I Figli Di Dune

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Frank Herbert I figli di Dune (Children of Dune, 1976) Traduzione di Giampaolo Cossato e andro Sandrelli

PREMESSA Il pianeta Arrakis, chiamato anche Dune, è un mondo desertico dove la vita sopravvive tra condizioni ostilissime. Tutti gli usi dei suoi abitanti, i Fremen, s'imperniano sull'elemento più raro e prezioso, l'acqua. Per affrontare il deserto, i Fremen indossano un abito speciale, che recupera tutta l'umidità del loro corpo: la tuta distillante. I giganteschi vermi delle sabbie e le furiose tempeste costituiscono una costante minaccia. L'unica risorsa di Dune è il melange: una droga prodotta dai vermi che prolunga la vita umana. PAUL ATREIDES è figlio del duca Leto, feudatario, cioè imprenditoreproprietario, di Dune. Quando il duca Leto viene ucciso nella guerra con la casa rivale degli HARKONNEN, Paul fugge nel deserto con la madre, LADY JESSICA. Jessica appartiene all'ordine scientifico-religioso delle Bene Gesserit: una società di sole donne, votate alle discipline mentali e al controllo delle stirpi genetiche. Secondo il Bene Gesserit, dalla linea genetica degli Atreides potrebbe nascere un individuo dai poteri parapsicologici eccezionali, lo Kwisatz Haderach, risultato finale del loro programma genetico. DUNCAN IDAHO, capo della guardia del duca Leto, muore per salvare Paul e Jessica, che infine sono accolti dai Fremen. Lady Jessica dà alla luce la figlia postuma del duca, ALIA, la quale fin dalla nascita manifesta caratteristiche anomale: possiede tutti i ricordi di un adulto, poiché quando era ancora nel grembo materno ha assorbito una dose elevata di droga di melange. Paul e Jessica diventano due Fremen, e Paul sposa una ragazza, CHANI, appartenente alla tribù dei Fremen che li ha raccolti. Negli anni successivi, i Fremen organizzano una guerriglia contro gli Harkonnen e le truppe fedeli dell'Imperatore i Sardaukar. Con truppe scelte Fremen, Paul riesce a sopraffare l'imperatore Shaddam e a ottenere un trattato che gli

permetterà di succedergli nell'impero, sposando la principessa IRULAN. Con la salita di Paul Atreides al trono, si conclude il primo volume della trilogia: Dune. Il secondo volume, Messia di Dune, inizia a dodici anni di distanza. I Fremen hanno conquistato i mondi della galassia che non avevano accettato Paul come imperatore, e con i proventi dell'impero si dà inizio a un vasto programma ecologico per trasformare in giardino il deserto di Arrakis. Ma sia su Dune che nel resto dell'impero si levano gruppi di potere ostili a Paul: le Bene Gesserit, che non tollerano di essere relegate in posizione secondaria; la casa imperiale di Corrino a cui apparteneva il precedente imperatore, e gli stessi Fremen, i quali vedono che il progetto di trasformare in giardino Dune sta sovvertendo le loro tradizioni. Il piano per distruggere Paul fa perno sull'affetto che lega Paul a Duncan Idaho, il cui corpo, preservato dai Sardaukar pochi minuti dopo la morte, ora ospita una personalità «artificiale» ricreata dagli scienziati del pianeta Tleilax. Paul Atreides riesce a sventare la congiura, ma Chani muore dando alla luce due gemelli, Leto e Ghanima, e Paul, secondo l'uso Fremen, si dirige verso il deserto per morirvi. La reggenza viene data ad Alia, che la amministra in nome dei due gemelli. Con la scomparsa di Paul nel deserto ha termine Messia di Dune.

Gli insegnamenti di Muad'Dib sono diventati la palestra di svago dei pedanti, dei superstiziosi e dei corrotti. Egli insegnò un sistema di vita equilibrato, una filosofia per mezzo della quale un essere umano avrebbe potuto affrontare i problemi che nascono da un universo in perenne mutamento. Egli disse che l'umanità si sta ancora evolvendo, in un processo che non terminerà mai. Egli disse che questa evoluzione procede secondo princìpi di mutamento che sono conosciuti soltanto all'eternità. Come può un modo di ragionare corrotto baloccarsi con una simile quintessenza di verità? – Parole del Mentat Duncan Idaho

Una macchia di luce comparve sul folto tappeto rosso che ricopriva il pavimento della caverna. La luce ardeva senza una fonte apparente, sembrava esistere soltanto sulla superficie del rosso tessuto di fibre di spezia intrecciate. Un piccolo disco incandescente, di circa due centimetri di diametro, che vagava qua e là deformandosi sempre più in prospettiva... Diventò un ovale allungato, sfiorò il bordo di un letto, balzò in alto, increspandosi sulla superficie irregolare. Sotto la coperta verde dormiva un ragazzo dai capelli fulvi, il volto ancora tondo e grassoccio come quello d'un bimbo, una bocca ampia e carnosa – una figura alla quale mancava l'asciuttezza tipica dei Fremen, pur senza essere gonfia d'acqua come un abitante dei mondi esterni. Quando la luce lo colpì sulle palpebre chiuse, il fanciullo si agitò. La luce si spense. Restò soltanto l'ansito regolare del dormiente e, più debole, sullo sfondo, il rassicurante gocciolio dell'acqua, proveniente da una trappola a vento molto in alto, sopra la caverna, che lentamente riempiva una vasca di raccolta. Ancora una volta la luce comparve nella camera: più intensa e irrequieta. Ora suggeriva l'esistenza di una sorgente e di un movimento concreto collegato ad essa: una figura incappucciata aveva riempito l'arco della porta, a un'estremità della caverna, e la luce si originava da lì. Ancora una volta il disco luminoso frugò rapidamente la stanza, balzando qua e là e soffermandosi, indagatore. Vi era una sensazione di minaccia, in esso, un'irrequieta insoddisfazione. Evitò il fanciullo addormentato, percorse lentamente la griglia d'aerazione, in alto, esplorò un rigonfiamento tra le pieghe dei tendaggi verdi e dorati che ammorbidivano la scabra compattezza delle pareti di roccia. Un attimo dopo, la luce si spense. La figura incappucciata si mosse,

tradendo la sua presenza con un fruscio di vesti, e prese posizione appiattendosi su un lato dell'arcata. Chiunque fosse al corrente della quotidiana routine, lì a Sietch Tabr, avrebbe subito intuito che quello era Stilgar, Naib del Sietch, guardiano dei gemelli orfani che un giorno avrebbero indossato il manto del padre, Paul Muad'Dib. Stilgar ispezionava assai spesso, di notte, l'appartamento dei gemelli, sempre iniziando il suo giro dalla stanza dove dormiva Ghanima, per concluderlo lì, davanti al giaciglio del ragazzo, rassicurando se stesso che il giovane Leto non era minacciato. Sono un vecchio sciocco, pensò Stilgar. Sfiorò la fredda superficie della torcia prima di riappenderla alla fascia che gli faceva da cintura. Quel proiettore luminoso lo irritava, anche se ne apprezzava l'utilità. Era uno strumento ingegnoso, un prodotto dell'Impero, concepito per scoprire la presenza di grossi corpi adulti e minacciosi. Ma aveva rivelato soltanto due fanciulli addormentati, nelle camere addobbate come si conviene a due rampolli d'alto lignaggio. Stilgar sapeva che i suoi pensieri e le sue azioni erano senza pace, come il guizzare di un raggio di luce. Egli non avrebbe mai potuto tacitare la sua inquietudine interiore. Un potere più grande l'obbligava a questa irrequietezza. Proiettandolo fuori di lui stesso nel preciso istante in cui avrebbe percepito il concentrarsi del pericolo. Lì, in quelle due stanze, vi era qualcosa che attirava irresistibilmente a sé i sogni di grandezza di tutto l'universo conosciuto, lì si trovavano la ricchezza più grande, l'autorità politica e il più potente fra tutti i talismani religiosi: l'autentica, divina eredità di Muad'Dib. In quei gemelli – Leto e sua sorella Ghanima – si concentrava un terrificante potere. Fino a quando essi fossero esistiti, Muad'Dib, anche se morto, sarebbe vissuto in loro. Non erano dei normali ragazzini di nove anni, bensì una forza della natura, oggetto di venerazione e di paura. Erano i figli di Paul Atreides, che era diventato Muad'Dib, il Mahdi di tutti i Fremen. Muad'Dib aveva scatenato un'esplosione di umanità, i Fremen si erano riversati da quel pianeta in un jihad, portando il loro fervore attraverso l'intero universo degli uomini, imponendo un dominio religioso la cui intensità e l'onnipresente autorità avevano lasciato il marchio su ogni mondo abitato. Eppure questi figli di Muad'Dib sono di carne e sangue, pensò Stilgar. Due pugnalate... e fermerei per sempre i loro cuori. Le loro acque tornerebbero alla tribù. La sua mente indocile sbigottì a quel pensiero.

Uccidere i figli di MuadDib! Ma gli anni gli avevano insegnato a dominare la troppo fervida immaginazione. Stilgar sapeva da dov'era uscito quell'orribile pensiero... Dalla mano sinistra dei dannati, non dalla mano destra dei redenti. L'ayat e il, burhan della Vita avevano pochi misteri per lui. Un tempo era stato orgoglioso di pensare a se stesso come a un Fremen, di guardare al deserto come a un amico, di chiamare Dune il suo pianeta, e non Arrakis, com'era scritto su tutte le mappe stellari imperiali. Com'erano semplici le cose quando il nostro Messia era soltanto un sogno, pensò ancora. Non appena trovato il nostro Mahdi, abbiamo scatenato nell'universo innumerevoli sogni messianici. Ogni popolo soggiogato dal jihad oggi sogna un proprio redentore! Stilgar diede un'occhiata alla stanza da letto, immersa nell'oscurità. Se il mio pugnale liberasse tutti quegli uomini, farebbero di me un messia? Sentì Leto che si agitava, inquieto, nel suo letto. Stilgar sospirò. Non aveva mai conosciuto il nonno degli Atreides, da cui quel ragazzo aveva preso il nome. Molti dicevano che la forza morale di Muad'Dib fosse uscita da quella fonte. Quella forza, quella tremenda inflessibilità avrebbe saltato una generazione? Stilgar fu incapace di rispondere a questa domanda. Pensò: Sietch Tabr è mio. Sono io che governo qui. Io sono Naib dei Fremen. Senza di me non ci sarebbe stato Muad'Dib. E ora questi gemelli... attraverso Chani, loro madre e mia parente carnale, il mio sangue scorre nelle loro vene. Io sono in loro, con Muad'Dib e Chani e tutti gli altri. Che cosa mai abbiamo fatto al nostro universo? Stilgar non riusciva a spiegarsi perché simili pensieri lo assalissero di notte, ma soprattutto perché lo facessero sentire così colpevole. Si rannicchiò sotto il cappuccio. La realtà non era affatto simile al sogno. Il deserto amico, che un tempo si estendeva da un polo all'altro, era ridotto alla metà delle sue dimensioni originarie. Quel mitico paradiso verdeggiante, in perenne espansione, lo riempiva di sgomento. Non era come il sogno. E, così com'era cambiato il suo pianeta, sapeva di essere cambiato anche lui. Era diventato una persona assai più scaltra di colui che un tempo era il capo del sietch. Ora, era consapevole di molte cose... il governare era un'arte, e anche nelle più piccole decisioni erano insite profonde conseguenze. Eppure, sentiva che queste conoscenze e questa scaltrezza erano una pellicola sottile che ricopriva un nucleo più antico, di

acciaio temprato, fatto di una coscienza più semplice, limpida, implacabilmente diretta. E quel vecchio nucleo lo chiamava, lo implorava di ritornare a valori più schietti. I rumori mattutini del sietch cominciarono a intromettersi nei suoi pensieri. La gente cominciava a muoversi nelle caverne. Sentì una brezza alitargli sulle guance: la gente stava uscendo attraverso i sigilli delle porte nell'oscurità che precede l'alba. Quella brezza rivelava la noncuranza, e anche lo scorrere del tempo. Gli abitanti dei sotterranei tra le rocce non rispettavano più la rigorosa disciplina dell'acqua dei vecchi tempi. E perché mai avrebbero dovuto? Ormai la comparsa della pioggia su quel pianeta era stata documentata, poiché il cielo era solcato da nuvole... otto Fremen erano stati travolti e uccisi da un'improvvisa inondazione in uno uadi. Fino a quel tragico giorno, la parola annegato non era esistita nella lingua di Dune. Ma non era più Dune, era Arrakis... e quello era il mattino di una giornata memorabile. Stilgar pensò: Jessica, madre di Muad'Dib e nonna dei gemelli reali, ritorna oggi sul nostro pianeta. Perché mai pone termine all'esilio che si era autoimposta, e proprio adesso? Perché abbandona gli agi e la sicurezza di Caladan per i pericoli di Arrakis? Molti erano i motivi di preoccupazione. Avrebbe percepito i dubbi di Stilgar? Ella era una Bene Gesserit, le era stato impartito il più completo e profondo insegnamento della Sorellanza; era, a buon diritto, una Reverenda Madre. Quelle femmine erano assai perspicaci e pericolose. Gli avrebbe ordinato di lasciarsi cadere sul proprio pugnale, com'era stato intimato al Predicatore Umma? E lui, avrebbe obbedito? Non riuscì a rispondere a quella domanda, ma ora pensò a Liet-Kynes, il planetologo che per primo aveva sognato di trasformare l'immenso deserto di Dune, grande quasi quanto il pianeta, nel mondo verde, capace di sostentare la vita, in cui oggi stava diventando. Liet-Kynes, il padre di Chani. Senza di lui non ci sarebbe stato nessun sogno, nessuna Chani, nessun gemello reale. La fragilità di quell'intera catena di eventi lasciava Stilgar sconcertato. Ma... in qual modo ci siamo incontrati tutti, qui? si chiese. Ci siamo uniti... per quale scopo? È mio dovere metter fine a tutto questo, infrangere questa possente associazione? Stilgar riconobbe infine l'esistenza di quell'istinto, di quel bisogno sempre più angoscioso dentro di lui. Avrebbe potuto fare quella scelta, rinnegare l'amore e la famiglia per compiere ciò che un Naib avrebbe fatto,

in quell'incombenza: un atto mortale, per il bene della tribù. Esteriormente, un simile, doppio assassinio sarebbe stato il tradimento e l'atrocità supremi. Uccidere due fanciulli! Ma non erano due fanciulli... erano qualcosa di sconvolgentemente diverso. Avevano mangiato il melange, partecipando all'orgia del sietch; avevano scandagliato il deserto, cercando la trota delle sabbie, e avevano fatto tutti gli altri giochi dei bambini Fremen... E si erano seduti nel Consiglio Reale. [And they sat in the Royal Council. Ancora bambini, tuttavia abbastanza saggi da potersi sedere in Consiglio. Se anche i loro corpi erano teneri e rosei, l'esperienza razziale ereditata all'istante della nascita con la totalità della memoria genetica li rendeva vecchi, antichi, una terrificante consapevolezza che escludeva ambedue, e la loro zia Alia, dal resto dell'umanità. Molte volte, nel silenzio di molte notti, Stilgar aveva sorpreso la sua mente ad aggirarsi, ossessionata, intorno a quella differenza condivisa dai due gemelli e da Alia; troppe volte era stato strappato al sonno da questi tormenti, ed era venuto lì, furtivo, alle stanze da letto dei gemelli, la coscienza a stento affiorante fra gli ultimi brandelli dei sogni. Ora, ogni suo dubbio aveva assunto contorni precisi. La sua incapacità di prendere una decisione era già, di per sé, una decisione: egli lo sapeva. Quei gemelli e la loro zia si erano risvegliati già nell'utero, con tutti i ricordi trasmessi loro dagli antenati. L'assuefazione alla spezia l'aveva reso possibile, l'assuefazione delle loro madri... Lady Jessica e Chani. Lady Jessica aveva generato un figlio, Muad'Dib, quando non era ancora assuefatta. Alia era venuta dopo l'assuefazione. Questo era chiaro, oggi, in prospettiva. Innumerevoli generazioni d'incroci selezionati dalle Bene Gesserit avevano prodotto Muad'Dib, ma i piani della Sorellanza non avevano previsto il melange. Oh, esse conoscevano questa possibilità, ma la temevano e la chiamavano l'Abominazione. Quello era il fatto più sconcertante. Abominazione. Dovevano avere delle ragioni ben precise per un simile giudizio. E se dicevano che Alia era un'Abominazione, allora ciò doveva applicarsi ugualmente ai gemelli, poiché anche Chani era assuefatta, il suo corpo saturo di spezia, e i suoi geni avevano in qualche modo integrato quelli di Muad'Dib. I pensieri di Stilgar erano in subbuglio. Non c'era alcun dubbio, questi gemelli avevano superato il padre. Ma in quale direzione? Il ragazzo aveva già parlato della sua capacità di essere suo padre... e l'aveva dimostrato. Già da bambino, Leto aveva rivelato ricordi che soltanto Muad'Dib avrebbe potuto avere. C'erano forse altri antenati in attesa, in quella

sterminata schiera di ricordi... antenati le cui convinzioni ed abitudini avrebbero creato nuovi pericoli e sventure per gli uomini viventi? Abominazioni, avevano dichiarato le streghe Bene Gesserit. Eppure la Sorellanza agognava la genofase di quei fanciulli. Le streghe bramavano gli ovuli e lo sperma, senza la carne maledetta che li conteneva. Era forse per questo che Lady Jessica ritornava su Dune? Sì, aveva rotto ogni rapporto con la Sorellanza per sostenere il suo ducale consorte; ma correva voce che fosse ritornata sulla via del Bene Gesserit. Potrei porre fine a tutti questi sogni, pensò Stilgar. Quanto sarebbe facile. Eppure, ancora una volta si chiese, sbigottito, il perché di quell'ossessione. I gemelli di Muad'Dib erano forse responsabili della realtà che cancellava i sogni degli altri? No. Essi erano semplicemente le lenti attraverso le quali sgorgava la luce, rivelando nuove forme nell'universo. In preda al tormento, la sua mente rievocò le primigenie credenze dei Fremen. Pensò: L'ordine ci giunge da Dio; perciò, non cercare di affrettarlo. Sta a Dio mostrare la via, anche se qualcuno se ne allontana. Ciò che turbava maggiormente Stilgar era la religione di Muad'Dib. Perché avevano fatto di lui un dio? Perché deificare un uomo che si sapeva fatto di carne? Il Dorato Elisir della Vita di Muad'Dib aveva creato un mostro burocratico che schiacciava, col suo peso, ogni attività, ogni anelito umano. Il governo e la religione erano, ormai, una cosa sola, e infrangere la legge era peccato. Il miasma dell'empietà s'innalzava come una nuvola di fumo acre quando, per una ragione qualsiasi, venivano posti in discussione gli editti governativi. Chi era colpevole di ribellione, attirava su di sé la lapidazione e i fuochi dell'inferno. Eppure, erano stati gli uomini a creare questi editti governativi. Stilgar scosse tristemente la testa, senza vedere gli inservienti che erano entrati nell'Anticamera Reale, per assolvere ai loro compiti mattutini. Toccò con le dita il cryss alla cintura, e ripensò al passato che quell'arma simboleggiava... Più di una volta egli aveva simpatizzato con i ribelli le cui rivolte abortite erano state schiacciate per ordine suo. La confusione gli offuscava la mente... Quanto avrebbe desiderato sapere il modo di spazzarla via, di ritornare alla semplicità rappresentata dal pugnale! Ma non per questo l'universo avrebbe ruotato in senso inverso. Era una grande macchina proiettata sulla grigia vacuità della non esistenza. Il suo pugnale, causando la morte dei due gemelli, avrebbe soltanto riverberato contro quel vuoto, tessendo nuove complessità destinate ad aggrovigliarsi

attraverso la storia umana, creando nuove ondate di caos, spingendo l'umanità a tentare altre forme di ordine e di confusione. Stilgar sospirò, cosciente ormai dei movimenti intorno a lui. Sì, quegli inservienti rappresentavano una specie di ordine vincolato ai gemelli di Muad'Dib, proiettandosi da un istante a quello successivo, pronti ad affrontare qualunque necessità. Meglio imitarli, si disse Stilgar. Meglio esser pronti ad affrontare qualunque cosa, nell'attimo stesso in cui si manifesta. Anch'io sono ancora un servitore, pensò ancora. E il mio padrone è Dio Misericordioso, un dio pieno di compassione. E citò, sempre tra sé: «Sì, abbiamo chiuso il loro collo fra ceppi alti fino al mento, perché tengano alta la testa; abbiamo stretto il loro corpo fra due barriere, l'una davanti e l'altra dietro, e li abbiamo bendati, perché non vedano.» Così era scritto nell'antica religione dei Fremen. Stilgar annuì tra sé. Vedere, anticipare il prossimo istante, come aveva fatto Muad'Dib con le sue terrificanti visioni del futuro, avrebbe provocato reazioni contrastanti nelle vicende umane. Avrebbe creato nuovi tempi e luoghi per sempre nuove decisioni. Esser libero dai ceppi, questo sì poteva essere un capriccio di Dio. Un nuovo impossibile compito per le deboli forze dell'uomo. Stilgar tolse la mano dal pugnale. Le sue dita fremettero. Ma la lama che un giorno aveva balenato nella gola di un verme delle sabbie restò nel fodero. Stilgar seppe che non avrebbe mai impugnato quella lama per uccidere i gemelli. La sua decisione era presa, irrevocabile. Meglio conservare quell'antica virtù che gli era così cara: la lealtà. Meglio le complicazioni conosciute (o che si era convinti di conoscere) che quelle ignote, che sfidavano la mente umana. Meglio l'oggi che il futuro di un sogno. Il sapore amaro nella bocca di Stilgar gli disse quanto certi sogni potessero rivelarsi vuoti e rivoltanti. No! Basta con i sogni!

DOMANDA: Hai visto il Predicatore? RISPOSTA: Ho visto un verme delle sabbie. DOMANDA: E che mi dici del verme delle sabbie? RISPOSTA: Ci dà l'aria che respiriamo. DOMANDA: Allora, perché distruggiamo la sua terra? RISPOSTA: Perché Shai-hulud [il verme delle sabbie deificato] lo ordina. – Indovinelli di Arrakis di Harq al-Ada

Com'era costume tra i Fremen, i gemelli Atreides si alzarono un'ora prima dell'alba. Sbadigliarono e si stiracchiarono in perfetto sincronismo, pur trovandosi in due stanze adiacenti, e percepirono il brusio di attività in tutto l'ampio labirinto di caverne intorno a loro. Udirono gli inservienti muoversi nell'anticamera, intenti a preparare la prima colazione, una zuppa di datteri e noci impastati con estratto di spezia semifermentata. L'anticamera era illuminata da numerosi globi e una morbida luce gialla entrava dalle porte ad arco nelle camere da letto. I gemelli si vestirono rapidamente in quella soffusa luminosità, ognuno ascoltando il fruscio dell'altro, lì accanto. Ambedue, di comune accordo, infilarono le tute distillanti, contro il calore avvampante del deserto. Pochi istanti dopo, la regale coppia s'incontrò nell'anticamera sotto gli occhi dei servitori, irrigiditi in un silenzioso omaggio. Leto ostentava una cappa brunorossiccia bordata di nero, sopra la grigia superficie della tuta distillante. Sua sorella era avvolta in una cappa verde. Le cappe erano agganciate al collo da un fermaglio in forma di falco – l'insegna degli Atreides – d'oro, due rubini al posto degli occhi. Quando li vide così vestiti, Harah, una delle mogli di Stilgar, esclamò: – Vedo che vi siete agghindati per accogliere vostra nonna con tutti gli onori! Leto prese in mano la scodella piena, prima di alzare gli occhi sul volto rugoso di Harah, cotto dal sole e dal vento del deserto. Scosse la testa, poi replicò: – Come fai a sapere che non stiamo onorando noi stessi? Harah affrontò imperturbabilmente quello sguardo di rimprovero, e dichiarò: – I miei occhi sono azzurri quanto i tuoi! Ghanima scoppiò in una rumorosa risata. Harah sapeva pur sempre servirsi del linguaggio dei Fremen con abilità. Con quella sola frase aveva detto: «Osi rimbeccarmi, ragazzo? Potrai anche essere un figlio di re, ma tutti e due abbiamo le stigmate dell'assuefazione al melange... gli occhi senza il bianco. Quale Fremen ha bisogno di altri ornamenti, o di un onore

più grande di questo?». Leto sorrise e scosse tristemente la testa: – Harah, amore mio, se tu fossi più giovane e non appartenessi già a Stilgar, ti farei mia! Harah si appagò di quella piccola vittoria, e invitò con un gesto gli altri inservienti a proseguire nell'addobbo delle stanze, in vista degli importanti avvenimenti di quel giorno. – Su, fate colazione, adesso, – disse ai due ragazzi. – Oggi avrete bisogno di tutte le vostre energie. – Pensi che non siamo troppo eleganti, per la nonna? – chiese Ghanima, la bocca piena di cibo. – Non devi aver paura di lei, Ghani, – esclamò Harah. Leto inghiottì una cucchiaiata di gruel, rivolgendo un'occhiata interrogativa ad Harah. Quella donna era incredibilmente astuta e saggia, le era bastato un attimo per svelare le segrete intenzioni di quel loro agghindarsi. – Ma lei crederà che noi la temiamo? – insisté Leto. – Probabilmente no, – rispose Harah. – Era la nostra Reverenda Madre, ricordalo. La conosco bene. – Alia... come si è vestita? – chiese Ghanima. – Non l'ho vista, – si affrettò a rispondere Harah, e si allontanò. Leto e Ghanima si scambiarono un'occhiata gravida d'inespressi segreti, poi si curvarono sui piatti e finirono le rispettive porzioni. Quindi uscirono nel grande corridoio centrale. Ghanima parlò in una delle lingue antiche che conoscevano entrambi grazie alla memoria genetica. – Così, da oggi abbiamo una nonna. – Alia è molto preoccupata, – commentò Leto. – A chi mai piacerebbe rinunciare a una simile autorità? – chiese Ghanima. Leto scoppiò a ridere: un suono secco, aspro, assai strano per un rampollo così tenero. – C'è molto di più. – Gli occhi di sua madre sapranno cogliere ciò che noi abbiamo visto? – Perché non dovrebbero? – disse Leto. – Sì... forse è questo che Alia teme di più. – Chi può conoscere un'Abominazione meglio di un'Abominazione? – fu il nuovo commento di Leto. – Potremmo anche sbagliarci, sai? – ribatté Ghanima. – Non ci sbagliamo. – E Leto citò dal libro di Azhar, del Bene Gesserit: – «È con ragione, frutto di terribili esperienze, che noi chiamiamo il prenato Abominazione, poiché chi può mai sapere quale creatura dannata del nostro malvagio passato potrà impadronirsi della carne vivente?».

– Lo so, – disse Ghanima. – So tutta la storia. Ma se è vero, perché noi non subiamo questo assalto interiore? – Forse i nostri genitori montano la guardia dentro di noi, – spiegò Leto. – Ma allora, perché anche Alia non ha i suoi guardiani? – Non so. Forse perché uno dei suoi genitori è ancora fra i viventi. O, più semplicemente, ciò è dovuto al fatto che noi siamo ancora giovani, e forti. Quando saremo più vecchi, e cinici... – Dovremo esser molto cauti con questa nonna, – disse Ghanima. – E non parlarle del Predicatore che vaga per il nostro pianeta divulgando eresie? – Non crederai sul serio che sia nostro padre! – Io non esprimo alcun giudizio su di lui, ma Alia lo teme. Ghanima scosse la testa con vigore: – E io non credo a questa sciocchezza dell'abominazione! – Tu hai gli stessi ricordi che ho io, – disse Leto. – Puoi credere a ciò che vuoi. – Non pensi che ciò sia dovuto al fatto che non abbiamo osato affrontare la trance da spezia, come, invece, Alia ha fatto? – insisté Ghanima. – È esattamente quello che penso. Smisero di parlare e si mescolarono alla folla nel corridoio centrale. Faceva freddo, a Sietch Tabr, ma le tute distillanti tenevano caldo e i gemelli rovesciarono i cappucci sulla schiena, dietro le chiome fulve. I loro volti tradivano la comunanza dei geni: bocche ampie e carnose, gli occhi spaziati, da cerbiatto, azzurri sull'azzurro della spezia. Leto fu il primo a scorgere, da lontano, la loro zia, Alia. – Eccola che viene, – mormorò. Si era servito, a mo' di avvertimento, del linguaggio da battaglia degli Atreides. Ghanima ossequiò sua zia con un cenno del capo, quando Alia si fermò davanti a loro, ed esclamò: – Un bottino di guerra saluta la sua illustre parente. – Parlando il linguaggio chakobsa, Ghanima aveva così esibito il vero significato del proprio nome: Bottino di Guerra. – Come vedi, Beneamata Zia, – aggiunse Leto, – ci stiamo preparando per l'incontro di oggi con tua madre. Alia, l'unica persona fra tutti gli innumerevoli membri della famiglia reale che non restasse sbigottita davanti al comportamento da adulti di quei due ragazzi, fulminò l'uno e l'altra col suo sguardo. Poi: – Frenate la lingua, tutti e due! I capelli rosso-bronzo di Alia erano tirati all'indietro, trattenuti da due

anelli d'acqua dorati. Il suo volto ovale si era fatto arcigno, l'ampia bocca, con quel suo vago sospetto d'intemperanza, si era stretta in una linea sottile. Sottili rughe di preoccupazione si allargavano a ventaglio dagli angoli dei suoi occhi azzurri sull'azzurro. – Vi ho già detto come dovete comportarvi, oggi, – esclamò. – Se vi ho messo in guardia, voi ne sapete le ragioni. – Noi conosciamo le tue ragioni, ma tu non puoi sapere le nostre, – ribatté Ghanima. – Ghani! – ringhiò Alia. Leto fissò minacciosamente sua zia: – Oggi, più che mai, non fingeremo di essere due bambini smorfiosi! – Nessuno vuole che facciate le smorfie, – replicò Alia. – Ma noi riteniamo che sarebbe poco saggio da parte vostra suscitare pensieri pericolosi nella mente di mia madre. Irulan è d'accordo con me. Chi può sapere il ruolo che Lady Jessica vorrà scegliere? Dopotutto, è una Bene Gesserit. Leto scosse la testa, chiedendosi: Perché mai Alia non vede ciò che noi sospettiamo? È forse andata troppo oltre? Una volta ancora studiò, sul volto di Alia, le sottili impronte genetiche che tradivano la presenza del nonno materno. Il barone Vladimir Harkonnen non era stato una persona piacevole. All'improvviso, una vaga inquietudine l'afferrò: È anche mio antenato. Ribatté: – Lady Jessica è stata addestrata a governare. Ghanima annuì: – Perché ha scelto questo momento per far ritorno? Alia si accigliò: – Non è possibile che voglia, semplicemente, rivedere i suoi nipoti? _ Ghanima pensò: È quello che tu speri, cara zia. Ma è pochissimo probabile. – Lei non può governare qui, – proseguì Alia. – Ha Caladan. Dovrebbe bastarle. Ghanima provò a blandirla: – Quando nostro padre andò nel deserto, a morire, lasciò te come Reggente. Lui... – Vorreste criticare la sua scelta? – chiese Alia. – È stata una buona scelta, – si affrettò ad aggiungere Leto. – Tu eri l'unica a sapere ciò che vuol dire nascere come noi, appunto, siamo nati. – Corre voce che mia madre sia tornata alla Sorellanza, – disse ancora Alia. – Tutti e due sapete che cosa il Bene Gesserit pensi della... – Dell'Abominazione, – esclamò Leto.

– Sì! – Alia lo fulminò con un'occhiata. – Strega una volta, strega per sempre... così dicono, – commentò Ghanima. Sorella, questo è un gioco pericoloso, pensò Leto, ma ugualmente completò il suo ragionamento: – Nostra nonna è molto più semplice degli altri della sua razza. Tu condividi i suoi ricordi, Alia. Certo sai che cosa aspettarti. – Semplice! – Alia scosse la testa, esasperata, scrutò il corridoio affollato, poi, nuovamente, i gemelli. – Se mia madre fosse meno complicata, voi due non sareste qui... e neppure io. Io sarei stata la sua primogenita e niente di tutto questo... – Sussultò, colta da un brivido. – Vi avverto, tutti e due: state molto attenti a ciò che fate, oggi. – Alzò gli occhi: – Ecco la mia scorta. – Sei ancora convinta che non sia prudente, per noi, accompagnarti allo spazioporto? – insisté Leto. – Aspetterete qui, – troncò netto Alia. – La porterò da voi. Leto scambiò un'occhiata con la sorella, poi disse: – Tu ci hai detto molte volte che i nostri ricordi, quelli, cioè, di tutti i nati prima di noi, sono di scarsa utilità, finché i nostri corpi non avranno esperienza sufficiente ad afferrarne il reale significato. Ma io e mia sorella siamo convinti di questo: l'arrivo di nostra nonna provocherà pericolosi cambiamenti. – Oh, che sciocca idea! – ribatté Alia. Si voltò e, affiancata dagli uomini della sua scorta, si allontanò rapidamente lungo il corridoio, verso l'ingresso principale dove gli ornitotteri li aspettavano. Una lagrima brillò sull'occhio destro di Ghanima. – Acqua per i morti? – bisbigliò Leto, afferrandole un braccio. Ghanima sospirò profondamente, ripensando a come aveva scrutato sua zia, nel miglior modo suggeritole dalle esperienze ancestrali accumulate dentro di sé. – È stata la trance da spezia che l'ha fatta così? – Ma già sapeva la risposta di Leto: – Hai un suggerimento migliore? – L'ho detto così, per parlare... Ma perché nostro padre, e anche nostra nonna, non sono periti, nella prova? Leto la fissò un attimo, in silenzio, poi: – Tu sai la risposta quanto me. Essi, già prima di venire su Arrakis, avevano due personalità assai forti. La trance da spezia, beh... – Scrollò le spalle. – Non sono venuti al mondo già posseduti dai loro padri. Alia, invece... – Perché non ha creduto agli avvertimenti del Bene Gesserit? – Ghanima

si morse il labbro inferiore. – Alia disponeva delle nostre stesse informazioni. – Essi già la chiamavano Abominazione, – disse Leto. – Tu, non saresti tentata di dimostrare che sei più forte di tutti quelli che... – No! – Ghanima distolse gli occhi dallo sguardo inquisitivo di suo fratello, rabbrividendo. Consultò febbrilmente i suoi ricordi genetici, e gli avvertimenti della Sorellanza presero vividamente forma. I pre-nati – era stato osservato – erano fortemente predisposti a diventare adulti perfidi e maliziosi. E la causa più probabile... Rabbrividì ancora. – Peccato che non vi sia nessun pre-nato fra i nostri antenati. – Forse c'è. – Ma noi l'avremmo già... Ah, sì, sempre la stessa domanda senza risposta: abbiamo veramente accesso all'archivio totale delle esperienze di ogni nostro singolo antenato? Dalla propria agitazione interiore, Leto seppe quanto una simile conversazione dovesse turbare sua sorella. Essi si erano posti quella domanda troppe volte, inutilmente. Riprese: – Dobbiamo tergiversare, rinviare, fingere un'eccessivo timore, ogni volta che lei ci solleciterà a entrare in trance. Un'estrema prudenza di fronte a qualsiasi dose massiccia di spezia: questa la cosa migliore per noi. – Una dose massiccia... possibile? – chiese Ghanima. – La nostra tolleranza probabilmente è molto alta, – fu d'accordo suo fratello. – Guarda di quanta spezia ha bisogno Alia. – La compiango, – sospirò Ghanima. – L'assuefazione alla spezia dev'essere stata subdola, strisciante, finché... – Lei è una vittima, sì, – annuì Leto. – Un'Abominazione. – Potremmo sbagliarci. – È vero. – Mi sono sempre chiesta, – mormorò Ghanima, pensosa, – se la prossima memoria ancestrale in cui m'imbatterò non sarà quella che... – Il passato non è più lontano del tuo cuscino, – dichiarò Leto. – Dobbiamo trovare il modo di discutere questo con nostra nonna. – Il ricordo di lei, dentro di me, mi spinge a farlo, – dichiarò Leto. Ghanima lo fisso in silenzio. Poi concluse: – Il troppo sapere non semplifica mai lo decisioni.

Il sietch ai margini del deserto Fu di Liet, fu di Kynes, Fu di Stilgar, fu di Muad'Dib E, ancora una volta, fu di Stilgar. I Naib, uno ad uno, dormono nella sabbia. Ma il sietch dura eterno. – da un canto dei Fremen

Alia sentì il cuore batterle forte quando si allontanò dai gemelli. Per alcuni, angosciosi istanti, aveva creduto che non sarebbe riuscita a staccarsi da loro... che avrebbe finito per chieder loro aiuto. Che assurda, sciocca debolezza! Si costrinse alla calma senza smettere, per questo, di stare all'erta. Quei gemelli... avrebbero mai osato affrontare la prescienza? La strada, l'abisso che aveva inghiottito il loro padre... era impossibile che non ne fossero affascinati: la trance da spezia con le sue visioni del futuro che ondeggiavano come una garza sottile al soffio di un vento volubile. Perché mai io non posso vedere il futuro? si chiese Alia. Per quanti sforzi io faccia il futuro mi elude. Perché? Era essenziale costringere i gemelli a farlo. Forse, adescandoli... Alla naturale curiosità dei bambini si aggiungevano in loro i ricordi ancestrali, attraverso i millenni. Così è stato per me, pensò Alia. Le sue guardie aprirono i sigilli che trattenevano l'umidità, e si scostarono quand'ella emerse dall'ingresso principale del sietch sulla terrazza rocciosa dove gli ornitotteri l'aspettavano. Il vento soffiava sul deserto spargendo la polvere attraverso il cielo, ma l'aria era luminosa. Uscendo dalla penombra del corridoio alla vivida luce del giorno, i pensieri di Alia si rivolsero bruscamente all'esterno. Perché mai Lady Jessica ritornava, proprio adesso? Erano forse giunte, a Caladan, voci sulla Reggenza... – Dobbiamo affrettarci, mia Signora, – disse una delle guardie, alzando la voce per vincere il sibilo del vento. Alia lasciò che l'aiutassero a salire sul suo ornitottero e si allacciò la cintura di sicurezza, ma i suoi pensieri si agitavano come cavalli imbizzarriti. Perché adesso? Quando le ali dell'ornitottero presero a pulsare, e l'apparecchio balzò in alto, nell'aria, ella percepì quasi fisicamente la magnificenza e il potere della sua posizione... ma quanto fragili, ahimé, quanto fragili!

Perché ora, quando i suoi piani non erano ancora completati? I vortici di polvere impalpabile si spostarono, si dissolsero, e Alia vide lo splendore del sole illuminare il mutevole paesaggio del pianeta: ampie distese di verde vegetazione dove un tempo aveva dominato la terra arida e bruciata. Senza la visione del futuro, potrei fallire. Oh, quali meraviglie potrei compiere se soltanto potessi vedere ciò che Paul vedeva! Non cadrei certo in preda all'amarezza che le visioni prescienti sembrano portare con sé. Desiderò ardentemente, quasi con uno spasimo doloroso, che le fosse consentito di rinunciare al suo potere. Oh, essere come gli altri: cieca, nella più sicura di tutte le cecità, vivendo solo quella mezza-vita ipnotica in cui il trauma della nascita faceva precipitare la maggior parte degli umani. Ma no! Lei era nata Atreides, vittima di una coscienza che sprofondava negli eoni, inflittale dall'assuefazione alla spezia di sua madre. Perché mai mia madre ritorna oggi? Gurney Halleck sarebbe stato al suo fianco: il servitore leale e sincero, pronto, nella sua devozione, a uccidere; un uomo brutto e sciancato, ma che sapeva servirsi con uguale maestria del pugnale, e del suo baliset a nove corde. Un assassino, ma anche un musico raffinato; qualcuno diceva che fosse diventato l'amante di sua madre. Doveva scoprire se ciò rispondeva a verità. Poteva rivelarsi un'informazione preziosa. La sua angoscia, il desiderio di essere come gli altri, l'abbandonò. Leto, a qualunque costo, dev'essere spinto ad affrontare la trance da spezia. Rammentò di aver chiesto al ragazzo come si sarebbe comportato con Gurney Halleck. E Leto, colto il sottinteso nella sua domanda, aveva replicato che Halleck era fedele «all'eccesso», aggiungendo: – Adorava... mio padre. Alia aveva notato quella lieve esitazione. Leto era stato sul punto di dire «me», invece di «mio padre». Sì, a volte era assai difficile separare la memoria genetica dai genuini ricordi della propria carne vivente. E Gurney Halleck non avrebbe certo reso più facile a Leto quella distinzione. Alia sorrise. Il suo sguardo s'indurì per un attimo. Gurney aveva scelto di ritornare su Caladan insieme a Lady Jessica, dopo la morte di Paul. Il suo ritorno avrebbe aggrovigliato ulteriormente le cose. Ponendo nuovamente piede su Arrakis, avrebbe aggiunto nuova complessità alle trame esistenti. Gurney aveva servito il padre di Paul; questa era la successione: da Leto I a Paul, e quindi a Leto II. Il

programma procreativo del Bene Gesserit era invece: da Jessica ad Alia ed a Ghanima, con un'imprevista ramificazione. Gurney, sommando se stesso alla confusione d'identità, avrebbe potuto rivelarsi prezioso. Che cosa farebbe, se dovesse scoprire che in noi scorre il sangue degli Harkonnen, quegli Harkonnen che odia così ferocemente? Il sorriso tornò a disegnarsi sulle labbra di Alia. I gemelli, in fin dei conti, erano due bambini. Due bambini con innumerevoli genitori, i cui ricordi appartenevano sia agli avi che a loro stessi. Senz'altro sarebbero corsi fuori, sulla cengia di Sietch Tabr, a guardare la scia della nave con a bordo Lady Jessica, che atterrava nel bacino di Arrakeen. Quel segno bruciante nel cielo, tracciato da una nave ben visibile, avrebbe reso l'arrivo di Lady Jessica più vero per i suoi nipoti? Mia madre s'informerà del loro addestramento, pensò Alia. Mi chiederà se uso prudenza nell'insegnare le discipline del Prana-bindu. E io le dirò che essi si addestrano da soli: proprio come ho fatto io. Le citerò le parole di suo nipote: «Fra le responsabilità del comandare, c'è anche la necessità di punire, ma solo quando la vittima lo esige.» Come un'illuminazione, in quell'istante Alia pensò che se fosse riuscita a concentrare tutta, o quasi, l'attenzione di Lady Jessica sui gemelli, altre persone avrebbero potuto sfuggire ad una sua ispezione troppo approfondita. Sì, era possibile. Leto era molto simile a Paul. E perché mai non avrebbe dovuto? Leto poteva essere Paul tutte le volte che gli piaceva. Perfino Ghanima possedeva questa sconvolgente facoltà. Proprio come io posso essere mia madre, o qualunque altra persona che abbia condiviso la vita con noi. Si distolse da questi pensieri e fissò, fuori del finestrino, l'immensità del Muro Scudo che si stagliava sotto di loro. Ma quasi subito, ritornò l'ossessione: Che cosa mai l'ha spinta a lasciare la calda sicurezza di Caladan, ricco d'acqua, per ritornare su Arrakis, su questo pianeta deserto, dove il Duca è stato assassinato e suo figlio ha conosciuto il martirio? Perché Lady Jessica aveva scelto proprio quel momento per ritornare? Alia non trovò alcuna risposta: niente di certo. Lei poteva in passato aver condiviso la coscienza di un altro Io, ma dall'istante in cui le rispettive esperienze avevano preso a inoltrarsi su strade separate, allora anche i motivi delle rispettive azioni non erano stati più condivisi. Le cause prime delle decisioni dell'uno o dell'altro erano chiuse nel segreto delle rispettive coscienze. Per il pre-nato – anzi, i multi-nati Atreides – questa era la realtà

esistenziale, essenzialmente un modo diverso di nascere: la drastica, assoluta separazione della carne viva, respirante, nell'istante in cui lasciava l'utero che l'aveva oppressa con la brulicante molteplicità delle sue coscienze ancestrali. Alia non vedeva niente di strano nel fatto di amare e odiare sua madre, nel medesimo istante. Era una necessità, un equilibrio obbligato, senza alcuno spazio per la colpa o il biasimo. L'amore, l'odio... com'era possibile imporre ad essi un confine preciso? Si doveva forse biasimare il Bene Gesserit per aver indirizzato Lady Jessica lungo una direzione ben precisa? La colpa, il biasimo, acquistavano contorni assai sfocati quando i ricordi coprivano molti millenni. La Sorellanza aveva semplicemente tentato di produrre uno Kwisatz Haderach; la controparte maschile di una Reverenda Madre completamente sviluppata... e anche qualcosa di più: lo Kwisatz Haderach era un essere umano in grado di trovarsi in molti luoghi simultaneamente. E Lady Jessica, una semplice pedina in quel programma, aveva avuto il cattivo gusto d'innamorarsi del compagno di allevamento al quale era stata assegnata. Troppo sensibile ai desideri del suo amato Duca, aveva generato un figlio maschio, invece della figlia che la Sorellanza le aveva imposto come primogenita. E consentendo che io nascessi dopo che lei si era assuefatta alla spezia! E adesso non mi vogliono. Adesso mi temono! E per un'ottima ragione... Avevano ottenuto Paul, il loro Kwisatz Haderach, una generazione troppo presto: un piccolo errore di calcolo in un piano che si estendeva su un incredibile arco di generazioni. Ed ora, avevano un altro problema: lei, Alia, un'Abominazione che portava in sé i preziosi geni che per tanto tempo avevano cercato. Percepì un'ombra sopra di sé e alzò gli occhi. La sua scorta stava infittendo lo schieramento protettivo, in vista dell'imminente atterraggio. Scosse la testa, stupita e vagamente irritata per il corso preso dai suoi pensieri. A che cosa serviva evocare tutta una serie di vecchie esistenze, frugando nel groviglio di antichi errori? Era al presente che bisognava pensare, al presente e al futuro. Duncan Idaho si era servito della sua qualità di mentat per trovare una risposta al perché del viaggio di Lady Jessica, affrontando il problema con la sua logica di computer umano. Egli aveva dichiarato che Lady Jessica ritornava per prendere possesso dei gemelli in nome della Sorellanza. Anche i gemelli avevano, dentro di sé, quei geni preziosi... Duncan poteva senz'altro aver ragione. Questo motivo poteva essere più che sufficiente a

strappare Lady Jessica al suo volontario esilio su Caladan. Se la Sorellanza l'aveva ordinato... Per quale altra ragione avrebbe dovuto ritornare sul teatro di tanti avvenimenti così tragici e sconvolgenti per lei? – Vedremo. – Il mormorio di Alia fu quasi un ringhio. Sentì il leggero urto dell'ornitottero sulla Rocca, un suono raschiante, uno stridio che la riempì di sinistre previsioni.

Melange (me'-lange, anche ma-lanj) sm, etimologia incerta (si pensa derivi dall'antico terrestre Franzh); a) una mistura di spezie; b) spezia di Arrakis (Dune) con proprietà geriatriche osservate per la prima volta da Yanshuph Ashkoko, chimico della Real Casa sotto il regno di Shakkad il Saggio; c) melange di Arrakeen, si trova soltanto nelle più profonde sabbie del deserto di Arrakis, legato alle visioni profetiche di Paul Muad'Dib (Atreides), primo Mahdi dei Fremen; usato anche dai Navigatori della Gilda Spaziale e dal Bene Gesserit. – Dizionario Reale quinta edizione

I due grossi felini spuntarono dalla cresta rocciosa alla luce dell'alba, avanzando con grandi balzi flessuosi. Non erano ancora a caccia di preda, ma stavano semplicemente ispezionando il loro territorio. Venivano chiamati «tigri Laza», una speciale razza importata laggiù, su Salusa Secundus, quasi ottomila anni prima. Manipolazioni genetiche compiute sull'antico ceppo terrestre avevano cancellato alcune delle caratteristiche originarie, sviluppando e affinando altre qualità. Le tigri Laza avevano conservato le zanne lunghe e affilate, il muso si era appiattito, consentendo una migliore visione ai due occhi vividi e intelligenti. Le zampe si erano allargate alle estremità, garantendo un migliore equilibrio anche sui terreni più accidentati, e i loro artigli protesi raggiungevano una lunghezza di dieci centimetri; le punte erano affilate come rasoi grazie all'azione abrasiva delle guaine. Le pellicce, d'una pallida sfumatura bruno-rossiccia, rendevano questi animali quasi invisibili sullo sfondo della sabbia. Un'altra cosa li rendeva diversi dai loro antenati: quand'erano ancora cuccioli, degli stimolatori elettronici erano stati inseriti nei loro cervelli. In tal modo, erano strumenti obbedienti di chiunque manovrasse i pulsanti a distanza. Faceva freddo, e quando i felini si fermarono a scrutare il terreno, il loro fiato si condensò nell'aria. Intorno a loro si stendeva una contrada di Salusa Secundus: mantenuta volutamente arida e spoglia, essa dava asilo a un esiguo numero di trote della sabbia contrabbandate da Arrakis e mantenute precariamente in vita nell'illusoria speranza d'infrangere, un giorno, il monopolio del melange. Là, dove si erano fermati i felini, il terreno era cosparso di rocce brune, e radi cespugli crescevano qua e là, verde-argentei tra le lunghe ombre proiettate dal sole del mattino. Un fremito quasi impercettibile, e i due felini, all'improvviso, furono vigili e tesi. Ruotarono lentamente gli occhi verso sinistra, poi piegarono i colli massicci. Molto più in basso, sul terreno butterato, due bambini

stavano risalendo faticosamente un deposito alluvionale disseccato, tenendosi per mano. Sembravano avere nove o dieci anni standard. Rossi di capelli, indossavano tute distillanti in parte coperte da bourka bianchi riccamente ornati; ostentavano il falco della casa degli Atreides intessuto con fili scintillanti come gioielli. I due bambini avanzavano chiacchierando allegri, e le loro voci giungevano chiaramente ai felini sul sentiero di caccia. Le tigri Laza conoscevano quel gioco; già altre volte vi si erano gioiosamente dedicate, ma rimasero tranquille, aspettando l'attivazione dell'impulso attraverso gli stimolatori. In cima, sulla cresta rocciosa, dietro i felini, comparve un uomo. Si fermò e studiò la scena: i felini e, più in basso, i bambini. L'uomo indossava l'uniforme da lavoro dei Sardaukar, grigia e nera, con le insegne di un Levenbrech, l'aiutante di un Bashar. Una cinghia gli passava dietro il collo e sotto le ascelle, sorreggendo, davanti al petto, il trasmettitore d'impulsi, a un'altezza tale da poter facilmente essere azionato da entrambe le mani. I felini non si voltarono al suo avvicinarsi. Essi conoscevano quell'uomo dall'odore e dal rumore che faceva spostandosi. Egli discese dalla cresta e si arrestò a due passi dai felini, asciugandosi la fronte. L'aria era frizzante, ma quel lavoro lo riscaldava, anche troppo. Ancora una volta i suoi occhi smorti scrutarono la scena: i felini, i bambini. Cacciò una ciocca di capelli biondi, stillante sudore, sotto l'elmetto nero da lavoro, e sfiorò con le dita il microfono innestato nella sua gola. – I felini li hanno avvistati. La voce gli giunse attraverso due ricevitori trapiantati dietro ciascun orecchio: – Li vediamo. – Ora? – chiese il Levenbrech. – Lo faranno anche senza che gli venga dato l'ordine? – La voce tradì l'impazienza. – Sono pronti, – disse il Levenbrech. – Molto bene. Vediamo se quattro sedute di condizionamento sono sufficienti. – Ditemi quando siete pronti. – In qualunque momento. – Adesso, allora, – esclamò il Levenbrech. Fece scattare una sbarretta, sbloccando un tasto rosso sul lato destro del trasmettitore. Poi schiacciò il tasto. L'impulso elettronico, che fino a quell'istante aveva frenato i felini, s'interruppe. L'uomo appoggiò il dito

sopra un tasto nero, pronto a fermare gli animali se gli si fossero rivoltati contro. Ma i due felini non si curarono minimamente di lui, si acquattarono e cominciarono a strisciare giù, fra le rocce, verso i bambini. Le loro grosse zampe scivolavano in avanti con movimenti flessuosi e continui. Il Levenbrech si acquattò dietro una roccia, aguzzando gli occhi; sapeva che in qualche punto, vicino a lui, una telecamera nascosta trasmetteva tutta la scena a uno schermo segreto all'interno della rocca dove viveva il suo principe. I due felini spiccarono grandi balzi, poi si precipitarono giù di corsa lungo il pendio. I bambini intenti ad arrampicarsi tra le rocce non avevano ancora visto il pericolo. Uno dei due scoppiò a ridere, un suono acuto e penetrante nell'aria limpida. L'altro bambino incespicò e, riprendendo l'equilibrio, girò la testa e vide i felini. Puntò il dito e gridò: – Guarda! Tutti e due si fermarono, fissando quell'improvvisa, assurda intrusione nella loro vita. Stavano ancora guardando, quando le tigri Laza balzarono loro addosso, una per bambino. Un attimo, e tutti e due erano morti, i colli spezzati con irrisoria, offensiva facilità. Subito, i felini cominciarono a nutrirsi. – Devo richiamarle? – chiese il Levenbrech. – Lasciale finire. Hanno lavorato bene. Ne ero convinto. Queste due tigri sono magnifiche. – Le migliori che abbia mai visto, – fu d'accordo il Levenbrech. – Benissimo, allora. Ti è stato inviato un mezzo di trasporto. Ora interromperemo il contatto. Il Levenbrech si alzò in piedi e si stiracchiò. Si guardò bene dall'alzare gli occhi verso un'altura alla sua sinistra, dove un luccichio rivelatore aveva indicato la posizione della telecamera che aveva trasmesso l'ottimo lavoro da lui compiuto al suo Bashar, che si trovava molto lontano, fra le verdi terre della capitale. Il Levenbrech sorrise. Quella giornata di lavoro gli avrebbe senz'altro procurato una promozione. Sentiva già le insegne di Bator al collo... e un giorno, quelle di Burseg, o perfino Bashar. Chi serviva con devozione e bravura tra le milizie di Farad'n, il nipote del defunto Shaddam IV, guadagnava ricche promozioni. Un giorno, quando il principe si fosse seduto sul trono che gli spettava di diritto, vi sarebbero state promozioni ancora più ambite. Il grado di Bashar avrebbe potuto rivelarsi soltanto un gradino per traguardi ancora maggiori. C'erano baronie e contee da distribuire, su molti mondi di quel reame... una volta soppressi i gemelli Atreides.

Il Fremen deve ritornare alla sua fede originaria, alla sua genialità istintiva, per formare autentiche comunità umane; deve ritornare al passato, da cui apprese la lezione della sopravvivenza nella sua lotta contro Arrakis. L'unica occupazione del Fremen dovrebbe esser quella di aprire la propria anima agli insegnamenti interiori. I mondi dell'Impero, il Landsraad e la Confederazione della CHOAM non hanno alcun messaggio da offrirgli. Possono soltanto derubarlo della sua anima. – Il Predicatore ad Arrakeen

Tutto intorno a Lady Jessica brulicava un oceano di umanità i cui confini si perdevano nel monotono grigiore della pianura d'atterraggio dov'era adagiato il suo mezzo di trasporto. Ella stimò che vi fosse un mezzo milione di persone, e forse soltanto un terzo di esse erano pellegrini. Il loro silenzio era terrificante, i loro occhi, tutti i loro sensi si concentravano sulla piattaforma dove l'ombra del portello nascondeva lei e il suo gruppo. Mancavano ancora due ore a mezzogiorno, ma l'aria, sopra quella folla, già luccicava di polvere impalpabile, un preludio al calore avvampante della giornata. Jessica si toccò i capelli color rame, qua e là sfumati d'argento, che incorniciavano il suo volto ovale sotto il cappuccio aba da Reverenda Madre. Era ben conscia che il suo aspetto, dopo quel lungo viaggio, non era dei migliori, e il nero dell'aba non contribuiva certo a renderlo più accettabile. Ma lei aveva altre volte indossato quell'indumento, in quel luogo. Il significato dell'aba non sarebbe andato perduto per i Fremen. Jessica sospirò. Ella detestava i viaggi spaziali, e ora si era aggiunto il fardello dei ricordi: l'altro viaggio, da Caladan ad Arrakis, quando il Duca Leto era stato costretto a prender possesso di quel feudo contro la sua volontà. Lentamente, servendosi del suo addestramento Bene Gesserit che le consentiva d'individuare anche i particolari più minuti, cominciò a scandagliare quel mare di gente. C'erano cappucci grigio-opaco di tute distillanti, mantelli dei Fremen venuti dalle profondità del deserto, pellegrini paludati di bianco, coi marchi della penitenza sulle spalle; qua e là c'erano gruppi di ricchi mercanti, senza cappuccio, che ostentavano abiti leggeri, mostrando tutto il loro disprezzo per l'acqua che, così, perdevano nell'aria secca di Arrakeen... e c'era anche la delegazione della Società dei Fedeli, uomini vestiti di verde, la testa nascosta da pesanti cappucci, che si tenevano alteramente in disparte, nell'aura santificata del loro gruppo. Soltanto quando Jessica distolse gli occhi dalla folla, la scena divenne

simile a quella che l'aveva accolta quand'era giunta su quel pianeta al fianco del suo amato Duca. Quanto tempo era passato? Più di venti anni. Rifuggiva sempre dal pensare a quante volte, da quel giorno, il suo cuore le avesse battuto in petto. Il tempo giaceva dentro di lei come un peso morto, e fu come se gli anni che aveva trascorso lontano da quel pianeta non fossero mai esistiti. Ancora una volta nella bocca del drago, pensò. Là, su quella pianura, suo figlio aveva strappato l'impero al defunto Shaddam IV. Una convulsione della storia aveva indelebilmente impresso quel luogo nella mente e nelle credenze degli uomini. Udì l'irrequieto agitarsi del seguito, dietro di lei, e ancora sospirò. Stavano aspettando Alia, che era in ritardo. Ora, finalmente, il gruppo di Alia comparve lontano tra la folla, creando come un'onda tra la gente man mano un cuneo di Guardie Reali si apriva un passaggio. Jessica nuovamente studiò il paesaggio. Molte differenze le saltarono subito agli occhi. Un terrazzino per la preghiera era stato aggiunto alla torre di controllo del campo di atterraggio. E in distanza, sulla sinistra, al di là della pianura, si ergeva l'imponente massa di plastacciaio che Paul aveva edificato: la sua fortezza, il suo «sietch sopra la sabbia». Era la più grande costruzione singola, il più immenso monoblocco che fosse mai sorto per mano dell'uomo. Intere città avrebbero potuto essere ospitate dentro le sue mura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Ora, ospitava la più potente forza governativa dell'impero, la Società dei Fedeli, che Alia aveva praticamente edificato sul corpo di suo fratello. Quel luogo deve sparire, pensò Jessica. La delegazione di Alia era giunta ai piedi della, rampa, e si era fermata, in attesa. Jessica riconobbe i lineamenti angolosi di Stilgar. E, Dio ce ne scampi!, ecco la principessa Irulan che nascondeva i suoi barbari istinti in quel corpo seducente, l'abbondante chioma dorata esposta ai capricci del vento. Irulan non sembrava invecchiata di un giorno: un autentico affronto! E lì, al vertice del cuneo, c'era Alia, i suoi lineamenti impudentemente giovani, gli occhi che apertamente scrutavano l'oscurità del boccaporto. La bocca di Jessica divenne una linea sottile, mentre a sua volta scrutava il volto di sua figlia. Fu come se, all'improvviso, una cappa di piombo calasse su di lei; Jessica udì la risacca della sua intera vita risuonarle dentro le orecchie. Le voci erano vere! Orribile! Orribile! Alia aveva imboccato la strada proibita. La prova era lì, davanti a lei. Ogni iniziato avrebbe potuta leggerla. Abominazione!

Nei pochi istanti che impiegò a riprendersi, Jessica capì quanto avesse, in realtà, desiderato che le voci si rivelassero false. E i gemelli? si chiese. Sono perduti anch'essi? Lentamente, come si confaceva alla madre di un Dio, Jessica uscì dall'ombra e avanzò fino al bordo della rampa. Il suo seguito restò immobile, obbedendo alle istruzioni. Quelli erano, infatti, gli istanti cruciali. Jessica era sola, in piena vista della folla. Udì Gurney Halleck tossìre nervosamente dietro di lei. Gurney aveva obbiettato: Neppure uno scudo protettivo? Per gli dèi infernali, donna! Sei pazza! Ma fra le caratteristiche più preziose di Gurney vi erano il rispetto e la fedeltà assoluti. Diceva le sue, gridava, magari, ma poi obbediva. Così aveva fatto anche questa volta. Quando Jessica uscì alla luce del sole, da quell'oceano umano si levò un murmure, simile al grido raschiante di un gigantesco verme della sabbia. Ella sollevò le braccia nel gesto benedicente al quale il clero aveva condizionato l'Impero. Come un unico, immenso organismo vivente, salve, qua e là, alcune visibili «sacche» di ritardatari, la folla cadde in ginocchio. Perfino il gruppo dei mantelli verdi si adeguò. Jessica prese nota dei punti in cui vi era stato ritardo, e seppe che altri occhi, alle sue spalle, e quelli dei suoi agenti tra la folla, ne avevano registrato, fulmineamente, la posizione. Mentre Jessica restava con le braccia alzate, Gurney e i suoi uomini balzarono fuori dall'ombra e si precipitarono giù per la rampa, incuranti degli sguardi sbalorditi dei rappresentanti ufficiali, unendosi agli agenti che si erano fatti riconoscere con un gesto della mano. Si sparpagliarono rapidamente a ventaglio tra la folla sterminata, saltando mucchi di figure inginocchiate, guizzando negli stretti passaggi. Alcuni fra quelli presi di mira si accorsero del pericolo e tentarono di fuggire. Furono i più facili ad agguantare: un laccio intorno al collo, un coltello scagliato nella schiena, e i fuggitivi si abbatterono al suolo. Altri furono bruscamente afferrati e spinti fuori dalla calca, le mani legate e i piedi impastoiati. Mentre questo accadeva, Jessica continuò a tenere le braccia sollevate, benedicendo con la sua presenza, tenendo sottomessa la folla. Colse tuttavia i segni inequivocabili delle voci che si stavano spargendo, e seppe subito quella che – dopo una simile dimostrazione – dominava sulle altre: La Reverenda Madre ritorna per estirpare gli indolenti. Benedetta la madre del nostro Signore! Quando finì – qualche cadavere, qua e là, sulla sabbia, i prigionieri

trascinati dentro il recinto, sotto la torre di atterraggio – Jessica abbassò le braccia. Non erano passati più di tre minuti. Lei sapeva che ben difficilmente tra gli uomini catturati da Gurney e dai suoi avrebbero trovato qualcuno dei capi. Questi costituivano la minaccia più grande, gente abile, accorta, sempre sul chi vive. Ma ugualmente, tra i prigionieri, ci sarebbe stato qualche pesce interessante, oltre alla solita zavorra d'imbecilli. Jessica, dunque, abbassò le braccia e, applaudendo, la folla balzò in piedi. Come se niente di sinistro fosse accaduto, Jessica discese da sola la rampa, evitando ostentatamente sua figlia e concentrando tutta la sua attenzione su Stilgar. La barba nera, a cuneo, che gli scendeva fin quasi sul petto, fuori dal cappuccio della tuta distillante, era chiazzata di grigio, un ruvido sottobosco incolto, ma i suoi occhi avevano quella stessa intensità, priva del bianco, che avevano mostrato il giorno del loro primo incontro nel deserto. Stilgar sapeva ciò che era appena accaduto, e approvava. Egli era un vero Naib dei Fremen, un condottiero d'uomini capace delle più sanguinose decisioni. Le sue prime parole furono senz'altro in carattere: – Benvenuta a casa, mia Signora. Fa sempre piacere, assistere a un'azione diretta ed efficace. Jessica si concesse un impercettibile sorriso. – Chiudi lo spazioporto, Stil. Nessuno potrà uscirne finché non avremo interrogato gli uomini che abbiamo preso. – Già fatto, mia Signora, – replicò Stilgar. – Io ho messo a punto questo piano insieme all'inviato di Gurney. – Allora, erano i tuoi uomini quelli che ci hanno aiutato. – Alcuni di essi, mia Signora. Jessica colse la riserva nascosta, e annuì. – Mi hai studiato molto bene ai vecchi tempi, Stil. – Anche se ti fu penoso dirmelo, mia Signora, si studiano coloro che sopravvivono e s'impara da loro. Alia avanzò verso di loro. Stilgar si fece da parte e Jessica affrontò sua figlia. Non c'era alcun modo di nascondere ciò che aveva appreso, perciò neppure ci provò. Alia, quand'era necessario, sapeva cogliere anche i più piccoli particolari, come qualunque altro adepto della Sorellanza. Ciò che era stato fatto in nome di Jessica doveva averle chiarito più che a sufficienza fino a qual punto sua madre aveva visto e intuito. C'erano nemici per i quali l'aggettivo mortale era penosamente inadeguato.

Alia scelse la reazione più facile e adeguata al momento: la rabbia. – Come hai osato progettare una simile azione senza consultarmi? – esclamò, furiosa, avvicinando il suo viso a quello di Jessica. Jessica replicò, impassibile: – Come hai appena udito, Gurney non aveva informato neppure me dell'intero piano. Ha ritenuto... – E tu, Stilgar? – sibilò Alia, coinvolgendo anche lui nella sua ira. – A chi sei fedele? – Il mio giuramento di fedeltà l'ho fatto ai figli di Muad'Dib, – replicò Stilgar, rigido. – Qualcosa li minacciava, e l'abbiamo distrutto. – Perché mai questo non ti riempie di gioia... figlia mia? – chiese Jessica. Alia tornò a voltarsi verso sua madre, e la fissò, socchiudendo gli occhi. Dominò la tempesta interiore e riuscì perfino a sorridere. – Ma io sono piena di gioia... madre, – esclamò. E con sua viva sorpresa scoprì che, sì, era felice. Un grandissimo piacere l'aveva invasa, e s'irradiava da lei verso sua madre. L'istante che aveva temuto di più era passato, e l'equilibrio del potere non era stato, a quanto pareva, neppure sfiorato. – Discuteremo di questo con maggiori particolari in un momento più propizio, – disse, rivolgendosi sia a Jessica che a Stilgar. – Naturalmente, – annuì Jessica. Distolse gli occhi da Alia, con un gesto di congedo, e si voltò a guardare la principessa Irulan. Per pochi, brevi palpiti dei loro cuori, Jessica e la principessa si studiarono in silenzio... due Bene Gesserit che avevano rotto i legami con la Sorellanza, per la stessa ragione: l'amore... Entrambe per l'amore di due uomini che ora erano morti. La principessa Irulan aveva amato Paul invano, diventando sua moglie ma non la sua compagna. E ora viveva soltanto per i figli che Chani, la concubina Fremen, aveva dato a Paul. Jessica parlò per prima: – Dove sono i miei nipotini? – A Sietch Tabr. – Troppo pericoloso per loro, a quanto mi è stato detto. Irulan si permise un lieve cenno del capo. Aveva assistito al breve scontro fra Alia e Jessica, facendo subito sua l'interpretazione di Alia: Jessica è ritornata alla Sorellanza, e tutte e due sappiamo che hanno dei piani per i figli di Paul. Come adepta del Bene Gesserit, Irulan si era sempre mostrata assai scadente. L'unico suo pregio, in realtà, era quello di essere una delle figlie di Shaddam IV, e questo la rendeva, spesso, troppo orgogliosa per sforzarsi di ampliare le sue capacità. Ora, prese partito con una fulmineità che non testimoniava certo in favore del suo addestramento.

– Veramente, Jessica, – disse, – il Consiglio Reale avrebbe dovuto essere consultato. È stato uno sbaglio, da parte tua, agire da sola, tramite... – Devo forse credere che nessuna di voi si fidi di Stilgar? – chiese Jessica. Irulan possedeva un'intelligenza sufficiente a rendersi conto che non poteva esserci risposta a questa domanda. Provò, quindi, un vivo sollievo quando i delegati del clero, incapaci di dominare più a lungo la loro impazienza, si fecero avanti. Irulan scambiò un rapido sguardo con Alia, e pensò: Jessica è più che mai altera e sicura di sé! Ma subito un assioma del Bene Gesserit si affacciò alla sua mente: La gente altera costruisce soltanto le mura esterne del castello, dietro alle quali cerca di nascondere i suoi dubbi e le sue paure. Poteva questo esser vero anche per Jessica? Certamente no. Allora, doveva essere tutta una finzione. Ma a quale scopo? La domanda inquietava Irulan. I sacerdoti si accalcarono rumorosamente intorno alla madre di Muad'Dib. Qualcuno si limitò a sfiorarle le braccia, ma la maggior parte s'inchinò e profferì frasi di saluto. Finalmente, giunse anche il turno dei due capi-delegazione, i quali si avvicinarono alla Molto Reverenda e Santa Madre accettando il ruolo stabilito per loro – «I primi saranno gli ultimi» – con sorrisi affettati, annunciandole che la cerimonia lustrale l'attendeva alla Rocca, la fortezza che era stata di Paul. Jessica li fissò, e li trovò ambedue repellenti. Erano Javid e Zebataleph. Il primo era un giovane arcigno, le guance tonde, gli occhi velati d'ombra, che mal dissimulavano i sospetti annidati nelle loro profondità. L'altro era il secondogenito di un Naib ch'ella aveva conosciuto al tempo in cui era vissuta tra i Fremen, come egli si affrettò a ricordarle. Fu facile classificarlo: finta giovialità che mascherava un'intima crudeltà, un volto sottile incorniciato da una barba bionda, una perenne eccitazione unita a un minaccioso bagaglio di conoscenze. Ma lei giudicò Javid di gran lunga il più pericoloso dei due, un uomo che non rivelava i suoi pensieri, attraente e – non riuscì a trovare una diversa parola – repulsivo insieme. Il suo accento era strano, vi echeggiava l'antica pronuncia Fremen, come se fosse giunto da qualche tribù isolata del suo popolo. – Dimmi, Javid, – gli chiese Jessica. – Da dove vieni? – Sono un fremen del deserto, niente più, – rispose lui, ma ogni sua sillaba trasudava menzogna. Zebataleph s'intromise con una deferenza quasi offensiva, canzonatoria: – Abbiamo molte cose da rievocare dei vecchi giorni, mia Signora. Io sono

stato uno dei primi, sai?, a riconoscere la santità della missione di tuo figlio. – Ma non sei stato uno dei suoi fedaykin, – lei osservò. – No, mia Signora. Le mie inclinazioni erano più filosofiche. Ho scelto la via del sacerdozio. Salvando, così, la tua preziosa pelle, commentò Jessica dentro di sé. Javid s'intromise: – Ci stanno aspettando alla Rocca, mia Signora. Ancora una volta il suo strano accento suonò come una domanda che esigeva risposta. – Chi ci aspetta? – s'informò Jessica. – La Convocazione della Fede, tutti coloro che tengono vivi il nome e le azioni del tuo santo figlio, – spiegò Javid. Jessica si guardò intorno, colse il sorriso di Alia a Javid, e subito chiese: – Quest'uomo è uno dei tuoi attendenti, figlia? Alia annuì: – Un uomo destinato a grandi imprese. Ma Jessica vide che Javid non provava alcun piacere a trovarsi al centro dell'attenzione, e già questo era un buon motivo per raccomandarlo alle cure di Gurney. E proprio in quell'istante Gurney arrivò, scortato da quattro guardie, con l'annuncio che i malfidi catturati tra la folla ora stavano subendo un duro interrogatorio. Gurney aveva i gesti e l'andatura scattante di un uomo forte e possente, gli occhi vigili e guizzanti, ogni suo muscolo si snodava agile sotto la pelle, in quella peculiare tensione rilassata che Jessica gli aveva insegnato, traendola dal prana-bindu del Bene Gesserit. Era un groviglio scattante di riflessi condizionati, un assassino, un mostro, per alcuni, ma Jessica l'amava e lo stimava sopra ogni altro uomo vivente. La cicatrice di una frustata, un'antica sferzata di liana indelebilis, gli increspava la mascella, dandogli un aspetto sinistro, ma un sorriso gli ammorbidì il volto quando vide Stilgar. – Ben fatto, Stil, – esclamò. E si strinsero le braccia alla maniera dei Fremen. – La cerimonia lustrale, – insisté Javid, toccando il braccio di Jessica. Jessica si scostò, e scandì la sua risposta usando il potere della Voce, il tono e la dizione calcolati per ottenere un preciso effetto emotivo su Javid e Zebataleph: – Sono tornata su Dune per vedere i miei nipoti. Devo invece sprecare il mio tempo in queste sciocchezze pretesche? Zebataleph la fissò sconvolto, a bocca aperta, poi si guardò intorno, allarmato. Prese nota, con rapide occhiate, di tutti quelli che avevano udito. Sciocchezze pretesche! Quale effetto avrebbero avuto simili parole

uscite dalla bocca della madre del loro messia? Javid confermò la valutazione che di lui aveva fatto Jessica. La sua bocca s'indurì, poi sorrise. Ma i suoi occhi non sorrisero, né guizzarono qua e là per prender nota degli ascoltatori. Javid conosceva ogni membro di quel gruppo. Aveva già tracciato nella sua mente una mappa di quelli che si trovavano a portata di orecchio e che da quel momento sarebbero stati sorvegliati con particolare cura. Solo parecchi istanti più tardi Javid smise di sorridere con una fulmineità che rivelò come si fosse reso conto di essersi tradito. Javid non aveva mancato di assolvere i suoi compiti «domestici», per cui conosceva il potere di osservazione di Lady Jessica. Con un sussulto appena percettibile, rese omaggio a quel potere. Jessica, grazie al suo addestramento da mentat, valutò con uguale fulmineità ciò che era indispensabile fare. Un impercettibile segno della mano a Gurney avrebbe provocato la morte di Javid. Lì, sull'istante, per impressionare gli astanti, oppure più tardi, con calma, facendolo apparire un incidente. Pensò: Proprio quando cerchiamo di nascondere i nostri impulsi più segreti, tutto il nostro essere li urla, e ci tradisce. Tutto l'addestramento del Bene Gesserit ruotava intorno a questa rivelazione: innalzando gli adepti sopra di essa e insegnando loro a leggere nella carne degli altri come in un libro aperto. Ella vide che l'intelligenza di Javid era preziosa, d'un peso tutt'altro che trascurabile in quell'equilibrio di forze. Se fosse stato possibile farlo passare dalla sua parte, avrebbe potuto essere l'anello di congiunzione di cui ella aveva bisogno, il filo che l'avrebbe condotta all'interno del clero di Arrakeen. In più, era un uomo di Alia. Disse: – È bene che la mia scorta ufficiale sia la più ridotta possibile. Ma c'è posto per un'altra persona. Javid, tu ti unirai a noi. Zebataleph, mi spiace. E, Javid, presenzierò a questa... a questa cerimonia, se insisti. Javid si concesse un profondo sospiro, e mormorò: – Come la madre di Muad'Dib ordina. – Guardò Alia, Zebataleph, poi ancora Alia. – Mi addolora ritardare il ricongiungimento con i tuoi nipoti, ma vi sono, uhm, ragioni di stato... Jessica pensò: Bene. Più di ogni altra cosa, è un uomo d'affari. E una volta accertato qual è la moneta più adatta, lo compreremo. Scoprì di provar piacere per questo insistere di Javid con quella sua preziosa cerimonia. Quella piccola vittoria gli avrebbe dato un maggior potere sopra i compagni, ed entrambi lo sapevano. Il fatto che lei avesse accettato la cerimonia lustrale poteva ben essere un pagamento per i servigi futuri.

– Presumo tu abbia pensato a un mezzo di trasporto, – gli disse.

Ti addito il camaleonte del deserto, la cui abilità nel confondersi con la sabbia ti dice tutto ciò che hai bisogno di sapere sulle concrete origini dell'ecologia e sui reali fondamenti dell'identità personale. – Libro delle Diatribe dalle Cronache di Hayt

Leto stava suonando, seduto, il piccolo baliset che gli era stato inviato in dono, in occasione del suo quinto compleanno, da quel raffinato artista che era Gurney Halleck. In quattro anni di esercizio Leto aveva raggiunto una certa abilità, anche se le due corde laterali di bordone gli creavano ancora qualche problema. Aveva tuttavia scoperto che il baliset era un efficace calmante, quand'era in preda a sensazioni particolarmente sconvolgenti: e questo non era sfuggito a Ghanima. Ora Leto sedeva, alla luce del crepuscolo, su una sporgenza rocciosa, all'estremità più a sud dello scosceso affioramento che proteggeva Sietch Tabr. Pizzicò, piano, le corde del baliset. Ghanima era in piedi dietro di lui, la sua piccola figura vibrava d'irritazione. Non avrebbe voluto uscire là all'aperto, dopo aver appreso da Stilgar che la nonna era stata trattenuta ad Arrakeen. Soprattutto, l'infastidiva il fatto di esser venuti lì all'approssimarsi della notte. Tentò di far fretta a suo fratello. – E allora? – gli chiese. – Che cos'hai? Come tutta risposta, Leto cominciò a suonare un altro motivo. Per la prima volta, da quando aveva ricevuto il regalo, egli fu intensamente consapevole del fatto che quel baliset era stato creato da un maestro artigiano su Caladan. Egli, Leto, possedeva dentro di sé ricordi non suoi, ereditati, i quali ugualmente potevano stringergli il cuore con una profonda nostalgia per quel meraviglioso pianeta dove la Casa degli Atreides aveva regnato. Bastava, soltanto, che in presenza di quella musica egli lasciasse dissolvere le sue barriere interiori, e avrebbe rivissuto i ricordi del tempo in cui Gurney aveva suonato il baliset deliziando il suo amico e protetto, Paul Atreides. Ora, pizzicando il suo strumento, Leto si sentì sempre più dominato dalla presenza fisica di suo padre. Tuttavia continuò a suonare, e ad ogni istante che passava diventò sempre più un tutt'uno con lo strumento. Avvertì dentro di sé l'assoluta, idealizzata quintessenza dell'arte del musicista, anche se i suoi muscoli – era pur sempre un bimbo di nove anni! – non erano stati ancora condizionati da quella consapevolezza interiore. Ghanima picchiò il piede per terra, fremendo d'impazienza, e inconsciamente segnò il ritmo della musica del fratello.

Piegando la bocca in una smorfia di concentrazione, Leto abbandonò le melodie familiari e provò una canzone più antica perfino delle più antiche musiche suonate da Gurney. Era già vecchia quando i Fremen erano migrati sul loro quinto pianeta. Le parole echeggiavano un tema degli Zensunni, e lui le udì chiaramente nei suoi ricordi, mentre le sue dita eseguivano, impacciate, il motivo: La natura e le sue forme affascinanti Hanno una meravigliosa proprietà Che alcuni chiamano... decadenza. Ed è grazie a questo prodigio Che la nuova vita trova la sua strada. Le lagrime versate in silenzio Sono l'acqua dell'anima: Esse recano con sé nuova vita Per la fatica dell'esistere... Per la nostra visione offuscata e manchevole Che soltanto la morte rende completa.

Ghanima fece udire la sua voce, dietro di lui, mentre Leto traeva l'ultima nota: – È una canzone vecchia e sporca. Perché proprio questa? – Perché è la più adatta. – La suonerai a Gurruey? – Forse. – Dirà che è sciocca, piena di malinconia. – Lo so. Leto girò la testa e scrutò Ghanima, da sopra la spalla. Il fatto che lei conoscesse quell'antichissima canzone non lo sorprese, ma lo colse un'improvvisa meraviglia davanti a questa comunione, a questa identità delle loro vite. Se anche uno di loro due fosse morto, avrebbe continuato a vivere nella coscienza dell'altro, ogni più piccolo ricordo condiviso, intatto. La loro reciproca intimità era completa. Leto fu afferrato da un vago timore di fronte alla ragnatela senza tempo di quella intimità, e bruscamente distolse lo sguardo da lei. La ragnatela era squarciata qua e là, egli lo sapeva. La sua paura nasceva dal più recente di questi squarci. Sentì che le loro esistenze cominciavano a separarsi, e si chiese: Come posso parlarle di questo... di ciò che è accaduto soltanto a me? Scrutò il deserto, vide le ombre profonde che stagliavano il profilo delle barcane: le alte dune migranti a forma di mezzaluna che si spostavano, lente e inarrestabili, sulla superficie di Arrakis. Quello era il Kedem, il

deserto interno, e oggi le sue dune erano sempre più raramente segnate dal passaggio di un verme gigante. Il tramonto disegnava lunghissime scie sanguinose sulle dune, accendendo di un bagliore fiammeggiante le loro creste. Un falco si calò in picchiata dal cielo cremisi e ghermì con implacabile determinazione una pernice che tentava di fuggire. Più in basso, sotto la sporgenza rocciosa, le piante crescevano in una profusione di verde sul fondo del deserto, irrigate da un qanat che in parte scorreva all'aperto, in parte dentro a gallerie. L'acqua proveniva da giganteschi collettori, captata da un'intera batteria di trappole a vento che si trovava alle sue spalle, sul punto più alto della dorsale rocciosa. Lassù, garriva al vento la verde barriera degli Atreides. Acqua e verde. I nuovi simboli di Arrakis: acqua e verde. Un'oasi, una distesa di dune coltivate a forma di losanga, si stendeva sotto il suo alto piedestallo: essa attirò la sua attenzione, che si fece acuta quanto la consapevolezza di un Fremen. Lo stridulo richiamo di un uccello notturno gli giunse dal dirupo alle sue spalle, e rese ancora più palpabile la sua sensazione di vivere un lungo attimo uscito da un selvaggio passato. Nous avons changé tout cela, pensò, scivolando in una delle antiche lingue ch'egli e Ghanima usavano in privato. Abbiamo cambiato tutto questo. Sospirò. Oublier je ne puis. Non posso dimenticare. Nella luce sempre più fosca del crepuscolo, lontano, oltre l'oasi, riuscì ancora a intravvedere l'immensa distesa che i Fremen chiamavano «il Vuoto»: la terra dove nulla cresceva, la terra che non aveva mai germinato. L'acqua e il grande piano ecologico stavano cambiando tutto questo. Ora c'erano luoghi, su Arrakis, dove il lussureggiante velluto delle foreste ricopriva di verde i fianchi delle colline. Foreste su Arrakis! Qualcuno, fra quelli della nuova generazione, trovava difficile immaginare che quelle verdi colline ondulate fossero, in realtà, dune. Per occhi così giovani, le ampie foglie lanceolate della vegetazione tropicale, su Arrakis, non erano fonte di attonito sbigottimento. Ma ora Leto scoprì che stava pensando alla vecchia maniera dei Fremen, diffidente di fronte ai cambiamenti, timoroso di ogni novità. Disse: – I bambini mi dicono che qui, ora, è raro trovare una trota delle sabbie vicino alla superficie. – E che cosa vorrebbe significare, questo? – replicò Ghanima. La sua voce suonò petulante. – Le cose cominciano a cambiare molto rapidamente.

Ancora una volta lo stridulo richiamo dell'uccello, dal dirupo, e la notte piombò sul deserto come il falco era piombato sulla pernice. Spesso la notte lo affliggeva, aggredendolo con un turbine di ricordi: tutte quelle vite interiori che reclamavano il loro momento. Ghanima accettava, molto più di lui, questo assalto. Tuttavia, era ben conscia delle sue inquietudini, e Leto sentì la sua mano che gli toccava la spalla, comprensiva. Trasse un accordo rabbioso dal baliset. Come poteva dirle ciò che gli stava accadendo? Dentro la sua testa c'erano guerre, innumerevoli vite che disseminavano a piene mani gli antichi episodi delle loro esistenze: violenze inaudite, languori amorosi, un caleidoscopio incessante di luoghi, di volti, di colori... i dolori segreti e l'esplosione di gioia delle moltitudini, elegie alla primavera su pianeti che non esistevano più, danze nei boschi e intorno ai falò, gemiti e grida d'incitamento, un brusio di miriadi di conversazioni. Al cader della notte, all'aperto: quello era il momento più difficile per sostenere il loro assalto. – Rientriamo, ora? – ella chiese. Leto scosse la testa. Ghanima intuì il movimento, e si rese conto, infine, che i problemi di Leto scendevano molto più in profondità di quanto, all'inizio, ella avesse sospettato. Perché do così spesso il benvenuto alla notte, qua fuori? si chiese Leto. Neppure si accorse che Ghanima aveva tolto la mano dalla sua spalla. – Sai perché ti tormenti in questo modo? – ella gli chiese. Percepì il lieve rimprovero nella voce di lei. Sì, lo sapeva. La risposta era lì, nella sua coscienza, ovviamente: Perchè quell'immenso «notoignoto» si agita dentro di me come un'onda. Sentì il suo passato gonfiarsi dentro di lui come se stesse cavalcando una tavola su un'onda. I ricordi della prescienza di suo padre si estendevano in ogni direzione nel tempo, e tendevano a sovrapporsi ad ogni altro ricordo, ma egli voleva ad ogni costo conservarla, sfidando i pericoli in essa contenuti. Ora ne aveva acquistato completa coscienza, grazie a questa... a questa nuova cosa di cui avrebbe dovuto parlare a Ghanima. Il deserto cominciava a risplendere sotto la luce della Prima Luna, comparsa all'orizzonte. Leto fissò l'ingannevole immobilità delle pieghe della sabbia che si perdevano all'infinito. Alla sua sinistra, non molto lontano, distinse l'Attendente, un insieme di rocce affioranti che la sabbia sospinta dalle raffiche violente del vento aveva corroso fino ad una forma bassa e sinuosa, simile a un verme scuro che strisciasse fra le dune. Un

giorno, anche la roccia sotto i suoi piedi sarebbe stata consumata a tal punto, e Sietch Tabr non sarebbe più esistito, fuorché nei Ricordi di qualcuno come lui. Leto non ebbe dubbi che ci sarebbe stato qualcuno come lui. – Stai fissando l'Attendente? – chiese Ghanima. Leto scrollò le spalle. Sfidando gli ordini dei loro sorveglianti, egli e Ghanima si recavano spesso fino all'Attendente. Lì, avevano scoperto un nascondiglio segreto, ed egli ora sapeva perché quel mucchio di rocce li attirava a tal punto. Sotto di lui – nel buio, tutto sembrava farsi più vicino – la superficie scoperta del qanat scintillava alla luce della luna. L'acqua s'increspava ai guizzi dei pesci predatori che i Fremen mettevano sempre nell'acqua immagazzinata, per tener lontane le trote delle sabbie. – Io mi trovo tra il pesce e il verme, – mormorò Leto. – Cos'hai detto? Leto ripeté la frase a voce più alta. Ghanima si portò una mano alla bocca. Dentro di sé, cominciava a sospettare ciò che lo spingeva ad agire. Suo padre aveva agito così; ella non doveva fare altro che scrutare dentro se stessa e confrontare. Leto scrollò le spalle. Ricordi legati a luoghi che la sua carne non aveva mai conosciuto rispondevano a domande che non si era mai posto. Egli vedeva le relazioni tra le cose e i fatti dispiegarsi su un gigantesco schermo interiore. Il verme delle sabbie di Dune non avrebbe attraversato l'acqua. L'acqua lo avvelenava. Eppure qui l'acqua era esistita, in tempi preistorici. Le candide depressioni di gesso testimoniavano di antichi laghi e mari. Pozzi scavati in profondità avevano rivelato l'acqua che la trota della sabbia aveva sigillato. Con assoluta chiarezza egli vide ciò che era accaduto su quel pianeta: questo lo riempì di cupi presagi a causa dei catastrofici mutamenti che l'intervento umano stava apportando. Con una voce che era poco più di un bisbiglio, disse: – So che cosa è accaduto, Ghanima. Ella si curvò sopra di lui: – Sì? , – La trota delle sabbie... Leto ripiombò nel silenzio, ed ella si chiese per quale ragione continuasse a parlare della fase aploide del gigantesco verme delle sabbie, ma non osò insistere. – La trota delle sabbie, – insisté lui, – è stata portata quaggiù da qualche altro mondo. Prima di quel giorno, questo era un pianeta umido. Essa

proliferò al punto che gli ecosistemi allora esistenti furono travolti. La trota delle sabbie chiuse come in una ciste tutta l'acqua disponibile, e trasformò questo mondo in un pianeta deserto... lo fece per sopravvivere. In questo deserto arido e bruciato, poté passare allo stadio di verme delle sabbie. – La trota delle sabbie? – Ghanima scosse la testa; non dubitava delle sue parole, ma non se la sentì di scandagliare le profondità da cui Leto aveva tratto quell'informazione. La trota delle sabbie? ripeté dentro di sé. Molte volte, in quella sua carne, e nella carne di altri, ella si era divertita con quel gioco infantile, cercando con una bacchetta la trota, attirandola in una sottile membrana fatta a guanto, per portarla infine, prigioniera, agli essiccatori, che l'uccidevano e ne estraevano l'acqua. Era difficile pensare a quelle creature senza cervello come a qualcosa capace di provocare eventi di portata millenaria. Leto annuì fra sé. I Fremen avevano sempre saputo che bisognava immettere pesci predatori nelle cisterne della loro acqua. La trota, la forma aploide del verme delle sabbie, resisteva, mantenendosi attiva, anche al contatto di grandi quantità di acqua libera, alla superficie del pianeta; per questo i predatori nuotavano in quel qanat, sotto di lui. Il verme delle sabbie, da cui i Fremen si facevano trasportare, tollerava soltanto minime quantità d'acqua: quella contenuta nelle cellule dei corpi umani, ad esempio. Ma a contatto con grandi quantità d'acqua, i processi chimici del suo organismo impazzivano, sopravveniva la morte e si formava il melange concentrato, puro, mortalmente pericoloso, la suprema droga della visione interiore, che i Fremen assorbivano, molto diluita, nell'orgia del sietch. Era stato il melange puro a condurre Paul Muad'Dib attraverso le mura del tempo, nelle profondità di quell'abisso di dissoluzione che nessun altro maschio aveva mai raggiunto. Ghanima sentì che suo fratello, seduto davanti a lei, tremava. – Che cosa ti succede? – gli chiese. Ma Leto proseguì, ostinato, il suo discorso. – La trasformazione ecologica del pianeta... le trote delle sabbie, inevitabilmente, caleranno sempre più di numero... – Esse oppongono resistenza alla trasformazione, è ovvio, – lei annuì, ma ormai percepiva, sempre più chiaramente, la paura nella sua voce, e sempre più, suo malgrado, vi si trovò coinvolta. – Quando le trote delle sabbie saranno scomparse del tutto, scompariranno anche i vermi, – egli proseguì. – Bisogna avvertire la tribù.

– Non ci sarà più spezia – ella disse. Ma queste parole apparivano goffe e inadeguate, sfiorando appena, in superficie, la minacciosa catena di eventi che entrambi vedevano incombere sull'intromissione umana negli antichi equilibri di Dune. – È questo, appunto, che Alia sa, – riprese Leto. – E ne prova una gioia maligna. – Come puoi esserne sicuro? – Lo sono. Così, Ghanima seppe ciò che lo turbava. E il saperlo la raggelò. – Le tribù non vorranno crederci, se lei lo negherà, – disse ancora Leto. Questo, appunto, era il nodo cruciale, il problema delle loro esistenze: quale Fremen avrebbe accettato come frutto di saggezza le dichiarazioni di un ragazzino di nove anni? Alia, maturando la sua esperienza ogni giorno di più grazie alle molteplici vite che condivideva dentro di sé, giocava appunto su questo. – Dobbiamo convincere Stilgar, – dichiarò Ghanima. Girarono ambedue, con perfetto sincronismo, la testa verso il deserto illuminato dalla luna. Quei brevi istanti di accresciuta consapevolezza ne avevano fatto un luogo diverso. Mai, come adesso, era balzato loro evidente lo stretto rapporto fra l'uomo e quell'ambiente. Ambedue si sentirono parte integrante di un sistema dinamico in cui l'ordine era conservato grazie a delicatissimi equilibri. Questa nuova prospettiva implicava un effettivo, profondo mutamento delle rispettive coscienze, una capacità moltiplicata di relazioni e di dialoghi. Come Liet-Kynes aveva detto un giorno, l'universo era un luogo di continue conversazioni fra le diverse specie animali. La trota aploide delle sabbie aveva parlato loro come una creatura umana. – Le tribù capiranno, se l'acqua sarà minacciata, – disse Leto. – Ma è una minaccia che va al di là dell'acqua. È una... – Ghanima s'interruppe bruscamente, poiché aveva colto il significato molto più profondo delle sue parole. L'acqua era il simbolo del potere supremo, su Arrakis. Alla radice, i Fremen erano rimasti «animali» altamente specializzati, capaci di sopravvivere nel deserto, esperti nell'arte di governare in condizioni di estrema difficoltà. E man mano che l'acqua si era fatta più abbondante, pur senza obliare ciò che prima era stato indispensabile per sopravvivere, il simbolo aveva subìto, per essi, una trasformazione, una sorta di transfert. – Tu vuoi dire... una minaccia al potere, – lo corresse, infine.

– Naturalmente. – Ma vorranno crederci? – Se lo vedranno accadere... se si accorgeranno del crescente equilibrio. Ghanima disse, ripetendo le parole dette da suo padre molto tempo prima: – L'equilibrio è ciò che distingue un popolo da una plebaglia. Le parole di lei rievocarono, in Leto, il padre, ed egli proseguì: – L'economia contrapposta alla bellezza... una storia più antica di quella della regina di Saba. – Sospirò, e alzò gli occhi a fissare la sorella: – Ghanima... Comincio ad avere sogni prescienti. Un rauco sospiro le uscì di bocca. Leto disse ancora: – Quando Stilgar ci annunciò che la nonna avrebbe tardato... io avevo già vissuto quell'istante. Ora, ho cominciato a sospettare di tutti i miei sogni. – Leto... – Ghanima scosse la testa, gli occhi umidi. – È accaduto anche a nostro padre. Non pensi che... – Ho sognato che correvo fra le dune, chiuso in un'armatura, – continuò lui. – E sono stato a Jacurutu. – Jacu... – Ghanima si schiarì la gola. – L'antica leggenda! – Un luogo vero, reale, Ghani! Devo trovare l'uomo che chiamano il Predicatore. Devo trovarlo e interrogarlo. – Pensi che sia... nostro padre? – Perché non lo chiedi a te stessa? – Sarebbe tipico di lui, – Ghanima annuì. – Ma... – Molte fra le cose che farò... so già quali saranno... non mi piacciono, – disse Leto. – Per la prima volta nella mia vita, capisco mio padre. Ella si sentì esclusa dai suoi pensieri, e obiettò: – Il Predicatore... probabilmente è soltanto un vecchio mistico. – Oh, se fosse così! – bisbigliò Leto. – Oh, quanto prego che sia così! – Piegò il corpo in avanti e si alzò in piedi. Il baliset vibrò tra le sue mani mentre si alzava. – Speriamo che sia soltanto un arcangelo Gabriele senza la tromba. – Tornò a fissare, in silenzio, il deserto illuminato dalla luna. Ghanima seguì il suo sguardo e scorse la fosforescenza dei vegetali in putrefazione ai bordi delle piantagioni del sietch; ancora più oltre, la vaga luminosità si fondeva col profilo ondulato delle dune. Là fuori, la superficie del pianeta era viva. Perfino quando il deserto dormiva, qualcosa restava sveglio in esso. Ghanima percepì quella vigile presenza, udì il lieve rumore degli animali, sotto di lei, che si abbeveravano al qanat. La rivelazione di Leto aveva trasformato la notte: quello era un attimo

vivente, nel quale scoprire la regolarità dell'eterno mutamento, l'istante in cui percepire l'intero passato incapsulato nei loro ricordi, fin dai lontanissimi giorni della Terra. – Perché Jacurutu? – ella chiese, e il suono della sua voce infranse la tensione accumulata nel buio. – Perché... non so. Quando Stilgar ci descrisse, la prima volta, come uccisero tutta la gente che abitava laggiù, facendone un luogo proibito, pensai... quello che tu stessa hai pensato. Ma ora da laggiù viene un pericolo... e il Predicatore. Ghanima non rispose, non pretese che Leto condividesse con lei altri sogni prescienti, anche se ben sapeva che questa sua mancata insistenza gli avrebbe rivelato tutto il terrore ch'ella ne aveva. Quella strada conduceva all'Abominazione, ed entrambi lo sapevano. La parola restò sospesa tra loro mentre Leto si voltava, inoltrandosi tra le rocce e aprendole la strada verso l'ingresso al sietch. Abominazione.

L'Universo è di Dio. Esso è un'unica entità, una totalità in confronto alla quale qualunque singola parte o frammento è trascurabile. La vita che nasce e muore, perfino quella ragionante e autoconsapevole che noi chiamiamo senziente, ha soltanto in fragile affidamento in custodia ereditario una impercettibile porzione della totalità. – Commentari della C.T.E. (Commissione dei Traduttori Ecumenici)

Gurney Halleck usò il codice segreto delle mani per trasmettere il vero messaggio, mentre parlava ad alta voce di tutt'altre cose. Non gli piaceva la piccola stanza dove i sacerdoti li avevano fatti entrare per il suo rapporto: doveva senz'altro rigurgitare di spie elettroniche. Comunque, che tentassero pure di decodificare quei segnali quasi impercettibili fatti con le mani. Gli Atreides avevano usato per secoli questo mezzo di comunicazione, senza che alcuno fosse mai riuscito a capire qualcosa. Fuori era scesa la notte, ma quella stanza non aveva finestre, e prendeva luce da quattro globi agli angoli del soffitto. «Molti, fra quelli che abbiamo preso, erano uomini di Alia» segnalò Halleck, gli occhi fissi in quelli di Jessica, mentre a voce alta le diceva che gli interrogatori erano ancora in corso. «Tu l'avevi previsto» rispose Jessica, con un lievissimo moto delle dita. A voce alta, replicò: – Mi aspetto un rapporto completo quando ti riterrai soddisfatto, Gurney. – Sì, mia Signora. – Ma le sue dita continuarono: «E c'è un altro fatto assai inquietante. Sotto l'effetto delle droghe pesanti, alcuni prigionieri si sono lasciati sfuggire un nome, Jacurutu, e appena l'hanno pronunciato sono morti.» «Un blocco cardiaco condizionato?» chiesero le dita di Jessica. E ad alta voce: – Hai messo in libertà qualcuno dei prigionieri? – Pochi, mia Signora... qualche sciocco di nessuna importanza. – Ma le sue dita dissero, guizzando: «Sospettiamo un blocco cardiaco indotto, ma non ne siamo ancora sicuri. Le autopsie non sono concluse. Tuttavia, ho ritenuto che tu dovessi esser subito informata di questa faccenda di Jacurutu, e sono venuto immediatamente.» «Il mio Duca ed io abbiamo sempre creduto che Jacurutu fosse soltanto una leggenda, anche se basata su fatti concreti» replicarono le dita di Jessica, ed ella ignorò la fitta dolorosa che la coglieva ogni volta che parlava del suo amore, morto da lungo tempo. – Hai ordini? – chiese Halleck, ad alta voce.

Jessica replicò, anch'essa ad alta voce: Gurney doveva ritornare allo spazioporto, e ripresentarsi a lei non appena avesse avuto informazioni concrete. Ma le dita di Jessica trasmisero un altro messaggio: «Riprendi contatto con i tuoi amici contrabbandieri. Se Jacurutu esiste... deve procurarsi da vivere smerciando la spezia. E l'unico mercato possibile, per loro, è quello dei contrabbandieri.» Halleck accennò a un rapido inchino con la testa, mentre le sue dita dicevano: «Sto già esplorando questa possibile pista.» E poiché non poteva ignorare l'addestramento di un'intera vita, aggiunse: «Sii molto cauta in questo luogo. Alia è tua nemica, e la maggior parte del clero è dalla sua.» «Non Javid» risposero le dita di Jessica. «Javid odia gli Atreides. Dubito che chiunque non sia un adepto possa accorgersene, ma io ne sono certa. Javid cospira, e Alia non lo sa.» – Assegnerò altre guardie alla tua persona, – disse Halleck a voce alta, ignorando il corruccio che per un attimo lampeggiò negli occhi di Jessica. – Ci sono pericoli, ne sono certo. Passerai qui la notte? – Più tardi andremo a Sietch Tabr. – S'interruppe, e per un attimo fu sul punto di dirgli di non mandare altre guardie... Ma non lo fece. Doveva fidarsi dell'istinto di Gurney. Non pochi Atreides l'avevano imparato, sia con piacere che con dolore. – Il Maestro del Noviziato vuole parlarmi, – spiegò. – È l'ultimo incontro. Poi, sarò felice di andarmene da questo posto.

E vidi un'altra bestia uscire dalla sabbia. Essa aveva due corna come un agnello, ma la sua bocca ostentava zanne taglienti ed era feroce come quella di un drago; il suo corpo irradiava luce e calore come una fornace, e sibilava come un serpente. – Bibbia Cattolica Orangista (riveduta)

Egli si faceva chiamare Il Predicatore, e fra la gente di Arrakis non pochi, in preda a un reverenziale timore, si andavano convincendo che, sì, poteva essere Muad'Dib ritornato dal deserto, niente affatto morto. Muad'Dib poteva essere vivo; infatti, chi mai aveva visto il suo corpo? E, d'altro canto, chi mai aveva rivisto uno solo dei corpi che il deserto inghiottiva? Ma tuttavia... Muad'Dib? C'erano, sì, molti punti in comune, anche se nessuno fra quelli che l'avevano conosciuto, anni prima, si era fatto avanti a dichiarare: – Sì, costui è Muad'Dib, io lo conosco. Tuttavia... Come Muad'Dib, il Predicatore era cieco, le occhiaie nere, cauterizzate, come soltanto un bruciapietre poteva aver fatto. E la sua voce penetrava gli animi, sferzando, con questa stessa forza che scatenava, imperiosa, una reazione dalle profondità del nostro essere. Molti l'avevano già sperimentato. Il Predicatore era magro, il volto solcato da rughe profonde, i capelli grigi. Ma il deserto profondo faceva questo effetto su parecchia gente: bastava guardarsi intorno, le prove si vedevano dovunque. E c'era un altro motivo di contrasto: il Predicatore era guidato da un giovane Fremen, un ragazzo che non proveniva da alcun sietch conosciuto, il quale, a chiunque glielo chiedesse, dichiarava di lavorare a salario. Si argomentava che Muad'Dib, conoscendo il futuro, non aveva avuto bisogno di una guida, se non proprio alla fine, quando il dolore l'aveva sopraffatto. E così infatti era stato, tutti lo sapevano bene. Il Predicatore era comparso un mattino d'inverno per le vie di Arrakeen, una mano bruna e nodosa sulla spalla della sua giovane guida. Il ragazzo, che aveva detto di chiamarsi Assan Tariq, si era mosso attraverso la folla cittadina esalando un sentore di polvere e di roccia, guidando il suo protetto con l'agilità di un coniglio nella tana, senza perdere una sola volta il contatto. Il cieco, dissero i più acuti osservatori, indossava il bourka tradizionale sopra una tuta distillante di un tipo che, un tempo, veniva confezionato soltanto nelle caverne dei sietch del deserto profondo. Non era come le tute che oggi venivano sfornate in serie. Il tubo che, applicato al naso, catturava l'umidità del suo respiro trasportandola agli strati condensatori sotto il bourka, era avvolto in un intreccio di fibre di liana nera, come ormai si

vedeva molto di rado. La maschera della tuta che gli copriva la parte bassa del viso era segnata da macchie verdi, causate dall'erosione del vento carico di sabbia. Quel Predicatore, sotto ogni aspetto, sembrava uscito dal passato di Dune. Molti, tra la folla mattutina di quel giorno d'inverno, avevano notato il suo passaggio. In fin dei conti, un Fremen cieco era una rarità. La legge dei Fremen ancora imponeva che i ciechi fossero offerti a Shai-hulud. E le parole della Legge, anche se essa era meno onorata in quei tempi moderni e infiacchiti, erano rimaste immutate, fin dai primissimi tempi. I ciechi erano un dono per Shai-hulud. Dovevano essere portati all'aperto, nel bled, perché i grandi vermi li divorassero. Quando ciò accadeva – e in qualche modo si veniva sempre a saperlo, in città – accadeva laggiù dove regnavano ancora i grandi vermi, quelli che venivano chiamati i Vecchi Uomini del Deserto. Quindi, un Fremen cieco era una curiosità, e la gente, quella mattina, si era fermata a osservare il passaggio della strana coppia. Il ragazzo sembrava avere quattordici anni standard. Era un membro, cioè, della nuova generazione, e indossava una tuta distillante modificata, la quale gli lasciava il viso esposto all'aria predatrice di umidità. Aveva lineamenti sottili, gli occhi tinti di azzurro dalla spezia, un naso sporgente, e quell'espressione innocente che così spesso nasconde il consapevole cinismo dei giovani. Con lui il cieco formava uno stridente contrasto, un ricordo di tempi quasi dimenticati: passi lunghi e misurati, e un'instancabilità che parlava di molti anni trascorsi nella sabbia, con soltanto i piedi per viaggiare, o un verme impastoiato. La sua testa si ergeva sul collo con quella rigidità che soltanto pochi ciechi riescono a eliminare, agitandosi sotto il cappuccio soltanto quando l'orecchio captava qualche suono interessante. Quella mattina, dunque, la strana coppia continuò ad avanzare attraverso la folla che andava infittendosi col passar delle ore, e finalmente arrivò all'immensa gradinata – in realtà una successione di terrazze disposte una sull'altra – che risaliva fino allo strapiombante Tempio di Alia, degno emulo della Rocca di Paul. Il Predicatore risalì i gradini fino alla spianata dove i pellegrini del Hajj aspettavano l'apertura mattutina delle immense porte che incombevano su di loro. Erano porte così grandi che vi sarebbe passata facilmente una cattedrale delle antiche religioni. Si diceva che, varcandole, l'anima dei pellegrini venisse ridotta a una pagliuzza, sottile quanto bastava per passare attraverso la cruna di un ago ed entrare così in paradiso.

Giunto là sopra, il Predicatore si voltò, e fu come se si guardasse intorno e vedesse, con le occhiaie vuote, i frivoli abitanti della città: alcuni di essi erano Fremen, che, con indosso abiti che simulavano le tute distillanti ma erano soltanto tessuto decorativo, osservavano i pellegrini bramosi appena sbarcati dai trasporti spaziali della Gilda, in attesa di compiere il primo, devoto passo sulla via che avrebbe loro garantito un posto in paradiso. La gente, lassù, si accalcava rumorosa: c'erano cultisti dello Spirito del Mahdi, vestiti di verde, ognuno col suo falco addestrato a lanciare acutissime strida: «una chiamata rivolta al cielo». I venditori di cibo e gli altri ambulanti urlavano, in competizione, vantando le qualità delle rispettive merci, che erano molte e disparate. C'erano gli astrologi di Dune, con i loro opuscoli registrati sul filo shiga. Un ambulante ostentava stracci dall'aspetto esotico e garantiva che provenivano da vestiti «toccati da Muad'Dib in persona!» Un altro esibiva fialette di «autentica acqua di Sietch Tabr, dov'è vissuto Muad'Dib.» E s'intrecciavano conversazioni in un centinaio o più di dialetti Galach, inframmezzate dagli aspri suoni gutturali e dagli squittii dei dialetti dei territori di frontiera annessi al Sacro Impero. Volti Danzanti e altri individui infidi di Tleilax balzavano e piroettavano attraverso la calca nei propri vestiti dai colori vivaci. C'erano facce magre e grasse, facce ricche d'acqua. Uno sterminato scalpiccio di piedi nervosi si alzava dal plastacciaio granuloso che rivestiva gli ampi gradini. E di tanto in tanto una voce lamentosa s'innalzava dalla cacofonia di suoni e di preghiere: – Mua-a-a-ad'Dib! Mua-a-a-ad'Dib! Tu, che sei consacrato da Dio, accogli la mia anima! Mua-a-ad'Dib! Là vicino, tra i pellegrini, due mimi davano spettacolo per poche monete, recitando i versi della «Disputa di Armistead e Leandgrah» molto popolare in quei giorni. Il Predicatore drizzò la testa per ascoltare. I mimi erano gente di città, uomini di mezza età, che recitavano con voce strascicata. La giovane guida si affrettò a descriverli al Predicatore, quando questi gliel'intimò con un secco ordine. Erano paludati con vesti larghe, cadenti, e neppure si degnavano di simulare la tuta distillante sopra i loro corpi ricchi d'acqua. Assan Tariq giudicò tutto questo divertente, ma il Predicatore lo rimproverò. Il mimo che recitava la parte di Leandgrah stava giusto concludendo il suo discorso: – Bah! La mano... la mano che tocca, che sente, è l'unica che può capire l'universo. È la mano che guida il tuo prezioso cervello. Tu vedi ciò che hai creato, tu stesso capisci, senti, soltanto dopo che la mano ha

fatto il suo lavoro! Pochi, sparsi applausi, salutarono la fine dello sproloquio. Il Predicatore annusò l'aria, corrucciato. Le sue narici registrarono una grande ricchezza di odori. Esalazioni di tute distillanti mal chiuse, muschi per mascherare i miasmi corporali, da tutte le direzioni l'onnipresente sentore della roccia sbriciolata, le esalazioni di innumerevoli diete alimentari di tutti i pianeti dell'impero, e l'aroma dell'incenso nero che era già stato acceso all'interno del Tempio di Alia e ora veniva soffiato giù per l'immensa scalinata manovrando abilmente le correnti d'aria. I pensieri del Predicatore si rifletterono sul suo viso, mentre assorbivano la quintessenza di quel luogo e di quella gente: A questo siamo arrivati, noi Fremen. All'improvviso la folla si agitò, incuriosita e nervosa, richiamata da un altro spettacolo. Un gruppo di danzatori della sabbia era comparso sulla piazza, ai piedi della gradinata: erano una cinquantina, legati gli uni agli altri da corde di elacca. Era ovvio che avevano danzato, così legati, per giorni interi, alla ricerca dell'estasi. Avevano la schiuma alla bocca, mentre sussultavano e battevano i piedi al ritmo di una misteriosa musica interiore. Un buon terzo di loro penzolava inconscio dalle corde, trascinato avanti e indietro dagli altri come marionette appese a un filo. Una di queste marionette, però, si era risvegliata pochi istanti prima, e la folla fremette, trattenendo il respiro. – Ho visto! – strillò il danzatore appena risvegliato. – Ho visto! – Puntò i piedi e resistette agli altri che lo tiravano. Roteò gli occhi fiammeggianti a destra e a sinistra. – Dove ora sorge questa città rimarrà soltanto sabbia! Ho visto! Una fragorosa, scrosciante risata si alzò dagli spettatori. Perfino gli impazienti pellegrini si unirono al coro. Questo fu troppo per il Predicatore. Sollevò entrambe le braccia, e con una voce stentorea, che certamente un giorno doveva aver fatto tremare i cavalieri dei vermi, ruggì: – Silenzio! – La folla che si accalcava sui piazzali tacque d'incanto, a quel grido di battaglia. Il Predicatore puntò la sua mano sottile verso i danzatori, dando così la sconvolgente illusione che li vedesse davvero. – Non avete udito ciò che ha detto quell'uomo? Empi e idolatri! La religione di Muad'Dib non è Muad'Dib! Egli la disprezza, come disprezza voi! La sabbia coprirà questo luogo... La sabbia coprirà voi tutti! Quindi, abbassò le braccia, appoggiò una mano sulla spalla della sua giovane guida, e ordinò: – Conducimi lontano da qui.

Forse erano state le parole scelte dal Predicatore, Egli la disprezzo, come disprezza voi! Forse era stato il tono con cui le aveva pronunciate, più che umano, una vocalità certamente addestrata alle arti del Bene Gesserit, capace di penetrare gli animi con le più sottili inflessioni. O forse fu dovuto soltanto all'intrinseco misticismo di quel luogo, dove Muad'Dib era vissuto, si era aggirato fra la sua gente e aveva governato. Qualcuno, dal gradino più alto, gridò, rivolgendosi alla schiena del Predicatore che si stava allontanando, con una voce che fremeva di paura e reverenza: – Quell'uomo è forse Muad'Dib ritornato fra noi? Il Predicatore si fermò, infilò la mano nella borsa sotto il bourka, e ne tolse un oggetto che soltanto quelli più vicini a lui riconobbero. Una mano umana mummificata dal deserto, uno dei modi con cui il pianeta scherzava con la morte, e che di tanto in tanto spuntavano fuori dalla sabbia, considerati dovunque come dei messaggi di Shai-hulud. La mano era completamente disseccata e stretta a pugno, troncata appena sotto il polso da cui sporgeva un osso sbiancato dall'erosione. – La Mano di Dio! Questo io reco con me, e nient'altro! – urlò il Predicatore. – Io parlo in nome della Mano di Dio. Io sono il Predicatore! Qualcuno pensò ch'egli volesse dire che quella era la mano di Muad'Dib, altri invece furono affascinati da quella presenza imperiosa e dalla sua terribile voce... e così Arrakis poté dargli un nome. E non fu l'ultima volta che la sua voce tuonò fra loro.

È voce comune, mio caro Georad, che l'esperienza del melange abbia, in sé, una grande virtù naturale. Ma io dubito fortemente che il melange sia in grado di attribuire virtù positive a chiunque ne faccia uso, e in qualunque modo. Mi sembra che alcuni abbiano corrotto l'uso del melange, sfidando Dio. Essi, per dirla con le parole dell'Ecumene, hanno sfigurato le loro anime. Essi, in realtà, si limitano a sfiorare la superficie del melange, e credono con ciò di aver conseguito la grazia. Essi deridono i loro compagni, danneggiano gravemente la devozione, e distorcono perfidamente il significato di questo grande dono. Una mutilazione, senza dubbio, che non potrà essere mai più rimediata, essendo questo al di là del potere dell'uomo. Per realmente identificarsi con la virtù della spezia, incorrotto sotto ogni aspetto, colmo di onori e di gratificazioni, un uomo deve far sì che le sue parole siano in perfetta armonia con le sue azioni. Se le tue azioni portano a conseguenze malvagie, tu allora dovrai essere giudicato per queste conseguenze, senza prestare orecchio alle tue giustificazioni. È così che noi dovremmo giudicare Muad'Dib. – L'eresia pedantesca

Nella stanza aleggiava un lieve odore di ozono, i globi erano stati schermati e l'unica luce era un vago grigiore irradiato dallo schermo televisivo. Questo era un riquadro largo un metro e alto una settantina di centimetri, e mostrava con ricchezza di particolari una valle rocciosa e spoglia; due tigri Laza si stavano cibando dei resti sanguinolenti delle prede appena uccise. Sul fianco della collina, più in alto rispetto alle tigri, si scorgeva un uomo magro, con l'uniforme di fatica dei Sardaukar, le insegne di Levenbrech al colletto. Portava appeso, al petto, un dispositivo per il controllo a distanza. Una poltrona era sospesa davanti allo schermo; era occupata da una donna dall'età indefinibile, dai capelli chiari. Aveva un viso a forma di cuore e due mani sottili che si aggrappavano ai braccioli, mentre guardava. Il suo corpo scompariva tra le pieghe di un'ampia veste bianca, bordata d'oro. A un passo di distanza, alla sua destra, un uomo tozzo, rivestito dell'uniforme verde e oro di Aiutante Bashar degli antichi Sardaukar imperiali, fissava anch'egli lo schermo. I suoi capelli brizzolati erano tagliati corti, sopra il suo volto squadrato, impassibile. La donna tossì, poi disse: – È andata come avevi previsto, Tyekanik. – Sì, Principessa, – rispose l'Aiutante Bashar, con voce rauca. Ella sorrise, nel percepire l'emozione a stento trattenuta, e gli chiese: – Dimmi, Tyekanik, non credi che mio figlio sarà deliziato, quando si sentirà proclamato Imperatore... Imperatore Forad'n I?

