un angolo del numero: l'ufficiale lo rimise a posto col palmo della mano, ispezionò il proprio lavoro con occhio critico, e dopo un attimo girò sui tacchi diretto all'ombra del più vicino mopani. Appoggiò il kalashnikov al tronco, stese a terra un fazzoletto per non sporcarsi i calzoni e sedette contro l'albero. Si accese una sigaretta con un bel Dunhill d'oro e inspirò profondamente, prima di emettere il fumo a rivoletti tra le grosse labbra scure. Poi finalmente sorrise, un sorriso freddo e razionale, al pensiero di quanti uomini, quanto tempo e quante munizioni sarebbero occorsi per ammazzare trecento elefanti in maniera convenzionale. "Il compagno commissario non ha perso niente della sua astuzia dai vecchi tempi della guerriglia. A chi altri poteva venire in mente un trucco così?" Scosse la testa in segno di rispetto e ammirazione. Finita la sigaretta, ridusse il mozzicone in polvere tra le dita, un'abitudine che gli era rimasta dai vecchi tempi, e chiuse gli occhi.
Ormai quei tempi erano passati da un bel po'. Le urla laceranti che provenivano dal campo minato non gli impedirono di assopirsi, ma delle lontane voci umane lo risvegliarono all'istante. Si alzò in fretta, già sul chi vive, e diede un'occhiata al sole. Era mezzogiorno passato. Andò all'elicottero a svegliare il pilota. "Arrivano." Prese il megafono nell'elicottero e tornò fuori ad aspettare, finché il primo uscì dal folto degli alberi ben presto raggiunto da altri che l'ufficiale sogguardò con un'occhiata di scherno. "Babbuini!" mormorò col disprezzo della persona istruita per il villano, o di un africano per uno di una tribù diversa. Venivano in fila indiana, lungo il sentiero battuto dagli elefanti. Erano due o trecento, coperti di pelli o indumenti occidentali di scarto, gli uomini davanti e le donne dietro. Molte di esse erano a petto nudo, e alcune erano giovani dal volto provocante e le natiche tonde che riempivano liricamente i cortissimi gonnellini a fronzoli di code di animali. Nel guardarle, l'ufficiale in jeans sentì il disprezzo trasformarsi in eccitazione: forse avrebbe trovato il tempo di farsene una più tardi, pensò, infilandosi una mano nella tasca dei calzoni. Si schierarono lungo il limitare del campo minato, ridacchiando e lanciando gridolini di gioia, dandosi di gomito e indicandosi a vicenda la montagna di grosse bestie atterrate. L'ufficiale li lasciò lustrarsi lo sguardo. Si erano guadagnati questa pausa di autocongratulazioni. Erano in pista da otto giorni, quasi senza riposo, per sospingere gli elefanti giù dalle colline e avviarli al campo minato. Mentre aspettava che si calmassero, tornò a considerare quanto carisma e quanta forza di carattere ci volevano per trasformare quella massa di contadini primitivi e analfabeti in un insieme coordinato ed efficiente. L'intera operazione era stata organizzata da un solo uomo. "Un grand'uomo" , si disse l'ufficiale, e subito dopo si riscosse da questo scivolone nel culto della personalità e portò il megafono alle labbra. "Silenzio! Fermi!" Cominciò a distribuire il lavoro. Formò le squadre di macellai tra quelli che erano armati di ascia o panga, il machete africano. Incaricò le donne di preparare le rastrelliere per affumicare la carne e costruire ceste coi rami di mopaDi, spedì altri a far legna per i fuochi. Poi tornò a occuparsi dei macellai. Nessuno di quei contadini era mai salito su un aeromobile, e l'ufficiale dovette usare i calci per indurre il primo a farlo. Dopo di che l'elicottero si alzò e in un attimo fu sopra la prima carcassa. Sporgendosi dal portello, l'ufficiale guardò il vecchio maschio. Ne apprezzò le grosse zanne ricurve, e poi vide che la bestia, nel corso delle ore d'attesa, era morta, era morta dissanguata. Segnalò al pilota di abbassarsi ancora un po'. Avvicinò la bocca alle orecchie del più anziano dei negri della tribù. "I tuoi piedi non devono mai toccar terra! Se no muori!" gli urlò. L'uomo annuì parecchie volte di scatto. "Prima le zanne e poi la carne. L'uomo annuì di nuovo. L'ufficiale gli mollò una pacca sulla spalla e l'anziano membro della tribù saltò sul ventre del bestione che stava già cominciando a gonfiarsi per i gas della putrefazione. Agilmente si rizzò e in breve fu seguito dal resto della sua squadra, con le asce in mano. Al cenno dell'ufficiale, l'elicottero si alzò e, con un salto da cavalletta, si portò sulla verticale della successiva carcassa che mostrava grosse zanne sotto il labbro. Ma non era una carcassa, il bestione era ancora vivo! A fatica si rizzò a sedere e alzò la testa cercando di afferrare con la proboscide lo sfarfallante elicottero. Dalla carlinga, sporgendosi assicurato alla cintura, l'ufficialè prese la mira col kalashnikov e gli sparò un colpo singolo appena sotto la nuca, all'altezza dell'osso del collo. La femmina crollò di
schianto accanto al corpo senza vita dell'elefantino. Con un cenno l'ufficiale mobilitò la seconda squadra di macellai. In equilibrio sulle grige teste gigantesche, attenti a non sfiorare il terreno nemmeno con la punta del piede, gli uomini con le asce scalzavano le zanne dalle loro sedi nelle ossa bianche. Era un lavoro delicato, perché un colpo d'ascia fuori posto, scheggiando la zanna, avrebbe grandemente diminuito il valore dell'avorio. E già avevano visto l'ufficiale dai jeans aderenti spaccare la mascella col calcio del kalashnikov a uno che si era limitato a non eseguire con la necessaria prontezza un suo ordine. Cosa avrebbe fatto a chi gli avesse rovinato una zanna? Così tutti lavoravano con grande attenzione. Man mano che staccavano le zanne, l'elicottero veniva a prenderli e li portava su un altro elefante. Al calar della notte la maggior parte dei bestioni erano morti o per le gravi ferite o per il colpo di grazia col kalashnikov, ma altri ancora strillavano e i loro barriti disperati si mescolavano all'abbaiare degli sciacalli e allo sghignazzare delle mute di iene accorse a rendere veramente raccapricciante la notte. I macellai con l'ascia continuarono a lavorare alla luce delle torce elettriche, sicché ai primi bagliori dell'alba tutto l'avorio era stato raccolto.Adesso potevano dedicarsi alla carne, allo scalco e alla dissezione delle carcasse. Ma il gran caldo li batteva sul tempo. La puzza della carne in putrefazione mista ai gas che uscivano dalle viscere lacerate si diffondeva per l'aria, portando al parossismo l'eccitazione dei branchi di iene e sciacalli che si aggiravano avidi tra i bestioni morti. Intanto l'elicottero continuava a fare la spola con i quarti macellati che trasportava ai margini del campo minato, dove le donne tagliavano la carne a strisce e l'affumicavano sui fuochi di legna verde. Mentre osservava il lavoro, l'ufficiale faceva i conti. Era un vero peccato non poter prelevare anche le pelli. Valevano mille dollari l'una, ma erano troppo ingombranti e non si poteva impedirne la putrefazione, che ne avrebbe azzerato il valore. Invece, una leggera putrefazione avrebbe conferito alla carne maggior pregio per i palati africani, esattamente come gli inglesi preferiscono la selvaggina un po' passata. Cinquecento tonnellate di carne: il peso sarebbe dimezzato con l'essiccazione, ma ugualmente nelle vicine miniere di rame dello Zambia, dove si concentravano decine di migliaia di lavoratori che dovevano essere nutriti, tutte quelle proteine sarebbero andate letteralmente a ruba. Il prezzo, già pattuito, era