– Il titolo gli si addice, Principessa. – Questa non era la mia domanda. – Potrebbe, forse, non approvare alcune tra le cose che abbiamo fatto per conquistargli quel... sì, quel titolo. – Sei sempre... – La principessa si voltò e lo scrutò, nella penombra. – Hai servito bene mio padre. Non è stata colpa tua, se ha perso il trono, strappatogli dagli Atreides. Ma anche tu, come ogni altro, devi indubbiamente sentire il bruciore di quella... – La Principessa Wensicia ha forse qualche compito speciale per me? – chiese Tyekanik. La sua voce suonò ancora rauca, ma si era fatta tagliente. – Hai la brutta abitudine d'interrompermi, – ella lo rimproverò; ma subito gli sorrise, facendo luccicare i denti robusti alla luminosità dello schermo. – A volte mi ricordi tuo padre, – replicò lui. – Sempre tutte queste circonlocuzioni prima di una... uhm... di una richiesta delicata. La principessa distolse bruscamente lo sguardo da lui per nascondere la sua irritazione, e gli chiese: – Credi davvero che quelle tigri riusciranno a porre mio figlio sul trono? – Mi sembra ovvio, Principessa. Quei due piccoli bastardi di Paul Atreides saranno solo due succosi bocconi, per le tigri. E una volta spariti i gemelli... – Scrollò le spalle. – Il nipote di Shaddam IV diventa il successore più logico, – ella concluse. – Questo, cioè, se riusciremo a vincere le obiezioni dei Fremen, del Landsraad e della CHOAM, per non parlare degli Atreides sopravvissuti che potrebbero... – Javid mi ha garantito che i suoi uomini potranno prendersi cura di Alia senza difficoltà. Quanto a Lady Jessica, io non la considero un'Atreides. Chi altro rimane? – Il Landsraad e la CHOAM andranno sempre con chi garantirà il maggior profitto, – replicò lei. – Ma i Fremen? – Li affogheremo nella loro religione di Muad'Dib! – Più facile a dirsi che a farsi, mio caro Tyekanik. – Capisco, – disse lui. – Eccoci un'altra volta con quella vecchia storia. – La Casa di Corrino ha fatto cose assai peggiori per conquistare il potere. – Ma abbracciare questa... questa religione del Mahdi! – Mio figlio ha fiducia in te, – ella disse, scandendo le parole. – Principessa, io attendo con ansia il giorno in cui la Casa di Corrino

riavrà lo scettro del potere che le spetta di diritto. E lo stesso vale fino all'ultimo Sardaukar rimasto qui su Salusa. Ma se tu... – Tyekanik! Questo pianeta è Salusa Secundus! Non cedere anche tu alla pigrizia che sta snervando il nostro Impero. Il nome completo, il titolo completo, sempre. La massima attenzione a ogni particolare. È appunto la cura meticolosa dei più minuti particolari che tingerà col sangue degli Atreides le sabbie di Arrakis. Attento ai particolari, Tyekanik! Egli ben sapeva il perché di questo improvviso attacco. Faceva parte dell'ambigua furbizia che Wensicia aveva imparato da sua sorella Irulan. E sospirò; era già sconfitto in partenza. – Mi hai sentito, Tyekanik? – Ti ho sentito, Principessa. – Voglio che tu abbracci questa religione di Muad'Dib. – Principessa, camminerei nel fuoco per te, ma questo... – È un ordine, Tyekanik! Tyekanik deglutì, fissò lo schermo. Le tigri Laza avevano terminato il festino e ora erano distese sulla sabbia, intente a completare la loro toilette, leccandosi le zampe anteriori con la lunga lingua. – Un ordine, Tyekanik... Hai capito? – Ho capito e obbedisco, Principessa. – La sua voce non cambiò tono. Wensicia sospirò: – Oh, se mio padre fosse vivo... – Sì, Principessa. – Non burlarti di me, Tyekanik. So quanto tutto ciò ti disgusti. Ma tu darai l'esempio... – Lui potrebbe non seguirlo, Principessa. – Lo seguirà. – Ella indicò lo schermo. – Mi è venuto in mente che il Levenbrech, là fuori, potrebbe costituire un problema. – Un problema? E come? – Quante persone conoscono questa faccenda delle tigri? – Quel Levenbrech, che le ha addestrate... il pilota di un cargo spaziale, tu, e naturalmente... – Si portò una mano al petto. – ... Io. – E quelli che hanno trattato l'acquisto? – Non sanno nulla. Che cosa temi, Principessa? – Mio figlio è... è sensibile, come tu sai. – I Sardaukar non rivelano i segreti – esclamò Tyekanik. – E neppure i morti. – La principessa protese la mano e schiacciò un pulsante rosso sotto lo schermo illuminato. Subito, le tigri Laza alzarono la testa. Lentamente, si drizzarono sulle

quattro zampe e guardarono in alto, verso il Levenbrech. In perfetta sincronia, i loro corpi massicci si voltarono e presero a risalire il fianco della collina. Sulle prime, il Levenbrech restò impassibile e si limitò a premere un tasto sul dispositivo di controllo. Ma ben presto i suoi movimenti divennero frenetici, e prese a schiacciare il tasto con affanno crescente. Infine, un'espressione di orrore si disegnò sul suo volto, e la sua mano si mosse di scatto verso il coltello che aveva appeso alla cintura. Ma era troppo tardi. Un artiglio affilato lo colpì al petto, rovesciandolo a terra. Mentre cadeva, l'altra tigre lo azzannò al collo e lo scrollò violentemente. La sua colonna vertebrale si spezzò con un colpo secco. – Attenzione ai particolari, – commentò la principessa. Si voltò, e s'irrigidì quando vide Tyekanik sguainare il pugnale. Ma Tyekanik glielo porse reggendolo per la lama, con l'elsa in avanti. – E ora, vuoi forse il mio stesso pugnale, per sistemare un altro dettaglio? – le disse, sarcastico. – Rimettilo nel fodero e non comportarti da sciocco! – ella replicò, infuriata. – A volte, Tyekanik, metti a dura prova la mia pazienza, al punto che... – Quello, là fuori, era un uomo in gamba, Principessa. Uno dei miei migliori. – Uno dei miei migliori, – ella lo corresse. Tyekanik esalò un profondo sospiro e, ancora fremente, tornò a infilare il pugnale nel fodero. – E il pilota del cargo? – Sarà vittima di un incidente... purtroppo, – disse la principessa. – Tu gli raccomanderai la massima prudenza, quando caricherai nuovamente le tigri sulla sua nave. E, naturalmente, quando avrò consegnato quei graziosi animaletti agli uomini di Javid, lì, sul cargo... – Fissò eloquentemente il pugnale. – È un ordine, Principessa? – È un ordine. – Poi, dovrò io lasciarmi cadere sulla punta del mio pugnale, o ti occuperai tu personalmente di quest'ultimo, ehm, particolare? Ella replicò, asciutta: – Tyekanik, se io non fossi assolutamente convinta che ti lasceresti cadere sul tuo pugnale a un mio ordine, non ti troveresti qui, accanto a me, armato. Egli deglutì, fissò lo schermo. Le tigri stavano consumando il nuovo pasto. La principessa si rifiutò di guardare la scena e continuò invece a

fissare Tyekanik, mentre diceva: – Inoltre, dirai ai nostri fornitori che non ci portino più coppie di bambini che corrispondano a quella descrizione. – Come comandi, Principessa. – Non usare quel tono con me, Tyekanik. – Sì, Principessa. Le labbra di Wensicia divennero una linea sottile. Poi chiese: – Quante paia abbiamo ancora, di quei costumi? – Sei paia, completi di tuta distillante e scarpe da sabbia, tutti ricamati con l'insegna degli Atreides. – Tessuti suntuosi, come quelli che indossavano quei due? – Indicò lo schermo con un cenno del capo. – Degni di due sovrani, Principessa. – Attenzione ai particolari, – ella ripeté. – Quegli indumenti saranno inviati su Arrakis. Doni per i nostri nobili cugini... da parte di mio figlio, hai capito, Tyekanik? – Sì, Principessa. – Fagli scrivere un biglietto adatto. Qualcosa come... sì: «Vi prego di accettare da parte mia questi pochi, meschini indumenti, come segno della mia devozione alla Casa degli Atreides.» – E il motivo... la circostanza? – Ci sarà un compleanno o un qualunque altro giorno in cui si celebra qualcosa, Tyekanik. Informati. Trova qualcosa. Ho piena fiducia in te, amico mio. Tyekanik la fissò in silenzio. Il volto di lei s'indurì. – Tu lo farai. Troverai senz'altro qualcosa. Di chi altri posso fidarmi, dopo la morte di mio marito? Tyekanik scrollò le spalle. Soltanto un ragno l'avrebbe eguagliata, nel tessere le sue trame. Doveva a tutti i costi evitare che i loro rapporti si facessero troppo intimi. Forse, quello sventurato Levenbrech c'era cascato?... – E, Tyekanik, – ella riprese. – Ancora un altro particolare. – Sì, Principessa. – Mio figlio, come tu ben sai, viene addestrato a governare. Verrà il giorno in cui, per la prima volta, dovrà stringere la spada con le sue mani. Quando giungerà quel momento, desidero che tu m'informi immediatamente. – Come comandi, Principessa. Wensicia si lasciò andare contro lo schienale, e scrutò freddamente

Tyekanik. – Tu non mi approvi, lo so. Ma non ha alcuna importanza, per me. Almeno finché ti ricorderai la lezione del Levenbrech. – Era in gamba con gli animali, ma non indispensabile. Sì, Principessa. – Non è questo che intendo. – No? Allora... non capisco. – Un esercito, – lei riprese, – è interamente composto di parti intercambiabili, tutto si può sostituire. Questa è la lezione del Levenbrech. – Parti intercambiabili, – ripeté lui. – Anche il capo supremo? – Senza un capo supremo, Tyekanik, un esercito ben di rado ha ragione di esistere. Per questo, tu abbraccerai subito questa religione del Mahdi, e allo stesso tempo comincerai a parlarne a mio figlio e ti sforzerai di convincerlo. – Subito, Principessa. E, suppongo, tu non vorrai certamente che io riduca il suo addestramento nelle arti marciali a vantaggio di questa, ehm, religione? Wensicia si alzò di scatto dalla poltrona, l'aggirò e con incedere imperioso si avvicinò alla porta. Qui si fermò, e parlò senza voltarsi: – Un giorno sfiderai la mia pazienza una volta di troppo, Tyekanik. – Detto questo, uscì dalla stanza.

O abbandoniamo la teoria della relatività, da molti anni onorata, oppure non crediamo più di poterci impegnare in lunghe, accurate predizioni del futuro. In verità, la conoscenza del futuro solleva una miriade di domande alle quali non si può rispondere secondo le usuali convenzioni, a meno che, primo, non proiettiamo un Osservatore fuori del Tempo e, secondo, non annulliamo tutti i movimenti. Se accettiamo la Teoria della Relatività, è dimostrato che, se vogliamo evitare errori, il Tempo e l'Osservatore devono restare immobili l'uno rispetto all'altro. Questo sembrerebbe voler dire che è impossibile, per quanti sforzi facciamo, predire esattamente il futuro. Come possiamo, dunque, spiegare la continua ricerca di questa meta assurda da parte di valenti scienziati? E come possiamo spiegare Muad'Dib? – Lezioni sulla prescienza di Harq al-Ada

– Devo dirti qualcosa, – disse Jessica. – Anche se quanto ti dirò rievocherà molte dolorose esperienze dei nostri rispettivi passati, e sarà, per te, fonte di pericolo. Tacque, e aspettò la reazione di Ghanima. Erano sole, sedute su un mucchio di cuscini in una delle stanze di Sietch Tabr. Era stata necessaria una grande abilità per combinare quest'incontro, e Jessica non era affatto certa di essere stata soltanto lei a manovrare. Le era sembrato che Ghanima prevedesse ogni suo atto e, deliberatamente, le rendesse le cose più facili. Il giorno era spuntato da quasi due ore, e l'eccitazione dei saluti e di tutti gli altri convenevoli era passata. Jessica costrinse il battito del suo cuore a placarsi, e concentrò la sua attenzione sulle tende scure e i gialli cuscini che ammorbidivano la durezza e il gelo delle pareti rocciose. Quasi a esorcizzare la tensione che si era accumulata dentro di lei, si trovò a recitare per la prima volta dopo tanti anni la Litania contro la Paura, uno dei rituali del Bene Gesserit. Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta alla distruzione totale. Affronterò la mia paura. Farò che scivoli sopra di me, che passi attraverso me. E quando sarà passata, il mio occhio interiore scruterà il suo sentiero. Ma dov'è andata la paura non ci sarà nulla. Io soltanto ci sarò. Io, e nient'altro. Pronunciò la litania in silenzio, e respirò profondamente. – A volte aiuta, – disse Ghanima. – La litania, voglio dire. Jessica chiuse gli occhi per nascondere il suo sbigottimento di fronte a una simile capacità d'osservazione. Era passato molto tempo, dai giorni in

cui qualcuno era stato capace di leggere con tanta chiarezza dentro di lei. E il suo sconcerto fu tanto più grande, nel ritrovare una simile intelligenza dietro una maschera infantile. Tuttavia, Jessica aveva riacquistato il dominio di sé. Riaprì gli occhi, e seppe l'origine della sua agitazione. Ho paura per i miei nipoti. Nessuno dei due gemelli tradiva le stigmate dell'abominazione che Alia ostentava con tanta evidenza, anche se Leto mostrava indubbi segni di nascondere dentro di sé qualcosa di terrificante. Era quella la ragione per cui, abilmente, era stato escluso da quel colloquio. D'impulso, Jessica si liberò anche delle sue più radicate mascherature emotive, sapendo che, qui, qualunque barriera alla comunicazione sarebbe servita a ben poco. Mai, dai lontani giorni meravigliosi trascorsi al fianco del suo Duca, aveva abbassato quelle barriere. Ora, provò dolore e sollievo insieme. Esistevano pur sempre dei fatti che né le maledizioni, né le preghiere, né le litanie sarebbero riuscite a spazzar via dall'esistenza. Fuggire non sarebbe comunque servito a lasciarseli alle spalle. Non potevano essere ignorati. Il trascorrere del tempo aveva fatto sì che gli eventi precorsi da Paul nelle sue visioni, sia pure diversamente disposti, incombessero ormai sui suoi figli. Leto e Ghanima erano come un magnete nel vuoto: le loro persone sembravano attirare irresistibilmente, intorno a sé, il male, e tutti i più tristi frutti del potere. Ghanima colse il gioco delle emozioni sul volto della nonna, e si meravigliò che Jessica avesse abbassato la sua guardia, così all'improvviso. Simultaneamente, con un movimento aggraziato, le due teste si mossero l'una verso l'altra. I loro occhi s'incontrarono, gli sguardi indagatori scrutarono nell'intimo. Senza profferir parola, ognuna conobbe i pensieri dell'altra. Jessica: Voglio che tu veda la mia paura. Ghanima: Ora so che mi vuoi bene. Un moto spontaneo, caldo, avvincente, di reciproca fiducia. Jessica disse: – Quando tuo padre era soltanto un ragazzo, feci venire a Caladan una Reverenda Madre, per metterlo alla prova. Ghanima annuì. Quel ricordo era estremamente vivo in lei. – Noi Bene Gesserit abbiamo sempre agito con molta cautela, perché i bambini da noi educati fossero creature umane e non animali. Non si può sempre giudicare dalle apparenze esteriori. – Così, appunto, voi venite addestrate, – annuì Ghanima. Il ricordo si

fece ancora più vivido, bruciante. Quella vecchia Bene Gesserit, Gaius Helen Mohiam, era venuta a Castel Caladan col suo gom jabbar avvelenato e la sua scatola del dolore. La mano di Paul (la mano di Ghanima, nel ricordo condiviso col padre) urlò per l'atroce sofferenza che le infliggeva quella scatola, mentre la vecchia ripeteva, implacabile, la minaccia della morte che l'avrebbe fulmineamente ghermito, se la mano fosse stata sottratta al dolore. Nessun dubbio possibile sulla morte che gli avrebbe inflitto quell'ago appoggiato al suo giovane collo, pronto a conficcarsi nella sua carne, mentre la voce carica d'anni bisbigliava monotona la sua spiegazione: Tu hai certamente sentito parlare di quegli animali che si strappano via una zampa pur di sfuggire a una trappola. Questo è un espediente da bestie. Un uomo rimarrebbe nella trappola, sopporterebbe il dolore, si fingerebbe morto, così da ghermire a sua volta il cacciatore e ucciderlo, eliminando così una minaccia alla sua razza. Ghanima scrollò la testa, per scacciare il ricordo di quel dolore, dell'atroce sofferenza. Quel bruciore! Quel fuoco invisibile, spietato. Paul aveva immaginato con allucinante chiarezza la mano che si accartocciava, annerita, là dentro la scatola, la pelle crocchiante che si sbriciolava, scoprendo le ossa carbonizzate. E invece... un trucco: la mano era intatta. Eppure, la fronte di Ghanima si era imperlata di sudore a quel ricordo. – Tu, naturalmente, ricordi tutto questo in un modo che per me è impossibile, – disse Jessica. Per un vivido istante, guidata dal ricordo, Ghanima vide sua nonna in una luce diversa. Che cosa mai avrebbe potuto fare quella donna, spinta ineluttabilmente dal suo condizionamento alla scuola del Bene Gesserit! Ciò, ora, riproponeva con urgenza ancora maggiore la domanda: perché Jessica era ritornata su Arrakis? – Sarebbe stupido ripetere una simile prova su di te, o su tuo fratello, – riprese Jessica. – Voi già sapete in che cosa consiste. Devo perciò limitarmi a supporre che voi siate umani e che non abuserete dei poteri che avete ereditato. – Ma tu non lo supponi affatto, – ribatté Ghanima. Jessica ammiccò, si rese conto di aver risollevato, senza accorgersene, le barriere, e si affrettò a riabbassarle. Chiese: – Tu credi al mio amore per te? – Sì. – Ghanima alzò una mano, quando Jessica fece per replicare. – Ma questo tuo amore non t'impedirebbe di distruggerci. Oh, conosco il ritornello: «Meglio che la bestia-uomo muoia, piuttosto che si riproduca e

si perpetui.» E questo è vero soprattutto se la bestia-uomo porta il nome degli Atreides. – Tu, per lo meno, sei umana, – l'interruppe impulsivamente Jessica. – Su questo mi fido del mio istinto! Ghanima colse l'intimo significato di quella frase, e replicò: – Ma non sei sicura di Leto. – No, infatti. – Abominazione? Jessica riuscì soltanto ad annuire. – No, – disse Ghanima. – Non ancora, almeno. Ma entrambe sappiamo quanto è grave il pericolo che ciò accada. Alia ci sta mostrando la via. Jessica si coprì gli occhi con le mani, e pensò: Perfino l'amore non può proteggerci da ciò che paventiamo. Seppe che amava ancora sua figlia, e urlò silenziosamente contro il destino. Alia! Oh, Alia! Quanto mi angoscia la parte che avrò nella tua distruzione... Ghanima si schiarì rumorosamente la gola. Jessica abbassò le mani e pensò: Per quanto il cuore mi sanguini per la mia figlia sventurata, ora altre necessità incombono su di noi. Disse: – Così, ti sei accorta di ciò che è accaduto ad Alia. – Leto ed io l'abbiamo visto prender forma davanti ai nostri occhi. Siamo stati impotenti a impedirlo, anche se ne abbiamo discusso a lungo tra noi. – Sei sicura che tuo fratello sia libero da questa maledizione? – Sì, ne sono sicura. Jessica non poté ignorare la tranquilla certezza di questa affermazione. E l'accettò. Disse ancora: – E voi, come siete sfuggiti ad essa? Ghanima le spiegò allora la teoria, per lei e Leto diventata una precisa norma di vita, che la differenza essenziale fra loro e Alia fosse dovuta al loro drastico rifiuto di sottoporsi alla trance da spezia, mentre Alia v'indulgeva spesso. E proseguì rivelandole i sogni di Leto e i progetti che avevano discusso... perfino Jacurutu. Jessica annuì: – Alia è un'Atreides, tuttavia, e questo pone enormi problemi. Ghanima non trovò parole per rispondere. Si era resa conto all'improvviso che il rimpianto di Jessica per il suo Duca era più vivo e straziante che mai, come se il suo nobile sposo fosse morto il giorno prima; ed ella avrebbe difeso il suo nome contro ogni macchia. Ricordi personali della vita del Duca lampeggiarono veloci nella coscienza di

Ghanima, confermando il suo giudizio, ma ammorbidendolo col calore della comprensione. – Ma ora dimmi, – riprese in fretta Jessica. – Questo Predicatore... chi è? Ho sentito voci inquietanti, ieri, dopo quell'assurda cerimonia lustrale. Ghanima scrollò le spalle: – Potrebbe essere... – Paul? – Sì, ma noi non l'abbiamo visto. Non abbiamo potuto scrutare dentro di lui. – Javid ride di quelle voci, – aggiunse Jessica. Ghanima esitò. Poi: – Ti fidi di questo Javid? Un sorriso sardonico sfiorò le labbra di Jessica: – Non più di quanto ti fidi tu. – Leto dice che Javid ride delle cose sbagliate, – disse ancora Ghanima. – Tanto peggio per Javid e le sue risate, – concluse Jessica. – Ma tu credi davvero che mio figlio sia vivo, che sia ritornato... così? – Noi diciamo che è possibile. E Leto... – Ghanima, all'improvviso, sentì la bocca arida e il ricordo di molte paure l'attanagliò al petto. Con uno sforzo si dominò e le raccontò le altre rivelazioni di Leto, i suoi sogni prescienti. Jessica si agitò, scuotendo la testa, come se qualcosa l'avesse ferita a sangue. Ghanima concluse: – Leto dice che dobbiamo trovare questo Predicatore e accertarci se è vero. – Sì, naturalmente... Non avrei mai dovuto andarmene da qui. È stata una vigliaccheria da parte mia. – Perché biasimi te stessa? Tu avevi raggiunto il limite. Io lo so. Anche Leto lo sa. Perfino Alia... Jessica si accarezzò la gola, pensosa. Poi mormorò: – Sì, il problema di Alia. – Sembra che, in qualche modo, eserciti una strana attrazione su Leto, – disse Ghanima. – Per questo ho favorito questo incontro fra noi due, sole. Anche Leto è convinto che non c'è più alcuna speranza per lei, ma trova ancora pretesti per restarle vicino a... a studiarla. Io... sono terribilmente inquieta. Ma non appena protesto e tento di metterlo in guardia, lui cade addormentato. Lui... – Alia lo droga, forse? – Oh, no. – Ghanima scosse la testa. – Ma Leto ha questa singolare empatia con lei. E quando è immerso nel sonno, egli spesso mormora un

nome: Jacurutu. – Ancora! – La rivelazione spinse Jessica a riferirle, in ogni particolare, il rapporto di Gurney sui cospiratori smascherati allo spazioporto. – A volte mi convinco che Alia stia spingendo Leto a cercare Jacurutu, – fu l'angosciato commento di Ghanima. – Io avevo sempre creduto che fosse una leggenda. Tu la conosci, naturalmente. Jessica rabbrividì: – Un'orribile storia. Orribile. – Che cosa dobbiamo fare? – chiese Ghanima. – Ho sempre più paura, quando mi metto a esplorare tutti i miei ricordi, tutte le mie vite... – Ghani, non devi farlo! Ascoltami, non devi rischiare... – Potrebbe accadere anche se non rischio. E come potremmo sapere, altrimenti, ciò che Alia... – No! Tu puoi ancora salvarti da quella... da quella possessione. – Pronunciò questa parola come addentandola. – Dunque... Jacurutu, non è vero? Ho dato ordine a Gurney di scoprire dov'è... se esiste. – Ma come potrà... Ah, naturalmente: i contrabbandieri! Jessica restò senza parole di fronte a quell'ulteriore esempio del modo in cui la mente di Ghanima funzionava in perfetto sincronismo con la consapevolezza interiore di un'altra. Con la mia consapevolezza! Com'era strano, in apparenza assurdo, pensò Jessica, che quella giovane carne custodisse in sé tutti i ricordi di Paul, almeno fino all'istante della separazione spermatica di Paul dal suo passato. Era un'invasione nell'intimità altrui che suscitava, in Jessica, la ribellione di qualcosa di primordiale. Per un attimo, si sentì travolgere dal giudizio assoluto e inflessibile del Bene Gesserit: Abominazione! Ma c'era una dolcezza, in quella bambina, una volontà di sacrificarsi per il proprio fratello, che niente avrebbe potuto cancellare. Noi siamo una sola, unica vita che si protende verso un futuro tenebroso, pensò Jessica. Noi siamo un solo sangue. E si fece forza, preparandosi ad accettare gli avvenimenti che lei e Gurney Halleck avevano messo in moto. Leto doveva essere separato da sua sorella, e addestrato come la Sorellanza esigeva.

Odo i venti soffiare sul deserto e vedo le lune di una notte d'estate sollevarsi nel vuoto come grandi navi. Offro ad esse il mio giuramento: abile e risoluto, farò del governo un'arte. Metterò ordine ed equilibrio nel passato che ho ereditato e sarò un perfetto depositario delle reliquie che sono i miei ricordi. E acquisterò fama più per la gentilezza che per il sapere. La mia effigie risplenderà lungo i corridoi del tempo fin quando esisteranno gli esseri umani. – Il giuramento di Leto secondo Harq al-Ada

Quand'era ancora molto giovane, Alia Atreides si era esercitata per ore ed ore nella trance del prana-bindu, cercando di rafforzare la sua privata, intima personalità contro quella di tutti gli altri. Ella conosceva fin troppo bene la situazione: non si poteva sfuggire al melange in un sietch. Esso infestava ogni cosa: il cibo, l'acqua, l'aria, perfino le coperte con le quali si asciugava le lagrime di notte. Molto presto aveva sperimentato l'orgia del sietch, e aveva visto la sua tribù bere l'acqua della morte di un verme. Nell'orgia, i Fremen davano sfogo alla tensione accumulata con i loro ricordi genetici, negandone l'esistenza, ripudiandoli. Aveva visto i suoi compagni posseduti nell'orgia. Per lei non c'era la possibilità di un simile sfogo, nessun ripudio o negazione dei ricordi. Già molto prima della nascita aveva posseduto la coscienza totale. A questo, si era accompagnata l'agghiacciante consapevolezza della sua situazione: imprigionata nell'utero, in un contatto stretto, ossessivo, con tutti i suoi antenati e le altre identità trasmesse dal tau, le libagioni rituali, a Lady Jessica. Prima ancora di nascere, Alia aveva posseduto ogni frammento di sapere richiesto a una Reverenda Madre del Bene Gesserit: molto, ma molto più, di chiunque altro. In quel sapere, c'era il riconoscimento di una terribile realtà: l'Abominazione. La totalità di quel sapere rischiò di travolgerla, di fiaccarla per sempre. Ma Alia, la pre-nata, non fuggì. Continuò a combattere contro il più terribile dei suoi antenati, per tutta la sua infanzia, conquistando, però, una vittoria di Pirro. Era riuscita a possedere una sua personalità privata, ma non aveva alcuna immunità contro le occasionali intrusioni di coloro che continuavano a vivere attraverso di lei. Così anch'io sarò un giorno; il pensiero l'agghiacciava. Ma continuò quella lotta, contro ciò che si agitava in lei, come lei, a sua volta, si sarebbe agitata nella coscienza di un figlio uscito dal suo seno, intromettendosi, afferrandosi ad ogni istante alla sua consapevolezza, per aggiungere alla

propria nuove briciole d'esperienza in più. La paura l'aveva seguita per tutta l'infanzia, prolungandosi anche nella pubertà. Ella l'aveva combattuta senza mai chiedere aiuto. Del resto, chi avrebbe mai capito l'aiuto che le era necessario? Non sua madre, che non era mai riuscita a scacciare del tutto il mortale pregiudizio del Bene Gesserit: il pre-nato è un'Abominazione. Poi era giunta quella notte, quando suo fratello si era incamminato, in completa solitudine, nel deserto, alla ricerca della morte, offrendosi a Shaihulud, com'era decretato che tutti i Fremen ciechi facessero. Un mese dopo, Alia aveva sposato il maestro di spada di Paul, Duncan Idaho, il mentat che le arti dei Tleilaxu avevano richiamato indietro dalla morte. Sua madre si era rifugiata su Caladan. I gemelli di Paul erano stati affidati legalmente alla tutela della zia. Alia, la Reggente. Il peso, la tensione della responsabilità, avevano scacciato le antiche paure, e Alia s'era completamente aperta alle vite interiori, chiedendo loro consiglio, sprofondando nella trance da spezia alla continua ricerca di visioni che la guidassero. La crisi era esplosa un giorno in apparenza identico agli altri, nel mese di Laab, in primavera, un limpido mattino nella Rocca di Muad'Dib, tra le raffiche del gelido vento che soffiava dal polo. Alia ancora indossava il giallo del lutto, il colore del sole sterile. Dentro di lei, la voce di sua madre, che si faceva beffe dei festosi preparativi per le sacre cerimonie dei prossimi giorni al Tempio, si era affievolita sempre più. La voce di Jessica, emanazione della sua identità trasmessa ad Alia prima della nascita, si era inabissata nel nulla, dopo l'ultima perentoria affermazione che Alia avrebbe agito assai meglio, invece, facendo rispettare la legge degli Atreides. Nuove vite cominciarono a chiedere a gran voce il loro momento di consapevolezza. Alia sentì di avere spalancato un pozzo senza fondo, da cui salivano volti come uno sciame di locuste, e riuscì, infine, a metterne uno a fuoco, simile al grugno d'una bestia: il vecchio barone Harkonnen. Terrorizzata e oltraggiata, urlò contro tutto quel clamore dentro di lei, riuscendo a ottenere un temporaneo silenzio. Quel mattino Alia stava dunque passeggiando, prima di colazione, nel giardino pensile della Rocca. In un nuovo tentativo di vincere la sua battaglia interiore, cercò di concentrare l'intera sua coscienza sull'ammonimento di Choda ai Zensunni:

Chi inciampa in un gradino, potrebbe cadere verso l'alto! Ma la luce del mattino, giocando fra i dirupi del Muro Scudo, continuò a distrarla. Ciuffi elastici di erba-velluto coprivano i sentieri del giardino. Quando Alia distolse lo sguardo dal Muro Scudo, vide che l'erba era coperta di rugiada, tutta l'umidità passata lì sopra durante la notte, intrappolata in una miriade di gocce che riflettevano l'immagine di lei che passava, moltiplicandola all'infinito. Quel brulichio di riflessi la stordì. Ogni immagine aveva le sembianze di un volto uscito dalla sua moltitudine interiore. Cercò di concentrare la mente su ciò che l'erba implicava. Quell'abbondante rugiada le diceva fino a qual punto erano progredite le trasformazioni ecologiche su Arrakis. Il clima di quelle latitudini settentrionali si andava riscaldando, l'anidride carbonica dell'atmosfera era in aumento. Alia rifletté sull'incredibile numero di nuovi ettari di terreno che, il prossimo anno, sarebbero stati coltivati a pineta... e ci volevano milleduecento metri cubi d'acqua soltanto per irrigare un ettaro! Ma nonostante tutti i suoi tentativi di ricondurre i pensieri su fatti mondani, concreti, non riuscì a scacciar via tutti gli altri, dentro di lei, che giravano intorno alla sua coscienza come tanti squali. Si portò le mani alla fronte e le premette con forza. Le guardie del Tempio – del suo Tempio – il giorno prima, al calar del sole, le avevano portato un prigioniero, perché lo giudicasse: il suo nome era Essas Paymon, un uomo piccolo dalla pelle scura, ufficialmente al servizio di una delle case minori, quella dei Nebiros, i quali commerciavano in manufatti sacri e piccoli oggetti decorativi prodotti in serie. In realtà si era scoperto che Paymon era una spia della CHOAM, e il suo compito era quello di valutare l'entità del raccolto annuale della spezia. Alia stava per dare l'ordine di chiuderlo nelle segrete, quando Paymon aveva protestato a gran voce contro «l'ingiustizia degli Atreides». Questo avrebbe potuto costargli l'immediata condanna a morte per impiccagione al tripode, ma Alia era stata colpita dal suo ardire. Gli parlò severamente dall'alto del Trono della Giustizia, cercando di spaventarlo e di spingerlo così a rivelare più di quanto avesse già detto ai suoi inquisitori. – Perché mai il raccolto della spezia interessa a tal punto la Combine Honnete? – gli chiese Alia. – Dillo, e noi, forse, ti risparmieremo la vita. – Io mi limito a raccogliere una cosa per cui qualcuno è pronto a pagarmi in moneta sonante, – rispose Paymon. – Non so, né m'interessa che cosa vien fatto del mio raccolto.

– E per il tuo misero profitto, osi interferire con i nostri piani regali? – esclamò Alia. – La regalità non considera mai la possibilità che anche altri abbiano dei piani, – ribatté lui. Alia, affascinata da tanto, disperato coraggio, disse: – Essas Paymon, sei disposto a lavorare per me? A queste parole, il volto scuro di Paymon si sbiancò. Con un sogghigno, egli rispose: – Stavi per distruggermi senza il minimo scrupolo. Quale valore mi attribuisci, visto che ora, all'improvviso, vuoi mercanteggiare? – Un valore semplice e pratico, – ella rispose. – Sei audace e pronto a venderti al miglior offerente. Io posso offrire più di chiunque altro, nell'Impero. Al che, l'uomo replicò con una somma enorme, spropositata, ma Alia scoppiò a ridere e ribatté con una cifra che ella giudicò molto più ragionevole, e certamente assai più elevata di quanto avesse mai ricevuto prima di allora. E dichiarò infine: – Naturalmente, vi aggiungo il dono della vita, al quale, presumo, darai un valore ancora più incredibile. – Affare fatto! – gridò Paymon, e ad un segnale di Alia fu condotto via dal suo sacerdote, maestro delle Udienze, Zierenko Javid. Meno di un'ora più tardi, quando Alia si preparava a lasciare la Sala del Giudizio, Javid arrivò di corsa e riferì che Paymon era stato sorpreso a borbottare la frase profetica tratta dalla Bibbia Cattolica Orangista: «Maleficos non patieris vivere!» – Non permetterai che una strega viva, – tradusse Alia. Così, questa era la sua gratitudine! L'uomo era uno di quelli che complottavano contro la sua vita! In un impeto di rabbia, d'una violenza mai sperimentata prima, ordinò l'immediata esecuzione di Paymon, facendo spedire il suo corpo ai distillatori della morte, al Tempio, dove almeno la sua acqua avrebbe avuto qualche valore nei serbatoi sacerdotali. Per tutta la notte il volto scuro di Paymon la perseguitò. Alia tentò ogni possibile espediente contro quell'ossessiva immagine accusatrice. Recitò perfino il Bu ji dal Libro Kreos dei Fremen: «Nulla accade! Nulla accade!» Ma Paymon le inflisse, implacabile, una notte tormentosa, logorante, e quando giunse il nuovo giorno, Alia, in preda alle vertigini, scoprì che il suo volto si era aggiunto alla miriade riflessa dalle gocce di rugiada risplendenti come gioielli. Una servente la chiamò, da una porta sulla terrazza, dietro una bassa siepe di mimose, e le annunciò che la colazione era pronta. Alia sospirò;

sentì che non aveva altra scelta, se non fra due inferni: le urla dentro la sua mente, o quelle intorno a lei, dei suoi servi e delle sue guardie... tutte voci inutili, ma ostinate, insistenti, uno scricchiolio d'ingranaggi ch'ella era vivamente tentata di zittire con la lama del suo pugnale. Ignorò la servente, e continuò a fissare il Muro Scudo oltre il giardino pensile. Un bahada aveva lasciato un ampio strato di depositi, un ventaglio di detriti sabbiosi che si allargava davanti al suo sguardo, nettamente delineato dai raggi obliqui del sole. Un occhio non addestrato, pensò, avrebbe scambiato quell'ampio ventaglio per la traccia di un antico fiume, ma quello era, invece, il punto in cui suo fratello aveva frantumato il Muro Scudo con le atomiche della famiglia degli Atreides, aprendo una strada dal deserto, per i vermi che avevano condotto le sue truppe Fremen a una sconvolgente vittoria sul suo imperiale predecessore, Shaddam IV. Ora, all'estremità più lontana dello strapiombo roccioso, scorreva un ampio qanat, le cui acque impedivano ogni intrusione da parte dei vermi. I vermi non potevano attraversare l'acqua; essa era velenosa per loro. Ah, se avessi una simile barriera nella mia mente! pensò Alia. Una nuova vertigine l'afferrò, a questo pensiero, con una sensazione di totale distacco dalla realtà. I vermi! I vermi! Nei suoi ricordi balenò una lunga, sterminata serie d'immagini di vermi: il poderoso Shai-hulud, il demiurgo dei Fremen, bestia mortale delle profondità del deserto, le cui escrezioni contenevano l'inestimabile spezia. Com'era strano, pensò, che questo verme si sviluppasse dalla piatta e coriacea trota delle sabbie. Esse erano come la moltitudine che gremiva la sua coscienza interiore. Le trote delle sabbie, disposte fianco contro fianco sul letto di roccia del pianeta, formavano delle cisterne viventi, strati compatti che trattenevano l'acqua in profondità, per consentire al verme di sopravvivere. Alia sentì l'analogia, quasi palpabile: non pochi degli altri, dentro la sua mente, sbarravano il cammino a forze pericolose che avrebbero potuto distruggerla. Ancora una volta la servente chiamò per la colazione. C'era una nota d'impazienza nella sua voce. Alia si voltò, infuriata, e fece un brusco gesto di congedo. La servente obbedì, e se ne andò sbattendo con violenza la porta. A quel tonfo, Alia si sentì presa in trappola da tutto ciò che aveva cercato d'ignorare, negandone l'esistenza. Le altre vite si gonfiarono dentro di lei come un'orrenda marea. E ognuna di queste vite premeva la sua

effigie contro i suoi centri della visione: una nuvola di volti avidi, esigenti. Alcuni avevano la pelle corrosa dalla scabbia, altri erano coriacei e pieni di ombre fuligginose; c'erano bocche simili a losanghe umidicce. La pressione di quel vortice l'investì, tentando di trascinarla via con sé, di farla sprofondare per sempre. – No, – bisbigliò Alia. – No... no... no... Sarebbe crollata sul sentiero, se una panchina, lì accanto, non avesse accolto il suo corpo ansante. Cercò di sedersi. Non ci riuscì, e si lasciò andare, allora, sul gelido plastacciaio, bisbigliando ancora il suo rifiuto. Protese i suoi sensi interiori, consapevole del rischio, ma attenta ad ogni più piccola esclamazione di quelle voci subdole che rumoreggiavano dentro di lei, in una cacofonia di richiami, ognuno dei quali la voleva tutta per sé: Io! Io! No, io! E Alia sapeva che se avesse concesso la sua attenzione anche a una sola di quelle voci, se si fosse affidata fiduciosa ad essa, sarebbe stata perduta. Contemplare un solo viso, fra quella moltitudine, ascoltare la sua voce, avrebbe significato restare intrappolata in quell'entità frenetica, egocentrica, che condivideva la sua esistenza. È la prescienza che provoca ciò in te le bisbigliò una voce. Alia si coprì le orecchie con le mani, e pensò: Io non sono presciente! Con me la trance non funziona! Ma la voce insistette: Potrebbe funzionare, se ti venisse dato un po' d'aiuto. – No... no, – bisbigliò lei. Altre voci cominciarono a tessere una tela intorno alla sua mente: – Io, Agamemnon, tuo antenato, esigo udienza! – No... no. – Si schiacciò le mani contro le orecchie, al punto che le tempie le pulsarono per il dolore. Una sghignazzata folle esplose nella sua testa, e una voce le chiese: Che cosa è accaduto a Ovidio? Egli è quaggiù, insieme a John Bartlett. Quei nomi erano privi di significato, per lei, in quella disperata situazione. Avrebbe voluto urlare contro quei due e tutte le altre voci, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. La servente, rispedita sulla terrazza dagli inservienti anziani, tornò ad affacciarsi dalla porta dietro le mimose. Vide Alia sulla panchina e l'indicò a una collega: – Alia sta riposando. Non ha dormito bene, la notte scorsa. Le farà bene la zaha, la siesta del mattino. Alia non udì queste parole. La sua coscienza era completamente invasa da uno stridulo canto: Allegri, vecchi uccelli, noi siamo tutti con voi,

urrah! Le voci echeggiavano contro le pareti del suo cranio, ed ella pensò: Sto impazzendo. Sto perdendo la testa. Sfregò i piedi, debolmente, contro la panchina, come per fuggire. Sentì che le sarebbe bastato comandare al suo corpo di correre, per liberarsi e fuggir via. E doveva fuggire, per impedire che una qualunque parte di quella marea interiore la travolgesse, riducendola al silenzio, contaminando per sempre la sua anima. Ma il suo corpo non volle obbedirle. Le più grandi potenze dell'Universo Imperiale avrebbero obbedito ad ogni suo più piccolo capriccio, ma non il suo corpo. Un'altra voce interiore sghignazzò, e disse: – Dal suo punto di vista, bambina, ogni incidente della creazione rappresenta una catastrofe. – Era una voce in chiave di basso, che rumoreggiò, cupa, contro i suoi occhi, e poi ancora quella sghignazzata, come se volesse farsi beffe della sua stessa affermazione. – Mia piccola cara, ti aiuterò, ma tu dovrai aiutarmi a tua volta. Alia parlò tra i denti che le battevano per il terrore, sforzandosi di soverchiare il crescente clamore che faceva sfondo a quella voce in chiave di basso. Un volto si formò nella sua coscienza. Un volto sorridente, talmente grasso che avrebbe potuto essere quello di un bambino, senza quel lampo di cupidigia che gli guizzava negli occhi. Ella cercò di ritrarsi, ma riuscì solo a scostarsi quel tanto che bastava a contemplare anche il corpo attaccato a quel viso. Il corpo era volgarmente, enormemente grasso, impaludato in un'ampia veste qua e là rigonfia, a dimostrare che quel grasso aveva richiesto dei sospensori portatili per non sfasciarsi al suolo. – Non mi riconosci? – rumoreggiò la voce in chiave di basso. – Io sono il tuo nonno materno, il barone Vladimir Harkonnen. – Tu sei... tu sei morto! – rantolò Alia. – Naturalmente, mia cara. La maggior parte di noi, dentro di te, siamo morti. Ma nessuno degli altri è veramente disposto ad aiutarti. Essi non ti capiscono. – Vattene, – l'implorò. – Oh, ti prego, vattene. – Ma tu hai bisogno di aiuto, nipote mia, – ribatté la voce del barone. Come sembra vivo, e terribile, pensò Alia, continuando a fissare la proiezione del Barone contro le sue palpebre chiuse. – Io sono pronto ad aiutarti, – disse ancora il Barone, soave. – Gli altri, qua dentro, sono disposti soltanto a lottare per impadronirsi

completamente della tua coscienza. Non c'è uno solo, tra loro, che non stia tentando di cacciarti via da te stessa. Ma io... io voglio soltanto un angolino per me. Ancora una volta le altre vite dentro di lei esplosero in un nuovo clamore. Ancora una volta la marea minacciò di sommergerla, e Alia udì la voce di sua madre che s'innalzava, urlando, nel vortice. E pensò: Lei non è morta. – Silenzio! – intimò il Barone. Alia sentì il suo istinto di conservazione aggrapparsi a quest'ordine, rinforzarlo, farlo proprio, proiettandolo attraverso l'intera sua coscienza. L'improvviso silenzio discese su di lei come una fresca pioggia ristoratrice, il cuore smise di balzarle in petto e il suo ritmo, lentamente, ritornò normale. La voce del Barone s'intromise nuovamente nella sua coscienza: – Vedi? Insieme siamo invincibili. Tu mi aiuti, e io aiuto te. – Che cosa... vuoi? – bisbigliò Alia. Un'espressione meditabonda si disegnò sul volto grasso proiettato contro le sue palpebre chiuse. – Ahh, mia carissima nipote, – disse. – Io desidero soltanto pochi, semplici favori. Di tanto in tanto, aprimi i tuoi sensi. Non è necessario che qualcun altro lo sappia. Mi basterà sentire qualche briciola della tua vita, ad esempio, quando il tuo amante ti stringe fra le braccia. Non è forse un prezzo molto piccolo, quello che chiedo? – S... sì. – Oh, benissimo, – chiocciò il Barone. – In cambio, mia carissima nipote, io potrò servirti in molti modi, consigliarti, aiutarti con i miei suggerimenti. Sarai invincibile, dentro e fuori. Spazzerai via tutti quelli che si oppongono a te. La storia dimenticherà tuo fratello e glorificherà te. Il futuro sarà tuo. – Tu non lascerai che... gli altri s'impadroniscano di me? – Le loro voci rabbiose grideranno senza speranza. Io e te, aggrediti separatamente possiamo essere sopraffatti. Ma, uniti insieme dal nostro patto, non saremo mai sconfitti. Te lo dimostrerò. Ascolta. Il Barone si azzittì, la sua immagine si dileguò, e così pure la sua presenza interiore. Nessun ricordo, volto o grido delle altre vite s'intromise. Un tremulo sospiro uscì dalle labbra di Alia. E insieme a quel sospiro, giunse un pensiero. Si aprì con forza la strada nella sua coscienza, come qualcosa di estraneo, ed ella udì delle voci silenziose dietro di esso.

Il vecchio Barone era il male. Ha assassinato tuo padre. Avrebbe voluto uccidere anche te e Paul. Ha tentato e ha fallito. La voce del Barone la raggiunse, senza un volto: – Certo che avrei voluto ucciderti! Non mi sbarravi forse la strada? Ma quella è una vecchia disputa, ormai finita. Tu hai vinto, bambina... Tu sei la nuova verità! Alia istintivamente annuì, e si graffiò la guancia contro la dura superficie della panchina. Ciò che aveva detto il Barone suonava ragionevole, pensò. Tanto più che un precetto del Bene Gesserit diceva: Lo scopo di una disputa è quello di cambiare la natura della verità. Sì, questo era il modo in cui il Bene Gesserit avrebbe accettato la cosa. – Precisamente! – s'intromise il Barone. – E io sono morto, mentre tu sei viva. La mia esistenza, ora, è ben fragile. Io sono soltanto un ricordo di me stesso dentro di te. Ti appartengo e sono ai tuoi ordini. E chiedo pochissimo in cambio dei profondi consigli che è in mio potere darti. – Che cosa mi consigli di fare, adesso? – chiese Alia, per metterlo alla prova. – Sei preoccupata per la sentenza di morte che hai pronunciato ieri, – replicò lui, pronto, – Ti stai chiedendo se le parole di Paymon ti siano state riferite correttamente. Forse Javid ha visto in questo Paymon una minaccia alla sua posizione privilegiata. Non è forse questo il dubbio che ti assale? – S.... sì. – E il tuo dubbio è basato su una precisa constatazione, non è vero? Javid si comporta con crescente intimità nei confronti della tua persona. Perfino Duncan lo ha notato. Non è così? – Sai benissimo che è così. – Bene, allora. Prendi Javid come amante, e... – No! – Ti preoccupi per Duncan? Ma tuo marito è un mentat... un mistico. Non può essere toccato dalle bramosie della carne. Non ti sei accorta quant'è distante da te... a volte? – Ma lui... – Il mentat che è in Duncan capirebbe senz'altro, se mai venisse a conoscere il mezzo che hai usato per distruggere Javid. – Distruggere... – Certamente. Noi possiamo servirci di strumenti pericolosi, ma dobbiamo gettarli via quando lo diventano troppo. – Allora, perché dovrei... voglio dire...

– Ah, piccola sciocca! A causa del valore che ha la lezione. – Non capisco. – I valori, mia cara nipote, per essere accettati dipendono dal loro successo. L'obbedienza di Javid dev'essere senza condizioni, la sua accettazione della tua autorità assoluta, e il suo... – La moralità di questa lezione mi sfugge... – Non essere ottusa, nipote! La moralità deve sempre basarsi sulla praticità. Dare a Cesare, e tutte quelle sciocchezze. Una vittoria è inutile, a meno che non rifletta i tuoi desideri più profondi. Non è forse vero che tu ammiri la mascolinità di Javid? Alia deglutì; odiò doverlo ammettere, ma fu costretta a farlo a causa della sua totale nudità di fronte a quell'osservatore interiore. – S... sì. – Bene. – Quanto risuonò gioviale questa esclamazione dentro la sua testa! – Ora cominciamo a capirci. Allora, quando l'avrai, indifeso, nel tuo letto, convinto che tu sia la sua schiava, gli chiederai di Paymon. In tono scherzoso, una grassa risata fra voi due. Poi, quando avrà confessato l'inganno, gli infilerai un cryss fra le costole. Ahh, la vista del sangue, quanto accrescerà la tua soddisf... – No, – ella bisbigliò, la bocca arida per l'orrore. – No.... no... no... – Allora lo farò io per te, – replicò il Barone. – Dev'esser fatto, anche tu lo ammetti. Tu, crea le condizioni. Io assumerò temporaneamente il controllo del... – No! – La tua paura è così trasparente, nipote. Il mio controllo sui tuoi sensi può essere soltanto temporaneo. Ci sono altri, qua dentro, che potrebbero imitarti con una tale perfezione che... Ma tu già lo sai. Con me, ahh, la gente si accorgerebbe subito della mia presenza. Tu conosci la legge dei Fremen sui posseduti. Verresti trucidata sul posto. Sì... perfino tu. Ma io non voglio, e tu lo sai, che questo accada. Mi occuperò di Javid al posto tuo, e subito mi farò da parte. Basterà che tu... – Perché lo giudichi un buon consiglio? – Ti libererà di uno strumento pericoloso. E, bambina mia, getterà le basi di un ottimo rapporto di lavoro tra noi, un rapporto che potrà soltanto insegnarti qualcosa di utile sui futuri giudizi che... – Insegnare a me? – Naturalmente! Alia si coprì gli occhi con le mani, pur sapendo che ogni suo intimo

pensiero sarebbe stato inevitabilmente palese a quella presenza dentro di lei. Addirittura, un pensiero uscito da quella presenza avrebbe potuto essere scambiato per suo. – Ti preoccupi inutilmente, – disse il Barone in tono suadente. – Parliamo di questo Paymon, adesso. Egli era... – Ho sbagliato! Ero stanca e ho agito precipitosamente. Avrei dovuto cercar conferma di... – Hai agito nel modo giusto. Il tuo giudizio non può basarsi su sciocche astrazioni, quali le assurde idee degli Atreides sull'uguaglianza. È questo che ti ha reso insonne, non la morte di Paymon. Hai preso un'ottima decisione! Anche Paymon era uno strumento pericoloso. Tu hai agito per mantenere l'ordine nella tua società. Questa è un'ottima ragione per giudicare e decidere, non tutte quelle sciocchezze sulla giustizia! Non esiste, in nessun luogo, una giustizia uguale per tutti. La distruzione minaccia qualunque società che tenti di raggiungere un simile, falso equilibrio. Alia provò sollievo, quando udì questa difesa della sua condanna a morte di Paymon, ma ugualmente fu sconvolta dalla totale amoralità che implicavano queste argomentazioni. – La giustizia uguale per tutti era uno dei concetti fondamentali degli Atreides... era... – Tolse le mani dagli occhi, ma li tenne chiusi. – Tu dovrai mettere in guardia tutti i tuoi sacerdoti, i tuoi giudici, contro questo errore, – replicò il Barone. – Ogni decisione dev'essere valutata soltanto in rapporto ai suoi meriti nel mantenere ordinata la società. Innumerevoli civiltà del passato si sono sfasciate contro gli scogli di questa giustizia uguale per tutti. Simili sciocchezze distruggono le gerarchie naturali, che sono molto più importanti, essenziali. Ogni individuo acquista un significato soltanto in rapporto all'insieme della società. E se la nostra società non è ordinata secondo una precisa gerarchia, nessuno può trovarvi posto... né i più infimi, né i più alti. Suvvia, suvvia, nipote! Tu devi essere la madre severa del tuo popolo. È tuo dovere conservare l'ordine. – Ma tutto ciò che Paul ha fatto... – Tuo fratello è morto. Un fallito! – Anche tu sei morto! – È vero... Ma nel mio caso è stato un incidente al di là dei miei progetti. Suvvia, ora prendiamoci cura di questo Javid... ti ho già detto come. Alia sentì il suo corpo riscaldarsi a quel pensiero. Si affrettò a

rispondere: – Devo pensarci. – E pensò fra sé: Lo farò soltanto per mettere Javid in riga. Non c'è bisogno di ucciderlo, per questo. E quello sciocco potrebbe perfino tradirsi, nel mio letto. – Con chi stai parlando, mia Signora? – chiese una voce. In preda per un attimo alla confusione, Alia pensò che quella fosse una nuova intrusione da parte della vociante moltitudine dentro di lei, ma subito riconobbe quella voce e aprì gli occhi. Ziarenka Valefor, capo delle amazzoni di Alia, era accanto alla panchina; i suoi lineamenti Fremen segnati dalle intemperie manifestavano una viva preoccupazione. – Stavo parlando alle mie voci interiori, – spiegò Alia, rizzandosi a sedere. Si sentiva ristorata, rinvigorita, ora che la vociferante moltitudine dentro di lei si era azzittita. – Le tue voci interiori, mia Signora. Sì. – Gli occhi di Ziarenka luccicarono a quell'informazione. Tutti sapevano che Santa Alia si abbeverava a risorse interiori che nessun altro possedeva. – Conduci Javid nel mio appartamento, – disse Alia. – C'è una questione molto grave che devo discutere con lui. – Nel tuo appartamento, mia Signora? – Sì! Nella mia camera da letto privata. – Come la mia Signora comanda. – L'amazzone si voltò per obbedirle. – Un momento, – disse Alia. – Maestro Idaho è già partito per Sietch Tabr? – Sì, mia Signora. È partito prima dell'alba, come hai ordinato tu. Vuoi che lo mandi a... – No. Farò da sola. E... Zia, nessuno deve sapere che Javid è stato condotto da me. Scortalo tu, personalmente. È una faccenda molto grave. L'amazzone toccò il cryss alla cintura. – Mia Signora, c'è forse una minaccia... – Sì, una minaccia, e Javid potrebbe trovarsi al centro. – Oh, mia Signora, forse non dovrei condurlo... – Zia! Mi credi incapace di sbrigarmela con uno come lui? Un sorriso crudele sfiorò le labbra dell'amazzone. – Scusami, mia Signora. Lo condurrò subito nella tua stanza privata. Ma... con il permesso della mia Signora, rimarrò di guardia fuori della porta. – Tu sola, – disse Alia. – Sì, mia Signora. Subito. Alia annuì fra sé, guardando la schiena di Ziarenka che si allontanava. Dunque, Javid non era amato fra le sue guardie. Un altro punto a suo

sfavore. Tuttavia, era ancora prezioso... molto prezioso. La chiave per Jacurutu. Per cui... – Forse avevi ragione, Barone, – bisbigliò. – Vedi? – ridacchiò la voce dentro di lei. – Ahh, sarà piacevole renderti questo servizio, bambina. Ed è soltanto l'inizio...

Queste sono le pie illusioni che una religione deve promuovere tra il popolo, per aver successo: i malvagi non possono mai vincere; soltanto i coraggiosi meritano gloria e onori; l'onestà è la miglior politica; le azioni parlano più delle parole; la virtù trionfa sempre; una buona azione si premia da sola; non c'è essere umano, per quanto cattivo, che non possa redimersi; i talismani religiosi proteggono la gente dal demonio; soltanto le femmine sono in grado di capire gli antichi misteri; i ricchi sono condannati a essere infelici... – dal Manuale delle istruzioni della Missionaria Protectiva

– Mi chiamo Muriz, – disse il Fremen, la pelle cotta dal sole e dal vento. Sedeva sul pavimento roccioso di una caverna, al baluginare di una lampada a spezia la cui luce tremolante rivelava le pareti scabre e umide, qua e là interrotte da macchie scure, le imboccature dei corridoi che si diramavano da quel luogo. Dal fondo di uno di quei corridoi giungeva un ritmico gocciolio e, nonostante il rumore dell'acqua fosse una componente essenziale del paradiso dei Fremen, i sei uomini legati di fronte a Muriz non ricavavano alcun piacere da quello stillicidio. La cavità era impregnata dall'odore rancido dei distillatori della morte. Un ragazzo che dimostrava, forse, quattordici anni standard, uscì dal corridoio e si avvicinò a Muriz, fermandosi accanto a lui. Un cryss senza fodero rifletté la luce giallastra della lampada a spezia, quando il ragazzo sollevò la lama e la puntò, in rapida successione, contro i sei uomini legati. Muriz indicò il ragazzo con un gesto, e disse: – Questo è mio figlio, Assan Tariq, e sta per essere sottoposto alla prova della virilità. Poi si schiarì la gola e fissò uno ad uno i sei prigionieri. Essi formavano un semicerchio irregolare davanti a lui, saldamente legati con corde di fibra di spezia, le gambe incrociate, le mani dietro la schiena, la gola stretta da nodi scorsoi. Le loro tute distillanti erano state tagliate all'altezza del collo. Gli uomini legati fissarono a loro volta Muriz senza batter ciglio. Due indossavano indumenti ampi e cascanti, extraplanetari, caratteristici delle classi agiate di Arrakeen. La loro pelle era più liscia e più chiara di quella dei loro compagni, i cui lineamenti asciutti, disseccati, e il corpo ossuto, erano tipici dei figli del deserto. Muriz assomigliava agli abitanti del deserto, ma i suoi occhi erano ancora più infossati, pozzi oscuri che il baluginare delle lampade neppure sfiorava. Suo figlio sembrava una copia non ancora formata dell'uomo adulto, un volto ancora acerbo che non riusciva a celare del tutto

l'agitazione interiore. – Noi Reietti abbiamo una nostra speciale prova per la virilità, – disse Muriz. – Un giorno, mio figlio sarà giudice qui a Shuloch. Dobbiamo garantirci che sarà all'altezza del suo compito. I nostri giudici non dovranno mai dimenticare Jacurutu e i nostri giorni di disperazione. Kralizec, il Padre delle Tempeste, vive nei nostri cuori. – Tutto fu pronunciato con l'intonazione monocorde di un rituale. Uno degli abitanti di Arrakeen, un uomo dai lineamenti mollicci, si agitò e protestò: – Tu sbagli a tenerci così imprigionati, minacciandoci di morte. Noi siamo venuti in pace, per l'umma. Muriz annuì: – Siete venuti a cercare una nuova fede religiosa? Ebbene, l'avrete. L'uomo dai lineamenti mollicci fece per replicare: – Se noi... Uno dei Fremen del deserto, dalla pelle coriacea, l'interruppe aspramente: – Taci, sciocco! Questi sono i ladri d'acqua... quelli che credevamo di aver distrutto per sempre. – Oh, quella vecchia storia, – fece l'uomo dai lineamenti mollicci. – Jacurutu è assai più di una storia, – replicò Muriz. Ancora una volta indicò il ragazzo: – Come vi ho detto, questo è mio figlio, Assan Tariq. Io, qui, sono l'arifa, il vostro unico giudice. Anche mio figlio sarà addestrato a riconoscere i demoni. I vecchi sistemi sono i migliori. – Ma è proprio per questo che siamo venuti nelle profondità del deserto, – protestò l'uomo dai lineamenti mollicci. – Abbiamo scelto il vecchio sistema di vita, ci siamo addentrati nel... – Con queste guide al vostro soldo. – Muriz indicò i quattro prigionieri dalla pelle scura. – Credete forse di potervi comprare anche la strada del paradiso? – Alzò gli occhi e guardò il figlio: – Assan, sei pronto? – Ho riflettuto a lungo su quella notte, quando giunsero quegli uomini a sterminare la nostra gente, – disse Assan. La sua voce vibrava d'ansia e di tensione. – Essi ci devono acqua. – Tuo padre ti dà sei uomini, – replicò Muriz. – La loro acqua è nostra. Le loro ombre sono tue, saranno per sempre i tuoi custodi. Saranno appunto queste ombre ad avvertirti della presenza dei demoni. Saranno i tuoi schiavi quando passerai nell'alam al-mythal. Che cosa rispondi, figlio mio? – Ti ringrazio, padre. – Assan fece un passo avanti. – Accetto la virilità fra i Reietti. Quest'acqua è la nostra acqua. Tacque e si avvicinò ai prigionieri. Cominciò dal primo uomo a sinistra:

l'afferrò per i capelli e gli conficcò il cryss sotto il mento, su fino al cervello. Operò così abilmente che soltanto una stilla di sangue cadde al suolo. Fra i sei, soltanto l'uomo dai lineamenti mollicci protestò, levando alte grida quando il ragazzo lo afferrò per i capelli. Gli altri, prima di morire, sputarono addosso ad Assan Tariq alla vecchia maniera, dicendo, con quel gesto: Guarda quanto poco valore do alla mia acqua, quando mi vien presa da una bestia! Infine, tutto fu concluso. Muriz batté una volta le mani. Giunsero alcuni inservienti che cominciarono a sollevare i corpi per portarli ai distillatori della morte, dove sarebbero stati sezionati per recuperare la loro acqua. Muriz si alzò in piedi, fissò suo figlio che, respirando affannosamente, guardava gli inservienti intenti al lavoro, e disse: – Ora sei un uomo. L'acqua dei nostri nemici nutrirà gli schiavi. E, figlio mio... Assan Tariq alzò la testa e rivolse al padre uno sguardo vigile e aggressivo. Le labbra del giovane erano piegate in un fosco sorriso. – ... il Predicatore non deve saper nulla di ciò, – concluse Muriz. – Capisco, padre. – Hai fatto un buon lavoro, – proseguì Muriz. – Quelli che incappano in Shuloch non devono sopravvivere. – Come vuoi tu, padre. – Ti sono stati affidati dei compiti importanti. Sono orgoglioso di te.

Anche l'uomo più civile può diventare primitivo. Ciò significa, in realtà, che il modo di vita di quell'essere umano muta radicalmente. I vecchi valori cambiano, ora sono più strettamente legati al paesaggio con le sue piante e i suoi animali. La nuova esistenza richiede una conoscenza completa e funzionale di quegli eventi molteplici e aggrovigliati fra loro ai quali, di solito, diamo il nome di «natura». Questa richiede una cospicua dose di rispetto nei confronti dell'intrinseca inerzia di tali sistemi «naturali». La condizione di un uomo che abbia raggiunto questa conoscenza funzionale e questo rispetto viene definita «primitiva». Il contrario, ovviamente, è altrettanto vero: il primitivo può diventare civile, ma a prezzo di spaventevoli danni psicologici. – Commentario di Leto secondo Harq al-Ada

– Come possiamo esseree sicuri? chiese Ghanima. – È molto pericoloso. – L'abbiamo già sperimentato, – ribatté Leto. – Questa volta potrebbe non essere la stessa cosa. E se... – È la sola strada che ci rimane, – insisté Leto. – Sei già d'accordo che non possiamo seguire la via della spezia. Ghanima sospirò. Questo dialogo, questo continuo obiettare, non le piaceva, ma conosceva la necessità che spingeva suo fratello. E anche la spaventevole causa della sua riluttanza. Bastava che guardassero Alia per conoscere i pericoli del mondo interiore. – Ebbene? – chiese Leto. Ella sospirò ancora. Sedevano tutti e due, a gambe incrociate, in uno dei loro recessi privati, una stretta apertura che, dalla caverna, dava sullo strapiombo. Qui, spesso, i loro genitori avevano contemplato il sole che tramontava sul bled. Erano passate due ore dal pasto serale, e ci si aspettava che i due gemelli trascorressero quel tempo esercitando il corpo e la mente. Essi, quella sera, avevano scelto di esercitare la mente. – Se ti rifiuterai di aiutarmi, tenterò da solo, – dichiarò Leto. Ghanima distolse lo sguardo da lui e fissò le chiazze scure dei sigilli che bloccavano l'umidità dentro la caverna. Leto continuò a contemplare il deserto. Da un po' stavano parlando una lingua così antica che perfino il suo nome, oggi, era sconosciuto. Quella lingua dava ai loro pensieri un'intimità che nessun altro essere umano poteva penetrare. Perfino Alia, nei continui tentativi di sfuggire alle moltitudini interiori, non possedeva i collegamenti mentali che le avrebbero consentito di afferrare qualcosa di più di un'occasionale parola.

Leto respirò profondamente, inalando il tipico odore di pelle conciata che permeava le caverne dei Fremen, nei sietch, e persisteva in quella rientranza rocciosa dove il vento non soffiava mai. Il vocio confuso del sietch e il suo calore umidiccio qui erano assenti, ed entrambi provavano sollievo. – Sono d'accordo che ci serve una guida, – riprese Ghanima. – Ma se noi... – Ghani! Ci serve molto più di una guida! Ci serve protezione. – Forse non c'è nessuna protezione. – Tornò a voltarsi verso il fratello, e colse nei suoi occhi uno sguardo simile a quello di un predatore guardingo in attesa. I suoi occhi smentivano la placida calma dei suoi lineamenti. – Dobbiamo sfuggire alla possessione, – disse ancora Leto. Aveva usato una particolare forma d'infinito dell'antica lingua, e un tono di voce il più possibile neutro, ma ugualmente pieno d'implicazioni. Ghanima interpretò correttamente il suo ragionamento. – Mohw'pwium d'mi hish pash moh'm ka, – intonò. La cattura della mia anima è la cattura di mille anime. – Molte di più, – ribatté lui. – Pur conoscendo i pericoli, ti ostini ancora. – La sua era un'affermazione, non una domanda. – Wabun'k wabunat! – disse lui. Innalzandoti, t'innalzi! Leto sentiva che la sua scelta era, ovviamente, inevitabile. Meglio, allora, farlo in modo attivo, deliberato. Essi dovevano ripiegare il passato sopra il presente, consentendogli poi di proiettarsi sul loro futuro. – Muriyat, – ella annuì, in un bisbiglio. Bisogna farlo con amore. – Naturalmente. – Leto agitò una mano, sottolineando questa accettazione totale. – E decideremo insieme, come hanno fatto i nostri genitori. Ghanima restò silenziosa e cercò d'inghiottire, vincendo un nodo alla gola. Istintivamente guardò verso sud, in direzione del grande erg che si stendeva a perdita d'occhio. Vide confusamente, all'ultima luce del giorno, un accavallarsi grigiastro di dune. Suo padre era andato in quella direzione, quando si era incamminato per l'ultima volta nel deserto. Leto guardò sotto di sé, oltre l'orlo del dirupo, la verde oasi del sietch. Laggiù tutto era crepuscolo, ma egli ne conosceva le forme e i prodotti: distese di germogli color rame e oro, rossi, gialli, ruggine, fino alle rocce che segnavano il confine delle piantagioni irrigate dal qanat. Oltre quelle rocce si stendeva una fascia di vegetazione autoctona, morta e avvolta dai

miasmi della putrefazione, uccisa dalle piante estranee e dalla troppa acqua che ora formava una barriera contro il deserto. Qualche istante dopo, Ghanima disse: – Sono pronta. Cominciamo. – Sì. E sia maledetto tutto questo! – Leto protese una mano e le sfiorò il braccio, per attenuare la violenza dell'esclamazione, e la pregò: – Per favore, Ghani... Canta quella canzone. Rende tutto più facile per me. Ghanima si strinse a lui e gli passò il braccio sinistro intorno alla vita. Respirò a fondo due volte, si schiarì la gola e intonò con voce limpida e flautata le parole che la madre spesso aveva cantato per il loro padre: Qui io sciolgo il voto che tu hai fatto In questo luogo senza vento: Amor mio, tu vivrai in un palazzo, I tuoi nemici precipiteranno nel vuoto. Noi avanziamo insieme lungo questo sentiero Che l'amore ha tracciato per te. Certo io ti mostro chiaramente la strada Giacché il mio amore è il tuo palazzo...

La sua voce si perse nel silenzio del deserto, che neppure il più piccolo sussurro spezzava, e Leto si sentì affondare, affondare... e diventò suo padre, i cui ricordi si stesero, come un fitto velo, sui geni del suo più recente passato. Qui, ora, io devo essere Paul, s'impose Leto. Questa accanto a me non è Ghani... è la mia amata Chani, i cui saggi consigli molte volte ci hanno salvati entrambi. A sua volta, con sconvolgente facilità, Ghanima era scivolata nei ricordi personali di sua madre (e già in anticipo sapeva che sarebbe stato così). Quant'era più facile per le femmine, questo, e quanto più pericoloso! Con voce all'improvviso più robusta, Ghanima disse: – Guarda laggiù, mio amato! – La Prima Luna si era alzata e, sullo sfondo della sua fredda luce, essi videro un vivido zampillo aranciato balzare verso l'alto, nello spazio. Il trasporto spaziale che aveva condotto fin lì Lady Jessica, ora carico di spezia, stava ritornando all'astronave-madre. Allora, le più intense rievocazioni attraversarono la mente di Leto, facendo affiorare ricordi vividi come rintocchi di campane. Per un fugace istante fu un altro Leto: il Duca di Jessica. La necessità incombente spinse da parte quei ricordi, ma non prima di avergli fatto provare le trafitture dell'amore e del dolore. Devo essere Paul, ammonì se stesso. La trasformazione avvenne con uno spaventevole sdoppiamento, come

se Leto fosse uno schermo oscuro contro cui veniva proiettato suo padre. Percepì, insieme, la propria carne e quella del padre. Questi fulminei cambiamenti minacciarono di sopraffarlo. – Aiutami, padre, – bisbigliò. Quel fugace turbamento passò, e ora vi era un'altra impronta nella sua coscienza, mentre la sua identità-Leto rimaneva in disparte, a osservare. – La mia ultima visione non si è ancora conclusa, – disse, e la voce era quella di Paul. Si voltò verso Ghanima. – Tu sai che cosa ho visto. Ella gli toccò la guancia con la mano destra. – Ti sei incamminato nel deserto per morire, mio amato? È questo che hai fatto? – Può darsi che io l'abbia fatto, ma quella visione... Non sarebbe, forse una ragione sufficiente per restare in vita? – Ma... cieco? – chiese lei. – Sì, anche così. – Dove vuoi andare? Leto sospirò, rabbrividendo: – Jacurutu. – Mio amato! – Le lagrime cominciarono a scorrerle sulle guance. – Muad'Dib, l'eroe, dev'essere completamente distrutto, – proseguì Leto. – Altrimenti questo bambino non potrà farci uscire dal caos. – Il Sentiero d'Oro, – disse lei. – Ma non è una buona visione... – È l'unica visione possibile. – Allora, Alia ha fallito... – Completamente. Ne vedi i segni. – Tua madre è ritornata troppo tardi. – Annuì. La saggia espressione di Chani era comparsa sul volto fanciullesco di Ghanima. – Ma non vi è forse un'altra visione? Se... – No, mia amata. Non ancora. Questo bimbo non è in grado di scrutare il futuro e ritornare indenne. Ancora una volta sospirò e un brivido scosse il suo corpo, e il Letoosservatore avvertì l'intenso desiderio di suo padre, di esistere ancora in una carne viva, di prendere decisioni da uomo vivo e... Com'era disperato il suo bisogno di cancellare gli errori del passato! – Padre! – lo chiamò Leto, e fu come se il grido gli rimbombasse dentro il cranio. Leto avvertì allora un profondo atto di volontà: il lento, combattuto ritrarsi della presenza interiore di suo padre, l'abbandono, da parte di Paul, dei suoi sensi e dei suoi muscoli. – Mio amato, – bisbigliò accanto a lui la voce di Chani, e il ritrarsi quasi

si arrestò. – Che cosa ti accade? – No, non andartene ancora, – disse Leto, ed era proprio la sua voce, stridula, incerta. E poi: – Chani, devi dircelo. Come possiamo evitare... ciò che è accaduto ad Alia? Ma fu il Paul dentro di lui a rispondere. Le sue parole fecero vibrare il suo orecchio interno, con lunghe pause esitanti: – Non c'è alcuna difesa sicura... Hai visto... quello che stava... quasi... per accadere a me... – Ma Alia... – Il Barone Maledetto l'ha in pugno! Leto sentì la gola bruciargli, tanto era arida. – Ma lui è anche in me... e io... – Lui è in te... ma io... noi... non possiamo... percepire gli altri... soltanto... qualche volta... ma tu... – Non puoi leggere i miei pensieri? – chiese Leto. – Potresti sapere, così, se lui... – A volte riesco a percepire i tuoi pensieri... ma io... noi... viviamo soltanto attraverso... il... riflesso del... della tua consapevolezza... La tua memoria ci crea... Il pericolo... è un ricordo troppo... preciso... E quelli di noi... quelli di noi che hanno amato il potere... e lo hanno accresciuto a... qualsiasi prezzo... creano i ricordi più... precisi... – Più forti? – mormorò Leto. – Più forti. – Conosco le tue visioni, – disse Leto. – Piuttosto che consentire al Barone Maledetto d'impadronirsi di me, diventerò te! – Questo no! Leto annuì fra sé. Percepì l'enorme forza di volontà che aveva dimostrato suo padre, ritirandosi e riconoscendo le conseguenze del suo fallimento. Qualunque possessione trasformava il posseduto in un'abominazione. Aver capito tutto questo rinnovò in lui una sensazione di potenza, e percepì il proprio corpo con insolita acutezza, e una profonda consapevolezza dei suoi passati errori: i suoi, e quelli dei suoi antenati. L'indecisione era il tarlo che indeboliva ogni cosa: ora riuscì a capirlo. Per un attimo la tentazione lottò, dentro di lui, con la paura. Quella sua carne possedeva la capacità di trasformare il melange in una visione del futuro. Con la spezia, egli avrebbe potuto «respirare» il futuro, spezzare i veli del tempo. La tentazione minacciò di travolgerlo e lui, allora, congiunse le mani e s'immerse, con la sua coscienza, nel prana-bindu. La sua carne ricacciò la tentazione. La sua carne impregnata della profonda conoscenza

appresa col sangue da Paul. Coloro che cercavano il futuro, lo facevano con la speranza di conoscere la carta vincente della partita di domani. Invece, finivano intrappolati in una vita della quale ogni palpito, ogni gemito d'angoscia erano noti. La visione finale di Paul aveva mostrato quanto fosse precaria e difficile la via per uscire da quella trappola, e ora Leto sapeva che non gli restava altra scelta se non seguire quella via. – La gioia della vita, la sua bellezza... tutto è legato al fatto che la vita è imprevedibile, – disse Leto. Una voce soave gli sussurrò alle orecchie: – Io ho sempre conosciuto questa bellezza. Leto girò la testa e scrutò Ghanima negli occhi che luccicavano alla luce lunare. Vide Chani che gli restituiva l'occhiata. – Madre, – le disse. – Ora anche tu devi ritirarti. – Ah, quale tentazione! – ella esclamò, e lo baciò. Leto la respinse: – Ruberesti la vita a tua figlia? – domandò. – È facile... così ridicolmente facile, – ella disse. Leto, mentre il panico s'impadroniva di lui, ricordò il tremendo sforzo di volontà che aveva dovuto compiere l'identità di suo padre per abbandonare la carne. Ghanima si era forse sperduta in quel mondo di osservatori dove egli si era soffermato, guardando e ascoltando, per apprendere da suo padre ciò che gli era indispensabile? – Io ti disprezzerò, madre, – replicò. – Altri non mi disprezzeranno, – ella insisté. – Oh, sii ancora il mio amato. – Se io accettassi... tu sai quale sarebbe il destino di entrambi, – egli disse. – E anche mio padre ti disprezzerebbe. – Mai! – Sì! Ti disprezzerò! L'esclamazione gli era stata strappata dalla gola senza che egli volesse, ed erano risuonati in lei tutti gli echi e le ridondanze della Voce che Paul aveva appreso da sua madre, la strega. – Non dirlo... – gemette Chani. – Ti disprezzerò! – Per favore... per favore, non dirlo. Leto si sfregò la gola: sentì che le corde vocali erano nuovamente sue. – Egli ti disprezzerà, ti volterà le spalle. Andrà un'altra volta nel deserto. – No... no... Agitò il capo, dolorosamente.

– Devi andartene, madre, – insisté Leto. – No... no... – Ma la sua voce si faceva sempre più flebile. Leto fissò il volto di sua sorella. Quali violente emozioni lo stavano attraversando, torcendo i muscoli in uno straziante riflesso del tumulto interiore! – Vattene, – bisbigliò. – Vattene. – Noooo... L'afferrò per un braccio, e percepì il tremito che pervadeva i nervi e i muscoli. Ella si agitò, cercò di sottrarsi alla sua stretta, ma egli resisté, continuando a bisbigliare: – Vattene... vattene... E intanto, continuava a rimproverarsi aspramente per aver convinto Ghani a partecipare a quel «gioco dei genitori» al quale un tempo si dedicavano spesso, ma che, ultimamente, ella aveva cominciato a detestare. Capì quanto fosse nel vero chi affermava che le femmine erano più deboli di fronte a quell'assalto interiore. Era questa, appunto, l'origine di tutte le paure del Bene Gesserit. Un'ora passò, poi un'altra, e il corpo di Ghanima tremava ancora e sussultava, scosso dalla battaglia interiore, ma ora la voce di sua sorella si unì a quella disputa. Leto la udì che parlava a quell'immagine dentro di lei, che l'implorava. – Madre... ti supplico... – E un grido: – Alia! Vuoi far diventare anche me come Alia? Finalmente, Ghanima si appoggiò contro di lui, bisbigliando: – Ha accettato. Se n'è andata. Leto le accarezzò la testa. – Ghani, tu non immagini quanto io sia dispiaciuto. Non ti chiederò mai più di rifarlo. Sono stato egoista. Perdonami. – Non c'è niente da perdonare, – rispose Ghanima, ancora ansante per il tremendo sforzo. – Abbiamo appreso molte cose importanti... indispensabili. – Lei ti ha parlato di molte cose, – disse Leto. – Me le riferirai più tardi, quando anch'io... – No, subito! Tu avevi ragione. – Il mio Sentiero d'Oro! – Il tuo dannato Sentiero d'Oro! – Ogni giudizio è inutile, se non è suffragato da prove concrete, – ribatté lui. – Ma io... – La nonna è ritornata per guidare la nostra educazione, e accertarsi che

non fossimo... contaminati. – È quello che dice Duncan. Non c'è niente di nuovo in... – Deduzione superficiale, – obiettò lei. La sua voce stava riprendendo vigore. Si scostò da lui e contemplò il deserto che si stendeva davanti a loro nel silenzio che precedeva l'alba. Quella battaglia... quel sapere, erano costati loro un'intera notte. La Guardia Reale, sull'altro lato dei sigilli dell'umidità, avrebbe faticato molto a spiegarlo. Leto aveva dato precise istruzioni che nessuno li disturbasse. – Spesso, la gente impara l'astuzia con l'età, – disse Leto. – Ma noi, che cosa stiamo attingendo da tutti questi pozzi di vecchiaia? – L'universo, come noi lo vediamo, non è mai, esattamente, l'universo fisico, – replicò Ghanima. – Noi non dobbiamo percepire nostra nonna soltanto come una nonna. – Sarebbe pericoloso, – assentì lui. – Ma la mia doman... – C'è qualcosa di assai più importante dell'astuzia, – ella l'interruppe. – Dentro di noi, nella nostra coscienza, dobbiamo trovare il modo di capire, di percepire nel preciso istante in cui si manifesta, ciò che non siamo stati in grado di prevedere. Per questo, mia madre mi ha parlato così a lungo di Jessica. Alla fine, quando ha accettato di restituirmi il mio corpo, mi ha detto, prima di ritirarsi, molte cose. – Ghanima sospirò. – Ma noi sappiamo che è nostra nonna,– egli obiettò. – Proprio tu sei rimasta insieme a lei per ore, ieri. È per questo che... – È proprio il fatto di saperlo, di esserne convinti, che può renderci indifesi, – insisté Ghanima. – È proprio contro questo che mia madre ha continuato a mettermi in guardia. E ciò che ha detto di Jessica... – Ghanima gli afferrò il braccio, – bene, l'ho udito riecheggiare dentro di me, mentre ascoltavo la voce di nostra nonna. – Ti ha messo in guardia. – Leto trovò inquietante quel pensiero. Non c'era proprio più niente, a questo mondo, di cui potersi fidare? – La maggior parte dei più tragici errori è dovuta a convinzioni e ipotesi superate, – dichiarò Ghanima. – Questo, mia madre ha continuato a dirmi. – Bene Gesserit allo stato puro. – Se... se Jessica è completamente rientrata in grembo alla Sorellanza... – Sarebbe molto pericoloso per noi, – concluse Leto. – Noi abbiamo il sangue del loro Kwisatz Haderach... il loro maschio Bene Gesserit. – Esse non abbandoneranno mai questa ricerca, – replicò Ghanima, – ma potrebbero abbandonare noi. Nostra nonna potrebbe essere il loro strumento.

– C'è un altro modo, – disse lui. – Sì. Noi due... accoppiati. Ma la probabilità che si manifestino caratteri recessivi è così alta che esse difficilmente... – Certamente è un rischio di cui hanno discusso. – E per di più con nostra nonna. Comunque, è un modo che non mi piace. – Neanche a me piace. – Tuttavia, non sarebbe la prima volta che una stirpe reale... – Mi ripugna. – Leto rabbrividì. Ella lo sentì fremere, e tacque. – Il Potere, – egli disse. E a causa di quella strana alchimia dovuta alla loro somiglianza, Ghanima seppe ciò ch'egli aveva pensato: – Il Potere dello Kwisatz Haderach deve fallire, – fu d'accordo con lui. – Se usato come esse intendono, – aggiunse Leto. In quell'istante, il nuovo giorno si affacciò sul deserto, appena oltre l'orizzonte, ed essi percepirono il calore che cominciava a salire. I colori balzarono fuori all'improvviso dalle piantagioni sotto il dirupo. Foglie grigioverdi proiettarono le loro ombre appuntite sul suolo. Il bagliore del sole argenteo di Dune, diffuso dall'aria, rivelò l'oasi verdeggiante chiazzata di ombre dorate e purpuree, al riparo dell'alta barriera rocciosa. Leto si alzò in piedi, si stiracchiò. – Quindi, il Sentiero Dorato. – Ghanima aveva parlato sia a se stessa che a lui, ben sapendo quanto l'ultima visione di loro padre si collegasse e si fondesse, in realtà, con i sogni di Leto. Qualcuno spinse da parte i sigilli per l'umidità, dietro di loro, ed essi udirono un mormorio di voci. Leto tornò all'antica lingua che essi usavano quando non volevano essere ascoltati: – L'ii ani howr samis sm'kwi owr samit sut. Fu qui che la decisione prese forma incrollabile nelle loro coscienze. Andremo insieme nell'immortalità, anche se uno solo di noi potrà far ritorno, per riferire. Ghanima a sua volta si alzò e, insieme, essi rientrarono attraverso i sigilli. Qui, le guardie si alzarono e scortarono i gemelli fino alle loro stanze. La folla si aprì davanti a loro, con un brusio diverso dal consueto, mentre venivano lanciate occhiate interrogative alle guardie. Passare la notte in solitudine, al cospetto del deserto, era un'antica consuetudine dei saggi... e dei santi Fremen. Tutti gli Umma avevano praticato questa

veglia. Anche Paul Muad'Dib... e Alia. Ora, anche i gemelli reali. – Essi non sanno ciò che abbiamo deciso per loro, – replicò Ghanima. – Non l'immaginano neppure lontanamente. Sempre nella loro lingua privata, Leto affermò: – L'inizio dovrà apparire del tutto casuale, fortuito. Ghanima esitò un attimo, per dar forma ai suoi pensieri, poi: – In quel frangente, piangendo la morte del congiunto, tutto dovrà esser reale, anche il sepolcro. Il cuore il sonno dovrà seguire, per timore che non ci sia più risveglio. Era una dichiarazione involuta nell'antica lingua, i soggetti e i verbi abilmente disposti, così da moltiplicare i significati, ma legandoli sottilmente insieme. Essenzialmente, aveva detto che essi rischiavano la morte col piano di Leto; vero o simulato che fosse, non faceva differenza alcuna. La trasformazione sarebbe stata fin troppo simile alla morte, un «assassinio funebre». E, inoltre, l'intera frase puntava il suo dito ammonitore sul sopravvissuto, su colui che avrebbe recitato la parte del vivo. Il più piccolo errore, qui, avrebbe vanificato l'intero piano e il Sentiero Dorato di Leto sarebbe diventato un vicolo cieco. L'attività degli inservienti si arrestò per un attimo, quando i gemelli raggiunsero l'arco che conduceva alle stanze assegnate a Lady Jessica. – Tu non sei Osiride, – gli ricordò Ghanima. – Né cercherò di esserlo. Ghanima l'afferrò per un braccio: – Alia darsatay hannus m'smow, – lo avvertì. Leto fissò sua sorella negli occhi. Effettivamente, dalle azioni di Alia s'irradiava un odore di marcio che Lady Jessica doveva senz'altro aver fiutato. Rivolse un sorriso gratificante a Ghanima. Ella aveva mescolato l'antica lingua con la superstizione dei Fremen, evocando un pregiudizio tribale tra i più radicati. M'smow, l'odore cattivo, l'esalazione miasmatica di una notte d'estate, era il portatore di morte per mano dei demoni. E Iside era stata la dea-demonio della morte per l'antico popolo di cui essi stavano parlando la lingua. – Noi Atreides dobbiamo mostrarci audaci, sempre. Abbiamo una reputazione da salvare, – disse lui. – Perciò prenderemo tutto ciò che ci serve, – replicò lei. – Sì. In caso contrario, saremmo costretti a chiederlo alla nostra Reggente, – osservò lui. – Ad Alia farebbe un immenso piacere. – Ma il nostro piano... – Lasciò la frase in sospeso.

Il nostro piano, pensò lui. Ora lei lo condivideva completamente. – Io penso al nostro piano, – disse, – come alle fatiche del shaduf. Ghanima fece passare lo sguardo sulle pareti dell'anticamera e assaporò gli odori, cuoio e pellicce, caratteristici del mattino, con la loro sensazione di un perenne inizio. Le piaceva il modo in cui Leto si era servito della loro lingua privata. Le fatiche del shaduf. Un voto. Leto aveva definito il loro piano come un lavoro agricolo d'infimo livello: spargere il fertilizzante, irrigare, strappare le erbacce, trapiantare, potare... ma con l'implicazione Fremen che, insieme, avrebbero svolto questo lavoro su un Altro Mondo, dove esso simboleggiava la coltivazione delle ricchezze dell'anima. Ghanima studiò suo fratello, mentre essi sostavano là fuori. Era sempre più chiaro, per lei, che Leto la stava implorando su due livelli: in primo luogo, per il Sentiero Dorato della sua visione e della visione di suo padre; e poi, perché lei gli lasciasse mano libera nel portare a compimento l'estremamente pericolosa creazione di un mito che il piano implicava. Questo lo spaventò. C'era forse, nella visione personale di Leto, qualcosa di più, che suo fratello non aveva condiviso con lei? Era forse possibile che Leto vedesse se stesso come il potenziale simbolo deificato destinato a condurre l'umanità alla rinascita... come il padre, così il figlio? Il culto di Muad'Dib si era «inacidito», fermentando nella cattiva amministrazione di Alia e nelle sregolatezze di un clero militare che spadroneggiava sui Fremen. Leto voleva una completa rigenerazione. Mi nasconde qualcosa. Quest'improvviso pensiero la sbigottì. Ghanima rivisse, dentro di sé, il sogno di Leto, come egli l'aveva descritto. Un sogno d'una tale, iridescente realtà, da costringerlo a camminare per delle ore come intontito. Un sogno, aveva detto Leto, che non cambiava mai: Io mi trovo sulla sabbia, in pieno giorno, alla luce gialla e vivida del sole, eppure non c'è il sole. Questa luce illumina un Sentiero Dorato. Quando mi rendo conto di ciò, esco da me stesso. Mi volto, convinto che vedrò me stesso nelle vesti del sole. Ma io non sono il sole, sono la caricatura di un uomo disegnata da un bambino, gambe e braccia come stecchi, gli occhi, due linee a zig zag, come fulmini. Ho uno scettro nella mano sinistra, ed è un vero scettro, preciso e concreto in ogni suo particolare, in grottesco contrasto con la figura che lo impugna. Lo scettro si muove, mi sembra di essermi risvegliato, eppure so che sto ancora sognando. Allora mi rendo conto che il mio corpo è chiuso dentro

qualcosa... un'armatura che asseconda ogni mio movimento. Non riesco a vedere questa armatura, ma la percepisco intorno a me. Allora, ogni terrore mi lascia, poiché questa armatura mi dà la forza di diecimila uomini. Quando Ghanima lo fissò, Leto cercò di proseguire verso le stanze di Jessica. Ghanima resistette. – Questo Sentiero Dorato potrebbe rivelarsi niente affatto migliore di qualunque altro sentiero, – disse. Leto continuò a fissare il pavimento roccioso. Sentì che i dubbi riprendevano ad assalire Ghanima. – Ma io devo farlo, – replicò. – Alia è posseduta, – ribadì lei. – Potrebbe accadere anche a noi. Potrebbe essere già accaduto, senza che noi lo sappiamo. – No. – Leto scosse la testa, e alzò gli occhi a fissarla. – Alia ha opposto resistenza. Ed è stato proprio questo che ha dato ai poteri dentro di lei la loro grande forza. Alia è stata sopraffatta dalla sua stessa forza. Noi abbiamo osato cercare dentro di noi, rintracciare le antiche lingue e l'antico sapere. Noi siamo già un amalgama di tutte le vite dentro di noi. Noi non opponiamo resistenza, noi cavalchiamo insieme con loro. È questo che ho appreso da mio padre, la scorsa notte. Dovevo impararlo. – Non ha detto niente di tutto questo, dentro di me. – Tu hai ascoltato nostra madre. È quello che noi... – E ho quasi perduto. – È ancora forte, dentro di te? – La paura gli irrigidì i lineamenti. – Sì... ma penso che ora stia vegliando su di me col suo amore. Sei stato molto bravo, quando hai lottato contro di lei. – E Ghanima, pensando al riflesso di sua madre dentro di sé, riprese: – Ora mia madre esiste, per me, nell'alam al-mythal, insieme agli altri, ma ha assaporato il frutto dell'inferno. Ora posso ascoltarla senza timore. In quanto agli altri... – Sì, – disse lui. – E io ho ascoltato mio padre, ma sono convinto, in realtà, di seguire i consigli del nonno, da cui ho preso il nome. Forse, il nome lo rende più facile. – Ti ha consigliato di parlare alla nonna del Sentiero Dorato? Leto aspettò qualche istante, mentre un inserviente li superava recando un vassoio di fibra con la colazione di Lady Jessica. Un intenso odore di spezia riempì l'aria, al suo passaggio. – Lei vive in noi e nella propria carne, – disse infine Leto. – Vi è quindi una doppia ragione per ricorrere al suo consiglio. – Non io, – protestò Ghanima. – Non intendo rischiare di nuovo. – Allora lo farò io.

– Non siamo ambedue d'accordo che è ritornata alla Sorellanza? – Infatti. Bene Gesserit all'inizio; lei stessa, e niente più, poi, per anni; e Bene Gesserit alla fine. Ma ricorda che anche Lady Jessica ha il sangue degli Harkonnen, ed è più vicina a loro di quanto lo siamo noi, e anch'essa ha sperimentato, come noi, una forma di compartecipazione interiore. – Una forma molto superficiale, – disse Ghanima. – E tu non hai ancora risposto alla mia domanda. – Non credo che le parlerò del Sentiero Dorato. – Lo farò io. – Ghani! – L'ultima cosa che ci serve è un altro Dio Atreides! Noi vogliamo soltanto che vi sia, finalmente, lo spazio per un po' di umanità. – L'ho forse mai negato? – No. – Ghanima sospirò profondamente e distolse lo sguardo da lui. Gli inservienti, all'intorno, lanciarono loro rapide occhiate. Dal tono delle loro voci, intuivano che si trattava di una disputa, ma erano incapaci di comprendere le antiche parole. – Dobbiamo farlo, – disse lui. – Se rifiutiamo di agire, tanto vale lasciarci cadere sui nostri pugnali. – Aveva usato l'espressione idiomatica Fremen, che in realtà suonava: «Versare la nostra acqua nella cisterna della tribù.» Ancora una volta, Ghanima lo guardò, e fu costretta ad annuire. Ma si sentì intrappolata dentro un labirinto dalle alte pareti. Entrambi sapevano che il giorno della resa dei conti avrebbe comunque attraversato la loro strada, qualunque cosa avessero fatto. Ghanima lo sapeva con una certezza corroborata da ciò che aveva appreso dalle altre vite-ricordo. Ora, però, temeva la forza che lei stessa aveva dato a quei fantasmi mentali dentro di lei, servendosi delle loro esperienze. Essi erano in agguato come arpie, ombre demoniache in attesa di tenderle un'imboscata. Tutte, fuorché sua madre, che aveva saldamente impugnato il potere della carne, ma vi aveva rinunciato. Ghanima si sentiva ancora scossa da quella lotta interiore, ben sapendo che avrebbe perduto, se non fosse stato per la forza di persuasione di Leto. Leto aveva detto che il suo Sentiero Dorato portava fuori da quella trappola. E, pur provando l'angosciosa impressione ch'egli le celasse qualcosa della sua visione, ella non poteva far altro che dare per scontata la sua sincerità. Leto aveva bisogno della sua fertile creatività per condurre il piano a perfezione.

– Saremo messi alla prova, – disse Leto, quasi avesse percepito l'oggetto dei suoi dubbi. – Non con la spezia! – Forse anche con quella. Sicuramente nel deserto, e con la Prova della Possessione. – Non hai mai parlato della Prova della Possessione! – l'accusò lei. – Fa parte del tuo sogno? Leto tentò di deglutire con la gola secca, imprecando con se stesso per essersi tradito. – Sì. – Allora saremo... posseduti? – No. Egli pensò alla Prova... a quell'antico esame dei Fremen che spesso si concludeva con una morte orrenda. Questo piano mostrava sempre nuove complessità. Li avrebbe condotti su una cresta sottile, dove un tuffo, su un lato o sull'altro, avrebbe comunque sconvolto la mente umana a tal punto da farla impazzire. Sapendo dove i suoi pensieri la stavano portando, Leto s'intromise: – Il Potere attrae gli psicotici. È sempre così. Ed è questo che dobbiamo evitare, dentro di noi. – Sei sicuro che non saremo... posseduti? – No, se riusciremo a percorrere il Sentiero Dorato. Ancora dubbiosa, Ghanima insisté: – Non porterò in grembo i tuoi figli, Leto. Egli scosse la testa, represse ogni interiorità, e scivolò nella forma cerimoniale dell'antica lingua, riservata a sacerdoti e re: – Sorella mia, ti amo più di me stesso, ma non è questo che io desidero da te. – Benissimo. Allora, affrontiamo un altro argomento, prima di raggiungere nostra nonna. Un pugnale conficcato nel cuore di Alia non risolverebbe la maggior parte dei nostri problemi? – Se credi questo, devi essere anche convinta di poter camminare nel fango senza lasciare tracce, – ribatté lui. – Inoltre, quando mai Alia ha dato a qualcuno l'opportunità di farlo? – Corrono voci su questo Javid. – Si son visti segni di corna sulla testa di Duncan? Ghanima scrollò le spalle. – Un veleno, due veleni. – Era la consueta definizione spregiativa attribuita all'abitudine regale di catalogare i compagni a seconda della minaccia che essi costituivano per la propria persona: un segno che distingueva dovunque i sovrani.

– Dobbiamo fare a modo mio, – ribadì Leto. – L'altro modo potrebbe essere più pulito. Leto capì, dalla sua risposta, che Ghanima aveva finalmente cancellato i dubbi ed era finalmente d'accordo col suo piano. La constatazione non lo rese più felice. Scoprì che stava guardandosi le mani, chiedendosi se lo sporco vi sarebbe rimasto attaccato per sempre.

Questo il successo ottenuto da Muad'Dib. Egli vide il serbatoio subliminale di ciascun individuo come una banca di ricordi inconsci che risalivano fino alla singola cellula primordiale da cui tutti discendiamo. Ciascuno di noi, egli disse, può misurare la sua distanza da questa comune origine. Quand'ebbe accertato questo oltre ogni dubbio, e l'ebbe dibattuto dentro di sé, egli passò, audacemente, all'azione. Muad'Dib si attribuì il compito d'integrare la memoria genetica col bagaglio dell'esperienza attuale. Così, egli spezzò i veli del tempo, facendo una cosa sola del futuro e del passato. Quella fu la creazione di Muad'Dib incarnata in suo figlio e sua figlia. – Testamento di Arrakis di Harq al-Ada

Farad'n percorreva a grandi passi il giardino cintato del palazzo del suo avo, scrutando la propria ombra che si accorciava sempre più man mano il sole di Salusa Secundus risaliva verso il meridiano. Dovette accelerare il passo, per mantenersi al fianco dell'alto Bashar che in realtà lo scortava. – Ho dei dubbi, Tyekanik, – disse. – Oh, non si possono negare le attrattive di un trono, ma... – Respirò profondamente. – ... io ho anche molti altri interessi. Tyekanik, che era appena uscito da una violenta discussione con la madre di Farad'n, lanciò un'occhiata di sbieco al Principe, accanto a lui, notando come la carne del ragazzo prendesse forma e consistenza con l'avvicinarsi del suo diciottesimo compleanno. Ogni giorno che passava, c'era in lui sempre meno di Wensicia e sempre più del vecchio Shaddam, che aveva sempre anteposto i suoi hobby privati alle responsabilità della sua altissima carica. Ed era questo, appunto, che alla fine gli era costato il trono. Si era rammollito. – Devi fare la tua scelta, – replicò Tyekanik. – Oh, senza dubbio ti rimarrà il tempo per alcune delle cose che più t'interessano, ma... Farad'n si morse il labbro inferiore. Il dovere lo tratteneva lì, ma si sentiva frustrato. Avrebbe di gran lunga preferito trovarsi nell'enclave rocciosa dove si compivano esperimenti con la trota delle sabbie. Ecco, quello era un progetto dalle prospettive grandiose! Strappare il monopolio della spezia agli Atreides, e allora... qualunque cosa sarebbe potuta accadere! – Sei sicuro che i gemelli saranno... eliminati? – Niente è assolutamente certo, mio Principe, ma le prospettive sono buone. Farad'n scrollò le spalle. L'assassinio era pur sempre una componente

della vita regale, tanto che la lingua poteva rivestire l'eliminazione di personaggi importanti d'un gran numero di sottili variazioni espressive. Con una sola parola era possibile distinguere fra il veleno di una bevanda e il veleno nel cibo. Egli supponeva che l'eliminazione dei gemelli Atreides sarebbe stata compiuta con un veleno. Non era un pensiero piacevole. A quanto si diceva, i gemelli erano una coppia assai interessante. – Dovremo andare su Arrakis? – chiese Farad'n. – È la scelta migliore, trovarsi personalmente sul luogo dove la pressione è maggiore. Tyekanik ebbe l'impressione che Farad'n cercasse di evitare una certa domanda, e si chiese quale mai fosse. – Sono preoccupato, Tyekanik, – riprese Farad'n, mentre superavano una siepe e si avvicinavano a una fontana circondata da giganteschi cespugli di rose nere. Si udiva il rumore dei giardinieri che lavoravano di forbici tra la vegetazione. – Sì? – lo invitò Tyekanik. – Questa, ehm, religione, che tu sostieni di aver... – Niente di strano in ciò, mio Principe, – si affrettò a interloquire Tyekanik, e sperò che la sua voce non mostrasse alcun turbamento. – Questa religione parla al guerriero che è dentro di me. È una religione adatta a un Sardaukar. – Questo, per lo meno, era vero. – Sì... ehm, già. Ma mia madre sembra così contenta che tu... – Dannazione a Wensicia! pensò Tyekanik. Ha fatto insospettire suo figlio. – Non m'importa di ciò che pensa tua madre, – replicò. – La religione di un uomo riguarda soltanto lui. Forse ella vi vede qualcosa che può aiutarti a salire al trono. – Proprio quello che pensavo, – fece Farad'n. Ahh, il ragazzo è sveglio! pensò Tyekanik. – Perché non t'informi tu stesso, su questa religione? Capirai subito perché l'ho scelta. – Tuttavia... i sermoni di Muad'Dib? Dopotutto era un Atreides. – Posso soltanto risponderti che le vie di Dio sono misteriose, – annuì Tyekanik. – Capisco. Dimmi, Tyekanik, perché mi hai chiesto di passeggiare qui con te? È quasi mezzogiorno e di solito, a quest'ora, sei lontano da qui a sbrigare qualche incarico per conto di mia madre. Tyekanik si fermò accanto a un ampio sedile di pietra, accanto alla fontana e ai cespugli di rose. Il gorgoglio dell'acqua aveva un effetto calmante sui suoi nervi, e continuò a prestarvi attenzione per tutto il

colloquio successivo. – Mio Principe, ho fatto qualcosa che a tua madre potrebbe non piacere. – E intanto pensava: Se Farad'n crede a questo, il suo maledetto piano funzionerà. Si augurò, quasi, che il piano di Wensicia fallisse. Portar qui quel dannato Predicatore! Una follia... E a che prezzo! Poiché Tyekanik era rimasto in attesa, silenzioso, Farad'n gli chiese: – Tyek, che cosa hai fatto? – Ho fatto condurre qui un esperto in oniromanzia – spiegò Tyekanik. Farad'n rivolse un'occhiata penetrante al suo compagno. Alcuni dei Sardaukar più anziani amavano dedicarsi a questo gioco dell'interpretazione dei sogni, e in misura sempre maggiore, dal giorno della loro sconfitta per mano del «Supremo Sognatore» Muad'Dib. In qualche luogo, dentro i loro sogni, essi ragionavano così, poteva celarsi il modo per riconquistare il potere e la gloria. Ma Tyekanik si era sempre astenuto da quel gioco. – Questo non è da te, Tyek, – fu il commento di Farad'n. – Allora posso parlare soltanto della mia nuova religione, – replicò Tyekanik, voltandosi a guardare la fontana. Parlare di religione, questa era naturalmente la ragione per cui aveva affrontato il rischio di portare fin lì il Predicatore. – E allora parlami di questa religione, – disse Farad'n. – Come il mio Principe ordina. – Tyekanik fissò quel giovane nel quale si concentravano tutti i sogni e i destini futuri della Casa di Corrino. – La Chiesa e lo Stato, mio Principe, perfino la ragione scientifica e la fede, e ancora di più, il progresso e la tradizione... tutto questo si concilia perfettamente con gli insegnamenti di Muad'Dib. Egli ci ha detto che nel nostro universo non esistono realtà opposte e inconciliabili, se non nei pregiudizi degli uomini e, a volte, nei loro sogni. Noi scopriamo, perfino, che il futuro esiste nel passato, ed entrambi fanno parte di un tutto. Nonostante i dubbi che non riusciva a dissipare, Farad'n rimase colpito da queste parole. Aveva colto una sia pur riluttante sincerità nella voce di Tyekanik, come se l'uomo dovesse vincere una resistenza interiore. – Ed è per questo che mi hai portato questo... questo interprete dei sogni? – Sì, mio Principe. Forse il tuo sogno penetra il Tempo. Per conquistare il dominio del tuo essere interiore, tu devi prima riconoscere l'Universo come un insieme coerente. Il tuo sogno... ebbene... – Ma io ho parlato del mio sogno così... oziosamente, – protestò Farad'n. – Per curiosità, nient'altro. Non ho mai sospettato una sola volta che tu...

– Mio Principe, nulla di ciò che tu fai può essere senza importanza. – È molto lusinghiero, Tyek. Credi che questo individuo possa veramente scrutare nell'intimo dei più grandi misteri? – Lo credo, mio Principe. – Allora, che mia madre si dispiaccia pure. – Lo incontrerai? – Naturalmente... visto che l'hai condotto qui per dispiacere a mia madre. Mi prende forse in giro? si chiese Tyekanik. E aggiunse: – Ti debbo avvertire che il vecchio porta una maschera. È un congegno ixiano il quale permette ai ciechi di vedere con la pelle. – È cieco? – Sì, mio Principe. – Sa chi sono io? – Gliel'ho detto, mio Principe. – Benissimo. Andiamo. – Se il mio Principe vorrà attendere qui un attimo, accompagnerò quell'uomo da lui. Farad'n fissò la grande fontana, e sorrise. Un posto valeva l'altro, per quella sciocchezza. – Gli hai detto quello che ho sognato? – Poche parole, mio Principe. Non sono sceso nei particolari. Ti chiederà di raccontarglielo personalmente. – Oh, d'accordo. Aspetterò qui. Fallo venire. Detto questo, Farad'n gli voltò le spalle. Udì Tyekanik che si allontanava in fretta. Oltre la siepe, intravvide un giardiniere intento al lavoro, l'estremità ondeggiante del suo copricapo marrone, il ritmico bagliore delle forbici che traspariva dalla vegetazione. Il movimento aveva un effetto quasi ipnotico. Questa storia dei sogni è una grande sciocchezza, pensò Farad'n. Tyek ha sbagliato ad agire così, senza consultarmi. Strano che Tyek sia diventato religioso, alla sua età. E adesso, i sogni. Qualche istante dopo, udì un rumore di passi dietro di sé: quelli scanditi e possenti, fin troppo familiari, di Tyekanik, e un'andatura più incerta e strascicata. Farad'n si voltò e fissò l'interprete dei sogni che si stava avvicinando. La maschera ixiana era un oggetto nero, semitrasparente, che gli nascondeva il viso dalla fronte fin sotto il mento. La maschera non aveva fessure per gli occhi. Se si doveva credere alla stravagante pubblicità degli ixiani, tutta la maschera era un grande, unico occhio.

Tyekanik si arrestò a due passi da Farad'n, ma il vecchio mascherato gli si avvicinò fin quasi a sfiorarlo. – L'oniromante, – disse Tyekanik. Farad'n annuì. Il vecchio uomo mascherato diede un colpo di tosse, più simile a un grugnito soffocato, che sembrò esalare dalla sua lunga veste grigia. Farad'n si accorse dell'odore di spezia rancida emanato dal vecchio. Proveniva dalla lunga, grigia veste che lo ricopriva. – Quella maschera è davvero parte della tua carne? – chiese Farad'n, pur rendendosi conto che stava soltanto cercando di ritardare il discorso sui sogni. – Finché la porto sul viso... sì, – disse il vecchio. La sua voce aveva un suono aspro, e un vago accento Fremen. – Tu sogni, – aggiunse. – Parlami del tuo sogno. Farad'n scrollò le spalle. Perché no? In fin dei conti, era questa la ragione per cui Tyek aveva portato lì quel vecchio. Oppure no? Farad'n sentì il dubbio crescere in lui, e chiese: – Sei davvero un oniromante? – Sono venuto a interpretare il tuo sogno, Potente Signore. Ancora una volta, Farad'n scrollò le spalle. Quella figura mascherata lo rendeva nervoso. Lanciò un'occhiata a Tyekanik, che era rimasto immobile dove si era fermato, le braccia conserte, gli occhi fissi sulla fontana. – Il tuo sogno, Potente Signore, – insisté il vecchio. Farad'n inspirò a fondo, poi cominciò a raccontare il suo sogno. La sua voce si fece più sicura e precisa man mano entrava nel vivo della narrazione. Parlò dell'acqua che scorreva all'insù dentro il pozzo, dei mondi che erano atomi danzanti nella sua testa, del serpente che si trasformava in un verme delle sabbie per poi esplodere in una nuvola di polvere. Scoprì, con sua viva sorpresa, che parlare del serpente gli costava uno sforzo quasi insopportabile. Quasi s'infuriò con se stesso, per questa improvvisa riluttanza. Quando Farad'n smise di parlare, il vecchio restò impassibile. La nera maschera translucida si muoveva leggermente col suo respiro. Farad'n attese. Il silenzio si prolungò. Infine, Farad'n chiese: – Non vuoi interpretare il mio sogno? – L'ho interpretato, – rispose il vecchio, e la sua voce sembrò provenire da una remota distanza. – Ebbene? – Farad'n sentì la sua voce farsi stridula, e ciò gli rivelò la tensione che il sogno aveva provocato in lui.

Il vecchio continuò a mantenere un silenzio impassibile. – Dimmelo, dunque! – La rabbia cresceva nella voce di Farad'n. – Ho detto che io interpreto, – rispose il vecchio. – Non ho detto che avrei acconsentito a rivelarti la mia interpretazione. Perfino Tyekanik, a questa frase, abbassò istintivamente le braccia, piantandosi i pugni sui fianchi. – Che cosa? – esclamò, con voce rauca. – Non ho detto che avrei rivelato la mia interpretazione, – ripeté il vecchio. – Vuoi esser pagato di più? – chiese Farad'n. – Non ho chiesto di esser pagato, quando sono stato condotto qui. – Il gelido orgoglio implicito in quella risposta calmò un po' la rabbia di Farad'n. Costui, in ogni caso, era un uomo molto coraggioso. Doveva sapere che la sua disobbedienza avrebbe potuto procurargli la morte. – Permettimi, mio principe, – s'intromise Tyekanik, quando Farad'n fece per rispondere. Poi: – Vuoi dirci per quale ragione non vuoi rivelarci la tua interpretazione? – Sì, miei Signori. Il sogno stesso mi dice che non c'è alcun motivo, in realtà, di rivelare queste cose. Farad'n non riuscì a trattenersi: – Vuoi dire che io già conosco il significato del mio sogno? – Forse sì, mio Signore, ma non è questo che io intendo. Tyekanik si portò al fianco di Farad'n. Entrambi fissarono furiosi il vecchio. – Spiegati, – intimò Tyekanik. – Sì, spiegati, – gli fece eco Farad'n. – Se dovessi parlarti di questo sogno, sviscerare a fondo queste visioni di acque e di polvere, di serpenti e di vermi, se dovessi leggere tra gli atomi che danzano nella tua testa così come fanno nella mia... ahhh, Potente Signore, le mie parole servirebbero soltanto a confonderti, e tu la prenderesti assai male. – Temi che le tue parole possano farmi arrabbiare? – chiese Farad'n. – Mio Signore, sei già arrabbiato. – Forse è perché non ti fidi di noi? – intervenne Tyekanik. – Hai quasi colto nel segno, mio Signore. Non mi fido di entrambi, e per la semplice ragione che neppure voi vi fidate di voi stessi. – Cammini pericolosamente vicino al ciglio, – replicò Tyekanik. – Uomini sono stati uccisi per un comportamento assai meno offensivo del tuo.

Farad'n annuì, e aggiunse: – Non tentare la nostra rabbia. – Le fatali conseguenze dell'ira dei Corrino sono ben note, Signore di Salusa Secundus, – disse il vecchio. Tyekanik appoggiò una mano sul braccio di Farad'n, per calmarlo, poi chiese: – Stai forse cercando di spingerci a ucciderti? Farad'n non aveva pensato a questo. Ora provò un brivido, pensando a ciò che un simile comportamento poteva significare. Quell'uomo che si faceva chiamare Predicatore... era più di quanto sembrasse? Quali sarebbero state le conseguenze della sua morte? Creare martiri poteva rivelarsi pericoloso. – Dubito che mi uccidereste, qualunque cosa io dica, – fece il Predicatore. – Credo che tu sappia quanto valgo, Bashar, e ora anche il tuo Principe lo sospetta. – Ti rifiuti nel modo più assoluto d'interpretare questo sogno? – chiese Tyekanik. – Ma io l'ho interpretato. – E non vuoi rivelarci ciò che hai visto? – Mi fai una colpa per questo, mio Signore? – Che valore puoi avere per me? – chiese Farad'n. Il Predicatore tese la mano destra: – Basta che io faccia un gesto con questa mano, Duncan Idaho verrà da me e mi obbedirà. – Che sciocca vanteria è mai questa? – chiese Farad'n. Ma Tyekanik scosse la testa, ricordando la sua discussione con Wensicia. Disse: – Mio Principe, potrebbe esser vero. Questo Predicatore ha molti seguaci su Dune. – Perché non mi hai detto che veniva da quel mondo? – chiese, irritato, Farad'n. Prima che Tyekanik potesse rispondere, il Predicatore si rivolse a Farad'n: – Mio Signore, non devi provare complessi di colpa a proposito di Arrakis. Tu sei soltanto un prodotto dei tuoi tempi. La tua è la normale reazione di un uomo, quando le sue colpe assalgono la sua coscienza. – Colpe! – esclamò Farad'n, oltraggiato. Il Predicatore si limitò a scrollare le spalle. Curiosamente, proprio a causa di questo, Farad'n smise di sentirsi oltraggiato e scoppiò a ridere a gola spiegata, al che Tyekanik gli rivolse un'occhiata stupita. Poi dichiarò: – Mi piaci, Predicatore. – Ciò mi appaga, Principe, – disse il vecchio. Trattenendo una risatina, Farad'n proseguì: – Ti troveremo un alloggio

qui nel palazzo. Tu sarai il mio oniromante ufficiale... anche se non vorrai rivelarmi nessuna delle tue interpretazioni. E mi potrai parlare di Dune, e darmi consigli. Quel pianeta suscita tutta la mia curiosità. – Non posso far questo, Principe. La rabbia proruppe un'altra volta in lui. Farad'n fissò furioso la maschera nera. – E perché no, di grazia? – Mio Principe, – intervenne Tyekanik, toccando nuovamente il braccio di Farad'n. – Che cosa vuoi, Tyek? – Lo abbiamo condotto qui in base a un accordo vincolante con la Gilda. Dev'essere ricondotto su Dune. – La mia presenza è richiesta su Arrakis, – confermò il Predicatore. – Ma chi è che ti vuole laggiù, con tanta urgenza? – chiese Farad'n. – Un potere più grande del tuo, Principe. Farad'n lanciò un'occhiata interrogativa a Tyekanik. – È una spia degli Atreides? – Assai improbabile, mio Principe. Alia ha posto una taglia sulla sua testa. – Se non sono gli Atreides, allora chi, o che cosa, ti sta chiamando laggiù? – insisté Farad'n, riportando la sua attenzione sul Predicatore. – Un potere più grande di quello degli Atreides. Farad'n scoppiò nuovamente a ridere. Quante sciocchezze! Come poteva Tyek farsi ingannare da queste frottole misticheggianti? Questo Predicatore era stato chiamato – molto probabilmente – da un sogno. E che importanza poteva mai avere uno stupido sogno? – È stata una perdita di tempo, Tyek, – disse infine. – Perché hai voluto impormi questa... questa farsa? – Per una duplice, ottima ragione, mio Principe, – spiegò Tyekanik. – Questo interprete di sogni sembra sia in grado di procurare alla Casa di Corrino i servigi di Duncan Idaho. Chiedeva soltanto, in cambio, d'incontrarti e interpretare il tuo sogno. – E Tyekanik aggiunse fra sé: O, per lo meno, è quanto ha detto a Wensicia! Nuovi dubbi assalirono il Bashar. – Perché mai il mio sogno è così importante per te, vecchio? – chiese Farad'n. – Il tuo sogno mi dice che grandi avvenimenti stanno confluendo verso una logica conclusione, – dichiarò il Predicatore. – Devo affrettare il mio ritorno.