di due dollari al chilo per la carne semplicemente affumicata: in tutto faceva un milione di dollari USA. E poi, naturalmente, c'era l'avorio. L'avorio era stato accatastato dall'elicottero a un chilometro dal campo minato, in un anfratto tra le colline. Qui una scelta squadra di macellai provvedeva a rimuovere il nervo all'interno delle zanne, e a ripulirle completamente di qualunque particella di grasso o pelle che, marcendo, avrebbe potuto rivelare la natura del carico alle nari esercitate e sensibili di qualche doganiere orientale. Erano in tutto quattrocento zanne. Alcune di quelle che venivano da animali immaturi erano piccole, ma quelle del vecchio maschio, per esempio, sfioravano i cinquanta chili. La media si aggirava sui venti chili buoni. E siccome a Hong Kong il prezzo era di cento dollari al chilo, ne derivava un totale di ottocentomila dollari. Ecco che in una giornata di lavoro sulle rive dello Zambesi avevano ricavato qùasi due milioni di dollari, in un paese dove il reddito medio di un capofamiglia era inferiore a seicento dollari l'anno. Naturalmente l'operazione aveva avuto anche dei piccoli costi. Uno dei macellai era scivolato giù da una carcassa di elefante ed era atterratO sulle chiappe proprio sopra una mina antiuomo. "Figlio di un babbuino pazzo." L'ufficiale era ancora irritato per la stupidità di quell'uomo. Aveva causato l'interruzione del lavoro per quasi un'ora, il tempo di recuperare il corpo e seppellirlo. Un altro lavoratore aveva perso un piede per troppo zelo, vi-
brandoci sopra un colpo d'ascia; un'altra dozzina si erano procurati ferite più leggere coi panga. E un altro ancora era morto in seguito a un colpo di kalashnikov nella pancia allorché aveva avuto obiezioni da fare a ciò che l'ufficiale stava combinando con la più giovane delle sue mogli la notte prima, fra i cespugli, poco distante dai fuochi. Ma, a paragone dei profitti, quelle passività erano trascurabili. Il compagno commissario sarebbe stato soddisfatto, e con buona ragione. Era il mattino del terzo giorno quando la squadra dell'avorio terminò il suo lavoro con completa soddisfazione dell'ufficiale. Furono mandati ai falò ad aiutare nelle operazioni di affumicatura, lasciando deserto il magazzino a cielo aperto dell'avorio. Non dovevano esserci occhi in grado di scoprire l'identità dell'importante visitatore che stava per giungere a ispezionare il bottino. Arrivò in elicottero. L'ufficiale era sull'attenti, accanto alle lunghe file di zanne d'avorio scintillante. Il vento delle pale gli sollevò i lembi del giubbotto, e gli fece sbattere la tela dei jeans, ma egli mantenne rigidamente la posizione. La macchina volante atterrò e una imponente figura ne uscì. Un bell'uomo, dritto e forte, dai denti bianchissimi che spiccavano nel viso color mogano, dai ricci crespi tagliati a brevissima distanza dal cranio ben tornito. Indossava un vestito grigio-perla dall'aria costosa, di taglio italiano, sopra una camicia bianca e una cravatta blu. Le scarpe nere di vitello erano fatte a mano. Tese il palmo all'ufficiale. Immediatamente l'uomo più giovane abbandOnO la positura dignitosa e corse da lui come un bambino corre dal papà. "Compagno commissario!" "No! No!" corresse gentilmente l'ufficiale, sempre sorridendo. "Non più compagno commissario, ma compagno ministro ora!" Non più leader di un branco di pidocchiosi partigiani nella foresta, ma membro del governo di uno Stato sovrano." Il ministro si concesse un sorrisetto nell'ammirare le file di zanne scintillanti al sole. "E il più grande bracconiere su vasta scala che si sia mai visto nel mercato nero dell'avorio... non è così?"
Clay Mellow sbatté le palpebre quando il tassì sobbalzò sull'ennesimo tombino, sulla Quinta Avenue a New York, proprio davanti all'ingresso di Bergdorf Goodman. Come tanti altri tassì newyorchesi, anche questo aveva sospensioni più adatte forse a un carro armato Sherman. "Ho fatto un viaggio più comodo quando ho attraversato la depressione di Mbabwe in Land Rover" si disse Clay, ed ebbe un soprassalto di nostalgia ripensando a quella pista accidentata e tortuosa che traversava le terre inospitali a sud del fiume Chobe, un largo affluente del grande Zambesi dalle acque verdi. Tutto ciò però era lontano, molto lontano, e passato, irrimediabilmente passato. Mise da parte i ricordi e tornò a immergersi nel senso di diminuzione che provava all'idea di essere diretto in tassì a un pranzo di lavoro con il suo editore; un tassì, poi, che aveva dovuto chiamare personalmente. In altri tempi avrebbero mandato una limousine a prenderlo, e la destinazione sarebbe stata qualche grande ristorante come La Grenouille o il Four Seasons, e non una misera trattoria italiana del Village. Ma erano le sottili proteste che sapevano escogitare gli editori quando uno scrittore non produceva niente di niente da tre anni, e passava più tempo a dare direttive all'agente di Borsa e a spassarsela allo Studio 54 che alla macchina per scrivere. "Be', immagino di meritarmelo" si disse Clay con una smorfia, infilando la mano in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette prima di ricordarsi che aveva smesso di fumare. Invece si liberò la fronte dal ciuffo folto e nero e guardò in faccia i passanti sul marciapiede. C'era stato un tempo che aveva giudicato stimolante la
folla della metropoli dopo i silenzi della boscaglia africana: gli piacevano perfino le facciate fatiscenti e illuminate dalle scritte al neon sopra le vie cosparse di cartacce. Ma adesso si sentì soffocare dalla claustrofobia, e non vedeva l'ora di ammirare un cielo aperto al posto di quella striscia striminzita tra le cime dei grattacieli. Il tassì frenò di colpo, interrompendo i suoi pensieri, e il guidatore mormorò senza voltarsi: "Sedicesima." Clay tirò fuori una banconota da dieci dollari e l'infilò nella feritoia dello schermo di perspex antiproiettile che proteggeva il tassista dai suoi passeggeri. "Tenga" glidisse, e scese sul marciapiede. Vide subito il ristorante, un concentrato dei peggiori luoghi comuni (fiaschi di Chianti in vetrina e congeneri) del tipico italiano. Clay camminava bene, senza minimamente zoppicare, sicché nessuno, guardandolo, poteva sospettare la sua invalidità. Contrariamente a quello che temeva, all'interno il ristorante era fresco e pulito, e l'odore di cibo era appetitoso. Ashe Levy si alzò da un tavolino in fondo alla sala e lo salutò con grandi gesti. "Clay, baby!" Gli mise una mano intorno alla spalla e gli diede un paterno buffetto sulla guancia. "Ma che bell'aspetto che hai, vecchio segugio che non sei altro!" Ashe coltivava un suo peculiare stile eclettico. Portava i capelli a spazzola e gli occhiali con la montatura d'oro. Aveva la camicia a strisce, ma col colletto bianco, gemelli di platino coordinati alla spilla della cravatta e scarpe bucherellate. La giacca era di cachemire, col bavero stretto. I suoi occhi erano molto sbiaditi, e non guardavano mai direttamente quelli dell'interlocutore, ma un punto qualche centimetro a sinistra o a destra. Clay sapeva che, come marijuana, il suo editore fumava solo la migliore Tijuana Gold. "Bel posticino, Ashe. Come hai fatto a trovarlo?" "Mi sono scocciato del Seasons" sogghignò Ashe, astuto. Era contento che quel sintomo della sua disapprovazione fosse stato regolarmente colto. "Clay, voglio presentarti una signora di grande talento." Era seduta nell'ombra, in fondo al