Ironicamente, Farad'n soggiunse: – E tu resterai inscrutabile? Non mi darai nessun consiglio? – I consigli, Principe, sono un dono pericoloso. Ma rischierò qualche parola che potrai accettare come consigli, o in qualunque altro modo vorrai. – Ma certo, – disse Farad'n. Il Predicatore fronteggiò, più che mai rigido, Farad'n: – I governi possono sorgere e cadere per ragioni in apparenza insignificanti, Principe. Piccoli avvenimenti! Un alterco fra due dame... il modo in cui il vento soffia un certo giorno... uno sternuto, un colpo di tosse... la lunghezza di un indumento, e la fortuita collisione di un granello di sabbia con l'occhio di un cortigiano. Non sono sempre le massicce, imponenti esibizioni dei ministri imperiali a dettare u corso della storia, o il solenne pontificare dei sacerdoti a muovere le mani di Dio. Farad'n scoprì, sbigottito, che quelle parole l'avevano profondamente scosso. Non riuscì a spiegare la sua emozione. Tyekanik era stato invece colpito da una singola frase. Perché mai il Predicatore aveva parlato di un indumento? La sua mente si concentrò sui costumi imperiali che erano stati inviati ai gemelli Atreides... e sulle tigri addestrate ad attaccarli. Quel vecchio forse aveva lanciato un elusivo avvertimento? Quanto sapeva in realtà? – Qual è il significato di questo consiglio? – chiese Farad'n. – Se avrai successo, – proseguì il Predicatore, – sarai costretto a concentrare tutta la tua strategia su pochi punti efficaci. A che cosa, infatti, si applica la strategia? A un luogo specifico, e a persone specifiche. Ma anche facendo attenzione ai minimi particolari, qualche piccolo dettaglio in apparenza privo di significato finirà sempre per sfuggirti. La tua strategia, Principe, dovrà dunque essere condizionata dalle ambizioni della moglie di un qualunque governatore regionale? Gelido, Tyekanik l'interruppe: – Perché insisti tanto sulla strategia, Predicatore? Non dirai nient'altro al mio Principe? – Egli oggi viene spinto a desiderare un trono, – proseguì il Predicatore. – Gli auguro buona fortuna, ma avrà bisogno di ben altro. – Queste sono parole pericolose, – ribatté Farad'n. – Come osi pronunciarle in mia presenza? – Spesso la realtà non scalfisce le ambizioni – fu la risposta del Predicatore. – Oso dirti queste parole perché tu, ora, ti trovi a un bivio. Potresti diventare qualcosa di eccelso, ma ora sei circondato da gente che

non cerca giustificazioni morali, da consiglieri orientati verso la strategia. Tu sei giovane, forte, tenace; manchi, però, di quello specifico addestramento che consentirebbe al tuo carattere di evolversi, di maturare. E ciò è tragico, poiché sei afflitto da debolezze delle quali ti ho già descritto gli effetti. – Che intendi dire? – chiese Tyekanik. – Bada a ciò che dici! – gli fece eco Farad'n. – Quali sarebbero queste debolezze? – Tu non hai affatto pensato al tipo di società che vorresti realizzare, – disse il Predicatore. – Tu non hai mai preso in considerazione le speranze dei tuoi sudditi. Perfino il tipo d'Impero che vai cercando non ha ancora preso forma nella tua mente. – Girò la maschera verso Tyekanik. – Le tue mire si concentrano unicamente sul potere, non sui suoi pericoli e sul modo di evitare ogni abuso. Il tuo futuro è perciò pieno d'incognite: donne che litigano, colpi di tosse e giorni ventosi. Come pretendi di creare una nuova èra, quando non riesci a distinguerne tutti i particolari? La tua mente, per quanto tenace, non ti servirà a nulla. È qui la tua debolezza. Farad'n scrutò il vecchio per parecchi istanti, chiedendosi quali fossero le ragioni profonde implicate in simili pensieri, e il perché di questo insistere su concetti così screditati: moralità! finalità sociali! Miti da accantonare subito, accanto alla fede cieca nell'andamento ascendente dell'evoluzione. Tyekanik esclamò: – Basta con le parole. Veniamo ora al prezzo sul quale ci siamo accordati, Predicatore. – Duncan Idaho è vostro, – disse il vecchio. – State attenti a come lo usate. È un gioiello inestimabile. – Oh, abbiamo una missione adatta a lui, – replicò Tyekanik. Diede un'occhiata a Farad'n. – Col tuo permesso, mio Principe? – Mandalo via, prima che io cambi idea, – disse Farad'n. Poi, fulminando Tyekanik con un'occhiata rabbiosa: – Non mi piace il modo in cui mi hai usato, Tyek! – Perdonalo, Principe, – s'intromise il Predicatore. – Il tuo fedele Bashar esegue il volere di Dio senza neppure saperlo. – S'inchinò, e si allontanò. Tyekanik si affrettò a seguirlo. Farad'n li guardò mentre scomparivano oltre una siepe, e pensò: Devo proprio informarmi su questa religione abbracciata da Tyek. Sorrise tristemente. Che razza d'interprete di sogni! Ma, dopotutto, il mio sogno non era una cosa importante.

Ed egli ebbe la visione di un'armatura. E l'armatura non era la sua pelle, ed era più dura del plastacciaio, e gli avvolgeva strettamente il corpo. Niente penetrava la sua armatura: né pugnali, né veleni, né la sabbia o la polvere del deserto, col suo calore disseccante. Nella mano destra aveva il potere di creare una tempesta di Coriolis, di scuotere la terra, corrodendola e riducendola al nulla. I suoi occhi erano fissi sul Sentiero Dorato; nella mano sinistra impugnava lo scettro del dominio assoluto. E, oltre il Sentiero Dorato, i suoi occhi vedevano l'eternità ch'egli sapeva essere il cibo della sua anima e della sua carne eterna. – Heighia, il Sogno di mio fratello dal Libro di Ghanima

– Sarebbe molto meglio che io non diventassi imperatore, – dichiarò Leto. – Oh, non voglio dire di aver commesso l'errore di mio padre, e di aver guardato il futuro con una lente di spezia. Dico questo per puro egoismo. Mia sorella ed io abbiamo disperatamente bisogno di un periodo di libertà, per imparare a vivere soltanto con noi stessi. Tacque e fissò Lady Jessica, in attesa. Aveva fatto la sua parte, le aveva detto ciò ch'egli e Ghanima avevano concordato. Ora, quale sarebbe stata la risposta di sua nonna? Jessica studiò suo nipote, alla fievole luce dei globi che illuminavano le sue stanze a Sietch Tabr. Erano ancora le prime ore del mattino del suo secondo giorno laggiù, e aveva già udito voci inquietanti sui gemelli, e sulla notte di veglia che avevano trascorso fuori del sietch. Che cosa stavano macchinando? Ella stessa non aveva molto dormito quella notte, e sentiva i veleni della fatica accumulati nel suo corpo, i quali esigevano, imperiosi, che interrompesse infine la vigilanza e la continua tensione che l'avevano accompagnata durante tutte quelle logoranti necessità, fin dall'angosciosa scena allo spazioporto. Quello era il sietch dei suoi incubi... ma, là fuori, il deserto che lei ricordava non c'era più. Da dove sono usciti tutti quei fiori? L'aria intorno a lei era troppo umida. E i giovani trascuravano la rigida disciplina della tuta distillante. – Ma chi credi di essere, bambino, per aver bisogno di tempo per imparare qualcosa su te stesso? Leto scosse lentamente la testa, ben sapendo che quello era un gesto da adulti, incongruo sul suo corpo ancora infantile, ma... non doveva dar tregua a quella donna. – Per prima cosa, io non sono un bambino. Oh, sì... – Si toccò il petto. – ... Questo è il corpo di un bambino, nessun dubbio su ciò. Ma io non sono un bambino. Jessica si morse il labbro inferiore, pur sapendo, così, di tradirsi. Il suo

Duca, morto da tanti anni su quel maledetto pianeta, aveva sempre riso di lei, quando la coglieva sul fatto. La tua unica reazione incontrollata. Così amava definire quel mordersi il labbro. Mi dice che sei turbata, e io devo baciare quelle labbra per calmare il loro tremito. Ora, questo nipote che portava il nome del suo Duca, la sconvolse, facendo arrestare per un attimo i battiti del suo cuore, semplicemente col dirle, sorridendo: – Sei turbata. Lo vedo dal tremito di quelle labbra. Le fu necessaria la più rigorosa disciplina del suo addestramento Bene Gesserit per riconquistare un'apparenza di calma. Riuscì a dire: – Ti burli di me? – Burlarmi di te? Mai. Ma devo farti capire chiaramente quanta sia la differenza tra noi. Permetti che io ti ricordi quell'orgia nel sietch, tanto tempo fa, quando la Vecchia Reverenda Madre ti cedette le sue vite e i suoi ricordi. Si sintonizzò con te e ti cedette quella... quella lunga catena di salsicce, e in ognuna di esse una persona. Tu le hai ancora tutte dentro di te. Perciò puoi capire qualcosa di ciò che Ghanima ed io proviamo. – E Alia? – chiese Jessica, per sondarlo. – Non ne hai discusso con Ghani? – Desidero parlarne con te. – Molto bene. Alia ha voluto negare quello che era, ed è divenuta ciò che maggiormente temeva. Il passato-interiore non può essere relegato nell'inconscio. Questo sarebbe pericoloso per chiunque, ma per noi, i prenati, è peggiore della morte. E questo è tutto ciò che dirò di Alia. – Così, tu non sei un bambino, – disse Jessica. – Io sono vecchio di un milione di anni. Ciò richiede uno sforzo di adattamento quale mai prima d'ora un essere umano è stato chiamato a compiere. Jessica annuì, più calma, adesso, e assai più cauta di quanto era stata con Ghanima. Ma dov'era Ghanima? Perché mai Leto era venuto da solo? – Ebbene, nonna, – disse Leto, – noi siamo abominazioni, oppure la speranza degli Atreides? Jessica ignorò la domanda: – Dov'è tua sorella? – Sta distraendo Alia, per impedire che venga a disturbarti. È necessario. Ma Ghani non ti direbbe niente di più di quanto ti ho detto io. Non l'hai capito, ieri? – Quello che ho capito ieri sono affari miei. E perché vai cianciando di abominazioni? – Io vado cianciando? Non infliggermi il tuo gergo Bene Gesserit,

nonna. Potrei rimbeccarti parola per parola, liberamente pescando dai tuoi ricordi. Io voglio qualcosa di più di due labbra tremanti. Jessica scosse la testa, avvertendo la lucida freddezza di quella... persona, che pure aveva nelle vene il suo sangue. Le risorse di cui sembrava disporre la intimidirono. Cercò, comunque, di recuperare lo svantaggio, e chiese: – Che cosa sai delle mie intenzioni? Leto aspirò rumorosamente col naso. – Non c'è bisogno che tu cerchi di scoprire se ho commesso l'errore di mio padre. Non ho guardato fuori del nostro giardino del tempo... almeno, non ho tentato deliberatamente di farlo. Preferisco lasciare l'assoluta conoscenza del futuro a quei brevi istanti di déja-vu che qualunque essere umano può sperimentare. Conosco, ed evito, la trappola della prescienza. La vita di mio padre m'insegna tutto ciò che mi serve, a questo proposito. No, nonna: conoscere il futuro in assoluto significa essere intrappolati in quel futuro, in assoluto. Fa crollare il tempo. Il presente diventa futuro. Io ho bisogno di molta più libertà di quanto ciò mi possa offrire. Jessica sentì che la lingua le si contorceva per le parole non dette. Come avrebbe potuto rispondergli con qualcosa che lui non sapesse già? Questo era mostruoso! Egli è me! Egli è il mio amato Leto! Questo pensiero la sconvolse. Per un attimo si chiese se quella maschera fanciullesca non potesse trasformarsi in quei cari lineamenti e far risorgere... No! Leto piegò la testa, ma alzò gli occhi per studiarla. Sì, nonostante tutto era possibile manovrarla. Le disse: – Quando pensi alla prescienza, il che spero avvenga raramente, tu non sei diversa da chiunque altro. La maggior parte della gente s'immagina che sia meraviglioso conoscere le quotazioni di domani del prezzo delle pellicce di balena. Oppure se un Harkonnen governerà nuovamente il suo mondo natio di Giedi Primo. Ma certamente noi conosciamo gli Harkonnen fin troppo bene anche senza la prescienza, non è vero, nonna? Jessica si rifiutò di abboccare a quell'esca. Ovviamente, egli doveva sapere che il sangue maledetto degli Harkonnen impregnava la sua stirpe. – Ma chi è mai un Harkonnen? – chiese, in tono pungente. – Chi è un Beast Rabban? Chiunque di noi, eh? Ma mi sto allontanando dal discorso... Il mito popolare della prescienza: conoscere il futuro in assoluto! Tutto! Quali fortune potrebbero essere accumulate... e perdute... con una simile conoscenza assoluta, no? La plebaglia lo crede. È convinta che, se un pezzettino è buono, un pezzo più grande sia migliore. Quant'è meraviglioso tutto questo! Ma se tu consegnassi a uno di loro la vicenda

completa della sua vita, ogni sua parola e sospiro fino all'istante della morte, quale infernale dono sarebbe, quale noia totale! Ad ogni istante della sua vita, sarebbe costretto a recitare di nuovo ciò che conosce in ogni minimo particolare. Nessuna deviazione. Potrebbe prevedere ogni risposta, ogni smorfia o sorriso... di nuovo, di nuovo, di nuovo, e... – Leto scosse la testa: – L'ignoranza ha i suoi vantaggi. Un universo di sorprese, ecco ciò che invoco! Il dialogo si prolungava e Jessica, man mano ascoltava, provò una crescente meraviglia per il modo in cui l'accento di Leto, il modo di esprimersi, tutto, ne riecheggiava il padre: il suo perduto figlio. Perfino le idee: erano tutte cose che senz'altro suo padre avrebbe accettate per sue. – Mi ricordi tuo padre, – gli disse. – Ti fa male? – Sì. Ma mi consola un poco, sapere che vive in te. – Come capisci poco il modo in cui egli vive in me. Aveva parlato con voce inespressiva, ma Jessica colse l'amarezza che l'impregnava. Alzò la testa e a sua volta lo fissò negli occhi. – O come il tuo Duca vive dentro di me, – continuò Leto. – Nonna, Ghanima è te! È te a tal punto che la tua vita non ha alcun segreto per lei, fino all'istante in cui hai concepito nostro padre. E io! Che catalogo di registrazioni carnali sono io! Ci sono momenti in cui non riesco più a sopportarlo. Tu sei venuta qui per giudicarci? Sei venuta qui per giudicare Alia? Meglio sarebbe che noi giudicassimo te! Jessica cercò una risposta e non ne trovò alcuna. Che cosa intendeva fare, Leto? Perché questo insistere sulla sua diversità? Voleva forse provocare una ripulsa? Aveva raggiunto la condizione di Alia... l'abominazione? – Questo ti turba, – osservò Leto. – Sì, mi turba. – Jessica si concesse una scrollata di spalle. – Mi turba... e per ragioni che conosci molto bene. Sono certa che tu hai dentro di te l'intero mio addestramento Bene Gesserit. Ghanima lo ha ammesso. So che anche Alia... lo ha. Tu conosci allora le conseguenze della tua diversità. Leto la scrutò con inquietante intensità. – Non avremmo voluto venire a te in questi termini. – Nella sua voce vi era un'eco della stanchezza di Jessica. – Noi conosciamo il tremito delle tue labbra come lo conosceva il tuo amante. Qualunque tenerezza il tuo Duca ti abbia bisbigliato in camera da letto, noi possiamo rievocarla a nostro piacimento. Tu hai accettato questo, intellettualmente, non c'è dubbio. Ma ti avverto che un'accettazione

intellettuale non basta. Se uno di noi dovesse diventare un'abominazione... sarai stata tu, dentro di noi, a crearla! O mio padre... oppure mia madre! Il tuo Duca, perfino. Chiunque, tra voi, potrebbe possederci... e la condizione sarebbe la stessa. Jessica avvertì un bruciore nel petto, e i suoi occhi si riempirono di lagrime. – Leto... – riuscì infine a dire, permettendo a se stessa di pronunciare questo nome. Scoprì che il dolore era meno intenso di quanto si sarebbe aspettatole si costrinse a continuare. – Che cosa vuoi da me? – Rivelarti qualcosa. – Rivelare qualcosa a me? – La scorsa notte, Ghani ed io abbiamo recitato i ruoli di nostro padre e nostra madre, e questo ci ha quasi distrutto, ma abbiamo appreso molte cose... Ci sono cose, infatti, che la nostra coscienza può afferrare soltanto in certe particolari condizioni. Certe azioni, ad esempio. Ora è quasi certo che Alia sta complottando per rapirti. Jessica sbatté le palpebre, sbigottita da quell'improvvisa accusa. Ella conosceva bene quel trucco, se ne era servita lei stessa molte volte: far sì che una persona vi segua su una certa linea di ragionamento, poi cacciarvi dentro, all'improvviso, il fattore nuovo, sconvolgente. Quasi subito recuperò la sua presenza di spirito, dominando il respiro affannoso. – So quello che Alia ha fatto, so quello che è, ma... – Nonna, prova per lei tutta la pietà che vuoi, ascolta pure il tuo cuore, oltre alla mente. Lo hai fatto altre volte. Ma tu costituisci una minaccia, e Alia vuole l'Impero per sé... o, quanto meno, ciò che si è impadronito di Alia lo vuole. – Come faccio a esser sicura che tu, qui davanti a me, non sei un'altra abominazione? Leto scrollò le spalle: – È qui che deve intervenire il tuo cuore. Ghanima ed io sappiamo perché Alia è caduta. Non è facile resistere al clamore di quella moltitudine interiore. Anche se riesci a confondere le loro identità, sono sempre pronti a precipitarsi su di te in folla, non appena tu evochi un ricordo. Un giorno... – Tentò di deglutire, ma aveva la gola secca, – ... il più forte di quella selvaggia orda interiore decide che è giunto il momento di condividere la carne col suo ospite, e allora... – Non c'è niente che tu possa fare? – ella l'interruppe, pur paventando la risposta. – Noi crediamo che ci sia qualcosa... sì. Soprattutto non dobbiamo cedere all'allettamento della spezia. E non dobbiamo sopprimere del tutto

il passato. Dobbiamo usarlo, invece, amalgamarlo. Alla fine, quando tutti saranno ben fusi insieme, il nostro io originario non sarà più lo stesso... ma noi non saremo posseduti. – Hai parlato di un complotto per rapirmi. – È vero, Wensicia nutre ambizioni per suo figlio. Alia è ambiziosa a titolo personale, e... – Alia e Farad'n? – Non c'è alcun indizio in merito, – egli replicò. – Ma Alia e Wensicia in questo momento seguono vie parallele. Wensicia ha una sorella nella casa di Alia. Fin troppo semplice, perciò, trasmettere un messaggio che... – Ma tu sai se questo messaggio c'è stato? – Come se ne avessi letto ogni parola. – Ma questo messaggio l'hai visto? – Non c'è bisogno. Con tutti gli Atreides riuniti qui su Arrakis... Tutta l'acqua in una sola cisterna. – Fece un ampio gesto, a indicare l'intero pianeta. – La Casa di Corrino non oserebbe attaccarci proprio qui! – Alia avrebbe tutto da guadagnarci, se osassero tanto. – Il tono beffardo della sua voce provocò l'ira di Jessica. – Non intendo esser trattata con condiscendenza da mio nipote! – sbottò. – Dannazione, donna, piantala allora di pensare a me come a tuo nipote! Pensa a me come al tuo Duca... Leto! – Il tono, e l'espressione del viso, perfino quell'improvviso gesto delle mani, furono così identici a come li ricordava, che Jessica si azzittì, in preda alla confusione. Con voce asciutta, remota, Leto aggiunse: – Ho cercato di prepararti. Concedimi almeno questo. – Perché Alia dovrebbe rapirmi? – Perché sia incolpata la Casa di Corrino, naturalmente! – No, è impossibile. Perfino per Alia questo sarebbe... mostruoso! Troppo pericoloso! Come potrebbe farlo senza... Non posso crederlo! – Quando accadrà, allora sarai costretta a crederci. Ahh, nonna, Ghani ed io dobbiamo soltanto origliare dentro di noi, per sapere. Semplice istinto di conservazione. Come potremmo, altrimenti, anche soltanto intuire gli errori che si commettono intorno a noi? – Mi rifiuto, anche per un solo istante, di convincermi che il mio rapimento faccia parte dei... – Oh, potenze del sottosuolo! È possibile che tu, una Bene Gesserit, sia così ottusa? Non c'è un solo pianeta, in tutto l'Impero in cui non si

sospettino le ragioni per cui sei qui. I propagandisti di Wensicia fremono dall'impazienza di screditarti, e Alia non vede l'ora che ciò accada. Se tu cadrai, la Casa degli Atreides potrebbe soffrirne un colpo mortale. – Che cosa si sospetta nei mondi dell'Impero? Jessica pronunciò queste parole nel tono più gelido possibile; non si servi della Voce, poiché quel non-bambino non si sarebbe lasciato sopraffare. – Che Lady Jessica sia fermamente decisa a far accoppiare i due gemelli! – ribatté lui, con voce rauca. – È questo che vuole la Sorellanza: incesto! Jessica sbatté le palpebre. – Voci senza corpo. – Deglutì. – Il Bene Gesserit non permetterà che simili voci si spargano incontrollatamente nell'Impero. Abbiamo ancora una certa influenza, non dimenticarlo. – Voci? Quali voci? Tu certamente hai pensato a questa possibilità, e non l'hai affatto scartata. – Ella fece per rispondere, ma lui non la lasciò parlare. – Non negarlo. Ma... lascia che noi superiamo la pubertà vivendo insieme, sempre nella stessa casa, con te in quella casa, e la tua influenza non sarà più di uno straccio agitato in faccia a un verme. – Credi che siamo così completamente sciocche? – chiese Jessica. – Sì, lo credo. La vostra Sorellanza non è che un branco di vecchie sciocche, incapaci di pensare un palmo più in là del loro prezioso programma di procreazione. Ghani ed io sappiamo quale leva hanno in mano. Ci prendi per due stupidi? – Leva? – Esse sanno che sei una Harkonnen! L'informazione si trova sui loro registri: Jessica, da Tanidia Nerus; padre: il barone Vladimir Harkonnen. Questa registrazione, accidentalmente divulgata, ti strapperebbe ogni arma... – Pensi che la Sorellanza si abbasserebbe fino al ricatto? – Io so che lo farebbero. Oh, hanno zuccherato bene la pillola. Ti hanno detto d'indagare sulle voci che corrono sempre più insistenti su tua figlia. Hanno alimentato la tua curiosità e le tue paure. Hanno fatto appello al tuo senso di responsabilità, ti hanno fatto sentire colpevole per esserti rifugiata su Caladan. E ti hanno offerto la prospettiva di salvare i tuoi nipoti. Jessica poté soltanto fissarlo in silenzio. Era come se lui fosse stato presente, occhi e orecchie ben tesi, ai suoi incontri con le Superiori della Sorellanza. Si sentì completamente soggiogata dalle sue parole, e ora cominciò a ritenere possibile che lui dicesse la verità, quando le parlava

del rapimento progettato da Alia. – Capisci, nonna... devo prendere una decisione difficile, – riprese Leto. – Seguire la mistica degli Atreides? Vivere con i miei sudditi, e morire per loro? Oppure scegliere un altro corso... che mi consentirebbe di vivere migliaia di anni? Jessica, istintivamente, si ritrasse da lui. Queste parole, dette con tanta facilità, toccavano un argomento che le Bene Gesserit avevano reso quasi impensabile. Molte Reverende Madri avrebbero potuto scegliere quella via... o comunque tentarla. Le più delicate manipolazioni della chimica biologica erano disponibili alle iniziate della Sorellanza. Ma se anche una sola l'avesse fatto, presto o tardi tutte le altre avrebbero provato. E non vi sarebbe stato alcun modo di nascondere una simile concentrazione di donne eternamente giovani. Esse sapevano che questo le avrebbe condotte, inesorabilmente, alla distruzione. L'umanità dalla vita breve si sarebbe rivoltata contro di loro. No... era impensabile. – Non mi piace affatto il corso preso dai tuoi pensieri. – Tu non capisci i nostri pensieri, – ribatté lui – Ghani ed io... – Scosse la testa. – Alia l'aveva in pugno e l'ha gettato via. – Ne sei sicuro? Ho già informato la Sorellanza che Alia sta praticando l'impensabile. Guardala! Non è invecchiata di un giorno da quando io... – Oh, quello! – Leto spazzò via l'intera biochimica del Bene Gesserit con un gesto sprezzante della mano. – Io sto parlando di qualcos'altro... una perfezione dell'essere, molto al di là di ciò che gli umani hanno ottenuto fino ad oggi. Jessica tacque, atterrita dal modo in cui era riuscito a strapparle di bocca quella rivelazione. Egli sapeva certamente che quanto lei aveva detto rappresentava in realtà una sentenza di morte per Alia. E... non importava il fatto che lui avesse cambiato le parole... ma aveva manifestato la chiara intenzione di commettere l'identico delitto. Possibile che non si rendesse conto del pericolo mortale che affrontava, parlando in tal modo? – Spiegati meglio, – gli disse. – E in che modo? – replicò Leto. – A meno che tu non sappia che il Tempo non è ciò che sembra, non posso neppure iniziare una spiegazione. Mio padre lo sospettò. Giunse fino all'orlo della percezione, ma ricadde all'indietro. Ora tocca a Ghanima e a me. – Insisto per una spiegazione, – esclamò Jessica, sfiorando con le dita l'ago avvelenato che nascondeva sotto la veste, il gom jabbar, mortale al punto che il minimo graffio uccideva nel giro di pochi secondi. E pensò:

Mi avevano avvertito che forse avrei dovuto usarlo. A quel pensiero, un fremito le attraversò, a ondate, i muscoli del braccio, e fu grata all'ampia veste che le consenti di celarlo. – D'accordo, – sospirò Leto. – Per prima cosa, dunque, il Tempo. Non c'è alcuna differenza tra diecimila anni e un anno, nessuna differenza tra centomila anni e un battito del cuore. Nessuna differenza: questa è la prima verità, sul Tempo. E la seconda: l'intero universo, con tutto il suo Tempo, è dentro di me. – Che razza di sciocchezza è questa? – ribatté lei. – Vedi? Non capisci. Cercherò dunque di spiegartelo in modo diverso. – Alzò la mano destra per illustrare meglio il concetto, muovendola mentre parlava. – Noi andiamo avanti... tornando indietro. – Queste parole non spiegano un bel niente! – Esatto. – Leto annuì. – Vi sono cose che le parole non possono spiegare. Dobbiamo sperimentarle senza parole. Ma tu non sei pronta per una simile avventura... allo stesso modo in cui mi guardi e non mi vedi. – Ma io... io ti sto guardando! Sei lì, davanti a me. Certamente ti vedo! – Lo fissò, furiosa. Le parole di Leto riecheggiavano il Codice Zensunni come veniva insegnato alla scuola del Bene Gesserit: giochi verbali per confondere le idee, e le più radicate convinzioni, di una persona. – Alcune cose avvengono al di fuori del nostro controllo, – lui insisté. – E ciò come spiega questa... questa percezione che è talmente al di là di qualunque altra esperienza umana? Leto annuì: – Ritardiamo pure la vecchiaia e la morte con l'uso del melange, o con quelle delicate alterazioni dell'equilibrio organico, che voi Bene Gesserit giustamente temete... Un simile ritardo è soltanto l'illusione di un controllo. Che tu attraversi il sietch a passo rapido o lentamente, finirai pur sempre per averlo attraversato tutto. Ed è questo lo scorrere del tempo, come lo sperimentiamo dentro di noi. – Perché giochi con le parole in questo modo? – ribatté Jessica. – Mi sono consumata il dente del giudizio su queste sciocchezze prima ancora che nascesse tuo padre. – Ma quel dente poi è cresciuto, – replicò lui. – Parole! Parole! – Ahhh, ora sì che ci sei vicina! – Ach! – Nonna? – Sì?

Leto tacque a lungo, poi riprese: – Vedi? Riesci ancora a reagire come te stessa, come Jessica. – Le sorrise. – Ma non riesci a vedere oltre le ombre. Io sono qui. – Tornò a sorridere. – Mio padre ci è arrivato molto vicino. Quando visse, visse... Ma quando morì, non riuscì a morire. – Che cosa stai dicendo? – Mostrami il suo corpo! – Pensi che questo Predicatore... – Probabilmente, ma anche così, quello non è il suo corpo. – Non mi hai spiegato niente! – ella lo accusò. – Proprio come ti avevo detto. – Allora, perché... – Tu l'hai voluto. Ed era necessario, perciò, che tu lo sperimentassi. Ma ora torniamo ad Alia e alle sue macchinazioni per rapirti... – Stai forse progettando l'impensabile? – Jessica gli chiese, tenendo pronto il gom jabbar avvelenato sotto la veste. – Sarai la sua giustiziera? – chiese lui, con voce ingannevolmente dolce. Puntò il dito verso la sua mano nascosta sotto la veste. – Credi che ti consentirà di usarlo? O che io te lo consentirò? Jessica si sforzò inutilmente di deglutire. – In risposta alla tua domanda, – Leto proseguì, – io non ho in mente l'impensabile. Non sono così stupido. Ma sono disgustato di te. Tu osi giudicare Alia? È perfettamente naturale che abbia violato il prezioso comandamento del Bene Gesserit! Che cosa ti aspettavi? L'hai abbandonata, l'hai lasciata qui, regina in tutto tranne che nel nome. Tutto quel potere! E tu, sei tornata di corsa su Caladan a leccarti le ferite tra le braccia di Gurney. Niente da dire. Ma chi sei tu, per giudicare Alia? – Ti dico che io non... – Oh, chiudi il becco! – Distolse lo sguardo da lei, disgustato. Aveva pronunciato le ultime parole nello speciale modo del Bene Gesserit: la Voce. Ciò la fece azzittire come se una mano le avesse tappato la bocca. Pensò: Chi può sapere, meglio di lui, come colpirmi con la Voce? Questo attenuò un poco il bruciore dei suoi sentimenti oltraggiati. Ella stessa aveva usato molte volte la Voce sugli altri, eppure non avrebbe mai sospettato di essere tanto sensibile ad essa... non più dai tempi della scuola, dai lontani giorni in cui... Leto si voltò nuovamente verso di lei. – Mi spiace. Si dà il caso che io sappia come tu reagisca ciecamente quando... – Ciecamente? Io? – Jessica si sentì molto più oltraggiata da questo, che

dall'uso fin troppo esperto ch'egli aveva fatto della Voce su di lei. – Tu, – egli assentì. – Ciecamente. Se ti è rimasta ancora un po' di onestà, guarda in te e ammetti le tue reazioni istintive. Io ti chiamo, e tu rispondi. O t'impongo di tacere, e tu stai zitta. Se il Bene Gesserit ti ha insegnato qualcosa, scruta dentro di te, e vedrai. Questo, almeno, tu puoi fare, per il tuo... – Come osi? Che cosa sai, tu, del... – Le parole le morirono sulle labbra. Ma certamente, lui sapeva! – Guarda dentro di te, ti dico! – La sua voce si era fatta imperiosa. Ancora una volta ne fu affascinata. Jessica scoprì che i suoi sensi erano come paralizzati; il suo respiro si fece ansante. Lì, appena oltre i limiti della coscienza, era in agguato un cuore martellante, l'ansito di un... All'improvviso, si rese conto che il cuore martellante, il respiro affannoso, non erano più celati in lei, dominati dal suo controllo Bene Gesserit. Spalancò gli occhi, sconvolta da quella scoperta, mentre sentiva la sua carne obbedire ad altri ordini. Lentamente riconquistò la propria impassibilità, ma la constatazione di ciò che aveva scoperto rimase. Questo non-bimbo durante tutto il colloquio l'aveva «suonata» come un delicato strumento musicale. – Ora sai quanto profondamente sei stata condizionata dal tuo prezioso Bene Gesserit, – disse Leto. Ella poté soltanto annuire. La sua fede nelle parole era distrutta. Leto l'aveva costretta a guardare direttamente in faccia al suo universo fisico, e lei ne era uscita sconvolta, la sua mente impregnata da una nuova consapevolezza. Mostrami il tuo corpo! E lei aveva esibito il suo corpo, come quello di un infante. Mai, fin dai primissimi giorni di scuola su Wallach, o dai terribili giorni, prima che i compratori del Duca venissero a prenderla, mai, da quegli anni lontani, lei aveva provato una simile, angosciosa incertezza sui momenti che sarebbero seguiti. – Ti lascerai rapire, – disse Leto. – Ma io... – Non ti è consentito discutere su questo punto, – l'interruppe. – Ti lascerai rapire. Pensa a questo come a un ordine del tuo Duca. Ne capirai lo scopo quando sarà accaduto. E avrai a che fare con un allievo molto interessante. – Si alzò in piedi e annuì. – Alcune azioni hanno una fine, ma non un principio. Tutto dipende dal punto in cui si trova l'osservatore. – Si voltò e uscì dalla stanza. Nel corridoio esterno Leto incontrò Ghanima che si stava affrettando

verso i loro appartamenti privati. Ella si fermò quando lo vide, e disse: – Alia è occupata con la sua Convocazione della Fede. – Lanciò un'occhiata interrogativa in direzione dell'alloggio di Jessica. – Ha funzionato, – disse Leto.

L'atrocità è riconosciuta come tale sia dalla vittima che da colui che la sta perpetrando, e da tutti coloro che ne vengono a conoscenza, a qualunque distanza. L'atrocità non ha scusanti di sorta, nessun possibile argomento a favore. L'atrocità non riequilibra né corregge mai gli errori del passato. L'atrocità, semplicemente, arma il futuro per altre atrocità. Si autoperpetua: una barbara forma d'incesto. Chiunque commette un'atrocità, si rende colpevole anche di tutte le atrocità future che in tal modo vengono generate. – Apocrifi di Muad'Dib

Subito dopo mezzogiorno, quando la maggior parte dei pellegrini si erano allontanati cercando ristoro sotto un'ombra qualsiasi, accanto a una qualsiasi fonte di bevande, il Predicatore entrò nella grande piazza sotto il Tempio di Alia. Giunse al braccio del sostituto dei suoi occhi, il giovane Assan Tariq. In una tasca, sotto la veste svolazzante, il Predicatore portava la maschera nera, traslucida, che aveva infilato sul viso su Salusa Secundus. Lo divertiva pensare che la maschera e il ragazzo servivano all'identico scopo: travestimento. Finché egli mostrava di aver bisogno di un surrogato degli occhi, i dubbi sarebbero rimasti. Che la leggenda cresca pure, pensò, ma rimangano i dubbi. Nessuno doveva scoprire che la maschera era semplice stoffa, niente affatto un oggetto ixiano. La sua mano non avrebbe mai dovuto staccarsi dalla spalla ossuta di Assan Tariq. Sarebbe bastato che una volta sola il Predicatore camminasse come quelli che vedevano, nonostante le sue occhiaie vuote, e tutti i dubbi si sarebbero dissolti. Anche la piccola speranza che coltivava sarebbe morta. Ogni giorno pregava per un mutamento, per qualcosa di diverso su cui incespicare, ma perfino Salusa Secundus si era rivelato un ciottolo, niente più, ogni suo più trascurabile aspetto gli era già noto. Niente di cambiato; niente che potesse venir cambiato, eppure... Molta gente osservò il suo passaggio davanti ai negozi e lungo i portici, notando il modo in cui continuava a girare la testa da un lato all'altro, verso una persona o il vano di una porta. I movimenti della sua testa non erano sempre quelli naturali di un cieco, e questo contribuiva ad accrescere la leggenda che lo circondava. Alia osservava la scena dalle feritoie nascoste fra i torreggianti bastioni del suo tempio. Scrutò attentamente quel viso costellato di cicatrici, laggiù, molto lontano da lei, cercando di cogliere un segno, per quanto piccolo, che le consentisse un'identificazione. Ogni voce le veniva riferita. Ogni

nuova voce... col suo brivido di paura. Era convinta, all'inizio, che almeno il suo ordine di prender prigioniero il Predicatore sarebbe rimasto segreto, ma anche questo le era ritornato, adesso, sotto forma di voci. Perfino tra le sue guardie c'era qualcuno che non sapeva star zitto. Ora, Alia si augurava caldamente che le guardie avrebbero obbedito al suo nuovo ordine, di non catturare quel predicatore impaludato di mistero in un luogo pubblico, davanti agli occhi sbalorditi della folla. Il caldo era soffocante, nella piazza polverosa. La giovane guida del Predicatore si era tirata il velo fin sopra il naso, lasciando esposti soltanto gli occhi scuri e un sottile tratto della fronte. Un rigonfiamento del velo tradiva la presenza del tubo di una tuta distillante. Questo rivelò ad Alia che erano giunti dal deserto. Dove mai si erano nascosti, là fuori? Il Predicatore non aveva alcun velo per difendersi dall'aria rovente. Aveva perfino lasciato ricadere la falda della sua tuta distillante, con l'estremità del tubo. Il suo volto era esposto alla luce del sole e al tremolio del calore che avvampava, in onde visibili, dai blocchi di pietra che pavimentavano la piazza. Sui gradini del tempio sostava un gruppo di nove pellegrini, in attesa di compiere le rituali reverenze prima di ripartire. Nell'angolo in ombra della piazza vi era un'altra cinquantina di persone, per la maggior parte pellegrini che praticavano le penitenze loro imposte dai sacerdoti. Si scorgevano anche alcuni messaggeri, e qualche mercante che non aveva ancora venduto abbastanza da chiuder bottega durante le ore della canicola. Osservando la scena dalle feritoie, Alia si sentì avvolgere dal calore ardente, e seppe così di esser scivolata, senza accorgersene, in quella zona di confine tra pensiero e sensazione concreta, nell'identico modo in cui, spesso, aveva visto intrappolato suo fratello. La tentazione di consultarsi con quell'angosciante presenza dentro di lei le risuonò nella testa con un ronzio sinistro. Il Barone era lì: ossequioso, ma sempre pronto a giocare con le sue paure quando il giudizio raziocinante le veniva a mancare e le cose, intorno a lei, perdevano ogni significato, passato, presente o futuro. Che cosa accadrà se costui, laggiù, è Paul? fu la muta domanda di Alia. – Sciocchezze! – disse la voce dentro di lei. Ma i rapporti che le giungevano sulle parole del Predicatore non potevano essere ignorati. Eresia! La terrorizzava il pensiero che Paul potesse abbattere,

personalmente, le strutture erette in suo nome. Perché no? Ripensò a ciò che lei stessa aveva dichiarato alla riunione del Consiglio, quel mattino, scagliandosi con violenza contro Irulan, la quale insisteva perché fosse accettato il dono di due vesti lussuose da parte della Casa di Corrino. – Questi abiti donati ai gemelli saranno passati al vaglio con la più grande attenzione, come sempre, – aveva ribattuto Irulan. – E quando avremo scoperto che sono innocui? – aveva gridato Alia. Questo l'aveva sbigottita più di ogni altra cosa: la possibilità di scoprire che questi doni non recavano alcuna minaccia. Avevano finito per accettare quei bellissimi indumenti, ed erano passati a un altro argomento: si doveva assegnare a Jessica un posto nel Consiglio? Alia era riuscita a rinviare ogni decisione. Ripensò a tutto questo, mentre aguzzava gli occhi in direzione del Predicatore, laggiù. Ciò che stava accadendo, ora, alla sua Reggenza, era la parte invisibile della trasformazione profonda che stavano infliggendo a quel pianeta. Un tempo, Dune aveva simboleggiato la potenza suprema del deserto. Adesso, quella potenza era diminuita fisicamente, ma il mito ad essa legato continuava a crescere. Resisteva ancora, infatti, l'oceano di sabbia, l'immenso Deserto Madre che fasciava l'intera superficie del pianeta, col suo bordo di cespugli spinosi che i Fremen chiamavano ancora Regina della Notte. Al riparo dei cespugli spinosi, s'innalzavano morbide colline verdeggianti le cui propaggini inferiori si perdevano tra la sabbia. Tutte queste colline erano opera dell'uomo; ognuna di esse era stata ricoperta di piante da uomini che avevano faticato come tanti insetti striscianti. Il verde di quelle colline era quasi soffocante per qualcuno allevato, come lo era stata lei, nel mondo perennemente grigio della sabbia. Nella sua mente, come nella mente di tutti i Fremen, il deserto-oceano stringeva ancora Dune in una morsa che non si sarebbe mai allentata. Alia doveva soltanto chiudere gli occhi per rivedere quel deserto. Ma i suoi occhi, aperti, vedevano adesso le colline verdeggianti ai margini del deserto, estensioni fangose che protendevano i loro verdi pseudopodi verso la sabbia... ma il grande deserto era ancora più potente che mai. Alia scosse la testa e guardò giù in direzione del Predicatore. Questi era salito sul primo degli ampi gradini a terrazza, sotto il Tempio,

e si era voltato verso la piazza quasi deserta. Alia schiacciò il pulsante sotto la feritoia, che avrebbe amplificato le voci provenienti da là sotto. Provò un'ondata di autocommiserazione, in quella sua, soffocante, solitudine. Di chi mai poteva fidarsi? Forse, pensò, ci si poteva fidare ancora di Stilgar... ma anche Stilgar era rimasto affascinato da quel cieco. – Sai come conta? – le aveva rivelato Stilgar. – L'ho sentito contare le monete mentre pagava la sua guida, e la sua voce è suonata strana alle mie orecchie di Fremen, strana... e terribile. Egli ha contato: «shuc, ishcai, qimsa, chuascu, picha, suchta...» e così via. Non avevo più udito nessuno contare così, fin dai vecchi tempi del deserto. Da ciò, Alia seppe che Stilgar non poteva essere mandato a compiere quel lavoro che assolutamente andava fatto. In più, lei avrebbe dovuto mostrarsi assai circospetta con le sue guardie, per le quali ogni parola pronunciata ad alta voce dalla Reggente equivaleva a un ordine assoluto. Che cosa stava facendo, laggiù, quel Predicatore? Il mercato, tutto intorno alla piazza, che si estendeva lungo terrazze e portici, era l'immagine dell'abbondanza: pochi ragazzini erano stati lasciati laggiù a sorvegliare le mercanzie rimaste, insieme a qualche mercante ancora sveglio, pronto a cogliere il tintinnio delle monete nelle borse dei pellegrini o l'odore del denaro impregnato di spezia della gente del deserto. Alia scrutò la schiena del Predicatore. Sembrava sul punto di tenere un discorso, ma qualcosa lo tratteneva. Perché me ne sto qui a guardare quel rudere avvolto nella sua antica carne? Quel cadente relitto, laggiù, non può in alcun modo essere il «vaso di magnificenza» che un tempo era mio fratello. Fu colta da una profonda frustrazione, che confinava con la rabbia. Come avrebbe potuto scoprire chi era in realtà il Predicatore, scoprirlo con certezza, ma... senza scoprirlo? Era presa in trappola. Non osava mostrare più di una superficiale curiosità per questo eretico. Irulan, però, l'aveva capito. In pieno Consiglio, aveva perduto la sua tradizionale compostezza Bene Gesserit, e aveva urlato: – Abbiamo perduto il potere di pensare bene di noi! Perfino Stilgar l'aveva fissata, sbigottito. Javid li aveva ricondotti al buon senso: – Non abbiamo tempo per queste sciocchezze! Javid aveva ragione. Che importanza aveva quello che pensavano di se stessi? L'unico interesse che li univa era conservare il Potere Imperiale. Ma Irulan, riconquistando la sua compostezza, era stata ancora più distruttiva:

– Abbiamo perduto qualcosa di vitale, vi dico. E, perdendolo, abbiamo smarrito la capacità di prendere le giuste decisioni. Ogni giorno affrontiamo le nostre decisioni come se affrontassimo un nemico... oppure aspettiamo, aspettiamo... e questa è una forma di resa, e permettiamo alle decisioni altrui di costringerci ad agire. Ci siamo forse dimenticati che siamo stati proprio noi ad iniziare questo nuovo corso? E tutto questo per decidere se si doveva o no accettare un dono della Casa di Corrino. Irulan dovrà essere eliminata, decise Alia. Che cosa stava aspettando quel vecchio, laggiù? Si faceva chiamare Predicatore. Perché non predicava? Irulan si sbaglia, quando giudica il nostro modo di decidere, disse tra sé Alia. Io posso ancora prendere le decisioni giuste. Una persona che doveva prendere decisioni di vita o di morte, se non avesse agito tempestivamente sarebbe rimasta intrappolata per sempre nelle sue incertezze. Paul aveva detto che, fra tutti i fenomeni innaturali, la stasi era il più pericoloso. Soltanto il mutamento, l'eterno fluire, era importante, l'unica garanzia di continuare a esistere. Alia pensò: Il mutamento! Ne darò ad essi più di quanto abbiano mai sperato! Il Predicatore sollevò le braccia in un gesto benedicente. Qualcuno fra i pochi rimasti nella piazza gli si avvicinò, e Alia notò la lentezza di quel movimento. Si era sparsa la voce che il Predicatore avesse destato l'ira di Alia. Ella si curvò sull'altoparlante ixiano, accanto alla feritoia. L'altoparlante le trasmise il mormorio della gente nella piazza, il rumore del vento, il raschiare dei piedi sulla sabbia. – Vi porto quattro messaggi! – intonò il Predicatore. La sua voce esplose assordante dall'altoparlante di Alia, che si affrettò ad abbassarne il volume. – Ciascuno dei messaggi è per una certa persona, – proseguì il Predicatore. – Il primo messaggio è per Alia, la sovrana di questo luogo. – Puntò il dito sopra la sua spalla, in direzione dell'invisibile feritoia. – Questo io ti dico, Alia: tu che nei tuoi lombi avevi il segreto della durata, hai venduto il tuo futuro per una borsa vuota! Come osa? La rabbia esplose dentro Alia, ma quelle parole l'avevano paralizzata. – Il mio secondo messaggio, – disse il Predicatore, – è per Stilgar, il Naib dei Fremen, il quale crede di poter trasformare il potere delle tribù

nel Potere dell'Impero. Questo è il mio avvertimento per te, Stilgar: la più pericolosa fra tutte le creazioni dell'uomo è un rigido codice etico. Si ritorcerà contro di te e ti costringerà all'esilio! È andato troppo in là! pensò Alia. Devo mandare le guardie a imprigionarlo, non importa quali saranno le conseguenze. Ma le sue mani non si staccarono dai fianchi. Il Predicatore si voltò in direzione del Tempio, salì sul secondo gradino e ancora una volta si girò di scatto verso la piazza, senza abbandonare, neppure per un attimo, la spalla della sua guida. E gridò: – Il mio terzo messaggio è per la principessa Irulan. Principessa! L'umiliazione è una cosa che nessuno può dimenticare. Fuggi, se vuoi salvarti! Che cosa sta dicendo? si chiese Alia. Irulan è stata umiliata da noi, ma... Perché l'avverte, perché l'invita a fuggire? Io... ho appena preso la mia decisione! Un brivido di paura la scosse tutta. Come faceva il Predicatore a saperlo? – Il mio quarto messaggio è per Duncan Idaho, – urlò il Predicatore. – Duncan, ti hanno insegnato a credere che la lealtà si possa comperare con una lealtà più grande. Oh, Duncan, non credere alla storia. Il denaro, qualunque sia la sua forma, può forzare la storia. Duncan! Impugna le tue corna e agisci nel modo migliore! Alia si morse il dorso della mano destra. Corna! Volle protendere il braccio e schiacciare il pulsante che avrebbe chiamato le guardie, ma la sua mano rifiutò di muoversi. – Ora parlerò a voi, – disse ancora il Predicatore. – Questo è un sermone del deserto. Lo indirizzo alle orecchie del clero di Muad'Dib. Di coloro che praticano l'ecumenismo della spada. Oh, voi che credete nel destino rivelato! Non sapete che il destino rivelato ha un suo lato demoniaco? Voi proclamate di essere stati innalzati semplicemente perché siete vissuti durante la generazione benedetta di Muad'Dib. La santità ha sostituito l'amore, nella vostra religione! Voi cercate la vendetta del deserto! Il Predicatore abbassò la testa come se fosse assorto in preghiera. Alia tremò, nell'intimo della sua coscienza. Dei del sottosuolo! Quella voce! Era stata corrosa dagli anni passati fra le sabbie ardenti, ma poteva essere senz'altro quanto restava della voce di Paul. Ancora una volta il Predicatore sollevò la testa. La sua voce tuonò sopra la piazza dove altra gente aveva cominciato a raccogliersi, affascinata da questa incredibile figura uscita dal passato. – Così è scritto! – urlò il Predicatore. – Coloro che pregano per la

rugiada, ai bordi del deserto, provocheranno il diluvio! Essi non potranno sfuggire al loro destino grazie ai poteri della ragione! La ragione nasce dall'orgoglio, per consentire a un uomo d'ignorare il male che ha fatto. – Abbassò la voce. – È stato detto, di Muad'Dib, che è morto di prescienza, che è stata la conoscenza del futuro a ucciderlo, e che lui passò dall'universo della realtà a quello dell'alam al-mythal. Io vi dico che questa è l'illusione di Maya. Simili pensieri non incarnano la realtà. Anche se nascono in voi, non possono creare cose vere. Muad'Dib disse di sé ch'egli non possedeva alcuna magia Rihani con cui decifrare l'universo. Non dubitate delle sue parole. Ancora una volta il Predicatore sollevò le braccia e la sua voce divenne un rombo assordante: – Questo io dico al clero di Muad'Dib! Il fuoco sul dirupo vi brucerà! Coloro che imparano troppo bene la lezione sul modo d'ingannare se stessi, periranno vittime del loro stesso inganno. Il sangue di un fratello non potrà mai essere cancellato! Quindi abbassò le braccia, ritrovò la spalla della giovane guida, e abbandonò la piazza prima che Alia riuscisse a spezzare la tremante immobilità che l'aveva sopraffatta. Quali temerarie eresie! Sì, era Paul, nessun dubbio possibile. Ella doveva avvertire subito le guardie, fermarle: guai se si fossero precipitate a catturare quel Predicatore davanti alla folla, là fuori. Ciò che era accaduto laggiù, pochi istanti prima, rendeva impensabile un simile atto. E, infatti, nonostante l'aperta eresia, nessuno fermò il Predicatore che se ne andava. Nessuna guardia del Tempio balzò al suo inseguimento. Nessun pellegrino gli sbarrò la strada. Quel cieco carismatico! Chiunque lo vedeva e lo ascoltava avvertiva il suo potere, il riflesso di un talento divino. Nonostante il calore di quel giorno infuocato, Alia all'improvviso rabbrividì. Percepì, quasi palpabilmente, quanto fosse in realtà precario il suo dominio sull'Impero. Si afferrò al bordo della feritoia come per rinnovare la sua stretta sullo scettro del potere, pensando a quant'era fragile. L'equilibrio fra il Landsraad, la CHOAM e gli eserciti dei Fremen, costituiva il nucleo del potere, mentre la Gilda Spaziale e il Bene Gesserit tramavano silenziosamente nell'ombra. La continua infiltrazione dei nuovi sviluppi tecnologici provenienti dai mondi più lontani raggiunti dall'uomo, per quanto proibita, corrodeva lentamente il potere centrale. E i prodotti delle fabbriche ixiane e tleilaxu non allentavano la pressione. In più, fra le quinte, c'era sempre Farad'n, della Casa di Corrino, l'erede dei titoli e delle rivendicazioni di Shaddam IV.

Senza i Fremen, senza il monopolio della spezia geriatrica da parte della Casa degli Atreides, la sua stretta sul potere si sarebbe allentata, fino a dissolversi. Ella già adesso sentiva lo scettro scivolarle via dalla mano destra. La gente ascoltava quel Predicatore. Sarebbe stato pericoloso chiudergli la bocca; ma sarebbe stato altrettanto pericoloso permettergli di continuare a spargere parole come quelle che, oggi, aveva gridato nella piazza. Alia poteva intravvedere i primi presagi della sua sconfitta; il problema si stagliò chiaramente nella sua mente, in tutti i suoi particolari. Il Bene Gesserit l'avrebbe così schematizzato: «Una plebaglia numerosa controllata da una forza piccola ma concentrata è una condizione comune nel nostro universo. E noi conosciamo le condizioni tipiche in cui questa plebaglia numerosa può rivoltarsi contro i suoi guardiani... «Primo: quanto trova un capo. Questa è la più grave delle minacce per un potere. I potenti devono mantenere il controllo sui capi. «Secondo: quando la plebaglia si accorge delle sue catene. La plebaglia dev'essere perciò mantenuta cieca e incapace di porsi domande. «Terzo: quando la plebaglia intravvede una speranza di sfuggire alla propria schiavitù. Bisogna evitare in qualunque modo che la plebaglia creda alla possibilità di una simile fuga!» Alia scosse energicamente la testa, esasperata. I segni erano chiari, laggiù, fra la plebaglia. E ogni rapporto che riceveva dalle sue spie disseminate attraverso l'Impero contribuivano a rafforzare la sua convinzione. La guerra incessante dello Jihad dei Fremen aveva lasciato il suo marchio dovunque. In tutti i mondi in cui era giunto l'«ecumenismo della spada», la gente conservava l'atteggiamento di un popolo sottomesso: nicchiante, evasiva, sempre sulla difensiva. Tutte le manifestazioni dell'autorità – e questo significava essenzialmente l'autorità religiosa – erano oggetto di risentimento. Oh, i pellegrini arrivavano ancora a milioni, e alcuni fra essi erano probabilmente devoti. Ma per la maggior parte dei pellegrini esistevano altre motivazioni, che non avevano nulla a che fare con la devozione. Per quasi tutti, si trattava di acquisire, furbescamente, una garanzia per il futuro, sottolineando – ostentatamente – la propria obbedienza, e acquisendo in tal modo un potere concreto che facilmente si traduceva in ricchezza. Lo Hajji che ritornava da Arrakis giungeva a casa investito di una nuova autorità, di una nuova posizione sociale. Lo Hajji poteva prendere lucrative decisioni economiche che gli abitanti del suo mondo, impossibilitati a lasciare il pianeta, non avrebbero mai potuto

contrastare. Alia conosceva l'indovinello popolare: «Che cos'hai dentro la borsa vuota che hai portato a casa da Dune?» e la risposta: «Gli occhi di Muad'Dib (i diamanti di fuoco)». I vari modi tradizionali di stroncare sul nascere i fermenti di ribellione di un popolo sfilarono nella sua coscienza: bisognava instillare nella gente l'idea che l'opposizione veniva sempre punita e l'aiuto dato al sovrano era sempre ricompensato. Gli spostamenti delle forze imperiali dovevano esser frequenti e imprevedibili. E si dovevano tener nascosti i decreti che aggiungevano sempre nuove, e importanti prerogative al potere imperiale. Tutte le azioni della Reggenza intese a prevenire ogni potenziale attacco richiedevano un'accurata messa a punto per cogliere in contropiede l'avversario. Ho forse smarrito la mia capacità a pronte e tempestive decisioni? si chiese. – Quale sciocco pensiero è mai questo? – chiese la voce dentro di lei. Alia sentì calmarsi i suoi dubbi come d'incanto. Sì, il piano del Barone era eccellente. In questo modo, avrebbero eliminato la minaccia rappresentata da Lady Jessica e, nello stesso tempo, screditato la Casa di Corrino. Proprio così. Al Predicatore avrebbe pensato più tardi. Ella capiva il suo atteggiamento. Il simbolismo era chiaro. Era l'antico spirito del libero pensatore, l'eresia viva e attiva nel cuore stesso dell'ortodossia. Quella era la sua forza. Non aveva importanza che fosse, oppure no, Paul, quando si poteva mantenere ciò in dubbio. Ma la conoscenza innata del Bene Gesserit diceva ad Alia che proprio nella sua forza poteva trovarsi la chiave della sua debolezza. Il Predicatore ha certamente qualche difetto che noi scopriremo. Lo farò spiare, in ogni momento. E alla prima occasione sarà screditato.

Non metterò in dubbio le asserzioni dei Fremen, di essere ispirati dalla divinità a diffondere una religione rivelata. È quando vi aggiungono una «ideologia» rivelata che mi sento spinto a deriderli. Naturalmente, essi sostengono questa duplice asserzione nella speranza che ciò rinforzi la loro assoluta supremazia e li aiuti a sopportare un universo che li giudica sempre più oppressivi. È in nome di tutti questi popoli oppressi che io ammonisco i Fremen: ogni successo a breve termine non resiste mai alla prova del tempo. – Il Predicatore ad Arrakeen

Nella notte, Leto salì insieme a Stilgar sulla cresta del basso contrafforte roccioso che spuntava dal deserto, ed era chiamato l'Attendente dalla gente di Sietch Tabr. Sotto la luce sempre più fievole della Seconda Luna, contemplarono, da quella sporgenza, il vasto panorama: il Muro Scudo col monte Idaho a nord, la Grande Distesa a sud e le dune ondulate a est, in direzione della catena di Habbanya. Turbini di polvere, le estreme propaggini di una tempesta, nascondevano l'orizzonte meridionale. La luce della luna creava un bordo di luminescenza vitrea sulla cresta del Muro Scudo. Stilgar l'aveva accompagnato fin lì contro la propria volontà, accettando infine soltanto perché Leto aveva destato la sua curiosità. Perché mai era necessario rischiare una traversata notturna della sabbia? Il ragazzo aveva minacciato di sgattaiolare via e di compiere l'impresa da solo, se Stilgar si fosse rifiutato. Tuttavia, era il modo in cui lo stavano facendo che lo preoccupava vivamente. Due bersagli così importanti, soli, di notte! Leto era acquattato sulla sporgenza e guardava verso sud, in direzione della Grande Distesa. Di tanto in tanto si batteva il ginocchio, come in preda alla frustrazione. Stilgar attese. Era assai bravo, quando si trattava di aspettare in silenzio. Era a due passi dal suo protetto, immobile, le braccia conserte, la veste che si agitava debolmente alla brezza notturna. Per Leto, quella traversata della sabbia rappresentava una reazione alla disperazione interiore, un bisogno di cercare un nuovo equilibrio per la sua vita, in un silenzioso conflitto che Ghanima non poteva rischiare più a lungo. Aveva manovrato in modo che Stilgar si unisse a lui in quell'avventura, poiché c'erano cose che Stilgar doveva sapere, per prepararsi ai giorni che lo aspettavano. Leto tornò a picchiarsi il ginocchio con la mano. Quant'era difficile riconoscere un inizio! A volte si sentiva come una pura estensione di

quelle altre innumerevoli vite, tutte vere e tangibili come la sua. Nel fluire di quelle vite non c'era un fine, nessun completamento: soltanto un eterno inizio. Esse potevano rivelarsi una folla convulsa, vociante, che urgeva verso di lui come all'unica finestra attraverso la quale ciascuna voleva guardare. E lì si nascondeva il pericolo che aveva distrutto Alia. Leto scrutò la tempesta lontana inargentata dalla luce della luna. L'infinita marezzatura delle dune si perdeva alle estreme lontananze: spolverio di silicio disperso dal vento e riaccumulato in forma di onde... granelli impalpabili, sabbia ruvida, ciottoli. Si sentì intrappolato in uno di quei momenti d'immobilità assoluta che precedevano l'alba. Il tempo premeva su di lui. Era già il mese di Akkad, e la lunga attesa si stendeva dietro di lui, fatta di lunghi giorni caldi e di venti caldi e aridi, e di notti come quella, tormentate dalle raffiche e dall'interminabile soffio che esalava dalla lontana fornace del Bled dell'Avvoltoio. Si voltò a fissare, alle sue spalle, il Muro Scudo, un profilo spezzato alla luce delle stelle. Oltre quel muro, nel Bacino Meridionale, si trovava il punto focale del suo problema. Ancora una volta guardò il deserto. Mentre fissava la calda oscurità, cominciò ad albeggiare. Il sole spuntò fra gli strati di polvere e aggiunse una sfumatura giallo-limone alle striature rosse della tempesta. Leto chiuse gli occhi, e s'impose di contemplare quel nuovo giorno come l'avrebbero visto ad Arrakeen. La città comparve davanti a lui, nella sua coscienza, una spruzzata di contenitori cubici, casse, scatole, che disegnavano ombre nella nuova luce. Deserto... scatole... deserto... scatole... Riaprì gli occhi: il deserto era ancora lì, davanti a lui, una distesa color curry di sabbia sconvolta dal vento che si stendeva a perdita d'occhio. Ombre oleose alla base di ogni duna si allungavano come raggi di oscurità dalla notte appena trascorsa, unendo un tempo all'altro. Leto pensò alla notte trascorsa, accovacciato lì sopra, con Stilgar accanto a lui, il vecchio Naib preoccupato per quel silenzio e le ragioni non spiegate che li avevano spinti fin laggiù, quella notte. Quel luogo doveva esser pieno di ricordi per Stilgar, che già vi era stato col suo amato Muad'Dib. Stilgar... che continuava a scrutare, attento, i dintorni, pronto a cogliere il primo accenno di pericolo. A Stilgar non piaceva trovarsi all'aperto, alla luce del giorno. In questo, era un tipico, vecchio Fremen. La mente di Leto era riluttante ad abbandonare la notte e la fatica rivitalizzante della traversata delle sabbie. Quand'erano giunti là, su quelle rocce, la notte aveva assunto la sua nera immobilità. Egli capiva i timori di

Stilgar per la luce del giorno. Il nero era una cosa sola, anche quando ribolliva d'innumerevoli terrori. La luce poteva essere molte cose. La notte esalava gli odori della paura e le sue tenebrose creature si avvicinavano con sinistri fruscii. Nella notte le dimensioni si dilatavano, tutto diventava più grande, più intenso... le spine erano più acuminate, le lame più taglienti. Ma i terrori del giorno potevano essere anche peggiori. Stilgar si schiarì la gola. Leto parlò senza voltarsi: – Ho un problema molto serio, Stilgar. – L'avevo sospettato. – La voce accanto a Leto era bassa e guardinga. Il bimbo aveva parlato, inquietante, come il padre, sfiorando quella magia proibita che suscitava la ripugnanza di Stilgar. I Fremen conoscevano i terrori della possessione. Chiunque venisse scoperto in preda alla possessione veniva giustamente ucciso e la sua acqua era sparsa sulla sabbia per paura che contaminasse la cisterna della tribù. I morti dovevano restare morti. Sì, i figli erano l'unica forma giusta d'immortalità, ma un figlio non aveva alcun diritto di assumere una forma troppo somigliante a qualcosa che usciva dal passato. – Il mio problema... sono le troppe cose lasciate incompiute da mio padre, – disse Leto. – E per di più in un punto cruciale della nostra esistenza. L'Impero non può continuare così, Stilgar, senza dare il giusto valore alla vita umana. La vita, Stilgar, capisci? Sto parlando della vita, non della morte. – Un giorno, turbato da una visione, tuo padre mi disse l'identica cosa, – fece Stilgar. Leto scoprì la tentazione di esorcizzare, ridendo, quella cupa presenza accanto a lui, piena di dubbi e paure, con una frivola risposta, forse un invitò a interrompere il digiuno. All'improvviso, si era sentito cogliere dai morsi della fame. Avevano fatto l'ultimo pasto il giorno prima, a mezzodì, ed egli stesso aveva insistito perché digiunassero tutta la notte. Ora, però, un'altra fame lo faceva spasimare. Il problema della mia vita è inesorabilmente legato a questo luogo, pensò Leto. Nessuna creazione preliminare. Io, semplicemente, vado indietro... indietro, fino a quando le distanze svaniscono. Non riesco a vedere l'orizzonte; non riesco a vedere la catena di Habbanya. Non riesco a trovare il luogo originale della Prova. – Non esiste in realtà nessun sostituto della prescienza, – disse Leto. – Forse dovrei rischiare con la spezia...

– Ed essere distrutto come lo è stato tuo padre? – Un tragico dilemma, – commentò Leto. – Un giorno tuo padre si confidò con me e mi disse che conoscere troppo bene il futuro significa trovarsi imprigionati in esso, privi di qualunque possibilità di cambiamento. – Il nostro problema è il paradosso, – proseguì Leto. – La prescienza è qualcosa di elusivo e potente. Il futuro diventa l'adesso. Ricevere il dono della vista in una terra di ciechi porta con sé gravi pericoli. Se cerchi di descrivere ai ciechi ciò che vedi, tendi a dimenticarti che un cieco procede in un modo intrinseco alla sua cecità. I ciechi sono simili a macchine mostruose che si muovono, inarrestabili, lungo le proprie strade. Hanno una loro velocità, un rigido funzionamento. Io ho paura dei ciechi, Stil. Ho paura di ciò che essi sono. Possono schiacciare con troppa facilità tutto ciò che si trova sulla loro strada. Stilgar fissò il deserto. L'alba color limone si era trasformata in un giorno color acciaio. Chiese: – Perché siamo venuti fin qui? – Perché voglio che tu veda il luogo dove potrei morire. Stilgar s'irrigidì, e replicò: – Allora hai avuto una visione? – Forse era soltanto un sogno. – Perché siamo venuti in un luogo così pericoloso? – Stilgar fissò corrucciato il suo protetto. – Rientriamo subito. – Non morirò oggi, Stil. – No? Che cos'era questa visione? – Ho visto tre strade aprirsi davanti a me, – spiegò Leto. La voce gli uscì dalla bocca col suono cantilenante del ricordo. – Uno di questi tre futuri esige che io uccida nostra nonna. Stilgar lanciò dietro di sé una fulminea occhiata, in direzione di Sietch Tabr, come se temesse che Lady Jessica potesse udirli attraverso la distesa sabbiosa. – Perché? – Per impedirci di perdere il monopolio della spezia. – Non capisco. – Neppure io. Ma è questo che io penso, nel mio sogno, quando brandisco il pugnale. – Oh. – Stilgar capiva fin troppo bene il significato del pugnale. – E la seconda strada? – Ghani ed io ci sposiamo, onde perpetuare il seme intatto degli Atreides. – Ghasa! – Stilgar espulse tutta l'aria dai polmoni, in una violenta

interiezione di disgusto. – Era usuale, un tempo, per i re e le regine, – si affrettò a dire Leto. – Ma Ghani ed io abbiamo già deciso che non procreeremo insieme! – T'invito ad attenerti saldamente a questa decisione! – C'era la morte nella voce di Stilgar. Secondo la legge dei Fremen, l'incesto andava punito con la morte sul tripode delle impiccagioni. Si schiarì la gola e chiese: – E la terza strada? – Mio padre andrà ricondotto a statura umana. – Muad'Dib era mio amico, – mormorò Stilgar. – Non il tuo amico... il tuo dio! Dovrò togliergli la divinità. Stilgar voltò la schiena al deserto e guardò in direzione dell'oasi del suo amato Sietch Tabr. Simili discorsi lo turbavano profondamente. Leto avvertì, nel movimento di Stilgar, l'acida esalazione del sudore. Sarebbe stato così facile evitare ciò che, invece, andava detto! Avrebbero potuto discorrere per mezza giornata, passando dal concreto all'astratto, tenendosi accuratamente lontano da ciò che era realmente importante, dalle necessità immediate che dovevano affrontare, dalle decisioni più impellenti. Non c'era dubbio, ad esempio, che la Casa di Corrino costituiva un'autentica minaccia alla sua vita, e a quella di Ghani. Eppure, tutto ciò che avrebbero deciso di fare in proposito, adesso, doveva ubbidire ad altre necessità, più segrete. In passato, Stilgar aveva votato per l'assassinio di Farad'n, compiuto nel modo più segreto ed efficace, col chaumurky, il veleno da somministrarsi in una bevanda. Si sapeva che Farad'n aveva un debole per certi liquori dolci... Eppure no, non andava fatto. – Se morirò qui, Stil, – disse Leto, – dovrai guardarti da Alia. Non è più tua amica. – Che cos'è questo tuo discorso di morte... e di tua zia? – Ora Stilgar si sentì veramente oltraggiato. Uccidere Lady Jessica! Guardarsi da Alia! Morire qui! – Uomini insignificanti cambiano volto e partito ad ogni suo minimo cenno, – proseguì Leto. – Eppure, un sovrano non ha bisogno d'essere un veggente, Stil. E neppure un dio. Dev'essere soltanto sensibile e accorto. Ti ho condotto qui per chiarirti ciò di cui ha urgente necessità il nostro Impero. Un buon governo. E questo non dipende dalle leggi o dai precedenti, ma dalle qualità personali di chiunque governi. – La Reggente svolge i suoi doveri imperiali molto bene, – dichiarò Stilgar. – Quando tu sarai grande... – Ma io sono grande! Io sono la persona più vecchia, qui! Tu sei un

lattante, al mio confronto. Io riesco a ricordare fatti e persone che risalgono a più di cinquanta secoli fa. Ah! Posso addirittura ricordarmi di quando noi Fremen eravamo su Thurgrod. – Perché giochi con simili fantasie? – gli chiese Stilgar, in tono perentorio. Leto annuì fra sé. Perché, poi? Perché parlare dei suoi ricordi di secoli lontani? Il suo problema immediato erano i Fremen di oggi: la maggior parte di loro erano ancora dei selvaggi, semi-domati, propensi a farsi beffe di ogni persona tollerante e pacifica. – Un cryss si dissolve alla morte del suo padrone, – disse ancora Leto. – Muad'Dib si è dissolto. Perché i Fremen sono ancora vivi? Era uno di quegli improvvisi mutamenti di rotta, nei suoi pensieri, che sconvolgevano le idee di Stilgar il quale, per un attimo, non seppe che cosa rispondere. Parole come quelle che aveva appena udito possedevano un significato, ma il loro scopo gli sfuggiva. – Ci si aspetta che io diventi imperatore... ma dovrò essere il servo – rispose Leto. Lanciò un'occhiata a Stilgar, al suo fianco. – Mio nonno, da cui ho preso il nome, aggiunse alcune parole al suo stemma, quando giunse su Dune: «Qui sono, qui resto.» – Non aveva altra scelta, – osservò Stilgar. – Benissimo, Stil. Neanch'io ho scelta. Io dovrei essere Imperatore per diritto di nascita, per la squisitezza del mio carattere, per ciò che custodisco dentro di me. E so perfino ciò che l'Impero richiede: un buon governo. – Naib ha un antico significato, – replicò Stilgar. – Vuol dire «servitore del Sietch.» – Non ho dimenticato i tuoi insegnamenti, Stil, – disse Leto. – Per essere ben governata, una tribù deve poter scegliere un uomo la cui vita personale rifletta il modo in cui un governo dovrebbe comportarsi. Dalle profondità della sua anima Fremen, Stilgar replicò: – Tu indosserai il manto imperiale se lo meriterai. E per prima cosa, dovrai provare che sai comportarti come un sovrano! Inaspettatamente, Leto scoppiò a ridere. Poi: – Dubiti della mia sincerità, Stil? – Naturalmente no. – E il mio diritto di primogenitura? – Tu sei colui che sei. – E se farò quello che ci si aspetta da me, questa sarà la misura della mia sincerità, non è vero?

– È la regola dei Fremen. – Allora, non mi è consentito avere dei sentimenti, dentro di me, che guidino il mio comportamento? – Non capisco... – Io dovrò sempre comportarmi impeccabilmente, non importa quanto mi costerà sopprimere i miei desideri, non è vero? Questo voi volete da me? – Questa è l'essenza dell'autocontrollo, giovanotto. – Giovanotto! – Leto scosse la testa. – Ah, Stil, tu mi hai dato la chiave dell'etica del governare. Io dovrò agire sempre nell'identico modo, ogni mia azione dovrà essere conforme alle tradizioni del passato. – Giusto. – Ma il mio passato va più indietro del tuo! – Che differenza... – Io non possiedo la prima persona singolare, Stil. Io sono una persona multipla, col ricordo di tradizioni molto più antiche di quanto tu possa immaginare. Questo è il mio fardello, Stil. Io sono tutto orientato verso il passato. Trabocco di conoscenze innate che resistono a ogni novità, al mutamento. Eppure, Muad'Dib è riuscito a cambiare tutto questo. – Indicò con un ampio gesto del braccio il deserto, comprendendovi il Muro Scudo, alle sue spalle. Stilgar si voltò per scrutare il Muro Scudo. Un villaggio era stato costruito alla base del muro, all'epoca di Muad'Dib, una manciata di case per alloggiarvi una squadra di planetologi i quali aiutavano a diffondere la vita vegetale nel deserto. Stilgar fissò quell'intrusione nel paesaggio, opera dell'uomo. Mutamento? Sì. La presenza di quel villaggio richiedeva, da lui, uno sforzo di adattamento, era concreto, reale... una realtà che lo offendeva. Restò immobile e silenzioso, ignorando il prurito delle particelle di sabbia sotto la tuta distillante. Quel villaggio offendeva ciò che il pianeta era stato. Improvvisamente Stilgar desiderò che una tromba d'aria balzasse sopra le dune e cancellasse in pochi attimi quegli edifici. L'intensità del desiderio lo lasciò tremante e spossato. Leto disse: – Hai notato, Stil, quanto sono malfatte le nuove tute distillanti? Le nostre perdite d'acqua sono troppo elevate. Stilgar si arrestò quando già gli urgevano sulle labbra le parole: Non lo dico sempre? Si limitò a commentare: – La nostra gente dipende sempre più dalle pillole. Leto annuì. Le pillole modificavano la temperatura corporea, riducevano

le perdite d'acqua. Erano più economiche e più facili a usarsi delle tute distillanti. Ma causavano altri inconvenienti: un'eccessiva lentezza di reazione e, occasionalmente, alterazioni alla vista. – È per questo che siamo venuti qua fuori? – chiese stilgar. – Per discutere la fabbricazione delle tute? – Perché no? – replicò Leto. – Dal momento che non vuoi affrontare ciò di cui ti debbo parlare. – Perché devo guardarmi da tua zia? – C'era rabbia nella sua voce. – Perché Alia sfrutta l'antico desiderio dei Fremen, di resistere ai mutamenti, eppure sarà portatrice di cambiamenti molto più terribili di quanto tu possa immaginare. – Tu esageri le cose! Alia è una Fremen in tutto e per tutto! – Ahh, il vero Fremen è pronto a piegarsi al dominio del passato, ed io ho un antichissimo passato. Stil, se io dovessi dar libero sfogo a questa propensione, esigerei una società chiusa, completamente legata alle sacre tradizioni. Porrei il più rigido controllo ai viaggi e alle migrazioni, giustificandolo col fatto che essi incoraggiano le nuove idee, e le nuove idee sono una minaccia all'intera struttura della vita. Ogni piccola collettività planetaria seguirebbe la sua strada, trasformandosi a piacimento. E alla fine l'Impero andrebbe in frantumi sotto il peso delle sue stesse diversità. Stilgar non poté far altro che trovarsi d'accordo: le situazioni cambiavano. Come ci si doveva comportare, allora? Fissò il deserto, al di là di Leto, senza quasi vederlo. Muad'Dib aveva camminato laggiù. Il sole, che s'innalzava sull'orizzonte, tracciava un immenso mosaico di ombre dorate sulla distesa di sabbia, sfumature purpuree, venature d'arenaria corrosa sormontate da sbuffi di polvere. La foschia perennemente sospesa sopra la catena di Habbanya era visibile, molto in distanza, e il deserto si disegnò, preciso, davanti a lui, con le sue dune che via via rimpicciolivano, fondendosi le une nelle altre alle estreme lontananze. Stilgar, attraverso il vaporoso tremolio dell'aria che si scaldava, vide le piante che si stendevano, strisciando, fuori dal bordo del deserto. Muad'Dib aveva fatto sì che la vita spuntasse in quel luogo desolato. Fiori rossi, dorati, bronzei, gialli, marrone, fulvi, foglie grigio-verdi, spighe e ombre aguzze sotto i cespugli. L'agitazione termica del giorno nascente faceva ondeggiare le ombre, quasi fossero fantasmi nell'aria. Qualche istante dopo, Stilgar disse: – Io sono un capo Fremen, tu sei figlio di un Duca.

– Non sapendo ciò che dicevi, l'hai detto, – replicò Leto. Stilgar si aggrondò. Un giorno, molto tempo prima, Muad'Dib l'aveva rimproverato allo stesso modo. – Ricordi, non è vero, Stil? – chiese Leto. – Eravamo sotto la catena di Habbanya e quel capitano dei Sardaukar... qual'era il suo nome? Aramshan, non è vero?... uccise il suo amico per salvare se stesso. E tu ci avevi ammonito più volte, quel giorno, di non fare grazia della vita ai Sardaukar che avessero visto i nostri segreti. Dicesti, anche, che avrebbero finito per rivelare ciò che avevano visto; dovevano essere uccisi. E mio padre disse: «Non sapendo ciò che dicevi, l'hai detto.» E tu non provasti alcun piacere. Anzi, gli rinfacciasti che tu eri un semplice capo dei Fremen. I Duchi dovevano sapere cose molto più importanti. Stilgar fissò Leto. Eravamo sotto la catena di Habbanya! Noi! Quel... quel bambino, il quale, in quel lontano giorno, non era stato ancora concepito, sapeva ciò che era accaduto fin nei minimi particolari, quei particolari che potevano esser noti soltanto a chi si fosse trovato sul posto. E questa era soltanto un'altra prova che i gemelli Atreides non potevano essere giudicati secondo i criteri usuali. – Ora, dunque, mi ascolterai, – riprese Leto. – Se io dovessi morire, o scomparire nel deserto, tu, Stilgar, dovrai fuggire da Sietch Tabr. È un ordine. Dovrai prendere Ghani con te, e... – Tu non sei ancora il mio Duca! Sei un... un bambino! – Sono un adulto nella carne di questo bambino, – ribatté Leto. Indicò una stretta fenditura tra le rocce, sotto di loro. – Se dovessi morire qui, sarà in quel punto. Tu vedrai il sangue... e allora lo saprai. Prendi con te mia sorella, e... – Raddoppierò le tue guardie, – l'interruppe Stilgar. – Non ti lascerò mai più venire fra queste rocce. Ci allontaneremo subito da questo luogo, e tu... – Stil, non puoi trattenermi! Rievoca ancora nella tua mente quel giorno, alla catena di Habbanya. Ricordi? Il trattore era là fuori, sulla sabbia, e un grande Creatore stava arrivando. Fu impossibile salvare il trattore dal verme. E mio padre era assai corrucciato, per la perdita di quel trattore. Ma Gurney riuscì soltanto a pensare agli uomini che avevano perduto la vita, lì, sulla sabbia. Ricordi ciò che rinfacciò a Muad'Dib? «Tuo padre si sarebbe preoccupato molto di più per quegli uomini che non aveva potuto salvare!» Stil, io ti ordino di salvare la gente. È molto più importante delle cose, degli oggetti. E Ghani è la più preziosa di tutti poiché, senza di me, lei è l'unica speranza per gli Atreides!

– Non voglio più ascoltarti, – ringhiò Stilgar. Si voltò e cominciò a calarsi fra le rocce, dirigendosi verso l'oasi, laggiù, al confine delle sabbie. Sentì che Leto lo seguiva. Poco dopo, Leto lo superò e, voltandosi a guardarlo, gli disse: – Hai notato, Stil, quanto sono belle le ragazze, quest'anno?

La vita di un singolo essere umano, così come la vita di una famiglia o di un intero popolo, persiste come ricordo. Il mio popolo deve giungere a considerare questo come parte integrante del suo processo di maturazione. Un popolo dev'essere considerato come un vero e proprio organismo, e in questo persistere dei ricordi, appunto, viene immagazzinata una quantità sempre maggiore di esperienze, come in un grande serbatoio subliminale. L'umanità spera di potersi servire di questo materiale, se esso si rivelasse necessario per affrontare un universo in perenne mutamento. Ma molto di ciò che viene immagazzinato può essere perduto in quel fortuito gioco di eventi che noi chiamiamo «fato». E molto potrebbe non venir integrato in questa sostanziale evoluzione, e di conseguenza non esser valutato nella sua effettiva importanza e attivato dai mutamenti ambientali in continuo divenire che affliggono la carne. Anche una specie vivente può dimenticare! Ma c'è una speciale qualità dello Kwisatz Haderach che il Bene Gesserit non ha mai sospettato: lo Kwisatz Haderach non può dimenticare! – Il libro di Leto secondo Harq al-Ada

Stilgar non riusciva a spiegarsi il perché, ma quell'osservazione priva d'importanza di Leto aveva provocato in lui una profonda inquietudine. Continuò a riecheggiargli nella mente per tutta la strada, fino a Sietch Tabr, sovrastando ogni altra cosa che Leto aveva detto, là fuori sull'Attendente. In verità, quell'anno le giovani donne di Arrakis erano molto belle. E anche i giovani. I loro volti sereni sprizzavano acqua da ogni poro. I loro occhi guardavano verso l'esterno, lontano. Spesso esponevano i propri lineamenti, senza nasconderli dietro le maschere delle tute e dei tubi. Anzi, spesso neppure indossavano le tute, quand'erano all'aperto, preferendo i nuovi indumenti che, quand'essi si muovevano, delineavano fuggevolmente gli agili corpi sottostanti. Questa umana bellezza veniva paragonata alla nuova bellezza del paesaggio. In contrasto col vecchio Arrakis, l'occhio restava incantato da questo o quel ciuffo di ramoscelli verdeggianti che spuntavano tra le rocce rosso-bruno. E le vecchie tane dei sietch, con la loro cultura sviluppatasi nelle caverne-città, complete di complicati sigilli e trappole per l'umidità ad ogni imboccatura, cedevano il passo ai villaggi all'aperto, spesso edificati con mattoni di fango. Mattoni di fango! Perché mai volevo che quel villaggio fosse distrutto? E incespicò, mentre avanzava. Egli sapeva di appartenere a una razza in via di estinzione. I vecchi Fremen contemplavano a bocca spalancata la meravigliosa prodigalità del

loro pianeta... acqua che veniva sprecata nell'aria soltanto perché con essa era possibile modellare mattoni e costruire case! L'acqua ora usata per il sostentamento di una sola famiglia avrebbe mantenuto in vita un intero sietch per un anno. I nuovi edifici avevano perfino finestre trasparenti che lasciavano passare il calore del sole e disseccavano i corpi all'interno. E queste finestre si aprivano verso l'esterno. I nuovi Fremen nelle loro case di fango potevano guardar fuori, il panorama. Non erano più rinchiusi e ammassati in un sietch. Là, fin dove arrivava la nuova vista, arrivava anche l'immaginazione. Stilgar lo sentiva in modo quasi palpabile. Questa nuova vista univa i Fremen al restante Universo Imperiale, li condizionava allo spazio senza confini. Un tempo essi erano stati indissolubilmente legati ad Arrakis, alla sua povertà d'acqua, schiavi delle sue dure necessità. Essi non avevano condiviso l'apertura mentale che condizionava gli abitanti della maggior parte dei pianeti dell'Impero. Stilgar vedeva chiaramente tutti questi cambiamenti, cogliendo il loro doloroso impatto con i suoi dubbi e le sue paure. Ai vecchi tempi, era assai raro che un Fremen prendesse anche soltanto in considerazione la possibilità di lasciare Arrakis per iniziare una nuova vita su uno dei mondi ricchi d'acqua. Non era neppure consentito il sogno della fuga. Fissò il ritmico movimento della schiena di Leto, davanti a lui. Leto aveva parlato di drastiche proibizioni ad ogni movimento migratorio fuori del pianeta. Be'... quella era sempre stata una realtà anche per la maggior parte degli abitanti degli altri mondi, perfino là, dove il sogno era consentito come valvola di sicurezza. E la schiavitù planetaria aveva raggiunto il suo apice lì su Arrakis. I Fremen si erano rivolti verso l'interno di se stessi, barricandosi nella loro mente come si erano barricati nelle loro tane, dentro le caverne. Lo stesso significato di «sietch» – un rifugio per i momenti di pericolo – era stato qui stravolto in quello di un mostruoso luogo di confino per un'intera popolazione. Leto aveva detto la verità: Muad'Dib aveva cambiato tutto questo. Stilgar si sentì perduto. Le sue vecchie credenze andavano in frantumi. La nuova visione centrifuga dell'esistenza dava agli esseri umani la frenesia di abbattere ogni confine. Come sono belle le ragazze quest'anno... Le antiche abitudini (le mie abitudini! confessò a se stesso) avevano costretto il suo popolo a ignorare tutta la storia dell'umanità, eccettuato

quella ripiegata all'interno, i loro travagli. I vecchi Fremen avevano letto soltanto la storia che parlava delle loro terribili migrazioni, delle loro fughe da una persecuzione all'altra. Il vecchio governo planetario aveva seguito la politica ufficiale del suo Impero: aveva soppresso la creatività, cancellando totalmente ogni progresso o evoluzione. La prosperità altrui aveva costituito il peggior pericolo per il vecchio Impero e per coloro che avevano in pugno il potere. Con un improvviso sbigottimento, Stilgar si rese conto che quelle identiche cose erano ugualmente pericolose per il nuovo corso che Alia stava consolidando. Stilgar tornò a incespicare e restò ancora più indietro rispetto a Leto. Nelle antiche religioni, nelle vecchie abitudini, non c'era stato alcun futuro, soltanto un interminabile adesso. Stilgar si accorse che, prima di Muad'Dib, i Fremen erano stati condizionati a credere nel fallimento, e mai nella possibilità di un successo. Sì... avevano creduto in Liet-Kynes, ma egli aveva previsto un arco temporale di quaranta generazioni. Quello non era un successo; era un sogno che, ora se ne accorse, si era ugualmente rivolto all'interno delle loro coscienze. Muad'Dib aveva cambiato tutto questo. Durante il Jihad, i Fremen avevano imparato molto sul vecchio imperatore Padiscià, Shaddam IV. L'ottantunesimo Padiscià della Casa di Corrino a sedere sul Trono del Leone d'Oro e a regnare su quell'impero d'innumerevoli mondi si era servito di Arrakis come di un terreno sperimentale per la politica che aveva sperato di applicare, poi, al resto del suo impero. I suoi governanti planetari avevano coltivato tra la gente di Arrakis un persistente pessimismo, per ampliare le basi del loro potere. Avevano fatto in modo che tutti, su Arrakis, persino i Fremen che erano liberi di andare dovunque, venissero a conoscenza dei numerosi casi d'ingiustizia e dei problemi insoluti; tutti gli abitanti di Arrakis erano stati abituati a pensare a se stessi come ad un popolo senza speranza, per il quale non vi sarebbe stato, mai, alcun soccorso. Come sono belle le ragazze quest'anno! Mentre fissava la schiena di Leto che rimpiccioliva in distanza davanti a lui, Stilgar cominciò a chiedersi come il ragazzo fosse riuscito a suscitare in lui tutti quei pensieri lasciando cadere quella che sembrava una semplice frase senza importanza. E proprio a causa di questa frase, Stilgar si trovò a considerare Alia e il suo ruolo nel Consiglio in un modo completamente diverso.

Ad Alia piaceva dire che le vecchie abitudini faticavano a perdere terreno. Stilgar confessò a se stesso di aver sempre considerato questa affermazione vagamente rassicurante. I cambiamenti erano pericolosi. Le novità dovevano esser soppresse. Le volontà individuali dovevano essere negate. Quale altra funzione aveva il clero, se non quella di cancellare la volontà del singolo? Alia continuava a sostenere che le possibilità di una libera concorrenza dovevano esser ridotte entro limiti ristretti, facilmente controllabili. Ma questo significava che la ricorrente minaccia della tecnologia poteva essere usata soltanto come pretesto per arginare le popolazioni... proprio com'era servita ai suoi antichi padroni. E l'unica tecnologia consentita doveva far parte integrante, ufficiale, dei rituali. Altrimenti... altrimenti... Ancora una volta Stilgar incespicò. Ma era giunto ormai al qanat e vide che Leto si era fermato ad aspettarlo sotto la piantagione di albicocchi che cresceva lungo i bordi dell'acqua. Stilgar sentì i suoi piedi farsi strada sull'erba non falciata. Erba non falciata! Che cosa mai posso ancora credere? si chiese Stilgar. Era giusto che un Fremen della sua generazione credesse ancora che gli individui abbisognassero di una profonda consapevolezza delle loro limitazioni. Le tradizioni erano indubbiamente la forma più efficace di controllo per una società stabile. La gente doveva conoscere i confini del proprio tempo, della propria società, del proprio territorio. Che cosa poteva esserci di sbagliato nel sietch, come modello di pensiero? Il senso del limite, di una recinzione invalicabile, avrebbe dovuto pervadere ogni scelta individuale, e altresì quelle della famiglia, della società, e ogni passo intrapreso correttamente da un governo. Stilgar si fermò e fissò Leto, nel frutteto. Il ragazzo era lì, che lo aspettava, e lo fissava sorridendo. Certamente sa quant'è in subbuglio la mia mente! pensò Stilgar. E il vecchio Naib dei Fremen cercò rifugio nel tradizionale catechismo del suo popolo. Ogni aspetto della vita richiedeva un unico modello, la sua intrinseca circolarità si basava sulla segreta, interiore conoscenza di ciò che avrebbe funzionato e di ciò che avrebbe avuto insuccesso. Il modello per una singola vita, per la comunità, per ogni elemento costitutivo di una società più grande, fino al vertice del governo, e oltre... quel modello, dunque, doveva essere il sietch, e il suo corrispettivo nella sabbia: Shaihulud. Il gigantesco verme era senz'altro una creatura formidabile, ma

anch'egli, quand'era minacciato, si nascondeva nelle profondità impenetrabili del deserto. I cambiamenti sono pericolosi! ripeté fra sé, ostinato, Stilgar. La stabilità e l'uniformità erano i giusti obiettivi di un governo. Ma i giovani e le ragazze erano belli. E ricordavano le parole di Muad'Dib, quando aveva deposto Shaddam IV: «Non è la lunga vita dell'Imperatore che io cerco. È la lunga vita dell'Impero.» Ma non è quello che ho sempre sostenuto anch'io? si chiese Stilgar. Riprese a camminare, diretto all'ingresso del sietch, leggermente sulla destra di Leto. Il ragazzo si mosse per tagliargli la strada. Muad'Dib aveva detto anche un'altra cosa, ricordò Stilgar: «Come gli individui nascono, maturano, procreano e muoiono, così fanno anche le società, le civiltà e i governi.» Pericoloso o no che fosse, il mutamento sarebbe comunque venuto. I bei giovani e le ragazze fremen lo sapevano. Essi potevano guardare fuori di sé e vederlo, e prepararsi ad accoglierlo. Stilgar fu costretto a fermarsi, altrimenti avrebbe dovuto passare sul corpo di Leto. Il ragazzo lo scrutò dal basso, come un gufo, e gli disse: – Vedi, Stil? La tradizione non è quella guida assoluta che tu pensavi.

Un Fremen muore quand'è rimasto troppo a lungo lontano dal deserto. Noi la chiamiamo «la malattia dell'acqua.» – Stilgar, I commentari

– Mi è difficile chiederti di far questo, – disse Alia. – Ma... devo garantirmi che i figli di Paul abbiano un Impero da ereditare. Questa è l'unica ragion d'essere di una Reggenza. Era seduta davanti a uno specchio, intenta a completare la toilette del mattino. Si voltò, e fissò il marito, attenta al modo in cui reagiva alle sue parole. In quei momenti, Duncan Idaho meritava d'essere studiato con la massima attenzione. Non c'era dubbio: era diventato qualcosa di molto più elusivo e pericoloso di colui che un tempo era stato il maestro d'armi della Casa degli Atreides. L'aspetto esteriore era rimasto lo stesso – capelli neri, crespi, sopra un volto scuro e intelligente – ma da quando si era risvegliato dalla sua condizione di ghola aveva subìto una profonda metamorfosi interiore. Ora Alia tornò a chiedersi, come tante altre volte, che cosa mai quella rinascita-dopo-la-morte avesse celato nella segreta solitudine che era in lui. Prima che i Tleilaxu avessero applicato la propria scienza elusiva su di lui, le reazioni di Duncan erano state quelle tipiche della gente degli Atreides: lealtà, fanatica dedizione al codice morale dei suoi antenati, pronto all'ira ed altrettanto pronto a placarsi. Era stato implacabile nel suo odio verso la Casa degli Harkonnen. Ed era morto salvando Paul. Ma i Tleilaxu avevano acquistato il suo corpo dai Sardaukar e, nelle loro vasche rigeneranti, essi ne avevano ricavato uno zombie-katrundo: la carne di Duncan Idaho, ma nessuno dei suoi ricordi coscienti. Era stato addestrato come mentat e inviato come dono, un computer umano per Paul, un ingegnoso strumento munito di un impulso ipnotico a uccidere il suo padrone. Ma la carne di Duncan Idaho aveva resistito all'impulso e, in quello sforzo tremendo, il suo passato cellulare era ritornato a lui. Alia aveva deciso già da molto tempo che era pericoloso pensare a lui, nell'intimo, come a Duncan. Meglio chiamarlo col suo nome di ghola: Hayt. Era assai meglio. Ed altrettanto essenziale era che egli non intravvedesse, mai, il vecchio barone Harkonnen, comodamente assiso dentro la sua mente. Duncan si avvide che Alia lo stava studiando, e le voltò la schiena. L'amore non poteva nascondere i cambiamenti che erano sopraggiunti in lei, né celargli l'evidenza dei suoi moventi. Gli occhi metallici dalle numerose sfaccettature che i Tleilaxu gli avevano innestato erano crudeli,

con quella loro capacità di penetrare gli inganni. Ora, gli mostravano con spietata chiarezza Alia come una figura impregnata di gioia maligna, quasi mascolina, ed egli non sopportava di vederla così. – Perché ti sei voltato? – ella gli chiese. – Devo riflettere su questa faccenda, – rispose lui. – Lady Jessica è... una Atreides. – E la tua lealtà va tutta alla Casa degli Atreides, non a me, – ella gli rinfacciò. – Oh, non infliggermi queste tue frivole interpretazioni, – egli replicò. Alia strinse le labbra. Era forse stata troppo precipitosa? Duncan raggiunse la veranda che si apriva su un angolo della piazza del Tempio. Vide i pellegrini che cominciavano a radunarsi laggiù, i mercanti di Arrakeen che muovevano all'assalto per strappare il loro sostentamento da quella folla, come un'orda di predatori all'assalto di una mandria di erbivori. Duncan concentrò la sua attenzione su un particolare gruppo di mercanti, le ceste di fibra di spezia infilate al braccio, e alcuni mercenari Fremen un passo dietro di loro. Si aprivano la strada tra la folla spazzando via, imperturbabili, ogni ostacolo. – Vendono pezzi di marmo incisi, – disse Duncan, indicandoli. – Non lo sapevi? Spargono i pezzi di marmo nel deserto, per farli incidere dalle tempeste di sabbia. Alcuni di quei frammenti assumono forme assai strane. Essi la proclamano una nuova forma d'arte, ed è assai popolare: autentico marmo di Dune inciso dalla tempesta. Ne ho comperato un esemplare la scorsa settimana: un albero dorato con cinque rami, bellissimo ma molto fragile. – Non cambiare argomento, – gl'intimo Alia. – Non ho cambiato argomento, – replicò lui. – È bellissimo, ma non è arte. Gli esseri umani creano l'arte con la propria violenza, con un preciso atto di volontà. – Appoggiò la mano destra sul davanzale. – I gemelli detestano questa città, e temo proprio di capirne il perché. – Non riesco a vedere quale rapporto ci sia, – disse Alia. – Il rapimento di mia madre non è un vero rapimento. Sarà perfettamente al sicuro, come tua prigioniera. – Questa città è stata edificata dai ciechi, – continuò Duncan Idaho. – Sapevi che Leto e Stilgar sono usciti da Sietch Tabr, la settimana scorsa, per addentrarsi nel deserto? Sono rimasti fuori per tutta la notte. – Sì, mi è stato riferito. – Alia si voltò a guardarlo. – Questi oggetti corrosi dalla sabbia... vuoi che ne proibisca la vendita?

– Rovinando così un florido commercio? – chiese lui, ricambiandole lo sguardo. – Sai che cosa mi ha detto Stilgar, quando gli ho chiesto perché mai si fossero addentrati così, nella sabbia? Mi ha detto che Leto desiderava mettersi in contatto con lo spirito di Muad'Dib. Alia fu colta all'improvviso da un gelido terrore, e fissò un attimo lo specchio per riprendersi. Leto non si sarebbe avventurato fuori dal sietch di notte per una simile sciocchezza. Era forse una congiura? Idaho si coprì gli occhi con una mano, per cancellare la vista di lei, e aggiunse: – Stilgar mi ha detto di essere andato con Leto perché egli crede ancora in Muad'Dib. – Certo che ci crede! Idaho ridacchiò, un suono vuoto, spento. – Mi ha detto che ci crede ancora perché Muad'Dib è stato in favore della gente più umile, degli infimi. – E tu, che cosa hai risposto? – chiese Alia, con una voce che tradiva la paura. Idaho si tolse la mano dagli occhi: – Gli ho risposto: «Questo, allora, fa di te uno degli infimi.» – Duncan! È un gioco pericoloso. Stuzzica quel Naib dei Fremen, e finirai per risvegliare una bestia che ci distruggerà tutti. – Lui crede ancora in Muad'Dib, – replicò Idaho. – È la nostra miglior difesa. – E lui, che cosa ti ha detto, allora? – Ha detto che aveva una sua opinione in proposito. – Capisco. – No... non credo che tu capisca. Le creature che mordono hanno i denti molto più lunghi di quelli di Stilgar. – Oggi non ti capisco, Duncan. Ti ho chiesto di fare una cosa estremamente importante, vitale... Perché tutte queste divagazioni? Com'era petulante... Duncan tornò a guardar fuori. – Quando sono stato addestrato per essere un mentat... È molto difficile, Alia, imparare a far funzionare la propria mente. Per prima cosa, s'impara che la nostra mente funziona da sola. È strano. Puoi migliorare il funzionamento dei tuoi muscoli, esercitandoli, irrobustendoli, ma la mente funziona da sola. E, a volte, quando ti sembra di aver appreso tutto sulla mente, essa ti fa vedere cose che tu non vorresti. – Ed è per questo che hai cercato d'insultare Stilgar? – Stilgar non conosce la sua mente; non la lascia libera di funzionare.

– Fuorché durante l'orgia della spezia. – Neppure durante l'orgia. Ed è questo che fa di lui un Naib. Per essere veramente un capo, lui deve controllare e limitare le sue reazioni. Fa ciò che ci si aspetta da lui. Quando tu hai capito questo, allora conosci perfettamente Stilgar e puoi misurare la lunghezza dei suoi denti. – Questo è tipico dei Fremen, – commentò Alia. – E allora, Duncan, lo farai? Jessica dev'essere rapita, e ciò dev'essere fatto in modo da riversare ogni colpa sulla Casa di Corrino. Duncan restò in silenzio, soppesando il tono della sua voce e le sue ragioni, alla maniera dei mentat. Quel piano, quel rapimento, rivelava una freddezza e una crudeltà le cui dimensioni, così messe a nudo, lo sconvolgevano. Le ragioni addotte da Alia per rischiare la vita di sua madre... Alia mentiva. Forse, quanto si andava mormorando su Alia e Javid era vero? Quel pensiero gli strinse lo stomaco in una morsa gelida. – Tu sei l'unico di cui possa fidarmi, – disse Alia. – Lo so, – rispose lui. Alia interpretò questa risposta come un assenso, e sorrise a se stessa, nello specchio. – Sai, – riprese Idaho. – Un mentat impara a considerare ogni essere umano come un insieme di relazioni. Alia non rispose. Sembrò afflosciarsi sulla sedia, colta da un ricordo personale che le fece apparire un'espressione vacua sul volto. Idaho, gettando uno sguardo dietro di sé, vide quell'espressione e rabbrividì. Era come se Alia fosse in comunione con voci che lei sola poteva udire. – Relazioni, – ripèté lui, in un bisbiglio. E pensò: Bisogna scuotersi di dosso le antiche angosce come un serpente si scuote di dosso la vecchia pelle... per poi farsene una nuova ed accettare tutte le sue limitazioni. Ed è lo stesso con i governi, e perfino con la Reggenza. I vecchi governi finiscono come le pelli scartate. Mi farò parte attiva di questo piano, ma non nel modo in cui Alia comanda. Qualche istante dopo Alia scrollò le spalle e disse: – Leto non dovrebbe uscire nel deserto, di questi tempi. Lo sgriderò. – Non può uscire neppure insieme a Stilgar? – Neppure con lui. Alia si alzò, allontanandosi dallo specchio, raggiunse Idaho accanto alla finestra e gli appoggiò una mano sul braccio. Egli represse un brivido, ma ridusse la sua reazione a una computerizzazione mentat. Qualcosa in Alia lo disgustava.

Qualcosa in Alia. Non riuscì a trovare la forza di guardarla. Anche l'odore del melange che esalava dai suoi cosmetici lo irritò. Si schiarì la gola. Alia disse: – Oggi sarò occupata ad esaminare i doni di Farad'n. – Quegli abiti fastosi? – Sì. Niente che ci giunga da lui è ciò che sembra. E dobbiamo sempre tener presente quel suo Bashar, Tyekanik. È un esperto nell'assassinio regale... chaumurky, chaumas, e ogni altra astuzia. – Il prezzo del potere, – commentò lui, scostandosi da lei. – Ma noi siamo liberi di muoverci, e Farad'n non lo è. Ella studiò il suo profilo, così profondamente inciso. A volte era difficile sondare il funzionamento della sua mente. Era davvero convinto che bastasse la libertà d'azione per garantire una superiorità schiacciante alle forze militari? Be'... la vita su Arrakis era stata sicura per troppo tempo. I sensi, un tempo aguzzati dai pericoli sempre incombenti, potevano degenerarsi se non venivano usati. – Sì, – ella annuì. – Abbiamo pur sempre i Fremen. – La mobilità prima di tutto, – insisté lui. – Non dobbiamo impantanarci come la fanteria. Sarebbe sciocco. Il suo tono la infastidì. Replicò: – Farad'n userà qualunque mezzo per distruggerci. – Sì. – Duncan annuì. – Una capacità d'iniziativa, una spregiudicatezza che noi, ai vecchi tempi, non avevamo. Avevamo invece un codice d'onore, il codice della Casa degli Atreides. Siamo sempre bastati a noi stessi, lasciando iniquità e soperchierie ai nostri nemici. Oggi, non abbiamo più questa limitazione, naturalmente. Abbiamo la stessa mobilità, la Casa degli Atreides come la Casa di Corrino. – Rapiremo mia madre per metterla al sicuro da ogni pericolo, oltre che per le altre ragioni, – disse Alia. – Noi viviamo ancora secondo il codice! Egli la fissò con disprezzo. Eppure, Alia conosceva i rischi che correva, spingendo un mentat a computerizzare. Non si rendeva conto di ciò che lui aveva estrapolato? E lui... l'amava ancora! Si passò una mano sugli occhi. Quanto sembrava giovane, Alia! Lady Jessica aveva ragione: Alia dava l'impressione di non essere invecchiata di un giorno, in tutti quegli anni che avevano passato insieme. Possedeva ancora i morbidi lineamenti di sua madre, la Bene Gesserit, ma i suoi occhi erano quelli degli Atreides: indagatori, esigenti, simili agli occhi di un falco. E ora, qualcosa di crudele, di calcolatore, si nascondeva dietro quegli occhi.

Idaho aveva servito la Casa degli Atreides per troppi anni, per non capire qual era la forza, e quali le debolezze della famiglia. Ma questa cosa in Alia... questa cosa era nuova. Gli Atreides potevano anche condurre un gioco tortuoso contro i nemici, ma mai contro gli amici e gli alleati, e meno ancora contro la stessa Famiglia! Era innato nel comportamento degli Atreides sostenere il popolo al limite delle proprie capacità, mostrargli quanto vivesse meglio sotto gli Atreides. Dimostrare il proprio amore per gli amici con la sincerità dell'atteggiamento verso di loro. Tuttavia, ciò che ora Alia gli chiedeva non era da Atreides. Egli lo sentiva con tutta la sua carne e la struttura nervosa del suo corpo. Egli era un'unità indivisibile, e percepiva con tutto il suo essere questo atteggiamento «diverso» di Alia. Improvvisamente, la sua sensibilità mentat uscì nella piena consapevolezza e la sua mente sprofondò nella trance congelata, dove il tempo non esisteva; esistevano soltanto i calcoli e le estrapolazioni. Alia si sarebbe accorta di questo, ma egli non poteva farci nulla. Cedette il passo alla computerizzazione. Computerizzazione: un riflesso di Lady Jessica viveva una pseudoesistenza nella coscienza di Alia. Egli lo vide, e percepì anche il riflesso del Duncan Idaho pre-ghola, un punto fisso nella sua consapevolezza. Alia disponeva di questa consapevolezza poiché era un pre-nato. Egli invece l'aveva acquisita nelle vasche rigeneranti dei Tleilaxu. Eppure Alia sembrava ignorare quel riflesso, poiché intendeva rischiare la vita di sua madre. Quindi, Alia non era in contatto con la pseudo-Jessica dentro di lei. Perciò Alia era posseduta da un'altra pseudo-vita che escludeva tutte le altre. Posseduta! Aliena! Abominazione! Accettò tutto questo al modo dei mentat, e rivolse la sua attenzione ad altri aspetti del problema. Tutti gli Atreides si trovavano riuniti su quel pianeta. La Casa di Corrino avrebbe tentato un attacco dallo spazio? La sua mente passò rapidamente in rassegna l'intera lista dei motivi che avevano messo al bando le forme primitive di guerra. Uno: Tutti i pianeti erano vulnerabili agli attacchi dallo spazio. Per cui, ogni Casa Maggiore aveva piazzato intorno ai suoi pianeti tutti i più disparati dispositivi che le garantivano la possibilità d'immediate rappresaglie. Fafad'n doveva ben sapere che gli Atreides non avrebbero

omesso questa elementare precauzione. Due: Gli scudi di forza costituivano una difesa totale contro i proiettili e gli esplosivi di tipo non-atomico. Era questa la principale ragione per cui il combattimento all'arma bianca era stato riesumato nei conflitti umani. Ma la fanteria regolare aveva i suoi limiti. Anche se la Casa di Corrino avesse portato i propri Sardaukar a un livello di addestramento pre-Arrakeen, essi non sarebbero stati assolutamente in grado di far fronte alla ferocia scatenata dei Fremen. Tre: Il feudalesimo planetario era costantemente minacciato dalla classe sempre più numerosa dei tecnici, ma gli effetti dei Jihad Butleriano continuavano a mantenere un rigido controllo sui progressi della tecnologia. Ixiani, Tleilaxu, e gli abitanti di pochi altri pianeti sparsi qua e là erano l'unica minaccia possibile, a questo riguardo, ma si trattava, comunque, di mondi assai vulnerabili, se la collera dell'Impero fosse esplosa contro di loro. Il Jihad Butleriano non sarebbe stato vanificato. Una guerra tecnologica avrebbe chiesto l'impiego di una classe di specialisti assai consistente, ma l'Impero degli Atreides aveva canalizzato tutte queste energie verso scopi completamente diversi. Tutte le più diverse categorie di tecnici erano strettamente sorvegliate. E l'Impero continuava a vivere al sicuro, nel suo perenne feudalesimo, poiché questa era la miglior forma di società, per potersi continuamente espandere lungo frontiere selvagge sempre più lontane... su nuovi pianeti. Duncan sentì la sua consapevolezza mentat arroventarsi quando prelevò dalla memoria dati del suo precedente passato, eternamente vividi anche dopo un numero imprecisato di anni. E quasi subito giunse alla convinzione che la Casa di Corrino non avrebbe mai rischiato un attacco atomico illegale: la valutazione, l'identificazione della maggior probabilità, furono fulminee, ma egli fu perfettamente consapevole degli elementi che entravano in gioco: l'Impero controllava tante armi nucleari, o equivalenti, quante ne controllavano tutte le Grandi Case messe insieme. Una buona metà delle Grandi Case avrebbe reagito senza pensarci due volte, se la Casa di Corrino avesse rotto la Convenzione. E in che modo? Al dispositivo degli Atreides, fuori del pianeta, per l'immediata e violentissima rappresaglia, si sarebbe unita una forza d'urto straripante. Non ci sarebbe stato bisogno di convocare le Grandi Case. Sarebbe stata la paura a chiamarle. Salusa Secundus e i suoi alleati sarebbero svaniti in una nuvola incandescente. Ma la Casa di Corrino non avrebbe mai rischiato un simile olocausto. Essi erano indubbiamente sinceri quando dichiaravano di

essere perfettamente d'accordo sull'unica ragion d'essere delle armi nucleari: la difesa dell'umanità nel caso in cui avesse finito per scontrarsi con un'«altra intelligenza» minacciosa. Questi pensieri computerizzati avevano bordi netti, affilati, nessun chiaroscuro. Alia aveva scelto il rapimento e il terrore perché era diventata aliena, non-Atreides. Sì, la Casa di Corrino era una minaccia, ma non per le ragioni sostenute da Alia nel Consiglio. Alia voleva che Lady Jessica fosse eliminata perché sua madre, con la sua vivida intelligenza Bene Gesserit, aveva visto da tempo ciò che a lui soltanto adesso era diventato chiaro. Idaho si riscosse dalla sua trance mentat, vide Alia in piedi davanti a lui, con una fredda espressione calcolatrice sul viso. – Tu vuoi che Lady Jessica sia uccisa! – l'accusò. Un lampo di gioia disumana comparve per un attimo nei suoi occhi, prima di esser cancellato da un finto oltraggio. – Duncan! Sì, questa Alia-aliena voleva il matricidio. – Tu hai paura di tua madre, non per tua madre, – insisté Duncan. Ella replicò, senza alterare il suo sguardo calcolatore: – Certo che ho paura di lei! Lady Jessica ha presentato un rapporto su di me alla Sorellanza. – Che cosa intendi dire? – Non sai qual è la più grande tentazione per una Bene Gesserit? – Alia gli si fece più vicina, insinuante, seducente, e lo fissò attraverso le palpebre semichiuse. – Ho voluto restare vigile e forte soltanto per il bene dei gemelli. – Mi hai parlato di una tentazione, – egli disse, con la voce priva d'emozione del mentat. – Sì. È qualcosa che la Sorellanza nasconde molto profondamente, ciò che temono di più.. Per questo chiamano me Abominazione... Sanno che su di me le loro inibizioni non hanno effetto. Una tentazione... esse ne parlano sempre con grande enfasi: la Grande Tentazione. Capisci? Noi, che siamo in grado di applicare gli insegnamenti del Bene Gesserit, possiamo influenzare l'equilibrio enzimatico all'interno del nostro corpo, prolungando la giovinezza molto più a lungo di quanto faccia il melange. Quali sarebbero le conseguenze se molte Bene Gesserit lo facessero? La gente lo noterebbe. Sono certa che tu, ora, stai valutando la fondatezza di quanto ti sto dicendo. Dunque: il melange si trova al centro d'innumerevoli complotti, noi lo sappiamo fin troppo bene, poiché ne abbiamo il controllo.

Che cosa accadrebbe se si venisse a sapere che il Bene Gesserit controlla un segreto ancora più potente? Hai capito? Neppure una Reverenda Madre si troverebbe più al sicuro! Il rapimento e la tortura delle Bene Gesserit diventerebbero una delle attività più diffuse. – Hai dunque alterato l'equilibrio enzimatico del tuo corpo. – Era un'affermazione, non una domanda. – Io ho sfidato la Sorellanza! Ciò che mia madre ha riferito di me alla Sorellanza farà sì che le Bene Gesserit diventino alleate incrollabili della Casa di Corrino. Com'è tutto così plausibile, pensò Duncan. Volle sondarla ancora: – Ma non sarà proprio tua madre a mettersi contro di te! – Era una Bene Gesserit molto tempo prima che diventasse mia madre. Duncan, lei consentì che suo figlio, mio fratello, subisse la prova del gom jabbar! Fu lei a organizzare la cosa. E sapeva che suo figlio avrebbe potuto non sopravvivere! Le Bene Gesserit sono sempre state scarse di fede, ma ricche di pragmatismo. Lei agirà contro di me, se si convincerà che sia nell'interesse della Sorellanza! Duncan annuì. Com'era convincente! pensò, pieno di tristezza. – Noi dobbiamo mantenere l'iniziativa, – Alia insisté. – È la nostra arma più efficace. – C'è il problema di Gurney Halleck, – egli mormorò. – Dovrò uccidere il mio vecchio amico? – Gurney è lontano per qualche missione di spionaggio nel deserto, – ella replicò, ben sapendo che Idaho ne era già al corrente. – Non potrà quindi intralciare i nostri piani. – Molto strano, – fece Idaho. – Il Governatore di Caladan impegnato in una missione qui su Arrakis. – Perché no? – esclamò Alia. – È il suo amante... nei suoi sogni, se non nella realtà.» – Sì, naturalmente. – Duncan Idaho si chiese se lei non sentisse l'insincerità nella sua voce. – Quando la rapirai? – domandò Alia. – È meglio che tu non lo sappia. – Sì... capisco. Dove la porterai? – Dove non potranno trovarla. Fidati di me. Non la lascerò qui, a minacciarti. Una felicità incontenibile brillò negli occhi di Alia. – Ma dove...

– Se non te lo dirò, allora potrai rispondere, anche a una Veridica, in tutta sincerità, che non sai dove si trova. – Ah, molto abile, Duncan. Ora è convinta che ucciderò Lady Jessica, pensò Duncan. E prese congedo da lei: – Addio, mia amata. Lo disse con intenzione, ma ella non se ne accorse. Anzi, prima che lui uscisse, gli diede un bacio. Durante tutto il percorso attraverso il labirinto di corridoi del Tempio, simile a un sietch, Idaho si sfregò gli occhi... Gli occhi dei Tleilaxu non erano immuni dal pianto.