séparé, ma adesso si fece avanti e gli porse la mano. La lampada gliela illuminò: così, fu questa la prima impressione che Clay ebbe di lei. Era una mano sottile, dalle dita artistiche, e sebbene le unghie, tagliate corte e senza smalto, non denotassero una particolare sofisticazione, la carnagione aveva un'abbronzatura dorata su cui spiccavano turchinicce e aristocratiche le vene. L'ossatura era fine, ma alla base delle dita si riscontrava una certa qual callosità. Era una mano abituata a lavorare duro. Clay la prese e ne sentì tutta la forza, e la morbidezza della pelle asciutta del dorso, e le rugosità del palmo. Guardò in faccia la donna. Aveva delle spesse sopracciglia che descrivevano una curva ininterrotta da un angolo dell'occhio all'altro. E gli occhi, anche in quella fioca luce, erano verdi con pagliuzze d'oro ai bordi dell'iride. Il loro sguardo era candido e diretto. "Sally-Anne Jay" disse Ashe. "E questo è Clay Mellow." Il naso di lei era dritto ma leggermente grosso, e la bocca troppo larga per essere davvero bella. I folti capelli neri erano pettinati all'indietro, liberando l'ampia fronte. Il suo viso era abbronzato della stessa sfumatura al miele delle mani, e c'era qualche lentiggine graziosamente spruzzata sulle guance. "Ho letto il suo libro" disse la ragazza. La sua voce era ferma e chiara, il suo accento medio-atlantico, ma solo allorché ne udì il timbro Clay si accorse di quanto doveva essere giovane. "Penso che meriti tutto il successo che ha avuto." "E un complimento o una stroncatura?" chiese lui cercando di dirlo con leggera noncuranza: ma subito dopo si sorprese a sperare di non aver di fronte la solita fanatica che voleva dimostrare la
raffinatezza dei suoi gusti letterari denigrando il lavoro di uno scrittore popolare in faccia a lui. "No, no, è piaciuto anche a me" precisò la ragazza, e Clay se ne sentì assurdamente compiaciuto, anche se quell'affermazione sembrò chiudere l'argomento per quanto la riguardava. Per significarle il proprio piacere Clay le strinse un po' più forte la mano e la trattenne qualche attimo più del necessario, finché fu lei a ritirarla e a rimetterla in grembo. Così, non era una cacciatrice di scalpi, una sbrodolona. Era stufo delle groupies letterarie che cercavano di portarselo a letto. "Vediamo se ce la facciamo a farci pagare da bere da Ashe." suggerì, e si infilò nel séparé, di fronte a lei. Ashe fece la solita scena sulla lista dei vini, ma finì per ordinare del Frascati da dieci dollari. "Fruité" stabilì dopo averlo assaggiato con più mossette di un sommelier. "Fresco e liquido" sentenziò Clay, e Ashe sorrise ancora. Ricordavano benissimo entrambi il Corton Charlemagne del '70 che avevano bevuto l'ultima volta. "Più tardi arriverà un altro ospite" disse Ashe al cameriere. "Ordineremo quando viene." E rivolto a Clay: "Vorrei che Sally-Anne ti mostrasse qualcosa del suo lavoro." "Vediamo" invitò Clay, immediatamente sulla difensiva. Anche questa era una storia vecchia. Il mondo pullulava di gente che voleva salirgli in groppa... quelli che avevano un romanzo nel cassetto, quelli che ambivano amministrargli le succulente royalties, quelli che erano pronti a permettergli di scrivere la storia della loro vita dividendo i guadagni a metà, quelli che volevano vendergli un'assicurazione, o un paradiso nei Mari del Sud, quelli che volevano incaricarlo di scrivere copioni cinematografici in cambio di un piccolo anticipo e una percentuale ancora più piccola sui futuri incassi, tutti i tipi di sfruttatori e parassiti che si aggrappavano alla criniera del leone come iene. Sally-Anne tirò fuori una cartelletta rigida e la piazzò sul tavolo, davanti a Clay. Mentre Ashe spostava il faretto del séparé per illuminarla, Sally-Anne slegò il nastro e si accomodò di nuovo sulla sedia. Clay aprì la cartella e rimase fermissimo. Sentì la pelle d'oca formarglisi sugli avambracci, e i capelli rizzarglisi sulla nuca: era la sua reazione alla grandezza, a qualcosa di perfettamente bello. C'era, che gli faceva questo effetto, un Gauguin al Metropolitan Museum, davanti al Central Park: una Madonna polinesiana che portava il proprio Gesù Bambino sulla spalla. Gli aveva fatto venire la pelle d'oca e rizzare i capelli sulla nuca, come certi brani di poesia di T.S. Eliot e di prosa di Lawrence Durrell. Poi, le prime battute della Quinta Sinfonia di Beethoven, e quei balzi incredibili di Nureyev, i jetés; e i dritti di Nicklaus e Borg nei giorni giusti... E adesso anche quella ragazza gli faceva provare altrettanto! Era una fotografia. La carta era sabbiata, ogni dettaglio nitidissimo, i colori chiari e perfettamente veri. Era la foto di un elefante, un vecchio maschio. Guardava l'obiettivo con il caratteristico atteggiamento elefantino d'allarme: orecchie aperte come bandiere al vento. In qualche maniera, ritraeva l'intera vastità fuori del tempo di un continente, eppure era perplesso, e si sentiva che con tutta la sua grande forza era impotente, confuso da cose che superavano la sua esperienza e le tracce lasciate nel suo inconscio da generazioni e generazioni di antenati; si sentiva che stava per essere travolto dai mutamenti, proprio come l'Africa stessa. Con l'elefante, la foto mostrava l'Africa, la sua terra ricca e rossa segnata dal vento, cotta dal sole, spaccata dalla siccità. Clay ne sentiva quasi il sapore sulla lingua. E, su tutto, il cielo illimitato, con una promessa di soccorso: un cumulo di nuvole torreggiante co-
me una catena di montagne innevate, bordato di porpora e blu reale, forato da un singolo raggio di luce che dal sole celato cadeva come una benedizione sul vecchio elefante maschio. In un centesimo di secondo, quello dell'esposizione, ella aveva catturato tutto il senso e il mistero della sua terra natale: in uno scatto dell'otturatore aveva sintetizzato ciò che lui cercava invano e con pena di esprimere da mesi, mesi d'agonia, e stava ormai perdendo la speranza di riuscire a esprimere mai, e per paura di fallire non osava rimettersi alla macchina per scrivere. Bevve un sorso dell'insipido vino che gli era stato offerto per consolarsi della crisi di fiducia nella propria abilità che gli era piombata tutta d'un colpo sulle spalle: e per la prima volta si accorse che esso presentava un retrogusto tannico che precedentemente gli era sfuggito. "Di dov'è?" chiese alla ragazza senza guardarla. "Di Denver nel Colorado" rispose. "Ma mio padre è diplomatico e sono cresciuta a Londra, dove ho studiato." Ecco il perché dello strano accento. "Sono andata in Africa a diciott'anni, e me ne sono innamorata subito" aggiunse poi semplicemente per completare la storia della sua vita. A Clay occorse uno sforzo speciale per toccare la fotografia e voltarla con delicatezza a faccia in giù. La seguente raffigurava una giovane seduta su una roccia di lava nera vicino a una fonte nel deserto. Era una donna della tribù ovahimba, come mostrava l'acconciatura di cuoio a orecchie di coniglio. Allattava un bambino. La pelle della donna era lucida di grasso e dipinta con dell'ocra. I suoi occhi ricordavano l'affresco nella tomba di qualche faraone, ed era bella. "Denver, Colorado! Figuriamoci?" pensò Clay, e fu sorpreso dalla propria amarezza e dalla profondità del proprio improvviso risentimento. Come osava una dannata ragazzina straniera incapsulare così magistralmente il complesso spirito di una gente, con quel ritratto di giovane donna? Egli aveva vissuto fra gli africani tutta la vita, e non ne aveva mai visto uno con tanta chiarezza come in quel momento, in un ristorante italiano al Greenwich Village! Girò la fotografia con trattenuta violenza. Dopo c'era una foto scattata nella corolla magnifica, bruna e oro, di una kigelia africana fiorita, il fiore selvatico che Clay preferiva. Nelle lustre profondità del fiore si annidava un piccolo coleottero smeraldino, scintillante, iridescente. di un verde prezioso. Era una composizione perfetta di forme e colori, e Clay si accorse di odiare la donna, per essere riuscita a tanto. C'erano molte altre foto. Il ghigno di un soldato col kalashnikov in mano e al collo una sfilza di orecchie umane mummificate, una caricatura di selvaggia ferocia e arroganza; un'altra di uno stregone pieno di rughe, ritratto tra corni, perline, teschi e le altre spaventose insegne del suo commercio, con una paziente nuda fra le mani, sdraiata, a cui stava incidendo sulla pelle un tatuaggio che la striava tutta di rivoli di sangue simili a serpentelli. Era una donna giovanissima, la tatuava sul seno, sulla fronte e sulle guance. Aveva i denti appuntiti artificialmente come quelli di uno squalo, un rimasuglio dei tempi del cannibalismo, e gli occhi somiglianti a quelli di un animale sofferente sembravano contenere tutta la pazienza e lo stoicismo dell'Africa. C'era un'altra fotografia, contrastante, di bambini africani in una scuola di pali di legno e lamiera. Avevano un sillabario ogni tre, e tutti alzavano ansiosi la mano verso la maestra giovane e negra, con i visi accesi dalla passione di imparare. C'era tutto, una raccolta completa di speranze e disperazioni, abietta miseria e gran ricchezza, barbarie e tenerezza, elementi scatenati e fertilità infinita, dolore e gentilezza. Clay non riuscì a indursi a guardarla di nuovo, e continuò a sfogliare le foto mezzo rigide e attaccaticce assaporando ogni immagine e rimandando il momento del confronto con l'autrice. Clay si interruppe di colpo, impressionato da una composizione
particolarmente sensazionale. Si trattava di un campo di ossa spolpate. Aveva usato il bianco e nero, per aumentare l'effetto drammatico, ed ecco le ossa scintillare nel gran sole africano: ettari di ossa, grandi femori e tibie, secchi e candidi come rami, enormi costole come strutture di velieri naufragati, crani grandi come barili di birra con scure caverne per orbite. Clay pensò al leggendario cimitero degli elefanti, il mito dei vecchi cacciatori convinti che i pachidermi si ritirassero a morire in un luogo segreto. "Bracconieri" disse la ragazza. "Duecentottantasei carcasse." Clay alzò lo sguardo, stavolta, sbalordito dal numero. "In una volta sola?" domandò, e lei annuì. "Li hanno spinti su un campo minato." Involontariamente Clay rabbrividì e riguardò la foto. Sotto il tavolo, la sua mano corse lungo la coscia fino a incontrare la cinghia della gamba artificiale, e fu colto da un soprassalto di compassione per la sorte di quei grandi pachidermi. Ricordò il suo, di campo minato, e provò di nuovo l'impatto improvviso dell'esplosione sul piede, qualcosa di simile a un'immensa martellata. "Mi spiace" disse morbida la ragazza. "La sua gamba... Io so." "Si vede che ha fatto i compiti, eh?" disse Ashe. "Sta' zitto" pensò Clay furioso. "Perché non state un po' zitti tutti e due." Odiava che qualcuno parlasse della sua gamba. Se davvero la ragazza si era informata in precedenza su di lui, avrebbe dovuto saperlo... ma non era solo perché aveva nominato la gamba. Era anche per gli elefanti. Un tempo Clay aveva lavorato come ranger del ministero per la Conservazione della Fauna. Conosceva gli elefanti e aveva finito per amarli, e la prova di quel loro massacro lo faceva star male. Era orripilato. Il suo risentimento nei confronti della ragazza aumentò. Era lei che gli aveva inflitto quella visione, e adesso lui voleva vendicarsene: si trattava di un desiderio infantile di rappresaglia. Ma prima che potesse soddisfarlo arrivò l'ultimo ospite, che Ashe si diede a presentare verbosamente. "Clay, voglio farti conoscere un tipo veramente speciale." Tutte le presentazioni di Ashe contenevano una specie di fascetta pubblicitaria. "E Henry Pickering, nientemeno che vicepresidente anziano della World Bank. Se ascolti bene, vedrai che senti il rumore di tutti i miliardi di dollari che gli si agitano nella zucca. Henry, questo è Clay Mellow, il nostro ragazzo prodigio. E uno dei migliori scrittori mai prodotti dall'Africa, anche a mettere nel mazzo Karen Blixen. Ecco chi è!" "Ho letto il suo libro" annuì Henry. Era molto alto e sottile, prematuramente calvo. Indossava un vestito scuro da banchiere e una camicia candida; c'era qualche piccolo tocco di colore soltanto nella cravatta e negli occhietti azzurri ammiccanti. "Per una volta, Ashe, non hai esagerato! Baciò platonicamente le guance di Sally-Anne, si sedette, assaggiò il vino che Ashe gli aveva versato e respinse il bicchiere un po' più lontano da sé. Clay si sorprese ad ammirarne lo stile. "Cosa ne pensa?" chiese Henry Pickering a Clay, accennando con lo sguardo alla cartella di fotografie. "Gli piacciono da morire, Hénry" intervenne in fretta Ashe Levy. "Ne va proprio pazzo... dovevi vederlo quando ci ha dato la prima occhiata... da matti gli piacciono, da matti!" "Bene" disse a bassa voce Henry, osservando il volto di Clay. "Gli hai già spiegato il piano?" "Volevo servirglielo caldo caldo" scosse la testa Ashe Levy. "Ho preferito aspettare te." Si rivolse a Clay. "Si tratta di un libro" disse. "Sì, un libro: il titolo sarà L'Africa di Clay Mellow. Tu scriverai dell'Africa dei tuoi antenati, di quello che era e di quel che è diventata. Torni là e ti immergi nella realtà palpitante... parli con la gente e..." "Scusami" l'interruppe Henry. "Mi risulta che lei parla una delle due lingue principali... qual è, il sindebele, mi pare... o lo
zimbabwe?" "Fluentemente" rispose Ashe per Clay. "Come uno di loro." "Bene" annuì Henry. "E vero che ha molti amici, di cui alcuni ai vertici dell'attuale governo?" Ashe si intromise ancora. "Come no! Qualcuno dei suoi amiconi di una volta è diventato ministro dello Zimbabwe. Proprio al vertice-vertice, non si potrebbe salire più su." Clay abbassò lo sguardo sulla foto del cimitero degli elefanti. "Zimbabwe" non era ancora abituato al nuovo nome scelto dai vincitori negri. Per lui era ancora Rhodesia. Quello era il paese che i suoi antenati avevano diboscato con le asce, i picconi, e strappato alla barbarie con la mitragliatrice Maxim. La loro terra, come un tempo la sua... e, comunque si chiamasse, sempre la sua patria. "Sarà un lavoro di prima qualità, Clay, senza badare a spese, Puoi andare dove vuoi, parlare con chi vuoi, ci penserà la World Bank... pagano tutto loro.,," Ashe Levy galoppava, entusiasta, e Clay guardò Henry Pickering. "La World Bank si dà all'editoria?" domandò sardonicamente Clay. Mentre Ashe Levy stava per rispondere, Henry Pickering gli posò una mano sul braccio per zittirlo. "Parlerò un po' io, Ashe" disse. Aveva avvertito l'umore di Clay, e il suo tono era gentile e pacato. "La parte principale della nostra attività consiste in prestiti ai paesi sottosviluppati. Abbiamo investito quasi un miliardo di dollari nello Zimbabwe, e vogliamo proteggere l'investimento. Il nostro progetto è quello di trasformare questo piccolo paese africano in un esempio, da