Hai amato Caladan E pianto il suo perduto signore... Il dolore rivela Che i nuovi amanti non possono cancellare Chi è per sempre un fantasma. – Ritornello del Lamento di Habbanya

Stilgar quadruplicò la sorveglianza intorno ai gemelli, al sietch, ben sapendo, però, che era inutile. Il maschio assomigliava fin troppo al suo omonimo, il nonno Leto Atreides. Tutti quelli che avevano conosciuto il Duca si affrettavano a farlo notare. Il giovane Leto, è vero, manteneva un atteggiamento calmo e prudente, ma niente garantiva che avrebbe dominato la sua latente impetuosità e la predisposizione a prendere decisioni azzardate. Ghanima era più simile a sua madre. Aveva i capelli rossi di Chani, gli occhi di Chani, e un suo modo calcolato di adattarsi alle situazioni difficili. Spesso dichiarava che avrebbe fatto soltanto ciò che si doveva fare, ma dovunque Leto fosse andato, lei l'avrebbe seguito. E Leto avrebbe condotto ambedue nel cuore stesso del pericolo. Stilgar neppure una volta pensò di esporre il suo problema ad Alia. Al contrario di Irulan, che si precipitava da Alia per qualunque cosa. Quando giunse a questa decisione, Stilgar si rese conto di aver accettato la possibilità che Leto avesse giudicato Alia esattamente. Alia si serve della gente in modo sprezzante e senza cuore, pensò Stilgar. Usa perfino Duncan allo stesso modo. Ed io... Alia non si rivolterebbe mai contro di me, per uccidermi. Mi lascerebbe cadere così, come uno straccio. Le guardie erano state rinforzate, e Stilgar si aggirava nel sietch come uno spettro ammantato, ficcando il naso dovunque. E per tutto il tempo la sua mente ribolliva dei dubbi che Leto vi aveva seminato. Se la tradizione non forniva più un appiglio sicuro, a quale roccia si doveva ancorare la propria vita? Nel pomeriggio della solenne Cerimonia del Benvenuto a Lady Jessica, Stilgar spiò Ghanima, in piedi accanto a sua nonna sullo spuntone di roccia che dava accesso alla grande caverna per le assemblee del sietch. Era ancora presto e Alia non era ancora arrivata, ma già la gente si stava ammassando nella cavità, rivolgendo furtive occhiate alla bambina e alla festeggiata. Stilgar sostò in una nicchia, nell'ombra, al riparo dal flusso della folla, e

osservò a lungo la coppia, ma non poté udire le loro parole, soffocate dal fitto brusio della moltitudine. Oggi la gente di molte tribù si sarebbe incontrata lì, per dare il benvenuto alla loro vecchia Reverenda Madre. Ma egli fissava Ghanima. I suoi occhi, il modo in cui guizzavano mentre parlava! Ne fu affascinato. Quegli occhi azzurro-cupo, calmi, attenti, indagatori. E il modo in cui scostava i capelli rosso oro dalla spalla, piegando il capo: era Chani. Era Chani risorta, una somiglianza sovrannaturale! Stilgar uscì dall'ombra, si avvicinò lentamente, si arrestò al riparo di un'altra sporgenza rocciosa. Nessun altro bambino, nel suo ricordo, aveva mai avuto un atteggiamento così vigile e attento... fuorché suo fratello. Dov'era, Leto? Stilgar si guardò alle spalle, lungo il corridoio affollato. Le sue guardie avrebbero dato l'allarme, se vi fosse stato qualcosa di pericoloso. Stilgar scosse la testa. Quei gemelli stavano distruggendo il suo equilibrio mentale, corrodevano la sua pace interiore. Quasi riusciva a odiarli. Certo, i consanguinei non erano affatto immuni dall'odio dei membri della loro stessa famiglia, ma il sangue (e la sua acqua, tanto preziosa) esigeva un controllo di sé che trascendeva qualunque altra preoccupazione. La sopravvivenza di quei gemelli era la sua più grande responsabilità. Una luminosità giallo-bruna filtrava attraverso la polvere dalla grande caverna delle assemblee, oltre Ghanima e Jessica. Sfiorò, quasi accarezzandole, le spalle della bambina e la nuova veste bianca che indossava, circondandole i capelli come un'aureola, quando Ghanima si voltò anch'essa a scrutare la folla che si accalcava davanti a lei lungo il corridoio. Perché Leto mi ha afflitto con i suoi dubbi? si chiese Stilgar. Non c'era dubbio che l'avesse fatto deliberatamente. Forse Leto voleva che condividessi con lui una piccola parte delle sue esperienze mentali. Stilgar sapeva che i gemelli erano «diversi», ma la sua mente raziocinante si rifiutava di accettare ciò che sapeva. In effetti, egli non aveva mai sperimentato l'utero materno come prigione per una coscienza appena risvegliatasi... una consapevolezza viva e attiva, a quanto si diceva, fin dal secondo mese di gestazione. Una volta Leto aveva detto che la sua memoria era come un «ologramma interiore, che continuava a espandersi nelle dimensioni e nei dettagli fin dal primo istante di quel traumatizzante risveglio, ma senza mai cambiare contorni.»

Per la prima volta, mentre fissava Ghanima e Lady Jessica, Stilgar cominciò a capire ciò che si doveva provare a vivere in un simile groviglio di ricordi intrecciati insieme, incapaci di trovare, nella propria mente, un angolo ermeticamente chiuso dove sperimentare il sollievo della solitudine. In una simile situazione, praticamente bisognava organizzarsi nella follia, compiendo una scelta fra una moltitudine di offerte, in cui le risposte cambiavano con la stessa velocità delle domande. Non poteva esistere nessuna tradizione fissa, stabile, e nessuna risposta assoluta a domande bifronti. Il non-funzionamento era l'unica cosa che funzionava. Stilgar riconobbe il vecchio motivo degli indovinelli Fremen: «Che cos'è che dà la vita e la morte?» Risposta: «La tempesta di Coriolis.» Perché mai Leto ha voluto che capissi questo? si chiese Stilgar. Grazie a qualche cauto sondaggio, Stilgar sapeva che i gemelli condividevano questa opinione sulla loro diversità: la consideravano una sventura. Per simili individui perfino la nascita è fonte d'angoscia, pensò. È indubbio che l'ignoranza di ciò che ci attende riduce il trauma di alcune esperienze, ma essi sapevano ancor prima di veder la luce che cosa significa «nascere». Che cosa si provava a vivere un'intera vita in cui si conosceva in anticipo ogni dolore, ogni guaio? Una continua lotta contro il dubbio. E certamente un sordo risentimento sarebbe stato il frutto di questa consapevolezza di essere diversi dagli altri. Sarebbe parso fin troppo piacevole infliggere agli altri anche soltanto un piccolo assaggio di questa diversità. «Perché proprio io?» sarebbe stata la prima domanda dell'individuo diverso. E io, che cosa mi sono chiesto? pensò Stilgar, con una smorfia. Perché proprio io? Ora che aveva visto i gemelli in quella nuova luce, comprese i rischi che correvano con i loro corpi immaturi. Ghanima glieli aveva descritti con poche, efficaci parole, un giorno, quando egli l'aveva rimproverata perché aveva scalato la parete a strapiombo a ovest di Sietch Tabr: «Perché dovrei temere la morte?... Sono già stata qui molte volte.» Come posso avere la presunzione d'insegnare qualcosa a questi bambini? si chiese Stilgar. Io, o qualcun altro... com'è possibile? Stranamente, i pensieri di Lady Jessica seguivano lo stesso corso, mentre parlava a sua nipote. Pensava a quanto dovesse risultare difficile per due menti mature essere ospitate, in quei corpi ancora acerbi. Quei corpi avrebbero dovuto imparare con fatica e difficoltà ciò che le menti già

sapevano fare per virtù innata... accordare reazioni e riflessi. Avrebbero potuto servirsi dell'antica pratica del prana-bindu, ma anche qui la mente si sarebbe precipitata in avanti mentre il corpo non avrebbe potuto seguirla. Gurney trovava un compito estremamente difficile eseguire i suoi ordini. – Stilgar ci sta spiando da quella sporgenza, dietro di noi, – osservò Ghanima. Jessica non si voltò. Ma fu sconcertata da ciò che percepì nella voce di Ghanima. Ghanima amava il vecchio Fremen come un padre. Anche quando parlava di lui con leggerezza o lo stuzzicava, in realtà manifestava il suo amore. Nel rendersi conto di questo, Jessica fu costretta a considerare il vecchio Naib sotto una luce diversa, e come in un lampo capì ciò che accomunava i gemelli e Stilgar. Jessica si rese conto che il nuovo Arrakis non piaceva affatto a Stilgar. Non più di quanto quel nuovo universo fosse giudicato accettabile dai suoi nipoti. Non richiesto, non desiderato, un detto del Bene Gesserit fiorì per un attimo nella mente di Jessica: Avere i primi, vaghi sospetti della propria mortalità, significa conoscere l'inizio del terrore; esser coscienti, oltre ogni dubbio, che si è mortali, significa aver conosciuto la fine del terrore. Sì, la morte non sarebbe stata un fardello difficile da sopportare, ma la vita era un bruciare a fuoco lento per Stilgar e i gemelli. Tutti e tre si erano trovati in un mondo che mal si adattava loro, e bramavano altre soluzioni che fosse possibile sperimentare senza l'incubo di minacce peggiori. Essi erano figli di Abramo, imparavano molto più dal falco che guatava il deserto, che non da qualunque testo scritto. Proprio quella mattina, Leto aveva sconcertato Jessica, mentre si trovavano sulla riva del qanat che scorreva sotto il sietch. Aveva detto: – L'acqua è una trappola per noi, nonna. Meglio sarebbe, per noi, essere rimasti polvere, poiché allora il vento ci porterebbe più in alto del più alto dirupo del Muro Scudo. Anche se era familiarizzata con una simile, tortuosa maturità, ciò che era uscito dalla bocca di Leto l'aveva colta di sorpresa; ma Jessica era riuscita ugualmente a rispondere: – Tuo padre avrebbe potuto dir questo. E Leto, gettando una manciata di sabbia in aria, per vederla cadere: – Sì, avrebbe potuto. Ma, in quei giorni, mio padre non considerò quanto rapidamente l'acqua faccia ricadere al suolo, donde è venuta, ogni cosa. Ora, immobile accanto a Ghanima nel sietch, Jessica rivisse il trauma di quelle parole. Si voltò, diede un'occhiata alla folla che continuava a

passare, lasciò vagare il suo sguardo fino alla figura appena delineata di Stilgar, nella rientranza fra le rocce. Stilgar non era un Fremen mansueto, addestrato soltanto a portare i ramoscelli al nido. Era ancora un falco. Se nella sua mente si raffigurava il rosso, non ai fiori pensava, ma al sangue. – Ti sei azzittita all'improvviso, – disse Ghanima. – C'è qualcosa che non va? Jessica scosse la testa: – Qualcosa che Leto ha detto questa mattina. Nient'altro. – Quando siete usciti fuori, nelle piantagioni? Che cosa ha detto? Jessica ripensò alla bizzarra espressione che si era disegnata sul volto di Leto, là fuori, estremamente saggia, adulta. L'identica espressione che si era disegnata sul viso di Ghanima, in quell'attimo. – Stava parlando di Gurney, del suo ritorno sotto la bandiera degli Atreides, quando abbandonò i contrabbandieri, – spiegò Jessica. – Allora stavate parlando di Stilgar, – disse Ghanima. Jessica non si chiese come l'avesse intuito. I gemelli sembravano capaci di riecheggiare a volontà l'uno i pensieri dell'altro. – Sì, infatti, – annuì Jessica. – A Stilgar non piaceva sentire Gurney che si rivolgeva a Paul chiamandolo «Mio Duca». Ma Gurney continuò a chiamarlo così, e tutti i Fremen finirono per imitarlo. – Capisco, – disse Ghanima. – E naturalmente Leto ti ha fatto osservare che lui non era ancora il Duca di Stilgar. – Appunto. – Naturalmente, tu sai quello che ti stava facendo, – proseguì Ghanima. – Non sono sicura di saperlo, – ammise Jessica, in preda a un'improvvisa inquietudine, poiché non le era affatto passato per la mente che Leto le stesse facendo qualcosa. – Stava cercando di rendere più vividi i tuoi ricordi di nostro padre, – spiegò Ghanima. – Leto brama conoscere il più possibile nostro padre, attraverso i ricordi di chiunque l'abbia conosciuto. – Ma... Leto non ha... – Oh, lui può sempre ascoltare le sue vite interiori... ma non è la stessa cosa. Tu gli hai parlato di lui, naturalmente. Di nostro padre, voglio dire. Gli hai parlato di lui come di tuo figlio. – Sì. – Ma subito Jessica tacque. Non le piaceva sapere che quei gemelli potevano manovrarla a loro piacimento, estraendo da lei i suoi ricordi per scrutarli da vicino, toccando e soppesando ogni sua emozione che avesse suscitato il loro interesse. Forse Ghanima lo stava facendo proprio adesso!

– Leto ha detto qualcosa per turbarti, – disse Ghanima. Jessica lottò per soffocare un improvviso accesso di rabbia: – Sì, l'ha fatto. – A te non piace che noi conosciamo nostro padre così come nostra madre l'ha conosciuto, e che noi conosciamo nostra madre così come nostro padre l'ha conosciuta! – esclamò Ghanima. – Non ti piace ciò che tutto questo implica... e quello che potremmo sapere di te. – Veramente, non ho mai pensato a questo prima d'oggi, – replicò Jessica, con voce gelida. – Ciò che più, di solito, può turbare una persona, è parlare di sesso, – proseguì Ghanima. – Tu sei condizionata, e trovi estremamente difficile pensare a noi come a qualcosa di diverso da due bambini. Ma non c'è niente che i nostri genitori abbiano fatto insieme, privatamente o in pubblico, che noi ignoriamo. Per un breve istante Jessica si sentì invadere dall'identica emozione che aveva provato là fuori, in riva al qanat. – Probabilmente, lui ti ha parlato di te, e del tuo Duca appassionato, della sua sensualità... – disse Ghanima. – A volte Leto avrebbe davvero bisogno di una robusta museruola! Non c'è dunque niente che questi gemelli non osino profanare? si chiese Jessica, sbigottita, in preda al più vivo disgusto. Come osavano parlare della sensualità del suo Leto? Era naturale che un uomo e una donna che si amavano condividessero il piacere dei propri corpi! Era una cosa privata, e meravigliosa, che non andava certo esibita in un'oziosa conversazione fra un adulto e un bambino... Un adulto e un bambino! All'improvviso Jessica si rese conto che non c'era niente di ozioso nel comportamento di Leto e Ghanima. Tacque, e allora Ghanima riprese: – Ti abbiamo traumatizzata. Mi scuso per entrambi. Conoscendo Leto, so che non gli è passato minimamente per la testa di scusarsi. A volte, quando è intento a una sua ricerca, si dimentica di quanto siamo diversi... Diversi da te, per esempio. Jessica pensò: Ed è per questo che vi comportate così, naturalmente. State insegnando... a me! E ancora: A chi altri state insegnando. Stilgar? Duncan? – Leto sta sforzandosi di vedere le cose nell'identico tuo modo, – proseguì Ghanima. – I ricordi non sono sufficienti. Ed è proprio quando ci si sforza di più che, nella maggior parte dei casi, il tentativo fallisce.

Jessica sospirò. Ghanima toccò il braccio di sua nonna: – Tuo figlio ha taciuto molte cose che, ora, devono essere dette. Le ha taciute anche a te. Perdonalo... l'ha fatto perché ti amava. Non lo sapevi? Jessica si voltò, per nascondere le lagrime che le brillavano negli occhi. – Conosceva le tue paure, – spiegò Ghanima. – Come conosceva le paure di Stilgar. Caro Stil. Nostro padre era il suo «Dottore delle Bestie», e Stil era la chiocciola nascosta nel suo guscio. – Intonò a bocca chiusa la canzone da cui aveva tratto questa allegoria. E bastò la musica appena accennata a scagliare come dardi le parole della canzone nella coscienza di Jessica: O Dottore delle Bestie, Per il guscio della chiocciola verde Con la pavida creatura nascosta Dentro di esso, in attesa della morte, Tu giungi come una divinità! Perfino le chiocciole sanno Che gli dèi distruggono, E le cure recano dolore, E il cielo è visto Attraverso una cortina di fiamme. O Dottore delle Bestie, Io sono l'uomo-chiocciola Che vede il tuo unico occhio Scrutare nel mio guscio... Perché, Muad'Dib? Perché?

Ghanima commentò: – Sfortunatamente nostro padre ha lasciato troppi uomini-chiocciola nel nostro universo.

L'ipotesi che gli esseri umani esistano nel quadro di un universo niente affatto statico, presa come base operativa, richiede che l'intelletto diventi uno strumento di equilibrio totalmente cosciente. Ma l'intelletto non può reagire in questo modo senza coinvolgere l'intero organismo. Un organismo così condizionato si riconosce facilmente per il suo comportamento ardente, trascinatore. Così avviene per una società, considerata come un singolo organismo. Ma, qui, noi incontriamo un'antica inerzia. Le società agiscono sotto l'impulso degli stimoli più tradizionali, chiedono, e quasi sempre ottengono, permanenza, staticità. Qualunque tentativo di porre una società a diretto confronto con l'universo non statico suscita i comportamenti tipici del rigetto, della paura, rabbia e disperazione. Quindi, come possiamo spiegare l'accettazione della prescienza? Semplice: il dispensatore di visioni prescienti, poiché parla di qualcosa che già esiste – e quindi è immutabile – nel futuro, può esser salutato con gioia dall'umanità anche se predice i più terribili eventi. – Il Libro di Leto secondo Harq al-Ada

– È come combattere al buio, – disse Alia. Prese a camminare su e giù, rabbiosamente, nella Sala del Consiglio, dalle alte tende argentee che ammorbidivano l'intera luce del sole mattutino, a oriente, fino ai divani raggruppati sotto grandi pannelli decorativi appesi alle pareti, all'estremità opposta della grande stanza. I suoi sandali calpestarono stuoie di fibra di spezia, parquet di legno, piastrelle di granito, e ancora le stuoie. Finalmente, si arrestò davanti a Irulan e a Idaho, i quali sedevano l'uno di fronte all'altra, su divani di pelliccia di balena grigia. Idaho si era rifiutato di far ritorno da Sietch Tabr, ma ella gli aveva inviato un ordine perentorio. Il rapimento di Jessica era ancora importantissimo, ma ancora più necessarie erano, per Alia, le percezioni mentat di Idaho. – Tutto questo fa chiaramente parte di uno stesso disegno, – proseguì Alia. – Puzza di complotto... un complotto che viene da molto lontano. – Forse no, – azzardò Irulan, ma lanciò un'occhiata interrogativa a Idaho. Un sorriso di scherno si disegnò sul volto di Alia, senza che lei si preoccupasse di nasconderlo. Come poteva Irulan essere così sciocca? A meno che... Alia lanciò un'occhiata indagatrice alla principessa. Irulan indossava un semplice aba che ben si accordava con i suoi occhi d'un cupo color indaco a causa della spezia. I suoi capelli biondi erano raccolti in una treccia bionda strettamente avvolta sulla nuca, accentuando il suo profilo

sottile, indurito dai lunghi anni vissuti su Arrakis. Irulan conservava ancora l'alterigia che aveva imparato alla corte di suo padre, Shaddam IV, e Alia spesso aveva sospettato che quell'atteggiamento orgoglioso potesse nascondere i pensieri di una cospiratrice. Idaho se ne stava comodamente seduto, perfettamente rilassato nella sua divisa nera e verde della Guardia della Casa degli Atreides, priva d'insegne, un'affettazione che causava il segreto risentimento di molte autentiche guardie di Alia, delle amazzoni, specialmente, che traevano gloria e prestigio dalle insegne del loro ufficio. Ma soprattutto ad esse non piaceva la presenza del mentat, già maestro di spada e ghola, e tanto più in quanto era lo sposo della loro padrona. – Sì, le tribù vogliono che Lady Jessica sia reintegrata nel Consiglio di Reggenza, – disse Idaho. – Ma come può questo... – L'hanno chiesto all'unanimità! – esclamò Alia, additando un foglio di carta di spezia, tutto spiegazzato, sul divano accanto a Irulan. – Farad'n è una cosa, ma questo è qualcosa di completamente diverso... puzza di accordi... di trame segrete! – Che cosa ne pensa Stilgar? – chiese Irulan. – La sua firma è qui, su questo foglio! – ribatté Alia. – Ma se lui... – Come potrebbe rinnegare la madre del suo dio? – chiese Alia, con un sorriso beffardo. Idaho alzò gli occhi a fissarla; e pensò: È terribilmente vicina a una rottura completa con Irulan! Ancora una volta si chiese perché mai Alia l'avesse fatto tornare, dal momento che sapeva quanto fosse necessaria la sua presenza a Sietch Tabr, se voleva che il suo piano per il rapimento fosse condotto a termine. Possibile che fosse stata informata del messaggio che il Predicatore gli aveva inviato? Questo pensiero gli causò una certa agitazione. Come poteva conoscere, quel sedicente mistico, il segnale segreto con cui Paul Atreides era solito chiamare a sé il suo maestro di spada? Idaho fremeva d'impazienza, desiderando che quell'inutile incontro finisse, per cercare subito una risposta a quella domanda. – Non c'è dubbio che il Predicatore ha compiuto un viaggio fuori da questo pianeta, – continuò Alia. – La Gilda non oserebbe ingannarci su questo punto. Lo farò... – Attenta! – l'interruppe Irulan. – Sì, devi stare molto attenta, – le fece eco Idaho. – Una buona metà del pianeta è convinta che egli sia... – scrollò le spalle, – ... tuo fratello. –

Sperò di essere riuscito a dirlo con voce perfettamente normale. Come poteva, quell'uomo, conoscere il segnale segreto? – Ma se fosse un messaggero, o una spia del... – Non ha preso contatto con nessuno della CHOAM o della Casa di Corrino, – obiettò Irulan. – Possiamo esser sicuri che... – Non possiamo esser sicuri di niente! – Alia non fece alcuno sforzo per dissimulare il proprio disprezzo. Girò la schiena a Irulan e fronteggiò Idaho. Egli sapeva perché era lì! Perché non si comportava come ci si aspettava da lui? Era nel Consiglio perché anche Irulan ne faceva parte. Nessuno avrebbe mai potuto dimenticare la concatenazione di eventi che aveva portato una principessa della Casa di Corrino nell'ovile degli Atreides, e un'alleanza, una volta cambiata, avrebbe potuto cambiare di nuovo. Idaho, con i suoi poteri di mentat, avrebbe dovuto spiare Irulan, per cogliere al suo primo apparire ogni incrinatura, ogni più piccola deviazione. Idaho si mosse, diede un'occhiata a Irulan; vi erano dei momenti in cui sentiva tutto l'insopportabile peso impostogli dalla sua funzione di mentat. Egli sapeva ciò che Alia stava pensando. E anche Irulan doveva saperlo. Ma quella principessa-moglie di Muad'Dib aveva superato il trauma delle decisioni impostele, che avevano fatto di lei qualcosa d'inferiore alla concubina reale, Chani. Non potevano esserci dubbi sulla devozione di Irulan per i gemelli reali. Irulan aveva rinunciato completamente alla famiglia e al Bene Gesserit per dedicarsi agli Atreides. – Mia madre è parte di questo complotto! – insisté Alia. – Per quale altra ragione la Sorellanza l'avrebbe nuovamente mandata quaggiù, in un momento come questo? – L'isterismo non ci sarà di aiuto, – commentò Idaho. Alia si girò di scatto, allontanandosi da lui, come egli aveva previsto. Ma ciò gli diede sollievo, poiché non dovette più guardare quel volto, un tempo amato, ora contorto da una possessione aliena. – Bene, – replicò Irulan. – Non ci si può fidare completamente della Gilda per... – La Gilda! – esclamò Alia, con un sorriso beffardo. – Non possiamo trascurare l'inimicizia della Gilda o del Bene Gesserit, – s'intromise Idaho. – Ma dobbiamo assegnar loro un ruolo speciale, in quanto combattenti essenzialmente passivi. La Gilda si atterrà sempre alla sua regola fondamentale: Non Governare. È un'escrescenza parassitaria, e sa di esserlo. Non farà nulla che possa uccidere l'organismo che la tiene in

vita. – La loro idea su quale sia, in realtà, l'organismo che li tiene in vita potrebbe essere diversa dalla nostra, – obiettò Irulan, in tono pigro e strascicato, quasi canzonatorio. – Hai dimenticato una cosa, mentat. Alia la fissò perplessa. Non si era aspettata questa reazione da parte di Irulan. Questo non era un aspetto della questione sul quale un cospiratore avrebbe richiamato l'attenzione altrui. – Può darsi, – replicò Idaho. – Ma la Gilda non si metterebbe mai apertamente contro la casa degli Atreides. La Sorellanza, invece, potrebbe rischiare un certo tipo di frattura che... – Se lo farà, sarà certamente attraverso una copertura: qualche individuo, o un gruppo, che potranno poi sconfessare, – disse Irulan. – Le Bene Gesserit non sono riuscite a sopravvivere per tutti questi anni senza imparare quanto valga, al momento giusto, la rinuncia ad ogni diritto. Esse preferiscono trovarsi dietro al trono, non sopra di esso. Rinuncia a ogni diritto? si chiese Alia. Non era stata, quella, la scelta di Irulan? – È proprio questo che intendevo dire, a proposito della Gilda, – interloquì Idaho. Per lui, le discussioni e le spiegazioni erano assai utili. Tenevano la sua mente lontana da altri problemi. Alia si avvicinò nuovamente a grandi passi alle finestre illuminate dal sole. Ella conosceva il «punto cieco», il difetto di Idaho. Tutti i mentat l'avevano. Essi dovevano fare dichiarazioni. E a causa di questo dipendevano dagli assoluti, dovevano avvolgere ogni cosa in limiti ben precisi, finiti. Essi ne erano ben consci. Faceva parte del loro addestramento. Eppure, tendevano sempre a trascendere queste autolimitazioni. Avrei dovuto lasciarlo a Sietch Tabr, pensò Alia. Sarebbe stato meglio che consegnassi Irulan a Javid... lui sì, l'avrebbe obbligata a parlare. Dentro il cranio, Alia udì una voce tonante: – Proprio così! Sta zitto! Sta zitto! Sta zitto! pensò lei. Il pericolo di un errore prese quasi forma nella sua mente, ma non riuscì ad afferrarne i contorni. Percepì soltanto l'acre sensazione del pericolo. Idaho doveva aiutarla a uscire da quella situazione. Era un mentat. I mentat erano indispensabili. Il computer-umano aveva preso il posto dei congegni meccanici distrutti durante il Jihad Butleriano. Non creerai una macchina a somiglianza della mente umana! Ora, però, Alia avrebbe desiderato moltissimo una macchina agile ed efficiente. Una macchina che non soffrisse delle

limitazioni di Idaho. Non sarebbe stata costretta a diffidare di una macchina. Alia udì ancora la voce vagamente beffarda di Irulan. – Una finta nella finta nella finta nella finta, – ironizzò la principessa. – Abbiamo tutti assodato, ormai, l'esistenza di questo segreto attacco contro il potere. Non biasimo Alia per i suoi sospetti. Naturalmente, Alia sospetta di tutti... perfino di noi. Tuttavia, prescindendo da noi, qual è il punto dolente, la maggior fonte di pericolo per la Reggenza? – La CHOAM, – disse Idaho, con la voce priva d'inflessione del mentat. Alia si concesse un sorriso sardonico. La Combine Honnete Ober Advancer Mercantiles! Ma la Casa degli Atreides dominava la CHOAM col cinquantun per cento delle azioni. Il clero di Muad'Dib ne deteneva un altro cinque per cento... e in più, vi era la pragmatica accettazione da parte delle Grandi Case, dell'esclusività del controllo esercitato da Dune sull'inestimabile spezia. Non senza ragione, un tempo la spezia veniva chiamata «la moneta segreta». Senza il melange, gli incrociatori della Gilda spaziale non avrebbero potuto muoversi. Il melange procurava la «trance navigatoria», durante la quale si rendeva visibile un sentiero transluminoso che indicava la via da percorrere. Senza il melange, e il suo potenziamento del meccanismo immunitario umano, la durata media della vita di molti ricchi sarebbe stata brutalmente ridotta a un quarto. E anche molti individui delle classi medie dell'Impero consumavano piccole dosi di melange, diluite nel cibo, almeno una volta al giorno... Ma Alia aveva percepito la tipica sincerità del mentat nella voce di Idaho, quella sincerità che aveva atteso, trepidando. CHOAM. La Combine Honnete era molto più della Casa degli Atreides, molto più di Dune, perfino, e anche del clero, o del melange. La CHOAM... era la liana indelebilis, il filo shiga, le pellicce di balena, i congegni e i teatranti ixiani, lo scambio di gente e di luoghi, lo Hajj, i manufatti ai limiti della legalità dei Tleilaxu, le droghe e le nuove scoperte mediche, i trasporti (la Gilda) e l'intero commercio, incredibilmente complesso, di un impero che abbracciava migliaia di pianeti conosciuti, più qualcun altro che, segretamente, si alimentava di esso ai suoi margini, lasciato alla sua indipendenza come compenso per i servigi resi. Quando Idaho aveva menzionato la CHOAM, aveva parlato in realtà di un continuo ribollire, intrighi su intrighi, un gioco di poteri dove lo spostamento di una dodicesima cifra decimale negli interessi poteva far cambiare di proprietà un intero pianeta.

Alia si voltò, tornò indietro e, fronteggiando i due sul divano, esclamò: – C'è qualcosa di specifico che vi preoccupa, a proposito della CHOAM? – Alcune Case continuano a fare incetta di spezia, – disse Irulan. – Grosse quantità, a scopo speculativo. Alia si batté una mano sulla coscia, poi additò la carta spiegazzata accanto a Irulan: – E quella richiesta non t'interessa, visto com'è venuta... – Insomma! – scattò Idaho. – Fuori il rospo. Che cosa ci nascondi? Sai bene che non puoi negarmi i dati e poi pretendere che io funzioni bene ugualmente. – C'è stato, di recente, un improvviso intensificarsi della richiesta d'individui con quattro specialità ben definite, – disse Alia. E si chiese se quest'informazione fosse davvero nuova per quei due. – Quali specialità? – chiese Irulan. – Maestri di scherma, mentat devianti, medici condizionati della scuola di Suk, e contabili esperti in intrighi fiscali. Specialmente questi ultimi. Perché mai tutta questa richiesta, adesso, di contabili disonesti? – concluse, rivolgendosi a Idaho. Ecco pane per i tuoi denti, mentat! pensò Idaho tra sé, sarcastico. Comunque, era sempre meglio che contristarsi su Alia e su ciò che era diventata. Idaho dunque si concentrò su queste ultime informazioni, ripetendole dentro di sé nel codice dei mentat. Maestri di scherma? Un tempo, quella era stata la sua vocazione. I maestri di scherma, ovviamente, erano qualcosa di più che semplici combattenti all'arma bianca. Sapevano riparare scudi di forza, progettare campagne militari, concepire macchinari bellici e armi sempre nuove. Mentat pervertiti? I tleilaxu, ovviamente, insistevano in quello scherzo. Essendo lui stesso un mentat, Idaho sapeva quanto, in realtà, fossero superficiali le perversioni instillate dai Tleilaxu. Le Grandi Case si affannavano a procurarsi questi mentat, convinte di riuscire a controllarli, a piegarli totalmente alla propria volontà. Un'impresa impossibile! Perfino Piter de Vries, che aveva servito gli Harkonnen nel loro assalto alla Casa degli Atreides, aveva mantenuto la dignità gelosamente custodita, accettando infine la morte piuttosto che lasciar contaminare la sacra intimità del proprio Io. Dottori del Suk? Il loro condizionamento era una garanzia assoluta contro ogni possibile slealtà verso i loro padroni-pazienti. I dottori del Suk costavano molto cari. Un incremento nell'acquisto dei Suk doveva per forza coinvolgere un consistente giro di capitali. Idaho soppesò tutto questo, poi lo mise a confronto con l'altro fatto,

l'aumento dei contabili disonesti. – Deduzione primaria, – dichiarò, sottolineando così l'accuratezza della sua computerizzazione. – C'è stato un recente aumento di ricchezza fra le Case Minori. Qualcuna di esse, senza troppo clamore, è in procinto di accedere alla posizione di Grande Casa. Questo rapido aumento di ricchezza può provenire soltanto da un qualche specifico cambiamento nelle alleanze politiche. – E con questo arriviamo al Landsraad, – esclamò Alia, manifestando così la sua profonda convinzione. – La prossima riunione del Landsraad è prevista soltanto fra due anni standard, – le ricordò Irulan. – Ma le contrattazioni dietro le quinte non cessano mai, – ribatté Alia. – E sono convinta che tra quelle firme, – tornò a indicare con un gesto rabbioso il foglio di carta spiegazzato accanto a Irulan, – figurano anche non poche Case Minori che hanno cambiato schieramento politico. – Forse, – disse Irulan. – Il Landsraad... – proseguì Alia. – Quale copertura migliore per il Bene Gesserit? E quale miglior agente, per la Sorellanza, di mia madre? – Incombette, con tutta la sua persona, su Idaho: – Ebbene, Duncan? Perché tormenti così il tuo mentat? Ora egli capì il perché dei sospetti di Alia. Dopotutto, Duncan Idaho era stato per molti anni la guardia del corpo di Lady Jessica. – Duncan? – insistette Alia. – Dovresti esaminare con la massima attenzione qualunque abbozzo legislativo in preparazione per la prossima sessione del Landsraad, – proseguì Idaho. – Potrebbero all'improvviso sostenere che, per legge, la Reggenza non può far valere il suo diritto di veto a certi nuovi decreti... ad esempio, modifiche all'ammontare delle tasse, o il varo di nuovi controlli sull'attività dei grandi cartelli industriali. E potrei allungare la lista. – Non sarebbe una sfida molto accorta, da parte loro, se intendessero prender posizione in questo modo, – commentò Irulan. – Sono d'accordo, – dichiarò Alia. – Noi abbiamo strappato i denti ai Sardaukar, e abbiamo sempre le nostre legioni... i Fremen! – Attenta, Alia, – l'ammonì Idaho. – Niente piacerebbe di più ai nostri nemici che farci apparire dei mostri. Non importa quante siano le legioni ai tuoi ordini, il potere sta saldamente in arcione sul consenso del popolo di un impero sparso attraverso lo spazio. – Il consenso del popolo? – chiese Irulan.

– Tu vuoi dire il consenso delle Case Maggiori, – fece Alia. – Ma quante Grandi Case ci troveremo costretti ad affrontare, con questi nuovi giochi di alleanze? – chiese Idaho. – Il denaro si sta accumulando in luoghi assai strani, oggi. – Vuoi dire... ai margini dell'Impero? – chiese Irulan. Idaho scrollò le spalle. Era una domanda alla quale non si poteva rispondere. Comunque, tutti loro si aspettavano che un giorno i Tleilaxu, o qualche genio sconosciuto, laggiù, sui pianeti di frontiera, pasticciando con le macchine e la scienza, avrebbero scoperto il modo di annullare l'effetto Holtzmann. Da quel giorno, gli schermi sarebbero stati inutili, e l'intero, precario equilibrio che teneva in vita i feudi planetari sarebbe crollato. Alia si rifiutò di prendere in considerazione tutto questo: – Andremo all'assalto con ciò che abbiamo, – ribatté. – E ciò che abbiamo è la certezza che, attraverso il controllo diretto della CHOAM, noi possiamo distruggere la spezia, se oseranno minacciarci. Ma non oseranno. – Eccoci ritornati alla CHOAM, – disse Irulan. – A meno che qualcuno non sia riuscito a riprodurre il ciclo biologico trota della sabbia-verme su un altro pianeta, – s'intromise Idaho. Irulan sembrò turbata da quell'ipotesi, e Idaho si voltò a fissarla, incuriosito: – Salusa Secundus? – Ho informazioni attendibili da laggiù, – si affrettò a dire Irulan. – Non è Salusa. – E allora, la mia risposta rimane valida, – insisté Alia. – Andremo all'assalto con ciò che abbiamo. La mossa successiva è mia, pensò Idaho. Chiese: – Perché mi hai obbligato a lasciare quel lavoro importante? Avresti potuto risolvere da sola questa faccenda. – Non usare quel tono con me! – esclamò Alia, piccata. Idaho sbarrò gli occhi. Per un attimo aveva visto, con angosciosa chiarezza, quella presenza aliena stagliarsi sui lineamenti di Alia. Provò una stretta al cuore, e si voltò a guardare Irulan, ma lei non si era accorta di nulla o, quanto meno, questo sembrava. – Non ti ho chiesto di farmi la lezione, – insisté Alia, la sua voce ancora vibrante di quella rabbia aliena. Idaho riuscì a sorridere, anche se più che altro fu una smorfia. Il cuore continuava a dolergli. – Non ci si allontana mai troppo dalla ricchezza e da tutte le sue mascherature, quando si cavalca il potere, – commentò Irulan. – Paul ha

rappresentato una vera e propria mutazione sociale, la quale, dobbiamo ammetterlo, ha bruscamente alterato l'antico equilibrio della ricchezza. – Simili mutazioni non sono irreversibili, – replicò Alia, voltandole le spalle come se non volesse esibire al suo sguardo la sua terribile diversità. – Dovunque vi sia ricchezza in questo Impero, essi lo sanno. – E inoltre essi sanno, – interloquì Irulan, – che soltanto tre persone potrebbero perpetuare questa mutazione: i gemelli e... – Indicò Alia. Sono impazzite queste due donne? si chiese Idaho. – Cercheranno di assassinarmi! – esclamò Alia con voce rauca. Idaho restò immobile, in silenzio, profondamente traumatizzato, la sua consapevolezza mentat travolta da un turbine. Assassinare Alia? Perché? Sarebbe stato fin troppo facile screditarla, invece. Avrebbero potuto recidere ogni suo legame con i Fremen e darle la caccia a volontà. Quanto ai gemelli... Sapeva di non trovarsi nella giusta condizione di calma per esercitare le sue funzioni di mentat, ma doveva tentare. Doveva essere il più preciso possibile, anche se questa precisione avrebbe coinvolto degli assoluti difficili ad accettare. La natura non era precisa. L'universo non era preciso, una volta ridotto a misura umana; diventava vago e indistinto, pieno di movimento e di mutamenti inaspettati. L'umanità in blocco doveva esser fatta entrare in questa computerizzazione come un fenomeno naturale, alla pari degli altri. E l'intero processo di quest'analisi esatta richiedeva un distacco, un allontanamento da quell'immenso fiume eternamente fluente che era l'universo. Egli doveva vederlo, quel fiume, contemplare dal di fuori quell'inarrestabile fluire. – Abbiamo avuto ragione, a concentrarci sulla CHOAM e sul Landsraad, – continuò con la sua voce affettata Irulan. – E il suggerimento di Duncan ci offre una prima linea d'indagine per... – Il denaro, come manifestazione d'energia, non può esser separato dall'energia che esso esprime, – dichiarò Alia. – Noi tutti lo sappiamo. Ora, però, dobbiamo rispondere a tre precise domande: Quando? Usando quali armi? E dove? I gemelli... i gemelli, pensò Idaho. I gemelli sono in pericolo, non Alia. – Non t'interessa chi, o come? – gli chiese Irulan. – Se la Casa di Corrino o la CHOAM, o qualunque altro gruppo, si serve di sicari umani su questo pianeta, – proseguì Alia, – le nostre probabilità di scoprirli prima che agiscano ammontano al sessanta per cento. Sapendo quando, e dove, agiranno, le nostre probabilità saranno ancora maggiori. E come agiranno? Ciò equivale a chiedersi, con quali armi?

Perché non riescono a vedere le cose come le vedo io? si chiese Idaho. – D'accordo, – disse Irulan. – Quando? – Quando l'attenzione sarà concentrata su qualcun altro, – replicò Alia. – Alla Convocazione l'attenzione di tutti era concentrata su tua madre, – obiettò Irulan. – Ma non c'è stato alcun tentativo. – Era il posto sbagliato, – spiegò Alia. Che cosa vuol fare? si chiese Idaho. – Dove, dunque? – insisté Irulan. – Proprio qui, nella Rocca, – disse Alia. – Poiché questo è il luogo in cui mi sento più sicura e sto meno sul chi vive. – Con quali armi? – chiese ancora Irulan. – Armi convenzionali... qualcosa che un Fremen ha sempre con sé, un cryss avvelenato, una pistola Maula, un... – È molto tempo che non hanno più usato un assassino-cercatore, – osservò Irulan. – Non funzionerebbe in mezzo alla folla, – obiettò Alia. – E ci sarà folla. – Un'arma biologica? – provò ancora Irulan. – Un agente... infettivo? – Alia non nascose la sua incredulità. Come poteva credere, Irulan, che un agente infettivo potesse aver successo contro le barriere immunologiche che proteggevano gli Atreides? – Pensavo a un qualche animale, – spiegò Irulan. – Un piccolo animale da salotto, ad esempio, addestrato a mordere una vittima ben precisa, trasmettendo un veleno mortale col suo morso. – I furetti della Casa lo impedirebbero, – disse Alia. – Uno dei furetti, allora. – Impossibile. I furetti della Casa assalirebbero ogni estraneo che si avvicinasse a loro, lo ucciderebbero. Lo sai bene. – Stavo soltanto passando in rassegna tutte le possibilità, nella speranza che... – Avvertirò le mie guardie, – disse Alia. Quando Alia disse guardie, Idaho nascose i suoi occhi tleilaxu tra le mani, cercando di non sprofondare nel coinvolgimento totale, Rhajia, il movimento dell'infinito com'era espresso dalla Vita, l'immersione nella consapevolezza totale che aspettava al varco ogni mentat. Egli lanciò la sua consapevolezza, come una rete, sull'universo, ed essa cadde e definì alcune forme all'interno di esso. Vide i gemelli acquattati nell'oscurità, mentre artigli giganteschi laceravano l'aria intorno a loro.

– No. – La parola fu un lieve sospiro. – Che cosa? – Alia lo fissò, come se fosse sorpresa di trovarlo ancora lì. Idaho si tolse la mano dagli occhi. – Gli indumenti spediti dalla Casa Corrino... – disse. – Sono stati mandati ai gemelli? – Naturalmente, – rispose Irulan. – Non nascondono nessun pericolo. – Nessuno tenterà di uccidere i gemelli a Sietch Tabr, – dichiarò Alia. – Nessuno, con tutte quelle guardie che li circondano, addestrate da Stilgar. Idaho la fissò. Non aveva alcun dato specifico per dar corpo a una nuova computazione mentat, ma egli lo sapeva. Lo sapeva. Ciò che aveva sperimentato si avvicinava molto al potere, alla preveggenza che Paul aveva conosciuto. Né Irulan, né Alia l'avrebbero creduto, venendo da lui. – Vorrei avvertire le autorità portuali di non permettere l'importazione di alcun animale da fuori, – disse. – Non prenderai sul serio ciò che ha detto Irulan, – protestò Alia. – Perché correre dei rischi? – chiese Idaho. – Tu... vai pure a dirlo ai tuoi contrabbandieri, – replicò Alia. – Io mi fido dei furetti della Casa. Idaho scosse la testa. Che cosa avrebbero potuto fare i furetti, contro artigli così grandi e affilati come quelli che aveva visto, pieno di orrore, dentro di sé? Ma Alia aveva ragione. Una somma di denaro al posto giusto, un navigatore della Gilda compiacente, e qualunque punto della Regione Vuota diventava un possibile campo di atterraggio. La Gilda avrebbe evitato il più possibile di assumere una posizione scoperta e decisa, in qualunque attacco contro la Casa degli Atreides. Ma se il compenso fosse stato sufficientemente alto... Be', si poteva pensare alla Gilda soltanto come a una sorta di barriera montagnosa, che avrebbe reso gli attacchi difficili, ma non impossibili. La Gilda avrebbe sempre potuto sostenere di essere soltanto un'«agenzia di trasporti.» Come avrebbero potuto sapere a quale uso era destinato questo o quel carico? Alia ruppe il silenzio con un gesto tipicamente Fremen: il pugno alzato col pollice teso orizzontalmente, accompagnato da un'imprecazione il cui significato letterale era: «Scaglierò il Tifone contro i nemici!» Alia, ovviamente, vedeva se stessa come l'unico bersaglio logico per gli assassini, e quel gesto proclamava la sua fiera reazione a un intero universo di minacce. Avrebbe scagliato il vento della morte contro chiunque l'avesse attaccata. Idaho sentì l'inutilità di qualunque protesta. Vide, comunque, che Alia

non sospettava più di lui. Egli sarebbe ritornato a Sietch Tabr dove Alia si aspettava un rapimento di Lady Jessica compiuto alla perfezione. Idaho balzò in piedi, spinto da un improvviso impulso di rabbia. Magari fosse Alia il bersaglio! pensò. Magari gli assassini riuscissero a raggiungerla! Per un attimo appoggiò la mano sul suo pugnale, ma egli non avrebbe mai fatto una cosa simile. Eppure... quanto meglio sarebbe stato, per lei, morire martire, piuttosto che screditata e cacciata in una tomba di sabbia. – Sì, – disse Alia, equivocando, convinta che l'espressione sul volto di Idaho fosse preoccupazione per i pericoli che sembravano minacciarla, – farai meglio a ritornare in fretta a Tabr. – E intanto pensava: Com'è stato sciocco, da parte mia, sospettare di Idaho! Egli appartiene a me, non a Jessica! Era stata la richiesta delle tribù a sconvolgerla, pensò ancora. Salutò con un gesto affettuoso Idaho, mentre questi si congedava. Idaho lasciò la Sala del Consiglio sentendosi desolatamente impotente. Non soltanto Alia era accecata dalla sua possessione aliena, ma ad ogni ulteriore crisi la sua lucidità mentale sembrava ottenebrarsi sempre più. Aveva ormai superato il punto del possibile ritorno, ed era condannata. Ma che cosa si poteva fare per i gemelli? Sarebbe riuscito, lui, a convincere qualcuno? Stilgar, ad esempio? E che cosa avrebbe potuto fare, Stilgar, più di quanto stava facendo adesso? Lady Jessica, allora? Sì, avrebbe analizzato questa possibilità... ma anche Lady Jessica, forse, era andata troppo in là col suo complotto, insieme alla Sorellanza. Idaho si faceva poche illusioni a proposito di quella concubina Atreides. Lady Jessica avrebbe potuto fare qualunque cosa, per ordine delle Bene Gesserit... perfino rivoltarsi contro i propri nipoti.

I buoni governi non sono mai resi tali dalle leggi, ma dalle qualità personali di coloro che governano. La macchina del governo è sempre subordinata alla volontà di coloro che amministrano la macchina stessa. Perciò, per un governo, la cosa più importante è il modo in cui si scelgono i capi. – Leggi e Governo Il manuale della Gilda Spaziale

Perché mai Alia desidera che io partecipi con lei all'udienza del mattino? si chiese Jessica. Non hanno ancora votato la mia rielezione al Consiglio. Jessica si trovava nell'anticamera della Sala Grande della Rocca. Un'anticamera che sarebbe stata, a sua volta, un'immensa sala dovunque, fuorché su Arrakis. Seguendo l'esempio degli Atreides, gli edifici di Arrakeen erano diventati sempre più giganteschi man mano la ricchezza e il potere si concentravano, e quella stanza concentrava in sé, col suo solo aspetto, tutti i suoi timori. Quell'anticamera non piaceva a Jessica, col suo pavimento a piastrelle che illustravano la vittoria di suo figlio su Shaddam IV. Jessica colse il riflesso del suo viso sulla grande porta di plastacciaio che si apriva nella Grande Sala. Il ritorno su Dune la costringeva a questi continui confronti, ma Jessica, ora, notò soltanto, qua e là, le tracce dell'invecchiamento sui propri lineamenti: il suo volto ovale era segnato da quasi impercettibili rughe, e gli occhi sembravano più fragili nel loro riflesso color indaco. Jessica ancora ricordava quando c'era stato del bianco intorno all'azzurro dei suoi occhi. Soltanto le attente cure di un acconciatore professionista riuscivano a conservare il bronzo lucente ai suoi capelli. Il suo naso rimaneva piccolo, la bocca generosa, e il suo corpo era sempre sottile, ma perfino i suoi muscoli addestrati dal Bene Gesserit avevano la tendenza a reagire senza più l'originaria prontezza, col passare del tempo. Qualcuno poteva anche non accorgersene, e dirle: «Non sei cambiata affatto!» Ma l'addestramento della Sorellanza era una spada a doppio taglio; ben di rado anche i più piccoli cambiamenti sfuggivano a coloro che erano stati addestrati in quel modo. E la mancanza di questi piccoli cambiamenti in Alia non era sfuggita a Jessica. Javid, il maestro delle udienze di Alia, era immobile accanto alla grande porta. Quel mattino sembrava molto formale. Sembrava un folletto impaludato, con un sorriso cinico sul volto rotondo. Agli occhi di Jessica era un paradosso vivente: un Fremen ben nutrito! Accorgendosi di essere

osservato, Javid le fece un sorriso d'intesa e scrollò le spalle. Il suo servizio al seguito di Jessica era stato breve, come egli sapeva. Odiava gli Atreides, ma era l'uomo di Alia... e in più di un modo, se si doveva dar credito alle voci. Jessica vide la scrollata di spalle, e pensò: Questa è l'epoca delle scrollate di spalle. Lui sa che io sono al corrente di tutte le storie sul suo conto e non gliene importa niente. La nostra civiltà potrebbe benissimo morire d'indifferenza, al suo interno, prima di soccombere a un attacco da fuori. Alle guardie che Gurney le aveva assegnato, prima di partire per il deserto e incontrarsi con i contrabbandieri, non era piaciuta la decisione di Jessica di recarsi lì senza di loro. Ma Jessica, stranamente, si sentiva al sicuro. Che qualcuno si provasse a far di lei una martire, in quel luogo! Alia non sarebbe sopravvissuta... e lo sapeva! Quando Jessica non rispose alla sua scrollata di spalle e al suo sorriso, Javid tossì, un raschiamento della laringe simile a un rutto che poteva ottenersi soltanto a prezzo di un lungo esercizio. Era una sorta di linguaggio segreto. Come se avesse detto: «Noi comprendiamo il nonsenso di tutta questa pompa, mia Signora. Non è meraviglioso come siano disposti a credere tutto questo, gli esseri umani?» Meraviglioso! Jessica fu d'accordo, ma il suo volto non tradì minimamente il suo pensiero. Ora l'anticamera era affollata, tutti i supplicanti consentiti quel mattino erano stati fatti entrare dagli uomini di Javid. Le porte esterne erano state chiuse. Supplicanti e inservienti si tenevano educatamente a distanza da Jessica, ma chiaramente riconobbero l'aba nero, la veste ufficiale di una Reverenda Madre dei Fremen. Ciò avrebbe suscitato molte domande. Nessun contrassegno del clero di Muad'Dib era visibile sulla sua persona. Il brusio d'innumerevoli conversazioni s'intensificò, mentre la gente divideva la sua attenzione fra Jessica e la piccola porta laterale attraverso la quale Alia sarebbe giunta per guidarli nella Grande Sala. Risultò ovvio a Jessica che la tradizionale struttura, la quale definiva in modo inequivocabile dove si trovavano i poteri della Reggenza, era stata scossa. L'ho provocato io, semplicemente venendo qui, pensò. Ma io sono venuta perché Alia mi ha invitato. Cogliendo i segni di quel turbamento, Jessica si rese conto che Alia stava prolungando a bella posta l'attesa, permettendo che gli eventi seguissero la loro impercettibile evoluzione. Naturalmente, Alia doveva

esser lì vicino, intenta a guardare da qualche nascosta feritoia. Poche tra le sottigliezze nel comportamento di Alia sfuggivano a Jessica. Ad ogni minuto che passava, Jessica si convinceva sempre più che aveva fatto bene ad accettare la missione che la Sorellanza aveva insistito ad affidarle. «Non possiamo consentire che le cose continuino in questo modo» aveva argomentato il capo della delegazione del Bene Gesserit. «Certamente i segni del decadimento non ti sono sfuggiti... soprattutto a te non possono essere sfuggiti. Sappiamo perché ci hai lasciato, ma sappiamo anche l'addestramento che, prima, avevi ricevuto. Niente è stato risparmiato, per istruirti nel modo migliore. Tu sei un'adepta del Panoplia Prophetica, e devi ben sapere quanto una religione che si sta guastando ci minacci tutte!» Jessica aveva stretto le labbra, sovrappensiero, fissando, fuori della finestra, i segni della rigogliosa primavera, intorno a Castel Caladan. Non le piaceva esser costretta a indirizzare i suoi pensieri su una forma di ragionamento così stringente, logica. Uno dei primi insegnamenti della Sorellanza, appunto, era quello di diffidare nei confronti di tutto ciò che si presentava in forma di logica. Ma anche i membri di quella delegazione lo sapevano. L'aria di quel mattino stillava umidità, pensò Jessica, contemplando l'anticamera affollata di Alia. Umida e fresca. E anche sudaticcia, là dentro, e questo le provocava un vivo disagio. Jessica pensò: Eccomi ritornata al modo di pensare dei Fremen. L'aria era troppo umida, in questo sietch-sopra-il-suolo. Come si stavano comportando i maestri distillatori? Paul non avrebbe mai consentito una simile trascuratezza. Jessica notò che Javid, vigile e composto, non sembrava affatto a disagio per quell'eccesso di umidità nell'anticamera. Cattivo addestramento, per chi era nato su Arrakis. I membri della delegazione del Bene Gesserit le avevano chiesto se esigeva prove delle loro asserzioni, al che Jessica aveva risposto, infuriata, servendosi di frasi tratte dai loro stessi manuali: – Tutte le prove inevitabilmente conducono a conclusioni che non hanno prove! Noi accettiamo soltanto le cose in cui vogliamo credere! – Ma abbiamo sottoposto questo problema ai mentat, – aveva protestato il capo della delegazione. Jessica aveva fissato quella donna in preda allo stupore: – Mi meraviglio che tu abbia raggiunto una simile posizione nel Bene Gesserit, senza sapere quali sono i limiti dei mentat!

A queste veementi parole, l'intera delegazione si era rilassata. Tutto questo era stato in realtà una prova, e lei l'aveva superata. Certo, esse avevano temuto che avesse perduto ogni contatto con quelle capacità di equilibrio che erano il nucleo centrale dell'addestramento Bene Gesserit. Jessica subito fu sul chi vive, senza lasciarlo minimamente trasparire, quando vide Javid lasciare il suo posto accanto alla porta e venire verso di lei. Javid s'inchinò: – Mia Signora, – le disse, – mi è venuto in mente che forse ancora non conosci l'ultima impresa del Predicatore. – Ricevo rapporti giornalieri su tutto quello che accade qui, – replicò Jessica. E vai pure a riferirlo ad Alia! Javid sorrise: – Allora saprai anche degli insulti che sono stati scagliati contro la tua famiglia. Appena la notte scorsa ha predicato nel sobborgo meridionale e nessuno ha osato toccarlo. Tu sai perché, naturalmente. – Perché essi credono che sia mio figlio ritornato a loro, – rispose Jessica, con voce annoiata. – La domanda non è stata ancora posta al mentat Idaho, – proseguì Javid. – Ma forse si dovrebbe farlo, per risolvere la questione una volta per tutte. Jessica pensò: Costui davvero non conosce i limiti dei mentat, anche se osa adornare di corna uno di essi... nei suoi sogni, anche se non nella realtà. E replicò: – I mentat condividono la fallibilità di chi li usa. La mente umana, come la mente di qualunque essere vivente, è un risonatore. Essa reagisce alle vibrazioni dell'ambiente. Il mentat ha imparato a estendere la propria coscienza attraverso molte ramificazioni parallele di eventi, reali o possibili che siano, e procede lungo queste vie alla ricerca di lunghe successioni logiche di cause e di effetti. – Prova un po' a digerirti questo! concluse tra sé, sarcastica. – Questo Predicatore allora non t'inquieta? – chiese Javid, con voce improvvisamente gelida e sinistra. – Trovo la sua comparsa salutare, – lei rispose. – Voglio che non sia infastidito. Chiaramente, Javid non si era aspettato una risposta così schietta. Cercò di sorridere, non ci riuscì. E allora disse: – Il Consiglio che governa la Chiesa, la quale deifica tuo figlio, s'inchinerà, naturalmente, ai tuoi desideri, se insisti. Ma, certo, una spiegazione... – Vuoi forse che sia io a spiegare come io entri nei vostri piani? – replicò Jessica. Javid la scrutò da vicino. – Signora, non vedo nessun logico motivo per

cui dovresti rifiutarti di denunciare questo Predicatore. Non è tuo figlio... non può esserlo. La mia richiesta è ragionevole: denuncialo. Questa è una scena prestabilita, pensò Jessica. Alia lo ha spinto a farlo. E ripeté: – No. – Ma il Predicatore sta profanando il nome di tuo figlio! Grida cose abominevoli, alza la voce contro la tua santa figlia. Incita la plebaglia contro di noi. Quando gli è stato chiesto, ha osato dire che perfino tu sei contaminata dalla natura del male, e tuo... – Basta con queste sciocchezze! – l'interruppe Jessica. – Di' ad Alia che mi rifiuto. Da quando sono ritornata, non ho sentito altro che sciocche storie su questo Predicatore. Mi ha annoiato. – Ti annoia sapere, mia Signora, che durante la sua ultima profanatoria allocuzione, il Predicatore ha affermato che tu non ti saresti mai ribellata a lui? E tu, qui, fin troppo chiaramente... – Per quanto malvagia io sia, non lo denuncerò, – ribadì Jessica. – Signora, questo non è un gioco! Jessica ebbe un gesto di rabbia. – Vattene! – esclamò, con voce sufficientemente alta perché la folla l'udisse. Javid fu costretto a obbedire. Nei suoi occhi passò un lampo di collera, ma riuscì ugualmente ad eseguire un corretto inchino, quindi tornò a prendere posizione accanto alla porta. Questa discussione confermava puntualmente certe osservazioni che Jessica aveva già avuto modo di fare. Quando parlava di Alia, la voce di Javid vibrava dei toni velati, ma inconfondibili, di un amante; non c'era possibilità di errore. Le voci, i pettegolezzi, erano indubbiamente veri. Alia aveva consentito che la sua vita degenerasse tragicamente. Jessica a questo punto cominciò a nutrire il sospetto che Alia fosse volontariamente partecipe dell'Abominazione. Forse una volontà perversa la spingeva all'autodistruzione? Perché, di questo Jessica era convinta, Alia stava operando per distruggere se stessa e i fondamenti del potere nato dagli insegnamenti di suo fratello. Vaghi segni d'irrequietezza cominciarono a serpeggiare nel grande atrio. I frequentatori abituali si erano resi conto che Alia tardava troppo ad arrivare, e tutti ormai sapevano del battibecco tra Jessica e il favorito di Alia, concluso da un perentorio congedo. Jessica sospirò. Ebbe la sensazione che il suo corpo fosse entrato là dentro tirandosi dietro l'anima al guinzaglio. I movimenti dei cortigiani erano così evidenti! Le manovre per identificare una persona importante e

avvicinarsi ad essa erano un grottesco balletto, e la folla ondeggiava come un campo di grano agitato dal vento. Gli smaliziati abitanti della città si accigliavano, scrutando i vicini, ed applicavano a ognuno di essi, idealmente, un numero, per classificarlo. Ovviamente il modo in cui lei, Jessica, aveva respinto Javid, aveva fatto precipitare le sue quotazioni: ora ben pochi gli rivolgevano la parola. E gli altri! Gli occhi addestrati di Jessica avrebbero potuto leggere su ognuno di essi il numero come se fosse stato dipinto loro addosso, identificando così i potenti e i satelliti che li circondavano. Non si avvicinano a me perché sono pericolosa, pensò. Ho addosso la puzza di qualcuno che Alia teme. Jessica guardò in varie direzioni, e vide che la maggior parte dei presenti distoglieva gli occhi da lei. Erano gente così frivolmente seria ch'ella fu sul punto di mettersi a inveire contro tutte le meschinità di cui riempivano la loro futile vita. Oh, se il Predicatore avesse potuto contemplare quella stanza e quella gente, adesso! Un frammento di conversazione accanto a lei attirò la sua attenzione. Un prete alto e magro si stava rivolgendo a un gruppo di gente che lo circondava, senza dubbio supplici venuti fin lì sotto la sua guida. – Non stupitevi se mi udrete parlare diversamente da come la penso, – disse il prete. – Questa si chiama diplomazia. Esplosero risate troppo fragorose, che con fulminea rapidità si spensero. Qualcuno del gruppo si era accorto che Jessica aveva udito. Il mio Duca avrebbe immediatamente cacciato un simile individuo nel più profondo buco infernale! pensò Jessica. Sono tornata su Arrakis appena in tempo. Ora sapeva di esser vissuta su Caladan come in una ciste ovattata, dov'erano giunti soltanto gli echi dei più appariscenti eccessi di Alia. Ho continuato a sognare troppo a lungo. Caladan era stato un po' come il viaggio in uno yacht di lusso, in un'astronave di prima classe della Gilda. Si riuscivano a percepire soltanto le manovre più brusche, e anch'esse come semplici vibrazioni attutite. Vivere in pace... quant'è delizioso, pensò. Quanto più vedeva della corte di Alia, tanto più Jessica apprezzava le parole che, si diceva, erano state pronunciate dal Predicatore cieco. Sì, Paul in persona avrebbe potuto dire quelle identiche parole, se avesse visto ciò che era accaduto al suo regno. Jessica si chiese che cosa avesse scoperto Gurney là fuori, tra i contrabbandieri.

Si rese conto che la sua prima reazione di fronte ad Arrakeen era stata quella giusta. Durante quel primo viaggio attraverso la città, insieme a Javid, la sua attenzione era stata attratta dai sentieri e dai vicoli strettamente sorvegliati, dagli schermi difensivi innalzati intorno alle abitazioni, le sentinelle a ogni angolo, le alte mura e i profondi sotterranei rivelati dalle massicce fondamenta. Arrakeen era diventato un luogo duro, ingiusto, colmo d'irragionevolezza e di repressione, aspramente farisaico. Improvvisamente, la piccola porta laterale dell'anticamera si aprì. Un gruppo di sacerdotesse armate ne uscì, facendo scudo ad Alia che le seguiva, altera, muovendosi con gesti misurati, che tradivano la consapevolezza di un potere terribile e concreto. Il volto di Alia era impassibile; non tradì alcuna emozione quando il suo sguardo incontrò quello della madre. Ma entrambe sapevano che la battaglia era cominciata. A un ordine di Javid, la gigantesca porta della Grande Sala fu spalancata; i colossali battenti, aprendosi, diedero una formidabile sensazione di energia nascosta. Alia si portò al fianco di sua madre, mentre le guardie si disponevano in cerchio intorno a loro. – Vuoi che entriamo, madre? – chiese Alia. – Finalmente, potrei dire, – rispose Jessica, e pensò, cogliendo la gioia maligna negli occhi della figlia: È convinta di potermi distruggere e restare illesa... È pazza! E Jessica si chiese se questo non fosse proprio ciò che Idaho avrebbe voluto dirle. Le aveva fatto giungere un messaggio, ma ella non era stata in grado di rispondere. Un messaggio enigmatico: «Pericolo, devo vederti», scritto in una variante dell'antico chakobsa, in cui la parola «pericolo» aveva lo stesso significato di «complotto». Lo incontrerò subito non appena sarò ritornata a Tabr, ella pensò.

Questo è l'errore insito nel potere: in ultima analisi, esso è efficace soltanto in un universo assoluto, limitato. Ma la lezione fondamentale del nostro universo relativistico è che le cose cambiano. Ogni potere finirà sempre per incontrare un potere più grande. Paul Muad'Dib insegnò questa lezione ai Sardaukar sulla Pianura di Arrakeen. I suoi discendenti devono ancora imparare questa lezione. – Il Predicatore ad Arrakeen

Il primo postulante per l'udienza di quel mattino era un trovatore kadeshiano, un pellegrino dello Hajj la cui borsa era stata vuotata dai mercenari di Arrakeen. Stava lì, solidamente piantato sulla pietra verdeacqua del pavimento della Grande Sala, e non aveva affatto l'aria di esser venuto a supplicare. Jessica, seduta accanto ad Alia sulla piattaforma, alla sommità di sette gradini, ammirò la sua audacia. Madre e figlia erano sedute su due troni identici, e Jessica notò che Alia sedeva alla destra, la posizione maschile. In quanto al trovatore kadeshiano, era ovvio che gli uomini di Javid lo avevano ammesso proprio per la qualità che ora esibiva: la sua audacia. Ci si aspettava che il trovatore fornisse un po' di divertimento ai cortigiani nella Grande Sala; sarebbe stato l'unico modo possibile, per lui, per sdebitarsi, al posto del denaro che non possedeva più. Secondo quanto riferiva il sacerdote-avvocato, che ora stava perorando il caso del trovatore, al kadeshiano erano rimasti soltanto i panni che lo ricoprivano e il baliset che portava a tracolla, sorretto da una corda di cuoio. – Dice che gli è stata data da bere una bevanda scura, – disse l'avvocato, dissimulando appena il sorriso che gli affiorava alle labbra. – E, vostra Santità, costui afferma che la bevanda lo ha lasciato sveglio ma impotente, mentre gli veniva tagliata la borsa. Jessica studiò il trovatore, mentre l'avvocato continuava il suo monotono discorso, falsamente servile, la voce piena di fangosa moralità. Il kadeshiano era alto, molto probabilmente toccava i due metri. Il suo sguardo vivace denotava spigliatezza e senso dell'umorismo. I capelli biondo-dorati gli scendevano fino alle spalle, nello stile del suo pianeta, e dall'ampio petto e dal corpo snello e scattante s'irradiava una sensazione di forza virile che la veste Hajj, grigia, non riusciva a nascondere. Era stato presentato col nome di Tagir Mohandis, discendeva da una stirpe di tecnici e mercanti, ed era orgoglioso di sé e della sua famiglia. Infine, Alia interruppe la supplica con un gesto della mano, e disse,

senza voltarsi: – Lady Jessica pronuncerà il primo giudizio, onorando così il suo ritorno fra noi. – Grazie, figlia mia, – rispose Jessica, ribadendo così, e facendosi udire da tutti, il loro grado di parentela. Figlia! Così, questo Tagir Mohandis faceva parte del loro piano... Oppure era uno sciocco innocente? Jessica si rese conto che questo giudizio, in realtà, era l'inizio dell'attacco contro di lei. Era fin troppo chiaro, dall'atteggiamento di Alia. – Sai suonar bene quello strumento? – chiese Jessica, indicando il baliset a nove corde che il trovatore portava a tracolla. – Almeno quanto il grande Gurney Halleck! – replicò, a voce alta, Tagir Mohandis, in modo che tutti, nella sala, potessero udirlo. Un mormorio vivamente interessato s'innalzò fra i cortigiani. – Tu cerchi del denaro in dono per viaggiare, – proseguì Jessica. – Dove ti porterà quel denaro? – Su Salusa Secundus, alla Corte di Farad'n, – replicò Mohandis. – Ho udito che cerca trovatori e menestrelli, aiuta le arti e sta creando un mondo di grande raffinatezza e suggestione intorno a sé. Jessica si trattenne dal lanciare un'occhiata ad Alia. Essi sapevano bene, naturalmente, ciò che Mohandis avrebbe detto. Scoprì che questo diversivo la stava divertendo. Credevano davvero che lei non sarebbe stata capace di parare quel colpo? – Sei disposto a suonare per me, per pagarti il viaggio? – chiese Jessica. – Le mie condizioni sono le condizioni dei Fremen. Se la tua musica mi piacerà, potrei trattenerti qui per alleviare le mie preoccupazioni. Se la tua musica mi apparirà sgradevole, potrei mandarti a faticare nel deserto, perché tu possa guadagnarti in altro modo il denaro per il tuo viaggio. Se la tua musica mi parrà adatta a Farad'n, il quale, dicono, è un nemico degli Atreides, allora ti manderò da lui con la mia benedizione. Sei disposto a suonare a queste condizioni, Tagir Mohandis? Il trovatore rovesciò indietro la testa, scoppiando in una fragorosa risata. I suoi capelli biondi parvero danzare, quando si sfilò il baliset e l'accordò con agili gesti, mostrando così di accettare la sfida. La folla nella sala cominciò a premere per avvicinarsi di più, ma fu tenuta indietro dai cortigiani e dalle guardie. Qualche istante dopo, Mohandis pizzicò una nota alta, regolando con estrema cura le basse tonalità, profondamente espressive, delle corde laterali. Poi, la sua voce tenorile, robusta e virile, s'innalzò, ovviamente improvvisando una canzone, ma con tanta maestria che Jessica ne fu

affascinata, ancora prima di afferrare il senso delle parole: Voi dite di desiderare i mari di Caladan, Dove un tempo governaste, Atreides, Per anni e anni... Ma ora, esuli, abitate una terra straniera! Voi dite che eravate amareggiati, uomini così fieri, Al punto di barattare i vostri sogni di Shai-hulud Con del cibo insipido... E ora, esuli, abitate una terra straniera! Voi avete infettato Arrakis, Sbarrando il cammino al verme, E messo fine al vostro tempo... Come esuli, abitate una terra straniera! Alia! Essi ti chiamano Coan-Teen, lo spirito che cammina invisibile finché non...

– Basta! – urlò Alia. Si alzò a metà dal trono. – Io ti farò... – Alia! – Jessica parlò a voce alta, col giusto grado d'autorevolezza perché tutti la sentissero, ma evitando uno scontro diretto. Un uso magistrale della Voce, e quanti l'udirono apprezzarono giustamente quest'abilità raffinata nel servirsi dei poteri. Alia ricadde sul suo seggio, e Jessica si accorse che non mostrava il minimo turbamento. Anche questo era stato previsto, pensò Jessica. Molto interessante. – Questo primo giudizio è mio, – ricordò ad Alia. – Benissimo. – Le parole di Alia si udirono a stento. – Trovo che costui sia un dono degno di Farad'n, – continuò Jessica. – Ha una lingua tagliente come un cryss. Gli energici salassi che una simile lingua sa praticare potrebbero esser salutari anche per la nostra corte, ma preferisco che ne goda la Casa di Corrino. Una risatina, come una sottile increspatura, si diffuse per la sala. Alia consentì a se stessa di sbuffare: – Ma non hai sentito come mi ha chiamato? – Non ti ha chiamato in nessun modo, figlia mia. Egli ha soltanto riferito quello che lui, o chiunque altro, possono aver sentito per la strada. Se là fuori ti chiamano Coan-Teen... – Lo spirito-femmina della morte, che cammina senza i piedi, – ringhiò Alia. – Se ti rifiuti di ascoltare quelli che riferiscono ogni cosa, mia cara,

dovrai accontentarti di coloro che ti dicono soltanto quello che vuoi sentire, – disse Jessica, con voce soave. – Non conosco niente di più velenoso che marcire nella puzza del proprio autocompiacimento. Un brusio inintelligibile si levò dalle prime file degli astanti, quelli più vicini ai troni, che avevano udito. Jessica concentrò nuovamente la sua attenzione su Mohandis, il quale aspettava in silenzio, per niente intimorito. Sembrava pronto ad accettare qualunque sentenza, come se la cosa, per lui, non avesse nessuna importanza. Mohandis era esattamente il tipo d'uomo che il suo Duca avrebbe scelto per averlo al suo fianco nei momenti più gravi: un uomo che agiva ben sicuro di sé, ma pronto ad accettare qualunque cosa potesse accadergli, perfino la morte, senza insultare il proprio destino. Allora, perché mai aveva scelto quel canto? – Perché hai cantato proprio quelle parole? – gli chiese Jessica. Mohandis drizzò fieramente la testa: – Ho udito che gli Atreides sono gente d'onore, e di mente aperta. Ho pensato di mettervi alla prova, nella speranza che, forse, avrei potuto restare qui, al vostro servizio, avendo così il tempo anche di cercare quelli che mi hanno derubato, occupandomene a modo mio. – Osa metter noi alla prova! – mormorò Alia. – Perché no? – chiese Jessica. Sorrise al trovatore per mostrargli la sua simpatia. Egli si era presentato in quella sala soltanto perché ciò gli offriva l'opportunità di vivere un'altra avventura, di guadagnarsi un altro viaggio attraverso il suo universo. Jessica fu tentata di accoglierlo nel suo seguito, ma la reazione di Alia suonava di cattivo augurio per il coraggioso Mohandis. C'erano anche alcuni indizi i quali indicavano che, questo, era appunto il comportamento che ci si aspettava da Lady Jessica: che, cioè, prendesse un coraggioso e aitante trovatore al suo servizio, così come aveva fatto per un altro coraggioso, Gurney Halleck. Meglio che Mohandis fosse spedito per la sua strada, anche se le bruciava l'idea di concedere un così splendido esemplare a Farad'n. – Quest'uomo andrà da Farad'n, – dichiarò Jessica. – Assicurati che gli vengano dati i soldi per il viaggio. Che la sua lingua vada a strappar la pelle alla Casa di Corrino, vedremo se riuscirà a sopravvivere. Alia fissò il pavimento, furiosa, poi esibì, ma troppo in ritardo, un sorriso. – C'inchiniamo alla saggezza di Lady Jessica, – disse, e invitò con un gesto Mohandis ad allontanarsi.

Non è andata come speravi, pensò Jessica, ma il comportamento di Alia indicava che era pronta una prova più importante. Venne fatto entrare un altro supplice. Jessica, riflettendo sulla reazione di sua figlia, fu rosa dal dubbio. Qui dovette servirsi della lezione appresa dai gemelli. Dato per scontato che Alia, uno dei pre-nati, era ormai un'abominazione... doveva conoscere, comunque, sua madre come se stessa. E questo non concordava col fatto che Alia avesse giudicato male quelle che sarebbero state le reazioni di sua madre di fronte al trovatore. Perché mai Alia ha messo in scena questo confronto? Per distrarmi? Ma non c'era più tempo per riflettere. Il secondo postulante aveva ormai preso posto sotto i troni gemelli, con a fianco il suo avvocato. Si trattava, questa volta, di un Fremen, un vecchio col volto segnato dal marchio dei nati nel deserto. Non era alto, ma il suo corpo sottile e la lunga dishdasha, che abitualmente avrebbe indossato sopra la tuta distillante gli davano un aspetto maestoso. La veste era perfettamente intonata col volto magro e il naso adunco, e gli occhi azzurri sull'azzurro. Non aveva la tuta distillante, e sembrava a disagio senza di essa. L'enorme volume della Sala delle Udienze doveva sembrargli simile ai pericolosi spazi aperti che derubavano la carne della sua inestimabile umidità. Sotto il cappuccio, in parte rovesciato all'indietro, s'intravedeva la keffiya, il copricapo annodato di un Naib. – Sono Ghadhean al-Fali, – dichiarò il Fremen, appoggiando un piede sul primo dei gradini che portavano ai troni, per sottolineare la sua posizione sociale, superiore a quella della folla. – Ero uno dei commando della morte di Muad'Dib, e sono qui per una questione del deserto. Alia s'irrigidì appena, ma questo bastò a tradirla. Al-Fali era uno dei nomi scritti sul foglio che conteneva la richiesta di concedere a Jessica un seggio al Consiglio. Una questione del deserto! pensò Jessica. Ghadhean al-Fali aveva parlato prima che il suo avvocato avesse iniziato la sua arringa. Con quella sua dichiarazione formale li aveva avvertiti che lui era lì per esporre qualcosa che riguardava l'intero pianeta... e parlava con l'autorità di un fedaykin che aveva rischiato la morte per il bene di Dune a fianco di Paul Muad'Dib. Jessica dubitò che Ghadhean al-Fali avesse parlato di questo, quando aveva chiesto udienza a Javid o all'Avvocato Generale. E il suo dubbio trovò subito conferma quando un rappresentante del clero si precipitò correndo dal fondo della sala agitando

un panno nero, la richiesta ufficiale di una sospensione. – Mie Signore! – gridò il funzionario. – Non ascoltate quest'uomo! Si è introdotto con falsi... Jessica stava fissando il sacerdote che correva verso di loro, ma colse ugualmente il fugace movimento della mano di Alia che segnalava, nel vecchio linguaggio di battaglia degli Atreides: «Adesso!» Non riuscì a capire a chi fosse diretto il segnale, ma agì istintivamente, gettandosi a sinistra, trascinando con sé il trono e tutto il resto. Quando toccò il suolo, rotolò lontana dal trono che si schiantò a terra, e balzò nuovamente in piedi nel medesimo istante in cui si faceva udire il secco scoppiettio di una pistola Maula: una... due volte. Ma Jessica già al primo crepitio aveva sentito un violento strattone alla manica sinistra, e si era tuffata tra la folla dei cortigiani e dei postulanti sotto il palco. Notò che Alia non si era mossa. Jessica, stretta da ogni parte dalla gente, si fermò. Vide che Ghadhean al-Fali era balzato al di là del palco, ma il suo avvocato era rimasto nella posizione originaria. La scena si era svolta fulminea, come in un'imboscata, ma tutti nella Sala ben sapevano come avrebbe reagito, colto di sorpresa, chiunque avesse dei riflessi bene addestrati. Alia e l'avvocato erano rimasti immobili, smascherati agli occhi di tutti. Un tumulto verso la metà della sala attirò l'attenzione di Jessica. Ella si aprì a forza la strada tra la folla e vide quattro postulanti che tenevano ben stretto il rappresentante del clero; il panno nero giaceva ai suoi piedi, una pistola Maula spuntava tra le sue pieghe. Al-Fali arrivò di corsa e passò davanti a Jessica. Il suo sguardo andò dalla pistola al sacerdote. Il Fremen lanciò un grido di rabbia, staccò una mano dalla cintura e vibrò al sacerdote un colpo achag con le dita rigide. Colse il sacerdote alla gola, provocando un blocco delle vie respiratorie che in pochi istanti l'avrebbe ucciso. Non lo degnò neppure di uno sguardo, ma si voltò furioso verso il palco: – Dalal-il 'an-nubuwwa! – gridò il vecchio Naib, portando ambedue i palmi delle mani sulla fronte e poi riabbassandoli. – I Qadis as-Salaf non consentiranno che mani assassine m'impediscano di parlare, e se non sarò io a trucidare chi vorrà fermarmi, altri lo faranno! Crede di essere stato lui il bersaglio. Jessica lo fissò, stupita, poi lanciò un'occhiata alla manica del suo aba e infilò un dito nel foro lasciato dal proiettile della pistola Maula. Avvelenato, non c'era dubbio.

I postulanti avevano lasciato cadere a terra il corpo del sacerdote. Questi giaceva sul pavimento, morente, la laringe fracassata. Jessica fece un gesto imperioso a due cortigiani sconvolti accanto a lei, e disse: – Voglio che quest'uomo sia salvato, perché sia possibile interrogarlo. Se muore, morirete anche voi! – Poiché i due esitavano, lanciando occhiate verso il palco, Jessica usò la Voce su di loro: – Muovetevi! I due si mossero. Jessica si portò al fianco di al-Fadi e gli diede di gomito: – Sei uno sciocco, Naib! Erano me che volevano, non te. Molte persone intorno a loro udirono queste parole. Nell'improvviso, sbigottito silenzio che seguì, al-Fadi tornò a fissare il palco, dove uno dei troni era rovesciato e Alia sedeva immobile sull'altro. La comprensione che gli si disegnò sul volto avrebbe potuto esser letta da un novizio. – Fedaykin, – disse ancora Jessica, ricordandogli così l'antico servizio reso alla famiglia, – noi che siamo stati scottati dal fuoco, sappiamo quanto meglio si resiste schiena a schiena. – Fidati di me, mia Signora, – replicò al-Fadi, afferrando immediatamente ciò ch'ella intendeva dire. Un grido soffocato alle spalle di Jessica la fece voltare di scatto; così facendo sentì al-Fadi che si spostava, appoggiando la schiena contro la sua. Una donna, nel costume sfarzoso dei Fremen di città si stava raddrizzando, dopo essersi piegata sul sacerdote al suolo. Dei due cortigiani non v'era traccia. La donna neppure guardò Jessica, ma alzò la voce nell'antico lamento funebre della sua gente: la chiamata per quelli che lavoravano ai distillatori della morte, perché venissero a raccogliere l'acqua dal corpo del defunto per versarla nella cisterna della tribù. Era un lamento bizzarramente incongruo, uscendo da una donna così vestita. Jessica percepì, palpabile, la persistenza delle antiche usanze, pur leggendo la falsità in quella donna di città. Ovviamente, la donna sfarzosamente vestita aveva ucciso il sacerdote, per assicurarsi che la sua bocca restasse sigillata per sempre. Perché si è presa tanta pena? si chiese Jessica. Bastava soltanto aspettare che l'uomo morisse per asfissia. Certamente era un atto disperato, dettato da una profonda paura. Alia sedeva in bilico sull'orlo del trono, gli occhi vigili, scintillanti. Una donna magra, con le tipiche insegne delle guardie di Alia, sfiorò Jessica, si curvò sul corpo del sacerdote, poi si girò verso il palco: – È morto. – Fallo portar via, – gridò Alia. Poi, con un gesto imperioso alle guardie

ai piedi del palco – Raddrizzate il trono di Lady Jessica. Così, vuol far l'indifferente, anzi, l'indignata? pensò Jessica. Alia credeva forse che qualcuno si sarebbe lasciato ingannare? Al-Fali aveva invocato i Qadis as-Salaf, appellandosi ai Santi Padri della mitologia dei Fremen, come ai suoi protettori. Ma nessun intervento soprannaturale poteva aver introdotto una pistola Maula in quella sala, dove nessun'arma era consentita. Una cospirazione che coinvolgeva la gente di Javid, quella era la sola risposta, e l'impassibilità di Alia durante l'attentato aveva rivelato a tutti che lei faceva parte di quella cospirazione. Il vecchio Naib parlò a Jessica senza voltarsi: – Accetta le mie scuse, mia Signora. Noi del deserto siamo venuti da te perché tu rappresenti la nostra ultima disperata speranza, e ora abbiamo visto che tu hai ancora bisogno di noi. – Il matricidio non si adatta bene a mia figlia, – commentò Jessica. – Le tribù sapranno tutto questo, – le promise al-Fali. – Se avete un tale disperato bisogno di me, – disse Jessica, – perché non mi avete avvicinata durante le cerimonie, a Sietch Tabr? – Stilgar non l'avrebbe permesso. Ahhh, pensò Jessica. La regola dei Naib. A Tabr, la parola di Stilgar è legge. Il trono rovesciato era stato raddrizzato. Alia invitò con un gesto sua madre a tornare, e disse: – Tutti avete visto la morte di quel sacerdote traditore. Quelli che mi minacciano, muoiono. – Lanciò un'occhiata ad alFali. – A te i miei ringraziamenti, Naib. – Grazie... per aver commesso un errore, – mormorò al-Fali. Guardò Jessica: – Ti chiedo perdono, la rabbia mi ha spinto a uccidere un uomo che avrebbe dovuto essere interrogato. Jessica mormorò: – Ricordati di quei due cortigiani e della donna con quell'abito vistoso, fedaykin. Voglio che vengano presi e interrogati. – Sarà fatto, – annuì al-Fali. – Se usciremo vivi di qui, – disse ancora Jessica. – Vieni, torniamo ai nostri posti, a fare la nostra parte. – Come vuoi tu, mia Signora. Si avvicinarono insieme al palco. Jessica risalì i gradini e riprese la propria posizione accanto ad Alia. Al-Fali si fermò in basso, davanti al podio. – Dunque? – fece Alia. – Un momento, figlia, – esclamò Jessica. Sollevò la manica ed espose il

foro agli occhi della folla, facendovi passare attraverso un dito. – L'attacco era rivolto contro di me. La pallottola mi ha quasi colpito, per quanto io l'abbia schivata fulmineamente. E, come tutti potete constatare, la pistola Maula non è più laggiù. – Puntò il dito. – Chi l'ha presa? Nessuno rispose. – Forse, se cercassimo bene... – insisté Jessica. – Che sciocchezze! – esclamò Alia. – Ero io la... Jessica si voltò a guardare sua figlia. Fece un gesto con la mano sinistra: – Qualcuno, laggiù, ha la pistola. Non temi che... – L'ha presa una delle mie guardie! – esclamò Alia. – Allora quella guardia consegnerà a me l'arma, – disse Jessica. – L'ha già portata via. – Che ammirevole sollecitudine, – commentò Jessica. – Che cosa vuoi dire? – chiese Alia. Jessica si permise un sorriso sardonico. – Avevo dato l'incarico a due dei tuoi cortigiani di salvare quel sacerdote traditore. Li avevo avvertiti che sarebbero morti, se lui fosse morto. Moriranno. – Lo proibisco! Jessica si limitò a scrollare le spalle. – Qui abbiamo un valoroso fedaykin. – Alia indicò al-Fali. – Questa disputa può aspettare. – Potrà aspettare in eterno, – replicò Jessica, parlando in chakobsa. Le sue parole, doppiamente taglienti, dissero ad Alia che niente, ormai, avrebbe potuto fermare quella sentenza di morte. – Vedremo, – ribatté Alia. Si rivolse ad al-Fali. – Perché ti trovi qui, Ghadhean al-Fali? – Per incontrare la madre di Muad'Dib, – dichiarò il Naib. – I pochi, veri fedaykin, quei fratelli che hanno servito suo figlio, hanno accomunato le loro magre risorse per consentirmi di pagare il mio ingresso qua dentro, superando gli esosi guardiani che isolano gli Atreides dalla realtà di Arrakis. Alia replicò: – Qualunque cosa i Fedaykin richiedano, debbono soltanto... – È venuto per incontrare me, – l'interruppe Jessica. – Qual è il tuo bisogno disperato, fedaykin? Alia s'intromise: – Sono io che parlo in nome degli Atreides, qua dentro! Che cos'è, dunque... – Taci, abominazione assassina! – le rinfacciò Jessica. – Tu hai tentato

di farmi uccidere, figlia! Lo dico, acciocché tutti, qui, lo sappiano. Non potrai far uccidere tutti quelli che si trovano in questa sala, per obbligarli al silenzio... come è stato fatto tacere per sempre quel sacerdote. Sì, il colpo vibrato dal Naib ha gravemente ferito quell'uomo, ma sarebbe stato possibile salvarlo. Avrei potuto interrogarlo! Tu non ti preoccupi affatto che qualcuno l'abbia azzittito per sempre. Assordaci quanto vuoi con le tue proteste, la tua colpevolezza è chiaramente scritta nelle tue azioni! Alia restò immobile in un silenzio di ghiaccio, pallida in volto. Jessica studiò il gioco delle emozioni sul volto di sua figlia, vide un terribile, familiare agitarsi delle mani di Alia, un gesto inconscio che un tempo aveva identificato un nemico mortale degli Atreides. Le dita di Alia si muovevano ritmicamente, dando leggeri colpi: il mignolo due volte, l'indice tre, l'anulare due, il mignolo una volta, l'anulare due volte... e quindi tutto si ripeteva nello stesso ordine. Il vecchio Barone! Alia si accorse dello sguardo di Jessica, abbassò gli occhi sulle proprie mani, fermò le dita, tornò a fissare sua madre e colse nel suo sguardo l'orrifico riconoscimento. Un sorriso di gioia maligna aleggiò sulle labbra di Alia. – Così, ti stai vendicando di noi, – bisbigliò Jessica. – Sei impazzita, madre? – chiese Alia. – Vorrei esserlo, – rispose Jessica. E pensò: Ella sa che informerò la Sorellanza. Lo sa. Potrebbe perfino sospettare che io lo dica ai Fremen, costringendola alla Prova della Possessione. Non può lasciarmi uscire viva da qui. – Mentre noi discutiamo, il nostro coraggioso fedaykin aspetta, – disse Alia. Jessica si costrinse a riportare l'attenzione sul vecchio Naib. Dominò le proprie reazioni, e replicò: – Sei venuto per incontrare me, Ghadhean. – Sì, mia Signora. Noi del deserto vediamo accadere cose terribili. I Piccoli Creatori escono dalla sabbia, com'è stato predetto dalle più antiche profezie. Shai-hulud non si trova più, fuorché nelle profondità della Regione Vuota. Abbiamo abbandonato il nostro amico, il deserto! Jessica lanciò un'occhiata ad Alia, che si limitò a farle cenno di continuare. Jessica guardò la folla raccolta nella sala e vide su ogni volto tensione e sbigottimento. L'importanza di quella lotta tra madre e figlia non era sfuggita alla folla, ed essi dovevano chiedersi perché mai l'udienza continuasse. Jessica riportò la sua attenzione su al-Fali. – Ghadhean, che cos'è questo discorso sui Piccoli Creatori e la scarsità

dei vermi? – Madre dell'Umidità, – replicò lui, usando l'antico titolo Fremen, – il Kitab al-Ibar ci aveva avvertiti di questo. Noi ti supplichiamo. Nessuno dimentichi che il giorno in cui Muad'Dib morì, Arrakis sussultò, sconvolto! Noi non possiamo abbandonare il deserto. – Ach! – Alia sogghignò. – La canaglia superstiziosa del Deserto Interno teme la trasformazione ecologica. Essi... – Ho capito, Ghadhean, – disse Jessica. – Se i vermi scompaiono, scompare anche la spezia. E se la spezia scompare, quale moneta rimarrà per pagarci la via? Interiezioni stupite, rantoli e bisbigli si sparsero per la Grande Sala. L'intera cavità riecheggiò quei suoni. Alia scrollò le spalle: – Sciocca superstizione! Al-Fali sollevò la mano destra, indicando Alia: – Sto parlando alla Madre dell'Umidità, non alla Coan-Teen! Alia strinse convulsamente i braccioli del trono, ma restò seduta. Al-Fali guardò Jessica: – Un tempo era la terra dove non cresceva nulla. Ora è coperta di piante, che si diffondono come pidocchi su una ferita. Vi sono state nuvole e piogge lungo l'intera Cintura di Dune! Pioggia, mia Signora! Oh, preziosa madre di Muad'Dib, così come il sonno è il fratello della morte, così è la pioggia sulla Cintura di Dune. È la morte di noi tutti. – Noi facciamo soltanto ciò che Liet-Kynes e Muad'Dib ci hanno indicato, – protestò Alia. – Che cosa sono tutte queste ciance superstiziose? Noi riveriamo le parole di Liet-Kynes, il quale ci disse: «Voglio vedere questo pianeta avvolto da una coltre di piante verdi.» E così sarà. – E i vermi e la spezia? – chiese Jessica. – Ci sarà sempre un po' di deserto, – ribatté Alia. – I vermi sopravviveranno. Mente, pensò Jessica. Perché mente? – Aiutaci, Madre dell'Umidità, – la supplicò al-Fali. Jessica all'improvviso fu come avvolta da una doppia visione; la sua coscienza barcollava, a causa delle parole del vecchio Naib. Era l'inequivocabile adab, la memoria ossessiva che si risvegliava da sola. Essa giunse senza alcun preavviso e inchiodò i suoi sensi mentre la lezione del passato s'imprimeva in lei. Si sentì intrappolata in essa come un pesce nella rete. Eppure, avvertì l'esigenza di questa memoria, come un momento essenzialmente umano, ogni più piccolo frammento di essa era un ricordo

vivo della creazione. Ogni singolo elemento di quella lezione-ricordo era vero, ma inafferrabile, nel suo continuo mutamento, e lei conobbe in tal modo un'esperienza estremamente vicina – più di così non avrebbe mai potuto – alla morsa di quella prescienza che aveva afflitto suo figlio. Alia ha mentito perché è posseduta da qualcuno che vuole distruggere gli Atreides. Lei, in persona, ha iniziato questa distruzione. Quindi al-Fali ha detto la verità: i vermi sono condannati, a meno che il corso della trasformazione ecologica non venga modificato. Quella rivelazione alterò i suoi sensi a tal punto, che Jessica vide la folla davanti a lei, nella sala, muoversi al rallentatore, ognuno con le sue inconfessabili mansioni bene identificate. Jessica riconobbe subito quelli che avrebbero dovuto impedirle di uscir viva da lì! E il suo tragitto tra loro si delineò chiaramente davanti a lei, come tracciato da una vivida luce... Un'improvvisa confusione, uno di essi che fingeva d'inciampare contro un altro, interi gruppi di persone che si aggrovigliarono. Ad Alia non importava affatto di creare, così, una martire. No: all'essere mostruoso che la possedeva questo non importava affatto. Ora, in quell'istante sospeso in cui il tempo si era fermato, Jessica scelse il modo per salvare il vecchio Naib e inviargli un messaggio. La via per passare indenne attraverso i presenti le era rimasta indelebilmente chiara. Quant'era semplice! Quella gente... erano soltanto degli sciocchi lacchè, gli occhi accecati dalla loro stessa stoltezza, le spalle inchiodate in inamovibili posizioni di difesa. La posizione di ciascuno di essi, sul pavimento della Grande Sala, poteva essere valutata come il risultato di un certo numero di collisioni statiche, in grado però di squarciare la pelle, rivelando gli scheletri. I loro corpi, i loro indumenti, i loro volti, erano gli specchi fedeli dei loro inferni individuali – i petti incavati da terrori nascosti, il richiamo scintillante di un gioiello che diventava il sostituto di un'armatura; le bocche sentenziavano, atterrite, dogmi pappagalleschi, cattedrali di sopracciglia ad arco acuto esibivano sentimenti religiosi d'una vertiginosa altezza, che il loro ventre negava. Jessica percepì la dissoluzione delle forze creatrici liberate su Arrakis. La voce di al-Fali era stata come un distrans per la sua anima, risvegliando la bestia che si celava nella parte più profonda di lei. Fulmineamente, Jessica si trasferì dall'adab all'universo del movimento, ma era un universo differente da quello che aveva assorbito la sua attenzione un attimo prima. Alia fece per parlare, ma Jessica esclamò: – Silenzio! – e aggiunse: –

Molti tra voi temono che io sia ritornata senza alcuna riserva alla Sorellanza. Ma da quel giorno nel deserto, quando i Fremen hanno fatto dono della vita a me e a mio figlio, io sono rimasta Fremen! – E qui passò all'antica lingua che soltanto coloro, fra i presenti, che ne avrebbero potuto trarre profitto, erano in grado di capire: – Onsar akhaka zeliman aw maslumen! – Sostenete vostro fratello in questo momento di bisogno, che egli sia giusto o ingiusto! Le sue parole ottennero l'effetto desiderato, un impercettibile cambiamento nelle posizioni tra la folla, nella sala. Jessica tuonò: – Questo Ghadhean al-Fali, un onesto Fremen, vieni qui a dirmi, oggi, ciò che da tempo altri avrebbero dovuto rivelarmi. Che nessuno osi negarlo! La trasformazione ecologica è diventata una tempesta priva di controllo! Dovunque, nella sala, si videro mute conferme. – E mia figlia ne gode! – proclamò ancora Jessica. – Mek-tub al-mellah! Voi incidete le ferite nella mia pelle e vi spargete sopra il sale! Perché gli Atreides hanno trovato una vera casa, quaggiù? Perché il Mohalata era una cosa naturale per noi. Per gli Atreides il governo è sempre stata una forma di associazione per il reciproco aiuto: Mohalata, come i Fremen l'hanno sempre conosciuta. Ora, guardate lei! – Jessica indicò Alia. – Lei ride da sola di notte in contemplazione della propria malvagità! La produzione della spezia crollerà a zero, o nel migliore dei casi a una piccola frazione del suo livello primitivo! E quando ciò sarà risaputo fuori di questo pianeta... – Le nostre riserve acquisteranno un valore inestimabile, questo ci saremo garantiti! – gridò Alia. – Ci saremo garantiti un posto all'inferno! – tuonò Jessica. Alia prese a parlare nel più antico chakobsa, il linguaggio privato degli Atreides, con i suoi ticchettii e gli impossibili toni gutturali: – Ora lo sai, madre! Credevi forse che una nipote del barone Harkonnen non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione tutte le voci che hai riversato nella mia consapevolezza, prima ancora che fossi nata? Quando, come una furia, mi ribellai contro quello che mi avevi fatto, mi è stato sufficiente chiedermi come si sarebbe comportato il Barone. E lui ha risposto! Capisci, cagna di una Atreides? Lui ha risposto a me! Jessica sentì tutto il veleno di quella voce e la conferma delle sue congetture. Abominazione! Alia era stata sopraffatta dall'interno, posseduta da quel cahueit del male, il barone Vladimir Harkonnen. Ora il Barone in

persona stava parlando dalla sua bocca, incurante di ciò che rivelava. Egli voleva che Jessica vedesse la sua vendetta, che si rendesse conto del fatto che lui, ora, non poteva essere scacciato! Essi credono che io, ora, resti qui, immobile e impotente, colpita da ciò che mi è stato rivelato, pensò Jessica. E nel medesimo istante si lanciò lungo la strada che l'adab le aveva rivelato, gridando: – Fedaykin, seguitemi! Risultò che c'erano sei fedaykin nella sala; cinque di loro riuscirono a passare con lei.

Quando io sono più debole di te, ti chiedo la libertà perché ciò è in accordo con i tuoi princìpi. Quando sono più forte di te, io ti tolgo la libertà perché ciò è in accordo con i miei princìpi. – Parole di un antico filosofo (attribuite da Harq al-Ada a un certo Louis Veuillot)

Leto si sporse fuori dall'uscita nascosta del sietch e vide il profilo del dirupo torreggiare, incurvandosi, sopra di lui, limitandogli la visuale. La luce del tardo pomeriggio proiettava lunghe ombre tra i solchi verticali del dirupo. Una farfalla-scheletro svolazzava dentro e fuori, tra le ombre, le sue ali palmate erano un merletto trasparente contro la luce. Com'era delicata quella farfalla, pensò Leto, se paragonata al durissimo ambiente in cui viveva! Proprio davanti a lui c'era la piantagione di albicocchi; fra gli alberi, un gruppo di bambini raccoglieva i frutti caduti. Oltre il frutteto, scorreva il qanat. Egli e Ghanima erano riusciti a sfuggire alle proprie guardie cacciandosi in mezzo a un folto gruppo di lavoranti comparsi all'improvviso. Era stato poi abbastanza semplice strisciare lungo un condotto d'aria fino all'uscita nascosta. Ora dovevano soltanto mescolarsi a quei bambini, raggiungere il qanat, scivolar dentro la galleria d'ispezione. Qui, essi si sarebbero mossi a pochi centimetri dai pesci predatori che impedivano alla trota delle sabbie d'imprigionare in una ciste l'acqua per l'irrigazione della tribù. Per i Fremen era inconcepibile che un essere umano affrontasse coscientemente il rischio di cadere dentro quell'acqua. Leto uscì fuori dall'anfratto. Il dirupo, sopra di lui, sembrò raddrizzarsi, perdendosi in lontananza su entrambi i lati. Ghanima lo seguì dappresso. Entrambi avevano dei cesti da frutta, di fibra di spezia intrecciata, e ogni cestino conteneva un fagotto strettamente legato: un fremkit, una pistola Maula, un cryss... e i nuovi indumenti inviati da Farad'n. Ghanima seguì il fratello nel frutteto, e ambedue si mescolarono ai bambini che vi stavano lavorando. Tutti avevano il volto nascosto dalle maschere delle tute distillanti: qui, Leto e Ghanima erano soltanto due lavoranti in più. Ghanima, però, sentì che quest'impresa la stava allontanando dalla vita di sempre, dai confini che l'avevano sempre protetta. Quant'erano pochi, e facili, quei passi che li stavano portando verso il pericolo! Quei sontuosi indumenti, il dono di Farad'n, là nei canestri, davano uno scopo ben preciso alla loro impresa. Ghanima l'aveva accentuato

ricamando il loro motto personale, «Noi condividiamo», in chakobsa, sopra l'emblema del falco che figurava sul petto dei vestiti. Presto sarebbe giunto il crepuscolo e, oltre il qanat che segnava il confine delle coltivazioni del sietch, sarebbe scesa una notte inesprimibile, struggente, quale pochi luoghi nel cosmo potevano eguagliare. Un mondo desertico soffuso da una morbida luce, così immenso e vuoto, pregno della sensazione che ogni creatura laggiù, tra quelle sabbie, era sola nel suo universo. – Ci hanno visti, – bisbigliò Ghanima, curvandosi a lavorare accanto a suo fratello. – Le guardie. – No... gli altri. – Oh, bene. – Dobbiamo far presto, – lei disse. Leto annuì, e lentamente si allontanò dal dirupo, attraverso il frutteto, il pensiero fisso a un detto di suo padre: Tutto dev'esser mobile nel deserto, altrimenti perisce. Lontano, affioranti in mezzo alla sabbia, riuscì a distinguere le rocce dell'Attendente. Queste gli ricordarono la necessità di affrettarsi. Quelle rocce, rigide, statiche, si ergevano enigmatiche, consumandosi anno dopo anno sotto l'aggressione delle sabbie sospinte dal vento. Un giorno, anche l'Attendente sarebbe divenuto sabbia. Mentre si avvicinavano al qanat, udirono della musica uscire da uno degli ingressi più alti del sietch. L'eseguiva un complesso Fremen vecchio stile, due flauti diritti, tamburelli, timpani confezionati con plastica di spezia e pelli d'animale tese al massimo. Nessuno osava chiedere quali animali, mai, su quel pianeta, potessero fornire una pelle di grandezza sufficiente... Stilgar ricorderà senza dubbio ciò che gli dissi a proposito di quella spaccatura sull'Attendente, pensò Leto. Si precipiterà col buio, quando sarà troppo tardi... e allora saprà. Raggiunsero infine il qanat. Si lasciarono scivolare nell'imboccatura di un condotto, fino alla cavità interna e alla stretta sporgenza utilizzata per i controlli. Là dentro era buio, tetro, e udirono il diguazzare dei pesci predatori. La trota della sabbia che avesse tentato di privarli di quell'acqua si sarebbe trovata, col suo corpo molle, alla mercé di quei pesci. Anche gli esseri umani dovevano stare attenti. – Guarda dove metti i piedi, – raccomandò Leto a Ghanima. Si spostò sulla viscida sporgenza, riafferrando con i suoi ricordi tempi e luoghi che

la sua carne non aveva mai conosciuto. Ghanima lo seguì. Alla fine del qanat si spogliarono, conservando soltanto le tute distillanti, sulle quali infilarono i nuovi vestiti. Ammucchiarono i vecchi indumenti Fremen sulla sporgenza, poi si arrampicarono per un altro condotto e uscirono alla superficie. Strisciarono sopra una duna e discesero sul lato opposto. Qui, dove nessuno avrebbe potuto vederli dal sietch, si sedettero, affibbiandosi le pistole Maula e i cryss, sistemando i fremkit sulle spalle. Non udivano più la musica. Leto si alzò in piedi e s'incamminò lungo l'avvallamento fra le dune. Ghanima lo seguì dappresso, muovendosi col passo aritmico e silenzioso dei Fremen. Giunti sulla cresta di ogni duna, essi strisciavano al suolo fino a trovarsi nuovamente al riparo, e qui si guardavano alle spalle, alla ricerca di eventuali inseguitori. Ma, quando infine raggiunsero le prime rocce, nessun cacciatore era emerso dal deserto. All'ombra delle rocce, essi costeggiarono l'Attendente, quindi si arrampicarono fino a una sporgenza che sovrastava il deserto. Lontano, sul bled, vi era un ammiccare di colori. L'aria che stava oscurandosi aveva la limpidezza del più delicato cristallo. Il panorama che riempì i loro sguardi era immenso e spietato, non si arrestava da nessun lato: non dava riposo agli occhi, nessun punto su cui soffermarsi. Lo sguardo scivolava su quelle lontananze con l'angoscia del vuoto assoluto. Questo è l'orizzonte dell'eternità, pensò Leto. Ghanima si acquattò accanto a suo fratello, pensando: L'attacco arriverà presto. E tese l'orecchio, cercando di captare anche i rumori più sottili, tutto il suo corpo trasformato in un unico organo di senso teso allo spasimo. Leto, immobile accanto a lei, era ugualmente vigile. Ora egli sperimentava il culmine dell'addestramento, la risultante di tutte le esperienze vissute dalla miriade di entità-fantasma che condividevano la sua coscienza. Nella desolazione sabbiosa che lo circondava, egli era più che mai legato ai sensi, a tutti i suoi sensi. La sua vita cumulava in sé ogni sua percezione, tesa alla sopravvivenza. Qualche istante dopo, Ghanima si arrampicò tra le rocce e guardò attraverso una spaccatura in direzione del sietch dal quale erano venuti. La sicurezza del sietch le sembrò lontana un'intera vita, una massa di dirupi incolori che s'innalzavano in una lontananza bruno-purpurea, i bordi sfocati dalla polvere anche sui margini dove il sole proiettava i suoi ultimi

raggi argentei. Non vide ancora nessun segno d'inseguitori. Tornò al fianco di Leto. – Sarà un animale predatore, una belva, – disse Leto. – Questo è il frutto delle mie deduzioni. Ho rielaborato tutti i dati tre volte. – Forse hai smesso troppo presto, – obiettò Ghanima. – Sarà più di un animale. La Casa di Corrino ha senz'altro imparato a non puntare tutto su un'unica carta. Leto annuì. All'improvviso sentì gravare sulla sua mente tutta la moltitudine di vite che la sua diversità gli imponeva: tutte quelle vite, sue ancora prima di nascere. Era saturo di vita e avrebbe voluto sfuggire alla propria coscienza. Il mondo interiore era una bestia possente che avrebbe finito per divorarlo. Irrequieto, si alzò in piedi, a sua volta si arrampicò fino alla spaccatura dov'era già stata Ghanima e scrutò i dirupi del sietch. Laggiù, in basso, vide come il qanat tracciasse un taglio netto fra la vita e la morte. Poté distinguere, ai margini dell'oasi, la salvia del cammello, l'erba-cipolla, l'erba-piuma del Gobi, l'alfalfa. All'ultimo bagliore del giorno, riuscì a distinguere le macchie nere degli uccelli che beccavano l'alfalfa saltellando qua e là. Più distanti, le barbe delle pannocchie erano agitate dal vento e le ombre nere tracciavano lunghi disegni mobili fino al frutteto. Quel movimento concentrò la sua attenzione, e Leto si accorse che quelle ombre nascondevano, nel loro fluire, un mutamento più grande, una sorta di silenzioso tributo agli arcobaleni palpitanti in quel cielo cosparso d'argento. Che cosa accadrà là fuori? si chiese. Egli sapeva che sarebbe stata o la morte, o la finzione della morte, con lui stesso per posta. Tra loro due, sarebbe toccato a Ghanima ritornare, convinta della realtà di una morte che aveva visto o, quanto meno, che in tutta sincerità avrebbe riferito di aver visto, a causa di una profonda costrizione ipnotica che l'avrebbe convinta che suo fratello fosse stato realmente trucidato. Le incognite di quel luogo l'ossessionavano. Rifletté sulla facilità con cui avrebbe potuto soccombere alla tentazione di usare la prescienza, al rischio di proiettare la sua coscienza in un futuro assoluto, immutabile. La breve e limitata visione del suo sogno, tuttavia, era già abbastanza brutta. Sapeva che non avrebbe mai osato rischiare una visione più ampia. Pochi istanti dopo, fu nuovamente al fianco di Ghanima. – Ancora nessun inseguimento, – disse.

– Le bestie che scaglieranno addosso a noi saranno grosse, – disse Ghanima. – Forse avremo il tempo di vederle arrivare. – No, se verranno di notte. – Molto presto sarà buio, – sospirò lei. – È tempo che scendiamo al nostro posto. – Indicò le rocce alla loro sinistra, dove la sabbia trasportata dal vento aveva scavato una nicchia nel basalto. Era grande abbastanza per contenerli, ma sufficientemente stretta per tener fuori le creature più grosse. Leto era riluttante a infilarsi là dentro, ma sapeva che avrebbe dovuto farlo. Quello era il posto che aveva indicato a Stilgar. – Potrebbero ucciderci davvero, – mormorò. – È il rischio che dobbiamo correre, – ella replicò. – Questo dobbiamo a tuo padre. – Non lo discuto. E pensò: Questa è la strada giusta. Noi stiamo facendo la cosa giusta. Ma sapeva anche quanto fosse pericoloso essere nel giusto in quell'universo. Ora, la loro sopravvivenza richiedeva vigore, abilità, e, in ogni istante, una precisa coscienza dei loro limiti. Le abitudini dei Fremen erano la loro miglior difesa, e le conoscenze del Bene Gesserit un'efficace riserva di forze. Ora, entrambi pensavano come veterani Atreides, rotti ad ogni battaglia, senz'altro baluardo che non fosse la rocciosa durezza dei Fremen, la quale, tuttavia, non traspariva neppure minimamente dai loro corpi infantili e dai loro lussuosi indumenti da cerimonia. Leto sfiorò l'elsa del cryss dalla punta avvelenata che gli pendeva dalla cintura. Inconsciamente, Ghanima ripeté quel gesto. – Scendiamo, ora? – chiese Ghanima. Mentre parlava, colse, in basso, un movimento... un piccolo movimento, reso meno minaccioso dalla distanza. L'irrigidirsi di Ghanima mise Leto in guardia prima ancora che lei pronunciasse una parola. – Tigri, – disse lui. – Tigri Laza, – lo corresse lei. – Ci hanno visto, – proseguì lui. – Faremo meglio ad affrettarci, – disse Ghanima. – Una Maula non riuscirà mai a fermare quelle belve. Le avranno addestrate molto bene. – Hanno senz'altro un uomo che le guida, in qualche punto qui intorno, – osservò Leto, mentre la precedeva, discendendo le rocce a rapidi balzi, verso sinistra. Ghanima era d'accordo con lui, ma lo tenne per sé, per risparmiare il fiato. Certamente doveva esserci un uomo da qualche parte,

lì intorno. Non si poteva permettere a quelle tigri di andarsene liberamente in giro, finché non fosse giunto il momento. Le tigri si muovevano rapidamente negli ultimi barlumi di luce, saltando da una roccia all'altra. Erano ancora guidate dall'acutezza dei loro organi visivi; molto presto, però, sarebbe discesa la notte, e sarebbe toccato alla finezza del loro udito guidarle. Il grido di un uccello notturno, simile a un rintocco di campana, si levò dagli anfratti dell'Attendente, per sottolineare quel cambiamento. Le creature delle tenebre stavano già raggiungendo in fretta le ombre dei crepacci erosi dagli elementi. Le tigri erano ancora visibili ai gemelli che correvano. In quegli animali fluiva un torrente d'energia, ogni loro movimento dava la sensazione di un'onda di fulva sicurezza. Leto sentì di aver raggiunto quell'istante e quel luogo per liberarsi della propria anima. Correva con la confortante consapevolezza che lui e Ghanima avrebbero raggiunto in tempo quello stretto incavo tra le rocce, ma continuava, affascinato, a riportare il suo sguardo sulle belve che si avvicinavano. Un solo passo falso e siamo perduti, pensò. Questo pensiero cancellò drasticamente la sua sicurezza, e rese più precipitosa la sua corsa.

Voi Bene Gesserit definite la vostra attività del Panoplia Prophetica una «Scienza della Religione». Molto bene. Io, che sto cercando un tipo tutto diverso di «scienziato», trovo che è una definizione appropriata. Voi avete creato i vostri miti, certo, ma così fanno tutte le società. Tuttavia, io debbo mettervi in guardia. Voi vi state comportando nell'identico modo di molti altri scienziati fuorviati. Le vostre azioni rivelano che voi desiderate togliere alla vita qualcosa d'essenziale. È tempo che vi sia ricordato ciò che voi stesse professate: non c'è nessuna cosa che si possa ottenere senza il suo opposto. – Il Predicatore di Arrakeen: Messaggio alla Sorellanza

Durante l'ora che precedette l'alba Jessica restò seduta, immobile, sopra un consunto tappeto di panno di spezia. Intorno a lei vi erano le rocce spoglie di un antico e povero sietch, uno dei primi insediamenti, in assoluto. Si trovava sotto l'orlo del Crepaccio Rosso, protetto dai venti occidentali del deserto. Al-Fali e i suoi tre fratelli l'avevano portata lì; ora aspettavano che Stilgar si mettesse in contatto con loro. Tuttavia, i Fedaykin si erano mossi con prudenza per quanto riguardava le comunicazioni. Stilgar non era stato informato della località esatta dove si trovavano. I Fedaykin già sapevano di essere stati sottoposti a un procès-verbal, un rapporto ufficiale per crimini commessi contro l'Impero. Alia aveva scelto la tesi che sua madre era stata sobillata da nemici del regno, anche se fino a quel momento la Sorellanza non era stata nominata. La natura arbitraria e tirannica del regime di Alia, tuttavia, si era rivelata apertamente, e la sua convinzione che il controllo da lei esercitato sul clero le desse anche il controllo dei Fremen stava per subire una dura prova. Il messaggio di Jessica a Stilgar era stato semplice e schietto: Mia figlia è posseduta e dev'essere sottoposta al giudizio. Tuttavia la paura stava distruggendo gli antichi valori, e già si sapeva che alcuni Fremen preferivano non credere a questa accusa. Il tentativo di servirsi di questa accusa come lasciapassare era già costato due battaglie notturne ai fuggiaschi, ma gli ornitotteri che gli uomini di al-Fali avevano rubato erano riusciti a condurli fino a quella precaria sicurezza: il Sietch del Crepaccio Rosso. Da lì si stavano inviando messaggi ai fedaykin, ma in tutto Arrakis ne rimanevano meno di duecento. Gli altri erano sparsi qua e là per tutto l'Impero, con incarichi di fiducia. Riflettendo su questi fatti, Jessica si chiese se ella non si trovasse, ora, nel luogo della propria morte. Alcuni dei fedaykin lo credevano, ma i

commandos della morte accettavano fin troppo facilmente questo concetto. Al-Fali si era limitato a sorridere, quando qualcuno dei suoi uomini più giovani aveva manifestato i propri timori. – Quando Dio stabilisce che una creatura muoia in un certo luogo, egli fa sì che la volontà di quella creatura la conduca nel luogo predestinato, – aveva detto il vecchio Naib. Le tende rattoppate che mascheravano la porta frusciarono; al-Fali entrò. Il volto sottile e riarso dal vento del vecchio appariva teso, gli occhi febbrili. Ovviamente, non aveva dormito. – Sta arrivando qualcuno, – annunciò. – Da parte di Stilgar? – Forse. – Al-Fali abbassò lo sguardo e lanciò un'occhiata verso sinistra, al vecchio modo di un Fremen che porta cattive notizie. – Che cosa c'è? – chiese Jessica. – Abbiamo ricevuto notizie da Tabr che i tuoi nipoti non sono più lì. – Parlò senza guardarla. – Alia... – Alia ha ordinato che i gemelli le siano affidati in custodia, ma Sietch Tabr riferisce che i fanciulli non si trovano lì. È tutto quello che sappiamo. – Stilgar li ha mandati nel deserto, – disse Jessica. – Forse. Ma sappiamo anche che li ha cercati per tutta la notte. Forse è un trucco da parte sua... – Non è nello stile di Stilgar, – replicò Jessica. E pensò: A meno che i gemelli non lo abbiano spinto a farlo. Ma neanche questo le sembrò giusto. Si meravigliò di se stessa: nessuna sensazione di panico da dominare, i suoi timori per i gemelli erano temperati da ciò che Ghanima le aveva rivelato. Scrutò al-Fali, colse la pietà nel suo sguardo. Disse: – Sono andati nel deserto di propria spontanea volontà. – Di propria volontà? Due bambini? Jessica non si preoccupò di spiegargli che quei «due bambini» probabilmente ne sapevano di più, sulla sopravvivenza nel deserto, della maggior parte dei Fremen viventi. I suoi pensieri invece si concentrarono sullo strano comportamento di Leto, quando aveva insistito perché lei si lasciasse rapire. Ella aveva ricacciato indietro quel ricordo, ma ora esso ritornava prepotente. Leto aveva detto che lei avrebbe saputo quando fosse giunto il momento di obbedirgli. – Il messaggero dovrebbe esser giunto nel sietch, a quest'ora, – disse alFali. – Lo condurrò da te. – Uscì scostando il tendaggio rattoppato. Era un

tessuto rosso, di fibre di spezia, ma i rattoppi erano azzurri. Le storie dicevano che quel sietch si era rifiutato di trarre profitto dalla religione di Muad'Dib, guadagnandosi così l'inimicizia del clero di Alia. Qui, a quanto si riferiva, la gente aveva impiegato tutte le sue risorse nell'allevamento di cani grandi come pony, cani selezionati, grazie alla loro intelligenza, per la custodia dei bambini. Ma i cani erano tutti morti. Qualcuno aveva detto che era stato il veleno, e la colpa era stata attribuita ai sacerdoti. Jessica scosse la testa per scacciare questi pensieri, riconoscendoli per ciò che erano: ghafla, l'irritante distrazione. Dov'erano andati i gemelli? A Jacurutu? Essi avevano un piano. Essi hanno cercato d'illuminarmi fino al punto in cui, pensavano, l'avrei accettato. E quando avevano raggiunto quelli che, secondo loro, erano i limiti, Leto le aveva ingiunto di obbedire. Leto l'aveva ingiunto... a lei! Leto si era accorto di ciò che Alia stava facendo. Fin qui era ovvio. Entrambi i gemelli avevano parlato dell'«afflizione» della loro zia, anche mentre la difendevano. Alia puntava la propria azione sulla sua posizione di Reggente, e quindi sulla sua perfetta legalità. Il fatto che avesse chiesto i gemelli in custodia lo confermava. Jessica scoprì che una risata sarcastica le scuoteva il petto. Alla Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam era sempre piaciuto spiegare questo particolare errore alla sua allieva, Jessica: Se concentri tutta la tua azione soltanto sulla legalità di ciò che fai, tu inviti le forze dell'opposizione a sopraffarti. Questo è un errore molto comune. Perfino io, la tua insegnante, l'ho commesso. – E perfino io, la tua allieva, l'ho commesso, – mormorò Jessica fra sé. Udì un fruscio di tessuti nel corridoio oltre la tenda. Entrarono due giovani Fremen: una parte del seguito che avevano raccolto durante la notte. I due erano chiaramente intimoriti di trovarsi alla presenza della madre di Muad'Dib. A Jessica bastò un attimo per leggere dentro di loro: erano due non-pensatori, si aggregavano a qualunque forma di potere, reale o immaginario, per acquisire, in tal modo, un'identità. Senza il riflesso di un simile potere, sarebbero stati vuoti. Erano, perciò, pericolosi. – Siamo stati mandati da al-Fali per prepararti all'incontro, – disse uno dei giovani Fremen. Jessica sentì una stretta improvvisa al petto, ma la sua voce rimase calma: – Prepararmi... perché? – Stilgar ha inviato Duncan Idaho come messaggero. Jessica si tirò il cappuccio dell'aba sopra i capelli. Un gesto istintivo.