mostrare al mondo, di come possa aver successo un governo di negri. Pensiamo che il suo libro potrebbe darci una mano a raggiungere questo nostro scopo." "E queste?" Clay sfiorò la pila di fotografie. "Vorremmo che il libro avesse anche un impatto figurativo oltre che intellettuale. Pensiamo che Sally-Anne possa assicurarcelo." Clay tacque per parecchi secondi, sentendo il terrore serpeggiare nel profondo, dentro di sé, come qualche rettile ripugnante. Il terrore del fallimento. Quindi pensò che doveva competere con quelle tremende fotografie, e che non era facile produrre un testo che non scomparisse di fronte alle immagini colte dall'obiettivo di quella ragazza. C'era in gioco la sua reputazione, mentre lei non aveva niente da perdere. Le probabilità erano tutte a suo favore: non era un'alleata ma un'avversaria, e tutto il risentimento di prima gli tornò addosso, così forte da diventare quasi una specie di odio. Ella si era chinata verso di lui attraverso il tavolo: la luce dei faretti le brillava tra le ciglia lunghe incorniciando le palpebre truccate col verde. La bocca di lei tremava di impazienza, e sul labbro inferiore, come una perla piccolissima, scintillava una gocciolina di saliva. Anche nel suo stato di rabbia e timore, Clay si domandò che effetto potesse fare baciare quella bocca. "Clay" disse la donna "so fare anche meglio di così, se lei mi dà una possibilità. Ce la farei sicuramente, se lei mi desse questa possibilità. Per favore!" "Le piacciono gli elefanti?" le domandò Clay. "Le racconterò una storia di elefanti. C'era un vecchio elefante maschio che aveva una mosca nell'orecchio sinistro. Un giorno l'elefante passò su un ponticello malfermo. Quando arrivò dall'altra parte, la mosca urlò: "l'abbiamo fatto dondolare!"." Sally-Anne strinse le labbra e impallidì. Le ciglia nere presero a sbattere come ali di farfalla, e quando le lacrime traboccarono si ritirò dalla luce della lampada. Vi fu un silenzio, e durante quel silenzio Clay provò rimorso. Si sentì disgustato del suo stesso meschino sadismo. Si era aspettato che fosse una donna dura e combattiva, capace di rispondergli con qualche battuta altrettanto feroce. Non si era affatto aspettato delle lacrime. Voleva confortarla, dirle che non aveva parlato sul serio: voleva spiegarle le proprie paure e insicurezze, ma già lei stava racco-
gliendo le foto nella cartelletta. "Nel suo libro c'erano brani così commoventi, così appassionati. Come volevo lavorare con lei" disse piano la ragazza. "Ma naturalmente sono stata una sciocca a credere che lei fosse come il suo libro." Guardò Ashe. "Mi spiace, Ashe, non ho più fame." Ashe Levy si alzò in fretta. "Prenderemo un tassì insieme." disse. Poi a bassa voce a Clay: "Complimenti, bell'eroe, chiamami quando hai pronto il nuovo dattiloscritto." Seguì in fretta Sally-Anne. Mentre varcava la soglia, Clay le vide la silhouette delle gambe sotto la gonna. Erano lunghe e belle. Un attimo dopo era scomparsa. Henry Pickering giocherellava col bicchiere, studiando pensosamente il vino che conteneva. "Pipì pastorizzata di capra romana" disse Clay, accorgendosi di avere la voce malferma. Fece un cenno al sommelier e ordinò del Meursault. "Sarà meglio" commentò Henry. "Be', forse quella del libro non era una grande idea dopotutto, no?" Guardò l'orologio. "Meglio che ordiniamo." Parlarono d'altro: i debiti del Messico, l'assestamento della presidenza reaganiana, il prezzo dell'oro. Henry disse che l'argento aveva l'aria di voler salire più in fretta, e che ben presto, a suo parere, sarebbero tornati convenienti i diamanti. "Oggi come oggi comprerei azioni della De Beers, da tenere" consigliò. Una svelta biondina si avvicinò da un tavolo in mezzo alla sala mentre stavano prendendo il caffè. "Lei è Clay Mellow" lo apostrofò. "L'ho vista alla tele. Mi è piaciuto molto il suo libro. Per favore, mi fa l'autografo?" Mentre Clay firmava una copia del menù, la ragazza si chinò e schiacciò una tettina dura e calda contro la sua spalla. "Lavoro da Saks sulla Quinta, reparto cosmetici" sussurrò. "Può trovarmi là quando vuole." Se ne andò in un alone di costosi profumi sgraffignati. "Le manda via sempre?" chiese furbesco Henry. "L'uomo è fatto di carne e sangue" rise Clay, ed Henry insisté per pagare il conto. "Ho fuori la limousine" disse. "Posso accompagnarla." "Farò due passi per smaltire la pasta" replicò Clay. "Sa, Clay, credo che lei finirà per tornare in Africa. Ho visto come ha guardato quelle foto: come un affamato." "E possibile." "Il libro, il nostro interesse a farlo: c'è qualcosa di più di quantO Ashe abbia capito. Lei conosce i negri di laggiù. E questo che mi interessa. Le idee che ha espresso nel suo libro coincidono con ciò che pensiamo noi. Se decide di tornare là, mi chiami prima, potremmo scambiarci un favore lei e io." Henry salì sul sedile posteriore della Cadillac nera, e prima di chiudere la portiera disse: "Secondo me, quelle foto erano abbastanza buone, direi." Dopo di che fece cenno all'autista e l'auto partì.
Il Bawu era ormeggiato tra due yacht fatti in serie, un Camper and Nicholson di diciotto metri e un Hatteras convertibile, e ne reggeva abbastanza bene il confronto, anche se ormai aveva quasi cinque anni. Clay ne aveva fissato personalmente ogni vite. Si fermò ai cancelli della banchina a guardarlo, ma chissà perché quel giorno le sue linee non gli davano la consueta soddisfazione. Lo chiamarono dall'ufficio. "Ci sono state un paio di telefonate per lei, Clay" disse la ragazza. "Usi pure questo telefono se vuole." Guardò i bigliettini che gli erano stati porti. Uno era del suo agente di Borsa, segnato "urgente" , e l'altro di un redattore letterario di un quotidiano del Middle West. Non ce n'erano stati trop-
pi, di messaggi di questo secondo tipo, negli ultimi tempi. Prima telefonò all'agente di Borsa. Avevano venduto a cinquecento dollari i certificati aurei Mocatta che a suo tempo aveva comprato a trecentoventi all'oncia. Diede all'agente l'incarico di versare il denaro su un conto provvisorio. Poi chiamò l'altro numero. Mentre attendeva la comunicazione, la ragazza alla scrivania cominciò ad agitarsi senza plausibili motivi, frugando qua e là e piegandosi a prendere qualcosa nell'ultimo cassetto in maniera da offrire a Clay un esauriente panorama di ciò che aveva nella scollatura. Il redattore rispose. Voleva sapere quando usciva il suo nuovo libro. "Che libro?" pensò amaramente Clay, ma rispose: "Non sappiamo ancora con precisione la data, ma siamo al lavoro" " disse. "Nel frattempo, vuole un'intervista?" "Grazie, ma aspetteremo la pubblicazione, signor Mellow." "Aspetterete un pezzo, allora" , pensò Clay, e quando riappese la ragazza lo guardò con un sorriso luminoso. "Stasera la festa è sul Firevvater." Tutte le sere dell'anno c'era una festa sull'uno o l'altro yacht. "Lei ci viene?"Clay guardò la ragazza. Non doveva essere male, senza occhiali. Che diavolo! Aveva appena guadagnato un quarto di milione con l'oro e fatto una figuraccia al ristorante. "Preferisco fare una festa mia personale sul Bawu" disse. "Per due." Era stata una brava ragazza, paziente, e il suo momento era giunto. Il viso di lei si illuminò e Clay capì di averci azzeccato. Era proprio carina. "Io qui finisco alle cinque." "Lo so" disse lui. "Vieni subito." "Frustane una e fa' contenta l'altra" , pensò. Avrebbe dovuto sentirsi in pareggio, ma naturalmente così non era.