Duncan? Ma era lo strumento di Alia! Il Fremen che aveva parlato fece un mezzo passo avanti. – Idaho dice di esser venuto per portarti al sicuro, ma al-Fali non capisce come ciò sia possibile. – Davvero sembra strano, – rispose Jessica. – Ma vi sono cose ancora più strane nel nostro universo. Conducetelo qui. Essi si scambiarono un'occhiata, ma obbedirono, e uscirono insieme con tale fretta che aggiunsero un altro strappo alla tenda consunta. Un attimo dopo, Idaho scostò la tenda a sua volta, seguito dai due giovani Fremen e da al-Fali, il quale chiudeva la fila con una mano sul cryss. Idaho appariva tranquillo. Indossava l'uniforme di una guardia della Casa degli Atreides, praticamente immutata per più di quattordici secoli. La venuta su Arrakis aveva portato alla sostituzione dell'antica lama di plastacciaio, dall'elsa d'oro, col cryss, ma questo era un dettaglio minore. – Mi dicono che vuoi aiutarmi, – disse Jessica. – Per quanto strano possa sembrare... – rispose lui. – Ma Alia non ti ha mandato forse a rapirmi? – insisté Jessica. Un quasi impercettibile sobbalzo delle sue sopracciglia nere fu l'unico segno di sorpresa. Gli occhi tleilaxu multisfaccettati continuarono a fissarla con scintillante intensità. – Quelli erano i suoi ordini, – Idaho confermò. Le nocche di al-Fali strette intorno al cryss divennero bianche, ma l'arma restò dentro il fodero. – Ho passato la maggior parte della notte a riflettere sugli errori che ho compiuto con mia figlia, – dichiarò Jessica. – Troppi errori, – Idaho ammise, – ed io ne ho condiviso la maggior parte. Ora lei si avvide che i muscoli della sua mascella tremavano. – È stato troppo facile dare ascolto agli argomenti che ci hanno condotto fuori strada, – proseguì Jessica. – Io volevo lasciare questo pianeta... Tu... tu volevi quella ragazza che vedevi come una versione più giovane di me. Idaho accettò questo in silenzio. – Dove sono i miei nipoti? – chiese Jessica, con voce all'improvviso più aspra. Idaho si accigliò. Poi disse: – Stilgar è convinto che siano andati nel deserto... per nascondersi. Forse hanno visto l'avvicinarsi di questa crisi? Jessica lanciò un'occhiata ad al-Fali, il quale annuì, riconoscendo che lei aveva previsto questo. – Che cosa sta facendo Alia? – chiese ancora Jessica.

– Sta rischiando la guerra civile, – rispose Idaho. – Credi che si arriverà a tanto? Idaho scrollò le spalle. – Probabilmente no. Questa è un'epoca di mollezze. Troppa gente vuole ascoltare soltanto argomenti piacevoli. – Sono d'accordo con te, – annuì Jessica. – Bene, e i miei nipoti? – Stilgar li troverà... se... – Sì, capisco. – Allora, sarebbe toccato a Gurney Halleck. Jessica fissò la parete di roccia alla sua sinistra. – Ora Alia ha saldamente impugnato il potere. – Riportò il suo sguardo su Idaho. – Saldamente, capisci? Ma il potere va impugnato con mano leggera. Aggrapparsi al potere con troppa forza significa farsi sopraffare da esso, diventando così le sue vittime. – Come mi ha sempre detto il mio Duca, – commentò Idaho. Per qualche ragione, Jessica capì che intendeva parlare del vecchio Leto, non di Paul. Gli chiese: – Dove verrò portata, per questo... rapimento? Idaho la scrutò, come se cercasse di vedere tra le ombre create dal cappuccio. Al-Fali fece un passo avanti: – Mia Signora, non penserai seriamente... – Non ho forse il diritto di decidere del mio destino? – l'interruppe Jessica. – Ma costui... – Al-Fali indicò con la testa Idaho. – Costui è stato il mio leale guardiano prima che Alia nascesse, – disse Jessica. – Prima di morire per salvare la vita di mio figlio e la mia. Noi Atreides onoriamo sempre certi obblighi. – Allora verrai con me? – chiese Idaho. – Dove la porterai? – s'intromise al-Fali. – Meglio che tu non lo sappia, – disse Jessica. Al-Fali si accigliò, ma restò in silenzio. Il suo volto rivelò indecisione, comprensione della saggezza insita nelle sue parole, ma un dubbio tenace sulla fedeltà di Idaho. – Che cosa accadrà ai fedaykin che mi hanno aiutato? – chiese Jessica. – Avranno l'appoggio di Stilgar, se riusciranno ad arrivare a Tabr, – disse Idaho. Jessica si rivolse ad al-Fali: – Ti ordino di recarti a Sietch Tabr, amico mio. Stilgar avrà certamente bisogno dei fedaykin per cercare i miei nipoti. Il vecchio Naib abbassò gli occhi: – Come la madre di Muad'Dib ordina. Obbedisce ancora a Paul, pensò Jessica. – Dobbiamo partire subito da qui, – la sollecitò Idaho. – Certamente la ricerca comprenderà anche questo luogo, e molto presto.

Jessica si piegò in avanti e si alzò in piedi con quella grazia fluida che non lasciava mai del tutto le Bene Gesserit, anche quando sentivano le fitte dell'età. Ora, dopo un'intera notte di fuga, Jessica si sentiva vecchia. Ma anche mentre si alzava, la sua mente ritornò a quello strano colloquio con suo nipote. Che cosa stava facendo, veramente? Jessica scosse la testa, accomodandosi il cappuccio per dissimulare il movimento. Era troppo facile cadere nella trappola di sottovalutare Leto. Il suo contatto con i bambini normali finiva sempre per farle dimenticare le straordinarie capacità ereditarie dei due gemelli. La sua attenzione fu attratta dall'atteggiamento di Idaho. Era rilassato, ma pronto a scattare con estrema violenza, un piede davanti all'altro... Ella stessa gliel'aveva insegnato. Lanciò una rapida occhiata ai due giovani Fremen e ad al-Fali. Il vecchio Naib era ancora in preda al dubbio, e i due giovani lo sentivano. – Affido a quest'uomo la mia vita, – disse Jessica, rivolgendosi ad alFali. – Non è la prima volta. – Mia Signora, – protestò al-Fali. – Ma costui è... – Fissò trucemente Idaho. – ... È il marito della Coan-Teen! – È stato addestrato dal mio Duca e da me, – ribatté Jessica. – Ma è un ghola! – Questa parola era stata letteralmente strappata dalla bocca di al-Fali. – Il ghola di mio figlio, – gli ricordò lei. Era troppo per un fedaykin che un giorno aveva giurato di sostenere Muad'Dib fino alla morte. Sospirò, si fece da parte, e accennò ai due giovani di scostare le tende. Jessica attraversò la soglia, seguita da Idaho. Si voltò, e parlò ad al-Fali: – Tu andrai da Stilgar. Fidati di lui. – Sì... – Ma sentì ancora il dubbio nella voce del vecchio. Idaho le sfiorò il braccio. – Dobbiamo partire subito. C'è niente che desideri portare con te? – Soltanto il mio buonsenso, – lei replicò. – Perché? Temi forse di commettere un errore? Ella sollevò lo sguardo su di lui: – Tu sei sempre stato il miglior pilota di ornitotteri al nostro servizio, Duncan. Questo non lo divertì affatto. La precedette, con rapidi passi, rifacendo all'inverso la tortuosa strada che aveva percorso all'andata. Al-Fali si portò al fianco di Jessica. – Come facevi a sapere che è venuto con un ornitottero?

– Non indossa la tuta distillante, – spiegò Jessica. Al-Fali parve imbarazzato da questa ovvia deduzione. Tuttavia non si lasciò azzittire: – Il nostro messaggero l'ha guidato qui direttamente da Sietch Tabr. Potrebbero essere stati visti. – Ti hanno visto, Duncan? – chiese Jessica a Idaho, che le rivolgeva la schiena. – Lo sai benissimo, – replicò Idaho. – Siamo volati più bassi delle dune. S'infilarono in un corridoio laterale che conduceva verso il basso, lungo una gradinata a spirale, sbucando infine in una grande cavità vivamente illuminata da un gran numero di globi situati in alto, tra la roccia scura. Un unico ornitottero si trovava accanto alla parete più lontana, acquattato come un insetto in attesa di saltare. Quindi, quella parete doveva essere di falsa roccia – una porta che si spalancava sul deserto. Per quanto quel sietch fosse povero, possedeva ancora gli strumenti della segretezza e della mobilità. Idaho aprì il portello dell'ornitottero e aiutò Jessica a sistemarsi sul sedile di destra. Mentre gli passava avanti, Jessica vide che il sudore imperlava la sua fronte, là dove era ricaduto un ciuffo di capelli neri, arricciolati. Jessica all'improvviso si trovò a ricordare quella testa che schizzava sangue in un antro sotterraneo pieno di fracasso. Ma lo scintillio d'acciaio degli occhi tleilaxu la strappò a quella fantasticheria. Niente era più come sembrava. Jessica si affaccendò per allacciarsi la cintura di sicurezza. – È passato molto tempo dall'ultima volta che hai pilotato per me, Duncan, – disse. – Molto tempo... e molto lontano, – rispose lui. Stava già controllando i comandi. Al-Fali e i due giovani Fremen stavano aspettando accanto al meccanismo che avrebbe aperto la falsa parete di roccia. – Pensi che dentro di me alberghino ancora dei dubbi nei tuoi confronti? – bisbigliò Jessica a Idaho. Idaho sembrò concentrarsi ancora di più sul quadro dei comandi, poi avviò le pale e fissò un indice che oscillava. Un sorriso gli sfiorò la bocca, una smorfia fugace dei suoi lineamenti angolosi, che subito spari. – Io sono ancora un'Atreides, – disse Jessica. – Alia non lo è più. – Non temere, – dichiarò lui, quasi digrignando i denti. – Io sono ancora al servizio degli Atreides. – Alia non è più un'Atreides, – ribadì Jessica.

– Non c'è bisogno che tu me lo ricordi! – ringhiò lui. – Ora sta' zitta e lasciami pilotare. Il tono disperato della sua voce la colse di sorpresa, era in completo disaccordo con l'Idaho che lei aveva conosciuto. Soffocando una nuova sensazione di paura, Jessica gli chiese: – Dove stiamo andando, Duncan? Ora puoi dirmelo. Ma lui si volse verso al-Fali e annuì col capo. La falsa roccia si aprì verso l'esterno, alla luce argentea, abbagliante del sole. L'ornitottero fece un balzo e spiccò il volo, le pale vibrarono per lo sforzo, i getti ruggirono, ed essi salirono in un cielo vuoto. Idaho fece rotta verso sud-ovest, in direzione della catena di Sahaya, che s'intravvedeva lontano come una linea scura sull'orizzonte di sabbia. Poco dopo disse: – Non pensare male di me, mia Signora. – Non ho più pensato male di te da quella notte, quando sei piombato nella nostra grande sala di Arrakeen ubriaco di birra di spezia, – disse lei. Ma queste parole servirono soltanto a riaccendere i suoi dubbi, e Jessica si lasciò sprofondare nella condizione, tesa e rilassata insieme, del pranabindu. – Ricordo bene quella notte, – disse Idaho. – Ero molto giovane e... inesperto. – Ma il miglior maestro di scherma al seguito del mio Duca. – Non proprio, mia Signora. Gurney poteva battermi sei volte su dieci. – Idaho le lanciò un'occhiata. – Dov'è Gurney? – Sta eseguendo i miei ordini. Idaho scosse la testa. – Sai dove stiamo andando? – Jessica gli chiese. – Sì, mia Signora. – Allora, dimmelo. – Sì. Dunque, ho promesso che avrei organizzato una congiura credibile contro la Casa degli Atreides. E, in realtà, c'è un solo modo per farlo. – Premette un pulsante sul quadro di controllo e tutta una serie di bracci snodati schizzò fuori dal sedile di Jessica, avvolgendola strettamente come in un bozzolo, in una sorta d'infrangibile sofficità, lasciando fuori soltanto la sua testa. – Ti sto portando su Salusa Secundus, – le annunciò Idaho. – Da Farad'n. In un sussulto incontrollato, Jessica si agitò impetuosa tra i lacci che l'imprigionavano, ma li sentì stringersi, e allentarsi soltanto quando smise di agitarsi, non prima di aver percepito, sotto il rivestimento di quei bracci,

il mortale filo shiga. – L'attivatore del filo shiga è stato staccato, – le disse Idaho, senza guardarla. – E... sì, non provare la Voce su di me. È passato molto tempo da quando potevi agire su di me in quel modo. – La guardò. – I tleilaxu mi hanno corazzato contro questi stratagemmi. – Tu stai obbedendo ad Alia, – disse Jessica, – e lei... – Non obbedisco ad Alia, – l'interruppe lui. – Obbedisco al Predicatore. Vuole che tu istruisca Farad'n così come un tempo hai istruito... Paul. Jessica tacque, come impietrita, ricordando le parole di Leto... che lei avrebbe trovato un allievo interessante. Poco dopo, riuscì a chiedere: – Questo Predicatore... è mio figlio? La voce di Idaho sembrò giungerle da una grande distanza: – Vorrei davvero saperlo.

L'universo è «lì», semplicemente; è l'unico modo in cui un Fedaykin può raffigurarselo e rimanere padrone dei suoi sensi. L'universo non minaccia né promette. Tiene le cose al di là del nostro dominio: la caduta di una meteora, l'esplosione della spezia, queste, e innumerevoli altre cose, passano e hanno una fine. Queste sono le realtà dell'universo, e devono essere affrontate indipendentemente da ciò che proviamo verso di loro. Non si possono cancellare o evitare queste realtà con le parole. Esse precipiteranno su di voi al loro modo, senza parole, e voi... voi capirete ciò che s'intende, in realtà, per «vita e morte». E nel capire questo, vi sentirete colmi di gioia. – Muad'Dib ai suoi Fedaykin

– E queste sono le cose che abbiamo messo in moto, – disse Wensicia. – Tutto questo è stato fatto per te. Farad'n era seduto, immobile, di fronte a sua madre, nella sua stanza privata. La luce dorata del sole gli illuminava le spalle, proiettando la sua ombra sul pavimento ricoperto da un tappeto bianco. La luce che si rifletteva sulla parete dietro sua madre tracciava un'aureola intorno ai suoi capelli. Wensicia indossava la consueta veste bianca orlata d'oro: il ricordo della passata regalità. Il suo volto a forma di cuore appariva tranquillo, ma Farad'n sapeva ch'ella stava studiando ogni sua reazione. Si sentiva lo stomaco vuoto, anche se aveva appena fatto colazione. – Non approvi? – chiese Wensicia. – Che cosa dovrei disapprovare? – fece lui. – Be'... il fatto che te l'abbiamo nascosto fino a questo momento. – Oh, quello... – Farad'n studiò sua madre, e cercò di riflettere sulla complessa posizione ch'egli aveva in questa faccenda. Poté pensare a una sola cosa, che aveva recentemente notato: Tyekanik non la chiamava più «Mia Principessa». Come la chiamava? Regina Madre? Perché provo una sensazione di perdita? si chiese. Che cosa mai sto perdendo? L'ovvia risposta era che stava perdendo i suoi giorni spensierati, il tempo per coltivare quegli interessi intellettuali che tanto lo affascinavano. Se quel complotto che sua madre gli aveva svelato fosse andato in porto, tutto questo sarebbe scomparso per sempre. Nuove responsabilità avrebbero richiesto tutta la sua attenzione. Scoprì di essere profondamente irritato. Come osavano prendersi simili libertà con la sua vita? E perfino senza consultarlo! – Sputa il rospo, – disse sua madre. – Che cosa non va? – Che cosa succederà se questo piano fallirà? – chiese Farad'n, dicendo la prima cosa che gli era venuta in mente.

– Come può fallire? – Non so... Qualunque piano può fallire. E Idaho, qual è la sua parte in tutta questa faccenda? – Idaho? Qual è la sua parte in... Ah, sì, quel mistico che Tyek ha portato qui senza consultarmi. È stata una mossa sbagliata da parte sua. Quel mistico ha parlato di Idaho, non è vero? Era una goffa bugia da parte sua, e Farad'n si trovò a fissare sua madre meravigliato. Ella aveva sempre saputo del Predicatore! – Soltanto... io non ho mai visto un ghola, – spiegò lui. Ella accettò la spiegazione e disse: – Abbiamo risparmiato Idaho per qualcosa d'importante. Farad'n si masticò in silenzio il labbro superiore. Wensicia lo fissò: quanto somigliava al suo defunto padre! Dalak era stato così, introverso e complessato, difficile a capirsi. Dalak, ricordò Wensicia tra sé, era lontano parente del conte Hasimir Fenring, e in entrambi c'era stato qualcosa del dandy e del fanatico. Farad'n li avrebbe seguiti su quella strada? Cominciò a rammaricarsi di aver convinto Tyek a guidare il ragazzo sulla via della religione di Arrakeen. Chi poteva sapere, adesso, dove ciò l'avrebbe condotto? – Come ti chiama Tyek, adesso? – chiese Farad'n. – Che cosa? – Wensicia fu colta di sorpresa da quell'improvviso cambiamento del discorso. – Ho notato che non ti chiama più «mia Principessa». Com'è osservatore, ella pensò, chiedendosi perché mai ciò la facesse sentire inquieta. Pensa forse che io abbia preso Tyek come amante? Sciocchezze, non avrebbe nessuna importanza anche se fosse così. Allora, perché mai questa domanda? – Mi chiama «mia Signora», – replicò. – Perché? – Perché è tradizione in tutte le Grandi Case. Compresa quella degli Atreides, pensò lui. – È meno allusivo, se qualcuno ascolta, – lei gli spiegò. – Si potrà pensare che abbiamo rinunciato alle nostre legittime aspirazioni. – Chi sarà mai così stupido? – chiese lui. Wensicia strinse le labbra, poi decise di lasciar perdere. Una piccola cosa, ma le grandi imprese erano fatte di tante piccole cose. – Lady Jessica non avrebbe dovuto lasciare Caladan, – riprese lui. Ella scosse bruscamente la testa. Che cos'era questa storia? La mente di

Farad'n stava guizzando tutt'intorno come impazzita! Gli chiese: – Che cosa vuoi dire? – Non avrebbe dovuto ritornare su Arrakis. È cattiva strategia, – disse lui. – Fa sì che la gente si ponga domande. Sarebbe stato meglio che i suoi nipoti le avessero fatto visita su Caladan. Ha ragione, pensò Wensicia, costernata perché, a lei, questo non era mai passato per la testa. Tyek avrebbe dovuto esaminare subito la faccenda. Ancora una volta ella scosse la testa. No! Che cosa stava cercando di fare, Farad'n? Egli doveva ben sapere che il clero non avrebbe mai rischiato che entrambi i gemelli fossero nello spazio. Ella lo disse. – Il clero... o Lady Alia? – replicò Farad'n, notando che i pensieri di lei erano andati nella direzione da lui voluta. Questo nuovo fatto, per lui importante, lo rese allegro... i giochi mentali si rivelavano assai utili nelle cospirazioni politiche. Era passato molto tempo da quando la mente di sua madre riusciva realmente a interessarlo. Si lasciava manovrare troppo facilmente. – Pensi che Alia voglia il potere per sé? – chiese Wensicia. Farad'n distolse lo sguardo da sua madre. Era naturale che Alia volesse il potere per sé! Tutti i rapporti ricevuti da quel maledetto pianeta concordavano su questo. I pensieri di lui imboccarono una nuova rotta. – Ho letto qualcosa della loro planetologia, – riprese. – Da qualche parte, lì, ci dev'essere il bandolo che porta ai vermi e agli aploidi, se soltanto... – Lascia che siano gli altri ad occuparsi di questo! – ella esclamò, cominciando a perdere la pazienza. – È tutto quello che hai da dirmi, dopo tutto quello che ho fatto per te? – Non l'hai fatto per me, – ribatté lui. – Co...osa? – L'hai fatto per la Casa di Corrino, – continuò lui, – e in questo momento, tu sei la Casa di Corrino. Per me non c'è ancora stata l'investitura. – Hai delle responsabilità! – replicò Wensicia. – Non pensi a tutta la gente che dipende da te? Come se le parole di lei gli avessero scaricato sulle spalle il fardello, Farad'n sentì il peso di tutte le speranze e di tutti i sogni che erano al seguito della Casa di Corrino. – Sì, – disse lui. – Me ne rendo conto. Ma trovo repellenti alcune delle cose fatte in mio nome.

– Repell... Come puoi dire una cosa simile? Noi facciamo ciò che qualunque Grande Casa farebbe, per accrescere le proprie fortune! – Davvero? Credo che tu sia stata un po' grossolana, comunque. No, non interrompermi! Se dovrò essere imperatore, allora farai meglio ad imparare ad ascoltarmi. Credi che io non sappia leggere fra le righe? Come sono state addestrate quelle tigri? Wensicia restò senza parole davanti a quell'eloquente dimostrazione delle sue facoltà deduttive. – Capisco, – proseguì lui. – Bene, terrò ugualmente Tyek perché so che sei stata tu a condurlo a questo. È un ottimo ufficiale in quasi tutte le circostanze. D'ora in poi, però, combatterà per i suoi princìpi in un'arena più giusta. – I suoi... princìpi? – La differenza fra un buon ufficiale e uno scadente, è la forza di carattere... e circa cinque battiti del cuore, – spiegò Farad'n. – Lui deve aggrapparsi ai suoi princìpi tutte le volte che vengono messi in dubbio. – Le tigri erano necessarie, – ribadì Wensicia. – Lo crederò se avranno successo, – replicò Farad'n. – Ma non perdonerò ciò che è stato fatto per addestrarle. Non protestare. È ovvio. Sono state condizionate. Lo hai detto tu stessa. – Che cosa intendi fare? – gli chiese. – Aspetterò per vedere che cosa succede, – disse Farad'n. – Forse diventerò davvero Imperatore. Wensicia si portò una mano al petto. Sospirò. Per qualche istante egli l'aveva terrorizzata. Aveva quasi creduto che suo figlio l'avrebbe denunciata. Princìpi! Ma adesso egli si era impegnato. Ella lo vedeva chiaramente. Farad'n si alzò in piedi, si avvicinò alla porta e suonò per chiamare gli inservienti di sua madre. Si voltò a guardarla: – Abbiamo finito, non è vero? – Sì. – Ella sollevò una mano, quando Farad'n fece per uscire. – Dove vai? – In biblioteca. Ultimamente sono rimasto affascinato dalla storia dei Corrino. Poi, uscì, lasciandola sola, ma gravato, dentro di sé, dal nuovo impegno. Dannazione a lei! Comunque, sapeva di essersi impegnato. E riconobbe la profonda differenza che esisteva fra la storia com'era registrata sul filo shiga e riletta

con tutta comodità, e la storia che si viveva di persona, istante per istante. Questa nuova storia «vivente» che sentiva accumularsi intorno a lui gli dava la sensazione di un tuffo in un irreversibile futuro. Ora Farad'n si sentiva spinto dai desideri di tutti coloro le cui fortune cavalcavano insieme alla sua. Trovò strano il fatto di non riuscire a sapere quali fossero i suoi desideri in mezzo a quel turbine.

Si narra che un giorno Muad'Dib, nel vedere un'erbaccia che si sforzava di crescere tra due pietre, abbia gettato via una delle pietre. Più tardi, quando la stessa erbaccia fu fiorita, Muad'Dib la schiacciò con la pietra rimasta. «Questo era il suo destino» spiegò. – I Commentari

– Adesso! – urlò Ghanima. Leto, due passi davanti a lei, sul punto di raggiungere la stretta fenditura fra le rocce, non esitò. Si tuffò dentro la cavità e avanzò strisciando finché l'oscurità non lo avvolse. Sentì Ghanima che si tuffava dietro di lui, un improvviso silenzio, e poi la sua voce, né affannosa, né spaventata: – Sono incastrata. Leto si alzò in piedi, pur sapendo che così avrebbe messo la sua testa alla portata degli artigli che avrebbero frugato là dentro, e riuscì a voltarsi nello stretto passaggio. Rifece strisciando il percorso, fino a quando non toccò la mano protesa di Ghanima. – È la mia veste, – disse lei. – Si è impigliata. Leto sentì delle pietre che franavano, proprio sotto di loro, afferrò la mano di lei e tirò, ma sentì di aver guadagnato pochissimo spazio. Un ansito risuonò sotto di loro, un ringhio. Leto tese il corpo, premendo i fianchi contro la roccia, e tirò il braccio di Ghanima. Il tessuto si lacerò e la sentì muoversi con uno scatto verso di lui. Ghanima ansimò, ed egli seppe che provava dolore, ma diede un altro strappo. Ghanima entrò un po' di più nella spaccatura, poi venne giù del tutto, cadendo accanto a lui. Erano troppo vicini all'imboccatura della cavità, tuttavia. Leto si girò, si lasciò cadere a quattro zampe e scivolò verso il fondo. Ghanima lo seguì. C'era però nei suoi movimenti una tensione che l'informò che era stata ferita. Leto, giunto sul fondo, si appoggiò sul dorso e guardò in alto, verso la stretta imboccatura del loro rifugio. Essa si apriva tre metri sopra di lui, piena di stelle. Qualcosa di enorme oscurò le stelle. Un brontolio ringhiante rimbombò nell'aria intorno ai gemelli. Era profondo, minaccioso, un suono antico: il cacciatore che parlava alla sua preda. – Sei ferita gravemente? – chiese Leto, mantenendo calma la voce. Ella gli rispose, con l'identica calma: – Una di loro mi ha artigliata. Ha strappato la gamba sinistra della mia tuta. Sanguino. – Quanto? – La vena. Non riesco a fermarla.

– Prova a esercitare una pressione, – disse lui. – Ora stai qui. Mi occuperò dei nostri amici. – Stai attento, – lei esclamò. – Sono più grossi di quanto mi aspettassi. Leto sguainò il cryss e lo sollevò. Sapeva che le tigri avrebbero frugato verso il basso, scandagliando con gli artigli lo stretto passaggio dove il loro corpo non poteva penetrare. Con estrema lentezza, Leto allungò il braccio armato. Improvvisamente, qualcosa colpì la punta della lama. Leto subì il contraccolpo per tutta la lunghezza del braccio e il pugnale quasi gli sfuggì. Il sangue gli zampillò lungo la mano spruzzandogli il viso, e sopra di lui si levò un urlo che lo assordò. Le stelle ritornarono visibili. Qualcosa sferzò l'aria e si precipitò giù dalle rocce verso la sabbia, con altissimi miagolii. Ancora una volta le stelle furono oscurate, e Leto udì il ringhio del predatore. La seconda tigre aveva preso posizione, incurante del destino della sua compagna. – Sono tenaci, – commentò Leto. – Ne hai ferita gravemente una – disse Ghanima. – Ascolta! Le urla e il fracasso delle convulsioni, sotto di loro, si facevano sempre più deboli. La seconda tigre, tuttavia, era sempre lì: una forma nera che occultava le stelle. Leto rinfoderò la lama e toccò il braccio di Ghanima. – Dammi il tuo coltello. Voglio una lama pulita, per essere sicuro di colpire anche questa. – Credi che ne abbiano una terza di riserva? – chiese lei. – È improbabile. Le tigri Laza cacciano in coppia. – Proprio come facciamo noi, – commentò Ghanima. – Sì, come noi, – Leto annuì. Sentì l'impugnatura del cryss di Ghanima scivolargli tra le dita. Lo strinse con forza. Ancora una volta, sollevò lentamente la lama sopra di lui. Ma questa volta la lama incontrò soltanto l'aria, anche quando raggiunse la zona pericolosa. Leto tirò giù il braccio, e rifletté. – Non l'hai colpita? – Non si comporta come l'altra. – È ancora lassù. Non sentì l'odore? Leto deglutì. Aveva la gola secca. Un alito fetido, umido e muschioso, tipico di un felino, gli aggredì le narici. Le stelle erano ancora nascoste alla sua vista. Del primo felino non si udiva più nulla; il veleno del cryss aveva completato la sua opera. – Credo che dovrò alzarmi in piedi, – disse Leto.

– No! – Bisogna allettarla, perché venga a portata del cryss. – Sì, ma eravamo d'accordo di fare il possibile per evitare che uno dei due restasse ferito... – Tu sei ferita, perciò tu sei quella che deve ritornare, – disse lui. – Ma se anche tu dovessi restare ferito... gravemente ferito, io non potrei lasciarti, – ella obiettò. – Hai un'idea migliore? – Ridammi il cryss. – Ma la tua gamba! – Posso tenermi in piedi su quella buona. – Quella belva potrebbe staccarti la testa dal collo con una sola zampata. Forse la Maula... – Se c'è qualcuno in ascolto, là fuori, saprà allora che siamo venuti preparati per... – Non mi piace che tu corra questo rischio! – esclamò lui. – Chiunque sia là fuori, non deve sapere che siamo armati di pistole Maula... non ancora. – Ghanima gli toccò il braccio. – Sarò prudente, terrò giù la testa. Leto restò silenzioso, ed ella insisté: – Tu sai che tocca a me farlo. Ridammi il cryss. Sia pure riluttante, Leto cercò a tentoni con la sua mano libera quella di Ghanima, la trovò e le restituì il cryss. Era la cosa più logica da farsi, ma questa logica lottava disperatamente con le sue emozioni. Sentì Ghanima allontanarsi da lui e il raschiare della sua veste contro la roccia. Intuì che agitava le braccia, e seppe così che si era rizzata, in qualche modo, in piedi. Oh, stai attenta! fu la sua silenziosa implorazione. Fu sul punto di lanciarsi su di lei e di tirarla giù, per insistere ancora che usassero la pistola Maula. Ma ciò avrebbe avvertito chiunque si fosse trovato lì vicino del fatto che essi avevano l'arma. Peggio ancora, la tigre avrebbe potuto ritrarsi fuori della loro portata, ed essi sarebbero rimasti intrappolati là dentro con una tigre ferita che li aspettava in agguato tra le rocce. Ghanima respirò profondamente, e si puntellò con la schiena contro la parete di roccia. Devo far presto, pensò. Sollevò il cryss, la punta rivolta in alto. La gamba sinistra le pulsava, là dove gli artigli l'avevano lacerata. Sentì in quel punto la pelle incrostata e il calore di un nuovo fiotto di sangue. Molto presto! Sprofondò i propri sensi in una calma completa,

come le consentiva l'esperienza del Bene Gesserit, nell'imminenza di una crisi, cancellando dalla propria coscienza il dolore e ogni altro motivo di distrazione. Il felino avrebbe dovuto protendersi verso il basso! Lentamente, spinse la lama oltre l'apertura. Dov'era quella belva maledetta? Ancora una volta rastrellò l'aria con la lama. Niente. Eppure... la tigre doveva aver ricevuto lo stimolo ad attaccare! Cautamente, Ghanima esplorò l'aria col suo odorato. Un alito caldo le giunse da sinistra. Allora tese i muscoli, respirò profondamente e urlò: – Taqwa! – Era l'antico grido di battaglia dei Fremen, e il suo significato si ritrovava nelle più antiche leggende: Il prezzo della libertà! E nel medesimo istante, vibrò un colpo con la lama nel buio profondo che ostruiva l'imboccatura della cavità. Gli artigli trovarono il suo gomito prima che il pugnale toccasse l'altra carne, e Ghanima fece appena in tempo a ruotare di scatto il braccio, nel tentativo di evitare che le unghie affilate glielo squarciassero fino al polso. Il dolore era atroce, ma sentì ugualmente che la punta avvelenata del cryss si conficcava nel corpo della tigre. La lama le fu strappata dalle dita intorpidite. Ma ancora una volta la stretta imboccatura s'illuminò della luce delle stelle e la voce lamentevole di un felino riempì la notte. Ambedue i gemelli ascoltarono gli spasimi dell'agonia, mentre la belva si dibatteva fra le rocce. Infine, vi fu il silenzio della morte. – Mi ha artigliato il braccio, – disse Ghanima, cercando di legare un lembo della veste intorno alla ferita. – È grave? – Credo di sì. Non sento più la mano. – Lascia che faccia luce e... – Prima, mettiamoci al riparo! – Farò in fretta. Ghanima sentì che Leto si voltava per raggiungere il suo fremkit,, quindi la superficie liscia e nera di uno schermo-notte fu fatta scivolare sopra di lei e rimboccata. Leto non si preoccupò di renderlo impermeabile all'umidità. – Il mio cryss è quaggiù, – disse Ghanima. – Ho toccato l'impugnatura col ginocchio. – Lascialo stare, per ora. Leto accese un globo. L'improvvisa luce lo fece ammiccare. Depositò il globo al suolo, su uno strato di sabbia, poi si voltò verso Ghanima e la fissò inorridito. Un artiglio le aveva aperto un lungo, contorto solco sanguinoso dal gomito fino al polso, sul dorso del braccio. La ferita

indicava eloquentemente come ella avesse ruotato il braccio, per conficcare la punta del cryss nella zampa della belva. Ghanima diede una rapida occhiata alla ferita, chiuse gli occhi e cominciò a recitare la litania contro la paura. Leto si sentì spinto irresistibilmente a imitarla, ma riuscì a dominare la sua emozione e cominciò a fasciare la ferita. Doveva farlo con cura, in modo da bloccare l'uscita del sangue ma nello stesso tempo dando l'impressione di un lavoro fatto alla meno peggio, con una mano sola, da Ghanima. Per maggior verosimiglianza, fece fare a lei il nodo, con una mano sola, appunto, stringendo l'altra estremità della fasciatura tra i denti. – Ora diamo un'occhiata alla gamba, – disse Leto. Ghanima si girò, per presentargli l'altra ferita. Non era grave: due lunghe graffiature lungo il polpaccio. Tuttavia, il sangue uscito aveva imbrattato la tuta distillante. Leto ripulì la ferita come meglio poté, e la fasciò sotto la tuta. Poi legò la tuta sopra la fasciatura. – Non sono riuscito a togliere tutta la sabbia dalla ferita, – disse. – Falla ripulire subito, non appena sarai ritornata. – Sabbia nelle nostre ferite, – replicò lei. – È una vecchia storia dei Fremen. Leto riuscì a sorridere, e si mise seduto. Ghanima respirò profondamente: – Ce l'abbiamo fatta. – Non ancora. Ghanima deglutì, lottando per riprendersi dalle conseguenze dello shock. Il suo volto appariva pallido alla luce del globo. E Leto pensò: Sì, ora dobbiamo muoverci in fretta. Chiunque controllasse le tigri, potrebbe esser la fuori, in questo momento. Fissò sua sorella, e all'improvviso avvertì una lacerante sensazione di perdita. Un dolore profondo gli attraversò il petto. Ora egli e Ghanima avrebbero dovuto separarsi. Durante tutti quegli anni, dall'istante della nascita, erano stati una sola persona. Ma ora il loro piano richiedeva che subissero una metamorfosi, imboccando ognuno una via diversa, irrimediabilmente separata dall'unicità: la partecipazione alle vicende quotidiane non li avrebbe più visti legati come un tempo. Con uno sforzo, ritornò alle necessità contingenti, e le disse: – Tieni il mio fremkit. Ho usato le mie bende per fasciarti. Qualcuno potrebbe frugarci dentro. – Sì. – Ghanima scambiò il proprio fremkit col suo. – Qualcuno, là fuori, ha un trasmettitore con cui controllava a distanza i

felini, – disse ancora Leto. – Molto probabilmente, per esser sicuro che tutto è andato bene, ci sta aspettando vicino al qanat. Ghanima cercò la pistola Maula in cima al fremkit, la prese e l'infilò dentro la sciarpa che le cingeva la vita, sotto la veste sontuosa. – La mia veste è lacerata. – Sì. – Quelli che ci cercano potrebbero arrivare qui molto presto, – aggiunse lui. – Potrebbe esserci un traditore, fra loro. Meglio che tu faccia ritorno da sola. Fatti nascondere da Harah. – Io... comincerò a cercare i traditori non appena sarò tornata, – replicò Ghanima. Scrutò il volto di suo fratello, condividendo con lui la penosa sensazione che da quel momento le loro vite sarebbero state sempre più diverse. Mai più essi sarebbero stati un tutt'uno, capaci di condividere le rispettive coscienze fino a un punto che nessun altro avrebbe mai potuto capire. – Andrò a Jacurutu, – disse Leto. – Fondak, – lo corresse lei. Leto annuì. Jacurutu/Fondak... dovevano essere lo stesso luogo. L'unico modo in cui quel luogo leggendario poteva restare nascosto. Naturalmente, ciò era opera dei contrabbandieri. Era facile per loro trasformare un nome nell'altro, agendo sotto la copertura di una convenzione mai formulata, ma che permetteva ad essi di esistere. La famiglia regnante di un pianeta doveva aver sempre una porta sul retro, per fuggire in extremis. Una piccola percentuale dei profitti del contrabbando bastava perciò a tener aperti quei canali. A Fondak/Jacurutu i contrabbandieri avevano preso il controllo di un sietch attivo e funzionante senza alcun fastidio da parte della popolazione residente. Essi, così, si erano nascosti, completamente allo scoperto, a Jacurutu, nella sicurezza del tabù che teneva i Fremen lontani da esso. – Nessun Fremen penserà di venirmi a cercare in un luogo come quello, – disse Leto. – Indagheranno fra i contrabbandieri, naturalmente, ma... – Faremo come siamo rimasti d'accordo, – l'interruppe lei. – Ma... – Lo so. – Ascoltando quel dialogo, Leto si rese conto che ambedue stavano cercando di prolungare il più possibile quegli ultimi istanti di comune identità. Un sorriso obliquo gli sfiorò la bocca, dandogli per un attimo un aspetto molto più vecchio della sua età. Ghanima si rese conto che lo stava guardando attraverso il velo del tempo, che stava guardando un Leto che sarebbe apparso molti anni dopo. Le lagrime le bruciarono gli

occhi. – Oh, non c'è ancora bisogno che tu dia la tua acqua ai morti, – fece lui, passandole un dito sulla guancia umida. – Mi allontanerò verso l'esterno quel tanto che basta perché nessuno senta, e chiamerò un verme. – Indicò gli ami per Creatore ripiegati e affibbiati all'esterno del fremkit. – Arriverò a Jacurutu prima dell'alba, fra due giorni. – Cavalca veloce, vecchio amico mio, – bisbigliò Ghanima. – Tornerò da te, unica amica mia, – disse lui. – Ricordati di esser prudente, quando avrai raggiunto il qanat. – E tu... scegli un buon verme, – ella esclamò, rivolgendogli le parole Fremen del commiato. Con la sinistra, spense il globo, e lo schermo nero frusciò quando lei lo scostò, ripiegandolo e infilandolo nel kit. Sentì Leto che partiva, soltanto un lieve scricchiolio che svanì nel silenzio, quando egli scivolò giù dalle rocce, nel deserto. Quindi Ghanima si armò di coraggio per ciò che doveva fare. Leto era morto per lei. Doveva fare in modo di crederlo, con lo spirito e il corpo. Non doveva esserci nessuna Jacurutu nella sua mente, nessun fratello là fuori che cercava un luogo sperduto nella mitologia dei Fremen. Da quell'istante in poi, ella non avrebbe mai dovuto pensare a Leto come a una persona vivente. Doveva condizionare se stessa alla convinzione totale che suo fratello era morto, ucciso dalle tigri Laza. Non erano molti gli esseri umani in grado d'ingannare una Veridica, ma ella sapeva di poterlo fare... e sarebbe stata costretta a farlo. Le multi-vite condivise da lei e Leto avevano insegnato ad ambedue il modo: un procedimento ipnotico già antico ai tempi di Saba, anche se probabilmente lei, Ghanima, era l'unico fra tutti gli esseri umani viventi in grado di ricordare Saba come una realtà. Quelle costrizioni profonde erano state concepite con gran cura e, per lungo tempo dopo che Leto se ne fu andato, Ghanima agì sulla propria coscienza, costruendo in sé la sorella rimasta sola, la gemella sopravvissuta, finché non fu una totalità credibile. E man mano procedeva in questo, scoprì che il suo mondo interiore si faceva silenzioso, cancellato, incapace d'introdursi nella sua consapevolezza. Era un effetto collaterale che lei non si era aspettata. Se soltanto Leto fosse rimasto vivo per apprendere questo! pensò, e questo pensiero non le parve affatto strano. Si rizzò in piedi e guardò giù verso il deserto, dove le tigri avevano tolto la vita a Leto. C'era un suono, là fuori, che sembrava crescere d'intensità, un suono familiare ai Fremen: il passaggio di un verme sulla sabbia. Per quanto fossero diventati rari da

quelle parti, qualcuno compariva ancora. Forse gli spasimi della morte del primo felino... Sì, Leto aveva ucciso la prima tigre, prima che l'altra lo finisse. Era stranamente simbolico che un verme dovesse venire, proprio in quel momento. Talmente profonda era la sua costrizione mentale, che Ghanima vide tre punti scuri, immobili, molto in basso, là sulla sabbia: le due tigri e Leto. Poi arrivò il verme, e sulla sabbia restò soltanto l'increspatura provocata dal passaggio di Shai-hulud. Non era un verme molto grosso... ma, tuttavia, era bastato. E la sua costrizione interna non le aveva consentito di scorgere una piccola figura che cavalcava quel dorso anellide. Lottando contro il suo dolore, Ghanima chiuse il fremkit e scivolò fuori dal nascondiglio.La mano stretta sulla Maula, scrutò l'area circostante. Nessun segno di esseri umani muniti di trasmettitore. Ghanima si arrampicò sulle rocce e raggiunse il pendio opposto, strisciando lungo le ombre proiettate dalla luna, fermandosi continuamente ad aspettare per esser sicura che nessun assassino la seguisse. Attraverso la distesa sabbiosa, vide un agitarsi di luci a Tabr, l'ondeggiante, febbrile attività di una ricerca in corso. Una macchia scura si spostava attraverso la sabbia in direzione dell'Attendente. Ghanima scelse un percorso che l'avrebbe portata lontano, in direzione nord, dal gruppo che si stava avvicinando, si calò fino alla sabbia e poi avanzò all'ombra delle dune. Facendo attenzione che i suoi piedi si muovessero secondo un ritmo spezzato, così da non attrarre un verme, Ghanima cominciò la traversata solitaria dal punto in cui Leto era morto fino al Tabr. Sapeva che avrebbe dovuto esser prudente una volta raggiunto il qanat. Niente doveva impedirle di raccontare come suo fratello fosse morto per salvarla dalle tigri.

I governi, se durano, tendono in modo sempre crescente ad assumere forme aristocratiche. Non si è mai saputo, nella storia, di un governo che abbia saputo evitare questo modello. E man mano l'aristocrazia si sviluppa, il governo tende sempre più ad agire esclusivamente nell'interesse della classe dirigente... sia che questa classe sia una monarchia ereditaria, o un impero finanziario oligarchico, o una burocrazia cristallizzata. – La politica come fenomeno ripetitivo: Manuale d'addestramento del Bene Gesserit.

– Perché ci ha fatto questa offerta? – chiese Farad'n. – È essenziale saperlo. Si trovava, col Bashar Tyekanik, nel soggiorno del suo appartamento privato. Wensicia sedeva in disparte su un basso divano azzurro, poco più che spettatrice. Sapeva qual era la sua posizione, e se ne risentiva. Ma Farad'n aveva subìto un cambiamento terrificante da quel mattino, quando ella gli aveva rivelato la loro congiura. Era tardo pomeriggio a Castel Corrino, e la debole luce accentuava la tranquilla comodità di quel soggiorno: una stanza letteralmente rivestita di veri libri riprodotti in plastica, scaffali con una miriade di bobine di filo shiga e dischi incisi, blocchi magnetici, amplificatori mnemonici. Dovunque vi erano segni che indicavano come quella sala fosse intensamente usata: gli spigoli consunti dei libri, chiazze di metallo lucido sugli amplificatori, gli angoli logori dei blocchi magnetici. C'era soltanto un divano, ma le poltrone erano numerose: tutte galleggianti nell'aria, a modellamento automatico, per una comodità non oppressiva. Farad'n era in piedi, la schiena rivolta alla finestra. Indossava una normale divisa da Sardaukar, grigia e nera, col simbolo dorato dell'artiglio sui risvolti del colletto, e nient'altro. Aveva scelto di ricevere sua madre e il Bashar in quella stanza con la speranza di creare un'atmosfera più rilassata che in un ambiente formale. Ma i continui appellativi «Mio Signore qui» e «Mia Signora là» di Tyekanik guastavano l'effetto. – Mio Signore, non credo che avrebbe fatto questa offerta se non fosse stato in grado di soddisfarla, – disse Tyekanik. – Naturalmente no! – s'intromise Wenskia. Farad'n si limitò a fissare sua madre, azzittendola, e chiese: – Noi non abbiamo esercitato nessuna pressione su Idaho, non abbiamo fatto alcun tentativo per ottenere che la promessa del Predicatore venisse esaudita? – No, niente, – dichiarò Tyekanik.

– Allora perché mai Duncan Idaho, da sempre conosciuto per la sua fanatica fedeltà alla famiglia degli Atreides, si è offerto adesso di consegnare Lady Jessica nelle nostre mani? – Corrono voci di gravi difficoltà su Arrakis... – azzardò Wensicia. – Non confermate, – l'interruppe Farad'n. – È forse possibile che il Predicatore abbia fatto precipitare la situazione? – È possibile, – annuì Tyekanik, – ma non riesco a vedere il motivo... – Idaho afferma che sta cercando un rifugio per lei, – proseguì Farad'n. – Ciò potrebbe essere una conferma di quelle voci. – Precisamente, – annuì sua madre. – Oppure potrebbe essere uno stratagemma di qualche tipo, – affermò Tyekanik. – Possiamo moltiplicare le nostre supposizioni, e sviscerarle a fondo, – esclamò Farad'n. – E se Idaho fosse caduto in disgrazia con la sua Lady Alia? – Questo spiegherebbe tante cose, – disse Wensicia. – Ma lui... – Nessuna notizia ancora dai contrabbandieri? – l'interruppe Farad'n. – Perché non possiamo... – Le comunicazioni sono sempre lente in questa stagione, – disse Tyekanik. – E la necessità della segretezza... – Sì, naturalmente.. Tuttavia... – Farad'n scosse la testa. – Non mi piace quest'ultima supposizione. – Non aver troppa fretta ad abbandonarla, – replicò Wensicia. – Tutte queste voci su Alia e quel sacerdote, qualunque sia il suo nome... – Javid, – disse Farad'n. – Ma quell'uomo fa ovviamente... – È stato una fonte d'informazioni preziosa per noi, – affermò Wensicia. – Stavo dicendo che quell'uomo fa ovviamente un doppio gioco, – insisté Farad'n. – Come potrebbe accusare se stesso, in questa faccenda? Non ci si deve fidare di lui. Ci sono troppi segni... – Io non li vedo, – disse Wensicia. Farad'n all'improvviso fu irritato dall'ottusità di lei: – Prendimi in parola, madre! I segni sono lì, davanti a te. Te li spiegherò più tardi. – Temo di dover essere d'accordo, – disse Tyekanik. Wensicia si chiuse in un silenzio ferito. Come osavano spingerla in quel modo fuori dal Consiglio? Come se lei fosse una di quelle donne capricciose e scervellate, senza... – Non dobbiamo dimenticare che Idaho è stato un ghola, – aggiunse Farad'n. – I Tleilaxu... – Guardò di sottecchi Tyekanik.

– Seguiremo anche questa pista, – disse Tyekanik. E ammirò il modo in cui funzionava la mente di Farad'n: sveglia, indagatrice, equilibrata. Sì, i Tleilaxu, nel restituire la vita a Idaho, potevano aver conficcato un aguzzo pungiglione dentro di lui, per i propri scopi. – Ma non riesco a capire quali motivi possano avere i Tleilaxu, – disse Farad'n. – Un piccolo capitale investito su di noi, – spiegò Tyekanik. – Una piccola garanzia per futuri favori? – Io lo chiamerei un grosso investimento, – commentò Farad'n. – Ma pericoloso, – dichiarò Wensicia. Farad'n fu costretto ad essere d'accordo con lei. Le facoltà di Lady Jessica erano ben note in tutto l'impero. Dopotutto, era stata lei ad istruire Muad'Dib. – Se si venisse a sapere che noi la teniamo prigioniera... – mormorò Farad'n. – Sì, sarà un'arma a due tagli, – annuì Tyekanik. – Ma non c'è bisogno che lo si sappia. – Supponiamo di accettare questa offerta, – disse Farad'n. – Qual è il valore effettivo di Lady Jessica? Potremo scambiarla con qualcosa di maggiore importanza? – Non apertamente, – rispose Wensicia. – Naturalmente no! – Farad'n fissò Tyekanik. – Resta da vedere se sarà possibile, – commentò questi. Farad'n annuì: – Sì, penso che, se accetteremo, dovremo considerare Lady Jessica come denaro messo in banca, per scopi futuri. Dopotutto, non è indispensabile impegnare un patrimonio su qualcosa di specifico. Basta che sia utile soltanto... potenzialmente. – Sarà una prigioniera molto pericolosa, – commentò Tyekanik. – Dovremo considerare tutto molto seriamente, – riprese Farad'n. – Mi dicono che l'addestramento Bene Gesserit permette a Lady Jessica di manovrare una persona servendosi semplicemente della sua voce. – O del suo corpo, – aggiunse Wensicia. – Una volta Irulan mi rivelò alcune delle cose che aveva imparato. Quel giorno si stava semplicemente vantando, ed io non vidi nessuna applicazione pratica di ciò che mi mostrava. Tuttavia, ciò che ora sappiamo indica senza ombra di dubbio che le Bene Gesserit hanno i loro mezzi per raggiungere qualunque scopo. – Stai forse suggerendo, – disse Farad'n, – che potrebbe tentare di sedurmi?

Wensicia si limitò a scrollare le spalle. – Direi che è un po' troppo vecchia per questo, non ti pare? – insiste Farad'n. – Con una Bene Gesserit niente è sicuro, – osservò Tyekanik. Farad'n provò un brivido di eccitazione, venato di paura. Impegnarsi in quel gioco per ricollocare la Casa di Corrino al vertice del potere lo attirava e lo disgustava nello stesso tempo. E quant'era invitante, ancora, la prospettiva di ritirarsi da quel gioco per dedicarsi alle sue occupazioni preferite... le ricerche storiche e l'apprendimento dei suoi personali doveri di governo, qui, su Salusa Secundus! Già il ripristino dell'organizzazione militare dei suoi Sardaukar era un compito estremamente impegnativo... e Tyek l'avrebbe aiutato egregiamente in quel compito. Anche un singolo pianeta rappresentava, in fin dei conti, un'enorme responsabilità. Ma l'Impero rappresentava una responsabilità ancora più grande, e affascinante, come strumento di potere. E più leggeva quanto era stato scritto su Muad'Dib/Paul Atreides, più Farad'n restava affascinato dai modi in cui era possibile servirsi del potere. Come capo ufficiale della Casa di Corrino, erede di Shaddam IV, quale splendido risultato sarebbe stato per lui restaurare la sua stirpe sul Trono del Leone! Egli voleva farlo... lo voleva davvero! Farad'n aveva scoperto che, ripetendo a se stesso quell'allettante litania parecchie volte, riusciva a superare tutti i dubbi che l'afferravano. Tyekanik stava ancora parlando: – ... e, naturalmente, le Bene Gesserit insegnano che la pace incoraggia l'aggressione, accendendo così la miccia della guerra. Il paradosso di... – Come siamo arrivati a parlare di questo? – chiese Farad'n, affrettandosi a riportare la sua attenzione su quel colloquio. – Ebbene, – disse in tono soave Wensicia, notando l'espressione distratta sul volto del figlio, – ho chiesto semplicemente a Tyek se era sufficientemente informato sulla filosofia che sta alla base della Sorellanza. – Alla filosofia ci si dovrebbe accostare senza troppa reverenza, – ribatté Farad'n, e si voltò a fronteggiare Tyekanik. – A proposito di quell'offerta di Idaho, penso che dovremmo indagare ulteriormente. Proprio quando siamo convinti di conoscere a fondo qualcosa, è il momento giusto per andare realmente a fondo. – Sarà fatto, – dichiarò Tyekanik. Gli piaceva quella prudenza che si rivelava nel carattere di Farad'n, ma si augurava che non si estendesse

anche a quelle decisioni militari che richiedevano invece velocità e precisione. In tono apparentemente distratto, Farad'n disse: – Sai che cosa trovo di particolarmente interessante nella storia di Arrakis? Nelle epoche primitive, i Fremen avevano l'abitudine di uccidere a vista chiunque non indossasse una tuta distillante con il suo cappuccio caratteristico, facilmente visibile. – Perché mai ti affascina tanto la tuta distillante? – chiese Tyekanik. – Così, te ne sei accorto? – Come potevamo non accorgercene? – esclamò Wensicia. Farad'n rivolse un'occhiata irritata a sua madre. Perché s'intrometteva in quel modo? Riportò la sua attenzione su Tyekanik. – La tuta distillante è la chiave del pianeta, del suo carattere, Tyek. È il marchio di fabbrica di Dune. La gente tende a concentrarsi sulle caratteristiche fisiche: la tuta distillante conserva l'umidità del corpo, la ricicla, e fa sì che sia possibile sopravvivere su un simile pianeta. Sai, era usanza dei Fremen avere una sola tuta per ciascun membro della famiglia, eccettuati i raccoglitori di cibo, i quali avevano tute di riserva. Ma, ora, considerate per favore, tutti e due... – agitò una mano, per comprendere anche sua madre, – ... come degli indumenti che non sono affatto tute distillanti, anche se vi assomigliano, siano diventati di moda in tutto l'Impero. Per gli esseri umani, copiare i conquistatori è sempre stata la caratteristica dominante! – Pensi davvero che una simile constatazione sia utile? – chiese Tyekanik in tono perplesso. – Tyek, Tyek... senza informazioni come questa non è possibile governare. Ho dichiarato che la tuta era la chiave del loro carattere... e lo è! È tipica di una mentalità conservatrice. E gli errori che i Fremen faranno, saranno sempre errori tipici di conservatori! Tyekanik rivolse un'occhiata a Wensicia, che stava fissando suo figlio accigliata, con un'espressione perplessa in viso. Anche Tyekanik era affascinato, ma anche preoccupato da queste facoltà ragionative di Farad'n. Era così dissimile dal vecchio Shaddam. Questi, intrinsecamente, era stato un Sardaukar, una macchina per uccidere, un soldato privo d'inibizioni. Ma Shaddam era caduto di fronte agli Atreides guidati da quel maledetto Paul. In effetti, quello che aveva letto su Paul Atreides rivelava proprio le caratteristiche che Farad'n esibiva. Forse, Farad'n avrebbe esitato meno di un Atreides, di fronte alle più atroci necessità, ma questo non derivava

dalla sua natura, bensì dall'addestramento tipico dei Sardaukar che aveva ricevuto. – Molti hanno governato senza servirsi di questo tipo d'informazioni, – dichiarò Tyekanik. Farad'n si limitò a fissarlo per un lungo attimo, poi replicò: – Hanno governato e fallito. La bocca di Tyekanik diventò una linea sottile a questa ovvia allusione all'insuccesso di Shaddam. Quello era stato un fallimento anche per i Sardaukar, e nessun Sardaukar lo ricordava senza provare una fitta di rabbia. Avendo dimostrato ciò che voleva, Farad'n proseguì: – Vedi, Tyek, l'influenza di un pianeta sull'inconscio collettivo dei suoi abitanti non è mai stata studiata a fondo quanto meritava. Per sconfiggere gli Atreides, noi non dobbiamo soltanto colpire Caladan, ma anche Arrakis: un pianeta morbido e un altro pianeta, campo ideale di addestramento per le decisioni più dure. Il connubio tra i Fremen e gli Atreides è stato un evento unico. Dobbiamo imparare come è avvenuto, e perché ha funzionato, altrimenti non saremo mai capaci di eguagliarli, per non parlare di sconfiggerli. – Che cosa ha a che fare tutto questo con l'offerta di Idaho? – chiese Wensicia. Farad'n guardò con compassione sua madre: – Noi diamo inizio alla loro sconfitta tramite le tensioni che stiamo introducendo nella loro società. È uno strumento molto potente, la tensione. E anche la sua mancanza è importante. Non hai notato come gli Atreides abbiano contribuito a far diventare tutto comodo e facile, quaggiù? Tyekanik si permise un rapido cenno di assenso. Un buon punto a favore di Farad'n. Non si doveva consentire che i Sardaukar si rammollissero. Tuttavia, quell'offerta di Idaho continuava a preoccuparlo. Disse: – Forse sarebbe meglio respingere l'offerta. – Non ancora, – replicò Wensicia. – Si aprono davanti a noi diverse possibilità di scelta. Il nostro compito è quello di mettere a fuoco il maggior numero possibile di scelte. Mio figlio ha ragione: ci servono altre informazioni. Farad'n la fissò, valutando quelle che in realtà erano le sue intenzioni, oltre il significato superficiale delle parole. – Ma riusciremo a cogliere il punto esatto, oltre il quale non avremo più alcuna scelta alternativa? – chiese. Tyekanik diede in una risatina acida: – Se volete la mia opinione,

abbiamo superato già da tempo il punto del non ritorno. Farad'n piegò la testa all'indietro e scoppiò in una fragorosa risata. – Ma noi abbiamo ancora delle scelte alternative, Tyek! Il punto importante, per noi, è sapere quando saremo giunti al limite della corda!

In quest'epoca, in cui i mezzi di trasporto degli uomini comprendono congegni che possono attraversare le profondità dello spazio nel transtempo, e altri dispositivi che possono trasferire gli individui fulmineamente da un lato all'altro di superfici planetarie virtualmente intransitabili, sembra strano pensare a interminabili viaggi compiuti a piedi. Eppure questo rimane il modo principale per viaggiare su Arrakis, un fatto questo che può attribuirsi in parte a una generalizzata preferenza, e in parte al trattamento distruttivo che questo pianeta riserva a tutto ciò che è meccanico. Nelle avversità di Arrakis, la carne umana resta pur sempre la risorsa più durevole e fidata, per l'Hajj. Forse è la coscienza implicita di questo fatto che fa di Arrakis lo specchio supremo dell'anima. – Il manuale dell'Hajj

Lentamente, con estrema cautela, Ghanima rifece il percorso fino a Tabr, tenendosi nell'ombra più fitta delle dune, acquattandosi immobile quando il gruppo di gente che cercava lei e Leto le passò vicino, ma più a sud del punto in cui si trovava. La coscienza, all'improvviso, la pose di fronte a un'agghiacciante serie d'immagini: il verme che aveva preso le tigri e il corpo di Leto, i gravi pericoli che ora l'aspettavano. Leto era scomparso: il suo gemello non esisteva più. Ghanima scacciò le lagrime e alimentò la sua rabbia. In questo, fu Fremen allo stato puro. E ne fu cosciente, provando un immenso piacere nello sprofondare dentro la propria ira. Ella capì ciò che si diceva dei Fremen: che essi, cioè, erano privi di coscienza, avendola perduta nel fuoco distruttore della vendetta contro coloro che li avevano cacciati da un pianeta all'altro, costringendoli a lunghe, disperate peregrinazioni. Ma questa era follia, naturalmente. Soltanto i barbari più primitivi non avevano coscienza. I Fremen possedevano una coscienza altamente evoluta, tutta concentrata nel raggiungimento della loro salvezza come popolo. Soltanto agli estranei essi potevano sembrare dei bruti... proprio come gli estranei sembravano dei bruti ai Fremen. Ogni Fremen sapeva benissimo di poter compiere un atto brutale senza provare alcun senso di colpevolezza. I Fremen non provavano simili sentimenti per atti che avrebbero fatto fremere la coscienza a chiunque altro. I loro rituali li liberavano da ogni senso di colpa, il quale altrimenti li avrebbe distrutti. Essi sapevano, nel più profondo della loro coscienza, che qualunque trasgressione poteva essere attribuita, almeno in parte, a circostanze attenuanti ben definite: mancanza di un'autorità, oppure una cattiva tendenza naturale condivisa da tutti gli esseri umani, o anche la «sfortuna», che qualunque creatura raziocinante avrebbe potuto identificare in un violento contrasto tra la carne mortale e il

caos dell'universo esterno. In un simile contesto, Ghanima sentì di essere una Fremen allo stato puro, un'estensione accuratamente addestrata della brutalità tribale. Le serviva soltanto un bersaglio: ed esso, naturalmente, era la Casa di Corrino. Ghanima ardeva dal desiderio di vedere il sangue di Farad'n versato al suolo, ai suoi piedi. Nessun nemico l'attendeva al qanat. E non si vedeva traccia degli altri gruppi partiti alla loro ricerca. Ghanima attraversò l'acqua su un rialzo di terra e strisciò attraverso l'erba alta fino all'ingresso nascosto del sietch. All'improvviso una luce brillò davanti a lei, e Ghanima si gettò a terra. Scrutò davanti a sé, attraverso gli steli dell'alfalfa. Vide una donna che stava scivolando dall'esterno dentro il passaggio nascosto; qualcuno si era ricordato di preparare l'ingresso al sietch nel modo giusto. In tempi difficili, infatti, chiunque entrasse nel sietch veniva accolto da una luce intensa, che abbagliasse il nuovo venuto dando il tempo necessario alle guardie per decidere o meno d'intervenire. Ma una simile accoglienza non aveva mai significato che fiotti di luce fossero lasciati trasparire imprudentemente verso il deserto. Qui, invece, quella luce intensa visibile da fuori significava che qualcuno aveva lasciato scostati i sigilli esterni. Ghanima sentì una profonda amarezza per questa violazione della sicurezza del sietch, che aveva il sapore di un tradimento. Ormai, le mollezze e la trascuratezza dei nuovi Fremen dalle camicie di pizzo si erano infiltrate dovunque! La luce continuò a proiettare il suo intenso bagliore sul terreno, alla base delle rocce. La giovane donna che era sbucata dall'oscurità del frutteto per immergersi nella luce del passaggio segreto si era mossa quasi con timore. Ghanima poteva vedere una nuvola d'insetti danzanti nel cerchio luminoso proiettato all'esterno dal globo acceso dentro il passaggio. Il bagliore delineava due figure: un uomo e una ragazza. Si tenevano per mano, fissandosi negli occhi. Ma Ghanima percepì qualcosa di sbagliato in quell'uomo e in quella donna. Non erano soltanto due amanti che avevano abbandonato la ricerca dei due gemelli, per dedicare quei pochi istanti a se stessi. Il globo luminoso era sospeso sopra di loro più oltre, nel corridoio. I due stavano parlando, stagliandosi in un cerchio di luce proiettato all'esterno, nella notte, e i loro profili erano chiaramente visibili a chiunque si trovasse là fuori. Di tanto in tanto l'uomo liberava una mano, alzandola nella luce: un movimento furtivo che, una volta completato, si ritraeva nuovamente fra le

ombre. I rumori delle creature notturne riempivano l'oscurità intorno a Ghanima, ma ella cancellò deliberatamente questi suoni dalla sua mente. Che cosa c'era, fra quei due? I movimenti di quell'uomo erano così cauti, goffi. Si girò. Il riflesso della veste della donna lo illuminò, rivelando un volto rosso e molle, un grosso naso bitorzoluto. Ghanima, con un balzo al cuore, lo riconobbe. Palimbasha! Era il nipote di un Naib i cui figli erano caduti al servizio degli Atreides. Ghanima riconobbe il suo viso... e anche un'altra cosa rivelata dall'aprirsi della sua veste per un attimo, sul davanti, per effetto del movimento. Portava una cintura, sotto la veste, e appesa alla cintura c'era una scatola che luccicava di tasti e di quadranti. Senz'altro uno strumento dei Tleilaxu o degli Ixiani... Il trasmettitore che aveva scatenato le tigri! Palimbasha. Questo voleva dire che un'altra famiglia, tra i Naib, era passata alla Casa dei Corrino. E quella donna... chi era? Non aveva importanza. Uno strumento usato da Palimbasha. Un pensiero Bene Gesserit si affacciò spontaneo nella mente di Ghanima: Ogni pianeta, come la vita, ha i suoi periodi. Ricordò bene Palimbasha, ora che lo vedeva là, con quella donna, il trasmettitore alla cintura, i movimenti furtivi. Palimbasha insegnava nella scuola del sietch. Matematica. Come matematico era goffo, zotico. Aveva tentato di spiegare Muad'Dib per mezzo della matematica, fino a quando il clero l'aveva censurato. Era uno schiavista della mente, e il suo procedimento di schiavitù era semplice e rozzo: trasferiva le nozioni tecniche, ma non i valori. Avrei già dovuto sospettare di lui, pensò Ghanima. I segni c'erano tutti. Poi, una stretta bruciante allo stomaco: Ha ucciso mio fratello! Si sforzò di restare calma. Palimbasha avrebbe ucciso anche lei, se avesse cercato di superarlo in quel passaggio nascosto. Ora ella capì il motivo per cui stavano riversando fuori la luce, tradendo la presenza di quel passaggio in un modo niente affatto Fremen. Quei due, per mezzo di quella luce, volevano accertarsi se una delle loro vittime era riuscita a fuggire. Doveva essere terribile, per loro, quell'attesa, non sapendo che cosa fosse accaduto. Ora che Ghanima aveva visto il trasmettitore, si spiegò alcuni dei movimenti delle mani. Palimbasha schiacciava frequentemente uno dei tasti del trasmettitore in un gesto di rabbia. La presenza di quei due diceva molto a Ghanima. Molto probabilmente ogni ingresso del sietch aveva un analogo guardiano all'imboccatura. Ghanima si grattò il naso là dove la polvere lo faceva prudere. La gamba

ferita pulsava ancora e il braccio con cui aveva impugnato il cryss le doleva quando non bruciava. Le dita erano ancora intorpidite. Se avesse dovuto ricorrere al pugnale, avrebbe dovuto impugnarlo con la sinistra. Ghanima pensò di usare la pistola Maula, ma il suo scatto caratteristico avrebbe certamente richiamato un'attenzione non desiderata. Avrebbe dovuto trovare qualche altro sistema. Palimbasha fece qualche passo dentro il passaggio, e tornò ad essere una chiazza scura contro la luce. La donna, pur continuando a parlare, rivolse la sua attenzione alla notte esterna. C'era in lei una vigilanza addestrata, la sensazione che sapesse come scrutare le ombre, servendosi della visione laterale dei suoi occhi. Dunque, era assai più di un utile strumento. Faceva parte della congiura a un livello molto più profondo. Ora Ghanima ricordò che quel Palimbasha aspirava a diventare un Kaymakan, un governatore politico sotto la Reggenza. Doveva far parte di un piano molto più vasto, questo era chiaro. Dovevano essercene molti altri con lui. Perfino qui a Tabr. Ghanima valutò tutti gli elementi del problema, così come le si presentavano. Se fosse riuscita a prender vivo uno di quei guardiani, molti altri sarebbero stati perduti. Il leggero allappare di un piccolo animale che si abbeverava al qanat dietro di lei attirò la sua attenzione. Suoni naturali e creature naturali. La sua memoria esplorò uno degli anfratti più profondi della sua mente, e trovò una sacerdotessa di Jowf catturata in Assiria da Sennacherib. I ricordi di quella sacerdotessa dissero a Ghanima ciò che doveva fare. Palimbasha e la sua donna erano soltanto dei bambini, indocili e pericolosi. Non sapevano nulla di Jowf, non conoscevano neppure il nome del pianeta dove Sennacherib e la sacerdotessa erano diventati polvere. Ciò che stava per accadere a quella coppia di cospiratori – se fosse stato possibile spiegarlo loro – poteva esser chiarito soltanto prendendo inizio da una cosa che era incominciata laggiù. E che sarebbe finita laggiù. Ghanima si girò su un fianco, slacciò il fremkit e ne sfilò via il tubo antisabbia. Tolse il tappo al tubo; ne estrasse il lungo filtro che riempiva il suo interno, e in tal modo ebbe tra le mani un tubo vuoto. Scelse un ago dal contenitore dei pezzi di ricambio, sguainò il cryss e infilò l'estremità dell'ago nella stretta cavità avvelenata sulla punta del pugnale, là dove un tempo si era trovato il nervo di un verme. Il braccio ferito le rendeva difficile il lavoro. Con movimenti cauti e misurati prelevò ancora dal kit un batuffolo di fibra di spezia. Il gambo dell'ago fu fatto strettamente

aderire al batuffolo, formando così un proiettile che si adattò, a perfetta tenuta, all'interno del tubo. L'arma schiacciata contro il petto, Ghanima strisciò più vicina alla luce, cercando di smuovere il meno possibile gli steli di alfalfa. Mentre così avanzava, studiò gli insetti che svolazzavano nel cerchio di luce. Sì, c'erano parecchie mosche-piuma in quel turbinio. Erano ben note come pungitrici d'uomini. Il dardo avvelenato doveva passare inosservato, schiacciato distrattamente come un insetto molesto. Restava soltanto una cosa da decidere: quale dei due colpire, l'uomo o la donna? Muriz! Il nome balzò improvviso nella mente di Ghanima. Era lei la donna! Ghanima ricordò quanto si diceva di lei. Muriz era una di quelle che ronzavano intorno a Palimbasha, allo stesso modo in cui gli insetti ronzavano intorno alla luce. Era una donna debole, che si lasciava influenzare facilmente. Molto bene. Palimbasha aveva scelto la compagna sbagliata per quella notte. Ghanima si portò il tubo alla bocca e, con il ricordo della sacerdotessa di Jowf limpido nella sua coscienza, prese accuratamente la mira, e con un soffio violento scagliò il proiettile. Palimbasha si diede uno schiaffo sulla guancia, ritraendone la mano macchiata da un puntolino di sangue. L'ago era invisibile, fatto schizzar via dal movimento stesso della mano. La donna disse qualcosa per calmarlo, e Palimbasha scoppiò a ridere. Mentre rideva, le gambe cominciarono a mancargli. Si afflosciò contro la donna, la quale cercò di sostenerlo. Stava ancora barcollando con quel peso morto addosso, quando Ghanima le arrivò alle spalle e le premette la punta del cryss contro il fianco. Con voce piatta, Ghanima le disse: – Niente mosse improvvise, Muriz. Il mio cryss è avvelenato. Lascia andare Palimbasha, adesso. È morto.

Anche nelle forze più socializzanti, troverete sempre qualche moto sotterraneo che tende a conquistare e a mantenere il potere attraverso l'uso delle parole. Dagli stregoni ai sacerdoti, ai burocrati, è sempre la stessa cosa. Il basso-popolo, governato, dev'essere condizionato ad accettare queste parole-potere come qualcosa di vero, perché scambi questo sistema di simboli inconsistenti per la realtà tangibile dell'universo. Onde conservare una simile struttura di potere, certi simboli devono esser tenuti fuori portata della comune comprensione: simboli, ad esempio, che abbiano a che fare con le manipolazioni economiche, oppure quelli che definiscono localmente ciò che s'intende per equilibrio mentale. Una simile segretezza nei simboli porta allo sviluppo di sub-linguaggi parziali, e ognuno di essi è il segnale di riconoscimento per quelli che lo usano, accrescendo ogni volta il proprio potere. Questa comprensione del modo in cui prende forma il potere deve far sì che i nostri Servizi Imperiali di Sicurezza prestino la massima attenzione alla formazione dei sublinguaggi. – Lezione tenuta all'Istituto Superiore di Guerra di Arrakeen dalla principessa Irulan

– Forse non è necessario che ve lo dica, – esclamò Farad'n, – ma per evitare qualunque errore di valutazione v'informo che una sentinella sordomuta è stata posta di guardia, con l'ordine di uccidervi entrambi qualora io dovessi mostrar segni che sto soccombendo alla stregoneria. Non si aspettava che quelle parole sortissero alcun effetto visibile. E sia Lady Jessica che Idaho confermarono le sue aspettative. Farad'n aveva scelto con cura il luogo per il primo esame di quei due ospiti, l'antica sala delle udienze di Shaddam. Ciò che mancava in grandiosità veniva compensato dall'esoticità degli ornamenti. Fuori, era un pomeriggio d'inverno, ma l'illuminazione della sala priva di finestre simulava un giorno d'estate, irradiato dall'intensa luce dorata di un gran numero di globi del più puro cristallo disposti ad arte. Le notizie giunte da Arrakis avevano colmato Farad'n di una misurata esultanza. Leto, il gemello maschio, era morto, ucciso da una tigre assassina. Ghanima, la sorella sopravvissuta, era stata presa in custodia da sua zia, presumibilmente come ostaggio. Il rapporto completo contribuiva in modo decisivo a spiegare la presenza di Idaho e Lady Jessica lì, di fronte a lui. Essi chiedevano asilo. Le spie di Corrino parlavano di una situazione assai incerta su Arrakis. Alia aveva accettato di sottoporsi a una prova detta «della Possessione», il cui scopo non era stato completamente spiegato. Tuttavia, non era stata fissata alcuna data per questa prova, e due, tra le spie di Corrino, erano convinte che in realtà non avrebbe mai avuto

luogo. Era tuttavia certo che c'erano stati scontri armati tra i Fremen del deserto e i Fremen delle Forze Imperiali, una guerra civile subito abortita ma che aveva portato il governo a un temporaneo immobilismo. Ora il territorio di Stilgar era considerato un terreno neutrale, così designato dopo uno scambio di ostaggi. Evidentemente Ghanima era stata compresa nel numero di questi ostaggi, anche se non era ben chiaro come si fosse svolta la cosa. Jessica e Idaho erano stati portati nella sala delle udienze saldamente legati, su sedie a sospensori. Entrambi erano immobilizzati da sottili e mortali fili shiga, che avrebbero loro tagliato la carne al minimo tentativo di liberarsi. Due militari Sardaukar li avevano portati fin lì, avevano controllato i legami e se n'erano andati in silenzio. L'ammonimento di Farad'n era in realtà del tutto superfluo. Jessica aveva subito visto la guardia sordomuta, immobile accanto una parete, alla sua destra, con in pugno una vecchia ma efficiente arma a proiettili. Lasciò vagare il suo sguardo sulle decorazioni esotiche della sala. Nelle ampie foglie del raro cespuglio del ferro erano state incastonate perle-occhio, e poi le foglie stesse erano state intrecciate così da formare un'alta crociera al centro del soffitto. Il pavimento era formato da blocchi di legnodiamante alternati a conchiglie kabuzu incastrate all'interno di riquadri rettangolari di ossa di passaquet. Queste erano state poste per diritto, tagliate col laser e lucidate. Pietre dure accuratamente selezionate erano state disposte sulle pareti, evidenziando le nervature della struttura portante, che facevano risaltare, in quattro diverse posizioni, i simboli del Leone rivendicato dai discendenti del defunto Shaddam IV. I leoni erano stati modellati in oro grezzo. Farad'n aveva deciso di accogliere gli ospiti in piedi. Portava i calzoni corti dell'uniforme regolamentare e una leggera giacca di seta di elf aperta al collo. La sua unica decorazione era l'esplosione stellare, il contrassegno dei principi che la famiglia reale portava sul petto, a sinistra. Era assistito dal Bashar Tyekanik, il quale indossava una divisa da Sardaukar color marrone rossiccio, e pesanti stivali; un laser riccamente ornato gli pendeva, con la sua fondina, dalla cintura, sul davanti. Tyekanik, di cui Jessica conosceva il volto squadrato per averlo visto nei rapporti giunti alle Bene Gesserit, si teneva a tre passi sulla sinistra, leggermente più indietro rispetto a Farad'n. Un trono di legno scuro sorgeva solitario in mezzo alla sala, alle spalle dei due. – Ora, – riprese Farad'n, rivolgendosi a Jessica, – hai qualcosa da dire?

– Vorrei sapere... per quale ragione siamo stati legati in questo modo? – chiese Jessica, indicando il filo shiga. – Soltanto ora abbiamo ricevuto dei rapporti da Arrakis che spiegano la vostra presenza, qui, – disse Farad'n. – Forse fra poco vi farò liberare. – Sorrise. – Se voi... – S'interruppe quando sua madre entrò dalla porta riservata alle autorità, dietro i prigionieri. Wensicia quasi sfiorò, passando, Jessica e Idaho, senza degnarli di uno sguardo, porse a Farad'n un piccolo cubo registrato, e lo attivò. Farad'n fissò la faccia luminosa del cubo e lesse il messaggio, lanciando di tanto in tanto un'occhiata a Jessica. Il cubo infine si oscurò e Farad'n lo restituì a sua madre, invitandola a mostrare il messaggio anche a Tyekunik. Mentre Wensicia ubbidiva all'invito del figlio, Farad'n fissò Jessica, corrugando la fronte. Qualche istante dopo, Wensicia si affiancò al figlio, il cubo oscurato in mano, in parte nascosto da una piega della sua veste bianca. Jessica si voltò a guardare Idaho, alla sua sinistra, ma questi rifiutò d'incontrare il suo sguardo. – Le Bene Gesserit sono scontente di me, – disse Farad'n. – Esse sono convinte che io sia il responsabile della morte di tuo nipote. Jessica non lasciò trasparire alcuna emozione, anche se pensò: Così, bisogna credere alla storia di Ghanima, a meno che... Non le piaceva dover far fronte a incognite inaspettate. Idaho chiuse gli occhi, poi li riaprì e a sua volta fissò Jessica. Ella continuò a guardare Farad'n. Idaho le aveva parlato della sua visione Rhajia, ma lei, ostentatamente, non aveva mostrato alcun interesse. Egli non sapeva come classificare la sua mancanza di emozioni. Tuttavia, era ovvio che lei sapeva qualcosa, anche se non voleva rivelarlo. – Questa è la situazione, – riprese Farad'n. E cominciò a riferire tutto ciò che aveva appreso degli avvenimenti su Arrakis, senza trascurare nulla. E concluse: – Tua nipote è sopravvissuta, ma mi dicono che è sotto la custodia di Lady Alia. Questo dovrebbe tranquillizzarti. – Sei stato tu a uccidere mio nipote? – chiese Jessica. Farad'n rispose, in tutta sincerità: – Non sono stato io. Ultimamente ho avuto notizia di una congiura, ma non sono stato io a progettarla. Jessica guardò Wensicia, colse l'espressione di gioia maligna su quel volto a forma di cuore, e pensò: È opera sua! La leonessa trema per il suo cucciolo. Quello era un gioco che la leonessa avrebbe potuto rimpiangere, se fosse rimasta in vita.

Riportando la sua attenzione su Farad'n, Jessica disse: – Ma la Sorellanza crede che sia stato tu a ucciderlo. Farad'n si rivolse a sua madre: – Falle vedere il messaggio. Poiché Wensicia esitava, egli ripeté con una punta di rabbia, di cui Jessica prese nota, per servirsene in futuro: – Ti ho detto di farglielo vedere! Pallida in volto, Wensicia mostrò a Jessica la faccia del cubo col messaggio, e l'attivò. Una fila di parole cominciò a scorrere attraverso la faccia del cubo, reagendo ai movimenti degli occhi di Jessica: «Il Consiglio del Bene Gessetti su Wallach IX invia una formale protesta contro la Casa di Corrino per l'assassinio di Leto II Atreides. Argomentazioni ed esibizioni di prove vengono affidati alla Commissione per la Sicurezza Interna del Landsraad. Verrà scelto un terreno neutrale e i nomi dei giudici saranno sottoposti all'approvazione di tutte le parti. Si richiede, da parte vostra, un'immediata risposta. Sabit Rekish per il Landsraad.» Wensicia tornò al fianco di suo figlio. – Che cosa intendi rispondere? – chiese Jessica. Wensicia replicò: – Dal momento che mio figlio non è stato ancora ufficialmente riconosciuto come capo della Casa di Corrino, io... Dove vai? – Questa domanda era rivolta a Farad'n il quale, mentre sua madre parlava, si era voltato, avvicinandosi a grandi passi a una piccola porta laterale, accanto alla guardia sordomuta, sempre vigile e attenta. Farad'n si arrestò, girandosi a metà. – Me ne ritorno ai miei libri e alle altre occupazioni che m'interessano molto di più. – Come osi? – esclamò Wensicia. Un cupo rossore le salì dal collo fino alle guance. – Oserò fare molte cose a mio nome, – ribatté Farad'n. – Tu hai preso molte decisioni a nome mio, decisioni che trovo estremamente ripugnanti. O da questo momento sarò io a prendere le decisioni a mio nome, oppure puoi andarti a cercare un altro erede per la Casa di Corrino! Jessica fissò rapidamente uno dopo l'altro i protagonisti di quello scontro, e si rese conto che l'ira dipinta sul volto di Farad'n era sincera. Il Bashar, suo aiutante in campo, era rimasto rigido sull'attenti, cercando di dare l'impressione di non aver sentito niente. Wensicia esitò, sul punto di mettersi a urlare per la rabbia. Farad'n sembrava pronto ad accettare qualunque risultato fosse uscito da quel rimescolio di carte. Jessica si trovò ad ammirare il suo atteggiamento, cogliendo in quel vivace confronto

molti elementi che le sarebbero stati di grande utilità. Sembrava che la decisione di mandare le tigri assassine a sbranare i suoi nipoti fosse stata presa all'insaputa di Farad'n. Non potevano esserci dubbi sulla sua sincerità, quando aveva dichiarato di aver saputo del complotto quando ormai tutto era stato organizzato. Non si poteva equivocare sull'ira che gli ardeva negli occhi, mentre restava lì, immobile, pronto ad accettare qualunque decisione. Wensicia esalò un profondo sospiro, fremendo. Poi disse: – Molto bene. L'investitura ufficiale avrà luogo domani. Ma puoi agire già, ora, come se fosse già avvenuta. – Fissò Tyekanik, che si rifiutò d'incontrare il suo sguardo. Ci sarà una vera esplosione d'urla, non appena madre e figlio saranno usciti di qui, pensò Jessica. Ma credo che il vincitore sia lui. Poi consentì che i suoi pensieri ritornassero al messaggio del Landsraad. La Sorellanza aveva elaborato quel messaggio con una sottigliezza tipica del Bene Gesserit. Nascosto in quella formale nota di protesta c'era un messaggio per Jessica. Il succo del messaggio era che le spie della Sorellanza conoscevano l'attuale situazione di Jessica e avevano giudicato Farad'n con estrema esattezza, prevedendo che, appunto, avrebbe fatto leggere il messaggio alla sua prigioniera. – Vorrei una risposta alla mia domanda, – disse Jessica, rivolgendosi a Farad'n, non appena questi tornò a voltarsi verso i prigionieri. – Dichiarerò al Landsraad che non ho niente a che vedere con questo assassinio, – affermò Farad'n. – Aggiungerò che condivido in pieno la ripugnanza della Sorellanza per il modo in cui è stato compiuto, anche se non posso dispiacermi del tutto del risultato. Le mie scuse, per il dolore che può averti arrecato. La sorte passa e colpisce dovunque. La sorte passa dovunque! pensò Jessica. Era stato uno dei detti favoriti del suo Duca, e c'era qualcosa nel modo di esprimersi di Farad'n che le diceva che lui lo sapeva benissimo. Comunque, si sforzò d'ignorare la possibilità che essi avessero ucciso veramente Leto. Tutte le preoccupazioni di Ghanima, il modo in cui aveva sostenuto che suo fratello era morto, rivelavano l'importanza di non deflettere da questa versione, per non far fallire il piano elaborato dai due gemelli. Quindi, i contrabbandieri avrebbero dato a Gurney la possibilità d'incontrarsi con Leto, e la Sorellanza avrebbe potuto agire. Era necessario che Leto venisse sottoposto alla prova. Assolutamente necessario. Senza la prova, Leto era condannato, com'era condannata Alia. E Ghanima... Be', avrebbero

affrontato tutto questo più tardi. Non c'era alcun modo, ora, d'inviare i prenati davanti alla Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam. Jessica si permise un profondo sospiro. – Presto o tardi, – disse, – a qualcuno verrà in mente che tu e mia nipote potreste unire le nostre due Case e guarire le antiche ferite. – Questa possibilità mi è già stata presentata, – dichiarò Farad'n, lanciando una rapida occhiata a sua madre. – La mia risposta è che preferirei attendere il risultato dei recenti avvenimenti su Arrakis. Non c'è alcun bisogno di prendere una decisione affrettata. – C'è sempre la possibilità che tu abbia fatto il gioco di mia figlia, – aggiunse Jessica. Farad'n s'irrigidì. – Spiegati! – Le cose su Arrakis non sono come possono sembrarti, – proseguì Jessica. – Alia fa il proprio gioco, il gioco dell'Abominazione. Mia nipote è in pericolo, a meno che Alia non riesca a escogitare un modo di servirsi di lei. – Ti aspetti che io creda che tu e tua figlia siete su campi opposti, che gli Atreides combattono contro gli Atreides? Jessica guardò Wensicia, poi tornò a fissare Farad'n. – Corrino combatte contro Corrino. Un sorriso agro si disegnò sulle labbra di Farad'n. – Centro. In che modo avrei fatto il gioco di tua figlia? – Nel lasciarti implicare nella morte di mio nipote, facendomi rapire. – Facendoti... – Non fidarti di questa strega, – lo ammonì Wensicia. – Sceglierò io quelli di cui fidarmi, madre, – l'azzittì Farad'n. – Perdonami, Lady Jessica, ma io non capisco questa faccenda del rapimento. Mi è dato di capire che tu e il tuo fedele seguace... – Che è il marito di Alia, – l'interruppe Jessica. Farad'n rivolse un'occhiata interrogativa a Idaho, poi guardò il Bashar. – Tu che cosa ne pensi, Tyek? Sembrò che il Bashar avesse pensieri non dissimili da quelli che Jessica professava. Disse: – Mi piace il modo in cui ragiona. Cauto, prudente. – Idaho è un ghola-mentat, – obiettò Farad'n. – Potremmo sondarlo fino alla morte, senza ottenere da lui una sola risposta certa. – Ma è meglio restare sul sicuro, tenendo sempre presente la possibilità di essere stati ingannati, – affermò Tyekanik. Jessica seppe che era giunto il momento di fare la sua mossa. Le sarebbe

bastato che Idaho, chiuso nel suo dolore, continuasse a recitare la parte che aveva scelto. Le ripugnava servirsi di lui in quel modo, ma la posta in gioco era troppo grande. – Tanto per cominciare, – dichiarò, – potrei annunciare pubblicamente di esser venuta qui per mia libera scelta. – Interessante, – commentò Farad'n. – Dovrai fidarti di me e garantirmi la più completa libertà su Salusa Secundus, – proseguì Jessica. – Non dovrà esserci il più piccolo sospetto che io parli sotto coercizione. – No! – protestò Wensicia. Farad'n la ignorò. – Che ragioni addurrai? – Io sono la plenipotenziaria della Sorellanza, inviata qui per prendermi cura della tua educazione. – Ma se la Sorellanza ha accusato... – Ciò richiederà un'azione decisa da parte tua, – replicò Jessica. – Non fidarti di lei! – esclamò Wensicia. Farad'n si voltò verso la madre e in tono estremamente cortese le disse: – Se m'interromperai anche una sola volta, darò ordine a Tyek di portarti fuori. Tyek ha udito il tuo consenso alla mia investitura ufficiale. Questo lo lega a me, adesso. – È una strega, ti dico! – Wensicia fissò il sordomuto, sempre immobile accanto alla parete. Farad'n esitò. Poi: – Tyek, che cosa ne pensi? Tu... ti senti forse stregato? – A mio giudizio, no. Ella... – Siete tutti e due stregati! – Madre. – La voce di Farad'n suonò brusca e conclusiva. Wensicia strinse i pugni, cercò di parlare, si girò di scatto e uscì dalla stanza. Rivolgendosi ancora una volta a Jessica, Farad'n chiese: – Il Bene Gesserit acconsentirebbe a questo? – Sì. Farad'n valutò ciò che questo implicava, ed ebbe un sorriso agro: – Che cosa spera di ottenere la Sorellanza da tutto questo? – Il tuo matrimonio con mia nipote. Idaho lanciò un'occhiata interrogativa a Jessica, fece per parlare, ma restò silenzioso. Jessica si voltò verso di lui: – Stavi per dire qualcosa, Duncan? – Stavo per dire che le Bene Gesserit vogliono quello che hanno sempre

voluto: un universo che non interferisca con loro. – Una supposizione ovvia, – disse Farad'n. – Ma non capisco perché tu ti debba scomodare a ripeterla. Le sopracciglia di Idaho riuscirono ad esprimere la scrollata di spalle che il filo shiga non consentiva al suo corpo. All'improvviso, sorrise. Farad'n lo vide, e impetuosamente lo affrontò: – Ti diverto? – L'intera situazione mi diverte. Qualcuno della tua famiglia ha compromesso la Gilda Spaziale, servendosene per trasportare strumenti di assassinio su Arrakis... strumenti il cui scopo non poteva certo essere nascosto. Tu hai offeso il Bene Gesserit, uccidendo un maschio che esse volevano per il loro programma di... – Mi dai del mentitore, ghola? – No. Credo che tu non sapessi nulla della congiura. Ma ritengo che, ora, sia necessario mettere a fuoco la situazione. – Non dimenticarti che è un mentat, – lo ammonì Jessica. – Ci stavo appunto pensando, – annuì Farad'n. Ancora una volta si girò verso Jessica. – Supponiamo che io ti liberi, e tu faccia il tuo annuncio. Rimane pur sempre la questione della morte di tuo nipote. Il mentat ha ragione. – È stata tua madre? – chiese Jessica. – Mio Signore! – lo mise in guardia Tyekanik. – D'accordo, Tyek. – Farad'n lo placò con un gesto. – E se proclamassi in pubblico che è stata mia madre? Rischiando tutto, pur di allargare questa frattura interna fra i Corrino, Jessica disse: – Devi denunciarla ed esiliarla. – Mio Signore, – si affrettò a interloquire Tyekanik. – Potrebbe essere un inganno nell'inganno. Idaho obiettò: – Lady Jessica ed io siamo stati ingannati. La mascella di Farad'n s'indurì. E Jessica pensò: Non interferire, Duncan! Non ora! Ma le parole di Idaho avevano messo in moto le sue facoltà Bene Gesserit. Mise alla prova i suoi pensieri con la logica più stringente. Egli l'aveva traumatizzata, e Jessica cominciò a chiedersi se non fosse possibile, in realtà, che la stessero usando in un modo che lei non capiva. Ghanima e Leto... Il prenato poteva attingere a innumerevoli esperienze interiori, una riserva di consigli immensamente più vasta di quella su cui potevano basarsi le Bene Gesserit oggi viventi. E c'era anche l'altro problema: la Sorellanza era stata davvero sincera con lei? Era possibile che ancora non si fidassero

completamente di lei. Dopotutto, già una volta le aveva tradite... per il suo Duca. Farad'n guardò Idaho, aggrottando le sopracciglia, perplesso. – Mentat, devo sapere che cosa è per te questo Predicatore. – Ha organizzato il nostro viaggio fin qui. Io... Non abbiamo scambiato più di dieci parole. Altri hanno agito a suo nome. Potrebbe essere... potrebbe essere Paul Atreides, ma non ho abbastanza dati per esserne certo. Tutto ciò che sapevo per certo era che, per me, era giunto il momento di andarmene, e lui disponeva dei mezzi per consentirlo. – Hai detto che sei stato ingannato, – gli ricordò Farad'n. – Alia si aspetta che tu ci uccida, in segreto, facendo sparire tutte le prove, – spiegò Idaho. – Una volta eliminata Lady Jessica, io non sono più di nessuna utilità, per lei. E Lady Jessica, avendo servito agli scopi della Sorellanza, non è più di alcuna utilità per loro. Alia chiederà conto di ciò alle Bene Gesserit, ma esse vinceranno. Jessica chiuse gli occhi per concentrarsi. Idaho aveva ragione! Lei poteva percepire la fermezza nella voce del mentat, la profonda sincerità di quella dichiarazione. Il disegno combaciò in ogni punto, senza una crepa. Jessica tirò due profondi sospiri e attivò la trance mnemonica. Fece scorrere i dati nella sua mente, uscì dalla trance e aprì gli occhi. Ciò avvenne nei brevi attimi in cui Farad'n si allontanava da lei per porsi a mezzo passo da Idaho... un tragitto di non più di tre metri. – Non dire nient'altro Idaho, – disse Jessica, e tristemente pensò al modo in cui Leto l'aveva messa in guardia contro il condizionamento Bene Gesserit. Idaho, già sul punto di parlare, chiuse la bocca. – Sono io che do gli ordini, qui, – esclamò Farad'n. – Continua, mentat. Idaho non aprì bocca. Farad'n si voltò a metà per studiare Jessica. Ella stava fissando un punto sulla parete più lontana, ripassando nella sua mente ciò che Idaho e la trance vi avevano edificato. Le Bene Gesserit, questo era ovvio, non avevano abbandonato la stirpe degli Atreides. Ma esse bramavano il controllo completo di uno Kwisatz Haderach, e avevano investito troppo in quel programma di procreazione. Esse volevano lo scontro aperto fra Atreides e Corrino, una situazione in cui esse potessero intervenire come arbitri. Duncan aveva ragione. Esse ne sarebbero uscite col controllo sia di Ghanima che di Farad'n. Era l'unico compromesso possibile. Ciò che lasciava stupiti era il fatto che Alia non se ne fosse

accorta. Jessica sentì un nodo alla gola. Alia... abominazione! Ghanima provava pietà per lei, e aveva ragione. Ma chi avrebbe potuto provare pietà per Ghanima? – La Sorellanza ha promesso di metterti sul trono con Ghanima come compagna, – disse Jessica. Farad'n arretrò di un passo. Quella strega era forse capace di leggere il pensiero? – Hanno lavorato segretamente, e non attraverso tua madre, – proseguì Jessica. – Ti hanno anche detto che io non ero al corrente del loro piano. Jessica lesse la conferma sul volto di Farad'n. Com'era chiaro, aperto. Ed era tutto vero. Idaho aveva esibito tutte le sue eccezionali capacità di mentat nel riuscire a intravvedere attraverso il velo, con quei pochi dati disponibili. – Così, hanno fatto il doppio gioco e te l'hanno detto, – dichiarò Farad'n. – Non mi hanno detto niente di tutto questo, – ribatté Jessica. – Duncan aveva ragione: mi hanno ingannato. – Annuì fra sé. Era stata la classica azione di temporeggiamento, secondo il modello tradizionale della Sorellanza: una storia ragionevole, facilmente accettata perché quadrava con tutto ciò che si poteva credere delle loro motivazioni. Ma esse volevano togliere di mezzo Jessica... una sorella bacata che già una volta aveva tradito le loro aspettative. Tyekanik si portò al fianco di Farad'n. – Mio Signore, questi due sono troppo pericolosi per... – Aspetta un momento, – l'interruppe Farad'n. – Ci sono ruote che girano dentro altre ruote, in questa faccenda. – Fronteggiò Jessica. – Avevano motivo di credere che Alia potesse offrirsi come mia sposa. Idaho sobbalzò involontariamente, ma subito riprese il controllo di sé. Il sangue cominciò a colargli dal polso sinistro, dove il filo shiga l'aveva tagliato. Jessica si permise una piccola reazione, spalancando gli occhi. Ella, che aveva conosciuto il primo dei Leto come amante, padre dei suoi figli, confidente e amico, riconobbe quel suo caratteristico modo di ragionare freddamente filtrato ora attraverso le alterazioni di un'Abominazione. – Accetterai? – chiese Idaho a Farad'n. – Sto prendendo in considerazione anche questa possibilità. – Duncan, ti ho detto di star zitto, – esclamò Jessica. Si rivolse a Farad'n. – Il suo prezzo è di due morti d'importanza trascurabile... noi due. – Ho sospettato il tradimento, – disse Farad'n. – Non è stato tuo figlio ad

affermare che «il tradimento genera tradimento»? – La Sorellanza sta cercando di prendere il controllo sia degli Atreides che dei Corrino, – replicò Jessica. – Non è forse ovvio? – Ora, però, sto accarezzando l'idea di accettare la tua offerta, Lady Jessica, ma Duncan Idaho dovrebbe essere rimandato alla sua innamorata consorte. Il dolore è una funzione nervosa, ricordò Idaho. Il dolore giunge come la luce all'occhio. Gli sforzi vengono dai muscoli, non dai nervi. Era un vecchio esercizio mentat, ed egli lo completò in un breve istante, flette il polso destro e recise un'arteria contro il filo shiga. Tyekanik raggiunse con un balzo la sedia, colpì il dispositivo di disinnesto per sganciare i legami e gridò di chiamare gli assistenti medici. Fu rivelatore il fatto che gli assistenti sciamassero immediatamente nella sala attraverso porte dissimulate nei pannelli delle pareti. C'è sempre stata un po' d'insensatezza in Duncan, pensò Jessica. Farad'n scrutò Jessica per un attimo, mentre i medici soccorrevano Idaho. – Non ho detto che avrei accettato la sua Alia. – Non è per questo che si è tagliato il polso, – replicò Jessica. – No? Pensavo che volesse semplicemente suicidarsi. – Non sei così stupido, – ribatté Jessica. – Smettila di fingere con me. Farad'n sorrise. – Sono ben conscio che Alia mi distruggerebbe. Neppure le Bene Gesserit riuscirebbero a convincermi ad accettarla come sposa. Jessica rivolse a Farad'n un'occhiata indagatrice. Che cos'era mai questo rampollo della Casa di Corrino? Non sapeva recitar bene la parte dello sciocco. Ancora una volta ricordò le parole di Leto, il quale le aveva detto che avrebbe incontrato un allievo interessante. E anche il Predicatore voleva questo, secondo quanto le aveva detto Idaho. Jessica desiderò ardentemente di avere incontrato questo Predicatore. – Esilierai Wensicia? – chiese Jessica. – Mi sembra un accordo ragionevole, – commentò Farad'n. Jessica si voltò a guardare Idaho. I medici avevano finito. Legami meno pericolosi lo tenevano ora immobilizzato alla sedia galleggiante. – I mentat dovrebbero guardarsi dagli assoluti, – lei disse. – Sono stanco, – rispose Idaho. – Non hai idea di quanto io sia stanco. – Quando è supersfruttata, perfino la lealtà finisce per logorarsi, – dichiarò Farad'n. Ancora una volta Jessica lo scrutò, indagatrice. Farad'n si accorse di questo, e pensò: Col tempo imparerà a conoscermi senza tante incertezze, e questo potrà essermi prezioso. Una Bene Gesserit

rinnegata a mia disposizione! È proprio ciò che ebbe suo figlio, e io non ho. Che, per ora, essa abbia di me soltanto una visione indistinta. Il resto lo potrà veder meglio più tardi. – Uno scambio onesto, – proseguì Farad'n. – Accetto l'offerta alle tue condizioni. – Fece un segnale alla guardia sordomuta appoggiata alla parete, un rapido e complicato movimento delle mani. Il sordomuto annuì. Farad'n si curvò sui controlli della sedia e liberò Jessica. Tyekanik chiese: – Mio Signore, sei sicuro? – Non è di questo, appunto, che abbiamo discusso? – chiese Farad'n. – Sì, ma... Farad'n scoppiò a ridere, poi si rivolse a Jessica. – Tyek dubita delle mie fonti di apprendimento. Ma dai libri e dalle bobine s'impara soltanto che certe cose si possono fare. Per imparare davvero, queste cose bisogna farle. Jessica rifletté su questo mentre si alzava dalla sedia. La sua mente si soffermò ad analizzare i segnali fatti con la mano da Farad'n. Egli aveva un linguaggio da battaglia sullo stile di quello degli Atreides! Ciò rivelava un'attenta analisi. Qualcuno, là dentro, imitava consciamente gli Atreides. – Naturalmente, – disse Jessica, – tu vorrai che t'insegni allo stesso modo in cui vengono istruite le Bene Gesserit. Farad'n la fissò raggiante. – Proprio un'offerta alla quale è impossibile resistere, – esclamò.

La parola d'ordine mi fu comunicata da un uomo che morì nelle segrete di Arrakeen. Vedete, è lì che mi procurai questo anello a forma di tartaruga. Era nel «suk» fuori della città dove i ribelli, mi avevano nascosto. La parola d'ordine? Oh, quella è stata cambiata molte volte da allora. Era «persistenza» e la controparola era «tartaruga». Mi fece uscir vivo da lì. Per questo comperai questo anello: è un promemoria. – Tagir Mohandis: Conversazioni con un amico

Leto si era molto inoltrato nella distesa sabbiosa quando udì il verme dietro di lui, richiamato dal suo martellare e dalla polvere di spezia che aveva sparso intorno ai cadaveri delle tigri. Ciò era di buon auspicio per l'inizio del loro piano: di solito i vermi scarseggiavano in quella zona. Il verme non era essenziale, ma era pur sempre un utile aiuto. Ghanima, in tal modo, non avrebbe avuto bisogno di complicate spiegazioni, quando non avrebbero ritrovato il cadavere di suo fratello. Leto sapeva che ormai Ghanima aveva agito su se stessa in modo da convincersi che lui era morto. Le sarebbe rimasta soltanto una minuscola, quasi impercettibile ciste di consapevolezza, un ricordo murato che avrebbe potuto esser richiamato pronunciando alcune parole nell'antica lingua che soltanto loro due condividevano, in tutto l'universo. Secher Nbiw. Se lei avesse udito quelle parole, Sentiero Dorato, soltanto allora si sarebbe ricordata di lui.... vivo. Fino a quell'istante, lui, per lei, sarebbe stato morto. Ora Leto si sentì veramente solo. Avanzava con quel passo irregolare che si confondeva tra i suoni naturali del deserto. Niente del suo avanzare avrebbe rivelato a quel verme, dietro di lui, che lì c'era carne umana in movimento. Era un modo di camminare così profondamente condizionato in lui, che Leto l'eseguiva senza neppure pensarci. I piedi si muovevano da soli, i loro passi non avevano alcun ritmo avvertibile. Ogni suono che i suoi piedi producevano poteva essere imputato al vento, alla gravità. Nessun essere umano, in pratica, segnalava il suo passaggio in quella landa desolata. Quando il verme ebbe terminato il lavoro, dietro di lui, Leto si acquattò sul pendio scivoloso di una duna e si voltò a guardare in direzione dell'Attendente. Sì, era abbastanza lontano. Conficcò a terra un martellatore e attirò a sé il suo mezzo di trasporto. Il verme giunse quasi subito, dando a Leto appena il tempo di schivarlo, e inghiottì il martellatore. Mentre il verme procedeva veloce accanto a lui, Leto si agganciò al suo fianco e si arrampicò su di esso aiutandosi con gli ami del Creatore, scostò il bordo sensibile di uno degli anelli-guida, e diresse la

bestia senza cervello in direzione sud-est. Era un verme non molto grande, ma robusto. Leto poteva avvertire la forza delle sue contorsioni mentre il verme procedeva sibilando fra le dune. Una brezza fu suscitata dal loro passaggio, provocata dal calore corporale del verme e da quello prodotto dalla frizione. Mentre il verme avanzava sulla sabbia, anche la mente di Leto procedeva rapida. Ricordò quando Stilgar l'aveva preso con sé nel suo primo viaggio su un verme. Leto dovette soltanto lasciar scorrere la sua memoria, per riascoltare la voce di Stilgar, chiara e precisa, piena della cortesia di un'altra epoca. Non era da Stilgar lo sconsiderato barcollare del Fremen ebbro di spezia. Non erano da Stilgar le urla e le esplosioni di rabbia oggi onnipresenti. No: Stilgar aveva il suo dovere da compiere. Egli era un istruttore della famiglia reale. «Ai vecchi tempi, ad ogni uccello veniva dato un nome a seconda del suo canto. Ogni vento aveva il suo nome. Un vento da sei klick era chiamato Pastaza, un vento da venti klick era un Cushma, e un vento da cento klick era uno Heinali... Heinali, colui che spinge gli uomini. Poi c'era il vento del demonio, nel deserto aperto: Hulasikali Wala, il vento che mangia la carne.» E Leto, che già conosceva queste cose, aveva annuito, mostrando la sua gratitudine per la saggezza di quella lezione. La voce di Stilgar era una fonte inesauribile di cose preziose. «Ai vecchi tempi c'erano molte tribù note come predoni dell'acqua. Venivano chiamati Iduali, il che voleva dire "insetti d'acqua", poiché ciascuno di loro non avrebbe esitato a rubare l'acqua a un altro Fremen. Se ti avessero trovato solo nel deserto, non ti avrebbero lasciato neppure l'acqua della tua carne. Il sietch in cui vivevano si chiamava Jacurutu. Un giorno, tutte le altre tribù, coalizzate, si precipitarono su Jacurutu e spazzarono via gli Iduali. Questo accadde molto tempo fa, perfino prima di Kynes... ai tempi del mio bis-bisnonno. E da allora ad oggi nessun Fremen è più ritornato a Jacurutu. È tabù.» Anche questa volta, era stato ricordato a Leto qualcosa che già si trovava nella sua mente. Era stata un'importante lezione sul funzionamento della memoria. La memoria da sola non era sufficiente, neppure per qualcuno il cui passato era multiforme come il suo, a meno che non si sapesse come farla funzionare, e ciò, tra le cose in essa contenute, che aveva più valore nell'istante desiderato. Così, ora, Leto rifletté sul fatto che Jacurutu avrebbe avuto acqua, una trappola a vento, tutto ciò che di solito si trovava in un sietch Fremen, ma col vantaggio incomparabile che nessun Fremen si

sarebbe mai avventurato fin laggiù. Molti, fra i giovani, neppure sapevano che un tempo era esistito un luogo chiamato Jacurutu. Oh, sapevano senz'altro di Fondak, ma quella era una base dei contrabbandieri... Era un luogo perfetto dove un morto avrebbe potuto nascondersi: fra i contrabbandieri e i morti di un'altra epoca. Grazie, Stilgar. Il verme si stancò prima dell'alba. Leto scivolò giù dal suo fianco e lo guardò mentre sprofondava tra le dune, con i ritmici movimenti di quelle creature. Sarebbe disceso in profondità, restando là sotto, corrucciato. Dovrò aspettare finché non scenderà nuovamente la notte, pensò Leto. Si fermò in cima a una duna e scrutò in tutte le direzioni: vuoto... vuoto... vuoto... Soltanto la scia ondulata del verme scomparso interrompeva l'uniformità del paesaggio. Il lungo grido di un uccello notturno salutò, quasi una sfida, la prima linea di luce verde all'orizzonte orientale. Leto si scavò una nicchia nella sabbia, gonfiò la tenda distillante intorno al suo corpo e spinse fuori, a sondare l'aria circostante, l'estremità di uno snorkel. Giacque a lungo, prima che sopraggiungesse il sonno, in quella forzata oscurità, pensando alla decisione che lui e Ghanima avevano preso. Non era stata una decisione facile, specialmente per Ghanima. Egli non le aveva rivelato tutta la sua visione, né tutti i ragionamenti derivati da essa. Ora, egli era convinto che il suo non fosse un sogno, bensì una visione. Il fatto peculiare, però, era ch'egli la percepiva come la visione di una visione. E se esisteva qualche argomento per convincerlo che suo padre viveva ancora, esso consisteva appunto in quella visione nella visione. Finché un profeta è vivo, egli c'imprigiona nella sua visione, pensò Leto. E un profeta può sfuggire alla sua visione soltanto procurandosi una morte in disaccordo con essa. Ciò, appunto, appariva nella duplice visione di Leto, il quale rifletté su questo, poiché era, appunto, strettamente legato alla scelta da lui fatta. Povero Giovanni Battista, pensò ancora. Se soltanto avesse avuto il coraggio di morire in qualche altro modo... Ma, forse, la sua scelta era stata la più coraggiosa di tutte. Come posso sapere quali alternative gli si paravano davanti? Tuttavia, io so quali alternative si sono presentate a mio padre. Leto sospirò. Voltare la schiena a suo padre era come tradire un dio. Ma l'Impero degli Atreides doveva essere scosso. Esso era precipitato nella peggiore delle visioni di Paul. E com'era ovvio, facile, il modo in cui essa cancellava gli uomini. Lo faceva senza pensarci due volte. La molla

principale di una follia religiosa era stata caricata al massimo e lasciata ticchettare. E noi siamo imprigionati nella visione di mio padre. Lungo il Sentiero Dorato si trovava la via d'uscita da quella follia, Leto lo sapeva. Suo padre l'aveva vista. L'umanità, una volta uscita da quel sentiero dorato, avrebbe potuto voltarsi a guardare all'epoca di Muad'Dib come a un tempo migliore. L'umanità, tuttavia, doveva sperimentare l'alternativa a Muad'Dib, poiché in caso contrario non avrebbe mai capito i suoi miti. Sicurezza... pace... prosperità... Se avessero potuto, non c'erano dubbi su ciò che i cittadini di quell'Impero avrebbero scelto. Anche se mi odiano, pensò. Anche se Ghani mi odia. La mano destra gli prudeva, e Leto pensò al terribile guanto della sua visione nella visione. Sarà così, si disse. Sì, sarà così. Arrakis, dammi la forza, pregò. Il suo pianeta era più che mai forte e vivo sotto di lui e intorno a lui. Le sue sabbie premevano contro la tenda distillante. Dune era un gigante che contava le sue ricchezze ammassate. Era un'entità ingannevole, bella ma anche volgarmente brutta. L'unica moneta che in realtà i mercanti di Dune conoscevano era il pulsare sanguigno del loro potere, non importava come quel potere fosse stato ammassato. Essi possedevano quel pianeta allo stesso modo in cui un uomo possedeva un'amante prigioniera, oppure nel modo in cui le Bene Gesserit possedevano le loro sorelle. Non c'era da stupirsi che Stilgar odiasse i sacerdoti-mercanti. Grazie, Stilgar. Qui, Leto ricordò la bellezza delle antiche tradizioni del sietch, là vita com'era vissuta prima della venuta della tecnocrazia dell'Impero, e la sua mente fluì nel passato così come, lui sapeva, i sogni di Stilgar. Prima dei globi e dei laser, prima degli ornitotteri e dei trattori per la spezia, si viveva in un modo completamente diverso: madri dalla pelle abbronzata con i bambini sui fianchi, lampade che bruciavano l'olio di spezia con una densa fragranza di cannella, Naib che operavano convincendo, e non obbligando la propria gente, ben consci che questo sarebbe stato impossibile. Un oscuro brulicare di vita nelle tane scavate tra le rocce... Il terribile guanto ripristinerà l'equilibrio, pensò Leto. Poco dopo si addormentò.