Clay giaceva sul dorso, coperto dal lenzuolo, sulla vasta cuccetta, ascoltando i rumorini della notte: lo sciabordio delle ondine, lo scricchiolio dei pneumatici schiacciati tra le barche, lo sbattere delle drizze sull'albero. Dall'altra parte del bacino d'acqua la festa sul Firevvater era ancora in pieno svolgimento: sentì un tuffo seguito da risate di ubriachi, evidentemente avevano buttato in acqua qualcuno. Al suo fianco la ragazza dormiva con soavi sospiri. Si era dimostrata esperta e calda, ma nonostante ciò Clay continuava a essere nervoso e insonne. Aveva voglia di salire sul ponte, ma in quel modo avrebbe svegliato la ragazza che, ne era certo, si sarebbe data di nuovo da fare, e lui non ne poteva più. Così restò coricato e ripensò alle immagini fotografiche di Sally-Anne, come in una lanterna magica mentale: e queste ne fecero scattare delle altre, sepolte da tempo nei più oscuri recessi della memoria, che ora però gli tornarono vivide e fresche davanti agli occhi della mente, accompagnate dagli odori, dai gusti, dai rumori dell'Africa. Invece deglj schiamazzi degli yachtsman sbronzi, riudì i tamburi indigeni sulle rive del Chobe nella notte; al posto delle acque inquinate dell'East Rìver annusò l'odore delle gocce di pioggia tropicale sulle argille cotte dal sole, e, preso da un attacco dolceamaro di nostalgia, non dormì nemmeno quella notte. La ragazza insisté per preparargli la colazione. Lo fece con abilità di gran lunga minore di quella erotica che aveva manifestato, e quando se ne fu andata gli ci volle quasi un'ora per rimettere tutto a posto. Poi salì di sopra. Tirò le tende per non essere distratto dai movimenti sulla banchina e, seduto alla scrivania, si mise a lavorare. Rilesse le ultime dieci cartelle e si accorse che era una fortuna se riusciva a salvarne due. Si mise all'opera, ma i personaggi recalcitravano e dicevano trite asinerie. Dopo un'ora si girò a prendere il dizionario dei sinonimi dallo
scaffale dietro la sua sedia. Aveva bisogno di cambiare una parola. "Buon Dio, perfino io so che nella vita nessuno dice "pusillanime" " " brontolò aprendo il volume. Ne uscì una vecchia lettera. Segretamente contento di prendersi un attimo di tregua, la aprì e con qualche soprassalto vide che si trattava della lettera d'una ragazza che si chiamava Janine, una che aveva condiviso con lui l'agonia delle ferite di guerra, che aveva intrapreso con lui il lungo e lento viaggio verso la guarigione, che era stata al suo fianco quando aveva ricominciato a camminare dopo aver perso la gamba, che era stata al timone quando, a bordo del Bawu, avevano incontrato la prima bufera atlantica. Era una ragazza che aveva amato e che era stato sul punto di sposare, ma ora faceva fatica perfino a ricordare il suo viso. Janine gli aveva scritto quella lettera da casa sua, nello Yorkshire, tre giorni prima di sposare il veterinario che lavorava quale giovane socio nell'allevamento di suo padre. Rilesse lentamente la lettera, tutte le dieci pagine di essa, e si rese conto di quanto aveva nascosto a se stesso. Janine era amara solo a tratti, ma qui e là ciò che gli scriveva lo colpiva nel vivo. "... sei stato un fallito così a lungo che l'improvviso successo ti ha dato alla testa..." Controllò l'affermazione. Cos'altro aveva fatto a parte il libro, quell'unico libro? Aveva ragione lei. "... eri così innocente e gentile, Clay, così amabile alla tua maniera da ragazzino goffo. Per questo volevo vivere con te, ma via dall'Africa ti sei inaridito dentro, hai cominciato a essere duro e cinico... "... Ti ricordi il nostro primo incontro, o quasi il primissimo, quando ti ho detto: "Sei un bambino viziato che distrugge tutto ciò che val la pena di conservare"?... Be', è vero, Clay. Hai distrutto il nostro rapporto. Non parlo delle altre, le bambole, le cacciatrici di scalpi letterari senza elastico nelle mutande; voglio dire che hai smesso di tenerci. Lasciati dare un consiglio gratis: non distruggere anche l'unica cosa che tu abbia mai fatto bene, non smettere di scrivere, Clay. Sarebbe un vero peccato..." Ricordò come aveva alzato le spalle leggendolo la prima volta. Adesso non le alzava più: aveva troppa paura. Stava capitandogli sul serio quello che lei gli aveva predetto. "Io ti ho amato davvero, Clay, non di colpo, ma a poco a poco. Hai dovuto mettercela proprio tutta per distruggere il mio sentimento. Io non ti amo più, Clay. Dubito che amerò mai un altro uomo, compreso quello che sabato sposerò: ma tu mi piaci, e mi piacerai sempre. Ti auguro ogni bene, ma attento al tuo nemico più implacabile: te stesso." Clay ripiegò la lettera. Aveva voglia di bere. Scese e si versò un Bacardi, una buona dose con poco succo di lime. Bevendolo, rilesse la lettera e stavolta una frase lo colpì: "... via dall'Africa ti sei inaridito dentro... la comprensione, la genialità si sono seccate in te...." "Sì" sussurrò. "Mi sono inaridito. Tutto mi è seccato dentro." All'improvviso la sua nostalgia divenne il dolore insopportabile di chi vuole tornare a casa. Aveva smarrito la via, la fonte che era in lui si era esaurita, e voleva tornare alla sorgente. Strappò la lettera in tanti pezzettini e li gettò nell'acqua sporca del porto, posò il bicchiere e scese per la passerella sulla banchina. Non voleva rivedere la ragazza dell'ufficio, così telefonò usando la cabina pubblica vicino ai cancelli del porto. Fu più facile di quello che si aspettava. La centralinista gli passò subito la segretaria di Henry Pickering. "Non so se il signor Pickering è libero. Chi parla, prego?" "Clay Mellow." Pickering rispose quasi immediatamente. "C'è un vecchio proverbio dei matabele che dice: "Chi ha bevuto le acque dello Zambesi dovrà tornare a berle" " esordì Clay. "Dunque ha sete" disse Pickering. "Mi pareva, infatti."
"Ha detto di chiamarla, prima di tornare laggiù." "Sì, faccia un salto da me." "Oggi?" chiese Clay. "Ehilà, che fretta, giovanotto! Mi faccia un po' guardare sull'agenda... che ne dice delle sei di stasera? E il primo buco che ho."
L'ufficio di Henry era al ventiseiesimo piano e dalle sue alte finestre si scorgevano i profondi crepacci delle avenue sbucanti sul verde rigoglioso di Central Park, in fondo. Henry versò a Clay un whisky and soda e glielo portò alla finestra. Restarono li a guardare le budella della città bevendo in silenzio, mentre la grande palla rossa del sole imporporava il tramonto iniettando inquietanti tenebre tra i grattacieli. "Credo sia tempo di parlare chiaro" disse alla fine Clay." Mi dica cosa vuole da me in realtà." "Forse ha ragione" ammise il banchiere. "Il libro non è che un pretesto. Benché personalmente mi sarebbe piaciuto vedere il suo testo accanto a quelle belle fotografie..." Clay fece un piccolo gesto d'impazienza e Henry proseguì. "Deve sapere che io sono il vicepresidente incaricato della situazione africana." "Ho letto la targhetta sulla porta" annuì Clay. "Contrariamente a ciò che pensa molta gente, noi non siamo un'istituzione di beneficenza, ma un baluardo del capitalismo. L'Africa è un continente di Stati economicamente molto fragili. Con le ovvie eccezioni del Sudafrica e dei paesi produttori di petrolio al nord, si tratta sostanzialmente di società agricole di pura sussistenza, senza un'ossatura industriale e con pochissime risorse minerarie. Clay annuì un'altra volta. "Alcuni, fra i paesi di recente indipendenza, hanno mantenuto i benefìci delle infrastrutture create in epoca coloniale dai residenti bianchi, mentre gran parte degli altri, per esempio Zambia, Tanzania e Mozambico, sono già riusciti a impantanarsi nel caos della letargìa, o delle fantasie ideologiche. Sarà difficile salvarli." Henry scosse tristemente la testa e assomigliò ancor di più a un impresario di pompe funebri. "Ma con altri paesi come lo Zimbabwe, il Kenya e il Malawi, abbiamo una grossa chance: il sistema funziona ancora. Le fattorie non sono state totalmente decimate e date in pasto a orde di contadini abusivi, le ferrovie vanno, e la bilancia commerciale può giovarsi di qualche esportazione di rame e cromo e degli introiti del turismo. Con un po' di fortuna siamo in grado di tenere questi paesi a galla." "E che ve ne importa?" chiese Clay. "Non ha appena detto che la World Bank non è un istituto di beneficenza?" "Il fatto è che se non li sfamiamo noi, presto o tardi dovremo combatterli, ecco tutto. Se cominciassero a morire di fame, non indovina in quali grosse grinfie rosse finirebbero per cadere?" "Capisco. Non mi pare insensato" disse Clay sorseggiando il suo whisky. "Tornando per un momento coi piedi per terra" proseguì Henry , "i paesi sulla nostra lista presentano un aspetto sfruttabile: niente di tangibile come l'oro, ma molto più prezioso. Esercitano infatti una potente attrattiva nei confronti dei turisti occidentali. Se vogliamo sperare di rivedere i miliardi che ci abbiamo investito, conviene assicurarci che queste attrattive turistiche restino." "E come fate?" domandò Clay. "Prendiamo il Kenya, per esempio" suggerì Henry. "C'è il sole, c'è il mare, d'accordo; ma così come in Grecia e in Sardegna, che sono molto più vicine a Parigi o a Berlino. Ciò che il Mediterraneo non ha e l'Africa invece ha è la fauna africana. E per essa che i turisti si sobbarcano tutte quelle ore di volo in più, e sono i loro dollari che ci pagano gli interessi."
"Okay, ma non ho ancora capito che c'entro io" si accigliò Clay. "Un momento e ci arrivo" disse Henry. "Ma mi lasci prima completare il quadro generale. Il fatto è che, disgraziatamente, la prima cosa che il negro africano vede appena conquistata l'indipendenza dopo la fuga dei bianchi è il valore venale dell'avorio, del corno e della carne. Un solo rinoceronte o elefante per un africano rappresenta una ricchezza che egli non può sperar di guadagnare onestamente nemmeno in dieci anni di lavoro. Per cinquant'anni la fauna è stata protetta dalle leggi coloniali, che preservavano questa meravigliosa ricchezza; ma, adesso che i bianchi sono scappati in Australia o in Sudafrica, uno sceicco arabo è pronto a sborsare venticinquemila dollari per un pugnale dall'impugnatura di vero corno di rinoceronte, e i guerriglieri vittoriosi dei paesi africani hanno ancora in mano i kalashnikov. E tutto molto logico." "Sì, ho visto" annuì Clay. "E successa la stessa cosa in Kenya. Il bracconaggio era un grossissimo affare, ed era diretto dal vertice: il vero e proprio vertice. Ci sono voluti quindici anni, e la morte di un presidente, per metter fine a quell'andazzo. Adesso il Kenya ha le leggi venatorie più restrittive dell'Africa: e, cosa ancora più importante, vengono fatte rispettare. Abbiamo dovuto usare tutta la nostra influenza. Perfino minacciare di tagliare i fondi, ma adesso il nostro investimento è ben protetto." Henry ebbe per un attimo l'aria soddisfatta, poi la naturale tristezza lo sopraffece di nuovo. "Esattamente la stessa strada dobbiamo intraprendere oggi nello Zimbabwe. Ha visto le foto del macello sul campo minato. Lo rifaranno, e ancora una volta noi sospettiamo che il responsabile sia altolocato. Bisogna fermarlo." "Ma io non ho ancora capito che c'entro." "Ho bisogno di un agente sul campo. Un uomo esperto, che magari abbia già lavorato nel ramo; uno che parli la lingua locale, e che abbia motivo di girare e far domande: magari uno scrittore che stia facendo ricerche per il suo nuovo libro e abbia contatti nelle alte sfere governative. Naturalmente, se il mio agente gode di fama internazionale, avrà più porte aperte, e se poi è un segnalato esponente del sistema capitalistico e crede sinceramente in ciò che facciamo, allora sarà più che mai efficace." "Io, James Bond?" "No, investigatore sul campo della World Bank. Lo stipendio è quarantamila dollari all'anno, più le spese e un sacco di soddisfazioni implicite nel lavoro: e se non ci sarà un bel libro alla fine di tutto ciò, le pagherò una cena alla Grenouille col vino scelto da lei." "Come ho detto all'inizio, Henry... perché non lasciamo perdere le chiacchiere e non mi dici proprio tutto?" Fu la prima volta che Clay sentì Henry ridere. Era una risata veramente contagiosa, calda, di gola. "E va bene. Diamoci del tu. Hai ragione, Clay, c'è dell'altro. Non voglio farla tanto complicata, ma prima aspetta che ci facciamo un altro goccio." Andò a ricaricare il bicchiere di whisky nel mobile-bar, ricavato in un antico mappamondo, e mentre ci metteva il ghiaccio continuò a parlare. "Per noi è vitale avere sempre il quadro completo di ciò che si muove sott'acqua in tutti i paesi dove interveniamo. In altre parole, abbiamo bisogno di un efficace servizio d'informazioni. La rete di cui disponiamo nello Zimbabwe non è affatto efficiente come desideriamo. Ultimamente abbiamo perso un uomo: incidente automobilistico, almeno in apparenza. Prima di morire ci aveva dato un'informazione: aveva udito voci di un imminente colpo di Stato appoggiato dai russi." Clay sospirò. "Noialtri africani non riponiamo più molte speranze nelle urne. Le sole cose che contano sono la forza e la lealtà tribale. Un colpo di Stato ha più senso che affidarsi ai voti." "Allora, ci stai?" chiese Henry. "Nelle spese sono compresi i biglietti d'aereo di prima classe?"
domandò Clay furbescamente. "Ogni uomo ha il suo prezzo: questo è il tuo?" replicò Henry. "Non sono così a buon mercato" scosse la testa Clay "ma non mi va che un fantoccio sovietico spadroneggi sulla terra dov'è sepolto il mio piede. Ci sto." "Lo pensavo." Henry gli porse la mano. Era fredda e sorprendentemente forte. "Ti manderò alla barca un fattorino con un dossier e un kit d'emergenza. Leggi il dossier e rimandamelo col fattorino, tieni il kit." Il kit d'emergenza di Henry Pickering conteneva un assortimento di tessere stampa, una tessera TWA dell'Ambassadors Club, che distingue i vIP, una carta di credito illimitata della World Bank, e un distintivo a forma di stella in metallo smaltato, in un astuccio di pelle, col marchio "Inviato della World Bank." Clay lo soppesò nel palmo. "Con questo si dovrebbe riuscire a spaccare la testa a un leone mangiauomini" , pensò. "Non vedo a cos'altro possa servire." Il dossier era di gran lunga più interessante. Quando finì di leggerlo, comprese che il cambiamento di nome da Rhodesia a Zimbabwe era probabilmente il minore tra quelli che avevano mutato faccia alla sua terra natale da quando l'aveva abbandonata pochianni prima.