Vidi il suo sangue e un lembo del suo vestito lacerato da artigli acuminati. Sua sorella ha vividamente descritto le tigri, e l'assoluta determinazione del loro attacco. Abbiamo interrogato uno dei congiurati, altri sono morti o guardati a vista. Tutto indica una congiura dei Corrino. Una Veridica ha confermato questa confessione. – Rapporto di Stilgar alla Commissione del Landsraad

Farad'n studiò Duncan Idaho attraverso il circuito-spia, cercando un indizio che chiarisse lo strano comportamento dell'uomo. Era passato da poco mezzogiorno e Idaho attendeva fuori degli appartamenti assegnati a Lady Jessica, cercando udienza presso di lei. L'avrebbe ricevuto? Ella, naturalmente, sapeva che entrambi venivano spiati. Ma lo avrebbe ricevuto? Farad'n si trovava nella stanza dalla quale Tyekanik aveva guidato l'addestramento delle tigri Laza: una stanza illegale, in realtà, zeppa com'era di strumenti segreti usciti dalle mani degli Ixiani e dei Tleilaxu. Manovrando gli interruttori alla sua destra, Farad'n poteva guardare Idaho da sei angoli diversi, oppure spostarsi all'interno dell'appartamento di Lady Jessica, anch'esso colmo delle più raffinate attrezzature per lo spionaggio. Gli occhi di Idaho preoccupavano Farad'n. Quelle occhiaie metalliche sfaccettate che i Tleilaxu avevano fornito al loro ghola, quando ancora si trovava nelle vasche rigeneranti, erano un marchio per il loro possessore, che lo rendevano qualcosa di profondamente diverso da qualunque altro essere umano. Farad'n si toccò le palpebre, e sentì le superfici dure delle lenti a contatto permanenti che nascondevano l'azzurro della sua assuefazione alla spezia. Gli occhi di Idaho dovevano registrare un universo differente. Come poteva essere altrimenti? Farad'n si sentì quasi tentato di andare dai chirurghi Tleilaxu, trovando egli stesso una risposta a questa domanda. Perché mai Idaho ha tentato di uccidersi? Ma è questo che ha veramente tentato di fare? Doveva sapere che non l'avremmo consentito. Idaho restava sempre un pericoloso punto interrogativo. Tyekanik voleva imprigionarlo su Salusa, oppure ucciderlo. Forse questa sarebbe stata la soluzione migliore. Farad'n passò a una visione frontale. Idaho sedeva su uno scomodo scanno appena fuori della porta che dava nell'appartamento di Lady Jessica. Era una piccola anticamera senza finestre, dalle pareti di legno

chiaro decorato da lance. Idaho si trovava lì seduto da più di un'ora ma sembrava disposto ad aspettare là fuori per sempre. Farad'n si curvò sullo schermo. Il leale maestro di scherma degli Atreides, l'istruttore di Muad'Dib, era stato ben gratificato dagli anni trascorsi su Arrakis! Era giunto da quel pianeta col passo scattante della giovinezza. Certo, una continua alimentazione a base di spezia doveva essergli stata di grande aiuto. E quel meraviglioso equilibrio metabolico che le vasche dei Tleilaxu impartivano, sempre? Idaho si ricordava veramente del suo passato prima della vasca? Nessun altro, riportato in vita dai Tleilaxu, poteva dire la stessa cosa. Che enigma era questo Idaho! I rapporti sulla sua morte erano in biblioteca. Il sardaukar che lo aveva trucidato aveva parlato del suo coraggio: Idaho ne aveva uccisi diciannove, prima di cadere a sua volta. Diciannove Sardaukar! Era davvero valsa la pena spedire la sua carne ai serbatoi di ricrescita! Ma i Tleilaxu avevano fatto di lui un mentat. Quale strana creatura viveva in quella carne ricresciuta? Che cosa si provava ad essere un computer umano, in aggiunta a tutti i propri personali talenti? Perché ha tentato di uccidersi? Farad'n sapeva quali erano i suoi maggiori talenti, e non si faceva eccessive illusioni. Egli era uno storico dell'archeologia e un giudice d'uomini. La necessità lo aveva costretto ad imparare a conoscere a fondo quelli che l'avrebbero servito: la necessità, e uno studio accurato degli Atreides. Egli lo considerava il prezzo che l'aristocrazia doveva sempre pagare. Governare richiedeva giudizi accurati ed incisivi su coloro che incarnavano, nella pratica, l'esercizio del potere. Più di un sovrano era caduto a causa degli errori e degli eccessi dei suoi subordinati. Un accurato studio degli Atreides aveva rivelato uno splendido talento nella scelta dei servitori. Essi avevano saputo come conservare la loro fedeltà, come mantenere, sempre, un invisibile controllo sull'ardore dei propri guerrieri. Idaho non agiva secondo quello stile. Perché? Farad'n socchiuse gli occhi, nello sforzo di vedere oltre la pelle di quell'uomo. C'era una sensazione di stabilità e durata, in Idaho, d'impossibilità ad essere logorato. Idaho dava l'impressione di essere autosufficiente, un insieme perfettamente organizzato e integrato. Le vasche dei Tleilaxu avevano messo in moto qualcosa di più che umano. Farad'n lo sentiva. C'era un movimento che si autorinnovava in quell'uomo, come se agisse secondo leggi immutabili, ricominciando

dall'inizio ad ogni fine. Si muoveva lungo un'orbita fissa con un'inerzia simile a quella di un pianeta intorno a una stella. Avrebbe reagito ad ogni pressione senza spezzarsi... alterando impercettibilmente la sua orbita, ma senza in realtà cambiare niente di sostanziale. Perché si è tagliato il polso? Qualunque fosse il motivo, l'aveva fatto per gli Atreides, per la sua Casa regnante. Gli Atreides erano la stella della sua orbita. Per qualche ragione, egli crede che la prigionia di Lady Jessica, qui su Salusa, serva a rafforzare gli Atreides. E ricordò all'improvviso: È un mentat che pensa questo! Ciò dava a quel pensiero un'ulteriore profondità. Anche i mentat commettevano errori, ma assai di rado. Giunto a questa conclusione, Farad'n fu quasi sul punto di chiamare i suoi aiutanti, ordinando che Lady Jessica fosse immediatamente spedita via dal pianeta, insieme a Idaho. Restò un attimo indeciso, la mano alzata, poi rinunciò. Quelle due persone – il ghola-mentat e la strega Bene Gesserit – erano due pedine dalla funzione ignota in quel gioco di potere. Idaho doveva senz'altro essere rimandato indietro, poiché la sua presenza avrebbe causato guai su Arrakis. Jessica, invece, doveva restare, perché il suo strano sapere fosse messo al servizio della Casa di Corrino. Farad'n sapeva che il suo sarebbe stato un gioco sottile e pericoloso. Ma si era preparato da molti anni per questa eventualità, fin da quando si era reso conto di essere più intelligente e sensibile di quelli intorno a lui. Era stata una scoperta spaventevole, per un bambino; l'unico suo rifugio, e anche il miglior maestro, era stata la biblioteca. Ora, tuttavia, era roso da dubbi e si chiese se, veramente, egli era all'altezza di quel gioco. Aveva allontanato sua madre, perdendo così i suoi consigli, ma le decisioni di Wensicia erano sempre state pericolose per lui. Tigri! Il loro addestramento era stato un'atrocità, e l'uso una stupidaggine. Due tigri... fin troppo facili da rintracciare! Wensicia doveva essergli grata per aver patito soltanto l'esilio. In quel caso, il consiglio di Lady Jessica si era adattato alle sue presenti necessità con ammirevole precisione. Bisognava fare in modo di assorbire il più possibile, grazie a lei, il modo di pensare degli Atreides. I suoi dubbi cominciarono a svanire. Farad'n pensò ai suoi Sardaukar, che ogni giorno diventavano più duri e resistenti grazie al rigoroso addestramento e all'assoluta mancanza di ogni mollezza che lui aveva

ordinato. Le legioni dei Sardaukar erano ancora poche, ma ognuno di essi, ancora una volta, era in grado di opporsi ai Fremen, uomo contro uomo. Ciò serviva poco, però, fino a quando i limiti imposti dal trattato di Arrakeen limitavano drasticamente l'entità delle sue forze militari. I Fremen avrebbero potuto sopraffarlo semplicemente col loro numero... a meno che non fossero stati impegnati in una guerra civile e indeboliti da questa. Era troppo presto per uno scontro diretto fra Sardaukar e Fremen. Egli aveva bisogno di tempo. E di nuovi alleati, scelti fra gli scontenti delle Case Maggiori e le Case Minori che avevano accresciuto di recente la loro potenza. Egli doveva poter accedere ai finanziamenti della CHOAM. Ma soprattutto, egli aveva bisogno di tempo, perché i suoi Sardaukar diventassero più forti, e i Fremen più deboli. Ancora una volta Farad'n dedicò la sua attenzione allo schermo che mostrava il paziente ghola in attesa. Perché mai Idaho voleva vedere Lady Jessica a quell'ora? Doveva sapere che erano spiati, che ogni parola, ogni gesto, sarebbero stati registrati e analizzati. Perché voleva vederla? Farad'n distolse lo sguardo dallo schermo e fissò una mensola accanto al quadro dei comandi. Alla pallida luce dello schermo, distinse le bobine che contenevano gli ultimi rapporti da Arrakis. Le sue spie erano accurate e precise: doveva dar loro credito di questo. In quei rapporti c'erano molte cose che gli avevano procurato un vivo piacere. Chiuse gli occhi e i punti salienti di quei rapporti cominciarono a scorrergli nella mente, nella peculiare forma in cui gli piaceva trascriverli per i propri usi: Man mano il pianeta diventa più fertile, cede la pressione della terra sui Fremen, e le loro comunità perdono il tradizionale carattere del sietchroccaforte. Nell'antica cultura del sietch, fin dall'infanzia il Fremen imparava a memoria: «Il sietch, insieme alla perfetta conoscenza di te stesso, ti offre un concreto punto di riferimento, quando esci nel mondo e nell'universo.» Un tempo il Fremen diceva: «Guarda la roccia», volendo significare che l'antico sapere è la Legge. Ma le nuove strutture sociali stanno allentando le antiche restrizioni; la disciplina è sempre più trascurata. I nuovi capi Fremen conoscono a stento le vuote formule del Basso Catechismo, e la storia della razza sopravvive soltanto nei miti di cui parlano le loro canzoni. La gente delle nuove comunità è più volubile, più aperta; essi litigano più spesso e sono assai meno sensibili al prestigio dell'autorità. I Fremen più vecchi hanno più disciplina, sono più inclini

alla socialità, tendono a lavorare più duramente; usano con maggiore parsimonia le proprie risorse. I vecchi credono ancora che una società ordinata rappresenti il completamento ideale dell'individuo. I giovani tendono a scostarsi sempre più da questa credenza. I resti dell'antica cultura che ancora sopravvivono guardano i giovani e dicono: «Il vento della morte ha spazzato via il loro passato.» A Farad'n piacevano la completezza e la stringatezza dei suoi riassunti, ma soprattutto ciò che rivelavano delle trasformazioni in atto su Arrakis, con la loro violenza incombente. Egli stesso aveva voluto registrare sulle bobine questo concetto essenziale: La religione di Muad'Dib è fermamente basata sull'antica tradizione culturale del sietch dei Fremen, mentre la nuova cultura si stacca sempre più da quella rigida disciplina. Non certo per la prima volta, Farad'n si chiese perché mai Tyekanik avesse abbracciato quella religione. Il comportamento di Tyekanik appariva assai strano, con quel suo nuovo moralismo. Strano, ma sincero, anche se dava l'impressione di esservi costretto contro la sua volontà. Tyekanik sembrava un uomo che avesse infilato la punta del piede in un vortice per saggiarlo, e vi fosse stato risucchiato dentro da forze impossibili a controllarsi. La conversione di Tyekanik infastidiva Farad'n per quel suo integralismo senza carattere. Era un ritorno alle più antiche abitudini dei Sardaukar, e uno sgradevole avvertimento che anche i giovani Fremen avrebbero potuto ritornare in modo consimile, alle origini... che le tradizioni innate avrebbero finito pur sempre per prevalere. Ancora una volta Farad'n riandò con la mente a quei rapporti registrati. Vi era, fra l'altro, l'inquietante riferimento alla persistenza di un residuo culturale che risaliva alle epoche più antiche dei Fremen: «L'acqua del Concepimento.» Il liquido amniotico del nascituro veniva raccolto e conservato, al momento del parto, e quindi distillato e mescolato alla prima acqua data da bere al bambino. La cerimonia tradizionale esigeva che una madrina gli servisse l'acqua, con le parole: «Questa è l'acqua del tuo concepimento.» Perfino i giovani Fremen seguivano questa tradizione, con i loro figli. L'acqua del tuo concepimento. Farad'n provò repulsione all'idea di bere l'acqua distillata dal liquido amniotico, sia pure quello in cui aveva galleggiato prima della nascita. E ripensò alla gemella sopravvissuta, Ghanima, alla madre di lei, morta quando sua figlia aveva bevuto quella strana acqua. Aveva forse riflettuto più tardi, Ghanima, su questo strano legame col suo passato?

Probabilmente no. Lei era stata allevata come una Fremen. Ciò che era naturale e accettabile per un Fremen, era naturale e accettabile per lei. Per un attimo, Farad'n rimpianse la morte di Leto II. Sarebbe stato interessante discutere questo punto con lui. Forse, pensò ancora Farad'n, gli si sarebbe presentata l'occasione di discuterne con Ghanima. Perché Idaho si è tagliato il polso? Questa domanda tornava a balenargli nella mente ogni volta che gli occhi gli cadevano sullo schermo-spia. Farad'n fu nuovamente assalito dai dubbi. Ardeva dal desiderio di sprofondare nella misteriosa trance da spezia, così come aveva fatto Paul Muad'Dib, per esplorare laggiù il futuro e conoscere le risposte alle sue domande, eppure, per quanta spezia ingerisse, la sua coscienza rimaneva inchiodata allo scorrere del presente, condannandolo al suo universo d'incertezze. Lo schermo-spia mostrò la porta che si apriva e un'ancella di Lady Jessica che invitava Idaho a entrare. Idaho si alzò dallo scranno e attraversò la soglia. L'ancella avrebbe fatto un rapporto completo più tardi, ma Farad'n, la cui curiosità era completamente ridestata, toccò un altro pulsante e la scena cambiò. Idaho stava entrando nel soggiorno di Lady Jessica. Com'era calmo e controllato il ghola... e com'erano insondabili i suoi occhi!

Più di ogni altra cosa, il mentat dev'essere un universalista, non uno specialista. È saggio far controllare a un universalista le decisioni da prendere nei momenti più importanti. Gli esperti, gli specialisti, vi faranno precipitare nel caos. Essi sono inutili pignoli. Cavillano ferocemente su ogni virgola. L'universalista mentat, al contrario, dovrebbe arricchire col suo buonsenso ogni decisione importante. Non deve tagliarsi fuori dall'immensa corrente di fatti e di idee che riempiono il suo universo. Dev'essere sempre in grado di dire: «Al momento, su questo non c'è alcun dubbio. Ciò è quanto vogliamo, ora. Potrebbe dimostrarsi errato più tardi, ma potremo sempre correggerlo quando saremo arrivati a quel punto.» L'universalista mentat deve capire che qualunque cosa noi possiamo identificare come «universo» è soltanto una parte di fenomeni ancora più grandi. L'esperto tende a guardarsi indietro; egli scruta all'interno dei ristretti confini della sua specialità. L'universalista guarda verso l'esterno; egli cerca princìpi vivi e attivi, sapendo assai bene che questi princìpi mutano e si evolvono. Sono le caratteristiche del mutamento stesso che l'universalista deve osservare. Non può esserci un elenco prefissato di tali cambiamenti, nessuna guida o manuale. Voi dovete valutarli col minor numero possibile di preconcetti, chiedendovi: «Che cos'è questo? E come avviene?» – Il manuale del mentat

Era il giorno dello Kwisatz Haderach, il primo giorno sacro dei seguaci di Muad'Dib. Il riconoscimento di Paul Atreides, deificato, come la persona che si trovava dovunque simultaneamente, il maschio Bene Gesserit che mescolava le stirpi maschile e femminile in un tutto inseparabile, diventando, appunto, l'Uno-col-Tutto. I fedeli chiamavano questo giorno Ayil, il Sacrificio, per commemorare la morte di Muad'Dib che rendeva la sua presenza «reale in ogni luogo». Il Predicatore scelse le prime ore di quel giorno per comparire, ancora una volta, sulla piazza del Tempio di Alia, sfidando l'ordine di arrestarlo che, come tutti sapevano, era stato emanato ufficialmente. Una tregua precaria era in atto fra il Clero di Alia e le tribù del deserto che si erano ribellate, e quella tregua incombeva, come qualcosa di tangibile, causando una viva inquietudine in tutti coloro che si trovavano ad Arrakeen. Il Predicatore non contribuì affatto a dissipare quello stato d'animo. Era il ventottesimo giorno di lutto ufficiale per il figlio di Muad'Dib, sei giorni dopo il rito commemorativo al Vecchio Passo, ritardato dalla ribellione. Neppure i combattimenti, tuttavia, avevano fermato lo Hajj. Il Predicatore sapeva che quel giorno la piazza sarebbe stata sovraffollata. La maggior parte dei pellegrini cercava di far coincidere la sua presenza ad

Arrakis con lo Ayil, «per percepire in tal modo la Santa Presenza dello Kwisatz Haderach nel giorno a lui consacrato.» Il Predicatore entrò nella piazza alle prime luci del giorno, trovando il luogo già gremito di fedeli. Teneva una mano appoggiata leggermente alla spalla della sua giovane guida, avvertendo il cinico orgoglio nel modo di camminare del ragazzo. Ora, quando il Predicatore si avvicinò, la gente cominciò ad osservare ogni sfumatura del suo comportamento. Questa attenzione non era del tutto spiacevole per la giovane guida. Il Predicatore si limitava semplicemente ad accettarla come una necessità. Prendendo il suo posto sul terzo dei gradini del Tempio, il Predicatore attese che scendesse il silenzio. E quando il silenzio si fu allargato come un'onda attraverso la folla e si poté udire il passo affrettato dei ritardatari, ai margini della piazza, egli si schiarì la gola. Intorno a lui persisteva ancora il freddo del mattino e la luce non era ancora calata nella piazza dalle cime degli edifici. Quando cominciò a parlare, percepì, quasi tangibile, il grigio silenzio sulla grande distesa. – Sono venuto a rendere omaggio a voi ed a pregare alla memoria di Leto Atreides II, – cominciò, con quella voce possente che tanto ricordava quella di un uomo dei vermi venuto dal deserto. – Lo faccio per compassione verso tutti coloro che soffrono. Vi dico ciò che il defunto Leto ha imparato, il domani non è ancora accaduto e potrebbe non accadere mai. Questo momento, qui, ora, è l'unico tempo e luogo per noi osservabile nel nostro universo. Vi dico di assaporare questo momento e di capire ciò che v'insegna. Vi dico d'imparare che la crescita e la morte di un governo sono visibili nella crescita e nella morte dei suoi cittadini. Un mormorio inquieto attraversò la piazza. Si burlava forse della morte di Leto II? Tutti si chiesero se le Guardie del Clero non si sarebbero precipitate fuori ad arrestare il Predicatore. Alia, però, sapeva che il Predicatore non sarebbe stato interrotto così. Aveva infatti dato ordine che quel giorno lo lasciassero indisturbato. Ella, personalmente, si era mascherata con un'efficiente tuta distillante, tirandosi sul naso e la bocca la maschera per l'umidità; sopra la tuta aveva infilato una comune veste col cappuccio, nascondendo così i capelli. Ora si trovava in seconda fila, sotto il Predicatore, e l'osservava attentamente. Era Paul quell'uomo? Gli anni potevano averlo cambiato così. E Paul aveva sempre saputo usare splendidamente la Voce, un fatto, questo, che rendeva assai difficile identificarlo dal modo di parlare. Anche quel Predicatore si serviva in modo eccellente della sua voce. Paul non avrebbe saputo far

meglio. Ella sentì che doveva scoprire la sua identità, prima di agire contro di lui. Quant'erano affascinanti le sue parole! Ella non avvertiva nessuna ironia nelle parole del Predicatore. Egli affascinava il suo pubblico con frasi ben precise, pronunciate con sferzante sincerità. E quando la gente incespicava per un attimo sul reale significato di ciò che il Predicatore diceva, si rendeva subito conto che era stato lui a volere che incespicasse, e questo, per lui, era il modo d'istruirli. E subito riuscì ancora a riempire d'emozione la folla dicendo: – L'ironia spesso nasconde l'incapacità di pensare al di là delle proprie convinzioni. Io non sto facendo dell'ironia. Ghanima ha detto che il sangue di suo fratello non può essere lavato. Sono d'accordo con Ghanima. «Si dirà che Leto è andato dove andò suo padre, che ha fatto ciò che fece suo padre. La Chiesa di Muad'Dib afferma che egli ha scelto per conto della sua umanità una strada che può apparire assurda e temeraria, ma che sarà convalidata dalla storia. Quella storia che viene riscritta perfino in questo istante. «Io vi dico che bisogna imparare un'altra lezione da quelle vite e dal loro termine.» Alia, attenta ad ogni sfumatura, si chiese perché mai il Predicatore avesse detto termine e non morte. Stava forse affermando che uno dei due, o forse entrambi, non erano realmente morti? Possibile? Una Veridica aveva confermato la storia di Ghanima. Che cosa stava facendo, dunque, questo Predicatore? Stava facendo una dichiarazione su un mito o su una realtà? – E prendete attentamente nota di quest'altra lezione! – tuonò il Predicatore, sollevando le braccia. – Se vi sarà dato il possesso della vostra umanità, lasciate perdere l'universo! Abbassò le braccia e puntò le occhiaie vuote direttamente su Alia. Sembrò che si rivolgesse unicamente a lei, e in modo così evidente che molti intorno a lei si voltarono a scrutarla con occhio attento. Alia rabbrividì, nel percepire il potere che c'era in lui. Quell'uomo poteva senz'altro essere Paul... poteva! – Ma io mi rendo conto che gli esseri umani non riescono a sopportare troppa realtà, – proseguì il Predicatore. – Per la maggior parte, la vita della gente è una fuga dalla realtà. La maggior parte degli uomini preferisce la verità della stalla. Ficcate la testa fra le stanghe e ruminate contenti fino alla morte. Altri vi usano per i loro scopi. Non una sola volta osate vivere fuori della stalla, alzando la testa, per essere i creatori di voi stessi.

Muad'Dib venne per parlarvi di ciò. Se non capite il suo messaggio, voi non potete venerarlo! Qualcuno tra la folla, forse un sacerdote travestito, non resistette più. La rauca voce maschile si levò come un urlo: – Tu non vivi la vita di Muad'Dib! Come osi dire agli altri come devono venerarlo? – Perché egli è morto! – tuonò il Predicatore. Alia si voltò per scoprire chi aveva sfidato il Predicatore. L'uomo rimase nascosto alla sua vista, ma la sua voce le giunse sopra le teste che li dividevano, con un altro urlo: – Se credi che sia davvero morto, allora d'ora in poi sarai solo! Era certamente un sacerdote, pensò Alia. Ma non riuscì a riconoscerne la voce. – Sono venuto soltanto per porvi una semplice domanda, – continuò il Predicatore. – Alla morte di Muad'Dib deve forse seguire il suicidio morale di tutti gli uomini? È questa l'inevitabile conseguenza della venuta di un Messia? – Allora ammetti che è un Messia! – gridò la voce tra la folla. – Perché no, dal momento che io sono il profeta dei suoi tempi? – chiese il Predicatore. C'era una tale, olimpica sicurezza nel tono della sua voce e nel modo di esprimersi, che perfino il suo fronteggiatore restò silenzioso. La folla reagì con un mormorio d'inquietudine, un sommesso brusio animalesco. – Sì, – ripeté il Predicatore, – io sono il profeta di questi tempi. Alia concentrò tutta la sua attenzione su di lui, percepì le sottili inflessioni della Voce. Certamente sapeva controllare la folla. Era stato addestrato dal Bene Gesserit? Era questa un'altra impresa del Missionaria Protectiva? Non era Paul, ma ugualmente un'altra pedina nell'interminabile gioco del potere? – Io modello il mito e il sogno! – gridò il Predicatore. – Io sono il medico che fa nascere il bambino e annuncia che il bambino è nato. Eppure vengo a voi in un momento di morte. Ciò non vi turba? Dovrebbe scuotere le vostre anime! Pur provando rabbia nell'udire queste parole, Alia fu costretta a riconoscere l'abilità del discorso. Insieme ad altri, si trovò suo malgrado a salire i gradini verso quell'uomo alto, avvolto nelle vesti del deserto. La folla la premeva da ogni parte. La giovane guida attirò la sua attenzione: quant'erano vivaci e insolenti gli occhi di quel ragazzo! Muad'Dib non avrebbe mai preso al suo servizio un giovane così cinico!

– Io voglio turbarvi! – urlò il Predicatore. – Questa è la mia intenzione! Io sono venuto per combattere la frode e l'illusione della vostra religione ormai convenzionale e istituzionalizzata. Come tutte le religioni di questo tipo, la vostra vi sta trascinando verso la vigliaccheria, la mediocrità, l'inerzia e l'autocompiacimento. Mormorii rabbiosi cominciarono a levarsi dal centro della folla. Alia sentì la tensione, e con gioia maligna si chiese se non sarebbe scoppiato un tumulto. Il Predicatore sarebbe riuscito a controllare quella tensione? Se non ci fosse riuscito, sarebbe potuto morire lì, sul posto! – Quel sacerdote che mi ha sfidato! – gridò il Predicatore, e puntò il dito verso la folla. Lo sa! pensò Alia. Un brivido l'attraversò tutta, quasi sessuale nelle profondità più segrete. Quel Predicatore faceva un gioco pericoloso, ma lo faceva con consumata abilità. – Tu, sacerdote nel tuo mufti, – gridò ancora il Predicatore, – tu sei il cappellano di coloro che si autocompiacciono. Non sono venuto qui per sfidare Muad'Dib, ma per sfidare te! È sincera la tua religione, dal momento che non ti costa niente e non presenta alcun rischio? È sincera la tua religione, dal momento che t'ingrassi con essa? È sincera la tua religione, quando in suo nome commetti atrocità? Qual è la causa che ti ha fatto degenerare verso il basso, rispetto alla rivelazione originale? Rispondimi, sacerdote! Ma il provocatore restò silenzioso. E Alia notò che, ancora una volta, la folla seguiva con avida sottomissione ogni parola del Predicatore. Attaccando il clero, egli si guadagnava la loro simpatia! E se le sue spie non si sbagliavano, la maggior parte dei pellegrini e dei Fremen su Arrakis erano convinti che quell'uomo fosse Muad'Dib! – Il figlio di Muad'Dib rischiò! – urlò il Predicatore, e Alia sentì le lagrime nella sua voce. – Muad'Dib rischiò! Essi hanno pagato! E che cosa è riuscito a realizzare, Muad'Dib? Una religione che si sta sbarazzando di lui! Quanto diverso sarebbe il significato di queste parole, se provenissero da Paul in persona! pensò Alia. Devo scoprirlo! Si spinse ancora più in alto, sui gradini, e altri si mossero con lei. Si fece largo tra la folla fino a quando poté quasi tendere la mano e toccare quel misterioso profeta. Sentì emanare da lui l'odore del deserto, una mistura di polvere e pietra. Sia il Predicatore che la sua giovane guida erano coperti di polvere, come se fossero appena giunti dal bled. Alia vide le mani del Predicatore solcate da

vene prominenti là dove la pelle sporgeva dai polsi sigillati della sua tuta distillante. Alia vide che un dito della sua mano sinistra aveva portato un anello: era rimasto il segno. Paul aveva portato un anello a quel dito. Il Falco degli Atreides, che ora riposava a Sietch Tabr. Leto era destinato a portarlo, se fosse rimasto in vita... e se lei gli avesse consentito di salire sul trono. Ancora una volta il Predicatore puntò le sue orbite vuote su Alia, e parlò a lei, anche se la sua voce raggiunse tutta la folla. – Muad'Dib mostrò due cose: un futuro certo, e un futuro incerto. In piena coscienza, egli affrontò la suprema incertezza di un universo più grande. Egli lasciò da cieco la sua posizione su questo mondo. Ci mostrò che gli uomini devono sempre fare così, scegliendo l'incerto invece del certo. – Alia notò che la sua voce aveva assunto una sfumatura implorante alla fine di quella dichiarazione. Alia si guardò intorno, e fece scivolare la mano sull'elsa del suo cryss. Se l'uccidessi ora, che cosa farebbero? Ancora una volta fu scossa da un brivido. Se l'uccidessi e mi rivelassi, denunciando il Predicatore come un impostore e un eretico? Ma che cosa sarebbe accaduto, se fossero riusciti a dimostrare che era Paul? Qualcuno spinse Alia ancora più vicina a lui. Ella si sentì affascinata dalla sua presenza perfino mentre lottava per dominare la sua rabbia. Era Paul? Dèi sotterranei! Che cosa doveva fare? – Perché un altro Leto ci è stato strappato? – chiese il Predicatore. C'era autentico dolore nella sua voce. – Rispondetemi se potete! Ahhh, il messaggio è chiaro: abbandonare la certezza. – E ripeté, con un urlo rimbombante, stentoreo: – Abbandonare la certezza! È l'ordine più profondo della vita. È il significato stesso della vita. Noi siamo una sonda nell'ignoto, nell'incerto. Perché non riuscite a sentire, dentro di voi, Muad'Dib? Se la certezza significa conoscere in modo assoluto un futuro assoluto, allora essa è soltanto una mascheratura della morte! Un simile futuro diventa l'adesso! Egli vi mostrò questo! Con terrificante immediatezza il Predicatore protese una mano e afferrò il braccio di Alia. Lo fece senza alcun brancolamento, ma dritto e sicuro. Ella cercò di sottrarsi, ma lui la trattenne, con una stretta dolorosa, parlandole direttamente in viso, mentre gli altri intorno a lei si ritraevano in preda alla confusione. – Che cosa ti disse Paul Atreides, donna? – le chiese.

Come fa a sapere che sono una donna? si domandò lei. Avrebbe voluto sprofondare nelle sue vite interiori, chiedere la loro protezione, ma il mondo della sua coscienza restò spaventosamente silenzioso, come ipnotizzato da quella figura uscita dal suo stesso passato. – Egli ti disse che il completamento equivale alla morte! – urlò il Predicatore. – E la predizione assoluta è il completamento... è la morte! Alia cercò di staccarsi di dosso le sue dita. Avrebbe voluto afferrare il cryss e colpirlo al braccio, ma non osò. Non si era mai sentita tanto piena di timore in tutta la sua vita. Il Predicatore drizzò il mento per rivolgersi alla folla, sopra la testa di lei: – Io vi dò la parola di Muad'Dib! Egli disse: «Sfregherò i vostri volti contro le cose che state cercando di evitare. Non trovo per nulla strano che tutto quello che volete credere sia soltanto quello che vi conforta. Altrimenti, come potrebbero gli esseri umani inventare le trappole che li tradiscono, trascinandoli alla mediocrità? In quale altro modo potremmo definire la vigliaccheria?» Ecco che cosa vi disse Muad'Dib! D'improvviso lasciò il braccio di Alia, scagliandola addosso alla folla. E Alia sarebbe caduta, se la calca non l'avesse sorretta. – Esistere significa risaltare, ben lontani dallo sfondo, – proseguì il Predicatore. – Voi non pensate, né esistete realmente, a meno che non siate disposti a rischiare perfino il vostro equilibrio mentale per giudicare la vostra esistenza. Il Predicatore discese di un gradino e afferrò nuovamente il braccio di Alia... senza incertezze o esitazioni. Questa volta, tuttavia, fu meno rude. Abbassò la voce, cosicché soltanto lei potesse udirlo, e le disse: – Smettila con i tuoi tentativi di ricacciarmi nello sfondo, sorella. Poi, con la mano appoggiata sulla spalla della giovane guida, egli si inoltrò tra la folla. La gente si scostò per farli passare, mentre numerose mani si protendevano a sfiorare il Predicatore, con reverenza e rispetto, timorose di ciò che avrebbe potuto trovarsi sotto quella polverosa veste Fremen. Alia restò sola, sconvolta, mentre la folla si allontanava per seguire il Predicatore. La certezza s'impadronì di lei. Era Paul. Nessun dubbio era più possibile. Era suo fratello. Alia sperimentò, finalmente, ciò che la folla aveva sempre provato di fronte a quell'uomo. Si era trovata alla sacra presenza, e ora tutto il suo universo le crollava intorno. Avrebbe voluto inseguirlo, per implorarlo di salvarla da se stessa, ma non fu capace di muoversi. Altri si

accalcavano, sempre più lontano da lei, per seguire il Predicatore e la sua guida; ella invece restò lì, immobile, in preda a una disperazione assoluta, a un'angoscia profonda, tremante e incapace di trasmettere ordini ai suoi muscoli. Che cosa farò? Che cosa? si chiese. Ora non aveva più Duncan a cui appoggiarsi, né sua madre. Le vite interiori rimanevano silenziose. C'era Ghanima, al sicuro nella Rocca, attentamente sorvegliata, ma Alia non sarebbe mai riuscita a convincersi a esternare la sua angoscia alla gemella sopravvissuta. Tutti mi si rivoltano contro. Che cosa posso fare?

Una visione del nostro universo dice che non bisogna guardare lontano, alla ricerca di problemi e della loro soluzione. Quei problemi potrebbero non sorgere mai. Invece, badate al lupo all'interno del vostro recinto. La muta ululante che si aggira all'esterno potrebbe anche non esistere. – Il Libro di Azhar; Shamra I:4

Jessica, quando Idaho entrò nel soggiorno, era accanto alla finestra. La stanza era confortevole, con soffici divani e poltrone all'antica. Non c'era un solo sospensore in nessuna delle sue stanze, e i globi erano di cristallo... un'altra epoca. La sua finestra si apriva su un giardino interno, un piano più sotto. Jessica sentì l'ancella aprire la porta, quindi il suono dei passi di Idaho sul pavimento di legno e poi sul tappeto. Udì tutto questo senza voltarsi, mantenendo lo sguardo fisso sul verde del giardino. Ora, la dilaniante lotta interiore delle sue emozioni doveva essere cancellata. Respirò profondamente alcune volte, secondo l'addestramento prana-bindu, sentì la calma che si era imposta defluire in lei. Il sole alto nel cielo proiettò un raggio di luce attraverso la polvere fino al giardino, facendo risaltare la trama argentea di una ragnatela tesa fra i rami di un albero linden che giungeva quasi a sfiorare la finestra. Faceva fresco all'interno dell'appartamento, ma all'esterno della finestra ermeticamente chiusa l'aria tremolava per il calore irradiato dalle pietre. Castel Corrino sorgeva in una sacca stagnante, che smentiva la verzura rigogliosa del giardino interno. Jessica sentì Idaho che si fermava alle sue spalle. Senza voltarsi, gli disse: – Il dono della parola è il dono dell'inganno... dell'inganno e dell'illusione, Duncan. Perché desideri scambiare parole con me? – Potrebbe darsi che uno solo di noi sopravviva, – replicò lui. – E tu desideri che io faccia un buon rapporto sui tuoi sforzi? – Jessica si voltò, vide con quanta calma egli se ne stava lì, osservandola con quegli occhi di metallo grigio che sembravano fissare tutto e nulla. Com'erano vuoti! – Duncan, è possibile che tu sia geloso a tal punto del tuo posto nella storia? Gli aveva parlato in tono accusatore, e così facendo ricordò l'altra volta in cui aveva parlato a quell'uomo. Allora, era ubriaco, incaricato di spiarla e lacerato da imposizioni in conflitto fra esse. Ma quello era stato un Duncan pre-ghola. Davanti a lei, ora, non c'era lo stesso uomo.

Quest'individuo non era combattuto fra azioni opposte, non era lacerato. Idaho confermò il giudizio di lei, sorridendo. – Tocca alla storia gestire il suo tribunale ed esprimere un giudizio, – dichiarò. – Dubito che mi sentirò preoccupato, il giorno in cui questo giudizio sarà pronunciato. – Perché sei qui? – ella gli chiese. – La stessa ragione per cui anche tu sei qui, mia Signora. Nessun segno esterno tradì la violenza traumatizzante di quelle semplici parole, ma Jessica dentro di sé rifletté angosciata: Davvero sa perché io sono qui? Come poteva? Soltanto Ghanima sapeva. Idaho aveva forse dati sufficienti per una computerizzazione mentat? Era possibile. O se invece avesse pronunciato quelle parole per spingerla a tradirsi? Avrebbe fatto questo, se veramente condivideva le sue ragioni per trovarsi lì? Doveva comunque sapere che ogni loro movimento, ogni loro parola, erano spiati da Farad'n o dai suoi servi. – La Casa degli Atreides è giunta a un bivio ben amaro, – iniziò a dire. – La famiglia che si scaglia contro se stessa. Tu eri fra gli uomini più fedeli del mio Duca. Quando il barone Harkonnen... – Non parliamo degli Harkonnen, – egli l'interruppe. – Quella era un'altra epoca, e il tuo Duca è morto. – E si chiese: Com'è possibile che ignori che Paul mi rivelò in qual modo il sangue degli Harkonnen si era mescolato a quello degli Atreides? Quale rischio era stato quello, per Paul! Ma, facendo questo, aveva legato ancora più fermamente Duncan Idaho a sé. La fiducia dimostrata con quella rivelazione era stata una moneta di scambio quasi troppo grande per immaginarla. Paul sapeva ciò che la gente del Barone aveva fatto a Idaho. – La Casa degli Atreides non è morta, – replicò Jessica. – Ma chi è la Casa degli Atreides? – chiese lui. – Sei tu la Casa degli Atreides? Alia? Ghanima? È la gente che serve quella Casa? Quando guardo questa gente, vedo che tutti portano impressa l'impronta di un travaglio indicibile. È questo il segno degli Atreides. Come disse giustamente tuo figlio: «Il travaglio e la persecuzione sono il destino di tutti coloro che mi seguono.» Io cercherei di strapparmi via da tutto questo, mia Signora. – Sei davvero passato dalla parte di Farad'n? – chiese Jessica. – Non è quello che hai fatto tu, mia Signora? Non sei venuta qui per convincere Farad'n che il suo matrimonio con Ghanima risolverebbe tutti i nostri problemi? Lo pensa davvero? si chiese lei. Oppure parla per le spie che ci

sorvegliano? – La Casa degli Atreides è sempre stata essenzialmente un'idea, – rispose. – Tu lo sai bene, Duncan. Abbiamo sempre comperato lealtà con lealtà. – Al servizio del popolo, – dichiarò Idaho, con un sorriso beffardo. – Ahhh, quante volte ho sentito il tuo Duca dir questo! Deve giacere assai inquieto nella sua tomba, mia Signora. – Credi davvero che siamo caduti così in basso? – Mia Signora, non sai che gruppi di Fremen ribelli... essi si definiscono «Maquis del deserto»... maledicono la Casa degli Atreides, e perfino Muad'Dib? – Ho sentito il rapporto di Farad'n, – replicò, chiedendosi dove egli stesse cercando di condurre la conversazione, e a quale scopo. – Molto più di quel rapporto, mia Signora. Molto più di quanto è stato riferito a Farad'n. Io stesso ho udito la loro maledizione. Ecco ciò che dice: «Il fuoco su di voi, Atreides! Non avrete più anima, né spirito e neppure un corpo. Non avrete carne, sangue, ossa, capelli, e neppure un'ombra, o una lingua per parlare. Non avrete più una casa, una tana, e neppure una tomba. Non avrete giardini, alberi, cespugli. Non avrete acqua, pane, luce, fuoco. Non avrete tribù, famiglia, non avrete figli o eredi. Non avrete testa, né braccia o gambe, né passo, né gesti. Non avrete patria su alcun pianeta. Alle vostre anime non sia permesso di salire dall'abisso, ad esse non sia mai più consentito di vivere sulla terra. Mai più possiate contemplare Shaihulud, siate per sempre incatenati alla più infima abominazione e le vostre anime non ascendano mai e poi mai alla luce gloriosa.» Questa è la maledizione, mia Signora. Potevi immaginare un simile odio da parte dei Fremen? Essi relegano tutti gli Atreides alla sinistra della Dannata, della Donna-Sole che brucia eternamente. Jessica lasciò che un brivido l'attraversasse tutta. Indubbiamente Idaho aveva pronunciato quelle parole con l'identica voce con cui le aveva ascoltate. Perché mai, ora, esibiva quella maledizione alla Casa di Corrino? Jessica poteva benissimo raffigurarsi un Fremen oltraggiato, terribile nella sua furia, in piedi davanti all'intera tribù, mentre sfogava la sua ira lanciando l'antica maledizione. Perché mai Idaho voleva che Farad'n l'ascoltasse? – Tu sei favorevole a un matrimonio fra Ghanima e Farad'n, – ella disse. – Tu hai sempre considerato un solo aspetto dei problemi, – le rinfacciò Idaho. – Ghanima è una Fremen. Ella può sposare soltanto uno che non paghi il fai, la tassa per la protezione. La Casa di Corrino ha ceduto tutte le

sue azioni della CHOAM a tuo figlio e ai suoi eredi. Farad'n esiste soltanto grazie alla tolleranza degli Atreides. E, ricorda: quando il tuo Duca piantò la bandiera del Falco su Arrakis, disse: «Qui sono, qui resto!». Le sue ossa sono ancora là. E Farad'n vorrà vivere su Arrakis insieme ai suoi Sardaukar. Idaho scosse la testa al pensiero di una simile alleanza. – Un vecchio detto afferma che un problema va sbucciato come una cipolla, – replicò Jessica, in tono gelido. Come osa trattarmi con tanta condiscendenza? A meno che non stia recitando per gli occhi attenti di Farad'n... – Chissà perché, non riesco a immaginare Fremen e Sardaukar che si dividono un pianeta, – proseguì Idaho. – È una buccia, questa, che non vien via dalla cipolla. A Jessica non piacevano affatto i pensieri che le parole di Idaho avrebbero potuto destare in Farad'n e nei suoi consiglieri, perciò disse, con voce tagliente: – La Casa degli Atreides è ancora la legge, nell'Impero! – E pensò: Idaho vuol forse convincere Farad'n che gli è possibile riguadagnare il trono senza gli Atreides? – Oh, sì, – rispose Idaho. – Quasi me ne dimenticavo. La legge degli Atreides! Naturalmente, secondo la versione dei Sacerdoti dell'Elisir Dorato. Devo soltanto chiudere gli occhi per riascoltare il tuo Duca il quale mi dice che una proprietà si conquista e si difende sempre con la violenza, o la minaccia di essa. La fortuna passa dovunque, come Gurney cantava. Il fine giustifica ancora i mezzi? Oppure ho confuso i proverbi? Be', non importa poi molto se il pugno di ferro viene brandito apertamente dalle legioni dei Fremen o dei Sardaukar, o invece si nasconde nella legge degli Atreides... basta che il pugno ci sia. E la buccia della cipolla... non è poi necessario staccarla, mia Signora. Sai, mi chiedo quale tipo di pugno sarà il preferito da Farad'n? Che cosa intende fare? si chiese Jessica. La Casa di Corrino farà tesoro di queste argomentazioni, ci godrà immensamente! – Così, tu pensi che i sacerdoti non lasceranno che Ghanima sposi Farad'n? – azzardò Jessica, sondandolo, per vedere fin dove Idaho sarebbe arrivato. – Non lasceranno? Dèi dell'abisso! I sacerdoti lasceranno che Alia faccia tutto ciò che lei vorrà decretare! Potrebbe essere lei stessa a sposare Farad'n! Oh, è questo che gli brucia? si chiese Jessica.

– No, mia Signora, – riprese Idaho. – Non è questo il punto. Il popolo di questo Impero ormai non distingue più fra il governo degli Atreides e quello di Beast Rabban. Ogni giorno uomini muoiono nelle segrete di Arrakeen. Io me ne sono andato perché non avrei potuto offrire neanche per una sola ora la mia spada agli Atreides! Capisci quel che dico, la ragione per cui sono venuto qui, da te, come il più vicino rappresentante degli Atreides? L'Impero degli Atreides ha tradito il tuo Duca e tuo figlio. Io ho amato tua figlia, ma Alia ha imboccato una strada troppo diversa dalla mia. Se si dovesse arrivare al punto, che Farad'n accetti pure la mano di Ghanima... o quella di Alia... ma imponendo le proprie condizioni! Ahhh, sta preparando la scena per un ritiro ufficiale, e con tutti gli onori, dal servizio degli Atreides, pensò Jessica. Ma tutte le altre cose di cui le aveva parlato... possibile che sapesse quanto le rendevano più facile il lavoro? Lo fissò, accigliandosi. – Lo sai che ci sono spie che ascoltano ogni nostra parola, non è vero? – Spie? – Idaho ridacchiò. – Essi ascoltano come io stesso ascolterei al loro posto. Ma ora la mia fedeltà si muove in un'altra direzione. Molte sono le notti che ho passato da solo nel deserto, e i Fremen hanno ragione, quando affermano che la notte, nel cuore del deserto, è la più dura maestra per il nostro pensiero. – È lì dove hai sentito che i Fremen ci maledivano? – Sì. Fra gli al-Ourouba. Per ordine del Predicatore mi sono unito a loro, mia Signora. Ci siamo dati il nome di Zarr Sadus, coloro che si rifiutano di sottomettersi ai sacerdoti. Io sono qui per annunciare formalmente a un Atreides che sono passato in territorio nemico. Jessica lo studiò, cercando i più minuti indizi che lo tradissero, ma Idaho non le diede alcuna indicazione se stesse parlando falsamente o comunque nascondendo altre intenzioni. Era forse possibile che fosse veramente passato a Farad'n? Jessica ricordò la massima della Sorellanza: Nelle faccende umane niente è duraturo, eterno; tutte le faccende umane si muovono lungo una spirale, girando intorno e spostandosi verso l'esterno. Se Idaho aveva veramente lasciato l'ovile degli Atreides, ciò poteva spiegare il suo attuale comportamento. Stava girando intorno, e verso l'esterno. Era una possibilità che lei non doveva trascurare. Ma perché ha voluto sottolineare il fatto di aver obbedito al Predicatore? La mente di Jessica passò fulmineamente in rassegna tutte le alternative, concludendo infine che, forse, avrebbe dovuto uccidere Idaho. Il piano sul

quale aveva puntato tutte le sue speranze era così delicato che non avrebbe sopportato la benché minima interferenza. Assolutamente. E le parole di Idaho dimostravano che egli conosceva il suo piano. Jessica studiò le reciproche posizioni, in quella stanza, muovendosi in modo da poter vibrare il colpo mortale. – Ho sempre considerato l'effetto normalizzatore dei faufreluches come il pilastro della nostra forza, – dichiarò all'improvviso. Che lui si chiedesse pure perché mai aveva spostato la conversazione sul loro sistema di classificazione sociale. – Il Consiglio del Landsraad delle Grandi Case, le Sysselraads, tutti meritano il nostro... – Non distrarmi, – egli l'interruppe. Idaho si meravigliò nel constatare quanto fossero diventate trasparenti le sue azioni. Ciò era forse dovuto al fatto che Jessica non si preoccupava più tanto di dissimulare, oppure egli era riuscito finalmente a spezzare il suo addestramento Bene Gesserit? Decise che quest'ultima era l'ipotesi valida... anche se in parte il fatto doveva essere attribuito a lei, forse a causa dell'avanzare degli anni. Constatare questo lo rattristò, allo stesso modo in cui lo rattristava constatare in quante piccole cose i nuovi Fremen differissero da quelli vecchi. La trasformazione del deserto era la fine di qualcosa di prezioso per gli esseri umani, ma egli non sarebbe riuscito a spiegarlo, non più di quanto sarebbe riuscito a spiegare ciò che era accaduto a Lady Jessica. Jessica fissò Idaho con palese stupore, senza cercare di nascondere la propria reazione. Egli riusciva a leggerla così facilmente? – Tu non mi ucciderai, – disse Idaho. Si era servito delle parole Fremen: «Non macchierai il tuo coltello col mio sangue.» E pensò: Sono diventato un Fremen. Gli diede una falsa sensazione di continuità, rendersi conto della pienezza con cui aveva accettato le costumanze del pianeta che aveva dato asilo alla sua seconda vita. – Credo che farai meglio ad andartene, – disse Jessica. – Non me ne andrò fino a quando non avrai accettato il mio ritiro dal servizio degli Atreides. – Accettato! – ella disse seccamente. E soltanto dopo aver pronunciato quella parola, si rese conto che quello scambio di battute era stato guidato dai puri riflessi. Ora, aveva bisogno di un po' di tempo a disposizione per riflettere a fondo sul fatto. Come aveva potuto, Idaho, prevedere il suo comportamento? Ella non riuscì a credere che fosse capace di balzare avanti nel tempo, nel modo offerto dalla spezia.

Idaho arretrò finché non toccò la porta con la schiena. S'inchinò: – Ancora una volta ti chiamerò mia Signora, poi mai più. Il mio consiglio a Farad'n sarà quello di rimandarti su Wallach, subito e senza chiasso, alla prima occasione. Tu sei un giocattolo troppo pericoloso da avere attorno. Anche se non credo che pensi a te come un giocattolo. Tu lavori per la Sorellanza, non per gli Atreides. Ora mi chiedo se tu mai abbia lavorato per gli Atreides. Voi streghe vi muovete troppo nel profondo e nell'oscurità perché i semplici mortali possano mai fidarsi di voi. – Un ghola che si considera un semplice mortale, – ella lo schernì. – Paragonato a te! – ribatté lui. – Vattene! – ella gli intimò. – Questa appunto è la mia intenzione. – Idaho sgusciò fuori della porta, passando davanti allo sguardo incuriosito dell'ancella, che evidentemente era rimasta ad ascoltare. È fatta, pensò. E quelli, possono interpretarlo soltanto in un modo.

Soltanto nel regno della matematica vi sarà possibile capire esattamente la visione del futuro di Muad'Dib. Così: prima di tutto, postuliamo l'esistenza di spazi con un numero qualunque di dimensioni (questo è il classico aggregato N-uplo, un aggregato dì spazi a N dimensioni). In questi termini il «Tempo», nella sua accezione comune, diventa un aggregato di entità mono-dimensionali. Applicando ciò al fenomeno di Muad'Dib, scopriamo che, o ci troviamo di fronte a una nuova proprietà del tempo, oppure (per riduzione tramite il calcolo infinitesimale) noi ci troviamo di fronte a spazi separati, ognuno ad N proprietà. Per Muad'Dib, dobbiamo supporre vera la seconda ipotesi. Com'è dimostrato dalla riduzione, le dimensioni puntiformi dell'N-upla possono avere esistenze distinte soltanto all'interno di differenti strutture del Tempo. Così dimostriamo l'esistenza di separate dimensioni del Tempo. Come inevitabile conseguenza di questo, le predizioni di Muad'Dib esigono che egli abbia percepito l'N-upla non come un aggregato esteso, ma come una singola operazione su un'unica struttura. In effetti, egli ha cristallizzato il suo universo in quella singola struttura che era la sua visione del Tempo. – Palimbasha: Lezioni a Sietch Tabr

Leto era disteso sulla cresta di una duna, intento a scrutare oltre la distesa di sabbia una linea dentellata di rocce affioranti che si dipanava come un immenso verme sulla sabbia, piatta e minacciosa alla luce del sole mattutino. Niente si muoveva laggiù. Nessun uccello volteggiava sopra di lui; nessun animale scorrazzava fra le rocce. Leto riusciva a scorgere, in una fenditura, una trappola a vento, quasi al centro del dorso del «verme». Lì avrebbe trovato acqua. La roccia a forma di verme aveva l'aspetto familiare dell'esterno di un sietch, fatta eccezione per l'assenza di creature viventi. Leto giacque lì in silenzio, confondendosi con la sabbia e continuando a osservare. Una delle canzoni di Gurney Halleck continuava a echeggiargli nella mente, con insistente monotonia: Sotto la collina, dove la volpe corre leggera, Un sole a chiazze brilla vivido Dove il mio unico amore giace in silenzio. Sotto la collina, tra i cespugli di finocchio, Io spio il mio amore che non può più svegliarsi; Poiché si nasconde in una tomba Sotto la collina.

Dov'era l'ingresso di quel sietch? si chiese Leto. Provava dentro di sé la certezza che quello fosse Jacurutu/Fondak, ma

c'era qualcosa di sbagliato in quel luogo, oltre alla mancanza di animali. Qualcosa si mosse ai margini della sua percezione cosciente, mettendolo in guardia. Che cosa si nascondeva sotto quelle colline? La più preoccupante era la mancanza di animali. La sua cautela, tipica dei Fremen, veniva destata da questo fatto. L'assenza dice più della presenza, quando si tratta di sopravvivenza nel deserto. Ma c'era quella trappola a vento. Quindi, ci sarebbe stata anche dell'acqua e degli esseri umani che l'usavano. Quello era il luogo tabù che si nascondeva dietro il nome di Fondak, l'altra sua identità era andata perduta perfino nei ricordi della maggior parte dei Fremen. E laggiù non si scorgeva nessun uccello, né altri animali. Nessun essere umano... eppure, era lì che incominciava il Sentiero Dorato. Suo padre un tempo aveva detto: «L'ignoto ci circonda ad ogni istante. Ma è nell'ignoto che va cercata la conoscenza.» Leto guardò alla sua destra, lungo la cresta della duna. C'era stata una «madre delle tempeste» di recente. Il lago Azrak, la pianura di gesso, era stato spogliato della sua coltre di sabbia. La superstizione dei Fremen sosteneva che, a chiunque avesse visto le Biyan, le Terre Bianche, veniva concesso un desiderio a doppio taglio, un desiderio che avrebbe potuto distruggerlo. Ma Leto vide soltanto una pianura di gesso la quale gli diceva che un tempo, su Arrakis, erano esistite ampie distese d'acqua. Come sarebbero esistite di nuovo. Leto alzò gli occhi e guardò tutt'intorno, alla ricerca di un movimento. Il cielo, dopo la tempesta, era pervaso da una leggera foschia. La luce, attraversandolo, creava un bagliore lattescente, facendo intuire l'invisibile presenza del sole argenteo lassù, in alto, oltre il velo di polvere che persisteva alle quote stratosferiche. Ancora una volta Leto riportò la sua attenzione alla roccia ondulata. Tirò fuori il binocolo dal fremkit, mise a fuoco le lenti e scrutò quello spoglio grigiore, la scogliera dove un tempo erano vissuti gli uomini di Jacurutu. L'ingrandimento gli rivelò un cespuglio spinoso, del tipo chiamato Regina della Notte. Il cespuglio si annidava all'ombra di una fenditura che sarebbe potuta essere l'ingresso all'antico sietch. Leto esplorò la roccia affiorante per tutta la sua lunghezza. Il bagliore argenteo trasformava i rossi in grigi, appiattendo in una desolata uniformità l'intera dorsale. Leto si girò, voltando la schiena a Jacurutu, e scrutò in ogni direzione i suoi dintorni attraverso il binocolo. Niente, in quella desolazione,

conservava i segni di un passaggio umano. Il vento aveva già cancellato le sue tracce, lasciando soltanto una lievissima concavità nel punto dove si era lasciato cader giù dal verme, durante la notte. Ancora una volta guardò in direzione di Jacurutu. Eccettuata la trappola a vento, non c'era alcun segno che gli uomini fossero mai passati per quel luogo, e senza quel sinuoso costone di roccia, non c'era assolutamente nulla che spiccasse sulla sabbia imbiancata, una desolazione che correva da orizzonte a orizzonte. Leto sentì all'improvviso che lui si trovava in quel luogo perché aveva rifiutato d'essere imprigionato nel sistema che i suoi antenati gli avevano lasciato in eredità. Pensò al modo in cui la gente lo guardava, quell'orrore negli occhi di tutti, fuorché in quelli di Ghanima. Grazie a quella folla cenciosa e assurda di ricordi altrui, questo bambino non è mai stato un bambino. Devo accettare la responsabilità per la decisione che abbiamo presa, pensò. Scrutò ancora una volta quel rilievo roccioso. In base a tutte le descrizioni, quello doveva essere Fondak... e nessun altro luogo poteva essere Jacurutu, se non quello. Si sentì pervaso da una strana risonanza interiore col tabù posto su quel sietch. Nel modo tipico delle Bene Gesserit, aprì la sua mente a Jacurutu, sforzandosi d'ignorar tutto su di esso. Conoscere, infatti, era una barriera che impediva l'apprendimento. Per qualche istante Leto si abbandonò, semplicemente, alla risonanza, senza esigere nulla, senza porre alcuna domanda. Il problema era appunto quella mancanza di vita animale, ma una cosa, soprattutto, lo mise in allarme. La percepì in quell'attimo: non c'erano uccelli predatori: niente aquile, né avvoltoi, né falchi. Anche quando le altre forme di vita si nascondevano, queste persistevano ben visibili. In quel deserto, ogni punto in cui era possibile abbeverarsi aveva la sua catena alimentare. E all'estremità della catena c'erano gli onnipresenti predatori. Nessuno, né bestia né uomo, era venuto a indagare sulla sua presenza. Egli conosceva fin troppo bene «i cani da guardia del sietch,» quella fila di uccelli rannicchiati sui bordi del dirupo, a Tabr, prima espressione naturale d'impresari di pompe funebri in attesa della carne. I Fremen li chiamavano «i nostri concorrenti», ma lo dicevano senza alcun sentimento di gelosia, poiché quei vigili uccelli li avvertivano sempre dell'avvicinarsi di qualche straniero. E se Fondak fosse stato abbandonato perfino dai contrabbandieri?

Leto si dissetò alla sua riserva. E se veramente non ci fosse stata più acqua? Riesaminò la sua posizione. Aveva spinto avanti, in piena velocità, due vermi, per giungere fin lì, fino a farli sprofondare nella sabbia. Li aveva cavalcati per tutta la notte, guidandoli col suo uncino, abbandonandoli soltanto quand'erano stremati dalla fatica. Quello era il Deserto Interno, il paradiso dei contrabbandieri. Se laggiù esisteva la vita, se poteva in qualche modo esistere, allora doveva trovarsi in prossimità dell'acqua. E se non ci fosse stata l'acqua? Se quello non fosse stato Jacurutu/Fondak? Ancora una volta puntò il binocolo sulla trappola a vento. I bordi esterni erano consumati dalla sabbia, aveva urgente bisogno di manutenzione, ma era pur sempre in grado di funzionare. Avrebbe dovuto senz'altro esserci dell'acqua. E se non ci fosse stata? Un sietch abbandonato avrebbe visto svanire la sua acqua nell'aria, al minimo guasto. Perché mai non c'erano uccelli predatori? Erano stati uccisi per la loro acqua? E da chi? Era possibile eliminarli tutti? E come? Col veleno? Con l'acqua avvelenata. La leggenda di Jacurutu non parlava di nessuna cisterna avvelenata, ma avrebbe potuto senz'altro esserlo stata. Ma... anche se gli originari stormi di uccelli rapaci fossero stati sterminati, non avrebbero dovuto già tornare? Gli Iduali erano stati spazzati via molte generazioni prima, e nessuna storia aveva mai parlato di veleno. Ancora una volta Leto scrutò attentamente le rocce col binocolo. Com'era possibile che la popolazione di un intero sietch fosse stata spazzata via? Sicuramente qualcuno doveva essere riuscito a fuggire. Era assai raro che tutti gli abitanti di un sietch si trovassero contemporaneamente a casa. C'erano sempre gruppi che vagavano nel deserto, altri in visita alle città. Con un sospiro di rassegnazione, Leto mise via il binocolo. Scivolò giù lungo la faccia nascosta della duna e prese tutte le precauzioni immaginabili mentre scavava la fossa per la sua tenda distillante, nascondendo tutti i segni della sua intrusione mentre si accingeva a passare dentro di essa le ore calde. La fatica cominciò lentamente a infiltrarsi nei suoi muscoli, impigrendo braccia e gambe, non appena si chiuse dentro al buio. All'interno dei confini umidificanti della tenda, egli trascorse la maggior parte della giornata sonnecchiando, riflettendo sulle sue azioni e

su tutti i possibili errori che avrebbe potuto fare. I sogni, di solito, erano la sua miglior difesa, ma qui, in questa prova, scelta da lui e Ghanima, avrebbe trovato ben poco, in sé, con cui difendersi. Un fallimento avrebbe bruciato le loro anime. Leto mangiò biscotti di spezia, poi si addormentò, e si svegliò per mangiare di nuovo, bere, e rimettersi a dormire. Aveva fatto un viaggio assai lungo per arrivare laggiù, una prova ardua per i muscoli di un bambino. Verso sera, si svegliò fresco e riposato e tese l'orecchio per percepire eventuali segni di vita. Strisciò fuori dal suo sudario di sabbia. In alto, nel cielo, una nuvola di polvere veniva trascinata in una direzione, ma Leto sentì la polvere che gli pungeva le guance sul lato opposto: un segno infallibile che vi sarebbe stato un cambiamento nel tempo. Stava per scoppiare una tempesta. Cautamente Leto strisciò fino in cima alla duna e scrutò ancora una volta quelle rocce enigmatiche. L'aria che lo separava da esse aveva riflessi giallastri. Anch'essa indicava l'avvicinarsi di una tempesta di Coriolis, il vento che aveva la morte nel ventre. Vi sarebbe stato un immenso lenzuolo spiraleggiante di sabbia sospinta dal vento che avrebbe potuto stendersi come un sudario su quattro gradi o più di latitudine. Ora il vuoto desolato del bacino gessoso era diventato una superficie gialla che rifletteva le nuvole di polvere. La falsa pace della sera lo avvolse. Poi il giorno sprofondò e fu notte, la notte improvvisa del Deserto Interno. Le rocce furono trasformate in profili dentellati, che il bagliore della Prima Luna sembrava rivestire di brina. Leto sentì il ticchettio pungente della sabbia sulla sua pelle. La secca esplosione di un tuono risuonò come un'eco di tamburi lontani e, nello spazio tra la luce della luna e l'oscurità profonda, colse un movimento improvviso: pipistrelli. Riusciva a sentire l'agitarsi delle loro ali, i loro stridii. Pipistrelli. Accidentalmente, o con intenzione, quel luogo comunicava una sensazione di desolante abbandono. Era il luogo dove avrebbe dovuto trovarsi la semileggendaria roccaforte dei contrabbandieri: Fondak. E se non era Fondak? Se il tabù fosse stato ancora imperante ed egli avesse davanti a sé, invece, soltanto il guscio vuoto... il fantasma di Jacurutu? Leto si rannicchiò al riparo della duna e attese che la notte imponesse il suo ritmo. Pazienza e prudenza; prudenza e pazienza. Per un po' si divertì a rivisitare la strada percorsa da Chaucer da Londra a Canterbury, elencando tutti i diversi luoghi, da Southwark: due miglia fino all'abbeveratoio di St. Thomas, cinque miglia fino a Deptford, sei miglia fino a Greenwich, trenta

fino a Rochester, quaranta fino a Sittingbourne, cinquantacinque fino a Boughton sotto Blean, cinquantotto miglia fino ad Harbledown, e sessanta, infine, a Canterbury. Gli dava una sensazione d'illimitato ottimismo sapere che ben pochi, nel suo universo, ricordavano Chaucer o conoscevano una qualunque Londra, fatta eccezione per l'omonimo villaggio sul Gansireed. San Tommaso era stato salvato dall'oblio dalla Bibbia Cattolica Orangista e dal Libro di Azhar, ma Canterbury era svanita dal ricordo degli uomini, come era svanito il pianeta che l'aveva conosciuta. Era quello il fardello dei suoi ricordi... tutte quelle vite che minacciavano d'inghiottirlo. Un tempo, egli aveva fatto veramente quel viaggio fino a Canterbury. Questo viaggio, tuttavia, era molto più lungo e pericoloso. Poco dopo Leto si arrampicò fino alla sommità della duna, la superò e ridiscese dall'altra parte, dirigendosi verso le rocce illuminate dalla luna. Si fuse con le ombre, attraversò furtivo le creste delle dune successive, senza produrre il minimo suono che avrebbe potuto tradire la sua presenza. La polvere era scomparsa, come faceva spesso poco prima di una tempesta, e la notte era assai luminosa. Il giorno non aveva rivelato alcun movimento, ma Leto percepì, mentre si avvicinava alle rocce, il rumore di minuscole creature che andavano e venivano nel buio. Nell'avvallamento tra due dune s'imbatté in una famiglia di gerboa che corsero via al suo avvicinarsi. Superò la cresta successiva, mentre oscure apprensioni crescevano in lui. La fenditura che aveva osservato... era un ingresso del sietch? E c'erano altri motivi di allarme: un tempo, i sietch erano sempre protetti da trabocchetti: buche dissimulate con pali appuntiti, piante dalle spine avvelenate. Sperimentò la profonda verità dell'espressione Fremen, la notte dall'orecchio mentale. Aguzzò i suoi sensi per percepire anche il minimo suono. Ora le rocce grigie torreggiavano sopra di lui, rese gigantesche dalla vicinanza. Percepì, con le orecchie tese, il rumore di uccelli invisibili tra quei dirupi. L'appello sommesso di una preda alata. Erano uccelli diurni, che però erano usciti là fuori, di notte. Che cosa aveva capovolto il loro mondo? Predatori umani? D'improvviso, Leto s'immobilizzò contro la sabbia; c'era fuoco tra le rocce, un misterioso balletto di scintille contro l'impalpabile velo nero della notte, il tipo di segnale che il sietch inviava a coloro che vagavano nel bled. Chi erano gli occupanti di quel luogo? Leto avanzò strisciando, inoltrandosi fra le ombre più cupe alla base dello scoscendimento; procedette tastando la roccia con una mano e facendo scivolare il corpo

dietro ad essa, mentre cercava la fenditura che aveva visto alla luce del giorno. La localizzò dopo otto passi, tirò fuori dal kit il tubo e sondò l'oscurità. Ma bastò quel minimo agitarsi perché qualcosa di informe gli precipitasse sulle spalle e sulle braccia, imprigionandole. Una trappola di liane! Resistette all'impulso di lottare; questo sarebbe servito soltanto a far sì che le corde stringessero ancora di più. Lasciò cadere il tubo, flette le dita della mano destra, cercando di afferrare il coltello che aveva alla cintura. Sentì di essersi comportato da stupido, poiché non aveva scagliato qualcosa nella fenditura prima di avvicinarsi, per sondare gli invisibili pericoli del buio. La sua mente si era concentrata troppo sul fuoco in cima al dirupo. Ogni suo movimento faceva stringere ancora di più la rete, ma alla fine le sue dita toccarono l'elsa del pugnale. Lentamente Leto chiuse la mano intorno all'elsa e cominciò a far scivolare il pugnale dal fodero. Una luce abbagliante lo avvolse, arrestando ogni suo movimento. – Ahh, un'ottima preda nella rete! – esclamò un'energica voce maschile alle spalle di Leto, una voce dal tono vagamente familiare. Leto cercò di girare la testa, pur consapevole della pericolosa tendenza di quelle corde, a stritolare un corpo che si muovesse con troppa vivacità. Una mano gli strappò il pugnale, prima ancora che lui riuscisse a vedere il suo catturatore. La stessa mano si mosse con consumata abilità sopra il suo corpo, togliendone tutti i congegni che lui e Ghanima portavano addosso per sopravvivere. Niente sfuggì al perquisitore, neppure il mortale laccio di filo shiga nascosto fra i suoi capelli. Leto non era ancora riuscito a vedere l'uomo. Quelle stesse dita fecero qualcosa alla trappola, e Leto scoprì di poter respirare più facilmente, ma l'uomo si affrettò a dirgli: – Non lottare, Leto Atreides. Ho la tua acqua nella mia tazza. Leto, con un tremendo sforzo, riuscì a dominarsi, e chiese: – Tu conosci il mio nome? – Naturalmente! Quando io metto l'esca in una trappola, lo faccio con uno scopo preciso, mirando a una certa preda, no? Leto restò silenzioso, ma i suoi pensieri turbinavano. – Ti senti tradito! – esclamò la voce stentorea. Due mani l'afferrarono e lo fecero ruotare, lentamente, ma con un'ovvia dimostrazione di forza. Un maschio adulto stava dicendo al bimbo quali erano, in realtà, le sue possibilità di spuntarla.

Leto alzò gli occhi e incontrò due scintille fluttuanti nel buio, intravvide il nero profilo di una testa avvolta dal cappuccio della tuta distillante. Quando i suoi occhi si abituarono, distinse una striscia di pelle scura, gli occhi completamente azzurrati dall'assuefazione al melange. – Ti stai chiedendo perché ci siamo presi tutti questi fastidi, – riprese l'uomo. La voce usciva dalla parte bassa del volto, quella protetta, con un curioso tono smorzato, come se costui stesse cercando di nascondere l'accento. – Molto tempo fa ho smesso di chiedermi perché mai tanta gente volesse morti i gemelli Atreides, – disse Leto. – Le loro ragioni sono ovvie. Mentre parlava, la sua mente si scagliò contro l'ignoto, come una belva contro le sbarre di una gabbia, cercando freneticamente le risposte. Una trappola con l'esca? Ma chi poteva averlo saputo, al di fuori di Ghanima? Impossibile! Ghanima non avrebbe tradito il proprio fratello. Allora, c'era qualcun altro che lo conosceva tanto bene, al punto da poter predire le sue azioni? Chi? Sua nonna? E come avrebbe potuto? – Non si poteva permettere che tu continuassi così, – disse ancora l'uomo. – Molto male. Prima di salire al trono, hai bisogno di venire educato. – Quegli occhi privi di bianco lo fissarono. – Ti stai chiedendo come qualcuno possa presumere di educare una persona come te... con l'intero sapere di una moltitudine d'individui, conservato là dentro, nei tuoi ricordi? È proprio questo, capisci! Tu ti credi perfettamente addestrato, ma in realtà sei soltanto un museo di vite morte. Tu non hai ancora una vita tua. Tu sei soltanto un recipiente traboccante di esistenze altrui, tutte con un unico fine... la morte. Non è bene che un sovrano sia un cercatore di morte. Finiresti per disseminare i tuoi dintorni di cadaveri. Tuo padre, per esempio, non capì mai il... – Osi parlare di lui in questo modo? – Molte sono le volte che ho osato farlo. Dopotutto, era soltanto Paul Atreides. Bene, ragazzo, benvenuto alla tua scuola. L'uomo tirò fuori una mano da sotto la veste e toccò la guancia di Leto. Leto provò la scossa di uno schiaffo-sparo, e si trovò a precipitare a spirale verso il basso, in un'oscurità dove ondeggiava una bandiera verde. Era lo stendardo degli Atreides, con i suoi simboli del giorno e della notte, e l'asta che nascondeva un tubo per l'acqua di Dune. Leto udì il gorgoglio dell'acqua mentre piombava nell'incoscienza. O era l'acida risatina di qualcuno?

Noi riusciamo ancora a ricordare i giorni d'oro prima di Heisenberg, il quale mostrò agli esseri umani le anguste pareti che racchiudono ineluttabilmente le nostre argomentazioni mentali. Le vite dentro di me trovano tutto questo divertente. Il sapere, vedete, non serve, senza uno scopo. Ma è proprio lo scopo che costruisce le invalicabili pareti che ci racchiudono. – Leto Atreides II La Sua Voce

Alia parlò aspramente alle guardie che le stavano di fronte, nel ridotto del Tempio. Erano nove in tutto, la pattuglia suburbana con le sue verdi divise polverose, e ansavano e sudavano ancora per lo sforzo compiuto. La luce del tardo pomeriggio entrava attraverso la porta alle loro spalle. L'intera area era stata sgomberata dai pellegrini. – Così, i miei ordini non significano niente per voi? – ella chiese. Era la prima a meravigliarsi della propria rabbia, ma non cercò di contenerla, e anzi la lasciò esplodere liberamente. Il suo corpo vibrava di tensioni scatenate. Idaho sparito... Lady Jessica... nessun rapporto su di lei... soltanto voci che ambedue si trovavano su Salusa. Perché mai Idaho non le aveva inviato un messaggio? Perché aveva fatto questo? Aveva saputo di Javid? Alia ostentava il giallo colore del lutto su Arrakeen, il bagliore del sole ardente nella storia dei Fremen. Fra pochi istanti avrebbe guidato la seconda e conclusiva processione funebre alla antica fenditura per portare a compimento la lapide commemorativa del suo defunto nipote. Il lavoro sarebbe stato completato durante la notte, un omaggio confacente a chi era stato destinato a guidare i Fremen. Le guardie sacerdotali conservarono un atteggiamento di sfida davanti alla sua rabbia, per niente travolti dalla vergogna. Erano in piedi di fronte a lei, i loro profili circonfusi dalla luce morente. L'odore asprigno del loro sudore si avvertiva attraverso le leggere e inefficienti tute distillanti degli abitanti di città. Il loro capo, un Kaza alto e biondo, con le insegne di bourka della famiglia di Cadelam, scostò la maschera della tuta per parlare più chiaramente. La sua voce era piena degli echi orgogliosi che ci si potevano aspettare dal rampollo di una famiglia che un tempo aveva governato Sietch Abbir. – Certo che abbiamo tentato di catturarlo! L'uomo era ovviamente oltraggiato per il violento attacco di lei. – Egli bestemmia! – proseguì. – Conosciamo i tuoi ordini, ma l'abbiamo udito

con le nostre orecchie! – E non siete riusciti a prenderlo, – replicò Alia, con voce bassa e accusatrice. Un'altra guardia, una donna giovane, di bassa statura, cercò di difendersi: – La folla era troppo fitta, là in mezzo! Giuro che quella gente ci ha deliberatamente impedito di... – Continueremo a dargli la caccia, – l'interruppe il Cadelam. – Non falliremo tutte le volte. Alia si accigliò: – Perché non cercate di capire e di obbedirmi? – Mia Signora, noi... – Che cosa farai, rampollo del Cade Lamb, se quando l'avrai catturato, dovessi scoprire che si tratta di mio fratello? Ovviamente, non aveva percepito l'enfasi con cui Alia aveva pronunciato il suo nome, anche se non avrebbe potuto far parte delle guardie sacerdotali se non avesse ricevuto un po' di addestramento. Voleva forse sacrificarsi? Comunque, deglutì, poi disse: – Dovremo ucciderlo noi, poiché egli causa disordine. Gli altri furono atterriti a queste parole, ma tuttavia conservarono il loro atteggiamento di sfida, pur sapendo ciò che questo significava. – Egli spinge le tribù a unirsi contro di te, – continuò il Cadelam. Ora Alia sapeva come maneggiarlo. Gli disse, in tono tranquillo, pratico: – Capisco. Se proprio vuoi sacrificare te stesso in questo modo, uccidendolo apertamente, perché tutti possano vedere chi sei e che cosa fai, allora credo proprio che tu debba farlo. – Sacrificare me... – S'interruppe, diede un'occhiata ai suoi compagni. Come Kaza di quel gruppo, come capo eletto, egli aveva il diritto di parlare a loro nome, ma in quel momento diede chiaramente segno che avrebbe preferito esser rimasto zitto. Le altre guardie si agitarono inquiete. Tradite dall'ardore della caccia, avevano sfidato Alia. Ora potevano soltanto riflettere sul significato di quella sfida all'«Utero del Cielo». Con ovvio disagio, le guardie lasciarono un piccolo spazio fra sé e il Kaza. – Per il bene della Chiesa, la nostra reazione ufficiale dovrà essere assai severa, – proseguì Alia. – Tu capisci questo, non è vero? – Ma lui... – L'ho udito io stessa, – lei l'interruppe. – Ma questo è un caso speciale. – Non può essere Muad'Dib, mia Signora! Quanto poco sai! pensò Alia. E replicò: – Non possiamo rischiare di

catturarlo all'aperto, facendogli del male dove altri possono vedere. Naturalmente, se si presentasse una diversa opportunità... – Ma è sempre circondato dalla folla! – Allora, temo che dovrai pazientare. Naturalmente, se insisti a volermi sfidare... – Lasciò le conseguenze sospese in aria, non pronunciate ma ugualmente ben capite. Il Cadelam era ambizioso, aveva una splendida carriera davanti a sé. – Non intendevamo sfidarti, mia Signora. – Ora l'uomo aveva ripreso il controllo di se stesso. – Abbiamo agito precipitosamente, ora lo capisco. Perdonaci, ma lui... – Niente è accaduto; non c'è niente da perdonare, – lei l'interruppe, usando la consueta espressione Fremen. Era uno dei molti modi in cui una tribù manteneva la pace fra i suoi ranghi, e quel Cadelam aveva ancora quanto bastava del vecchio Fremen per ricordarsene. La sua famiglia aveva una lunga tradizione di capi. La colpevolezza era la frusta del Naib, e andava usata con parsimonia. I Fremen servivano meglio quand'erano liberi dal senso di colpa e dal risentimento. Il Kaza mostrò di aver afferrato il suo giudizio chinando la testa e dicendo: – Per il bene della tribù, capisco. – Andate a rinfrescarvi, – lei li invitò. – La processione avrà inizio tra pochi minuti. – Sì, mia Signora. – Si allontanarono in fretta, ogni loro movimento rivelava il sollievo di essersela cavata così. Dentro la testa di Alia una voce in chiave di basso rimbombò sordamente: – Ahhh, hai saputo sbrigartela abilmente. Uno o due di loro sono ancora convinti che tu vuoi veder morto il Predicatore. Troveranno il modo di accontentarti. – Stai zitto! – lei sibilò. – Stai zitto! Non avrei mai dovuto ascoltarti! Guarda che cosa hai fatto... – Ti ho messa sulla strada dell'immortalità, – insisté la voce. Alia la sentì echeggiare nel suo cranio, come un dolore sordo, e pensò: Dove posso nascondermi? Non ho alcun luogo dove andare! – Il pugnale di Ghanima è affilato, – continuò il Barone. – Ricordalo. Alia ammiccò. Sì, ecco qualcosa che lei doveva ricordare. Il pugnale di Ghanima era affilato. Quel pugnale avrebbe ancora potuto liberarli da quel disperato groviglio.

Se credete a certe parole, allora credete anche ai loro argomenti nascosti. Quando vi convincete che qualcosa sia giusto o sbagliato, in realtà voi credete alle supposizioni insite nelle parole che esprimono questi argomenti. Tali supposizioni sono spesso piene di falle, ma restano ugualmente preziose per colui che è convinto. – La Prova Aperta del Panoplia Prophetica

La mente di Leto galleggiava in una mescolanza di odori selvatici. Egli riconobbe il forte sentore di cannella del melange, il sudore di corpi in attività in un ambiente chiuso, l'afrore di un distillatore di cadaveri privo di coperchio, polvere di ogni tipo, fra cui predominava la selce. Quegli odori formavano una pista, attraverso la distesa sabbiosa del sogno, creando forme di nebbia su una terra morta. Leto sapeva che quegli odori avrebbero dovuto dirgli qualcosa, ma una parte di lui ancora non riusciva ad ascoltare. Pensieri simili a fantasmi galleggiavano nella sua mente: In questo tempo io non ho dei lineamenti ben distinti: io sono tutti i miei antenati. Il sole che tramonta sulla sabbia è il sole che tramonta nella mia anima. Un tempo questa moltitudine dentro di me era grande, ma tutto questo è finito. Io sono un Fremen, e finirò come un Fremen. Il Sentiero Dorato è finito ancora prima di cominciare. Non è altro che una pista battuta dal vento. Noi Fremen conoscevamo tutti i trucchi per nasconderci: non lasciavamo feci né acqua né impronte... Ora, guarda, la mia pista è svanita. Una voce maschile parlò accanto al suo orecchio: – Potrei ucciderti, Atreides. Potrei ucciderti, Atreides. – La frase gli fu ripetuta in continuazione, fino a quando perse di significato e divenne un borbottio indistinto all'interno dei sogni di Leto, una qualunque litania: – Potrei ucciderti, Atreides... Leto si schiarì la gola e la realtà di quel semplice atto gli scosse i sensi. Con la gola secca riuscì a balbettare: – Chi... La voce accanto a lui disse: – Io sono un Fremen diplomato a pieni voti: ho ucciso il mio uomo. Voi ci avete rubato i nostri dèi, Atreides. Che cosa ci può importare del vostro puzzolente Muad'Dib? Il vostro dio è morto! Quella era un'autentica voce Ouraba, oppure il suo sogno che continuava? Leto aprì gli occhi e si trovò disteso, senza che niente più l'imprigionasse, su un duro giaciglio. Guardò in alto e vide un soffitto di roccia, alcuni globi dalla fievole luce, e un volto senza maschera che lo fissava talmente da vicino da alitargli in faccia tutti i familiari odori dei cibi del sietch. Quel volto era Fremen; non ci si poteva sbagliare su quella

pelle scura, quei lineamenti angolosi e la carne resa coriacea dalla mancanza d'acqua. Quello non era un abitante della città. Era un Fremen del deserto. – Io sono Namri, padre di Javid, – dichiarò il Fremen. – Mi riconosci adesso, Atreides? – Conosco Javid, – disse Leto con voce rauca. – Sì, la tua famiglia conosce bene mio figlio. Sono orgoglioso di lui. Forse tu, Atreides, lo conoscerai ancora meglio tra breve. – Che cosa... – Io sono uno dei tuoi insegnanti, Atreides. Io ho soltanto una funzione: sono colui che potrebbe ucciderti. E lo farò con gioia, se sarà necessario. In questa scuola, diplomarsi significa sopravvivere: fallire significa essere consegnato a me. Leto percepì l'implacabile sincerità di quella voce, e il gelo che s'irradiava da essa. Costui era un gom jabbar umano, un nemico artificiale che avrebbe messo alla prova il suo diritto alla vita tra gli altri esseri umani. Leto sentì la mano di sua nonna dietro a tutto questo, e, dietro Lady Jessica, l'indistinta, ma concreta presenza del Bene Gesserit. La sua mente si ribellò a quel pensiero. – La tua istruzione incomincia da me, – riprese Namri. – Questo è giusto. E pratico. Poiché potrebbe finire con me. Ora, ascoltami attentamente. Ogni mia singola parola può salvarti la vita. Ogni mio singolo atto può procurarti la morte. Leto diede una rapida occhiata alla stanza: pareti di roccia, spoglie: soltanto il suo giaciglio, quei pallidi globi, e l'imboccatura di un corridoio oscuro alle spalle di Namri. – Non riusciresti mai a scavalcarmi, – disse Namri, cogliendo il suo sguardo. E Leto gli credette. – Perché fai questo? – gli chiese. – Ti è già stato spiegato. La tua testa è piena di progetti, non è vero? Eppure, tu ora sei qui... e ti è forse possibile prevedere un futuro per la tua condizione attuale? No, le due cose non possono combinarsi: il tuo presente e il futuro. Ma se tu conosci davvero il tuo passato, se ti guardi indietro e vedi dove sei stato, forse troverai nuovamente un futuro, una ragione di vita. In caso contrario, morirai. Leto notò che il tono della voce di Namri non era scortese, ma era fermo, e non si discostava dalla sua promessa di morte. Namri si piegò all'indietro, facendo perno sui calcagni, e fissò il soffitto

roccioso. – Nei tempi antichi, all'alba, i Fremen guardavano a oriente. L'Eos, sai? L'alba, in una delle antichissime lingue. Con una sfumatura d'amaro orgoglio nella voce, Leto replicò: – Io quella lingua la parlo. – Allora non mi hai ascoltato, – disse Namri, e la sua voce era come una lama affilata. – La notte era il tempo del caos. Il giorno era il tempo dell'ordine. Così era all'epoca di quella lingua che tu dici di saper parlare: oscurità-disordine, luce-ordine. Noi Fremen abbiamo cambiato tutto ciò. L'Eos era la luce di cui diffidavamo. Per noi, era di gran lunga preferibile la luce della luna, oppure delle stelle. La luce del sole era troppo ordine, e questo può essere fatale. Voi, Eos–Atreides, capite ciò che avete fatto? L'uomo è creatura soltanto di quella luce che lo protegge. Il sole era il nostro nemico, su Dune. – Namri abbassò nuovamente gli occhi su Leto. – Tu, quale luce preferisci, Atreides? La tensione che emanava dal corpo dell'uomo, in precario equilibrio sui calcagni, rivelò a Leto il peso di quella domanda. Quell'uomo l'avrebbe ucciso, se lui non avesse risposto correttamente? Forse sì. Leto scorse la mano di Namri appoggiata sull'impugnatura lucida del cryss. Un anello magico a forma di tartaruga scintillava su quella mano. Leto si sollevò sui gomiti, e riandò con la mente alle antiche credenze dei Fremen. Questi vecchi Fremen avevano fiducia nella legge, anche se amavano sentirla spiegata con analogie. La luce della luna? – Io preferisco... la luce di Lisanu L'haqq, – rispose Leto, scrutando Namri alla ricerca di un indizio rivelatore. L'uomo parve deluso, ma allontanò la mano dal pugnale. – La luce della verità, – proseguì Leto. – La luce dell'uomo perfetto, nella quale si può chiaramente scorgere l'influenza di al-Mutakallin. Quale altra luce potrebbe mai preferire un essere umano? – Tu parli come uno che recita, – ribatté Namri. – Non come uno che crede. E Leto annuì dentro di sé: Ho recitato. Ma cominciò a intuire in quale direzione si muovevano i pensieri di Namri, quasi che le sue parole fossero istintivamente analizzate grazie a un addestramento a risolvere enigmi iniziatosi fin dalla più tenera infanzia, e a lui bastasse semplicemente abbandonarsi a questo istinto per trovarsi con la mente brulicante di esempi. Domanda: Il silenzio? Risposta: l'amico della preda. Namri annuì tra sé, come se avesse condiviso quel pensiero, e disse: – C'è una caverna, che è la caverna della vita per i Fremen. È una caverna che esiste realmente, ma il deserto l'ha nascosta. Shai-hulud, l'avo di tutti i

Fremen, ha sigillato quella caverna. Mio zio Ziamad me ne parlò, e lui non mi ha mai mentito. Sì, quella caverna esiste. Quindi, tacque, e nell'improvviso silenzio Leto sentì una sfida. La caverna della vita? – Anche mio zio Stilgar mi ha parlato di quella caverna, – replicò. – Venne chiusa per impedire che i codardi vi si nascondessero dentro. Il riflesso luminoso di un globo scintillò negli occhi di Namri, ancora immersi nell'ombra. Il vecchio chiese: – Voi Atreides l'avete forse riaperta? Voi vi sforzate di controllare la Vita attraverso un ministero, il vostro Ministero Centrale dell'Informazione, Auqaf e Hajj. Il Maulana che ne è a capo si chiama Kausar. Ha fatto molta strada, dai tempi in cui la sua famiglia era alle miniere di sale di Niazi. Dimmi, Atreides, che cosa c'è di sbagliato nel vostro ministero? Leto si rizzò a sedere, consapevole, adesso, di trovarsi pienamente coinvolto nel gioco degli enigmi con Namri. La penitenza, se avesse fallito, sarebbe stata la morte. Il vecchio capo aveva chiaramente mostrato di esser pronto a usare il cryss alla prima risposta sbagliata. Namri, riconoscendo questa consapevolezza in Leto, annuì: – Credimi, Atreides. Io sono il frantuma-zolle. Io sono il Martello di Ferro. Ora Leto comprese. Namri si vedeva nelle vesti di Mirzabah, il Martello di Ferro con cui venivano battuti quei morti che non riuscivano a rispondere in modo soddisfacente alle domande, prima di entrare in paradiso. Che cosa c'era di sbagliato nel Ministero Centrale che Alia e i suoi sacerdoti avevano creato? Leto pensò al motivo per cui era venuto nel deserto, e in lui baluginò nuovamente la speranza che il Sentiero Dorato potesse ancora comparire nel suo universo. Ciò che la domanda di Namri implicava non era altro che la ragione per cui il figlio di Muad'Dib era stato spinto a venire nel deserto. – Spetta a Dio mostrare la strada, – disse. Namri abbassò di scatto il mento e fulminò Leto con un'occhiata: – Possibile che tu creda veramente a questo? – È la ragione per cui sono qui. – Per trovare la strada? – Per trovarla da solo. – Leto sporse i piedi oltre l'orlo del giaciglio. Il gelido pavimento roccioso non era coperto da tappeti. – I sacerdoti hanno invece creato il loro ministero per nascondere la strada. – Tu parli come un vero ribelle, – dichiarò Namri, e sfregò l'anello in forma di tartaruga che portava al dito. – Vedremo... Ora, ascoltami

attentamente ancora una volta. Tu conosci l'alto Muro Scudo a Jalal-udDin? Su quel muro si trovano i segni della mia famiglia, scolpiti ai primi tempi. Javid, mio figlio, ha visto quei segni. Abedi Jalal, mio nipote, li ha visti. Mujahid Shafqay, degli Altri, li ha visti anche lui. Durante la stagione delle tempeste a Sukkar, anch'io, con il mio amico Yakup Abad, mi avvicinai il più possibile a quel luogo. Ma i venti erano roventi come i turbini dai quali imparammo le nostre danze. Non riuscimmo a vedere i segni perché una tempesta ci bloccò la strada. Ma quando la tempesta passò, comparve davanti a noi per un attimo, sulla sabbia soffiata via dal vento, la visione di Thatta. Il volto di Shakir Alì fu lì per un attimo, a contemplare la sua città di tombe. L'immagine subito si dileguò, ma noi tutti l'avevamo vista. Dimmi, Atreides, dove posso trovare quella città di tombe? I turbini dai quali imparammo le nostre danze, ripeté Leto, dentro di sé. La visione di Thatta... Shakir Alì. Quelle erano le parole di uno Zensunni Errante, uno di quelli che si consideravano gli unici, veri uomini del deserto. E ai Fremen era proibito avere una tomba. – La città delle tombe è alla fine del sentiero che tutti gli uomini seguono, – disse Leto. Ne ripescò la descrizione dai suoi ricordi. – Si trova in un giardino di mille passi quadrati. Lo splendido corridoio d'entrata è lungo duecentotrenta passi ed è largo cento, ed è tutto pavimentato con marmo dell'antica Jaipur. Lì dentro abita ar-Razzaq, colui che dà il cibo a tutti quelli che lo chiedono. E il Giorno del Giudizio, tutti coloro che si alzeranno e cercheranno la città delle tombe, non riusciranno a trovarla, giacché sta scritto: Ciò che conoscete in un mondo, non lo troverete in un altro. – Ancora una volta reciti senza credere, – lo schernì Namri. – Ma per ora accetterò la risposta, perché credo che tu sappia la ragione per cui sei qui. – Un gelido sorriso gli sfiorò le labbra. – Ti do un futuro provvisorio, Atreides. Leto studiò l'uomo con circospezione. Era forse un'altra domanda mascherata? – Bene! – esclamò Namri. – La tua coscienza è stata preparata. Ho conficcato bene la punta. Ancora una cosa, allora. Hai sentito che, nelle città del lontano Kadrish, indossano imitazioni di tute distillanti? Mentre Namri lo fissava, aspettando, Leto sondò la propria mente alla ricerca di un significato nascosto. Imitazioni di tute distillanti? Ma le

indossano su molti pianeti. E rispose: – I frivoli costumi di Kadrish sono una vecchia storia, spesso ripetuta. L'animale saggio si fonde con i suoi dintorni. Namri annuì lentamente: – Colui che ti ha preso in trappola e ti ha portato qui verrà a trovarti tra poco. Non provarti a uscire da qui, sarebbe la tua morte. – Mentre ancora parlava si alzò, e s'inoltrò nel corridoio oscuro. Leto continuò a fissare a lungo il corridoio, dopo che Namri se ne fu andato. Là fuori si udivano dei suoni, voci di uomini in servizio di guardia. Il racconto di Namri, la sua visione-miraggio, rivisse nella sua mente. Come pure la sua lunga traversata del deserto fino a quel luogo. Non importava più che quel luogo fosse, o meno, Jacurutu/Fondak. Namri non era un contrabbandiere. Era qualcosa di molto più potente. E il gioco di Namri sapeva molto di Lady Jessica... puzzava di Bene Jesserit. Leto percepì il pericolo che l'avvolgeva da ogni parte. Ma quello scuro corridoio, che aveva inghiottito Namri, era l'unica uscita da quella stanza. E tutto intorno a quella stanza si estendeva uno strano sietch... e più oltre il deserto. L'aspra severità di quel deserto, il suo caos ordinato con i miraggi e le interminabili successioni di dune, parvero avviluppare Leto come parte integrante della trappola che l'aveva catturato. Lui avrebbe potuto riattraversare quella sabbia, ma dove l'avrebbe portato quella fuga? Quel pensiero fu come acqua stagnante, che non sarebbe servita a spegnere la sua sete.

Gli esseri umani, la cui mente convenzionale ha una visione unidirezionale del tempo, tendono a pensare secondo termini sequenziali che possano esprimersi con parole. Questa trappola mentale produce concetti di efficacia e di conseguenza validi esclusivamente a breve termine, una condizione continua di reattività in modo illogico e non previsto alle crisi. – Liet-Kynes Prontuario di Arrakis

Simultaneità di parole e movimenti, ricordò Jessica a se stessa, e concentrò i propri pensieri sulla preparazione mentale indispensabile all'imminente incontro. Era un'ora dopo mezzogiorno, e il sole dorato di Salusa Secundus cominciava appena a sfiorare la parete del giardino opposta alla finestra. Si era abbigliata con cura: il mantello da Reverenda Madre, col cappuccio nero, ma con lo stemma degli Atreides ricamato in un cerchio d'oro vicino al bordo, e ripetuto sull'estremità di ambedue le maniche. Jessica drappeggiò con cura l'indumento mentre volgeva la schiena alla finestra, tenendo il braccio sinistro di traverso, per ostentare lo stemma del Falco. Farad'n fece un breve commento sulla presenza di questi simboli degli Atreides, quando entrò nella stanza, ma non tradì né rabbia né sorpresa. A sua volta, Jessica notò che Farad'n aveva indossato l'abito grigio che lei stessa gli aveva suggerito. Si sedette sul basso divano verde che lei gli aveva indicato, mettendosi comodo. Perché mi fido di lei? si chiese. Questa è una strega Bene Gesserit! Jessica, che colse quel pensiero inquieto nel contrasto fra il suo corpo rilassato e l'espressione del suo viso, sorrise, e gli disse: – Tu ti fidi di me perché sai che il nostro è un buon patto, e tu vuoi quello che io posso insegnarti. Farad'n fece per accigliarsi, ma Jessica lo calmò con un gesto della mano: – No, non ti leggo la mente. Mi basta l'espressione del tuo viso, l'atteggiamento del corpo, la posizione delle braccia, le sfumature della voce. Tutte le Bene Gesserit sanno farlo. – E tu me l'insegnerai? – Sono certa che hai studiato un gran numero di rapporti su di noi, – replicò Jessica. – Hai mai trovato che una Bene Gesserit abbia mancato a un'esplicita promessa? – No, ma... – In buona parte, la nostra sopravvivenza è dovuta alla fiducia che la

gente può avere nella nostra sincerità. E questo è vero ancora oggi. – Trovo tutto questo assai ragionevole, – disse Farad'n. – Sono ansioso di cominciare. – Mi stupisce che tu non abbia chiesto un'insegnante direttamente al Bene Gesserit, – commentò Jessica. – Le Reverende Madri si sarebbero letteralmente precipitate su quest'opportunità di renderti loro debitore. – Mia madre non ha mai voluto ascoltarmi quando la sollecitavo a farlo, – replicò lui. – Ma ora... – Scrollò le spalle, un commento eloquente all'esilio di Wensicia. – Possiamo cominciare? – Sarebbe stato assai meglio cominciare quand'eri più giovane, – osservò Jessica. – Ora sarà molto più difficile, per te, e ci vorrà molto più tempo. Per prima cosa dovrai imparare la pazienza, una grande pazienza. Sinceramente, mi auguro che tu non lo trovi un prezzo troppo alto da pagare. – Certamente no, per la ricompensa che mi offri. Jessica sentì nella sua voce la sincerità, una punta di timore e il muto appello alla speranza. Tutto questo forniva una base per cominciare. Gli disse: – Veniamo dunque all'arte della pazienza... Cominciamo con alcuni esercizi elementari di prana-bindu per le braccia e le gambe, e la respirazione. Ci occuperemo più tardi delle mani e delle dita. Sei pronto? Jessica si sedette su uno sgabello di fronte a lui. Farad'n annuì, con un'espressione di attesa sul volto, per nascondere l'improvviso assalto della paura. Tyekanik l'aveva avvertito che doveva esserci un inganno nell'offerta di Lady Jessica, qualcosa concordato con la Sorellanza. «È impossibile credere che lei le abbia abbandonate un'altra volta, o che esse abbiano abbandonato lei.» Farad'n aveva interrotto la discussione con uno scoppio di rabbia del quale si era subito dispiaciuto. La sua reazione emotiva gli aveva comunque fatto accettare con maggior prontezza le precauzioni di Tyekanik. Farad'n lanciò un'occhiata ai quattro angoli della stanza, all'elusivo luccichio delle piastre ornamentali nella volta. Ma ciò che luccicava, in realtà, non erano semplici ornamenti: tutto ciò che veniva detto e fatto in quella stanza sarebbe stato registrato, e menti bene addestrate avrebbero esaminato ogni sfumatura, ogni parola, ogni movimento. Jessica sorrise, cogliendo le sue rapide occhiate, ma non rivelò di averle viste. Proseguì, invece: – Per imparare la pazienza al modo del Bene Gesserit, devi cominciare a riconoscere l'essenziale instabilità del nostro universo. Noi chiamiamo «natura»... intendendo con questa definizione la

totalità delle sue manifestazioni... il Supremo Non-Assoluto. Per render libera la tua visione e consentirti di riconoscere questa condizione essenzialmente mutevole della natura, protendi ora le braccia davanti a te, e distendi le mani. Ora, fissa le tue mani, prima i palmi, poi i dorsi. Ed esamina le tue dita, davanti e dietro. Orsù, fallo. Farad'n accondiscese, ma si sentì sciocco. Quelle erano le sue mani. Lui le conosceva bene. – Immagina che le tue mani stiano invecchiando, – proseguì Jessica. – Devono diventare assai vecchie, ai tuoi occhi. Decrepite. Guarda quanto è rugosa e coriacea la pelle... – Le mie mani non cambiano, – replicò lui. Sentì che i muscoli delle braccia cominciavano a tremargli. – Continua a fissare le tue mani. Falle diventar vecchie, quanto più riesci a immaginare. Può esserti necessario del tempo. Ma quando le avrai viste invecchiare, inverti il procedimento e falle ritornare giovani... giovani il più possibile. Su, sforzati, lotta con te stesso, per farle passare dall'infanzia alla vecchiaia, e viceversa, a volontà. Avanti e indietro. Avanti e indietro. – Non cambiano! – protestò lui. Anche le spalle cominciavano a dolergli. – Se l'imporrai ai tuoi sensi, le tue mani cambieranno, – insisté Jessica. – Su, concentrati nello sforzo di vedere quel particolare flusso del tempo che desideri: dall'infanzia alla vecchiaia, o dalla vecchiaia all'infanzia. Saranno forse necessarie delle ore, dei giorni, dei mesi. Ma finirai per riuscirci. L'inversione del flusso del tempo, e quella, conseguente, del mutamento, t'insegnerà a vedere ogni sistema come qualcosa di relativamente stabile... relativamente a te, al modo in cui tu lo vorrai. – Credevo di dover imparare la pazienza. – Jessica sentì la rabbia nella sua voce, una punta di frustrazione. – E la stabilità relativa, – completò lei. – La prospettiva che tu crei con la tua stessa fede; e la fede, la convinzione che ciò che tu vedi è vero, può esser manipolata dall'immaginazione. Tu hai imparato soltanto un modo assai limitato di guardare l'universo. Ora, tu devi fare, di quell'universo, la tua creazione. Ciò ti permetterà di controllare la stabilità di qualunque sistema per i tuoi scopi... per qualunque scopo che tu sarai capace d'immaginare. – Quanto tempo hai detto che ci vorrà? – Pazienza, – lei gli ricordò. Istintivamente, sorrise; e i suoi occhi si mossero, esitanti, a guardarla.

– Fissa le tue mani! – lei gl'impose. Il sorriso scomparve. Farad'n riportò di scatto il suo sguardo sulle mani protese, concentrandosi su di esse. – Che cosa dovrò fare, quando le mie braccia si stancheranno? – domandò. – Stai zitto e concentrati, – lei gli ripeté. – Se sentì che ti stai stancando troppo, smettila. Rilassati per qualche minuto, poi ricomincia. Devi insistere in questo finché non avrai successo. Nelle tue attuali condizioni, questo è molto importante, non puoi immaginare quanto. Finché non avrai imparato questa lezione, non ce ne saranno altre. Farad'n sospirò profondamente, si morse le labbra, concentrò ancora di più lo sguardo sulle mani. Le ruotò lentamente: palmo, dorso, palmo, dorso... Le spalle gli tremavano per la fatica. Palmo, dorso... Niente cambiò. Jessica si alzò in piedi, raggiunse l'unica porta. Farad'n parlò, senza distogliere l'attenzione dalle mani: – Dove vai? – Lavorerai meglio se resterai solo. Tornerò fra un'ora. Abbi pazienza. – Lo so! Jessica lo studiò per qualche istante. Quant'era teso, e concentrato! Le ricordò, con un'improvvisa stretta al cuore, il suo perduto figlio. Si permise un sospiro, e gli disse: – Quando ritornerò, t'insegnerò il modo di dar sollievo ai muscoli. Ma tu... dagli tempo. Resterai stupito quando scoprirai ciò che potrai fare col tuo corpo e i tuoi sensi. Uscì dalla stanza. Le guardie, onnipresenti, presero posizione dietro di lei, scortandola a circa tre passi, quando s'incamminò con incedere altero lungo il corridoio. Il loro timore reverenziale era fin troppo visibile. Essi erano sardaukar, tre volte avvertiti del suo coraggio, addestrati nel continuo ricordo delle sconfitte subite ad opera dei Fremen di Arrakis. Quella strega era una Reverenda Madre dei Fremen, una Bene Gesserit e una Atreides. Jessica, dando un'occhiata dietro di sé, scorse nei loro volti tesi un'altra pietra di volta del suo piano. Girò nuovamente la testa quando raggiunse le scale, scese i gradini e, percorso un breve corridoio, uscì nel giardino sul quale si apriva la sua finestra. Ora, se Duncan e Gurney riusciranno a fare la loro parte... pensò, quando sentì la ghiaia del sentiero sotto i piedi e vide filtrare attraverso il verde la luce dorata del sole.

Imparerai i vari metodi d'integrazione dei dati non appena inizierai il passo successivo della tua istruzione mentat. L'integrazione è una funzionegestalt che si sovrapporrà al puro e semplice accoglimento dei dati nella tua coscienza, e ti consentirà di districare e ricombinare il più grande numero d'informazioni eterogenee, servendoti delle varie tecniche mentat del catalogo/indice di cui ti sei già impadronito. Il tuo problema, all'inizio, sarà costituito dalla difficoltà di padroneggiare la tendenza dispersiva che nasce da tanti piccoli particolari in apparenza privi di relazione, su argomenti specifici. Stai in guardia. Senza le tecniche mentat d'integrazione, tu potrai sprofondare senza rimedio nel problema di Babele, l'etichetta con cui noi indichiamo il pericolo sempre presente di ottenere combinazioni sbagliate partendo da informazioni corrette. – Il manuale del mentat

Un fruscio di tessuti sfregati l'uno sull'altro ridestò bruscamente l'attenzione di Leto. Fu sorpreso, constatando che i suoi sensi erano talmente acuti da riuscire a identificare perfino il tipo di tessuti: quello, infatti, era il frusciare di una veste Fremen contro i drappi ruvidi di una tenda. Si girò verso il suono: proveniva dal corridoio dov'era sparito Namri, pochi minuti prima. Nell'istante in cui si voltò, Leto vide entrare il suo catturatore, l'uomo che l'aveva preso prigioniero: la striscia di pelle scura sopra la maschera della tuta distillante, gli occhi dallo sguardo bruciante. L'uomo portò una mano all'altezza della maschera, sfilò il tubo dalle narici, scostò la maschera e con lo stesso movimento rovesciò indietro il cappuccio. Ancora prima di aver visto chiaramente la cicatrice causata dalla liana indelebilis sulla mascella dell'uomo, Leto lo riconobbe. Fu un lampo improvviso nella sua coscienza, che rese di trascurabile importanza la ricerca di ulteriori dettagli. Non potevano esserci dubbi in proposito: quello strabiliante grumo di umanità, quel guerriero-trovatore, era Gurney Halleck! Leto strinse convulsamente le mani, sopraffatto, per qualche istante, dallo shock del riconoscimento. Nessun seguace degli Atreides era stato più fedele di Gurney Halleck. Nessuno l'aveva mai superato nell'arte di duellare con lo scudo. Era stato il confidente e il miglior insegnante di Paul. Ora, era il servo fedele di Lady Jessica. Una miriade di dati, ed altri ancora, invasero la mente di Leto. Gurney era colui che l'aveva catturato. Gurney e Namri erano associati in quella congiura. E in ogni loro atto era fin troppo chiara l'ispirazione di Jessica. – A quanto vedo hai incontrato il nostro Namri, – commentò Halleck. –

Ti prego di credergli, giovane signore. Egli ha una ben precisa funzione, una sola. Egli è colui che ti ucciderà, se dovesse rivelarsi necessario. Leto rispose automaticamente, col tono di voce di suo padre: – Così, ti sei unito ai miei nemici, Gurney! Non avrei mai creduto che il... – Non tentare nessuno dei tuoi diabolici trucchi su di me, ragazzo, – l'interruppe Halleck. – Nessuno può riuscire, con me. Io eseguo gli ordini di tua nonna. La tua educazione è stata progettata fino al più piccolo particolare. Anche la scelta di Namri è stata approvata. Quello che accadrà adesso, per quanto doloroso possa sembrare, accadrà per suo ordine. – E che cosa ha ordinato? Halleck sollevò una mano finora nascosta tra le pieghe della veste, rivelando una siringa Fremen, primitiva ma efficiente. Il flacone trasparente era pieno di un liquido azzurro. Leto si tirò indietro, contorcendosi sul giaciglio, ma fu arrestato dalla parete rocciosa. In quell'istante, Namri entrò nella stanza e si fermò accanto ad Halleck, la mano sul cryss. In tal modo, l'unica uscita fu bloccata. – Vedo che hai riconosciuto l'essenza di spezia, – disse Halleck. – Dovrai fare il viaggio del verme, ragazzo. Devi sperimentarlo. Altrimenti, ciò che tuo padre osò e tu non hai osato resterà sospeso sul tuo capo per il resto dei tuoi giorni. Leto scosse la testa, atterrito. Questo era appunto ciò che – lui e Ghanima ben lo sapevano – li avrebbe sopraffatti! Gurney era uno sciocco ignorante! E come poteva Jessica... Leto sentì la presenza di suo padre: un'improvvisa irruzione nella sua mente, nel tentativo di spogliarlo di ogni difesa. Leto volle gridare, oltraggiato, ma non riuscì a socchiudere le labbra. Ma quella... quella era la cosa innominabile che la sua consapevolezza di pre-nato temeva di più. La trance da spezia, la lettura di un futuro immutabile, con tutte le sue fissità e i suoi terrori. No, non era possibile che Jessica avesse ordinato una simile prova per suo nipote. Ma la presenza di lei incombeva nella sua mente, proponendogli ossessivamente numerose, ottime ragioni per accettare. Perfino la litania della paura fu rovesciata su di lui, in una ipnotica ripetizione: «Non devo aver paura, la paura è l'uccisore della mente. La paura è la piccola morte che porta all'annullamento totale. Io affronterò la mia paura, farò che scivoli sopra di me e attraverso me. E quando sarà passata...» Con una bestemmia già antica quando la Caldea era giovane, Leto tentò di muoversi. Avrebbe voluto balzare addosso ai due uomini che

incombevano su di lui, ma i suoi muscoli si rifiutarono di obbedire. Come se fosse già sprofondato nella trance, Leto vide la mano di Halleck muoversi verso di lui, la siringa che si avvicinava. La luce di un globo si rifletté sul liquido azzurro. La punta dell'ago toccò il braccio sinistro di Leto. Un dolore lancinante gli attraversò il corpo, afferrandogli in un lampo i muscoli del collo e penetrandogli nella testa. Improvvisamente, Leto vide una giovane donna seduta fuori di una capanna alla prima luce dell'alba. Sedeva lì, davanti a lui, facendo arrostire dei chicchi di caffè fino a farli diventare rosso-bruni, aggiungendovi cardamomo e melange. La musica di una ribeca risuonò in qualche punto dietro a lui, e crebbe via via d'intensità finché gli rimbombò, terrificante, dentro il capo. Invase completamente il suo corpo, e a Leto parve di esser diventato grande, un adulto, non più un bambino. E la pelle non era la sua. Lui conosceva quella sensazione! Quella pelle non era la sua. Un calore gli invase il corpo. All'improvviso, com'era avvenuto per la prima visione, Leto si trovò in piedi, nel buio. Era notte. Le stelle, simili a una pioggia di cenere, precipitavano a manciate da un cosmo scintillante. Una parte di lui sapeva che non c'era modo di fuggire; ciò nonostante, egli tentò di lottare finché la presenza di suo padre non s'intromise: – Ti proteggerò durante la trance. Gli altri, qua dentro, non riusciranno. La furia del vento fece cadere Leto, l'avvolse in un turbine di sabbia e polvere, facendolo rotolare sul suolo, ferendogli, sibilando, il volto e le braccia, riducendogli i vestiti a brandelli, sferzandolo con i lembi lacerati e ormai inutili. Ma Leto non provò alcun dolore e vide i tagli e i graffi rimarginarsi con la stessa rapidità con cui si formavano. E continuò a rotolare spinto dal vento. E quella pelle non era la sua. Accadrà! fu il suo pensiero. Ma quel pensiero giungeva di lontano e come se non fosse suo, non realmente suo... Come la pelle. S'immerse nella visione, la quale prese a evolversi in una sorta di memoria tridimensionale che separava il passato dal presente, il presente dal futuro, e il futuro dal passato. E ogni sezione confluiva nelle altre in un singolo punto focale, trioculare, che lui percepiva come una mappa in rilievo multidimensionale della sua futura esistenza. Pensò: Il tempo è una misura dello spazio, allo stesso modo in cui lo è un telemetro. Ma lo stesso atto di misurare ci imprigiona nello spazio che misuriamo. Sentì la trance farsi più profonda. Era come un'amplificazione della coscienza che la sua auto-identità assorbiva e attraverso la quale si sentiva

cambiare. Era il tempo, un tempo vivo, guizzante, che lui non poteva arrestare neppure per un attimo. Frammenti di ricordi, futuri e passati, lo travolsero come una cateratta. Ma essi esistevano come un grande mosaico in movimento. Le relazioni tra i vari frammenti cambiavano in una sorta di frenetica danza. La sua memoria era una lente, un riflettore che illuminava qua e là il turbine scegliendo i singoli frammenti, isolandoli, ma impotente ad arrestare quel movimento e quei mutamenti continui che si manifestavano davanti a lui. Anche ciò che lui e Ghanima avevano progettato comparve alla luce del riflettore, dominando ogni cosa, ma ora questo l'atterrì, la realtà di quella visione gli causò una viva sofferenza interiore. Quell'implacabile inevitabilità fece raggricciare il suo Io. Ma quella pelle non era sua! Il passato e il presente si precipitarono su di lui, attraverso lui, penetrando le barriere del suo terrore. Lui non poteva separarli. A un dato istante, lui si sentiva in procinto d'intraprendere il Jihad Butleriano, ansioso di distruggere qualunque macchina che simulasse l'umana coscienza. Quello era senz'altro il passato... ormai trascorso e concluso. Eppure i suoi sensi si tuffavano in quell'esperienza, assorbendone i più minuti particolari. Egli sentì un fratello-ministro parlare dal pulpito: Dobbiamo annichilire le macchine che pensano, gli uomini devono decidere in prima persona la propria vita. Le macchine non sapranno mai far questo. Il ragionamento dipende da chi programma, non dalla ferraglia che esegue ciecamente. E noi siamo il programma supremo! Leto udì nuovamente la voce, rivide (e riconobbe) l'ambiente: una grande sala dalle pareti di legno, le finestre buie. La scarsa luce era irradiata da fuochi crepitanti. Il fratello-ministro proseguì: Il nostro Jihad è anch'esso una programmazione: la programmazione che spazzerà via tutto quello che ci sta distruggendo come esseri umani! Nella mente di Leto era vivo il ricordo di quell'oratore: era un ex addetto ai computer, uno che li conosceva assai bene, che li aveva fatti funzionare. Ma quella scena svanì e Ghanima comparve davanti a lui e disse: Gurney sa tutto. Lui stesso me l'ha detto. Sono le parole di Duncan, e Duncan ha parlato come mentat. «Nel fare del bene, evita che gli altri lo sappiano; nel fare del male, evita tu di saperlo.» Quello doveva essere il futuro: un lontano futuro. Ma lui ne sentiva la realtà, altrettanto intensa quanto un qualunque passato della sua moltitudine di vite. E si trovò a bisbigliare: – Non è così, Padre?

Ma la presenza del padre dentro di lui si fece udire per ammonirlo: – Non invocare il disastro! Ora stai imparando la consapevolezza stroboscopica. Senza di essa travolgeresti te stesso, perdendo la tua impronta-identità nel Tempo. E l'immagine tridimensionale persisté, anche se le intrusioni continuavano a martellarlo. Il passato – il presente – l'adesso... non esisteva una vera separazione. Lui sapeva che avrebbe dovuto lasciarsi andare in questo flusso continuo, ma l'idea lo terrorizzava. Come avrebbe potuto, in tal modo, ritornare a un qualunque luogo riconoscibile? Eppure, si sentì costretto a interrompere ogni resistenza. Non riusciva in alcun modo a costruire il suo nuovo universo con singoli frammenti immobili, ben definiti. Nessun frammento sarebbe rimasto fermo, e uguale a se stesso. Non c'era una sola cosa che sarebbe potuta restare in eterno nello stesso luogo, e accettare una immutabile definizione. Lui doveva individuare il ritmo delle trasformazioni, e insinuare il suo sguardo tra esse fino a cogliere l'essenza stessa del mutamento. Così, senza sapere quando fosse cominciato, si trovò a muoversi all'interno di uno sterminato moment bienheureux, in grado di vedere il passato nel futuro, il presente nel passato, l'adesso sia nel passato che nel futuro. Un coacervo di secoli intimamente vissuti fra un battito del cuore e il successivo. La coscienza di Leto scorse via, libera, nessuna psiche obiettiva l'ostacolò, non c'erano più barriere. Il «futuro provvisorio» di Namri lasciava ancora una debole traccia nella sua memoria, ma condividendo la consapevolezza di molti altri futuri. E in questa consapevolezza dalle mille sfaccettature, tutto il suo passato, ogni vita interiore, divennero suoi. Con l'aiuto della più grande fra tutte le presenze dentro di sé, Leto dominò la moltitudine. Se ne impadronì. Pensò: Quando si studia un oggetto da lontano, si colgono i suoi contorni essenziali. Ora lui era riuscito a conquistare, appunto, la distanza. Contemplò la sua vita e vide il suo passato dalla brulicante molteplicità: i ricordi erano il suo fardello, la sua gioia, la sua necessità. Il viaggio del verme vi aveva aggiunto un'altra dimensione e suo padre non montava più la guardia dentro di lui, poiché non ve n'era più bisogno. Leto vedeva chiaramente attraverso tutte le distanze: passate e presenti. E il passato gli mostrò il suo primo, estremo antenato: un uomo chiamato Harum, senza il quale il lontano futuro non sarebbe mai esistito. Quelle nuove, chiare distanze gli fornivano contorni precisi, modi più efficaci di partecipazione. Qualunque vita avesse scelto ora, l'avrebbe vissuta come individuo

autonomo e, insieme, come esperienza di massa, una scia di esistenze così strettamente intrecciate che nessun singolo periodo avrebbe potuto contare esattamente il numero di presenze in esso contenute. Quell'esperienza di massa, una volta ridestata, avrebbe avuto il potere d'imporsi sul suo individualismo. Era senz'altro in grado d'imporsi su un individuo, ma altresì su una società, su un'intera civiltà. Questa, naturalmente, la ragione per cui Gurney era stato avvertito di guardarsi da quel potere... la ragione per cui il pugnale di Namri era pronto a scattare. Lui non doveva in alcun modo consentire che Gurney e Namri si accorgessero della presenza di quel potere in lui. Nessuno avrebbe mai dovuto vederlo nella sua pienezza... neppure Ghanima. Qualche istante dopo, Leto si sollevò dal giaciglio e vide che soltanto Namri era rimasto a sorvegliarlo. Con voce da adulto, Leto disse: – I limiti non sono uguali per tutti gli uomini. La prescienza universale è una vana leggenda. Soltanto i nodi cruciali del Tempo, le correnti locali più intense, possono esser visti in anticipo. Ma in un universo infinito, il termine locale può significare qualcosa di talmente gigantesco che la tua mente si ritrae di fronte ad esso. Namri scosse la testa, non aveva capito. – Dov'è Gurney? – chiese Leto. Se n'è andato, per timore di dover assistere alla tua morte. – Mi ucciderai, Namri? – Fu quasi un'implorazione perché il vecchio Fremen lo facesse. Namri tolse la mano dal pugnale: – Poiché sei tu che mi chiedi di farlo, non lo farò. Se ti fossi mostrato indifferente, tuttavia... – La malattia dell'indifferenza è tra le più micidiali, – dichiarò Leto. Annuì tra sé. – Sì, perfino le civiltà ne muoiono. E come se questo fosse il prezzo richiesto per raggiungere nuovi livelli di complessità o di consapevolezza. – Alzò lo sguardo su Namri. – Così, ti hanno detto di cercare l'indifferenza in me? – E qui, Leto ebbe modo di accorgersi che Namri non era soltanto un assassino... ma anche un individuo tortuoso. – Come segno di un potere senza controllo, – annuì Namri, ma questa era una menzogna. – Un potere indifferente... sì. – Leto sospirò profondamente. – Non c'era grandezza morale nella vita di mio padre, Namri, soltanto una trappola, una trappola locale che lui stesso si costruì.

O Paul, Muad'Dib, Mahdi di tutti gli uomini, Il tuo respiro Scatena la tempesta. – Dai Canti di Muad'Dib

– Mai! – esclamò Ghanima. – Lo ucciderei la notte stessa del nostro matrimonio. – Usava la sua lingua tagliente per difendersi con una ostinazione che fino a quel momento aveva resistito a tutte le lusinghe. Alia e i suoi consiglieri avevano tentato di convincerla per tutta la notte, tenendo svegli e in subbuglio gli appartamenti reali, mandando continuamente a chiamare nuovi consiglieri e chiedendo cibo e bevande. L'intero Tempio e la Rocca contigua sembravano contorcersi per la frustrazione. Ghanima sedeva composta su una verde poltrona sospesa, nel suo alloggio, una grande stanza con le pareti grezze che simulavano, con la loro tinta bruno-rossiccia, la roccia del sietch. Il soffitto, tuttavia, era di cristallo imbar, azzurro, e il pavimento rivestito di piastrelle nere. Pochi i mobili: un tavolino per scrivere, cinque poltrone galleggianti e uno stretto giaciglio sistemato in un'alcova, alla maniera dei Fremen. Ghanima indossava una veste gialla, il colore del lutto. – Tu non sei una persona che possa decidere liberamente ogni atto della sua vita, – replicò Alia, per la centesima volta. Questa piccola sciocca deve arrivare a capirlo, presto o tardi! Deve accettare il suo fidanzamento con Farad'n. Deve! Che lo ammazzi pure, dopo... Ma la legge esige che una ragazza Fremen accetti pubblicamente il suo fidanzamento. – Ha ucciso mio fratello, – ribatté Ghanima, aggrappandosi all'unico argomento in suo favore. – Tutti lo sanno. I Fremen sputerebbero pronunciando il mio nome, se io acconsentissi a fidanzarmi con lui! E questa è proprio una delle ragioni per cui devi acconsentire, pensò Alia. – È stata sua madre a farlo. Lui l'ha esiliata, a causa di questo. Che cosa vuoi di più da lui? – Il suo sangue, – esclamò Ghanima. – È un Corrino. – Ha accusato pubblicamente sua madre, – protestò Alia. – Perché dovresti preoccuparti dei Fremen... della plebaglia! Accetteranno qualunque cosa noi faremo inghiottire loro. Ghani, la pace dell'Impero esige che... – Non acconsentirò mai, – ribatté Ghanima. – E tu non puoi annunciare il mio fidanzamento senza di me.

Irulan, entrata nella stanza mentre Ghanima pronunciava quest'ultima frase, fissò Alia e le due donne, membri del consiglio, che le stavano accanto scoraggiate, con sguardo interrogativo. Alia alzò le braccia, disgustata, e si lasciò cadere su una poltrona davanti a Ghanima. – Prova a parlarle tu, Irulan, – disse. Irulan tirò a sé un'altra poltrona galleggiante, e si sedette accanto ad Alia. – Tu sei una Corrino, Irulan, – disse Ghanima. – Non tentare troppo la tua sorte con me. – Si alzò in piedi, raggiunse il suo giaciglio e si sedette sopra di esso a gambe incrociate, fissando con aria feroce le due donne. Vide che Irulan aveva indossato un aba nero come quello di Alia, il cappuccio gettato all'indietro lasciando liberi i capelli dorati. Anch'essi avevano il colore del lutto, al chiarore dei globi sospesi che illuminavano la stanza. Irulan diede un'occhiata ad Alia, si alzò in piedi, fece qualche passo e si fermò davanti a Ghanima. – Ghani, lo ucciderei io stessa, se questo fosse il modo di risolvere il problema. E Farad'n è del mio stesso sangue, come tu hai fatto gentilmente notare. Ma tu hai dei doveri ben più alti dei tuoi obblighi verso i Fremen... – Detto da te, non ha certo un suono migliore di come lo dice la mia cara zia, – l'interruppe Ghanima. – Non si può cancellare il sangue di un fratello. È molto più che un qualche piccolo proverbio Fremen. Irulan strinse le labbra. Poi: – Farad'n tiene prigioniera tua nonna. Tiene prigioniero Duncan. E se noi non... – Le vostre spiegazioni sul modo in cui è potuto accadere tutto questo non mi hanno certo convinto, – replicò Ghanima, senza guardare Irulan né Alia. – Tanto tempo fa, Duncan è morto piuttosto che consentire ai nemici di catturare mio padre. Forse questa sua carne-ghola non è più la stessa di quel... – A Duncan è stato affidato l'incarico di proteggere la vita di tua nonna! – esclamò Alia, con un brusco movimento deprecatorio. – Sono convinta che ha scelto l'unico modo per farlo. – E pensò: Duncan! Duncan! Non era questo che dovevi fare! Ghanima colse l'insincerità nella voce di Alia, tornò a fissarla e disse: – Tu menti, Utero del Cielo. Ho saputo della tua lite con mia nonna. Cos'è che non vuoi rivelarci di lei e del tuo prezioso Duncan? – Sai già tutto, – rispose Alia, ma avvertì una fitta di paura a questa aperta accusa e a ciò che essa implicava. Si rese conto che la fatica l'aveva

resa imprudente. Si alzò in piedi e ripeté: – Tutto quello che io so, lo sai anche tu. – Si rivolse a Irulan. – Occupati tu di lei. Bisogna fare in modo che... Ghanima l'interruppe con una violenta bestemmia Fremen la quale, uscita da quelle labbra immature, ebbe un effetto sconvolgente. Nell'improvviso silenzio che seguì, disse: – Voi credete di avere a che fare con una bambina, e di avere anni a disposizione per lavorare su di me, costringendomi alla fine ad accettare. Rifletti, Celestiale Reggente. Tu sai meglio di chiunque altro gli anni che ho dentro di me. Darò retta a quelli, non a te. Alia si trattenne a fatica dal risponderle per le rime, e la fissò con rinnovato interesse. Abominazione? Che cosa era mai quella bambina? Alia aveva già paura di Ghanima, ma questa paura, adesso, acquistò nuove e più inquietanti sfumature. Anche Ghanima aveva, forse, accettato un compromesso con le vite che si manifestavano ai pre-nati? Rispose: – C'è ancora tempo sufficiente perché tu diventi ragionevole. – E sufficiente anche perché io possa vedere il sangue di Farad'n schizzare sul mio pugnale, – ribatté Ghanima. – Puoi starne certa. Se mai accadrà che io rimanga sola con lui, uno di noi due certamente morirà. – Credi di aver amato tuo fratello più di quanto l'abbia amato io? – chiese Irulan. – Ti stai comportando da sciocca! Io gli ho fatto da madre, come l'ho fatto per te. Io ero... – Tu non l'hai mai conosciuto, – l'interruppe Ghanima. – Tutti voi, eccettuata, qualche volta, la mia amata zia, insistete nel considerarci dei bambini. Siete voi gli sciocchi... e Alia lo sa! Guarda come cerca disperatamente di sfuggire a... – Io non sfuggo a niente, – ribatté Alia, ma girò la schiena a Irulan e a Ghanima, e fissò le due amazzoni che facevano finta di non sentire quella discussione. Ovviamente, esse avevano rinunciato ad affrontare Ghanima. Forse, perfino simpatizzavano con lei. Alia le mandò via dalla stanza con poche parole rabbiose. Mentre esse obbedivano, un vivo sollievo si dipinse sui loro volti. – Tu fuggi, – insisté Ghanima. – Ho scelto il modo di vivere che più mi si addice, – replicò Alia, voltandosi a fissare Ghanima, seduta a gambe incrociate sul giaciglio. Possibile che anch'essa avesse raggiunto quel terribile compromesso interno? Alia cercò d'individuarne i segni, ma fu incapace di leggere in Ghanima anche una sola indicazione che la tradisse. Allora, Alia si chiese:

Lo ha forse visto in me? Ma come può averlo fatto? – Tu hai sempre temuto di ridurti ad essere una semplice finestra per la moltitudine che hai dentro di te, – l'accusò Ghanima. – Noi siamo i prenati e lo sappiamo. Tu sarai la loro finestra, che tu lo voglia o no. Tu non puoi ignorarli. – E pensò: Sì, ti conosco... Abominazione. E forse finirò come sei finita tu, ma per ora posso soltanto provare pietà per te e disprezzarti. Un silenzio quasi palpabile calò fra Alia e Ghanima, destando l'attenzione (grazie all'addestramento Bene Gesserit) di Irulan, la quale guardò prima l'una e poi l'altra, e chiese: – Perché tutto a un tratto siete diventate così tranquille? – Sto pensando a qualcosa che richiede una profonda riflessione, – spiegò Alia. – Rifletti pure a tuo agio, cara zia, – la schernì Ghanima. Alia, soffocando la rabbia resa ancora più aspra dalla stanchezza, esclamò: – Basta per ora! Lascia che ci pensi. Forse rinsavirà. Irulan si alzò in piedi e disse: – Comunque è quasi l'alba. Ghani, prima che ce ne andiamo, t'interessa ascoltare l'ultimo messaggio di Farad'n? Lui... – No, – ribatté Ghanima. – E d'ora in poi, smettila di chiamarmi con quel ridicolo diminutivo... Ghani! Serve soltanto a ribadire in voi l'errata convinzione che io sia una bambina, che voi potete... – Perché tu ed Alia siete diventate improvvisamente così tranquille? – chiese Irulan, ritornando alla precedente domanda, ma servendosi questa volta della Voce. Ghanima rovesciò indietro la testa e scoppiò a ridere: – Irulan! Stai davvero provando la Voce su di me? – Che cosa? – Irulan fu colta di sorpresa. – Insegneresti a tua nonna a succhiare le uova, – commentò Ghanima. – Che cosa? – Il fatto che io ricordi quest'espressione, mentre tu non l'avevi mai udita prima, – disse Ghanima, – dovrebbe farti pensare. Era un'antica espressione di disprezzo, quando voi Bene Gesserit eravate ancora giovani. Comunque, se non l'hai capita, rifletti allora su ciò che pensavano di te i tuoi genitori, quando ti hanno chiamata Irulan... Doveva essere, invece, Ruina? Nonostante il suo addestramento, Irulan arrossì: – Stai cercando di farmi arrabbiare, Ghanima.

– E tu stai cercando di usare la Voce su di me! Sai, io ricordo i primi esperimenti umani con la Voce. Io ricordo quel tempo, Rovinosa Irulan. E adesso, fuori di qui tutte e due! Alia, però, colta da un'improvvisa ispirazione interiore, che parve cancellare ogni fatica, replicò: – Forse ho un suggerimento che potrebbe farti cambiare idea, Ghani. – Ancora Ghani! – Una risatina rabbiosa uscì dalle sue labbra, poi continuò: – Rifletti un attimo. Se volessi uccidere Farad'n, basterebbe semplicemente che mi conformassi ai tuoi piani. Suppongo che tu non abbia pensato a questo. Diffida di Ghani quando è di umore trattabile. Vedi? Sono completamente sincera con te. – È quello che speravo, – disse Alia. – Se tu... – Il sangue di un fratello non può essere cancellato, – l'interruppe Ghanima. – Non mi presenterò ai miei amati Fremen dopo aver tradito la loro legge. Mai perdonare, mai dimenticare. Non è forse il nostro catechismo? Vi avverto, e lo ripeterò a tutti: non potete fidanzarmi a Farad'n. Chi, conoscendomi, ci crederebbe? Lo stesso Farad'n non ci crederebbe. E i Fremen, non appena informati di un simile fidanzamento, riderebbero dentro le loro maniche e direbbero: «Vedi? Lo sta attirando in una trappola.» Se tu... – Capisco, – fu il commento di Alia, che si portò al fianco di Irulan. Aveva infatti notato che Irulan era rimasta immobile, in silenzio, già consapevole di dove le avrebbe condotte quella conversazione. – Così, lo attirerei in una trappola, – concluse Ghanima. – Se è questo che desideri, acconsentirò, ma non è detto che lui ci cada. Se tu vuoi questo fidanzamento come moneta di scambio per riscattare mia nonna e il tuo prezioso Duncan, ebbene, sia. Ma sei tu che sottoscriverai questo patto. Riscattali pure in questo modo. Farad'n, tuttavia, è mio. E lo ucciderò. Irulan si girò di scatto e affrontò Alia prima che potesse rispondere: – Alia! Se mancheremo alla nostra parola... – Lasciò la frase in sospeso per un attimo, mentre Alia, con un agro sorriso, immaginava l'ira delle Grandi Case, le distruttive conseguenze dell'essersi fidati dell'onore degli Atreides, la perdita della fede religiosa, tutte le strutture grandi e piccole che sarebbero crollate. – Si rivolterà a nostro danno, – protestò Irulan. – La fede in Paul come profeta... cancellata! L'Impero... – Chi oserebbe mettere in dubbio il nostro diritto a decidere ciò che è sbagliato e ciò che è giusto? – chiese Alia, a bassa voce. – Noi facciamo da

intermediari fra il bene e il male. Basterà soltanto che io proclami... – Non puoi far questo! – ribatté Irulan. – La memoria di Paul... – È soltanto uno strumento della Chiesa e dello Stato, – s'intromise Ghanima. – Non dire sciocchezze, Irulan. – Toccò il cryss alla cintura e fissò Alia. – Ho giudicato male la mia abile zia, Reggente di Tutto ciò che è Santo nell'Impero di Muad'Dib. Davvero, ti ho giudicato male. Attira pure Farad'n nella nostra alcova, se vuoi. – Questa è sconsideratezza, – protestò Irulan. – Acconsenti a questo fidanzamento, Ghanima? – chiese Alia, ignorando Irulan. – Alle mie condizioni, – dichiarò Ghanima, la mano ancora appoggiata sul cryss. – Io me ne lavo le mani, – replicò Irulan, e se le torse, alla lettera. – Avrei discusso volentieri, per ottenere un vero fidanzamento e rimarginare... – Alia ed io ti forniremo una ferita molto più difficile da rimarginare, – disse Ghanima. – Su, fallo venir subito, sempre che venga. E forse verrà. Sospetterebbe mai di una bambina in così tenera età? Organizziamo una cerimonia ufficiale di fidanzamento che richieda la sua presenza. Facciamo in modo che io abbia l'opportunità di restar sola con lui... un minuto o due basteranno. Irulan rabbrividì davanti a quella dimostrazione che Ghanima era, in fin dei conti, una Fremen al cento per cento, una bambina dall'istinto sanguinario identico a quello di un adulto. Dopotutto, i bambini Fremen erano addestrati a trucidare i feriti sul campo di battaglia, sollevando da questo lavoro le donne, alle quali in tal modo era consentito raccogliere i cadaveri e trasportarli ai distillatori della morte. E Ghanima, parlando con la sua voce da bambina, aggiungeva orrore all'orrore, scegliendo accuratamente le parole, con l'antico sentimento di vendetta che la cingeva come un'aureola. – D'accordo, – dichiarò Alia, dominandosi per impedire che la voce e il volto tradissero la sua gioia. – Prepareremo ogni cosa per un fidanzamento ufficiale. Convocheremo, come testimoni alle firme, una solenne assemblea interamente composta da membri delle Grandi Case. Farad'n non potrà in alcun modo sospettare... – Sospetterà, ma verrà, – disse Ghanima. – E si circonderà di guardie. Ma le sue guardie penseranno mai a proteggerlo da me? – Per l'amore di tutto ciò che Paul tentò di fare, – protestò Irulan, –

lascia almeno che facciamo apparire la morte di Farad'n come un incidente, oppure l'azione inconsulta di un estraneo... – Sarà per me una gioia mostrare il pugnale insanguinato ai miei fratelli! – esclamò Ghanima. – Alia, ti supplico, – balbettò Irulan. – Desisti da questo folle progetto. Dichiara il kanly contro Farad'n, qualunque cosa pur di non... – Non abbiamo bisogno di una formale richiesta di vendetta contro di lui, – disse Ghanima. – Tutto l'Impero sa quello che proviamo. – Indicò la manica della sua veste. – Indossiamo il giallo del lutto. Quando lo cambierò col nero del fidanzamento, credi che questo riuscirà a ingannare qualcuno? – Prega che riesca almeno a ingannare Farad'n, – ribatté Alia. – E i delegati delle Grandi Case che inviteremo a far da testimoni al... – Ognuno di quei delegati ti si rivolterà contro! – esclamò Irulan. – Lo sai fin troppo bene. – Un'osservazione giusta, – annuì Ghanima. – Scegli con cura quei delegati, Alia. Dovranno essere tutte persone che non c'importerà di dover eliminare più tardi. Irulan alzò le braccia, in preda alla disperazione, si voltò e fuggì fuori della stanza. – Mettila sotto stretta sorveglianza perché non tenti di avvertire suo nipote, – disse Ghanima. – Non cercare d'insegnarmi come si organizza una congiura! – ribatté Alia. Anch'essa si voltò e seguì Irulan, ma con passo più lento. Le guardie e gli aiutanti che l'aspettavano fuori furono risucchiati nella sua scia come particelle di sabbia trascinate nel vortice di un verme emerso alla superficie. Ghanima scosse la testa, tristemente, quando la porta si chiuse, e pensò: È tutto così meschino e spregevole, proprio come Leto ed io avevamo previsto. Dèi sotterranei! Vorrei che la tigre avesse ucciso me, al posto di Leto.

Molte forze cercarono di controllare i gemelli Atreides e, quando fu annunciata la morte di Leto, il lavorio sotterraneo di congiure e controcongiure s'intensificò. Considerate ora quali fossero le ragioni che spingevano gli uni e gli altri: la Sorellanza temeva Alia, un'Abominazione adulta, ma tenevano molto, altresì, ai particolari caratteri genetici insiti negli Atreides. Le gerarchie della Chiesa, dell'Auqaf e dell'Hajj, cercavano soltanto il potere che sarebbe stato garantito dal controllo dell'erede di Muad'Dib. La CHOAM bramava di poter allungare le mani, liberamente, sulla ricchezza di Dune. Farad'n e i suoi Sardaukar miravano a un ritorno alla gloria per la Casa di Corrino. La Gilda spaziale aveva sempre temuto l'identità Arrakis = melange; senza la spezia, non avrebbe più potuto navigare. Jessica desiderava riparare ciò che la sua disobbedienza al Bene Gesserit aveva provocato. Pochi pensarono di chiedere direttamente ai gemelli quali fossero i loro piani, e poi, fu troppo tardi. – Il Libro di Kreos

Non molto tempo dopo il pasto serale, Leto vide un uomo passare davanti all'arcata che si apriva sulla sua stanza, e la sua mente seguì quell'uomo. Il corridoio era rimasto aperto e Leto si era accorto di una certa attività, là fuori: uomini che spingevano grandi cesti a rotelle pieni di spezia, tre donne rivestite di abiti eleganti, chiaramente importati da fuori Arrakis, che le qualificavano come contrabbandieri. L'uomo seguito dalla mente di Leto avrebbe potuto confondersi fra tutti gli altri, ma si muoveva come Stilgar, uno Stilgar molto più giovane. Il tragitto compiuto dalla mente di Leto fu assai caratteristico. Il tempo riempì la sua consapevolezza come un globo stellare. Vide infiniti spaziotempi, ma dovette ritrarsi nel proprio futuro, per riuscire a identificare l'esatto luogo e istante in cui la sua carne si trovava. Le sue multiformi vite-ricordo avanzavano e retrocedevano in lui, ma ora erano sue, gli appartenevano. Erano come onde su una spiaggia, ma se diventavano troppo alte e minacciose, lui poteva sempre ordinare ad esse di ritirarsi, lasciandosi alle spalle soltanto Harum, il primo antenato. Di tanto in tanto Leto ascoltava quelle vite-ricordo. Una alla volta, si sollevavano, facendo spuntare la testa dal palcoscenico come un suggeritore, e gli davano l'imbeccata su come comportarsi. Suo padre venne a lui durante quella passeggiata mentale, e gli disse: – Sei un bambino che vuol essere un uomo. Quando sarai uomo, cercherai invano il bambino che eri. Pulci e pidocchi, tipici di un vecchio sietch in decadenza, continuavano a mordergli il corpo. Nessuno degli inservienti che gli portavano il cibo

abbondantemente impregnato di spezia sembrava infastidito da quegli insetti. Quella gente era forse immune a simili cose, oppure le sopportava da tanto tempo che neppure se ne accorgeva più? Chi era quel gruppo di persone capeggiate da Gurney? Com'erano giunte fin lì? E quel sietch, era Jacurutu? La sua multi-memoria gli diede delle risposte che non gli piacquero. Quella era gente «brutta», e Gurney era il più brutto di tutti. Tuttavia, sotto quell'involucro di bruttezza, aleggiava dormiente, in attesa, la perfezione. Una parte di lui mal sopportava la schiavitù che lo legava alla spezia, a causa delle massicce dosi di melange ad ogni pasto. Il suo corpo di bambino avrebbe voluto ribellarsi, ma l'adulto, in lui, reclamava a gran voce la miriade di memorie trasmessegli attraverso gli eoni. La sua mente ritornò dalla peregrinazione, e Leto si chiese se il suo corpo fosse veramente rimasto lì, fermo. La spezia gli confondeva i sensi. Percepì, su di sé, la pressione crescente delle autolimitazioni, allo stesso modo in cui le dune a mezzaluna del bled si accumulavano una dopo l'altra edificando lentamente un pendio a ridosso di uno strapiombo roccioso, nel deserto. Dopo molti giorni, il primo rivolo di sabbia sarebbe scivolato oltre la cresta del dirupo, poi un altro, un altro ancora... e infine vi sarebbe stata soltanto una distesa ininterrotta di sabbia. Ma il dirupo sarebbe sempre esistito, là sotto. Sono ancora in trance, pensò Leto. Sapeva che, ben presto, sarebbe giunto a un bivio tra la vita e la morte. I suoi catturatori continuavano a farlo sprofondare nella trance da spezia, sempre insoddisfatti, ad ogni riaffioramento, delle sue risposte. E ogni volta il perfido Namri era lì ad aspettarlo, col suo cryss snudato. Leto aveva ormai conosciuto, in tal modo, innumerevoli passati e futuri ma, non ancora, ciò che avrebbe soddisfatto Namri... e Gurney Halleck. Essi cercavano, era ovvio, qualcosa che non era in quelle visioni. Si concentrò su quel punto cruciale che avrebbe deciso, per lui, la vita o la morte. E seppe che la sua vita avrebbe dovuto acquistare un significato interiore ben più alto di quelle inutili visioni. Riflettendo su questa esigenza, sentì che la sua consapevolezza interiore era la sua vera essenza, e l'esistenza esterna, la trance. Questo lo spaventò. Egli, si rese conto, non voleva ritornare nel sietch, con le sue pulci, Namri e Gurney Halleck. Sono un vigliacco, pensò. Ma un vigliacco, perfino un vigliacco, poteva morire da coraggioso, compiendo un solo gesto. Qual era il gesto che avrebbe potuto far di lui,

ancora una volta, un individuo completo? Come sarebbe riuscito a risvegliarsi dalla trance e dalla visione nel particolare universo che Gurney esigeva? Senza questo cambiamento, senza un risveglio da visioni senza scopo, lui sapeva che sarebbe morto in una prigione scelta da lui stesso. Infine, era giunto a collaborare con i suoi catturatori. Doveva trovare, da qualche parte, la saggezza, un equilibrio interiore che si sarebbe riflettuto sull'universo, restituendogli un'immagine di tranquilla, ineguagliabile potenza. Soltanto allora avrebbe potuto cercare il suo Sentiero Dorato e far sopravvivere quella pelle che non era la sua. Là fuori, nel sietch, qualcuno stava suonando il baliset. Leto sentì che, molto probabilmente, il suo corpo ascoltava la musica al presente. Percepì il giaciglio sotto la schiena. Riconobbe la musica. Era Gurney al baliset. Non esistevano altre mani in grado di suonare con altrettanta maestria quel difficile strumento. Gurney stava suonando un'antica canzone Fremen, un hadith, la celebrazione dei modi di vita necessari a sopravvivere su Arrakis, una descrizione delle occupazioni degli esseri umani all'interno di un sietch. Leto sentì che quella musica lo trasportava in una meravigliosa, antica caverna. Vide, qui, le donne che pestavano i residui di spezia per farne del combustibile, che facevano fermentare la spezia, che filavano fibre di spezia e confezionavano tessuti. Il melange era dovunque, nel sietch. Per lunghi momenti, Leto non riuscì più a distinguere fra la musica e la gente della sua visione, nella caverna. I cigolii e i colpi di un telaio elettrico erano i vibrati e i pizzicati del baliset. I suoi occhi interiori videro tessuti di capelli umani, pellicce di ratti mutanti, matasse di cotone del deserto, lunghe strisce arricciolate tagliate da pelli di uccelli. Vide una scuola nel sietch, echi dell'antico linguaggio di Dune gli risuonarono nella mente sulle ali della musica. Vide la cucina alimentata dall'energia solare, la lunga stanza dove venivano confezionate e riparate le tute distillanti. Vide gli addetti alle previsioni del tempo che leggevano i bastoni tolti dalla sabbia. In qualche punto di quel lungo viaggio qualcuno gli portò del cibo e gliel'infilò in bocca col cucchiaio, tenendogli sollevata la testa con un braccio robusto. Anche questa fu una sensazione del tempo reale, ma quel meraviglioso gioco di movimenti continuò dentro di lui. Nell'istante successivo – o così gli parve – all'ingerimento del cibo carico di spezia, Leto assisté allo scatenarsi di una tempesta di sabbia. Le immagini in movimento all'interno del turbine divennero i riflessi dorati dell'occhio di una falena, e la sua stessa vita fu ridotta alla scia vischiosa di

un insetto strisciante. Come in un delirio, lo travolsero le parole del Panoplia Prophetica: «Si dice che non vi sia nulla di fermo, di stabile, di duraturo, in tutto l'universo: che niente rimane nel suo stato; che ogni giorno, ogni ora, ogni istante, portino un cambiamento.» L'antica Missionaria Protectiva sapeva ciò che faceva, pensò. Essa conosceva i Terribili Scopi, sapeva come maneggiare la gente e le religioni. Perfino mio padre non riuscì a sfuggirle, alla fine. Li c'era l'indizio che aveva cercato. Leto lo studiò. Sentì la forza rifluirgli nella carne. Tutto il suo essere multisfaccettato si girò e guardò fuori, l'universo. Leto si rizzò a sedere e si ritrovò solo, nella cella tenebrosa illuminata soltanto dalla luce del corridoio esterno, dov'era passato quell'uomo risucchiandogli la mente, un eone prima. – Buona fortuna a noi tutti! – gridò, al modo tradizionale dei Fremen. Gurney Halleck comparve nell'arco della porta, la sua testa fu un profilo nero che si stagliava contro la luce, là fuori. – Porta una lampada, – gli disse Leto. – Vuoi esser messo ulteriormente alla prova? Leto scoppiò a ridere: – No. Ora tocca a me, metter voi alla prova. – Vedremo. – Halleck scomparve per ritornare un attimo dopo reggendo nel cavo del braccio sinistro un globo che irradiava un'intensa luce azzurra. Si addentrò nella cella e lo spinse via da sé, mandandolo a galleggiare sopra le loro teste. – Dov'è Namri? – chiese Leto. – E qua fuori, dove posso chiamarlo. – Ahhh, il Vecchio Padre Eternità aspetta sempre con pazienza, – disse Leto. Si sentiva stranamente libero, in precario equilibrio sull'orlo di una scoperta. – Tu chiami Namri col nome riservato a Shai-hulud? – gli chiese Halleck. – Il suo coltello è il dente di un verme, – replicò Leto. – Perciò è il Vecchio Padre Eternità. Halleck sorrise trucemente, ma non rispose. – Tu, sei ancora in attesa di giudicarmi, – dichiarò Leto. – Ammetto che non c'è alcun modo di scambiarci informazioni, senza esprimere un giudizio. Ma non puoi pretendere che l'universo sia esattamente come lo vuoi tu. Un fruscio alle spalle di Halleck avvertì Leto dell'avvicinarsi di Namri.

Questi venne avanti alla sinistra di Halleck, e si fermò a mezzo passo da lui. – Ah, la mano sinistra dei dannati, – commentò Leto. – Non è saggio scherzare con l'Infinito e l'Assoluto, – ringhiò Namri. Guardò Halleck di sbieco. – Sei forse Dio, Namri, da invocare gli assoluti? – chiese Leto. Ma concentrò la sua attenzione su Halleck. Il giudizio sarebbe venuto da lui. Entrambi gli uomini si limitarono a fissarlo senza rispondere. – Ogni giudizio è in bilico sull'orlo dell'errore, – spiegò Leto. – Esigere il sapere assoluto è qualcosa di mostruoso. Il sapere è un'avventura senza fine ai confini dell'incertezza. – Che cos'è questo gioco di parole? – chiese Halleck. – Lascialo parlare, – disse Namri. – È il gioco che Namri ha cominciato con me, – replicò Leto, e vide il vecchio Fremen annuire col capo. Aveva certo riconosciuto il gioco degli indovinelli. – I nostri sensi funzionano sempre su due livelli, – proseguì. – Evidenza e messaggio nascosto, – citò Namri. – Eccellente! – esclamò Leto. – Tu mi fornisci banali evidenze, io ti ricambio col messaggio. Io vedo, io ascolto, io percepisco gli odori, io tocco, io sento i cambiamenti di temperatura, io assaporo, io avverto il passaggio del tempo. La mia emotività può scegliere fra tutto questo. Ahhh, sono felice! Capisci, Gurney? E tu, Namri? Non c'è mistero nella vita umana. La nostra vita non è un problema da risolvere, ma una realtà da sperimentare. – Stai mettendo alla prova la nostra pazienza, ragazzo, – disse Namri. – Vuoi forse morire qui, ora? Ma Halleck allungò una mano per frenarlo. – Per prima cosa io non sono un ragazzo, – ribatté Leto. Fece il gesto del pugno all'orecchio. – Tu non mi ucciderai; ho posto su di te il fardello dell'acqua. Namri estrasse per metà il cryss dal fodero: – Io non ti devo nulla! – Dio creò Arrakis per mettere alla prova i fedeli, – continuò Leto. – Non soltanto ti ho fatto constatare la mia fede, ma ti ho reso cosciente della sua esistenza. La vita esige dispute e contrasti. Ti è stato insegnato – per merito mio! – che la tua realtà differisce da quella di tutti gli altri. Così, tu sai di essere vivo. – Divertirsi con me al gioco dell'irriverenza è pericoloso, – disse Namris. Il suo cryss restò mezzo fuori dal fodero.

– L'irriverenza è un ingrediente indispensabile della religione, – replicò Leto. – Non parliamo poi della sua importanza in filosofia. L'irriverenza è l'unico modo che ci rimanga per mettere alla prova il nostro universo. – Così, tu pensi di capire l'universo? – gli chiese Halleck. – S...sì, lui lo pensa, – s'intromise Namri. C'era la morte nella sua voce. – Soltanto il vento può capire l'universo, – rispose Leto. – Non c'è alcun possente trono della ragione nel nostro cervello. Creazione è sinonimo di scoperta. Dio ci scoprì nel Vuoto poiché noi ci muovevamo contro uno sfondo che lui già conosceva. Il muro era vuoto, poi ci fu il movimento. – Tu stai giocando a rimpiattino con la morte, – lo avvertì Halleck. – Ma voi siete entrambi miei amici, – dichiarò Leto. Fissò Namri. – Quando tu presenti un Candidato all'Amicizia nel tuo sietch, non uccidi forse un falco e un'aquila? E non è forse questo sacrificio, la risposta al detto: «Dio manda ogni uomo alla sua fine, così pure i falchi, e le aquile, e gli amici?» La mano di Namri scivolò via dal cryss. La lama rientrò nel fodero. Egli fissò Leto con occhi sgranati. Ogni sietch teneva segreto il proprio rituale dell'amicizia, eppure, ciò che Leto aveva descritto era la parte essenziale del rito. Halleck chiese a Leto: – Questo luogo è forse la tua fine? – Io so ciò che tu vuoi, ciò che tu devi udire da me, Gurney, – replicò Leto, cogliendo il mutuo alternarsi della speranza e del sospetto su quel brutto viso. Si toccò il petto: – Questo bambino non fu mai un bambino. Mio padre vive dentro di me, ma non è me. Tu l'hai amato, lui era un valoroso le cui vicende s'infransero contro ostacoli troppo alti. Il suo intento era porre fine a un intero ciclo di guerre, ma fece i conti senza l'eterna mutevolezza dell'infinito, come si esprime nella vita. Questo è il Rhajia! Namri lo sa. Il suo continuo evolversi e mutare può esser visto da qualsiasi mortale. Guardati dalle vie che limitano le possibilità future. Quelle vie ti distolgono dall'infinito, facendoti precipitare in trappole mortali. – Che cosa dovrei udire da te? – chiese Halleck. – È soltanto un gioco di parole, – affermò Namri, ma la sua voce suonò esitante, dubbiosa. – Io mi alleo con Namri, contro mio padre, – dichiarò Leto. – E mio padre dentro di me si allea con noi, contro ciò che è stato fatto di lui. – Perché? – domandò Halleck. – Perché è l'amor fati che io offro all'umanità, l'auto-esame, l'auto-

coscienza suprema. In questo universo, io scelgo di allearmi contro qualunque forza che infligga umiliazioni all'umanità. Gurney! Gurney! Tu non sei nato né cresciuto nel deserto. La tua carne non conosce la verità di cui sto parlando. Ma Namri la conosce. Sul terreno aperto, una direzione vale qualunque altra. – Non ho ancora udito ciò che devo udire, – ringhiò Halleck. – Lui parla in favore della guerra contro la pace, – disse Namri. – No, – disse Leto. – E mio padre non ha mai parlato contro la guerra. Ma guarda che cosa hanno fatto, di lui. La pace ha un solo significato, in questo Impero. È la conservazione di un unico sistema di vita. Ti vien dato l'ordine di essere contento. La vita dev'essere identica in tutti i pianeti, conforme alla volontà del Governo Imperiale. Il principale obiettivo degli studi religiosi è quello di scoprire la forma «corretta» del comportamento umano. Per far questo, essi si servono delle parole di Muad'Dib! Dimmi, Namri, tu sei contento? – No. – La risposta gli uscì asciutta, un rifiuto istintivo. – È una bestemmia, questa? – No. Naturalmente no! – Ma tu non sei contento. Non vedi, Gurney? Namri ce lo dimostra. Ogni domanda, ogni problema, non hanno un'unica risposta corretta. Bisogna consentire che esista la diversità. Un monolito... è instabile. E allora, perché tu esigi che proprio io ti faccia un'unica, corretta, dichiarazione? È questo il tuo modo d'essere mostruoso? – Vuoi costringermi a farti uccidere? – chiese Halleck, e l'angoscia vibrò nella sua voce. – No, avrò pietà di te, – disse Leto. – Manda pure a dire, a mia nonna, che collaborerò. Può darsi che la Sorellanza finisca per dolersi della mia collaborazione, ma un Atreides sa quando dare la sua parola. – Una Veridica dovrebbe confermarlo, – obbiettò Namri. – Questi Atreides... – Avrà la possibilità di ripeterlo davanti a sua nonna, – esclamò Halleck. Lo invitò ad uscire con un cenno della testa. Namri si fermò sulla soglia, e diede un'ultima occhiata a Leto: – Mi auguro che stiamo facendo la cosa giusta, a lasciarlo in vita. – Andate, amici, – disse Leto. – Andate e riflettete. Quando i due uomini furono usciti, Leto tornò a distendersi sulla schiena, e percepì la pressione del giaciglio contro la spina dorsale. Questo semplice movimento bastò a proiettare la sua mente oltre i confini della

sua coscienza appesantita dalla spezia. E in quell'attimo vide l'intero pianeta: ogni borgata, villaggio, città, le distese desertiche, i campi coltivati. Tutte queste immagini che si accavallavano nella sua visione partecipavano di una mescolanza di elementi in parte interni, in parte esterni ad esse. Leto vide le strutture della società imperiale riflettersi nelle strutture fisiche dei suoi pianeti e delle sue comunità. Come un gigantesco dispiegarsi dentro di lui, egli riconobbe questa rivelazione per ciò che era: una finestra sulle componenti invisibili della società. Nel vedere questo, Leto si rese conto che ogni struttura associativa doveva possedere una finestra del genere. Perfino il sistema formato da lui stesso e dal suo universo. Egli continuò dunque a guardare attraverso la finestra, una sorta di «guardone» cosmico. Era questo che sua nonna e la Sorellanza cercavano! Lui lo sapeva. La sua consapevolezza si espanse fino a un nuovo, più alto livello. Sentì il passato nelle sue cellule, nei suoi ricordi, negli archetipi che influenzavano i suoi giudizi, nei miti che lo accerchiavano, nelle lingue e nelle tracce, presenti in tutto questo, di una preistoria scomparsa. Erano tutte le forme uscite dal suo passato umano e non umano, le innumerevoli vite che, ora, lui dominava, tutte finalmente integrate in lui. Si sentì come una creatura intrappolata nell'eterno disgregarsi e ricombinarsi dei nucleotidi. Sullo sfondo dell'infinito lui era un essere protozoico, nel quale la vita e la morte erano virtualmente simultanee, ma lui era simultaneamente infinito e protozoo, una creatura dai ricordi registrati fino a livello molecolare. Noi esseri umani siamo come un aggregato di singole cellule organizzate in colonia! pensò. Essi volevano la sua collaborazione. La promessa di questa collaborazione gli aveva guadagnato un'altra dilazione dal pugnale di Namri. Appellandosi alla sua collaborazione, essi speravano di trovare in lui un guaritore. Ma lui pensò: Io non porterò loro alcun ordine sociale nel modo che si aspettano! La bocca di Leto si contorse in una smorfia. Lui sapeva che non sarebbe stato inconsciamente malefico quanto suo padre – dispotismo a una estremità e schiavitù all'altra – ma, ugualmente, quell'universo avrebbe potuto finire per pregare che ritornassero i «bei giorni passati». Allora, il padre che era dentro di lui gli parlò, sondandolo cautamente, incapace di imporsi all'attenzione ma implorando per ottenere udienza. E Leto replicò: – No. Daremo ad essi complessità, così da occupare la

loro mente. Vi sono molti modi per fuggire davanti al pericolo. Ma come potranno sapere che sono pericoloso, a meno che non abbiano sperimentato la mia presenza per migliaia di anni? Sì, padre-dentro-di-me, daremo in pasto ad essi gran copia di punti interrogativi.

Non c'è colpa o innocenza in voi. Tutto ciò appartiene al passato. La colpa aggredisce i morti, ed io non sono il Martello di Ferro. Voi, moltitudine di morti, siete soltanto della gente che ha fatto certe cose, e il ricordo di quelle cose illumina la mia strada. – Leto II alle sue Vite-Ricordi secondo Harq al-Ada

– Funziona! – disse Farad'n, e la sua voce era un rauco sussurro. Era in piedi accanto al letto di Lady Jessica, un nugolo di guardie gli si accalcava intorno. Lady Jessica si rizzò sul letto; indossava una veste di similseta bianco-lucido, e una fascia dello stesso colore era stretta intorno ai suoi capelli ramati. Farad'n era piombato nella stanza pochi attimi prima. Indossava ancora il giubbotto grigio e il suo volto era sudato per l'eccitazione e la corsa fatta lungo i corridoi del palazzo. – Che ore sono? – chiese Jessica. – Che ore... – Farad'n parve sconcertato. Una delle guardie di Jessica disse: – La terza ora dopo mezzanotte, mia Signora. – Lanciò un'occhiata timorosa a Farad'n. Il giovane principe era arrivato di corsa lungo i corridoi illuminati per la notte, trascinando dietro di sé una scia di uomini sbalorditi. – Ma funziona! – esclamò ancora Farad'n. Tese la mano sinistra, poi la destra. – Ho visto le mie mani rimpicciolire fino a trasformarsi in due piccoli pugni grassocci, e mi sono ricordato! Erano le mie mani di quand'ero neonato. Conservavo un ricordo assai confuso di quell'epoca, ma questo era così... così chiaro! Stavo riorganizzando i miei più lontani ricordi! – Molto bene, – commentò Jessica. L'eccitazione di Farad'n era contagiosa. – E che cosa è accaduto quando le tue mani sono diventate vecchie? – La mia... la mia mente era più lenta... – spiegò Farad'n. – E ho sentito un dolore alla schiena, qui. – Toccò un punto sopra il rene sinistro. – Hai imparato una lezione molto importante, – disse Jessica. – Sai quale? Lui lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e la fissò. Poi esclamò: – La mia mente controlla la mia realtà! – Gli occhi gli luccicavano, e ripeté, con voce ancora più alta: – La mia mente controlla la mia realtà! – Questo è l'inizio dell'addestramento prana-bindu, – spiegò Jessica. – Ma è soltanto l'inizio. – Che cosa viene adesso? – chiese Farad'n.

– Mia Signora... – La guardia che poco prima aveva risposto alla sua domanda osò intervenire. – L'ora... Forse il loro sistema di controlli e microspie è sguarnito a questa ora della notte? si chiese Jessica. – Andate via tutti, – disse alle guardie. – Abbiamo del lavoro da fare. – Ma, mia Signora... – fece la guardia, fissando incerta Farad'n, Jessica, e poi di nuovo Farad'n. – Pensi che io abbia intenzione di sedurlo? – chiese Jessica. L'uomo s'irrigidì. Farad'n scoppiò in un'allegra risata. Li congedò con un gesto della mano. – Avete sentito che cosa ha detto? Andatevene. Le guardie si guardarono, perplesse, ma ubbidirono. Farad'n si sedette sull'orlo del letto. – Che cosa viene, adesso? – Scosse la testa. – Volevo crederti, ma non ci riuscivo. E poi, invece... è stato come se la mia mente si fosse fusa. Ero stanco, la mia mente ha rinunciato a combattere contro di te... Ed è accaduto. Proprio così! – fece schioccare le dita. – Non è contro di me che la tua mente lottava, – disse Jessica. – Naturalmente no, – ammise lui. – Lottavo contro me stesso, contro tutte le sciocchezze che ho imparato finora. Che cosa viene adesso? Jessica sorrise. – Confesso che non mi aspettavo che tu ci riuscissi così presto. Sono passati soltanto otto giorni, e... – Ho avuto pazienza, – disse lui, sorridendo. – E hai anche incominciato a imparare la pazienza, – concluse lei. – Incominciato? – Hai appena strisciato oltre il ciglio di questo insegnamento, – ribadì Jessica. – Ora sei veramente un neonato... Prima, esistevi soltanto potenzialmente, non eri neppure nato. Gli angoli della bocca di Farad'n si piegarono verso il basso. – Non essere così triste, – lo consolò lei. – Ce l'hai fatta. Questo è importante. Quanti possono dire di essere nati una seconda volta? – Che cosa viene adesso? – insistette lui. – Ti eserciterai con questa cosa che hai imparato, – disse Jessica. – Voglio che tu sia in grado di ripeterla a volontà, facilmente. Tutto questo ha indubbiamente creato nuovo spazio nella tua coscienza; più tardi lo riempirai con la capacità d'imporre le tue personali esigenze a qualunque realtà. – È tutto quello che devo fare adesso... esercitare il...

– No. Ora puoi cominciare l'addestramento dei muscoli. Dimmi, sei capace di muovere il mignolo del piede sinistro senza muovere nessun altro muscolo del tuo corpo? – Il mio... – Jessica vide un'espressione remota dipingersi sul volto di Farad'n, quando cercò di muovere il dito. Poco dopo, abbassò lo sguardo sul suo piede, e lo fissò in silenzio. La fronte gli s'imperlò di sudore. Un profondo sospiro gli sfuggì. – Non ci riesco. – E invece puoi farlo, – lei replicò. – Imparerai a farlo. Imparerai a conoscere ogni singolo muscolo del tuo corpo. Li conoscerai bene, almeno quanto le tue mani. Farad'n deglutì a fatica, davanti a quell'affascinante previsione. Poi: – Che cosa mi stai facendo? – chiese. – Che piani hai in mente, per me? – Voglio scatenarti sull'intero universo, – lei rispose. – Voglio che tu sia in grado di diventare qualunque cosa tu desideri. Farad'n rifletté, sbalordito: – Qualunque cosa? – Sì. – È impossibile! – A meno che tu non impari a controllare i tuoi desideri allo stesso modo in cui controllerai la tua realtà, – disse Jessica. E pensò: Che le sue spie analizzino pure tutto questo. Gli consiglieranno una cauta approvazione, ma Farad'n si avvicinerà di un altro passo a ciò che io sto veramente facendo. E Farad'n confermò la sua supposizione, obiettando: – Promettere a un individuo che potrà realizzare i suoi desideri più segreti, è una cosa. Ma far sì che li realizzi realmente, è un'altra. – Sei arrivato più lontano di quanto pensassi, – commentò Jessica. – Molto bene. Ti faccio una promessa: se porterai a termine questo programma di addestramento, sarai padrone di te stesso. Qualunque cosa farai, sarai tu che l'hai voluta. E sfido qualunque Veridica a provare il contrario, aggiunse, dentro di sé. Farad'n si alzò in piedi, ma l'occhiata che le rivolse era calda, quasi cameratesca. – Sai? Io ti credo. Che io sia dannato se so perché, ma ti credo. E non dirò una sola parola delle altre cose che penso. Jessica lo seguì con lo sguardo, mentre usciva dalla sua camera da letto. Spense i globi, tornò a distendersi. Questo Farad'n... era tutt'altro che un tipo superficiale. Praticamente le aveva detto che cominciava a capire il suo piano, ma che si univa alla cospirazione di sua spontanea volontà.

Aspetta fino a quando avrà imparato a controllare le sue emozioni, pensò. Dopo di che, si accinse nuovamente a dormire. L'indomani, come ben sapeva, sarebbe stata afflitta da una interminabile serie di incontri apparentemente casuali col personale del palazzo, che l'avrebbe tempestata di domande apparentemente innocue.

Periodicamente, l'umanità conosce delle «crisi di accelerazione» nelle proprie vicende, sperimentando, a causa di ciò, un aperto confronto tra la vitalità del rinnovarsi e la suadente corruzione della decadenza. Mentre è in atto questa competizione, ogni pausa diventa preziosa. Soltanto allora ci è dato di riflettere che tutto è permesso, che tutto è possibile. – Apocrifi di Muad'Dib

Il contatto con la sabbia è importante, pensò Leto. Poteva sentire i granelli sotto di lui, là dove era seduto, sotto un cielo intensamente luminoso. Gli avevano fatto ingoiare a forza un'altra massiccia dose di melange, e la mente di Leto roteava vorticosamente su se stessa. Una domanda rimasta senza risposta si annidava in profondità, dentro il vortice: Perché insistono tanto che io parli? Gurney si accaniva, non c'erano dubbi in proposito. Aveva ricevuto ordini precisi da Lady Jessica. Per quella «lezione» lo avevano condotto fuori dal sietch, alla luce del giorno. Aveva la strana sensazione di aver lasciato che il suo corpo compisse da solo il breve tragitto dal sietch, mentre il suo Io interiore tentava, invano, di contrastare una battaglia fra il Duca Leto I e il vecchio Barone Harkonnen. Essi avevano lottato dentro di lui e attraverso lui, perché aveva impedito il contatto diretto fra loro. Quella lotta gli aveva mostrato ciò che era accaduto ad Alia. Povera Alia. Avevo ragione a temere il viaggio con la spezia, pensò. Un'ondata di amarezza nei confronti di Lady Jessica lo invase. Quel suo maledetto gom jabbar! Combattilo e vinci, oppure muori nel tentativo. Lei non era in grado, adesso, di appoggiargli un ago avvelenato al collo, ma aveva voluto precipitarlo in quella valle del pericolo che aveva già inghiottito sua figlia. Qualcuno che respirava rumorosamente col naso s'intromise nella sua coscienza. Il rumore crebbe d'intensità, si attenuò, tornò a farsi intenso... Lui non aveva alcun modo per stabilire se appartenesse alla realtà concreta o fosse frutto, invece, della spezia. Il corpo di Leto si afflosciò sopra le braccia conserte. Percepì, con la pelle delle natiche, la sabbia rovente. C'era un tappeto, lì davanti, ma lui sedeva sulla sabbia. Un'ombra attraversava il tappeto: Namri. Leto fissò il disegno fangoso del tappeto, e percepì un gorgoglio di bolle d'aria. La sua coscienza ondeggiò, alla deriva, sopra un panorama che si estendeva fino all'orizzonte, ricoperto da una vegetazione sconvolgente. Tamburi rullavano nel suo cranio. Il calore l'invase: febbre. La febbre

era una pressione bruciante che gli invadeva i sensi, spremendo la consapevolezza fuori dal suo corpo, fino a quando percepì soltanto delle ombre in movimento... il pericolo che incombeva su di lui. Namri e il pugnale. Pressione... pressione... Alla fine, Leto giacque sospeso fra il cielo e la sabbia, la sua mente separata da tutto, fuorché dalla febbre. Ora, aspettò che accadesse qualcosa, e presentì che qualunque avvenimento sarebbe stato il primo-e-unico. La luce del sole caldissima e martellante si abbatteva accecante intorno a lui, impietosa. Dov'è il mio Dorato Sentiero? Dovunque strisciavano insetti. Dovunque. La mia pelle non è la mia. Inviò messaggi lungo i nervi, attese le torpide reazioni dell'altra-persona. Su la testa, ordinò ai propri nervi. Una testa che avrebbe potuto essere la sua strisciò verso l'alto e guardò fuori verso chiazze di vuoto nella luce fulgida. Qualcuno bisbigliò: – Ora c'è proprio sprofondato dentro. Nessuna risposta. Fuoco bruciante sole calore calore. Lentamente, deviando verso l'esterno, la corrente che trasportava la sua consapevolezza lo spinse oltre l'ultimo schermo di vuoto verdeggiante e, oltre la bassa successione di dune, non più lontano di un chilometro, oltre il profilo gessoso di un dirupo, laggiù si estendeva il verde, germogliante futuro, svettante, una sconfinata distesa verdeggiante, rigogliosa di verde, verde-verde, che si dilatava all'infinito. In tutto quel verde, non c'era un solo, grande verme. Distese di vegetazione selvatica, ma da nessuna parte Shai-hulud. Leto sentì di essersi avventurato al di là delle antiche frontiere, penetrando in una nuova terra che soltanto l'immaginazione aveva visto, e che ora lui contemplava direttamente, proprio attraverso il velo che l'umanità impigrita chiamava Ignoto. Era una realtà assetata di sangue. Leto sentì il frutto rosso della sua vita oscillare appeso a un ramo, sentì il fluido che scorreva via da lui, e il fluido era l'essenza di spezia che gli pulsava nelle vene. Senza Shai-hulud, non ci sarebbe più stata la spezia. Lui aveva visto un futuro senza il grande verme-serpente grigio di Dune. Lui lo sapeva, tuttavia non riusciva a strapparsi dalla trance. All'improvviso la sua coscienza ripiombò indietro... indietro e indietro, allontanandosi da quel mortale futuro. I suoi pensieri sprofondarono nei

suoi visceri, divennero primordiali, agitati soltanto dalle più violente emozioni. Fu incapace di mettere a fuoco un qualunque aspetto specifico della sua visione o dell'ambiente che lo circondava, ma dentro di lui c'era una voce, e lui la capì perfettamente. La voce scandì le parole con ritmo quasi musicale, ma ugualmente lo colpì come una mazzata. – Non è il presente che influenza il futuro, sciocco, ma il futuro che modella il presente. Tu hai capito tutto a rovescio. Poiché il futuro è ormai fisso e incrollabile, uno svolgersi di avvenimenti tali da garantire il verificarsi di quel futuro è inevitabile. Queste parole lo lasciarono impietrito. Sentì il terrore impadronirsi della materia concreta che costituiva il suo corpo. Grazie a questo fatto, seppe che il suo corpo esisteva ancora, ma la natura spietata e l'enorme potere della sua visione gli lasciarono la sensazione di essere rimasto contaminato, indifeso, incapace d'inviare segnali anche a uno solo dei suoi muscoli, ottenendone l'obbedienza. Sapeva di trovarsi sempre più esposto all'assalto di quelle vite collettive i cui ricordi un tempo gli avevano fatto credere d'esser lui, il lui vero, reale. La paura lo invase. Gli sembrò che il dominio della sua interiorità stesse per sfuggirgli, facendolo cadere, infine, nell'Abominazione. Leto sentì il suo corpo contorcersi per il terrore. Aveva creduto nella sua vittoria, e nella benevola collaborazione di quelle memorie da poco conquistate. Ma esse si stavano rivoltando contro di lui, perfino il regale Harum di cui si era fidato. Lui giaceva, tremante, su una superficie priva di radici, incapace di dare un qualunque significato alla propria vita. Cercò di concentrarsi su un'immagine mentale di se stesso, ma si trovò di fronte a una serie d'inquadrature sovrapposte, ognuna di età diversa: un neonato, che finiva per trasformarsi in un vacillante vegliardo. Leto ricordò il primo addestramento impartitogli da suo padre: Fai che le tue mani diventino prima giovani e poi vecchie. Ma ora tutto il suo corpo era immerso in queste perdute realtà e l'intera processione d'immagini si fondeva con altri volti, i lineamenti di tutti coloro la cui memoria si trovava in lui. Una saetta, luminosa e tagliente come un diamante, lo mandò in pezzi. Leto sentì i frammenti della sua consapevolezza che si sparpagliavano, eppure conservò la sensazione della propria identità, in qualche punto fra l'essere e il non essere. Col rinascere della speranza percepì nuovamente il suo corpo che respirava. Dentro... fuori. Inspirò profondamente: yin. Espirò: yang.

Da qualche parte, appena al di là della sua comprensione, vi era una condizione di suprema indipendenza, una vittoria su tutta la confusione legata alla sua moltitudine di vite: – non una falsa impressione di poter comandare, ma una autentica vittoria. Ora Leto riconobbe il suo precedente errore: aveva cercato il potere nella realtà fittizia della sua trance, invece di affrontare e sconfiggere le paure di cui lui e Ghanima si erano vicendevolmente alimentati. È stata la paura a sconfiggere Alia! Ma la sua avida ricerca del potere aveva aperto un'altra trappola, facendolo sprofondare nel puramente fantastico. Vide quant'era stato illusorio tutto ciò. Ora, svincolato da questo processo, poté guardare obiettivamente all'illimitata prospettiva delle sue visioni, delle sue vite interiori. Un'ebbrezza l'invase, fu sul punto di scoppiare a ridere, ma negò a se stesso questo piacere, poiché sapeva che gli avrebbe sbarrato le porte della memoria. Ah, ricordi miei, pensò. Ho visto la vostra illusione. Voi non inventate più il «momento successivo» per me. Vi limitate a mostrarmi come creare nuovi momenti. Non mi incatenerò più sui miei antichi passi. Questo pensiero attraversò la sua coscienza come un lavacro purificante e, subito dopo, egli tornò a percepire il suo corpo nella totalità, un improvviso precipitare, compenetrandosi, in se stesso, che si ripercosse nelle strutture più delicate di ogni cellula, di ogni fibra nervosa. Leto fu avvolto da una calma profonda. E udì delle voci, e seppe che provenivano da una grande distanza, ma lui le udì chiaramente, come se echeggiassero in una grande sala vuota. Una delle voci era di Halleck: – Forse gliene abbiamo data troppa. Namri ribatté: – Gli abbiamo dato esattamente quanto lei ci ha detto di dargli. – Forse dovremmo uscire là fuori e dargli un'altra occhiata. – (Halleck). – Sabiha è in gamba per queste cose; ci chiamerà, se qualcosa dovesse andare storto. – (Namri). – Non mi piace questa storia di Sabiha. – (Halleck). – È un ingrediente necessario. – (Namri). Leto percepì una luce vivida, fuori, e l'oscurità dentro di sé. Ma era un'oscurità discreta, calda, protettiva. La luce crebbe d'intensità, brillò con forza rinnovata, e Leto sentì che proveniva dall'oscurità interiore, turbinando come una nube radiosa. Il suo corpo divenne trasparente, e

Leto si sentì risucchiato verso l'alto, pur conservando quello stretto contatto con ogni cellula, ogni fibra nervosa. Le miriadi di vite interiori si disposero in un ordine perfetto, senza più aggrovigliarsi caoticamente. Anch'esse calme, rispecchiando la sua silenziosa oscurità interiore, ogni vita-ricordo come una monade distinta dalle altre, un'entità incorporea e indivisibile. Quindi, Leto parlò, rivolgendosi ad esse: – Io sono il vostro spirito. Io sono l'unica vita per voi possibile. Io sono la dimora del vostro spirito nel paese che non c'è, quel paese che per voi è l'unico, possibile ospizio. Senza di me, l'universo intelligibile ridiventa caos. Il creativo e l'insondabile sono inestricabilmente legati in me; soltanto io posso fare da mediatore tra essi. Senza di me, l'umanità s'impantanerà nella vanitosa trappola del sapere. Per mio tramite, voi e loro troverete l'unica via per uscire dal caos: capire vivendo. Detto questo, cessò ogni controllo su se stesso, e divenne se stesso, una persona che abbracciava la totalità del suo passato. Non era una vittoria, e neppure una sconfitta, ma qualcosa di nuovo, da condividere con qualunque vita interiore lui avesse scelto. Leto assaporò questa nuova condizione, lasciando che s'impadronisse di ogni sua cellula, di ogni fibra nervosa, rinunciando alla precedente compenetrazione ma conservando ugualmente la sua totalità. Dopo un po', si risvegliò in un'abbagliante oscurità. Come un vivido sprazzo, la consapevolezza di dove si trovava il suo corpo l'illuminò: era seduto sulla sabbia a circa un chilometro dalla parete del dirupo che segnava il confine settentrionale del sietch. Ora riconobbe quel sietch: era certamente Jacurutu... e Fondak. Ma era molto diverso dalle leggende e dalle voci diffuse dai contrabbandieri. Una giovane donna sedeva su un tappeto, proprio di fronte a lui; un globo luminoso ancorato alla manica sinistra le galleggiava proprio sopra la testa. Quando Leto distolse lo sguardo dal globo, vide sopra di sé le stelle. Lui conosceva quella giovane donna; era colei che gli era apparsa nella precedente visione, colei che aveva tostato il caffè. Era la nipote di Namri, pronta a usare il cryss almeno quanto lo era il suo avo. E aveva il cryss lì, in grembo. Indossava una semplice veste verde sopra la tuta distillante grigia. Sabiha, quello era il suo nome. E Namri aveva dei progetti su di lei. Sabiha colse il risveglio nei suoi occhi, e disse: – È quasi l'alba. Hai passato qui tutta la notte. – E la maggior parte del giorno, – lui replicò. – Sai fare un buon caffè.

Questa affermazione la lasciò perplessa, ma lei l'ignorò con una facilità che tradì il duro addestramento, e istruzioni assai esplicite su come comportarsi in quella situazione. – È l'ora degli assassini, – proseguì Leto. – Ma il tuo cryss non è più necessario. – Fissò il pugnale con intenzione. – Spetta a Namri deciderlo, – lei replicò. Dunque non ad Halleck. Lei aveva soltanto confermato ciò che già lui sapeva nel suo intimo. – Shai-hulud è un grande raccoglitore di rifiuti e sa cancellare assai bene le prove indesiderate, – disse ancora Leto. – Anch'io me ne sono servito per questo. Sabiha portò la mano all'elsa del cryss, ma non strinse le dita. – Ciò è fin troppo chiaro, visto il luogo dove sediamo, e come sediamo. – Leto sorrise. – Tu siedi sul tappeto, ed io sulla sabbia. Le dita di Sabiha si strinsero intorno all'elsa del cryss. Leto sbadigliò, spalancando la bocca al punto che la mandibola scricchiolò. – In una delle mie visioni c'eri anche tu, – le disse. Sabiha si rilassò leggermente. – Siamo stati eccessivi e troppo unilaterali con Arrakis, – proseguì Leto. – Frutto d'ignoranza e presunzione da parte nostra. Sì, forse abbiamo peccato per eccesso di logica e buoni sentimenti, ma ora dobbiamo disfare una parte del nostro lavoro. Bisogna far sì che i piatti della bilancia siano in maggior equilibrio fra loro. Sabiha corrugò la fronte, perplessa. – Le mie visioni... – spiegò lui. – Se non ripristineremo la danza della vita, qui su Dune, il Drago sulla Superficie del Deserto non esisterà più. Poiché Leto aveva chiamato il grande verme con l'antico appellativo dei Fremen, lei tardò a capire. Poi chiese: – I vermi? – Ci troviamo in un vicolo chiuso, – annuì Leto. – Senza la spezia, l'Impero è destinato a sfasciarsi. La Gilda non sarà più in grado di viaggiare da stella a stella. La gente, sui vari pianeti, dimenticherà un poco alla volta che esistono altri mondi abitati. Si chiuderà sempre più in se stessa. Quando i navigatori della Gilda avranno perduto le loro insostituibili facoltà, lo spazio imprigionerà gli uomini. Noi ci aggrapperemo alle nostre dune e dimenticheremo ciò che esiste sopra di noi, e sotto di noi. – Tu parli in modo assai strano, – replicò Sabiha. – E quella tua visione... come mi hai visto?

Abbi fede nella superstizione dei Fremen! pensò Leto, e disse: – Parlo un linguaggio universale. Io sono un geroglifico vivente destinato a registrare tutti i cambiamenti che dovranno avvenire. Se non li registrerò, tu proverai un acerbissimo dolore al cuore, quale un essere umano non dovrebbe mai sopportare. – Che parole sono queste? – esclamò lei. Ma le sue dita non balzarono nuovamente al cryss. Leto si voltò a guardare le rocce di Jacurutu. Il cielo, dietro di esse, era illuminato da un lieve bagliore, preludio alla comparsa della Seconda Luna, prima dell'alba. Il grido di morte di una lepre del deserto gli procurò un'intensa emozione. Vide Sabiha rabbrividire. Poi gli giunse alle orecchie un battito di ali: uccelli rapaci, creature della notte. Vide il bagliore – uno spolverio di scintille – di molti occhi, quando lo stormo passò alto sopra la sua testa, diretto alle fenditure del dirupo. – Devo seguire i dettami del mio nuovo cuore, – riprese Leto. – Tu mi consideri soltanto un fanciullo, Sabiha, ma... – Mi hanno avvertito di guardarmi da te, – l'interruppe Sabiha. Si era irrigidita, pronta a balzare su di lui. Leto percepì la paura nel tono aspro della sua voce, e si affrettò a risponderle: – Non aver paura di me, Sabiha. Tu hai vissuto otto anni di più di questa mia carne. Ma io ho dentro di me altre vite, per un numero incalcolabile di anni, molti di più di quanti potresti mai immaginare. Non guardarmi come si guarda un bimbo. Io ho visitato molti futuri, e in uno di essi ho visto noi due avvinti in un atto d'amore. Tu ed io, Sabiha. – Che cosa... Ma non puoi... – Sabiha s'interruppe, in preda alla confusione. – Quest'idea potrebbe piacerti, in seguito... sempre di più, – disse Leto. – Ma ora aiutami a ritornare al sietch, giacché ho viaggiato in luoghi lontani e sono stanco per le fatiche delle mie peregrinazioni. Namri deve sapere dove sono stato. Lesse l'indecisione negli occhi di lei, e aggiunse: – Non sono forse l'Ospite della Caverna? Namri deve sapere ciò che io ho saputo. Abbiamo un duro e difficile lavoro da compiere, se vogliamo che il nostro universo non degeneri. – Io non... non credo alla storia dei vermi, – esclamò Sabiha. – Neppure a noi due avvinti in un atto d'amore? Lei scosse la testa. Ma lui quasi riusciva a vedere i pensieri che andavano alla deriva nella sua mente, come piume afferrate dal vento. Le

parole di lui l'affascinavano, e nello stesso tempo le ripugnavano. Essere la consorte del potere supremo era certamente allettante. Ma c'erano gli ordini precisi di suo zio. Eppure... un giorno quel figlio di Muad'Dib avrebbe, forse, governato Dune, e l'intero universo, fino agli angoli più remoti. Qui, però, nacque in lei un'istintiva avversione per un simile futuro, tipica dei Fremen, i quali avevano fatto delle caverne il loro rifugio. La consorte di Leto sarebbe stata vista da tutti, sarebbe stata oggetto di conversazioni e pettegolezzi. Ma altresì avrebbe avuto grandi ricchezze a sua disposizione, e... – Io sono il figlio di Muad'Dib, capace di vedere il futuro, – egli ribadì. Lentamente, Sabiha tornò a infilare il cryss nel fodero, balzò agilmente in piedi, si avvicinò a Leto e lo aiutò ad alzarsi. Leto provò piacere, nel vederla muoversi intorno a lui. Sabiha arrotolò con cura il tappeto e se lo caricò sulla spalla sinistra. Si accorse che stava valutando le rispettive stature, ripensando alle sue parole: Avvinti nell'amore? La statura è un'altra delle cose destinate a cambiare, rifletté lui. Quindi, Sabiha lo afferrò per un braccio, per aiutarlo e tenerlo sotto controllo. Leto incespicò, e lei gli disse, brusca: – Siamo troppo lontani dal sietch per far questo! – E si riferiva all'imprudenza di quel rumore che avrebbe potuto attirare un verme. Leto ebbe l'impressione che il suo corpo fosse diventato un bozzolo vuoto, abbandonato da un insetto. Lui conosceva fin troppo bene quel bozzolo: la società edificata sul commercio del melange e la religione del Dorato Elisir. E proprio gli eccessi di questa società l'avevano svuotato. Le superiori finalità che avevano mosso Muad'Dib erano precipitate in quella stregoneria che veniva imposta dal braccio armato dell'Auqaf. Ora la religione di Muad'Dib aveva un altro nome, era Shien-san-Shao, una definizione ixiana per la follia scatenata di quanti avevano creduto di poter condurre l'intero universo al paradiso sulla punta di un cryss. Ma anche questo sarebbe cambiato, com'era cambiato Ix: i suoi abitanti vivevano sul nono pianeta del loro sole, e avevano dimenticato perfino la lingua che gli aveva dato quel nome. – Il Jihad è stato una follia collettiva, – bofonchiò Leto. – Che cosa? – Sabiha si era nel frattempo interamente concentrata sul problema di farlo avanzare con passo irregolare per nascondere ai vermi la loro presenza, là fuori, sulla sabbia. Per un attimo prestò attenzione alle sue parole... ma finì per interpretarle come un ulteriore tributo di Leto alla sua spossatezza. Sentì che era debolissimo, completamente svuotato dalla

trance. Ciò che stavano facendo le sembrò inutile e crudele. Se doveva essere ucciso, come aveva dichiarato Namri, allora bisognava farlo nel modo più semplice e rapido, senza tutta quella messa in scena. Tuttavia, Leto aveva parlato di una meravigliosa rivelazione. Forse era questa che Namri cercava. Certamente era questo il motivo del comportamento della nonna di quel bambino. Per quale altra ragione la Nostra Signora di Dune avrebbe mai decretato delle prove tanto pericolose per un bambino? Bambino? Sabiha rifletté nuovamente sulle sue parole. Ora avevano raggiunto la base delle rocce, e qui lei si fermò, concedendo un po' di sollievo a Leto, là dov'erano più al sicuro. Abbassò gli occhi a guardarlo, alla debole luce delle stelle, e gli chiese: – Come potrebbero non esserci più vermi? – Soltanto io posso cambiare questo, – rispose lui. – Non temere. Io posso cambiare tutto. – Ma è... – Ci sono domande senza risposta, – l'interruppe Leto. – Io ho visto quel futuro, ma le contraddizioni finirebbero soltanto per confonderti. Questo è uno strano universo, e noi siamo l'anomalia più strana di tutte. Troppe influenze si riverberano in noi. Il nostro futuro dev'essere continuamente modificato, corretto. Ora c'è una barriera che dobbiamo eliminare. Ciò richiede, da parte nostra, atti brutali... nel più completo dispregio dei nostri desideri più sacri. Ma bisogna farlo. – Che cosa bisogna fare? – Hai mai ucciso un amico? – Leto le chiese e, voltandosi, s'infilò dentro la fenditura che saliva fino all'ingresso nascosto del sietch. Sabiha gli fu subito alle spalle, lo afferrò per la veste e lo tirò indietro. – Che cos'è questa storia di uccidere un amico? – Morirà comunque, – disse Leto. – Non c'è bisogno che lo faccia io, con le mie mani, ma potrei impedirlo... Se non lo impedisco, non è forse come se l'avessi ucciso io? – Chi è costui? – L'alternativa mi costringe a mantenere il silenzio, – replicò Leto. – Potrei essere costretto a dare mia sorella a un mostro. Ancora una volta, le girò le spalle, e questa volta, quando Sabiha lo tirò per la veste, Leto resistette, rifiutandosi di rispondere alle sue domande. Meglio che non lo sappia, finché non sarà giunto il momento, pensò.

La selezione naturale è stata descritta come l'effetto di un ambiente che esercita una discriminazione in base a certi criteri fra tutti gli individui in grado di riprodursi. Per quanto riguarda gli esseri umani, questo tuttavia è un punto di vista troppo restrittivo. La riproduzione attraverso il sesso tende alla sperimentazione e alla novità. Ciò solleva molte domande, compresa quella più antica, se l'ambiente debba essere considerato un agente selettivo dopo che la mutazione ha avuto luogo, oppure se l'ambiente giochi un ruolo pre-selettivo, determinando la mutazione ancora prima della selezione. Dune non forniva una risposta a queste domande; si limitava a porne sempre di nuove, alle quali Leto e la Sorellanza avrebbero tentato di rispondere nelle prossime cinquecento generazioni. – La Catastrofe di Dune di Harq al-Ada

Le rocce rugginose e spoglie del Muro Scudo si disegnavano vagamente in distanza, e parvero a Ghanima l'incarnazione di quella presenza che minacciava il suo futuro. Si trovava sui bordi del giardino pensile in cima alla Rocca, il sole tramontava alle sue spalle, irradiando un cupo colore arancione attraverso le nubi di polvere, un colore denso e vivido come gli orli della bocca di un verme. Ghanima sospirò, pensando: Alia... Alia... Il tuo destino sarà anche il mio? Negli ultimi tempi, le sue vite interiori si erano fatte sempre più turbolente. Ciò aveva qualcosa a che fare col condizionamento della femmina nella società dei Fremen... o era forse una vera e propria diversità sessuale: ma qualunque cosa fosse, una femmina era più suscettibile alla marea interiore. Sua nonna l'aveva avvertita di questo mentre facevano i loro piani, attingendo alla saggezza accumulata dal Bene Gesserit, ma risvegliando in Ghanima le minacce di quella saggezza. – Abominazione, – aveva detto Lady Jessica. – Questa parola con cui definiamo il pre-nato ha una lunga storia di amare esperienze dietro di sé. Ciò sembra dovuto al fatto che le vite interiori si dividono in due gruppi ben distinti, le benigne e le maligne. Le benigne sono sempre trattabili, utili. Le maligne sembrano fondersi insieme in un'unica, possente psiche, nel tentativo d'impossessarsi della carne vivente e della sua coscienza. Sappiamo che tutto questo richiede un tempo considerevole, ma i sintomi sono ben noti. – Perché hai abbandonato Alia? – aveva chiesto Ghanima. – Sono fuggita in preda al terrore davanti a ciò che io stessa avevo creato. – Questa la confessione sussurrata da Lady Jessica. – Mi sono arresa. Ma ora questo mi pesa sulla coscienza... forse mi sono arresa

troppo presto. – Che cosa vuoi dire? – Non posso ancora spiegarlo, ma... forse... No! Non voglio darti false speranze. Ghafla, l'abominazione, ha una lunga storia nella mitologia umana. È stata chiamata in molti modi, ma soprattutto possessione. Ed è proprio questo. Tu ti smarrisci in mezzo alla malvagità, ed essa s'impadronisce di te. – Leto... temeva la spezia. – Ghanima aveva scoperto che, ora, poteva nuovamente parlare di lui senza sentirsi sconvolta. Quale terribile prezzo avevano dovuto pagare! – Era saggio a temerla, – aveva replicato Lady Jessica. Non aveva voluto dire altro, ma Ghanima ora voleva affrontare il rischio, immergendosi fra le sue vite interiori, sforzandosi di scrutare oltre il fitto velo che circondava la causa di tanta paura da parte del Bene Gesserit. La spiegazione di ciò che era accaduto ad Alia l'aveva lasciato più fitto che mai. Tuttavia, l'immenso coacervo di esperienza accumulato dal Bene Gesserit le aveva indicato un modo di evitare la trappola. Prima di tentare questa compartecipazione con le sue vite interiori, Ghanima avrebbe dovuto appellarsi al Mohalata, un'associazione tra le vite benevole che, si augurò, le avrebbe garantito sufficiente protezione. Lassù, dunque, alla luce del tramonto, sui bordi del giardino pensile in cima alla Rocca, Ghanima compì il suo tentativo di compartecipazione. E subito avvertì la presenza-ricordo di sua madre. Chani era lì, comparsa all'improvviso davanti a Ghanima, sullo sfondo dei lontani dirupi. – Entra qui dentro e mangerai il frutto dello Zaqquum, il cibo dell'inferno! – disse Ghani. – Chiudi subito questa porta, figlia mia, è la tua sola speranza di salvezza! Il clamore assordante delle sue vite interiori s'innalzò subito intorno a quella visione, e Ghanima fuggì, aggrappandosi convulsamente, più per disperazione che per vera fede, al credo della Sorellanza. Si mise affannosamente a recitare il Credo, muovendo le labbra in un precipitoso bisbiglio: La religione è l'emulazione dell'adulto da parte di un bambino. La religione è la mummificazione di ogni credenza passata: la mitologia (niente più che un tirare a indovinare), le superstizioni (un'inconfessata fiducia in una «saggezza» intrinseca dell'universo), le affermazioni fatte da questo o quell'uomo per conseguire un potere personale, il tutto frammischiato a frammenti d'illuminismo. Il comandamento supremo,

inespresso ma sempre incombente, è: «Tu non porrai domande!» Ma noi le domande le poniamo. Per noi, violare quel comandamento è un fatto di ordinaria amministrazione. Il lavoro in cui ci siamo impegnate è restituire la libertà all'immaginazione, con l'unico controllo da parte della più profonda intelligenza creativa dell'umanità. Lentamente, l'ordine ritornò nei pensieri di Ghanima. Tuttavia, il suo corpo continuò a tremare, e Ghanima si rese conto di quanto fosse precaria la pace che aveva ottenuto: quel fitto velo offuscava più che mai la sua mente. – Leb Kamai, – bisbigliò. – Cuore del mio nemico, tu non sarai il mio cuore. Rievocò i lineamenti di Farad'n, quel volto giovane, saturnino, le folte sopracciglia e la bocca risoluta. L'odio mi renderà forte, pensò. Odiando, potrò sfuggire al destino di Alia. Ma la fragilità della sua condizione permaneva, e riuscì soltanto a pensare a quanto Farad'n assomigliasse a suo nonno, il defunto Shaddam IV. – Eccoti qui! Irulan spuntò alla destra di Ghanima, avanzando a lunghi passi lungo il bordo del giardino pensile, con un'andatura che ricordava quella di un uomo. Ghanima si voltò a guardarla, e pensò: E lei è la figlia di Shaddam. – Perché continui a sgattaiolare fuori da sola? – chiese Irulan, arrestandosi di fronte a Ghanima. torreggiando sopra di lei con volto truce. Ghanima si trattenne dal ribattere che lei non era sola, poiché le guardie l'avevano vista uscire sulla terrazza. La collera di Irulan nasceva dal fatto che lassù si trovavano all'aperto e un'arma avrebbe potuto colpirle da lontano. – Tu non indossi la tuta, – osservò Ghanima. – Lo sai che ai vecchi tempi chi veniva sorpreso fuori dal sietch senza la tuta distillante era subito ucciso. Sprecare l'acqua significava mettere in pericolo l'intera tribù. – Acqua! Acqua! – esclamò, brusca, Irulan. – Voglio sapere perché ti esponi così al pericolo. Torna dentro. Stai creando guai per tutti noi. – Quale pericolo può esserci ancora? – obiettò Ghanima. – Stilgar ha spazzato via i traditori. Le guardie di Alia sono dovunque. Irulan guardò in alto: il cielo si stava oscurando, molte stelle già ammiccavano su uno sfondo grigio-azzurro. Riportò quindi la sua attenzione su Ghanima. – Non starò qui a discutere. Sono stata mandata ad

annunciarti che abbiamo ricevuto un messaggio da Farad'n. Accetta, ma per qualche ragione desidera ritardare la cerimonia. – Di quanto? – Ancora non sappiamo. Sono in corso negoziati. Ma Duncan è stato rimandato a casa. – E mia nonna? – Ha scelto di restare su Salusa, per il momento. – Chi può biasimarla? – commentò Ghanima. – Quella sciocca disputa con Alia! – Non cercare di darmela a bere, Irulan. Quella non era una disputa sciocca. Ho udito ciò che si raccontava in giro. – I timori della Sorellanza... – Sono reali, – l'interruppe Ghanima. – Bene, hai trasmesso il tuo messaggio. Vuoi servirti di questa occasione per tentare un'ultima volta di dissuadermi? – Ho rinunciato. – Dovresti sapere che non puoi mentirmi, – sorrise Ghanima. – Molto bene! Continuerò allora a tentare di dissuaderti. Ciò che intendi fare è pura follia. – Irulan si chiese perché dovesse consentire a Ghanima d'irritarla così. Una Bene Gesserit non avrebbe dovuto farsi irritare da niente. E proseguì: – Mi preoccupa l'estremo pericolo al quale sei esposta. Lo sai. Ghani, Ghani... tu sei la figlia di Paul Atreides. Come puoi... – Proprio perché sono sua figlia, – ribatté Ghanima. – Noi Atreides risaliamo ad Agamennone, e sappiamo quello che c'è nel nostro sangue. Non dimenticarlo mai, moglie senza figli di mio padre. Noi Atreides abbiamo una storia di sangue, e con il sangue non abbiamo ancora finito. Stordita, Irulan chiese: – Chi è Agamennone? – Quant'è scadente la vostra tanto vantata istruzione Bene Gesserit! – ironizzò Ghanima. – Dimentico sempre che voi, per abitudine, tendete a scorciare la storia, tagliandone via grosse fette. Ma i miei ricordi risalgono a... – S'interruppe; meglio non risvegliare quelle antiche ombre dal loro sonno fin troppo leggero. – Qualunque cosa tu ricordi, – ribatté Irulan, – non sai quant'è pericolosa la decisione di... – Lo ucciderò, – ribadì Ghanima. – Mi deve una vita. – E io l'impedirò, se potrò. – Lo so. Ma non ne avrai la possibilità. Alia sta per inviarti a sud, in una delle nuove città, e ci resterai finché non l'avrò fatto.

Irulan scrollò la testa, costernata: – Ghani, ho giurato di proteggerti da ogni pericolo. Se necessario, sacrificherò la mia stessa vita. Se credi che io me ne starò a languire in qualche djedida dai muri d'argilla, mentre tu... – C'è sempre lo huanui, – l'interruppe Ghanima, in tono soave. – Possiamo sempre affidarti al distillatore della morte, come alternativa. Sono certa che, da lì, non potresti interferire. Irulan impallidì, e si portò una mano alla bocca, dimenticando per un attimo ogni suo addestramento. Era comunque una dimostrazione del suo attaccamento a Ghanima, questa completa rinuncia a se stessa, salvo un momentaneo cedimento all'istinto di conservazione. Replicò balbettando, in preda a una sconvolgente emozione: – Ghani, io non ho paura per me. Mi butterei nella bocca di un verme, per salvarti. Sì, è vero, sono la moglie senza figli di tuo padre. Ma tu sei la figlia che non ho mai avuto. Ti prego... – Le lagrime le luccicarono agli angoli degli occhi. Ghanima soffocò rabbiosamente un nodo alla gola e disse: – C'è un'altra differenza, tra noi: tu non sei mai stata una Fremen. Io sì. Io non sono altro. Questo è l'abisso che ci divide, e Alia lo sa. Qualunque altra cosa lei sia diventata, lo sa. – Tu non puoi conoscere ciò che Alia sa, – disse Irulan, in tono amaro. – Se io non sapessi che è un'Atreides, giurerei che si è proposta di distruggere la sua famiglia. E come fai a sapere che è ancora un'Atreides? disse a se stessa Ghanima, meravigliandosi di quanto Irulan si mostrasse cieca. Non era forse una Bene Gesserit, non avrebbe dovuto conoscere, meglio di chiunque altro, la storia delle Abominazioni? Ma Irulan si rifiutava addirittura di pensarci, figurarsi poi di crederci. Alia aveva stregato quella povera donna. – Ho un debito d'acqua nei tuoi confronti, – Ghanima le disse. – Per questo proteggerò la tua vita. Ma tuo nipote è perduto. Non parlarmi più di lui. Irulan dominò il tremito delle labbra, si asciugò gli occhi: – Amavo tuo padre, – bisbigliò. – E non me n'ero accorta, fino al giorno in cui morì. – Forse non è morto, – disse Ghanima. – Quel Predicatore... – Ghani! A volte non ti capisco. Credi che Paul attaccherebbe in quel modo la sua famiglia? Ghanima scrollò le spalle e guardò a sua volta il cielo, ormai quasi buio. – Potrebbe trovarlo divertente. – Come puoi parlare con tanta leggerezza di...

– Per tener lontana da me la profonda oscurità, – spiegò Ghanima. – Non mi faccio beffe di te, Irulan. Gli dèi possono testimoniarlo. Ma io non sono soltanto la figlia di mio padre. Io sono ogni singolo individuo che ha contribuito col suo seme a perpetuare gli Atreides. Tu non puoi credere che io sia un'Abominazione, ma non riesco a pensare ad altro. Io sono una prenata. Io so quello che c'è dentro di me. – Quella sciocca vecchia superstizione del... – Non dirlo! – Ghanima protese istintivamente la mano come per chiudere la bocca ad Irulan. – Io sono tutte, dalla prima all'ultima, le Bene Gesserit del loro maledetto programma genetico, mia nonna inclusa. E sono molto di più. – Si piantò le unghie nel palmo della mano sinistra, facendo gocciolare il sangue. – Questo mio corpo è giovane, ma le sue esperienze... Oh, per gli dèi, Irulan! Le mie esperienze! No! – Protese un'altra volta la mano, e Irulan le si fece più vicina. – Io conosco tutti i futuri esplorati da mio padre. Possiedo la saggezza d'innumerevoli vite, e tutta la loro ignoranza, e anche... tutte le loro debolezze. Se vuoi aiutarmi, Irulan, devi prima sapere chi sono io veramente. Istintivamente, Irulan si curvò e prese Ghanima tra le braccia, stringendola a sé, guancia contro guancia. Non costringermi a uccidere questa donna, supplicò Ghanima, dentro di sé. Fa che questo non accada. Mentre questo pensiero l'attraversava, sul deserto cadde la notte.

Un piccolo uccello ti ha chiamato Col suo becco striato di cremisi. Stridette una sola volta su Sietch Tabr E tu andasti alle Piane dei Morti. – Lamento per Leto II

Leto si risvegliò al tintinnio degli anelli d'acqua intrecciati in una chioma di donna. Guardò verso l'arco che si apriva dal corridoio e sterno sulla sua cella, e vide, lì seduta, Sabiha. Immerso nella semincoscienza della spezia, ne confrontò il profilo con tutto quello che la visione gli aveva rivelato di lei. Sabiha aveva superato di due anni l'età in cui la maggior parte delle ragazze Fremen si sposavano, o quanto meno si fidanzavano. Perciò la sua famiglia la stava serbando per qualcosa... o qualcuno. Era vergine... ovviamente. Gli occhi di Leto, ancora velati dalla visione, la videro come una creatura uscita dal più remoto passato dell'umanità, sulla Terra: capelli scuri e pelle chiara, orbite profonde che davano ai suoi occhi azzurri nell'azzurro una sfumatura verdastra. Sabiha aveva un naso piccolo e una bocca ampia sopra un mento appuntito. Ed era per lui l'indizio più evidente che il piano del Bene Gesserit era conosciuto – o quanto meno sospettato – lì a Jacurutu. Così, speravano di far rivivere attraverso lui l'imperialismo faraonico, vero? Allora, che cos'era quell'altro loro piano, di costringerlo a sposare sua sorella? Sabiha non avrebbe certo potuto impedirlo. I suoi catturatori conoscevano il piano, tuttavia. E come avevano fatto a scoprirlo? Essi non condividevano la sua visione. Essi non erano stati con lui là dove la vita diventava qualcosa d'impalpabile proiettato in altre dimensioni. L'interiore, ripetitiva soggettività delle visioni che mostravano che Sabiha era sua, soltanto sua. Ancora una volta gli anelli d'acqua tintinnarono fra i capelli di Sabiha, e il suono lo ridestò dalle sue visioni. Leto sapeva dov'era stato e ciò che aveva appreso. Niente avrebbe potuto cancellarlo. Ma ora lui non stava cavalcando sulla sella di un Grande Creatore, con gli anelli d'acqua dei passeggeri che tintinnavano, ritmando il lungo viaggio. No... lui era lì, in quella cella a Jacurutu, impegnato in un altro viaggio, il più pericoloso fra tutti: era partito e ritornato all'Ahll as-sunna wal-jamas, partito dal mondo reale dei sensi e ritornato a quel mondo. Che cosa stava facendo, lei, in quel luogo, con gli anelli d'acqua che le tintinnavano fra i capelli? Oh, sì: stava preparando ancora un po' di quella mistura che, essi pensavano, l'avrebbe tenuto prigioniero. Cibo condito con

essenza di spezia per tenerlo mezzo dentro e mezzo fuori dall'universo reale, fino a quando non fosse morto, o il piano di sua nonna non avesse avuto successo. Ma ogni volta che lui credeva di aver vinto, essi lo rimandavano indietro. Lady Jessica aveva ragione, naturalmente... quella vecchia strega! Ma com'era possibile fare ciò che lei voleva? Il ricordo totale di tutte quelle vite dentro di lui non sarebbe stato di nessuna utilità, fino a quando egli non fosse riuscito a organizzare i dati e a ricordarli a volontà. E quelle vite, ad ogni istante, avrebbero potuto precipitarlo nell'anarchia. Una, oppure tutte, avrebbero potuto sopraffarlo. La spezia e Jacurutu, così letteralmente intrisa di essa, erano stati un azzardo disperato. Gurney è sempre in attesa del segno, e io mi rifiuto di darlo. Quanto durerà la sua pazienza? Tornò a guardare Sabiha, là fuori. Lei aveva ricacciato indietro il cappuccio, rivelando i tatuaggi tribali alle tempie. Sulle prime, Leto non riconobbe quei tatuaggi, poi ricordò dov'era. Sì, Jacurutu viveva ancora. Leto ancora non sapeva se doveva essere riconoscente a sua nonna, oppure odiarla. Ella voleva che lui sviluppasse i suoi istinti a un livello cosciente. Ma gli istinti erano soltanto memorie razziali sul modo in cui andavano affrontate le crisi. I ricordi diretti di quelle altre vite, in lui, gli davano informazioni molto più precise. Ora che aveva organizzato tutto nella sua mente, vide il pericolo che avrebbe corso se l'avesse rivelato a Gurney. Ma non c'era alcun modo di nasconderlo a Namri. Namri: quello era il problema. Sabiha entrò nella cella con una scodella fra le mani. Leto ammirò il modo in cui la luce proveniente dall'esterno produceva cerchi iridescenti intorno ai suoi capelli. Delicatamente, lei gli sollevò la testa e cominciò a dargli da mangiare. Soltanto allora, Leto si rese conto di quanto egli fosse debole. Lasciò che Sabiha lo nutrisse, mentre la sua mente vagabondava, riandando all'ultimo colloquio con Gurney e Namri. Essi gli credevano! Namri più di Gurney, ma anche Gurney non poteva negare ciò che i suoi sensi già gli avevano detto sulle condizioni del pianeta. Sabiha gli pulì la bocca con l'orlo della veste. Ahhh, Sabiha, pensò lui, ricordando l'altra visione che aveva riempito di dolore il suo cuore. Molte notti sognai accanto all'acqua, sotto il cielo, ascoltando il sibilo del vento. Molte notti la mia carne rimase distesa accanto alla tana del serpente, ed io sognai di Sabiha nel mezzo del calore dell'estate. La vidi cuocere il pane di spezia su piastre roventi di plastacciaio. Vidi le acque del qanat limpide e tranquille accanto a me,

mentre una tempesta mi sconvolgeva il cuore. Lei sorseggia il caffè e mangia. I suoi denti luccicano nella penombra. La vedo intrecciare i miei anelli d'acqua fra i suoi capelli. La fragranza del suo seno penetra nell'intimo dei miei sensi. Lei mi tormenta e mi opprime col puro fatto di esistere. La pressione delle sue multi-memorie fece esplodere quella sfera di tempo cristallizzato alla quale aveva cercato di resistere. Sentì la ritmica contrazione dei corpi, gli ansiti del sesso, alito umido, lingue. In qualche punto della sua visione c'erano forme a spirale, color del carbone, e lui sentì il pulsare di quelle forme mentre ruotavano dentro di lui. Una voce l'implorò, dentro il cranio: – Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego... – Vi fu un rigonfiarsi d'orgoglio nei suoi lombi, ed egli sentì che la bocca di lei si apriva, aderendo alla sua forma d'estasi. Poi, un sospiro, una dolcezza lenta, come il rigonfiarsi del suolo, un afflosciarsi. Oh, come sarebbe stato dolce consentire che tutto questo esistesse nella realtà! – Sabiha, – bisbigliò Leto. – Oh, mia Sabiha. Quando il suo protetto fu sprofondato completamente nella trance, dopo avere inghiottito il cibo, Sabiha prese la scodella e si avvicinò alla soglia della stanza. Qui, parlò con Namri. – Ha pronunciato un'altra volta il mio nome. – Torna indietro e stagli vicina, – le ordinò Namri. – Devo trovare Halleck e discutere di questo con lui. Sabiha depose la scodella accanto alla soglia e rientrò nella cella. Si sedette sull'orlo del giaciglio, e fissò il volto in ombra di Leto. Poco dopo, egli aprì gli occhi e protese una mano, sfiorandole la guancia. Quindi cominciò a parlarle, raccontandole della visione in cui era stato con lei. Lei gli coprì la mano con la propria, mentre Leto continuava a parlare. Com'era dolce, com'era infinitamente dol... Sabiha si accasciò sul giaciglio priva di sensi, mentre lui, con la mano protesa, attutiva la caduta. Leto si rizzò a sedere, sperimentando tutta la sua infinita debolezza. La spezia e la sua visione l'avevano svuotato. Esplorò con lo sguardo la cella, mentre cercava di raccogliere ogni stilla di energia rimastagli, e scivolò via dal giaciglio senza toccare Sabiha. Doveva andare, ma sapeva che non sarebbe andato lontano. Lentamente chiuse la tuta, si avvolse nella veste, sgusciò attraverso la soglia e raggiunse il corridoio. C'era poca gente in giro, intenta alle proprie faccende. Essi lo conoscevano, ma non erano loro i responsabili delle sue

azioni. Namri e Halleck dovevano senz'altro sapere ciò che lui stava facendo, e Sabiha non poteva esser lontana. Leto trovò il condotto laterale che cercava e vi s'inoltrò spavaldo. Nella cella che si era lasciato alle spalle Sabiha restò immersa nel sonno fino a quando Halleck non la svegliò. Si rizzò a sedere, sfregandosi gli occhi, vide il giaciglio vuoto... e vide suo zio in piedi dietro ad Halleck. Lesse la rabbia sui loro volti. Namri rispose alla muta interrogazione di lei: – Sì, se n'è andato. – Come avete potuto lasciarlo fuggire? – esclamò Halleck, furibondo. – Com'è possibile? – L'hanno visto dirigersi verso l'uscita inferiore, – disse Namri, con voce stranamente calma. Sabiha ricordò, e si ritrasse da loro. – Come ha potuto? – chiese ancora Halleck. – Non so. Non so. – È notte, ed è debole, – s'intromise Namri. – Non andrà lontano. Halleck si girò di scatto verso di lui: – Vuoi che il ragazzo muoia? – Non mi dispiacerebbe. Ancora una volta Halleck affrontò Sabiha: – Dimmi che cosa è successo. – Mi ha toccato la guancia. Continuava a parlare della sua visione... di noi due insieme. – Si volse a fissare il giaciglio vuoto. – Mi ha fatto dormire. Ha usato su di me qualche magia. Halleck guardò Namri: – È possibile che sia nascosto qua dentro, da qualche parte? – No, da nessuna parte. Sarebbe stato trovato, visto. Era diretto verso l'uscita. Si trova là fuori. – Magia, – mormorò Sabiha. – Nessuna magia, – ribatté Namri. – Ti ha ipnotizzato. Era quasi riuscito a farlo con me, ricordi? Disse che ero suo amico. – È molto indebolito, – ripeté Halleck. – Solo nel corpo, – disse Namri. – Ma non andrà lontano, tuttavia. Ho reso inservibili le pompe nei calcagni della sua tuta. Morirà senz'acqua, se non lo troveremo. Halleck fu sul punto di avventarsi su Namri e colpirlo, ma riuscì a mantenere un rigido controllo su di sé. Jessica l'aveva avvertito che forse Namri sarebbe stato costretto a uccidere il ragazzo. Dèi sotterranei, in quale situazione avevano finito per trovarsi! Atreides contro Atreides. Chiese: – Non è possibile che si sia allontanato in preda alla trance da

spezia? – Che differenza fa? – ribatté Namri. – Se ci sfugge, deve morire. – Cominceremo le ricerche alle prime luci, – esclamò Halleck. – Ha portato con sé un fremkit? – Ce n'è sempre qualcuno accanto all'uscita, – disse Namri. – Sarebbe sciocco se non ne avesse preso uno. Per qualche ragione, non mi ha mai dato l'impressione di uno sciocco. – Allora, manda subito un messaggio ai nostri amici, – disse Halleck. – Informali di quanto è accaduto. – Niente messaggi questa notte, – replicò Namri. – C'è una tempesta in arrivo. Sono già tre giorni che le tribù la seguono. Sarà qui a mezzanotte. Le comunicazioni sono già interrotte. I satelliti hanno escluso questo settore due ore fa. Halleck sospirò profondamente. Il ragazzo sarebbe certamente morto, là fuori, se una raffica di sabbia l'avesse investito. Gli avrebbe strappato via la carne, corrodendogli le ossa fino a ridurle in briciole. Quella morte falsa, inventata, sarebbe diventata reale. Picchiò il pugno sul palmo aperto dell'altra mano. La tempesta li avrebbe isolati nel sietch. Era ormai impossibile organizzare una ricerca. E l'elettricità statica impediva di lanciare l'allarme. – I distrans, – disse. Aveva pensato che avrebbero potuto imprimere un messaggio verbale sul sistema nervoso di un pipistrello, facendolo volar via per dare l'allarme. Namri scosse la testa: – I pipistrelli non volano nella tempesta. Sì, uomo. Essi sono molto più pratici di noi. Si rintaneranno fra i dirupi finché la tempesta non sarà passata. Meglio aspettare che il contatto con i satelliti sia ripristinato. Poi potremo uscire a cercare i suoi resti. – Non li troveremo, se ha preso con sé un fremkit e si è scavato un rifugio nella sabbia, – esclamò Sabiha. Imprecando fra i denti, Halleck si girò di scatto e a lunghi passi uscì fuori dalla cella.

La pace esige, da noi, soluzioni, ma noi non riusciamo mai a raggiungere soluzioni vive. Tutt'al più lavoriamo nella speranza di conseguirle. Una soluzione fissa, statica, è per sua stessa definizione una soluzione morta. Il guaio è che la pace tende a punire gli errori, invece che premiare l'ingegno. – Le parole di Mio Padre: una cronaca su Muad'Dib ricostruita da Harq al-Ada.

– Lo sta addestrando? Sta addestrando Farad'n? Alia fissò furiosa Duncan Idaho, deliberatamente mescolando ira e incredulità. Il cargo della Gilda era entrato in orbita alle dodici, ora locale. Un'ora più tardi una navetta aveva fatto scendere Idaho ad Arrakeen, senza alcun annuncio preventivo, ma tutto fatto in modo esplicitamente scoperto. Nel giro di pochi minuti un ornitottero l'aveva depositato in cima alla Rocca. Avvertita pochi istanti prima del suo arrivo, Alia lo aveva accolto lassù con gelida formalità di fronte alle guardie, ma ora si trovavano negli appartamenti di lei, sul lato settentrionale della Rocca. Idaho aveva appena concluso il suo rapporto, nel modo più minuziosamente preciso, sottolineando ogni dato al modo dei mentat. – È uscita di senno! – esclamò Alia. Idaho valutò anche questo problema al modo dei mentat. – Tutte le indicazioni mostrano che Lady Jessica è tuttora ben equilibrata, sana di mente. Direi che il suo indice di equilibrio mentale sia del... – Basta! – l'interruppe bruscamente Alia. – Che cosa ha in mente di fare? Idaho, ben conscio che il suo equilibrio emotivo adesso era strettamente legato alla sua capacità d'immergersi nella tipica freddezza del mentat, replicò: – Ho computerizzato che tutto ciò è in stretta relazione col previsto fidanzamento di sua nipote. – I suoi lineamenti conservarono un atteggiamento cauto, neutro, mascherando l'acerbo dolore che minacciava di travolgerlo. Lì, davanti a lui, non c'era Alia. Alia era morta. Per lungo tempo aveva conservato, ostinatamente, l'immagine di una mitica Alia, una persona inesistente che lui stesso si era costruito, per soddisfare una sua interiore necessità. Ma un mentat poteva mantenere questa illusione per un tempo limitato. Quella creatura in veste umana, lì davanti a lui, era posseduta; una psiche demoniaca la guidava. Gli occhi d'acciaio con la loro miriade di sfaccettature trasmettevano ai centri visivi di Idaho una molteplicità di mitiche Alia. Ma quando lui le fondeva in una sola immagine, non restava alcuna Alia. Il suo volto, l'intero suo corpo, agivano

spinti da entità che non erano Alia. Lei era soltanto un guscio all'interno del quale era stato commesso un inenarrabile oltraggio. – Dov'è Ghanima? – chiese Idaho. Lei prontamente replicò: – L'ho mandata insieme ad Irulan da Stilgar. Territorio neutrale, pensò Idaho. C'è stato un altro negoziato con le tribù ribelli. Alia sta perdendo terreno e non lo sa... o forse sì? C'è forse un'altra ragione? Stilgar è passato dalla sua parte? – Il fidanzamento, – disse Alia, soprappensiero. – Qual è la situazione nella Casa di Corrino? – Salusa pullula di parenti vicini e lontani, tutti che si stanno lavorando Farad'n sperando di dividere una fetta con lui, quando sarà ritornato al potere. – E lei gli impartisce l'addestramento del Bene Gesserit... – Poiché è il più adatto a diventare il marito di Ghanima... Alia sorrise tra sé, pensando alla gelida furia di Ghanima. Che Farad'n venisse pure addestrato. Jessica stava addestrando un cadavere. Tutto sarebbe andato come previsto. – Devo riflettere a lungo su tutto questo, – disse infine. – Ma tu, come sei silenzioso, Duncan. – Aspetto le tue domande. – Capisco. Sai, ero molto arrabbiata con te... Portarla da Farad'n! – Tu mi hai ordinato di fare in modo che sembrasse vero. – Sono stata costretta a diffondere un comunicato il quale affermava che eravate stati fatti prigionieri, – Alia insisté, in tono accusatore. – Ho obbedito ai tuoi ordini. – Duncan, a volte sei così letterale... Quasi mi spaventi. Ma se tu non avessi... be'... – Lady Jessica ora è lontana dai pericoli, – disse Idaho. – E per il bene di Ghanima, dovremmo esserle grati che... – Estremamente grati, – si affrettò ad annuire lei. E pensò: Non ci si può più fidare di lui. Quella sua dannata fedeltà agli Atreides! Devo trovare una scusa per mandarlo via... e farlo eliminare. Un incidente, è ovvio. Gli sfiorò una guancia. Idaho si sforzò di rispondere alla sua carezza, prendendole la mano e baciandola. – Duncan, Duncan, quanto è triste tutto ciò, – disse Alia. – Ma io non posso tenerti qui con me. Stanno accadendo troppe cose, e pochi sono coloro di cui posso fidarmi completamente.

Lui lasciò andare la sua mano, in attesa. – Sono stata costretta a mandare Ghanima a Tabr, – proseguì lei. – Qui regna una profonda inquietudine. Predoni provenienti dalle Terre Selvagge hanno aperto una breccia nel qanat del Bacino di Kagga e sparso tutta l'acqua nella sabbia. Abbiamo dovuto introdurre il razionamento, qui ad Arrakeen. Il Bacino pullula ancora di trote. Ci stiamo occupando di esse, naturalmente, ma ci troviamo in una situazione molto delicata. Idaho aveva già notato quanto poche fossero le amazzoni di Alia presenti nella Rocca. E pensò: I maquis del Deserto Interno continueranno a mettere alla prova le sue difese. Possibile che lei non lo capisca? – Tabr è sempre un territorio neutrale, – lei disse ancora. – Le trattative sono in corso anche adesso. Javid si trova laggiù con una delegazione di sacerdoti. Ma vorrei che tu andassi lì a tenerli d'occhio, specialmente Irulan. – È una Corrino – Duncan annuì. Ma vide nei suoi occhi che Alia, in realtà, lo stava deliberatamente allontanando da sé. Com'era diventata trasparente quest'Alia-non-più-Alia! – Ora vai pure, Duncan. – disse Alia, congedandolo con un gesto della mano, – prima che m'intenerisca e ti trattenga qui, accanto a me. Ho sentito tanto la tua mancanza... – E io la tua, – replicò lui, lasciando che tutto il suo dolore fluisse nella sua voce. Alia lo fissò, sorpresa dalla sua tristezza. – Fallo per me, Duncan, – mormorò. E pensò: Tanto peggio, Duncan. Poi, a voce più alta: – Zia ti condurrà a Tabr. Dobbiamo riavere qui, subito, l'ornitottero. La sua amazzone prediletta, pensò Duncan. Dovrò stare attento, con quella. – Capisco, – annuì. Le afferrò ancora una volta la mano e la baciò. Fissò quella carne amata che un tempo era appartenuta alla sua Alia. Quando uscì, non poté guardarla in viso. Qualcun altro lo fissava da quegli occhi. Mentre saliva verso la piattaforma, all'ultimo piano, Idaho si sentì inquieto per le troppe domande rimaste senza risposta. L'incontro con Alia era stato particolarmente difficile per la porzione mentat del suo essere, che continuava istintivamente a raccogliere dati da tutto ciò che vedeva, cercando di collegarli in un tutto logico. Restò in attesa accanto all'ornitottero e all'amazzone di sentinella, fissando ostilmente il panorama verso sud. L'immaginazione portò il suo sguardo oltre il Muro Scudo, fino a Sietch Tabr.

Perché mai tocca a Zia condurmi fino a Tabr? Riportare qui, alla base, un ornitottero vuoto è un compito servile. È... perché mai Zia non è già qui? Sta forse ricevendo speciali istruzioni? Idaho lanciò un'occhiata alla sentinella, poi si arrampicò dentro l'ornitottero, al posto del pilota. Vide l'amazzone che lo fissava, indecisa sul da farsi. Chi avrebbe osato contestare le azioni del consorte di Alia? Idaho fece subito decollare l'apparecchio, prima che l'amazzone riuscisse a prendere una decisione. Ora, solo a bordo dell'ornitottero, consentì che il suo dolore trovasse sfogo, e il suo corpo fu scosso da rumorosi singhiozzi. Alia se n'era andata. Lui ed Alia erano separati per sempre. Lagrime colarono dai suoi occhi tleilaxu, e Idaho bisbigliò: – Che tutte le acque di Dune siano rovesciate sulla sabbia. Esse non riusciranno mai ad eguagliare le mie lagrime. Questo, tuttavia, era un eccesso da non-mentat, e Idaho lo riconobbe come tale. Con uno sforzo, si costrinse ad una più logica valutazione della situazione. L'ornitottero richiamò tutta la sua attenzione. Le manovre richieste dal pilotaggio gli diedero un po' di sollievo , e Idaho riprese il controllo di se stesso. Ghanima è di nuovo con Stilgar. E con Irulan. Perché mai Zia era stata designata ad accompagnarlo? Affrontò il problema con la sua logica mentat, e la risposta lo agghiacciò. Lui sarebbe dovuto restar vittima di un incidente mortale.

Questo roccioso santuario, dedicato al cranio di un sovrano, non concede il sollievo della preghiera. Qui non risuonano più suppliche. Questo luogo ascolta soltanto la voce del vento. Le grida delle creature della notte e l'effimera meraviglia delle due lune, tutto dice che il suo giorno è finito. Non giungono più i supplicanti. Gli ospiti hanno lasciato la festa. Com'è spoglio il sentiero che scende questa montagna! – Messaggio scritto sulla roccia del Santuario di un Duca Atreides

La cosa, in sé, aveva per Leto l'ingannevole aspetto della semplicità: evita la visione, fai ciò che non hai visto. Lui conosceva l'inganno che si celava in questo pensiero, in modo in cui i figli casuali di un futuro predestinato finivano per intrecciarsi insieme fino ad avvolgerti stretto, ma lui, ora, era in grado di padroneggiare quei fili. In nessuna delle sue visioni Leto aveva visto se stesso intento a fuggire da Jacurutu. Il filo che lo legava a Sabiha doveva essere tagliato per primo. Ora, si trovava rannicchiato sull'orlo orientale della roccia che nascondeva Jacurutu, agli ultimi bagliori del giorno. Il suo fremkit gli aveva fornito cibo e tavolette energetiche. Ora stava aspettando che gli ritornassero le forze. A occidente si stendeva il lago Azrak, la pianura di gesso dove un tempo, nei giorni prima del verme, vi era stata un'ampia distesa di acqua all'aperto. Invisibile, a oriente si stendeva il Bene Sherk, una spruzzata di nuovi insediamenti abbarbicati al bled, nello spazio aperto. A sud si stendeva il Tanzerouft, il Paese del Terrore, 3800 chilometri di terreno desolato, interrotto soltanto da poche chiazze verdi, dune imprigionate dall'erba e le trappole a vento che fornivano l'acqua necessaria per la trasformazione ecologica che stava cambiando il paesaggio di Arrakis. Queste oasi erano controllate da squadre di tecnici trasportate per via aerea, ma nessuno dei componenti si fermava troppo a lungo. Andrò a sud, si disse. Gurney si aspetterà che lo faccia. Quello non era il momento di agire in modo del tutto imprevedibile. Presto sarebbe stata notte completa e lui avrebbe abbandonato quel nascondiglio temporaneo. Fissò l'orizzonte a sud. Vi erano turbini bruno grigiastri, laggiù, vortici fumiganti di polvere, il preludio a raffiche urlanti, d'una violenza inaudita: una tempesta. Leto osservò il punto centrale del vortice che s'innalzava sopra la Grande Distesa come un verme che stesse cercando una vittima. Per un intero minuto tenne gli occhi fissati su quell'immagine di violenza scatenata, e vide che non si spostava né a destra, né a sinistra. Un antico detto dei Fremen gli lampeggiò nella mente:

Quando il centro della tempesta sembra immobile, tu ti trovi sulla sua strada. Quella tempesta era un fatto imprevisto. Lanciò un'occhiata dietro di sé, verso ovest, la direzione di Sietch Tabr, e percepì l'ingannevole serenità grigio-rossiccia della sera nel deserto, nella quale spiccava la bianca vasca di gesso bordata da ciottoli arrotondati dal vento, la superficie irreale di un bianco abbacinante che rifletteva le nubi di polvere. In nessuna delle sue visioni aveva visto se stesso sopravvivere al grigio serpente di una tempesta madre, oppure morire, sepolto troppo profondamente dalla sabbia per riuscire a riemergere. C'era stata soltanto una visione del vento che turbinava verso di lui... ma il resto avrebbe potuto sopraggiungere più tardi. Là fuori, comunque, c'era una tempesta che si estendeva su parecchi gradi di latitudine, sferzando a sangue il pianeta. Valeva la pena rischiare? C'erano vecchie storie in proposito, sempre raccontate dall'amico di un amico, le quali affermavano che era possibile costringere un verme esausto a restare in superficie cacciando un amo del creatore sotto uno dei suoi grandi anelli, divaricandolo, e cavalcando poi il verme fino ad uscire dalla tempesta, tenendosi aggrappati a lui sottovento. Questo sottile confine tra l'audacia e la temerarietà più sfrenata lo tentava. Quella tempesta non sarebbe sopraggiunta fra quelle rocce prima di mezzanotte. C'era tempo. Quanti fili avrebbe troncato, così? Tutti, compreso quello finale? Gurney si aspetterà che io vada verso sud, ma non in mezzo a una tempesta. Scrutò in basso, verso sud, cercando un sentiero. Vide una gola profonda simile a una lunga pennellata nera, che seguiva una curva lungo le rocce di Jacurutu. Nei visceri della gola vide rivoli di sabbia chimera, impalpabile, che sfociava nelle pianure come fosse acqua. Il sapore polveroso della sete gli pizzicò, maligno, la bocca, quando si caricò il fremkit in spalla e si calò fino al sentiero che conduceva nel canyon. C'era ancora luce sufficiente perché lo vedessero, ma lui sapeva che stava disputando una corsa col tempo. Quando s'immerse nella gola, la notte del deserto calò rapida su di lui. Rimase soltanto il gelido bagliore della luna a illuminargli la strada verso Tanzerouft. Sentì il battito del suo cuore accelerare a causa delle molte paure che la sua eccessiva ricchezza di ricordi gli procurava. Stava affrontando il rischio di essere inghiottito per sempre dalla Huanui-naa, come la paura atavica dei Fremen definiva la più grande delle tempeste: il

Distillatore della Morte dell'Intero Pianeta. Ma qualunque cosa gli fosse accaduta, l'avrebbe affrontata alla cieca. Ad ogni passo si lasciava sempre più alle spalle la dhyana indotta dalla spezia, quella sorta d'intuizione cosciente che si dispiegava all'interno della sua mente fino a inglobare la ferrea logica delle cause e degli effetti. Ora, ogni cento passi che percorreva, uno almeno lo faceva deviare verso l'ignoto, anche se in stretta comunione con la sua nuova realtà interiore. Per questa o quella via, padre, sto venendo da te. Uccelli invisibili tra le rocce, intorno a lui, rivelavano la propria presenza producendo piccoli rumori. Egli li ascoltò, al modo dei Fremen, per trovare la strada nel buio, guidandosi con gli echi quasi impercettibili. Spesso, oltrepassando le spaccature della roccia, vide il verde funesto di occhi che lo spiavano, creature rannicchiate in quegli anfratti in cerca di scampo, poiché sapevano che una tempesta si stava avvicinando. Infine emerse dalla gola nel deserto. La sabbia viva si muoveva e sospirava intorno a lui, rivelando improvvisi scoscendimenti e bocche di fumarole assopite. Leto si voltò e alzò lo sguardo verso le cime laviche di Jacurutu, i loro profili conici sfiorati dal chiarore lunare. L'intera struttura rocciosa era metamorfica, frutto della pressione interna del pianeta. Arrakis prometteva nuovi sussulti e rivolgimenti nel suo futuro. Leto conficcò al suolo il suo martellatore per chiamare un verme e, quand'ebbe inizio il battito sulla sabbia, si accovacciò per guardare e ascoltare. Inconsciamente, infilò la mano sinistra nella veste e toccò l'anello Atreides a forma di falco nascosto in una piega del suo dishdasha. Gurney l'aveva trovato, ma l'aveva lasciato lì. Che cosa mai aveva pensato, nel vedere l'anello di Paul? Padre, sarò da te fra non molto. Il verme giunse da sud. Deviò bruscamente per evitare le rocce; non era uno dei più grandi, come aveva sperato, ma a questo non c'era rimedio. Leto valutò con cura la distanza, balzò, conficcò gli ami e si arrampicò rapidamente sul fianco scaglioso, quando il verme passò sopra il martellatore, sollevando uno zampillo di polvere. Il verme si lasciò guidare facilmente, grazie agli ami. Il turbine sollevato dal suo passaggio cominciò a sferzare la veste di Leto, il quale aguzzò lo sguardo, cercando le stelle meridionali attraverso il velo di sabbia, e dirigendo la sua cavalcatura verso di esse. Proprio nel cuore della tempesta. Quando spuntò la Prima Luna, Leto calcolò l'altezza della tempesta e

differì l'ora prevista per il suo arrivo. Non più a mezzanotte, ma non prima dell'alba. La tempesta si stava allargando, raccogliendo nuova energia per il balzo successivo. Vi sarebbe stato lavoro in abbondanza per le squadre ecologiche, dopo il passaggio della tempesta. Era come se il pianeta combattesse contro quegli uomini con una furia cosciente, là fuori, una furia che andava aumentando man mano la trasformazione inglobava territori sempre più vasti. Per tutta la notte Leto spronò il verme verso sud, valutando la sua riserva d'energia dalle vibrazioni muscolari che gli venivano trasmesse attraverso i piedi. Di tanto in tanto lasciava che la bestia deviasse verso ovest, cosa che il verme tentava di fare in continuazione, guidata dai confini invisibili del suo territorio oppure dall'istintiva consapevolezza dell'arrivo della tempesta. I vermi si cacciavano sotto la sabbia, per sfuggire alle raffiche di vento, ma questo non avrebbe osato affondare sotto il deserto fino a quando gli ami avessero tenuto aperto uno dei suoi anelli. Verso mezzanotte il verme cominciò a mostrare i primi segni di stanchezza. Leto prese posizione più indietro, sulla sua schiena, e gli consentì di rallentare, ma continuando a guidarlo verso sud. La tempesta piombò su di loro subito dopo lo spuntar del giorno. Prima vi fu la prolungata, perlacea immobilità dell'alba, che sembrava schiacciare le dune l'una sull'altra. I primi sbuffi di polvere spinsero Leto a tirar giù il cappuccio, agganciandolo sotto il mento: il deserto era diventato ormai un'unica, uniforme distesa grigia. Poi, aghi di sabbia cominciarono a trafiggere le guance di Leto e a punzecchiargli le palpebre. Sentì i granelli ruvidi sulla lingua e capì che era giunto il momento di decidere. Avrebbe dovuto rischiare quello che aveva udito nelle vecchie storie, cavalcando sottovento il verme quasi esausto, nel cuore della tempesta? Bastò un attimo di riflessione a fargli scartare questa soluzione; sganciò gli ami, e ripercorse il dorso del verme fino alla coda. Ora, avanzando con estrema lentezza, il verme cominciò a sprofondare, ma l'eccedenza del calore sviluppato dal suo organismo fece ribollire con rinnovata energia la fornace che vorticava dietro la sua coda, nel bel mezzo della tempesta sempre più furibonda. Fin da bambini i Fremen imparavano quanto fosse pericoloso trovarsi vicino alla coda di un verme. I vermi, infatti, erano vere fabbriche di ossigeno e gas combustibili; il fuoco ardeva con violenza sulla loro scia, alimentato dalle abbondanti esalazioni del loro metabolismo e acceso dal calore sviluppato dal violento attrito del loro corpo. La sabbia cominciò a sferzare i piedi di Leto e questi, infilati gli ami nel fremkit,

spiccò un grande balzo per schivare la fornace dietro la coda della bestia. Ora tutto dipendeva dalla rapidità con cui si sarebbe infilato sotto la sabbia, là dove era stata smossa dal verme. Afferrando il compressore elettrostatico nella mano sinistra, Leto cominciò a scavare la superficie di una duna, sapendo che il verme era troppo stanco per voltarsi indietro e inghiottirlo con la sua bocca arancione. Mentre scavava con la mano sinistra, Leto con la mano destra tirò fuori la tenda distillante dal fremkit, preparandosi a gonfiarla. Fece tutto in meno di un minuto: scavata una buca dalle pareti compatte sul fianco sottovento della duna, v'infilò la tenda, la gonfiò e vi strisciò dentro. Prima di chiudere l'apertura a sfintere, spinse fuori il compressore, invertendone il funzionamento. La sabbia, nuovamente soffice, franò sopra la tenda. Solo pochi granelli fecero in tempo ad entrare, quando lui tirò dentro lo strumento e sigillò l'apertura. Ora doveva agire ancora più in fretta. Nessun verme delle sabbie sarebbe salito fin lassù a rifornirlo di aria respirabile. Quella era una grossa tempesta, del tipo a cui era assai difficile sopravvivere. Avrebbe ricoperto il punto dove lui si era seppellito con tonnellate di sabbia. Soltanto il sottile involucro della tenda distillante l'avrebbe protetto. Leto si distese supino, ripiegò le braccia sul petto e si lasciò sprofondare in un torpore assai simile a una trance, durante il quale i suoi polmoni avrebbero pulsato soltanto una volta ogni ora. Nel far questo, lui si affidava al caso. La tempesta sarebbe passata, e se non avesse spazzato via la sabbia che proteggeva la fragile tenda, distruggendo il suo rifugio, lui avrebbe potuto riemergere... In caso contrario sarebbe entrato nel Madinat as-salam, la Dimora della Pace. Ma preferì non pensare a questo. Ora lui doveva spezzare i fili, uno a uno, finché fosse rimasto soltanto il Sentiero Dorato. Questo, o altrimenti lui non avrebbe più potuto far ritorno al califfato lasciatogli in eredità da suo padre. Lui, comunque, non avrebbe più vissuto la menzogna di quel Desposyni, di quel califfato assurdo e terribile, cantando la gloria di suo padre trasformato in dio. Non sarebbe più rimasto zitto, quando un prete avesse declamato quelle ingiuriose sciocchezze: Il suo cryss disperderà i demoni! Con questo solenne impegno, la coscienza di Leto scivolò nel dao senza tempo.