Clay portò lentamente la Volkswagen che aveva noleggiato sopra le dolci colline coperte d'erba dorata, tenendo il piede leggero sull'acceleratore. La ragazza matabele, all'ufficio Avis dell'aeroporto di Bulavvayo, l'aveva avvertito: "Il serbatoio è pieno, signore, ma non so quando potrà riempirlo di nuovo. C'è pochissima benzina nel Matabeleland." Anche in città aveva visto coi suoi occhi le lunghissime code ai distributori, e il padrone del motel aveva messo in guardia Clay quando aveva firmato il registro delle presenze e preso la chiave del suo bungalow. "I ribelli mozambicani continuano a sabotare l'oleodotto che arriva qui dalla costa orientale. Il guaio è che, appena oltre il confine, i sudafricani guazzano nella benzina e ce la venderebbero molto volentieri, ma i nostri intelligentoni al potere non vogliono la benzina dei razzisti, così tutto il paese si ferma. Peste colga i politici e i loro sogni! Per esistere abbiamo da trattare con loro, ed è tempo che accettino questo semplice fatto." Così adesso Clay guidava con attenzione, ma gli piaceva anche molto andar piano. Gli dava modo di esaminare il paesaggio familiare, e riscontrare i cambiamenti che pochi anni erano bastati ad apportargli. Una trentina di chilometri fuori città lasciò la strada asfaltata e imboccò la pista gialla sterrata che portava a nord. Dopo un altro paio di chilometri arrivò al cancello e vide che pendeva scardinato e aperto. Era la prima volta che lo vedeva in quelle condizioni. Parcheggiò e cercò di chiuderselo dietro, ma era tutto arrugginito. Non si muoveva neanche. Desistette dall'impresa e uscì dalla pista alla ricerca del cartello abbattuto. Era stato sradicato e scagliato per terra. Giaceva, se così si può dire, a pancia in su: la scritta era ancora leggibile, benché sbiadita dal sole: ALLEVAMENTO DI TORI Di RAZZA AFRIKANDER QUI NACQUE BALLANTYNE ILLUSTRIOUS IV GRANDE CAMPIONE DEI CAMPIONI PROPRIETARIO: JONATHAN BALLANTYNE. Clay ebbe una vivida i mmagine mentale della gran bestia rossa dalla groppa bozzuta, con le pieghe del ventre oscillanti sotto la gran mole, con la rosetta del campione sulla guancia e l'anello al
naso. Suo nonno materno, Jonathan "Bawu" Ballantyne, con quello lo tirava orgoglioso per le narici lucide e stillanti. Clay tornò alla Volkswagen e la portò fra l'erba un tempo folta, dorata e dolce, ma oggi rada e spelacchiata, tra cui la nuda terra traspariva come la zucca pelata di un uomo di mezza età. Le condizioni dell'erba lo addoloravano. Mai, neppure nei quattro anni di siccità dei Cinquanta, l'erba di King's linn era stata tanto trascurata, e Clay non riuscì a capacitarsi della ragione finché non arrivò accanto a una macchia di pungicammello che ombreggiava la pista. Quando spense il motore sentì i belati fra le piante e stavolta fu davvero scandalizzato. "Capre!" disse a voce alta. "Allevano capre a King's linn!" Chissà come si contorceva lo spettro di Bawu Ballantyne. Capre sulla diletta erba della sua diletta prateria. Clay andò a vederle. Era un gregge di duecento o più. Alcuni degli agili animali multicolori si erano arrampicati sugli alberi e brucavano foglie e fiori, mentre alla base del tronco altri rasavano tutto quello che cresceva, per cui in breve l'albero sarebbe morto e il terreno sarebbe diventato sterile. Clay aveva visto la devastazione seminata da quell'animale nei territori assegnati alle tribù. Col gregge c'erano due ragazzi matabele, nudi. Rimasero deliziati quando Clay gli si rivolse nella loro lingua. Si ficcarono in bocca i canditi che Clay si era portato dietro apposta e si misero a chiacchierare senza inibizioni. Sì, adesso c'erano trenta famiglie a King's linn, e ogni famiglia aveva il proprio gregge di capre, le migliori caprette del Matabeleland, si vantarono a bocca piena. Sotto gli alberi un vecchio caprone cornuto stava montando una giovane capretta con vigorosi colpi di reni. "Guarda" gridarono i pastorelli "come gli piace moltiplicarsi! Presto avremo più capre di tutte le altre famiglie." "Cos'è successo ai bianchi che abitavano qua?" domandò Clay. "Sono andati via!" glidissero con orgoglio. "I nostri guerrieri li hanno ricacciati da dove son venuti e ora la terra appartiene ai figli della rivoluzione." Avevano sei anni, ma già sapevano a memoria il catechismo della rivoluzione. Ogni ragazzino aveva al collo una fionda fatta con vecchie camere d'aria, e attorno alla vita una sfilza di uccelli che aveva cacciato con quella: allodole e uccelli canterini dai bei colori vivaci. Clay sapeva che, a mezzogiorno, li avrebbero cotti su un letto di braci, limitandosi ad aspettare che le penne fossero tutte bruciate sfrigolando, per poi divorare con appetito le piccole carcasse annerite. I pastorelli seguirono Clay fin sulla strada, gli chiesero un altro pezzo di candito e lo salutarono come un vecchio amico. Nonostante le capre e gli uccellini, Clay provò di nuovo una ondata di travolgente affetto per quella gente. Dopotutto era la sua gente ed era bello trovarsi di nuovo a casa. Si fermò un'altra volta sulla cima della collina e guardò giù. Ecco la casa. I prati non c'erano più, perché nessuno li curava e sulle aiuole erano passate le capre. Anche a quella distanza, Clay riuscì a vedere che la casa era disabitata. Le finestre erano rotte e presentavano buchi neri come dei denti mancanti, e la maggior parte dei fogli di asbesto che costituivano il tetto erano stati rubati. Le travi erano nude e scheletriche. Le lastre di asbesto erano state adoperate per costruire capanne abitate dagli abusivi vicino alle stalle. Clay scese dalla collina e parcheggiò vicino al serbatoio dell'acqua. La cisterna era vuota e mezzo ingombra di sporcizia e terra. La superò verso l'accampamento degli occupanti abusivi. Vivevano lì una mezza dozzina di famiglie. Clay disperse i cani che gli si fecero attorno con pochi sassi ben tirati, poi salutò il vecchio seduto accanto a uno dei fuochi. "ti vedo, vecchio padre." Ancora una volta la sua padronanza della lingua fece sensazione. Sedette accanto al fuoco per
un'ora, chiacchierando col vecchio matabele, mentre le parole gli si presentavano sempre più prontamente alla lingua e l'orecchio si aggiustava al ritmo e alle sfumature del sindebele. Accanto a quel fuoco imparò più di quello che aveva saputo in quattro giorni da quando era arrivato nel Matabeleland. "Ci avevano detto che dopo la rivoluzione ogni uomo avrebbe avuto una bella macchina, e cinquecento capi del miglior bestiame dell'uomo bianco." Il vecchio sputò nel fuoco. "Gli unici che hanno la macchina sono i ministri del governo. Ci avevano detto che avremmo avuto sempre la pancia piena, ma adesso la roba da mangiare costa cinque volte più di prima. Da quando Smith e gli altri bianchi sono scappati via, tutto costa cinque volte di più, zucchero, sale, sapone, tutto." Durante il regime bianco, un rigidissimo controllo della bilancia commerciale e un ferreo calmiere avevano risparmiato al paese i peggiori effetti dell'inflazione, ma adesso stavano sperimentando tutte le gioie del rientro nella comunità internazionale. Il denaro locale si era già svalutato del venti per cento. "Non possiamo permetterci il bestiame" spiegò il vecchio. così alleviamo capre. Capre!" Sputò un'altra volta nel fuoco e guardò friggere il catarro. "Capre! Come quei mangiamerda degli shona." L'odio tribale friggeva come il suo sputo. Clay lo lasciò che borbottava incupito accanto al fuoco che fumava e andò verso la casa. Salendo i gradini che portavano sull'ampia veranda frontale, ebbe come l'impressione che presto il fantasma di suo nonno sarebbe saltato fuori ad accoglierlo con qualche sarcasmo. Con gli occhi della mente rivide il vecchio, alto e dritto con fitti capelli d'argento, pelle come cuoio ritinto e gli occhi dei Ballantyne, impossibilmente verdi, davanti a lui.