Esistono ovviamente influenze di ordine più elevato in ogni sistema planetario. Ciò è stato spesso dimostrato quando s'introducono specie viventi terricole su un pianeta appena scoperto. In tutti i casi osservati, la vita in ambienti analoghi si adatta sviluppando forme sorprendentemente simili. Questa somiglianza di sviluppo ha un significato che va ben oltre le forme stesse; essa rivela una vera e propria organizzazione per la sopravvivenza, e una stretta relazione fra i vari tipi di organizzazione. Le ricerche compiute dagli uomini su quest'ordine della natura e la nicchia dell'umanità al suo interno rappresentano una profonda necessità. Queste ricerche, però, possono degenerare in un eccessivo aggrapparsi alla conservazione e all'uniformità. E questo si è sempre dimostrato fatale per l'intero sistema. – La Catastrofe di Dune secondo Harq al-Ada

– Mio figlio non vedeva veramente il futuro. Vedeva il processo del divenire, e come esso influenzava i miti nei quali amano adagiarsi gli uomini, – disse Jessica. Parlava rapidamente, ma senza dar l'impressione di voler affrettare i tempi. Sapeva che le spie nascoste avrebbero fatto in modo d'interromperla non appena si fossero accorti di ciò che stava facendo. Farad'n sedeva sul pavimento, il suo profilo era fatto risaltare da un raggio di luce pomeridiana che scendeva obliquamente dalla finestra alle sue spalle. Jessica, in piedi, accanto alla parete opposta, guardò fuori della finestra; dal punto in cui si trovava vide la cima di un albero del giardino. Concentrò poi, nuovamente, la sua attenzione sul principe. Quello che vedeva era un nuovo Farad'n: più magro e muscoloso. I lunghi mesi di addestramento avevano, inevitabilmente, lasciato il segno. A sua volta lui la fissò, gli occhi scintillanti. – Mio figlio vedeva ciò che le forze in atto avrebbero finito per creare, se nessuno le avesse contrastate, – proseguì Jessica. – Piuttosto che infierire contro i suoi sudditi, infierì contro se stesso. E rifiutò di accettare soltanto ciò che l'avrebbe confortato, perché sarebbe stata una codardia morale. Farad'n aveva imparato ad ascoltare in silenzio, saggiando il terreno e trattenendo le domande, ripetendole dentro di sé fino a renderle incisive, sferzanti. Lei gli aveva illustrato le opinioni del Bene Gesserit sulla memoria molecolare come rito e poi, con tutta naturalezza, era passata a parlare di Muad'Dib e del modo in cui la Sorellanza lo giudicava. Farad'n, però, dietro a quelle dichiarazioni così aperte ed esplicite, aveva colto

ampie zone d'ombra e intenzioni in netto contrasto con ciò che veniva detto. – Di tutte le nostre convinzioni, questa è la più importante, – lei continuò. – La vita è una maschera attraverso la quale l'universo esprime se stesso. Noi crediamo che l'intera umanità e tutte le forme di vita ad essa in qualche modo collegate rappresentino una comunità naturale, e, inoltre, che il destino della vita nel suo insieme dipenda, a volte, dal destino di un singolo individuo. Così, quando si giunge a quell'estremo autoesame, l'amor fati, noi smettiamo di giocare a Dio e torniamo ad insegnare. Messi alle strette, noi selezioniamo certi individui e li mettiamo il più possibile in condizione di agire. Ora egli capì ciò che lei realmente intendeva, e ben sapendo quale effetto ciò avrebbe avuto su quelli che li stavano osservando attraverso i dispositivi-spia, a stento si trattenne dal lanciare uno sguardo apprensivo alla porta. Soltanto un occhio bene addestrato avrebbe potuto cogliere il suo momentaneo smarrimento, ma Jessica se ne accorse e sorrise. Un sorriso, in fin dei conti, avrebbe potuto significare qualunque cosa. – Questa è una specie di cerimonia di laurea, – lei disse. – Sono molto contenta di te, Farad'n. Vuoi alzarti, per favore? Farad'n obbedì, cancellando in tal modo, per lei, la vista della cima dell'albero, fuori della finestra. Jessica, le braccia strette rigidamente ai fianchi, proseguì; – Sono incaricata di dirti questo: «Io, ora, mi trovo di fronte alla sacra presenza umana. Così come mi trovo io adesso, tu ti troverai un giorno. Prego, alla tua presenza, che ciò avvenga. Il futuro deve restare incerto, poiché è la tela sulla quale noi dipingiamo i nostri desideri. Così, la condizione umana si troverà sempre davanti a una tela splendidamente vuota. Noi possediamo soltanto questo istante, l'adesso, l'ora, da dedicare continuamente alla sacra presenza umana, creandola e condividendola.» Nell'attimo in cui Jessica finì, Tyekanik entrò dalla porta alla sua sinistra, muovendosi con una falsa disinvoltura sconfessata dalla sua espressione torva. – Mio Signore, – cominciò, ma era ormai troppo tardi. Le parole di Jessica e tutta la precedente preparazione avevano ormai sortito il loro effetto. Farad'n non era più Corrino. Adesso era Bene Gesserit.

Ciò che voi del direttorato della CHOAM sembrate incapaci di capire è che assai raramente il commercio può vantare vere fedeltà. Quando è stata l'ultima volta che avete sentito parlare di un impiegato che ha dato la vita per la sua compagnia? Il vostro errore fondamentale è la convinzione che sia possibile ordinare alla gente di pensare e di collaborare secondo la vostra volontà. Ciò ha sempre fallito, da quando esiste la storia, dalle religioni alle organizzazioni militari. Le organizzazioni militari hanno una lunga tradizione, tra coloro che hanno più contribuito a distruggete le proprie nazioni. E per quanto riguarda le religioni, vi raccomando una rilettura di Tommaso d'Aquino. In quanto a voi, della CHOAM, a che razza di sciocchezze credete! Gli uomini devono voler fare le cose spinti dai propri impulsi più profondi e autentici. È la gente, sono i singoli individui, e non le organizzazioni commerciali o le strutture gerarchiche, che fanno funzionare le grandi civiltà. Il destino di una civiltà dipende dalla qualità degli individui che produce. Se voi super-organizzate gli uomini, se li seppellite sotto cumuli di regolamenti e di leggi, sopprimete il loro naturale impulso verso la grandezza... essi non sono più in grado di operare, e la loro civiltà crolla. – Una lettera alla CHOAM attribuita al Predicatore

Leto uscì dalla trance con una transizione così graduale che non vi fu una netta separazione fra le due diverse condizioni. Semplicemente, passò da uno stato di coscienza a un altro. Seppe subito dove si trovava. Un improvviso afflusso di energia lo pervase, ma Leto colse un altro messaggio nell'aria stantia, mortalmente povera di ossigeno, all'interno della tenda distillante. Se egli si fosse rifiutato di muoversi, sarebbe rimasto intrappolato nella ragnatela senza tempo, l'eterno adesso in cui tutti gli avvenimenti coesistevano. Questa prospettiva lo allettò. Leto vide nel Tempo una convenzione creata dalla mente collettiva di tutti gli esseri senzienti. Il Tempo e lo Spazio erano categorie imposte all'universo dalla sua mente. Egli doveva soltanto liberarsi della molteplicità in cui lo attiravano le visioni prescienti. Una scelta coraggiosa avrebbe potuto mutare i futuri possibili. Quanto coraggio avrebbe richiesto ciò? Lo stato di trance continuava ad attirarlo. Leto sentì di essere ritornato nell'universo della realtà dall'alam al-mythal soltanto per scoprire che erano identici. Egli avrebbe voluto restare in contemplazione della magia Rihani, ma l'esigenza di sopravvivere bussò imperiosa alla sua coscienza. Il suo attaccamento alla vita inviò urgenti segnali lungo i suoi nervi. Leto allungò di scatto la mano destra verso il compressore della sabbia,

lo afferrò, si girò sullo stomaco e ruppe il sigillo della tenda. Una cascata di sabbia si riversò sulle sue mani. Lavorando al buio, spinto dal timore che il poco ossigeno di quell'aria potesse esaurirsi, si mise all'opera in fretta, scavando una galleria quasi verticale. Percorse sei volte la lunghezza del proprio corpo, prima di emergere nelle tenebre e nell'aria fresca. Scivolò fuori, sul fianco sopravvento di una lunga duna ricurva illuminata dalla luna, a un terzo circa dalla sommità. Sopra di lui risplendeva la Seconda Luna. Leto si spostò in fretta, tuffandosi sul lato in ombra della duna, e le stelle si dispiegarono sopra di lui come segnali luminosi sopra un sentiero. Leto cercò la costellazione del Viandante, la trovò, e lasciò che il suo sguardo ne seguisse le braccia fino all'abbacinante splendore di Foum al-Hout, la stella polare del sud. Eccolo, il tuo dannato universo tutto per te! pensò. Visto da vicino, era un luogo d'incessanti movimenti, come la sabbia intorno a lui, un luogo di mutamenti, un'inarrestabile successione di unicità locali in quella grande, totale unicità. Visto da lontano, soltanto i suoi schemi più ampi, in apparenza immutabili, si rivelavano all'occhio, e da essi nasceva la tentazione di credere negli assoluti. Nell'assoluto potremmo smarrire il nostro cammino. Ciò gli fece pensare all'ammonimento di una canzone assai popolare tra i Fremen: Chi smarrisce la strada nel Tanzerouft, smarrisce la vita. Gli schemi riconoscibili da lontano guidavano la vostra via, ma potevano anche condurvi in una trappola. Bisognava sempre ricordare che anche gli schemi più ampi mutano. Respirò a fondo e si mosse rapidamente. Scivolò nuovamente dentro alla galleria, sgonfiò la tenda, la tirò fuori dal condotto e reimpacchettò ogni cosa nel fremkit. Un bagliore color vino prese lentamente forma sull'orizzonte orientale. Leto si caricò in spalla lo zaino, tornò ad arrampicarsi in cima alla duna e restò lì, immobile, nell'aria gelida che precedeva l'alba, fino a quando non sentì il calore del sole nascente sulla guancia destra. Quindi si tinse di nero le orbite per ridurre il riflesso del sole, ben sapendo che, ora, avrebbe dovuto adeguarsi al deserto piuttosto che combatterlo. Quand'ebbe rimesso lo spruzzatore della tintura nello zaino, portò alla bocca il tubo dell'acqua e succhiò. Ne ricavò poche gocce e una zaffata d'aria. Si lasciò cadere sulla sabbia e cominciò a esaminare la tuta. Giunse infine alle pompe nei calcagni. Erano state abilmente tagliate con un coltello ad ago. Si sfilò la tuta e la riparò, ma il danno era fatto. Una buona

metà dell'acqua del suo corpo era svanita. Se non fosse stato per la chiusura ermetica della tenda distillante... Rifletté sul fatto, mentre tornava a infilarsi la tuta, pensando a com'era strano che lui non l'avesse previsto. Quello era, ovviamente, uno dei pericoli di un futuro senza visioni. Infine, si acquattò in cima alla duna, compenetrandosi con la solitudine di quel luogo. Lasciò vagare lo sguardo all'intorno, frugando con gli occhi la sabbia alla ricerca di un orifizio, di una qualunque irregolarità delle dune che potesse indicare la spezia oppure l'attività di un verme. Ma la tempesta aveva imposto la sua uniformità al terreno. Poco dopo, Leto tirò fuori un martellatore dal fremkit, lo innescò e diede il via al tambureggiamento per chiamare Shai-hulud dalle profondità. Poi si tirò in disparte e aspettò. Il verme impiegò molto tempo a comparire. Lo sentì prima ancora di vederlo, si voltò verso oriente dove il fremito della terra smossa faceva vibrare l'aria, e colse l'improvvisa comparsa della bocca arancione alla superficie della sabbia. Il verme uscì dalle profondità in un gigantesco turbinio di polvere che offuscò i suoi fianchi. La grigia parete vivente passò accanto a Leto, il quale vi piantò i suoi ami, arrampicandosi poi agilmente. Fece girare il verme in direzione sud, facendogli descrivere una grande curva, prima ancora di aver finito di scalare il suo fianco. Sotto il pungolo dei suoi ami, il verme acquistò velocità. Il vento gli faceva sbattere violentemente la veste e Leto si sentì stimolato quanto il verme, un'intensa spinta creativa fiorì nei suoi lombi. Ogni pianeta aveva il suo periodo fecondo, ed ogni vita similmente l'aveva, pensò tra sé. Il verme era del tipo che i Fremen chiamavano «ringhiante». Piantava ritmicamente le piastre anteriori nella sabbia e si spingeva violentemente in avanti dopo avere inarcato la coda. Ciò produceva un brontolio sordo e il suo corpo s'incurvava sulla sabbia in una serie ininterrotta di montagne russe. Tuttavia, avanzava veloce. Quando incontrarono un vento che soffiava nella loro stessa direzione, le esalazioni della coda del verme, simili agli scarichi di una fornace, avvolsero Leto come una brezza rovente, carica di odori acri. Mentre il verme filava veloce verso sud, Leto lasciò vagare libera la sua mente. Cercò di pensare a quel viaggio come a una sorta di rituale, che gli avrebbe impedito di soffermarsi troppo sul prezzo che stava pagando per il suo Sentiero Dorato. Come il Fremen di un tempo, Leto ben sapeva che avrebbe dovuto affrontare molti di questi rituali, per impedire alla sua personalità di frammentarsi nelle innumerevoli parti della sua memoria, per tenere perennemente in iscacco i deliranti, avidi abitatori della sua

anima. Immagini contraddittorie, che mai si sarebbero unificate, erano imprigionate in lui, creando una viva, pulsante tensione, una forza polarizzante che lo guidava dal di dentro. Sempre novità, pensò. Tra poco incontrerò questi nuovi fili che s'intrecciano nella mia visione. Nelle prime ore del pomeriggio la sua attenzione fu attirata da un rilievo roccioso comparso davanti a lui, leggermente a destra rispetto alla sua marcia. Lentamente la protuberanza si trasformò in una stretta collina conica, che si proiettava in alto dalla sabbia esattamente dove lui se l'era aspettata. Ora, Namri e Sabiha... vedremo come questi vostri fratelli reagiranno alla mia presenza. Lui, ora, avrebbe affrontato una situazione cruciale, più pericolosa per i suoi allettamenti che per le aperte minacce. La collina conica impiegò molto tempo a cambiare dimensioni, e per un po' sembrò che fosse essa ad avvicinarsi a lui, e non viceversa. Il verme, ormai stanco, continuava a deviare verso sinistra. Leto si lasciò scivolare lungo l'ampio pendio del suo dorso e conficcò nuovamente gli ami, per mantenere il gigante nella giusta direzione. Un debole ma pungente odore di melange gli giunse alle narici, indicando la presenza di una vena molto ricca. Superarono le chiazze lebbrose di sabbia violetta dov'erano esplosi i nuclei di spezia, e Leto controllò saldamente il verme finché non ebbero superato la vena. La brezza profumata di cannella li seguì a lungo finché Leto non fece deviare il verme in una nuova direzione, puntando direttamente verso la collina rocciosa che si stagliava sempre più alta contro il cielo. Improvvisamente, uno sfavillio multicolore si manifestò in lontananza sul bled, verso sud: l'incauto lampeggiare di un manufatto umano nel cuore di quell'immensità. Leto portò agli occhi il binocolo, regolò le lenti a olio, e vide in distanza le ali oblique di un ricognitore-della-spezia che compiva una virata, riflettendo il sole. L'apparecchio si stava sgravando di un trattore, il quale toccò terra e scivolò via, come un grosso insetto uscito dal bozzolo. Quando Leto abbassò il binocolo, il trattore si trasformò in un minuscolo punto nero, e lui si sentì sopraffatto dalla hadhdhab, la schiacciante onnipresenza del deserto. Questo, altresì, gli disse che quei cacciatori di spezia l'avrebbero visto: un punto oscuro fra il deserto e il cielo, il simbolo Fremen per l'uomo. L'avrebbero visto e si sarebbero comportati con prudenza. Avrebbero aspettato ad agire. I Fremen erano sempre sospettosi l'uno dell'altro nel deserto, fino a quando il viandante

non si fosse fatto riconoscere per amico o, comunque, per qualcuno che non costituiva una minaccia. Perfino ricoperti dalla patina della civiltà imperiale e delle sue sofisticate convenzioni, essi erano rimasti selvaggi semi-addomesticati, più che mai convinti che un cryss si sarebbe dissolto alla morte del suo proprietario. Questo potrà salvarci, pensò Leto. La loro selvatichezza. Laggiù, in distanza, il ricognitore-della-spezia piegò le ali prima su un lato, poi sull'altro, un segnale per coloro che si trovavano a terra. Leto immaginò gli occupanti del velivolo intenti a scrutare il deserto alle sue spalle, cercando un segno che mostrasse che lui era qualcosa di più del cavaliere solitario di un verme solitario. Leto fece deviare il verme a sinistra, guidandolo finché non ebbe completamente invertito la marcia, si lasciò cadere lungo il suo fianco e balzò lontano. Il verme, libero dal pungolo, si fermò un attimo in superficie come imbronciato, il tempo di tirare quattro respiri, poi sprofondò per un terzo nella sabbia, e giacque immobile, in attesa, un segno sicuro che era stato cavalcato troppo a lungo. Leto si allontanò sempre più dal verme, il quale per un bel pezzo non si sarebbe mosso. Il ricognitore continuava a girare in cerchio sopra il trattore, facendo segnali con le ali. Erano sicuramente rinnegati pagati dai contrabbandieri, bene attenti a non servirsi dei comunicatori elettronici. Là fuori, erano senz'altro a caccia di spezia: questo il significato della presenza del trattore. Il velivolo fece un altro giro, piegò le ali in basso, uscì dal cerchio e puntò direttamente verso di lui. Leto lo riconobbe per un tipo di ornitottero leggero che suo nonno aveva introdotto su Arrakis. L'apparecchio girò una volta sopra di lui, poi volò lungo il crinale della duna sulla quale lui si trovava, e atterrò sottovento. Scese a meno di dieci metri da lui, sollevando alti zampilli di polvere. Il portello si aprì quel tanto da lasciar passare una sola persona che indossava un'ampia veste Fremen col simbolo della lancia sul petto a destra. Il Fremen si avvicinò lentamente, lasciando a ciascuno il tempo di studiare l'altro. L'uomo era alto di statura, e i suoi occhi erano di un azzurro profondo, indice di una assuefazione totale alla spezia. La maschera della tuta distillante nascondeva la metà più bassa del suo viso, e il cappuccio era stato tirato in avanti per proteggere la fronte. Le pieghe della veste rivelavano che, sotto di essa, una mano impugnava una pistola Maula.

L'uomo si fermò a due passi da Leto, e lo fissò. La pelle increspata intorno agli occhi rivelava perplessità. – Buona fortuna a tutti noi, – disse Leto. L'uomo si guardò intorno, scrutando la distesa di sabbia vuota, poi riportò la sua attenzione su Leto. – Che cosa fai qui, bambino? – chiese. La sua voce risuonò soffocata, dietro la maschera. – Stai cercando di fare da tappo al buco di un verme? Ancora una volta, Leto usò la tradizionale formula Fremen: – Il Deserto è la mia casa. – Wenn? – chiese l'uomo. Da dove vieni? – Vengo da Jacurutu e vado al sud. L'uomo scoppiò improvvisamente a ridere. – Bene, Batigh! Tu sei la cosa più strana che io abbia mai visto nel Tanzerouft. – Io non sono il tuo Piccolo Melone, – ribatté Leto, reagendo al Batigh. Questo era un soprannome dalle implicazioni terrificanti. Il Piccolo Melone sui bordi del deserto offriva la sua acqua a chiunque lo trovasse. – Non ti berremo, Batigh, – disse l'uomo. – Io sono Muriz. Sono l'arifa di questo taif. – Indicò con un cenno del capo il lontano trattore. Leto notò come l'uomo avesse definito se stesso «il Giudice» del proprio gruppo, e si fosse riferito agli altri come al taif, una banda o una compagnia. Essi non erano ichevan, una banda di fratelli. Potevano esser soltanto mercenari rinnegati. Lì c'era il filo di cui aveva bisogno. Poiché continuava a tacere, Muriz gli chiese: – Hai un nome? – Batigh andrà bene. Muriz scoppiò nuovamente a ridere. – Non mi hai ancora detto che cosa fai qui. – Cerco le impronte di un verme, – rispose Leto, pronunciando la frase sacrale la quale significava che lui era impegnato nello Hajj per la sua umma, la sua rivelazione personale. – Così giovane? – fece Muriz. Scosse la testa. – Non so che cosa fare di te. Ci hai visti. – Che cosa ho visto? – ribatté Leto. – Io ho parlato di Jacurutu, tu non hai risposto in alcun modo. – Il gioco degli indovinelli, – disse Muriz. – Che cos'è quello, allora? – Indicò con un cenno del capo la solitaria collina. Leto, grazie alla visione, lo sapeva: – Shuloch, che altro? Muriz s'irrigidì. Il polso di Leto accelerò i battiti. Seguì un lungo silenzio, e Leto vide chiaramente le contrastanti

emozioni che si agitavano in quell'uomo, impedendogli di agire. Shuloch! Negli istanti di tranquillità dopo i pasti, a Sietch Tabr, durante i quali si narravano le storie più strane, quelle del caravanserraglio di Shuloch erano le preferite. Questo, anche se tutti erano convinti che Shuloch fosse un mito, era un luogo dove accadevano sempre le cose più interessanti, a beneficio degli ascoltatori. Leto si ricordò di una delle storie di Shuloch: un bambino era stato trovato sul margine del deserto e portato nel sietch. Sulle prime il trovatello si rifiutò di rispondere ai suoi salvatori, poi, quando parlò, nessuno riuscì a capire le sue parole. Man mano passavano i giorni, il trovatello si chiuse sempre più in se stesso, rifiutandosi di vestirsi o di collaborare in qualunque altro modo. Tutte le volte che veniva lasciato solo, faceva strani movimenti con le mani. Tutti i saggi del sietch furono chiamati a studiare il trovatello, ma non giunsero ad alcuna soluzione. Poi, una donna molto vecchia passò davanti alla sua cella, vide le mani in movimento e scoppiò a ridere. – Sta soltanto imitando suo padre che ritorce fibre di spezia per farne una corda, – spiegò la donna. – È il modo in cui lo fanno a Shuloch. Sta soltanto cercando di sentirsi meno solo. – E questa era la morale della storia: Nelle antiche tradizioni di Shuloch c'è sicurezza, e la sensazione di appartenere al filo dorato della vita. Poiché Muriz restava silenzioso, Leto disse: – Io sono il trovatello di Shuloch che sa soltanto muovere le mani. Dall'improvviso guizzo del capo dell'uomo, Leto capì che Muriz conosceva la storia. Muriz replicò, con voce bassa e piena di minaccia: – Sei umano? – Umano come te, – ribatté Leto. – Parli in maniera molto strana per un bambino. Ricordati che io sono un giudice che sa affrontare la taqwa. Ah, sì, pensò Leto. In bocca a quel giudice, taqwa significava una minaccia incombente. La taqwa era la paura provocata dalla presenza di un demonio, secondo le credenze ancora radicate nei Fremen più vecchi. L'arifa conosceva i modi per uccidere un demonio e veniva sempre scelto a quella carica un uomo «spietato senza essere crudele, il quale sapesse che la gentilezza, in realtà, era la via che conduceva a una crudeltà ancora maggiore.» Ma le cose erano arrivate al punto sperato da Leto, il quale replicò: – Sono pronto a sottopormi alla Mashad. – Io sarò il giudice di qualunque prova spirituale. – disse Muriz. Accetti questo?

– Bi-lal kaifa, – annuì Leto. Senza condizioni. Un'espressione astuta si dipinse sul volto di Muriz. – Non so perché io permetta tutto questo. Sarebbe assai meglio che tu fossi trucidato qui, subito, ma sei un piccolo Batigh, e io avevo un figlio che è morto. Vieni, ora andremo a Shuloch e io radunerò la Isnad per decidere che cosa fare di te. Leto, notando come ogni più piccola sfumatura nella voce di Muriz tradisse un disegno di morte, si chiese come quell'uomo s'illudesse d'ingannare qualcuno. Rispose: – So che Shuloch è l'Ahl as-sunna waljamas. – Che cosa mai può conoscere un bimbo del vero mondo? – chiese Muriz, invitando Leto con un gesto imperioso a precederlo verso l'ornitottero. Leto obbedì, ma ascoltò attentamente il suono dei passi del Fremen. – Il miglior modo per mantenere un segreto è quello di far credere agli altri che essi sanno già la risposta – disse Leto. – Allora, la gente non chiede più nulla. È stata una mossa abile la vostra, dopo che siete stati cacciati da Jacurutu. Chi avrebbe mai creduto che Shuloch, il mitico luogo di tanti racconti, esistesse veramente? E com'è conveniente la sua posizione, per i contrabbandieri o chiunque altro desideri accedere segretamente a Dune! I passi di Muriz si arrestarono. Leto si girò di scatto, la schiena appoggiata al fianco dell'ornitottero, l'ala alla sua sinistra. Muriz era a mezzo passo di distanza. Aveva estratto la pistola Maula e la teneva puntata contro Leto. – Così, tu non sei un bambino, – ringhiò. – Un maledetto nano è venuto a spiarci! Ho subito pensato che parlavi troppo saggiamente per un bambino... hai parlato troppo e troppo presto. – Non abbastanza, – replicò Leto. – Io sono Leto Atreides, il figlio di Paul Muad'Dib. Se mi uccidi, tu e il tuo popolo sprofonderete nella sabbia. Se mi risparmi la vita, io vi condurrò alla grandezza. – Non scherzare con me, nanerottolo, – ringhiò ancora Muriz. – Leto si trova nella vera Jacurutu, dalla quale tu dici di... – S'interruppe. La pistola oscillò verso il basso, mentre aggrottava la fronte, perplesso. Era l'attimo di esitazione che Leto aspettava. I suoi muscoli fremettero, dando l'impressione, senza spostare il corpo di più di un millimetro, di voler balzare a sinistra. Pronta, la pistola Maula ruotò anch'essa a sinistra, ma sbatté contro il bordo dell'ala e schizzò via di mano a Muriz. Prima che questi potesse riprendersi, Leto gli fu addosso e premette il suo cryss contro la schiena dell'uomo.

– La punta è avvelenata, – lo ammonì Leto. – Di' al tuo amico nell'ornitottero che deve restare esattamente dove si trova, senza muoversi. Altrimenti sarò costretto a ucciderti. Muriz, accarezzandosi la mano contusa, accennò con la testa alla figura che s'intravvedeva nella cabina, e disse: – Behaleth, il mio compagno, ti ha sentito. Resterà immobile come una roccia. Sapendo di poter disporre soltanto di pochi istanti prima che i due concertassero una reazione, o prima che i loro compagni intervenissero a indagare, Leto si affrettò a dire: – Tu hai bisogno di me, Muriz. Senza di me, i vermi e la loro spezia spariranno da Dune. – Sentì il Fremen irrigidirsi. – Ma come fai a sapere di Shuloch? – chiese Muriz. – So che non ti hanno detto niente di noi a Jacurutu. – Così, ammetti che io sono Leto Atreides? – Chi altri potresti essere? Ma come hai... – Perché voi siete qui, e Shuloch esiste, – l'interruppe Leto. – E il resto viene da sé. Voi siete i Cacciati, i fuggiaschi, quando Jacurutu fu distrutta. Vi ho visto far segnalazioni con le ali, perciò voi non usate nessun dispositivo che possa essere ascoltato a distanza. Voi raccogliete la spezia, perciò commerciate. E potete commerciare soltanto coi contrabbandieri. Perciò siete contrabbandieri, ma siete anche Fremen. Quindi, dovete per forza essere la gente di Shuloch. – Perché hai fatto in modo che io tentassi di ucciderti qui, subito? – Perché mi avresti ucciso in ogni caso, non appena arrivati a Shuloch. Muriz fece il gesto di balzargli addosso. – Attento Muriz, – lo ammonì Leto. – So tutto di voi. La vostra storia dice che prendevate l'acqua dei viaggiatori incauti. Ora, questa dev'essere pratica comune, per voi. Come potreste altrimenti chiudere la bocca a tutti quelli che s'imbattono in voi per caso? Come potreste altrimenti conservare il vostro segreto? Batigh! Tu hai cercato d'intrappolarmi con parole dolci e delicate. Perché correre il rischio che la mia acqua andasse sprecata sulla sabbia? Se io fossi scomparso per sempre come tanti altri... be', il Tanzerouft mi aveva inghiottito. Muriz fece il segno delle Corna-del-Verme con la mano destra per scacciare la magia Rihani che le parole di Leto avevano evocato. E Leto, ben sapendo come i Fremen più vecchi diffidassero dei mentat o di qualunque altra cosa puzzasse di logica e computerizzazione, trattenne un sorriso.

– È stato Namri a parlarti di noi, a Jacurutu, – esclamò Muriz. – Avrò la sua acqua, quando... – Non ti resterà altro che un pugno di sabbia asciutta, se continuerai a fare lo sciocco, – l'interruppe Leto. – Che cosa farai, Muriz, quando tutto Dune sarà diventato erba verde, alberi e acqua all'aperto? – Non accadrà mai! – Sta accadendo davanti ai tuoi occhi. Leto sentì Muriz digrignare i denti per la rabbia e la frustrazione. Qualche istante dopo il Fremen replicò, con voce soffocata: – E come credi, tu, d'impedirlo? – Io conosco tutto il progetto di trasformazione, – spiegò Leto. – Ne conosco ogni punto di forza, ogni debolezza. Senza di me, Shai-hulud scomparirà per sempre. Muriz, con una punta d'astuzia nella voce, replicò: – Be'... perché discuterne qui? Siamo in situazione di stallo. Tu hai il cryss. Potresti uccidermi, ma Behaleth ti sparerebbe. – Non prima che io abbia recuperato la tua pistola, – ribatté Leto. – Dopo di che, il vostro ornitottero sarebbe mio... Sì, sono capace di pilotarlo. Una ruga solcò la fronte di Muriz sotto il cappuccio. – E se tu non fossi colui che affermi di essere? – Mio padre non potrà forse identificarmi? – chiese Leto. – Ahh, – esclamò Muriz. – È così che hai saputo, non è vero? Ma... – S'interruppe, scosse la testa: – Mio figlio in persona lo guida. Egli dice che voi due non vi siete mai... Come potrebbe egli... – Così, voi non credete che Muad'Dib legga il futuro, – dichiarò Leto. – Certo che lo crediamo! Ma lui ha sempre detto di sé che... – Muriz tornò a interrompersi. – E voi credevate che non fosse cosciente della vostra diffidenza? – disse Leto. – Io sono venuto in questo luogo preciso, in un preciso istante, per incontrarti, Muriz. So tutto di te, perché ti ho visto... e ho visto tuo figlio, e so quanto vi credete sicuri, come vi facciate beffe di Muad'Dib e stiate complottando per salvare il vostro fazzoletto di deserto. Ma il vostro fazzoletto di deserto senza di me è condannato, Muriz. Perduto per sempre. Ci si è già spinti troppo in là, qui su Dune. Mio padre è giunto quasi alla fine della sua visione, e voi potrete rivolgervi soltanto a me. – Quel cieco... – Muriz s'interruppe, deglutì. – Farà presto ritorno da Arrakis, – disse Leto. – E poi vedremo quanto

cieco è. Quanto vi siete allontanati dalle vostre antiche abitudini, Muriz! – Che cosa vuoi dire? – Egli è Wadquiyas con voi. La tua gente lo trovò solo, nel deserto, e lo condusse a Shuloch. Che ricca scoperta fu per voi! Più ricca di una vena di spezia. Wadquiyas! Egli è vissuto con voi; la sua acqua si è mischiata con l'acqua della tua tribù. Lui fa parte del vostro Fiume dello Spirito. – Leto premette il cryss con maggior forza contro la veste di Muriz. – Attento, Muriz. – Alzò la mano sinistra, slacciò il risvolto della tuta del Fremen e lo lasciò cadere, scoprendogli il viso. Sapendo ciò che Leto aveva in mente, Muriz chiese: – Dove andresti, se uccidessi me e Behaleth? – Tornerei a Jacurutu. Leto premette la parte carnosa del pollice contro i denti del Fremen. – Mordi e bevi, Muriz. Fallo subito, oppure morrai. Muriz esitò, poi morse rabbiosamente la carne di Leto. Leto fissò la gola dell'uomo, vide che inghiottiva convulsamente. Staccò il cryss dal suo corpo. – Wadquiyas, – disse. – Ora, dovrò arrecare offesa alla tribù, prima che possiate prendere la mia acqua. Muriz annuì. – La tua pistola è là. – Leto gliel'indicò col mento. – Ora ti fidi di me? – chiese Muriz. – Come potrei vivere, altrimenti, con i Cacciati? Ancora una volta, Leto colse un lampo d'astuzia negli occhi di Muriz, ma non era più una minaccia di morte, bensì una valutazione in termini di profitto. Si voltò con una rapidità che tradiva una decisione presa, recuperò la pistola Maula e ritornò accanto al bordo dell'ala. – Vieni, – disse a Leto. – Stiamo indugiando troppo a lungo nella tana di un verme.

Il futuro della prescienza non può sempre essere imprigionato nelle regole del passato. I fili dell'esistenza si intrecciano secondo molte leggi sconosciute. Il futuro presciente segue le proprie regole. Non si conforma all'ordinamento Zensunni né all'ordinamento della scienza. La prescienza è una totalità relativa. Essa richiede l'esatto svolgersi di ogni istante presente, ma ci ammonisce che non possiamo sempre intrecciarvi ogni filo della trama del passato. – Kalima: Le Parole di Muad'Dib Commentari di Shuloch

Muriz portò l'ornitottero a sorvolare Shuloch con una facilità che dimostrava una lunga pratica Leto, seduto accanto a lui, avvertiva la presenza armata di Behaleth alle loro spalle. D'ora in avanti, tutto sarebbe stato legato al corretto svolgersi dell'esile filo della visione, al quale lui si aggrappava con tanta fiducia. Se il filo si fosse spezzato... Allahu akbahr. Di tanto in tanto, qualcuno doveva sottomettersi a un ordinamento superiore L'alta collina rocciosa di Shuloch sorgeva imponente in mezzo al deserto. Il fatto che la sua presenza in quel punto non fosse indicata su nessuna mappa era una lunga storia di corruzioni, morti, ma soprattutto di molti amici altolocati. Leto poteva ora distinguere nel cuore roccioso di Shuloch una depressione cinta da strapiombi con canyon ciechi che s'intersecavano ai suoi margini, prolungandosi in basso verso il suo centro. Fitte macchie di scagliombrosa e cespugli del sale bordavano gli orli inferiori di questi canyon, ai quali si aggiungevano alcune file più interne di palme del viandante; tutto ciò indicava abbondanza di acqua in quel luogo. Rozze abitazioni di fronde e fibre di spezia erano state costruite più oltre, a una certa distanza dalle palme. Gli edifici erano come bottoni verdi sparsi sulla sabbia. Lì dentro dovevano vivere i cacciati dei Cacciati, coloro i quali non potevano scendere più in basso, se non morire. Muriz atterrò nella depressione, all'imboccatura di un canyon. Una capanna isolata si ergeva sulla sabbia, proprio davanti all'ornitottero: un tetto di liane del deserto e foglie di bajato, il tutto imbottito con tessuto di spezia. Era la replica vivente delle prime tende distillanti e indicava chiaramente il livello di degradazione a cui erano giunti alcuni fra coloro che abitavano a Shuloch. Leto sapeva che quella capanna doveva perdere umidità e brulicare di morsicatori notturni usciti dalle vicine macchie di vegetazione. Era lì, dunque, che viveva suo padre? Povera Sabiha... quella era la sua punizione.

All'invito di Muriz, Leto uscì dall'ornitottero, saltò giù, sulla sabbia, e a rapidi passi si diresse verso la capanna. Vide molta gente che lavorava più avanti, fra le palme, non lontano dal canyon. Avevano un aspetto meschino, macilento, e il fatto che avessero dato soltanto un'occhiata distratta a lui e all'ornitottero rivelò quanta oppressione regnasse in quel luogo. Leto riconobbe le rive rocciose di un qanat, al di là della gente che lavorava, ed era impossibile equivocare sulla sensazione di umidità nell'aria: acqua all'aperto. Passando accanto alla capanna, Leto ebbe la conferma di quant'era rozza la sua struttura. Proseguì finché non giunse al qanat, e vide un turbinio di pesci predatori nell'acqua che scorreva cupa. La gente continuò a lavorare intorno a lui, evitando di guardarlo: stavano spazzando via la sabbia dalle imboccature dei numerosi canyon che sfociavano nella depressione. Muriz si avvicinò alle spalle di Leto, e disse: – Qui, tu ti trovi al confine tra il pesce e il verme. Ognuno di questi canyon ha il suo verme. Questo qanat è stato scoperchiato; tra poco toglieremo i pesci predatori per lasciare via libera alle trote delle sabbie. – Ma certo, – replicò Leto. – Voi le allevate come bestiame, per venderle ad altri pianeti. – È stato Muad'Dib a dirci di farlo! – Lo so. Ma nessuno dei vostri vermi o delle vostre trote sopravvive a lungo lontano da Dune. – Non ancora, – ammise Muriz. – Ma un giorno... – Neppure fra diecimila anni, – ribatté Leto. Si girò di scatto e fissò Muriz: il volto del vecchio Fremen tradiva un turbine di emozioni contrastanti e domande inespresse, che sembravano scorrere su di lui come l'acqua in un qanat. Questo figlio di Muad'Dib poteva veramente leggere il futuro? Qualcuno era convinto che Muad'Dib l'avesse fatto, ma... su quali basi era mai possibile giudicare una cosa come questa? Qualche istante dopo, Muriz si allontanò, e Leto lo seguì fino alla capanna. Il vecchio Fremen aprì il rudimentale sigillo alla porta e invitò Leto a entrare. Una piccola lampada a olio di spezia ardeva sulla parete opposta, e una piccola figura era accovacciata sotto di essa, la schiena rivolta alla porta. L'olio che bruciava esalava una densa fragranza di cannella. – Hanno mandato un nuovo prigioniero a prendersi cura del sietch di Muad'Dib, – sogghignò Muriz. – Se lei ci servirà bene, potrà conservare la propria acqua per un po'. – Fronteggiò Leto. – Qualcuno pensa che sia

male prendere un'acqua del genere. Quei Fremen dalle camicie a pizzi ora riempiono le loro città di spazzature... Mucchi di spazzature! Quando riceviamo qualcuno come questa... – indicò con un gesto la figura sotto la lampada, – ... di solito sono mezzi intontiti, tremanti di paura, respinti dalla loro razza... e nessun vero Fremen li accetterà mai. Mi capisci, LetoBathig? – Ti capisco. – La figura rannicchiata non si era mossa. – Tu parli di prendere la nostra guida, – esclamò Muriz. – I Fremen vengono guidati da uomini che si sono coperti di sangue. Tu, verso che cosa ci guideresti? – Kralizec, – disse Leto, continuando a concentrare la sua attenzione sulla figura sotto la lampada. Muriz gli rivolse un'occhiata di fuoco, fremente d'ira. Quella non sarebbe stata soltanto una rivoluzione o una guerra, bensì l'Uragano di tutti gli Uragani. Kralizec era una parola che usciva dalle più remote leggende dei Fremen: la Battaglia alla Fine dell'Universo. Muriz deglutì convulsamente: quel marmocchietto era più imprevedibile di uno zerbinotto di città! Si voltò verso la figura accovacciata: – Donna! Liban wahid! – le ordinò. Portaci la bevanda di spezia' Lei esitò. – Fai come dice, Sabiha, – disse Leto. La ragazza balzò in piedi, girandosi di scatto, e lo fissò, incapace di staccare lo sguardo dal suo viso. – La conosci? – chiese Muriz. – È la nipote di Namri. Ha offeso Jacurutu ed essi l'hanno mandata da te. – Namri? Ma... – Liban wahid, – disse Leto. Sabiha si precipitò fuori della capanna, sfiorandoli. Superò il sigillo ed essi udirono il trepestio dei suoi piedi che si allontanavano sulla sabbia. – Non andrà lontano, – fece Muriz. Si toccò il naso con la punta di un dito. – La nipote di Namri, eh? Interessante. Che cosa ha fatto per offenderli? – Mi sorvegliava... e io sono fuggito. – Quindi, Leto si voltò e seguì Sabiha. La trovò, immobile, sulla riva del qanat. La raggiunse e guardò giù verso l'acqua. Gli uccelli nelle vicine palme del viandante lanciavano le loro strida, sbattendo le ali. Dal gruppo di gente che spazzava via la sabbia s'innalzava un intenso raschiare. Ma Leto non prestò attenzione a tutti questi rumori, e guardò giù tra i riflessi dell'acqua, in profondità. Aveva intravisto, con la coda dell'occhio, dei pappagallini tra le fronde delle

palme. Ora, uno di essi svolazzò sopra il qanat e Leto ne colse il riflesso nel turbinio argentato dei pesci; tutto sembrò agitarsi come se uccelli e pesci nuotassero frammischiati insieme. Sabiha si schiarì la gola. – Il tuo odio... – cominciò Leto. – Tu mi hai svergognata. Mi hai svergognata di fronte al mio popolo. Essi hanno tenuto un Isnad e mi hanno mandato qui, a perdere la mia acqua. Tutto per causa tua! Muriz scoppiò a ridere, a pochi passi da loro. – Ora hai modo di vedere, Leto-Batigh, che il nostro Fiume dello Spirito ha molti tributari. – Ma la mia acqua scorre nelle tue vene, – replicò Leto, voltandosi. – Questa donna non è un tributario. Sabiha è il destino della mia visione. Sono io che, in realtà, l'ho seguita. Sono fuggito attraverso il deserto per trovare il mio futuro qui a Shuloch. – Tu e... – Muriz indicò Sabiha e rovesciò la testa all'indietro, scoppiò in una fragorosa risata. – Non accadrà come voi credete, – disse Leto. – Ricorda questo, Muriz. Ho trovato le impronte del mio verme. – E in quell'istante sentì che i suoi occhi s'inondavano di lagrime. – Da l'acqua ai morti, – bisbigliò Sabiha. Perfino Muriz lo fissò in preda a un timore reverenziale. I Fremen non piangevano mai, a meno che le lagrime non uscissero dal profondo dell'anima. Quasi imbarazzato, tirò su il risvolto della tuta sulla bocca e abbassò il cappuccio djeballa fin sugli occhi. Leto guardò lontano, oltre Muriz, e gli disse: – Qui a Shuloch pregate ancora per la rugiada ai margini del deserto. Vai, Muriz, e prega per Kralizec. Ti prometto che verrà.

Il linguaggio dei Fremen vuol esser conciso e di grande espressività. Esso vive nell'illusione degli assoluti, ed è perciò terreno fertile per le religioni assolutistiche. Inoltre ai Fremen piace molto moralizzare. Essi affrontano la terrificante instabilità di tutte le cose con affermazioni di principio. Essi dichiarano: «Noi sappiamo che nessuno può conseguire la "summa" di tutto il sapere; questo è un attributo di Dio. Ma un uomo può sempre contenere, in sé, tutto ciò che può imparare.» Da questo sottile approccio alla conoscenza dell'universo essi traggono una fantasiosa credenza nei segni, nei presagi e nel loro destino. Questa è l'origine della leggenda del Kralizec: la Battaglia alla Fine dell'Universo. – Bene Gesserit: Rapporti privati/foglio 800881

– Lo tengono in un posto sicuro, – disse Namri, sorridendo ad Halleck che si trovava sul lato opposto della stanza quadrata scavata nella roccia. – Puoi riferire questo ai tuoi amici. – E dov'è questo luogo sicuro? – chiese Halleck. Non gli piaceva il tono di Namri, e si sentiva vincolato dagli ordini di Jessica. Dannazione alla strega! Le spiegazioni erano prive di senso, fatta eccezione per l'ammonimento su ciò che sarebbe potuto accadere se Leto non fosse riuscito ad avere il completo controllo delle sue terribili memorie. – È un luogo sicuro, – ribadì Namri. – Questo è tutto ciò che mi è consentito dirti. – E tu, come fai a saperlo? – Un distrans. E Sabiha è con lui. – Sabiha! Ma se lo ha appena lasciato scappare... – Non questa volta. – Hai intenzione di ucciderlo? – Non dipende più da me. Halleck fece una smorfia. Distrans. A quale distanza potevano mai arrivare quei maledetti pipistrelli delle caverne? Spesso li aveva visti svolazzare attraverso il deserto con messaggi segreti sovrimpressi sulle loro grida stridenti. Ma quanto lontano potevano andare su quel buco infernale di pianeta? – Devo vederlo con i miei occhi, – disse. – Non è permesso. Halleck respirò profondamente per calmarsi. Aveva passato due giorni e due notti in attesa di un rapporto dalle squadre di ricerca. Ora stava spuntando un altro mattino, e lui sentiva il suo ruolo dissolversi, lasciandolo nudo. In tutti i casi, non gli era mai piaciuto comandare. I comandanti rimanevano sempre ad aspettare, mentre gli altri facevano le

cose più interessanti e pericolose. – Perché non è permesso? – ringhiò. I contrabbandieri che avevano organizzato quel sietch-cassaforte avevano lasciato troppe domande senza risposta, e lui non era più disposto ad accettare questo comportamento da parte di Namri. – Qualcuno pensa che tu abbia già visto troppe cose, in questo sietch, – replicò Namri. Halleck avvertì la minaccia implicita nelle parole di lui, e assunse la posizione rilassata ma pronta a scattare del combattente addestrato, la mano vicina ma non appoggiata al cryss. Avrebbe tanto desiderato uno scudo, ma aveva dovuto farne a meno fin dall'inizio, per l'effetto che avrebbe avuto sui vermi, e per la sua assoluta inefficacia in presenza delle violente scariche elettriche generate dalle tempeste. – Questa segretezza non rientra nel nostro accordo, – ribatté. – Se io l'avessi ucciso, sarebbe rientrato nel nostro accordo? Ancora una volta Halleck percepì forze invisibili di cui Lady Jessica non l'aveva avvertito. Quel suo dannato piano! Forse era giusto non fidarsi delle Bene Gesserit. Ma subito si sentì sleale. Lei gli aveva spiegato il problema, e lui aveva aderito al piano aspettandosi che, come tutti i piani, avrebbe richiesto più tardi delle modifiche. Ma lei non era una Bene Gesserit qualsiasi; era Jessica degli Atreides, la quale era sempre stata per lui un'amica e una sostenitrice. Halleck sapeva che senza di lei, si sarebbe trovato alla deriva in un universo molto più pericoloso di quello che adesso abitava. – Non puoi rispondere alla mia domanda, – disse Namri. – Tu avresti dovuto ucciderlo soltanto nel caso in cui avesse mostrato... senza ombra di dubbio... che era posseduto, – ribatté Halleck. – Abominazione. Namri appoggiò il pugno all'orecchio destro. – La tua Signora sapeva che noi avevamo le prove adatte per gente di quel tipo. È stato saggio da parte tua lasciare il giudizio nelle mie mani. Halleck strinse le labbra, frustrato. – Tu hai udito le parole che la Reverenda Madre ha destinato a me, – disse ancora Namri. – Noi Fremen comprendiamo quelle donne, ma voi, uomini degli altri mondi, non le avete mai capite. Spesso le donne Fremen mandano i loro figli alla morte. Halleck replicò tra i denti: – Mi stai forse dicendo che lo hai ucciso? – No, è vivo. Si trova in un luogo sicuro. Continuerà ad assorbire la

spezia. – Ma io ho l'incarico di scortarlo da sua nonna, se sopravviverà, – disse Halleck. Namri si limitò a scrollare le spalle. Halleck capì che quella era l'unica risposta che avrebbe ricevuto. Maledizione! Non poteva ritornare da Jessica con simili domande senza risposta! Scosse la testa. – Perché tante domande su qualcosa che non puoi cambiare? – chiese Namri. – Non sei forse pagato, per tutto questo? Halleck fissò truce Namri. Fremen! Credevano che tutti gli stranieri agissero unicamente per denaro. Ma ciò che Namri aveva detto non era dovuto unicamente ai pregiudizi dei Fremen. Qui erano al lavoro altre forze, e ciò era ovvio per chi era stato addestrato a osservare da una Bene Gesserit. Tutta questa faccenda puzzai di una finta nella finta nella finta... Passando alla forma più insultante del linguaggio familiare, Halleck disse: – Lady Jessica potrebbe incollerirsi, e scatenare le sue coorti contro... – Zanadiq! – imprecò Namri. – Fattorino d'ufficio! Tu sei fuori dal Mohalata! Sarà mio piacere possedere la tua acqua per il Nobile Popolo! Halleck strinse le dita sull'elsa del pugnale e si tenne pronto ad usare la piccola sorpresa che aveva preparato nella manica sinistra, contro le aggressioni. Aspettò qualche istante, poi disse: – Non vedo nessun'acqua sparsa al suolo. Forse il tuo orgoglio ti ha accecato. – Tu sei ancora vivo perché volevo che tu sapessi, prima di morire, che la tua Lady Jessica non manderà coorti contro nessuno. Non verrai attirato nel silenzio dello Huanui, feccia di un altro mondo. Io appartengo al Nobile Popolo e tu... – Io sono soltanto un servo degli Atreides, – disse Halleck, con voce falsamente tranquilla. – Noi siamo la feccia che ha sollevato dai vostri colli puzzolenti il giogo degli Harkonnen. Namri scoprì i denti bianchi con un ringhio: – La tua Signora è prigioniera su Salusa Secundus. I messaggi che tu credevi suoi, li ha inviati sua figlia! Con uno sforzo tremendo, Halleck riuscì a mantenere la voce calma: – Non importa. Sarà Alia a farlo, e... Namri sguainò il cryss. – Che cosa sai, tu, dell'Utero del Cielo? Io sono il suo servo, puttana maschio che non sei altro. Prendo la tua acqua per ordine suo! – E si lanciò attraverso la stanza in un temerario assalto. Halleck, senza lasciarsi ingannare da una goffaggine così ovvia, alzò di

scatto il braccio, liberando dalla manica sinistra il pezzo di tessuto extra che vi era cucito, e lasciando che in esso si perdesse il colpo vibrato da Namri. Con lo stesso movimento, Halleck avvolse fulmineamente nel tessuto la testa di Namri, e vibrò dal basso il proprio coltello, trapassando il tessuto e colpendo l'avversario al viso. Sentì la punta trafiggere la carne nel medesimo istante in cui il corpo di Namri lo colpì con la dura superficie di un'armatura metallica celata sotto la veste. Il Fremen lanciò un grido oltraggiato, rimbalzò indietro e cadde al suolo. Giacque immobile, mentre il sangue gli usciva copioso dalla bocca e gli occhi fissavano furiosi Halleck, lentamente offuscandosi. Halleck fischiò tra i denti. Come poteva credere, quello sciocco di Namri, che qualcuno non si accorgesse della presenza di quell'armatura sotto la veste? Halleck parlò, ironico, al cadavere, mentre liberava dal groviglio la manica truccata, asciugava il cryss e lo rinfoderava: – Come credevi che fossimo addestrati noi, servi degli Atreides, sciocco? Respirò profondamente, e pensò: Bene, e di chi sono la finta, io? Tra le cose che aveva detto Namri, alcune suonavano senz'altro vere. Jessica prigioniera dei Corrino e Alia che foggiava i suoi piani tortuosi. La stessa Jessica l'aveva messo sull'avviso, nei confronti di Alia e di ciò che ci si poteva aspettare da lei, ma non aveva previsto che i Corrino l'avrebbero fatta prigioniera. Tuttavia, lui aveva ricevuto degli ordini ai quali doveva obbedire. Per prima cosa, doveva fuggire subito da quel luogo. Fortunatamente, un Fremen imbacuccato era uguale a qualunque altro Fremen. Spinse il cadavere di Namri in un angolo e vi ammucchiò sopra dei cuscini, poi spostò un tappeto per mascherare il sangue. Quand'ebbe finito, Halleck regolò i tubi del naso e della bocca della sua tuta, alzò la maschera come avrebbe fatto chiunque si preparasse a uscire nel deserto, sollevò il cappuccio, tirandoselo sulla fronte, e uscì nel lungo corridoio. L'innocente si muove senza preoccupazioni, pensò, incamminandosi con passo disinvolto. Si sentiva curiosamente libero, come se fosse appena sfuggito a un pericolo, e non come se stesse per affrontarlo. Non mi sono mai piaciuti i suoi piani per il ragazzo, pensò. E glielo dirò, se riuscirò mai a rivederla. Poiché, se Namri aveva detto la verità, ora diventava attivo il più pericoloso dei piani alternativi. Alia non lo avrebbe certo lasciato vivere a lungo, se fosse riuscita a mettere le mani su di lui, ma rimaneva sempre Stilgar: un buon Fremen, con delle sane superstizioni Fremen. Jessica gli aveva spiegato: – C'è una verniciatura molto sottile di civiltà,

sulla natura originaria di Stilgar. E per togliergli via quel sottile strato di vernice, è sufficiente...

Lo spirito di Muad'Dib è più delle parole, più del significato letterale della legge che porta il suo nome. Muad'Dib dovrà sempre costituire quella fustigazione interiore per quei potenti che si compiacciono di sé, i ciarlatani e i fanatici del dogma. Questa fustigazione interiore deve prevalere sopra ogni altra cosa, poiché Muad'Dib c'insegnò una cosa sopra ogni altra: che gli esseri umani possono continuare ad esistere soltanto nella fratellanza di un'autentica giustizia sociale. – Il Patto dei Fedaykin

Leto sedeva con la schiena appoggiata alla parete della capanna, concentrando la sua attenzione su Sabiha, intento ad osservare lo sdipanarsi dei fili della sua visione. Lei aveva preparato il caffè, e adesso, accovacciata davanti a lui, stava rimestando il suo pasto della sera, una brodaglia che profumava di melange. Le sue mani si muovevano svelte, stringendo il mestolo, e il liquido color indaco aveva macchiato i bordi della scodella. Sabiha si curvò sulla scodella, versandovi dentro dell'altro concentrato. La rozza membrana che faceva della capanna una tenda distillante era stata rattoppata in un punto proprio alle spalle di lei, con del materiale più sottile, il quale formava un'aureola grigia sulla quale l'ombra della ragazza danzava alla luce tremolante delle fiamme del fornello e dell'unica lampada. Quella lampada affascinava Leto. La gente di Shuloch sperperava l'olio di spezia: una lampada, non un globo! Essi tenevano in schiavitù gli individui cacciati dagli altri sietch, dentro quelle mura, secondo le più rigide tradizioni dei Fremen. Eppure usavano ornitotteri e i modelli più perfezionati dei raccoglitori di spezia. Erano una grossolana mistura di antico e di moderno. Sabiha spinse verso di lui la scodella di spezia e spense la fiamma del fornello. Leto ignorò la scodella. – Sarò punita se non mangi, – lei disse. Lui la fissò, pensando: Se la uccido, frantumerò una visione. Se le rivelo i piani di Muriz, ne frantumerò un'altra. Se aspetterò qui mio padre, questo filo della mia visione diventerà una corda robustissima. La sua mente scelse tra i fili. Alcuni avevano una dolcezza ossessiva. Uno dei futuri con Sabiha conteneva una realtà allettante, all'interno della sua consapevolezza presciente. Esso minacciò di escludere tutti gli altri, finché Leto non l'ebbe seguito fino all'angosciosa conclusione. – Perché mi guardi in quel modo? – lei gli chiese. Lui si trattenne ancora dal risponderle.

Sabiha spinse ancora più vicina la scodella. Leto cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. L'impulso a uccidere Sabiha crebbe impetuoso in lui, al punto da farlo tremare. Come sarebbe stato facile frantumare una visione lasciando prorompere la furia selvaggia! – Muriz lo ordina, – insisté Sabiha, toccando ancora la scodella. Sì, Muriz l'aveva ordinato. La superstizione vinceva su tutto. Muriz voleva una visione a suo esclusivo uso e consumo. Era l'antico selvaggio che chiedeva allo stregone di gettare le ossa del bue ed esprimere un vaticinio dal modo in cui erano cadute. Muriz aveva tolto al suo prigioniero la tuta distillante «come semplice precauzione» . Quel commento era stato una frecciata sarcastica nei confronti di Namri e Sabiha. Soltanto degli sciocchi si lasciano scappare un prigioniero. Tuttavia Muriz era in preda a un problema che suscitava echi profondi nella sua emotività: il Fiume dello Spirito. L'acqua del prigioniero scorreva nelle sue vene. Muriz cercava un segno che gli consentisse di tenere Leto sotto una minaccia di morte. Come il padre, così il figlio, pensò Leto. – La spezia servirà soltanto a darti delle visioni, – disse Sabiha. I lunghi silenzi la facevano sentire a disagio. – Anch'io ho avuto molte volte delle visioni durante l'orgia. Non significano niente. Ecco! pensò lui, e il suo corpo s'irrigidì in una immobilità assoluta che gli lasciò la pelle fredda e appiccicosa. L'addestramento Bene Gesserit prese il controllo della sua coscienza, un raggio di luce che, partendo da un singolo punto, si diffondeva a ventaglio intorno a lui, illuminando con la sua rivelazione Sabiha e tutti i suoi compagni Cacciati. L'antico insegnamento del Bene Gesserit era esplicito: Le lingue nascono e prendono forma per riflettere le caratteristiche peculiari di un modo di vita. Ogni particolare modo di vita può esser riconosciuto dalle sue parole, dalle strutture e dalle implicazioni delle frasi. Analizza le pause e le interpunzioni. Le rigide caratterizzazioni rappresentano luoghi dove la vita si ferma, dove ogni mutamento, ogni evoluzione vengono condannati e mummificati. Anche Sabiha, dunque, era una creatrice di visioni, e ogni altro essere umano aveva lo stesso potere. Eppure Sabiha disdegnava le sue visioni dell'orgia della spezia. Esse le causavano disagio, e perciò dovevano essere ricacciate giù, dimenticate. La sua gente pregava Shai-hulud, perché il verme dominava molte delle sue visioni. E pregava per la rugiada ai margini del deserto, perché

l'umidità era il drastico fattore limitante della loro esistenza. Eppure, essi sguazzavano nella ricchezza della spezia e attiravano la trota nel qanat all'aperto. Sabiha insisteva, con caparbia insensibilità, a nutrirlo di visioni, eppure nelle parole di lei Leto scorgeva chiare indicazioni: Sabiha dipendeva dagli assoluti, e agognava a chiudersi in limiti netti, angusti, e tutto questo perché non osava affrontare la durezza spietata delle più tremende decisioni che coinvolgevano anche la sua carne. Sabiha si aggrappava alla sua visione monoculare dell'universo, per quanto riduttivo fosse nei confronti del tempo, perché le alternative la terrorizzavano. Leto, al contrario, percepiva se stesso in perenne movimento. Egli era una membrana vibratile che si allargava a dimensioni infinite e, poiché lui vedeva quegli immensi spazi, era in grado di prendere le più tremende decisioni. Come fece mio padre. – Devi mangiare! – esclamò ancora Sabiha, petulante. Ora Leto colse l'intera trama delle visioni e seppe qual era il filo che doveva seguire. La mia pelle non è la mia. Si alzò in piedi, avvolgendosi nella veste. Questa gli diede una strana sensazione, ora che non c'era più la tuta distillante a proteggere il suo corpo. I suoi piedi calpestavano, nudi, il tessuto di spezia impermeabilizzato che fungeva da pavimento, sensibili ai granelli di sabbia che vi erano rimasti appiccicati. – Che cosa vuoi fare? – chiese Sabiha. – Qui dentro l'aria è viziata. Vado fuori. – Non puoi fuggire, – disse la ragazza. – Ogni canyon ha il suo verme. Se oltrepasserai il qanat, i vermi si accorgeranno subito di te, sentiranno la tua acqua... Questi vermi prigionieri sono molto svegli, non sono affatto come quelli del deserto. E inoltre, – come traboccava di gioia maligna la sua voce!, – non hai la tuta. – Allora, perché ti preoccupi? – ribatté Leto, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a destare in lei una reazione vera. – Perché non hai mangiato. – E tu verrai punita. – Sì! – Ma io sono già saturo di spezia, – lui replicò. – Ogni istante è una visione. – Indicò col piede nudo la scodella: – Versala sulla sabbia. Chi verrà mai a saperlo? – Ci osservano, – bisbigliò lei. Leto scosse la testa e uscì dalle sue visioni. Una libertà mai prima

assaporata l'invase. Non c'era bisogno di uccidere quella povera pedina. Lei danzava su una musica diversa, senza neppure conoscere i passi, convinta di poter ancora condividere il potere che allettava gli avidi pirati di Shuloch e Jacurutu. Leto si avvicinò al sigillo della porta e vi appoggiò una mano. – Quando verrà Muriz, – lei insisté, – si arrabbierà molto con... – Muriz è un venditore di vuoto, – ribatté Leto. – Mia zia lo ha prosciugato. Sabiha balzò in piedi: – Esco con te. Leto pensò: Ricorda come le sono sfuggito, laggiù a Jacurutu. Ora si è resa conto di quanto è aleatorio il suo controllo su di me. Le sue visioni si agitano dentro di lei. Ma Sabiha non voleva ascoltare quelle visioni. Sarebbe bastato che riflettesse: Come poteva, lui, farsi beffe di un verme prigioniero nel suo stretto canyon? Come avrebbe potuto, lui, vivere nel Tanzerouft senza una tuta distillante o un fremkit? – No, tu stai qui, – le disse. – Devo restar solo, a consultare le mie visioni. – Dove andrai? – Fino al qanat. – Le trote delle sabbie escono a frotte, col buio. – Non mi mangeranno. – A volte i vermi scendono giù fin quasi all'acqua, – lei insisté. – Se attraverserai il qanat... – S'interruppe, cercando di dare alle sue parole un vago sapore di minaccia. – Come potrei montare un verme senza ami? – lui le chiese. Sarebbe riuscita a salvare, Sabiha, anche un solo frammento delle sue visioni? – Mangerai, al tuo ritorno? – Sabiha si accovacciò ancora una volta accanto alla scodella, prese in mano il mestolo e ricominciò ad agitare la brodaglia color indaco. – Ogni cosa a suo tempo, – rispose Leto, ben sapendo che Sabiha sarebbe stata incapace di accorgersi dell'uso sottile che lui faceva della Voce, del modo in cui insinuava i propri desideri nelle decisioni che lei avrebbe preso. – Muriz vorrà sapere se hai avuto una visione, – lo mise in guardia Sabiha. – Mi occuperò di Muriz a modo mio, – lui ribatté. I movimenti della ragazza erano diventati lenti e grevi. Il comportamento tipico dei Fremen ora si adattava in modo del tutto naturale a ciò che lui voleva da lei. I

Fremen erano gente di straordinaria energia al sorgere del sole, ma spesso una malinconia letargica s'impadroniva di loro al cader della notte. Già Sabiha era sul punto di sprofondare nel sonno e nei sogni. Leto uscì, solo, nella notte. Il cielo scintillava di stelle, e il profilo della collina rocciosa si stagliava contro lo sfondo delle costellazioni tutto intorno a lui. Superò il qanat, oltre le palme. Per un lungo istante Leto restò accanto al bordo dell'acqua, ascoltando l'incessante crepitio della sabbia all'interno del canyon più vicino. Dal suono sembrava un piccolo verme; scelto appunto per questa ragione, senza dubbio. Un piccolo verme era più facile da trasportare. Pensò alla cattura del verme: i cacciatori l'avrebbero intontito con acqua nebulizzata, utilizzando la tradizionale tecnica del Fremen quando si procuravano un verme per il rito dell'orgia. Ma questo verme non sarebbe stato ucciso per immersione. Sarebbe invece partito su un trasporto della Gilda, destinato a qualche speranzoso cliente il cui deserto, comunque, si sarebbe rivelato troppo umido. Pochi, tra gli abitanti degli altri mondi, si rendevano conto di quanto fosse stato disseccato Arrakis, ad opera della trota delle sabbie. Fosse stato... ma ora non più. Poiché perfino qui, nel Tanzerouft, doveva esserci un'umidità, trasportata dall'aria, molte volte superiore a quella che qualunque verme avesse mai conosciuto prima, fatta eccezione per il momento della sua morte, in una cisterna dei Fremen. Sentì Sabiha muoversi nella capanna. Era agitata, tormentata dalle visioni così tenacemente represse. Leto si chiese che cosa lui avrebbe provato a vivere con lei fuori da qualunque visione, condividendo ogni istante così come veniva, in sé e per sé. Questo pensiero lo allettò più di qualunque visione della spezia. C'era una certa pulizia interiore in questo affrontare un futuro sconosciuto. Un bacio nel sietch ne vale due in città. La vecchia massima Fremen diceva tutto. Il sietch tradizionale era una suggestiva combinazione di rusticità e riservatezza. C'erano tracce di quella riservatezza nella gente di Jacurutu/Shuloch... ma soltanto tracce. Ciò lo rattristava, poiché rendeva ancor più evidente ciò che era andato perduto. Lentamente... così lentamente che non avrebbe saputo dire come si era iniziato, Leto fu consapevole del sommesso frusciare di molte creature intorno a lui. Trote della sabbia. Presto sarebbe giunto il momento di uscire da una visione per entrare in

un'altra. Percepì il movimento delle trote come qualcosa che si agitava dentro di lui. I Fremen avevano vissuto con quelle creature per generazioni, sapendo che, sacrificando un po' d'acqua come esca, era possibile attirarle a portata di mano. Molti Fremen, pur morendo di sete, avevano rischiato l'ultima goccia d'acqua in questo gioco rischioso, sapendo che il dolce sciroppo verde spillato da una trota era un'eccellente energetico. Le trote erano soprattutto le vittime predestinate dei bambini, che le catturavano per lo Huanui. Ma, per essi, era soprattutto un gioco. Leto tremò al pensiero di ciò che quel gioco, ora, significava per lui. Sentì una di quelle creature scivolargli sopra il piede nudo. La trota esitò un attimo, poi proseguì, attirata dalla quantità d'acqua assai maggiore del qanat. Per un attimo, tuttavia, Leto aveva percepito la concreta realtà, la terribile decisione. Il guanto-trota. Era il gioco dei bambini. Se si teneva in mano una trota, schiacciandola sopra la propria pelle, essa finiva per formare un guanto vivente. La trota, infatti, percepiva il sangue dei capillari nella pelle; ma qualcosa mescolato in quell'acqua le respingeva. Presto o tardi il guanto sarebbe nuovamente scivolato giù nella sabbia, per essere subito raccolto e messo in un paniere di fibra di spezia. La spezia calmava la trota, fino al momento in cui sarebbe stata gettata nel distillatore della morte. Leto sentì le trote che si tuffavano nel qanat, e il vorticare dei pesci predatori che le divoravano. L'acqua ammorbidiva la trota, la rendeva flessibile. I bambini l'imparavano presto: un po' di saliva bastava a spremer fuori da esse il dolce sciroppo. I tuffi continuavano: era una vera e propria migrazione di trote giunte fino all'acqua che scorreva all'aperto, ma non sarebbero mai riuscite a incistare l'intero qanat, sorvegliato dai pesci voraci. Continuavano ad arrivare e a tuffarsi. Leto frugò dentro la sabbia con la mano destra, fino a quando le sue dita non incontrarono la pelle coriacea di una trota. Era la più grande fra tutte, quella che lui aspettava. La creatura non cercò di evitarlo, ma anzi salì avidamente sulla sua pelle. Leto ne esplorò i contorni con la mano libera: aveva all'incirca la forma di una losanga, era priva di testa, non aveva occhi, eppure riusciva infallibilmente a trovare l'acqua. Numerose trote potevano unirsi strettamente l'una all'altra, corpo contro corpo, agganciandosi l'una all'altra mediante il fitto intrecciarsi delle ciglia che sporgevano dai loro fianchi, diventando un unico, grande organismo a

sacco che racchiudeva tutta l'acqua dentro di sé, isolando così il «veleno» dal gigante che la trota delle sabbie sarebbe poi diventata: Shai-hulud. La trota si contorse nelle sue mani, allungandosi, stirando il suo corpo. Mentre la trota si comportava così, Leto sentì anche la visione da lui scelta allungarsi, dilatarsi. Questo filo, non l'altro. Sentì la trota delle sabbie, sempre più sottile, rivestire un'area sempre più ampia della sua mano. Nessuna trota delle sabbie aveva mai incontrato una simile mano prima di allora, ogni cellula soprassatura di spezia. Nessun essere umano, prima di allora, aveva mai vissuto e ragionato in quelle condizioni. Cautamente, Leto regolò il suo equilibrio enzimatico, attingendo all'illuminata saggezza che aveva acquisito durante la trance da spezia. Il sapere delle innumerevoli vite che si fondevano dentro di lui gli dava la più completa sicurezza nella scelta dei più sottili adattamenti, allontanando il pericolo di dosi eccessive e mortali, che l'avrebbero distrutto se avesse distolto la sua attenzione anche per un solo battito di cuore. E allo stesso tempo lui si fondeva con la trota, nutrendosi di essa e nutrendola, imparando a conoscerla. La visione della sua trance gli indicava la strada, e lui la seguì con estrema precisione. Leto sentì la trota farsi incredibilmente sottile e risalirgli lungo il braccio. Frugò nella sabbia, ne trovò un'altra, e l'applicò sopra la prima. Il contatto scatenò un frenetico agitarsi di ambedue le creature. Le loro ciglia s'intrecciarono, ed esse diventarono un'unica membrana che lo avvolse strettamente fino al gomito. Le trote si adattavano al ruolo di guanto vivente, come nei giochi infantili, ma diventavano sempre più sottili e sensibili man mano lui le costringeva a svolgere il ruolo di una pelle simbiotica. Abbassò al suolo quel guanto vivente, sentì la sabbia, i suoi sensi percepirono ogni granello come qualcosa di distinto. Non erano più trote, erano qualcosa di molto più forte, resistente. E sarebbero diventate ancora più dure e resistenti... La sua mano che rovistava nella sabbia trovò un'altra trota, che balzò su, unendosi alle prime due e adattandosi prontamente al nuovo ruolo. Una morbidezza coriacea s'insinuò lungo il braccio di Leto, fino alla spalla. Con una tremenda forza di concentrazione egli conseguì l'unione della sua nuova pelle col corpo, prevenendo il rigetto. Non lasciò che nessun angolo della sua attenzione indugiasse sulle terrificanti conseguenze di ciò che stava facendo. Ora importavano soltanto le necessità della sua visione di trance. Soltanto da quella prova poteva nascere il Sentiero Dorato. Leto si liberò della veste e giacque nudo sulla sabbia, stendendo il

braccio rivestito dal guanto sul percorso delle trote in migrazione. Ricordò che una volta lui e Ghanima avevano catturato una trota e l'avevano strofinata contro la sabbia finché non era diventata un verme-bambino, un tubo rigido con l'interno pieno di sciroppo verde. Ed era bastato mordere delicatamente un'estremità e succhiare rapidamente prima che la ferita si rimarginasse, per inghiottire il liquido dal dolce sapore. Ora le trote ricoprivano tutto il suo corpo. Poteva sentire il pulsare del proprio sangue contro quella membrana vivente. Una delle trote cercò di coprirgli il viso, ma lui la respinse finché l'animale si scostò, trasformandosi in un cilindro sottile. La trota divenne molto più lunga di un verme-bambino, conservando la propria flessibilità. Leto ne morse l'estremità e gustò un rivolo sottile dal dolce sapore che durò molto più a lungo di quanto qualsiasi altro Fremen avesse sperimentato prima. Leto sentì quella dolcezza infondergli energia, una strana eccitazione pervase il suo corpo. Continuò per un pezzo a srotolare via le trote dal suo viso, fino a quando non ebbe preso consistenza intorno al suo viso un rigido cordone che girava intorno alla mandibola e risaliva fino alla fronte, lasciando esposte le orecchie. Ora doveva mettere alla prova la sua visione. Si alzò in piedi e si voltò, precipitandosi di corsa verso la capanna. Scoprì che i piedi si muovevano troppo rapidamente, facendogli perdere l'equilibrio. Fece un tuffo sulla sabbia, rotolò e balzò nuovamente in piedi. Il balzo lo portò a due metri di altezza, e quando ricadde a terra e cercò nuovamente di correre, i piedi, ancora una volta, si mossero troppo in fretta. Alt! ordinò a se stesso. Sprofondò nel rilassamento autoindotto del prana-bindu, concentrando i suoi sensi nel ristretto spazio della sua, interiorità. Ciò mise a fuoco la trama interiore dell'adesso-costante tramite il quale lui sperimentava il Tempo. Leto permise che l'ebbrezza della visione lo riscaldasse. La membrana funzionava proprio come la visione aveva previsto. La mìa pelle non è la mia. Ma i suoi muscoli avrebbero dovuto essere adeguatamente addestrati, per poter agire con quei movimenti amplificati. Quando riprese a camminare, Leto ruzzolò nuovamente a terra. Infine, si mise seduto. Bastò un attimo d'immobilità, e il rigido cordone sotto le mascelle cercò subito di diventare una membrana e di coprirgli la bocca. Leto vi sputò sopra e lo morse, assaporando il dolce sciroppo. Sotto la pressione della sua mano, la

membrana tornò ad arrotolarsi verso il basso. Era ormai passato un tempo sufficiente a realizzare l'unione completa col suo corpo. Leto si distese, si girò bocconi e cominciò a strisciare sulla sabbia. Sentì distintamente ogni granello, ma niente graffiò la sua pelle. Bastarono poche bracciate per fargli superare cinquanta metri di distesa sabbiosa. Come reazione fisica, fu avvolto dal calore prodotto dalla frizione. La membrana non cercò più di coprirgli il naso e la bocca; ora, però, lui si trovava di fronte al secondo e più importante passo lungo il suo Sentiero Dorato. I suoi sforzi lo avevano allontanato dal qanat, fin dentro il canyon in cui si trovava un verme intrappolato. Lo sentì avanzare nella sua direzione, sibilando, richiamato dai suoi movimenti. Leto balzò in piedi, con l'intenzione di fermarsi lì ad aspettare, ma l'amplificazione dei suoi movimenti lo mandò a cadere, lungo e disteso, venti metri all'interno del canyon. Controllando le sue reazioni con uno sforzo tremendo, si mise a sedere, quindi tornò a rizzarsi in piedi. La sabbia cominciò a turbinare proprio davanti a lui, in una nuvolaglia mostruosa illuminata dalle stelle. Il velo turbinante si squarciò all'improvviso a pochi metri da lui, denti di cristallo luccicarono alla debole luminosità. Vide la bocca sbadigliante, grande come una caverna e, molto più indietro, il riflesso di una debole fiamma. Ma il verme si arrestò. Restò immobile davanti a lui per tutto il tempo in cui la Prima Luna spuntò dal crinale della collina. La luce scintillò vividamente sui denti del verme, delineando la fosforescenza chimica che ardeva nelle profondità della creatura. Talmente profonda era l'innata paura dei Fremen, che Leto fu quasi travolto dall'impulso a fuggire. Ma la sua visione lo tenne immobile, affascinato da quel lungo istante d'immobilità. Nessuno mai, prima di allora, si era trovato così vicino alla bocca di un verme vivo ed era sopravvissuto. Cautamente Leto mosse il piede destro, incontrò un corrugamento sabbioso, e i suoi muscoli, reagendo troppo rapidamente, lo scagliarono verso la bocca del verme. Leto ricadde sulle ginocchia. Ma il verme non si mosse. Esso percepiva la presenza della trota delle sabbie, e non avrebbe aggredito questo anello essenziale della sua catena biologica. Quel verme avrebbe attaccato un altro verme che fosse penetrato nel suo territorio, e sarebbe stato irresistibilmente attirato dalla spezia esposta all'aperto. Soltanto una barriera d'acqua l'avrebbe fermato: e la trota delle sabbie,

poiché incapsulava l'acqua, era appunto una barriera. Leto fece una prova: protese una mano verso quella bocca spaventosa. Il verme si ritrasse di un buon metro. Riprendendo fiducia, Leto voltò le spalle al verme e cominciò a insegnare ai suoi muscoli a padroneggiare la loro nuova potenza. Cautamente, tornò a incamminarsi verso il qanat. Il verme restò immobile dietro di lui. Superò la barriera d'acqua, fece un balzo di gioia, volando per dieci metri sopra la sabbia, toccò terra, ruzzolò, scoppiò in grandi risate. Una luce tremolò sulla sabbia quando il sigillo della capanna fu dischiuso. La figura di Sabiha si profilò contro il bagliore giallo-purpureo della lampada, e restò immobile a fissarlo. Ridendo, Leto riattraversò il qanat, si arrestò davanti al verme, si girò e fronteggiò la ragazza a braccia aperte. – Guarda! – gridò. – Il verme obbedisce ai miei ordini! Mentre Sabiha continuava a fissarlo, sbigottita, Leto si girò di scatto, aggirò di corsa il verme e penetrò nel canyon. Stava imparando a servirsi della sua nuova pelle, e scoprì di poter correre flettendo quasi impercettibilmente i muscoli. Ciò non richiedeva quasi nessuno sforzo. E al minimo movimento anche lievemente più brusco, sfrecciava sopra la sabbia col vento che gli schiaffeggiava, ardente, la porzione scoperta del viso. Giunto in fondo al canyon, invece di fermarsi compì un balzo di oltre quindici metri, si afferrò con le mani allo strapiombo e si arrampicò a tentoni come un insetto, emergendo sulla cresta rocciosa che dominava il Tanzerouft. Il deserto si stendeva davanti a lui, un'immensa ondulazione argentea sotto la luce della luna. L'ebbrezza folle che si era impadronita di lui diminuì. Si accovacciò, ancora sotto l'impressione di quant'era leggero il suo corpo. L'ultimo sforzo aveva spremuto da lui un sottile strato di sudore che una tuta distillante avrebbe assorbito e trasferito alle resine scambiatrici di ioni per il recupero del sale. Ora, mentre si riposava, il sudore scomparve, assorbito dalla nuova membrana molto più in fretta di quanto avrebbe potuto fare una tuta distillante. Sovrappensiero, Leto arrotolò un tratto della membrana sotto le labbra e lo tirò dentro la bocca, risucchiandone il dolce sciroppo. La sua bocca era priva di maschera, tuttavia. L'istinto ereditato dai Fremen gli disse che l'umidità del suo corpo andava sprecata ad ogni respiro. Afferrò il bordo della membrana e lo tirò verso l'alto, coprendosi

la bocca, e la tirò indietro, quando la membrana tentò di coprirgli anche le narici, e continuò a respingerla finché il bordo della membrana, arrotolato su se stesso, non rimase al suo posto. Alla maniera del deserto, passò quindi alla respirazione automatica: inalare col naso, esalare dalla bocca. La membrana che gli copriva la bocca sporse formando una piccola bolla, ma rimase al suo posto. Sulle sue labbra non si raccolse nessuna umidità, e le narici rimasero aperte. L'adattamento, quindi, progrediva. Un ornitottero volò fra Leto e la luna, inclinò l'ala e puntò nella sua direzione per compiere un atterraggio nel cuore della collina, forse a cento metri sulla sinistra. Leto lo fissò, poi si girò e guardò dentro il canyon da cui era salito. Laggiù, oltre il qanat, s'intravvedevano molte luci, l'agitarsi di una moltitudine. Sentì delle grida, in lontananza, avvertì l'isterismo di quei suoni. Due uomini uscirono dall'ornitottero, la luce della luna scintillò sulle loro armi. Il Mashad, pensò Leto, e fu un triste pensiero. Qui vi sarebbe stato il grande balzo sul Sentiero Dorato. Lui aveva indossato una tuta distillante vivente, autoriparantesi... una membrana formata dalla trota delle sabbie, qualcosa d'incommensurabile valore, su Arrakis, finché non se ne conosceva il prezzo. Non sono più un essere umano, le leggende su questa notte s'ingrandiranno e cambieranno ogni cosa al punto che nessuno dei partecipanti potrà riconoscersi in essa. Ma in buona parte saranno verità. Guardò giù dalla collina e calcolò che la superficie del deserto si trovasse duecento metri più sotto. La luce della luna metteva in risalto sporgenze e fenditure sulla ripida faccia del dirupo, ma nessun sentiero che conducesse verso il basso. Leto inspirò profondamente, lanciò un'occhiata dietro le spalle, agli uomini che si avvicinavano, poi salì sull'orlo dello strapiombo e si lanciò nel vuoto. Circa trenta metri più sotto, le sue gambe incontrarono una stretta sporgenza. I muscoli potenziati assorbirono l'urto e Leto rimbalzò di lato su un'altra sporgenza, alla quale si aggrappò con le mani, prima di cadere per altri venti metri su un terzo appiglio, e poi sempre più giù, saltando, rimbalzando, afferrandosi a minuscole sporgenze. Gli ultimi quaranta metri furono un unico balzo; Leto atterrò con le ginocchia ripiegate, ruzzolando al suolo e piombando a capofitto sul liscio pendio di una duna, sollevando una piccola eruzione di sabbia e polvere. Arrivato in fondo, si aiutò con le mani e i piedi, e si lanciò verso la cresta della duna successiva con un solo balzo. Rauche grida gli giunsero dalla sommità del dirupo alle sue spalle, ma le ignorò per

concentrarsi sui balzi dalla cima di una duna all'altra. Man mano diventava più esperto nell'uso dei muscoli potenziati, provò una gioia sensuale del tutto imprevista in questo suo divorare le distanze. Era un balletto tra le sabbie, una sfida al Tanzerouft, che nessun altro prima di lui aveva lanciato. Quando giudicò che gli occupanti dell'ornitottero avessero superato lo shock, riprendendo l'inseguimento, Leto sprofondò dentro la faccia in ombra di una duna. La sabbia, sollecitata dalla sua nuova forza, si comportava come un liquido denso, ma la temperatura aumentava pericolosamente, a causa della frizione, quando lui si muoveva troppo in fretta. Leto uscì fuori sul lato opposto della duna, e scoprì che la membrana gli copriva le narici. La staccò, e sentì la nuova pelle pulsargli sul corpo in attività, per assorbire il suo sudore. Leto addentò nuovamente il cordone formato dalla trota intorno alla sua bocca e bevve lo sciroppo mentre scrutava il cielo stellato sopra di lui. Calcolò di aver percorso quindici chilometri da Shuloch. Poco dopo, un ornitottero stagliò il suo profilo contro le stelle, un grande apparecchio a forma di uccello, seguito da un altro e un altro ancora. Leto udì il morbido frusciare delle ali, il mormorio dei getti. Attese, continuando a sorseggiare il liquido dal tubo vivente. La Prima Luna scivolò via lungo la sua strada, poi comparve la Seconda Luna. Un'ora prima dell'alba Leto strisciò fuori e risalì la duna fin sulla cresta, e di qui scrutò il cielo. Niente cacciatori in vista. Ora sapeva di essersi addentrato su una strada senza ritorno. Davanti a lui vi era la trappola del Tempo e dello Spazio, una lezione indimenticabile per lui e l'umanità. Leto curvò verso nord-est e a lunghi balzi percorse altri cinquanta chilometri prima di sprofondare nella sabbia per tutta la durata del giorno, lasciando soltanto uno stretto orifizio verso la superficie, che tenne aperto con un tubo modellato con la trota. La membrana stava imparando a vivere con lui, così come lui imparava a vivere con essa. Leto cercò di non pensare alle altre cose che la membrana stava facendo alla sua carne. Domani devasterò Gara Rulen, disse tra sé. Spaccherò il loro qanat e disperderò la loro acqua sulla sabbia. Poi proseguirò per Windsack, Old Gap e Harg. Entro un mese la trasformazione ecologica verrà ritardata di una intera generazione. Questo ci darà tempo per elaborare una nuova tabella di marcia. E ciò sarebbe stato imputato alle feroci scorrerie delle tribù ribelli. Qualcuno avrebbe fatto rivivere il ricordo di Jacurutu. Alia avrebbe avuto

il suo daffare a sbrogliare la matassa. In quanto a Ghanima... Silenziosamente, Leto sillabò dentro di sé le parole che avrebbero ripristinato la sua memoria. Per questo vi sarebbe stato tempo più tardi... se essi fossero riusciti a sopravvivere a questo terribile intrecciarsi di fili. Il Sentiero Dorato lo attirava là fuori nel deserto, assumendo una concretezza quasi fisica, al punto che riusciva a vederlo ad occhi aperti. E rifletté sul modo in cui questo avveniva: come gli animali dovevano continuamente spostarsi sul terreno, e la loro esistenza dipendeva da questo continuo muoversi, così l'anima dell'umanità, costretta all'immobilità per eoni, aveva urgente bisogno di un sentiero sul quale riprendere il cammino. A questo punto, Leto pensò a suo padre, e disse ancora, tra sé: Presto discuteremo da uomo a uomo, e una sola, tra le due visioni, emergerà.

I limiti della sopravvivenza vengono fissati dal clima, quei lenti mutamenti che una generazione può anche non avvertire. E sono le punte estreme del clima che stabiliscono il modello di vita. Gli esseri umani isolati, circoscritti, riconoscono l'esistenza di province climatiche, di fluttuazioni annuali del tempo e, occasionalmente, possono anche esprimere osservazioni come: «Quest'anno è il più freddo che ci sia mai capitato.» Tutto questo è molto sensato, ma raramente gli esseri umani sono consapevoli dei mutamenti più lenti e profondi, che si manifestano in un arco di numerosi anni. Ma è soltanto grazie a questa consapevolezza che gli esseri umani imparano a sopravvivere nei pianeti più diversi. Essi devono imparare a conoscere il clima. – Arrakis, la Trasformazione, secondo Harq al-Ada

Alia sedeva a gambe incrociate sul suo letto, cercando di calmarsi recitando la Litania contro la Paura, ma sghignazzate derisorie le risuonavano dentro il cranio, frustrando ogni suo tentativo. La voce risuonava imperiosa in lei, controllando le sue orecchie: – Che razza di sciocchezza è mai questa? Di che cosa hai paura? I muscoli dei suoi polpacci si contrassero quando i suoi piedi cercarono di muoversi per correre. Non c'era nessun posto dove correre. Alia indossava soltanto una veste da camera dorata della più pura seta paliana, e questa rivelava un'obesità che aveva cominciato a gonfiare il suo corpo. Era appena passata l'ora degli Assassini; l'alba era vicina. I rapporti ricevuti negli ultimi tre mesi erano sparsi davanti a lei sul copriletto rosso. Si udiva il ronzio del condizionatore d'aria e una brezza leggera agitava le etichette sui rocchetti di filo shiga. Due ore prima gli aiutanti l'avevano svegliata, pieni di timore, recandole la notizia dell'ultimo oltraggio, e Alia aveva chiesto che le portassero i rapporti per cercarvi un disegno intelligibile. Interruppe la Litania. Quegli attacchi dovevano essere opera di ribelli, era ovvio. Un numero sempre maggiore di essi si rivoltava contro la religione di Muad'Dib. – E che cosa c'è di sbagliato, in questo? – chiese la voce beffarda dentro di lei. Alia scosse ferocemente la testa. Namri aveva mancato di portare a termine il suo piano. Era stata sciocca a fidarsi di uno strumento a doppio taglio così pericoloso. I suoi aiutanti mormoravano che era Stilgar il colpevole, che Stilgar era segretamente un ribelle. Che cosa era successo ad Halleck? Si era rintanato fra i suoi amici contrabbandieri? Probabilmente.

Alia prese in mano una delle bobine. Muriz! Quell'uomo era isterico. Quella era l'unica spiegazione possibile. Altrimenti lei sarebbe stata costretta a credere ai miracoli. Nessun essere umano (e tanto meno un bambino, sia pure Leto) avrebbe potuto saltar giù dallo strapiombo di Shuloch, sopravvivere e fuggire attraverso il deserto con balzi che lo trasportavano dalla cresta di una duna all'altra. Alia sentì la gelida superficie del filo shiga sotto la mano. Dov'era Leto, dunque? Ghanima si rifiutava di credere che fosse vivo. Una Veridica aveva confermato la sua storia: Leto era stato trucidato dalle tigri Laza. Allora, chi era il bambino del quale Namri e Muriz avevano parlato nei loro rapporti? Alia rabbrividì. Quaranta qanat erano stati sfondati, le loro acque sparse sulla sabbia. I Fremen ribelli... e perfino i fedeli, tutti una banda di zotici superstiziosi! I rapporti che le erano giunti erano zeppi di avvenimenti misteriosi. Le trote delle sabbie saltavano nei qanat e si frammentavano, diventando una moltitudine di piccole repliche. I vermi si affogavano deliberatamente. Il sangue sgocciolava dalla Seconda Luna e cadeva su Arrakis, dove risvegliava i grandi vermi. E la frequenza delle tempeste andava aumentando! Pensò a Duncan, segregato a Tabr, che mordeva il freno a causa delle limitazioni che lei era riuscita a imporgli attraverso Stilgar. Questi e Irulan non facevano altro che parlare del vero significato dietro a questi presagi. Sciocchi! Perfino le sue spie mostravano d'essere influenzate da queste storie assurde! Perché mai Ghanima insisteva con la sua storia delle tigri Laza? Alia sospirò. Uno soltanto dei rapporti sui rocchetti di filo shiga la rassicurava. Farad'n aveva inviato un contingente delle sue guardie «per aiutarti a risolvere i tuoi problemi e preparare la strada per il Rito Ufficiale del fidanzamento». Alia sorrise tra sé e condivise la sghignazzata che le rombò nel cranio. Quel piano, almeno, rimaneva intatto. Si sarebbero trovate spiegazioni logiche per dissipare tutte quelle superstiziose sciocchezze. Nel frattempo, lei si sarebbe servita delle truppe di Farad'n per chiudere Shuloch e arrestare i dissidenti a lei noti, specialmente fra i Naib. Alia rifletté se dovesse attaccare anche Stilgar, ma una voce interiore la mise in guardia dal farlo. – Non ancora. – Mia madre e la Sorellanza hanno ancora un loro piano, – bisbigliò

Alia. – Perché stanno addestrando Farad'n? – Forse lui la eccita sessualmente, – commentò il Barone. – Oh, non quel pezzo di ghiaccio. – Vuoi forse chiedere a Farad'n che la rimetta in libertà? – So i pericoli che ciò comporterebbe! – Bene. Intanto, quel giovane aiutante che Zia ha condotto qui di recente. Mi sembra che si chiami Agarves... Buer Agarves. Se tu l'invitassi qui, stanotte... – No! – Alia? ... – È quasi l'alba, vecchio sciocco insaziabile! Stamattina c'è un incontro del Consiglio Militare. In quanto ai sacerdoti, dovremo... – Non fidarti di loro, Alia. – Naturalmente, no! – Molto bene. Adesso, questo Buer Agarves... – Ho detto no! Il vecchio Barone restò silenzioso dentro di lei, ma Alia cominciò a sentire male alla testa. Un lento dolore cominciò a salirle dalla guancia sinistra all'interno del cranio. Già una volta, con questo espediente, l'aveva costretta a precipitarsi di corsa lungo i corridoi in preda a una furiosa collera. Ora, lei decise di resistergli. – Se insisti, prenderò un sedativo, – lei replicò. Il Barone si avvide che lei parlava sul serio. Il mal di testa cominciò ad attenuarsi. – Molto bene, – si arrese con voce petulante. – Un'altra volta, allora. – Un'altra volta, – assentì lei.

Tu spartisti la sabbia con la tua forza; tu spezzi le teste dei draghi del deserto. Sì, ti vedo come la bestia che esce fuori dalle dune; tu hai le due corna dell'agnello, ma tu parli come il drago. – Bibbia Cattolica Orangista riveduta Arran II: 4

Era la profezia immutabile, i fili divennero una corda, qualcosa che Leto, ora, aveva l'impressione di aver conosciuto tutta la vita. Spaziò con lo sguardo sopra le ombre della sera che si allargavano sul Tanzerouft. A centosettanta chilometri in direzione nord si stendeva la Vecchia Breccia, il crepaccio profondo e contorto che tagliava il Muro Scudo, attraverso il quale i primi Fremen avevano emigrato nel deserto. In Leto non vi era più alcun dubbio. Sapeva perché si trovava lì, solo, nel deserto, tuttavia con la sensazione di possedere tutta quella terra... e quella terra doveva obbedire ai suoi ordini. Percepì la corda che lo univa a tutta l'umanità e quel profondo bisogno di un intero universo che avesse un senso logico, un universo le cui regolarità fossero riconoscibili all'interno dei suoi perpetui mutamenti. Io conosco questo universo. Il verme che aveva cavalcato fin lì era accorso quando aveva battuto il piede per terra e, rizzandosi davanti a lui, si era arrestato come una bestia obbediente. Lui gli era salito sul dorso e, servendosi soltanto delle mani superpotenziate dalle membrane, divaricò il solco fra due anelli del verme per obbligarlo a restare in superficie. Per tutta la notte il verme aveva galoppato verso il nord, la sua fornace interna al solfo e silicio aveva funzionato al massimo della sua capacità, esalando abbondanti folate di ossigeno che avevano avvolto Leto in vortici turbinanti, spinte dal vento che soffiava alle loro spalle. Quelle raffiche calde a volte l'avevano stordito, riempiendo la sua mente di strane percezioni. La soggettività riflessa delle sue visioni si era ripiegata profondamente sulla sua stirpe, costringendolo a rivivere porzioni del suo passato terreno, confrontando poi quelle porzioni col suo Io mutevole. Poteva già sentire quanto si fosse allontanato da qualcosa di riconoscibilmente umano. Drogata dalla spezia, di cui inghiottiva ogni minima traccia, la membrana che lo ricopriva non era più una trota delle sabbie, così come lui non era più un essere umano. Le ciglia delle trote si erano insinuate anche nella sua carne, formando una creatura nuova, che avrebbe sperimentato le proprie metamorfosi negli eoni a venire. Tu vedesti ciò, padre mio, e lo respingesti, pensò Leto. Era qualcosa di

troppo terribile da affrontarsi. Leto sapeva ciò che si era creduto di suo padre, e perché. Muad'Dib morì di prescienza. Ma Paul Muad'Dib era passato dall'universo della realtà nell'alam almythal mentre era ancora in vita, fuggendo di fronte alla prospettiva di questa cosa che, invece, suo figlio aveva osato compiere. Ora esisteva soltanto il Predicatore. Leto si accovacciò sulla sabbia e concentrò la sua attenzione verso il nord. Il verme sarebbe giunto da quella direzione, e sul suo dorso avrebbero cavalcato due persone: un giovane Fremen e un cieco. Un volo di pallidi pipistrelli passò sopra la testa di Leto, allontanandosi verso sud-est. Erano punti minuscoli, sparsi nel cielo che andava oscurandosi, ma l'occhio esperto di un Fremen sarebbe stato senz'altro capace di ricostruire con lo sguardo il loro percorso, per sapere il punto in cui si trovava il loro rifugio. Il Predicatore, tuttavia, avrebbe evitato quel rifugio. La sua meta era Shuloch, dove non era consentita la presenza di nessun pipistrello selvatico, per timore, appunto, che indicassero agli stranieri la via di quel luogo segreto. Il verme comparve all'inizio come un vago movimento fra il deserto e il cielo settentrionale. Matar, la pioggia di sabbia fatta discendere dalle alte latitudini da una tempesta morente, gli oscurò per qualche minuto la vista, poi il verme ricomparve, più vicino. La zona fredda alla base della duna dove Leto era accucciato cominciò a condensare la sua umidità notturna. Leto assaporò la bolla che la membrana gli aveva formato davanti alla bocca. Non avrebbe più avuto bisogno di bere acqua o di succhiarla da oggetti impregnati d'umido. Dai geni di sua madre aveva ereditato l'intestino lungo e ampio del Fremen che gli consentiva di assorbire acqua da qualunque cosa avesse trangugiato. E la sua nuova tuta distillante vivente era in grado di afferrare ogni singola molecola di umidità con cui fosse venuta a contatto. Anche in quel momento, mentre stava lì, seduto, la membrana a contatto con la sabbia spingeva fuori sempre nuove ciglia, come pseudopodi, per catturare ogni più piccolo frammento d'energia. Leto scrutò il verme che si avvicinava. Sapeva che a quest'ora la giovane guida doveva averlo già visto, scorgendo una piccola macchia nera alla sommità della duna. Il cavaliere del verme non avrebbe visto niente più che un minuscolo punto nero, da lontano, ma questo era un problema che i Fremen avevano imparato come affrontare. Qualunque oggetto

sconosciuto era pericoloso. Le reazioni della giovane guida sarebbero state del tutto prevedibili anche senza la visione. Com'era previsto, il verme cambiò lievemente direzione e puntò direttamente verso di lui. I vermi giganti erano un'arma che i Fremen avevano impiegato molte volte. I vermi erano stati di grande aiuto per sconfiggere Shaddam e Arrakeen. Questo verme, tuttavia, non obbedì agli ordini del suo cavaliere. Si arrestò a dieci metri di distanza, e per quanto il suo cavaliere lo pungolasse, non avanzò di un solo millimetro. Leto si alzò in piedi e sentì che le ciglia si ritraevano nella membrana. Liberò la bocca e gridò: – Achlan, wasachlan! – Benvenuti, doppiamente benvenuti! Il cieco era seduto dietro la sua guida sul dorso del verme, una mano sulla spalla del giovane. L'uomo teneva alto il viso, il naso puntato verso la testa di Leto, come cercando di annusare quell'interruzione. Il sole al tramonto tingeva d'arancio la sua fronte. – Chi è? – chiese il cieco, scuotendo la spalla della sua guida. – Perché ci siamo fermati? – La sua voce acquistava inflessioni nasali attraverso i tappi della tuta. Il ragazzo abbassò gli occhi timoroso su Leto, e disse: – È qualcuno, solo, nel deserto. Un bambino, sembra. Ho cercato di farlo schiacciare dal verme, ma il verme si è rifiutato. – Perché non me l'hai detto? – chiese il cieco. – Credevo che si trattasse di qualcuno, solo, nel deserto, – protestò il ragazzo. – Ma è un demonio! – Hai parlato come un vero figlio di Jacurutu, – esclamò Leto. – E tu, Sire, sei il Predicatore. – Sono lui, sì. – C'era paura nella voce del Predicatore perché, finalmente, aveva incontrato il proprio passato. – Questo non è un giardino, – disse Leto, – ma sei benvenuto a dividere questo luogo con me, stanotte. – Chi sei? – chiese il Predicatore. – Come hai fatto a fermare il nostro verme? Un'inquietante sfumatura, come un inespresso riconoscimento, risuonava nella voce del Predicatore. Ora Leto richiamò alla mente i ricordi della sua visione alternativa... sapendo che avrebbe potuto esser troncata lì, in quel preciso istante. – È un demonio! – insisté la giovane guida. – Dobbiamo fuggire da

questo luogo, altrimenti le nostre anime... – Silenzio! – ruggì il Predicatore. – Io sono Leto Atreides, – disse Leto. – Il vostro verme si è fermato perché io l'ho ordinato. Il Predicatore restò in silenzio, come pietrificato. – Vieni, padre, – continuò Leto. – Scendi e trascorri la notte in mia compagnia. Ho dello sciroppo dolce da farti succhiare. Vedo che avete i fremkit col cibo e gli orci d'acqua. Divideremo le nostre ricchezze qui sulla sabbia. – Leto è ancora un bambino, – protestò il Predicatore. – E dicono che sia morto vittima della perfidia dei Corrino. Non c'è fanciullezza nella tua voce. – Tu mi conosci, Sire, – disse Leto. – Io sono piccolo per la mia età, ma la mia esperienza è antica e la mia voce ha imparato. – Che cosa fai qui, nel deserto interno? – chiese il Predicatore. – Bu ji, – replicò Leto. Niente per niente. Era la risposta di un vagabondo Zensunni, di qualcuno che agiva da solo, senza sforzo, in perfetta armonia con l'ambiente che lo circondava. Il Predicatore scosse la spalla della sua guida. – È un bambino? Proprio un bambino? – Già, – annuì il ragazzo, continuando a fissare timorosamente Leto. Il Predicatore, scosso da un tremito, sospirò profondamente: – No, – esclamò. – È un demonio in forma di bambino, – insisté la guida. – Passerete qui la notte, – disse Leto. – Faremo come dice, – assentì il Predicatore. Lasciò la spalla della sua guida, scivolò giù lungo il fianco del verme lungo uno degli anelli fino alla sabbia, balzando lontano quando i suoi piedi la toccarono. Si voltò e ordinò: – Sgancia il verme e rimandalo nella sabbia. È stanco e non ci darà fastidio. – Il verme non se ne andrà, – protestò il ragazzo. – Se ne andrà, – replicò Leto. – Ma se tu cercherai di fuggire su di esso, farò che ti mangi. – Si spostò di lato, fuori portata dei sensi del verme, puntò una mano verso la direzione da cui erano venuti: – Laggiù. Il ragazzo pungolò leggermente l'anello dietro di lui, torse uno degli ami che lo teneva divaricato. Lentamente il verme cominciò a scivolare sopra la sabbia, continuando a ruotare man mano il suo cavaliere spostava gli ami lungo uno dei fianchi.

Il Predicatore, seguendo il suono della voce di Leto, si arrampicò lungo il pendio della duna e si fermò a due passi da lui. L'aveva fatto con movimenti agili e precisi, e questo disse a Leto che la contesa sarebbe stata tutt'altro che facile. Qui, le visioni si separavano. Leto disse: – Togliti la maschera della tuta, padre. Il Predicatore obbedì, spingendo indietro il cappuccio e abbassando la copertura della bocca. Leto, che conosceva il proprio aspetto, studiò quella faccia e colse la somiglianza dei lineamenti, sbozzati dalla luce del crepuscolo. Questi lineamenti creavano un'indefinibile riconciliazione, un sentiero di geni senza confini ben precisi, e non c'era possibilità di sbagliarsi. Quei lineamenti discendevano fino a Leto dai giorni della brulicante attività, pieni di pioggia e di oceani sconfinati, di Caladan. Ma, ora, essi si trovavano a un bivio su Arrakis, mentre la notte si preparava ad avvolgere le dune. – Così, padre, – disse Leto, dando un'occhiata alla sua sinistra, dove vide la giovane guida che stava faticosamente ritornando verso di loro dal punto in cui il verme era stato abbandonato. – Mu zeinò – esclamò il Predicatore, sferzando l'aria con la mano destra. Questo non va bene! – Koolish zein, – replicò Leto, con un sottile bisbiglio. Questo è tutto il bene che potremo mai avere. E aggiunse, parlando in chakobsa, il linguaggio di battaglia degli Atreides: – Qui sono, qui resto! Non possiamo dimenticarci di questo, padre. Le spalle del Predicatore si afflosciarono. Portò entrambe le mani alle orbite vuote, in un gesto da lungo tempo non compiuto. – Un giorno ti prestai la vista dei miei occhi e mi presi i tuoi ricordi, – disse Leto. – Conosco le tue decisioni e sono stato nel luogo dove ti sei nascosto. – Lo so. – Il Predicatore abbassò le mani. – Rimarrai? – Tu mi hai dato il nome dell'uomo che ha posto quella frase sul suo stemma, – replicò Leto. – «J'y suis, j'y reste!». Il Predicatore tornò a sospirare. – Fin dove hai spinto... ciò che hai fatto a te stesso? – La mia pelle non è la mia, padre. Il Predicatore fu scosso da un tremito: – Allora, so come hai fatto a trovarmi qui.

– Sì, ho legato la mia memoria a un luogo che la mia carne non ha mai conosciuto, – disse Leto. – Ho bisogno di passare una notte con mio padre. – Non sono tuo padre. Sono soltanto una povera imitazione, una reliquia. – Il Predicatore voltò la testa verso il rumore dei passi della guida che si avvicinava. – Non consulto più le mie visioni per conoscere il mio futuro. Mentre parlava l'oscurità coprì il deserto. Le stelle si accesero, quasi all'improvviso, sopra le loro teste, e anche Leto si voltò verso il ragazzo: – Wubakh ul Kuhar! – gli gridò. Saluti! – Subakh un nar! – fu la risposta. Il Predicatore bisbigliò, con voce rauca: – Quel giovane, Assan Tariq, è pericoloso. – Tutti i Cacciati sono pericolosi, – replicò Leto. – Ma non per me. – Aveva parlato a bassa voce, in tono discorsivo. – Se questa è la tua visione, io non la condividerò, – fece il Predicatore. – Forse non hai scelta, – disse Leto. – Tu sei il fil-haquiqa, la Realtà. Tu sei Abu Dhur, il Padre delle Indefinite Strade del Tempo. – Io non sono altro che l'esca nella trappola, – replicò il Predicatore, e la sua voce suonò amara. – E Alia ha già addentato quell'esca, – ribatté Leto. – Ma a me quel sapore non piace. – Non puoi far questo! – sibilò il Predicatore. – L'ho già fatto. La mia pelle non è la mia. – Forse non è ancora troppo tardi perché tu... – È troppo tardi. – Leto piegò la testa di lato. Sentiva il faticoso avanzare di Assan Tariq lungo il pendio della duna, verso di loro, guidandosi col suono delle voci. – Saluti, Assan Tariq di Shuloch, – gli disse. Il ragazzo si fermò proprio sotto a Leto, sull'ultimo tratto del pendio, un'ombra più cupa sullo sfondo cupo del cielo. La posizione delle sue spalle, il modo in cui teneva inclinata la testa, rivelavano indecisione. – Sì, – disse Leto, – io sono colui che è fuggito da Shuloch. – Quando ho sentito... – cominciò il Predicatore. E poi ripeté: – Non puoi fare questo! – Lo sto facendo. Che importanza ha, se tu verrai accecato una seconda volta? – Credi che abbia paura? – chiese il Predicatore. – Non vedi l'ottima guida che mi hanno fornito? – Lo vedo. – Ancora una volta Leto affrontò Tariq: – Non mi hai sentito, Assan? Io sono colui che è fuggito da Shuloch.

– Tu sei un demonio. – Il ragazzo tremava. – Il tuo demonio, – annuì Leto. – Ma tu sei il mio demonio. – E sentì la tensione crescere fra lui e suo padre. Tutto intorno a loro v'era un gioco di ombre, una proiezione di forme inconsce. E Leto percepì i ricordi di suo padre, una sorta di profezia a ritroso che sceglieva le visioni per ricostruire la realtà concreta di quel momento. Anche Tariq percepì questa battaglia fra le visioni. E indietreggiò di parecchi passi lungo il pendio. – Non puoi controllare il futuro, – bisbigliò il Predicatore. La sua voce tradì un grande sforzo, come se stesse sollevando un peso immane. Qui, Leto percepì la dissonanza che esisteva fra loro. Era un elemento dell'universo contro il quale tutta la sua vita lottava. Lui, o suo padre, sarebbero stati costretti, ben presto, ad agire, a scegliere una visione. E suo padre aveva ragione: cercando di raggiungere il supremo controllo dell'universo, l'unico risultato era quello di foggiare armi con le quali alla fine l'universo ci sconfiggeva. Per scegliere e dirigere una visione, era necessario conservare un quasi impossibile equilibrio, su un singolo filo sottile... recitare la parte di Dio su una fune tesa in alto, avvolti, su entrambi i lati, dalla solitudine cosmica. Nessuno dei due contendenti poteva ritirarsi nella morte-come-cessazione-del-paradosso. Ognuno di loro conosceva le visioni e le loro regole. Tutte le antiche illusioni stavano morendo. E quando uno dei contendenti avesse fatto una mossa, l'altro poteva subito rispondere con una contromossa. L'unica, autentica verità che adesso importava, per loro, era quella che li separava dalla visione sullo sfondo. Non c'era un luogo sicuro, soltanto uno spostamento transitorio di rapporti, confinato nei limiti che ora essi imponevano, ma destinavano a inevitabili cambiamenti. Ognuno dei due poteva fare affidamento soltanto sul proprio coraggio solitario e disperato, ma Leto aveva un doppio vantaggio: si era impegnato su un sentiero dal quale non c'era ritorno, e aveva accettato le terribili conseguenze che questo aveva per lui. Suo padre, invece, sperava ancora che vi fosse una via per ritornare indietro, e non aveva preso nessun impegno definitivo. – Non devi! Non devi! – esclamò il Predicatore con voce rauca. Vede il mio vantaggio, pensò Leto. Leto parlava in tono tranquillo, da conversazione, dissimulando la propria tensione, lo sforzo per conservare il difficilissimo equilibrio che quella contesa ad alto livello richiedeva. – Io non credo svisceratamente nelle verità, non ho altra fede al di fuori di quella che creo, – dichiarò. E a

questo punto sentì un movimento fra sé e suo padre, qualcosa di granulare, che si riferiva unicamente al proprio, appassionato credo soggettivo. Attraverso tale credo, Leto seppe di aver iniziato a piantare i contrassegni del Sentiero Dorato. Un giorno quei contrassegni avrebbero rappresentato, per altri esseri umani, lo strano dono da parte di una creatura che non sarebbe più stata umana. Ma simili contrassegni venivano sempre collocati da giocatori d'azzardo. Leto li sentì sparsi dovunque sul cammino delle sue vite interiori e, quand'ebbe percepito questo, si preparò all'azzardo supremo. Inspirò delicatamente l'aria alla ricerca del segnale che sia lui che suo padre aspettavano. Restava ancora un problema: suo padre avrebbe messo in guardia la giovane guida terrorizzata che aspettava sotto di loro? Qualche istante dopo, Leto sentì alle narici il caratteristico odore dell'ozono, l'odore che tradiva uno scudo. Fedele agli ordini ricevuti dai Cacciati, il giovane Tariq stava cercando di uccidere tutti e due quei pericolosi Atreides, ignorando gli orrori che un simile fatto avrebbe causato. – Non farlo, – bisbigliò il Predicatore. Ma Leto sapeva che il segnale era vero. Percepiva l'ozono, ma l'aria, intorno a loro, non rivelava alcun pizzicore. Tariq si serviva di uno pseudo-scudo del deserto, un'arma concepita esclusivamente per Arrakis. L'effetto Holtzmann avrebbe richiamato un verme, facendolo nel contempo impazzire. Niente avrebbe potuto fermare un simile verme: né l'acqua, né la presenza della trota delle sabbie... niente. Sì, il ragazzo aveva piantato il congegno lungo il pendio della duna e stava cominciando ad allontanarsi furtivamente dalla zona del pericolo. Leto balzò dalla cresta della duna, mentre suo padre lanciava un urlo di protesta. Lo spaventoso impeto dei muscoli potenziati scagliò Leto come un missile: una mano protesa afferrò il bavero della tuta distillante di Tariq, l'altra roteò come una sferza per afferrare alla cintola la veste del ragazzo ormai condannato. Il collo si spezzò con un colpo secco. Leto rotolò a terra, e subito il suo corpo, uno strumento magnificamente equilibrato, si tuffò dentro la sabbia, nel punto in cui lo pseudo-scudo era stato nascosto. Trovò l'oggetto con le dita, lo tirò fuori dalla sabbia e lo scagliò, con una traiettoria ad arco, molto lontano in direzione sud. Qualche istante dopo, un sibilo sferzante, accompagnato da un fragore intenso, giunse dal deserto, là dove era finito lo pseudo-scudo. Poi il fracasso diminuì e tornò il silenzio.

Leto alzò lo sguardo verso la cima della duna dove si trovava suo padre. Questi lo fronteggiava ancora con atteggiamento di sfida, ma era sconfitto. Costui, lassù, era Paul Muad'Dib, cieco, rabbioso, prossimo alla disperazione come conseguenza della fuga dalla visione che Leto aveva accettato. Ora la mente di Paul avrebbe avuto modo di riflettere amaramente sul Long Koan degli Zensunni: «In quel singolo atto di predizione di un futuro esatto, Muad'Dib introdusse un elemento di evoluzione e crescita proprio della prescienza, poiché così egli vedeva il destino dell'umanità. Ciò facendo, egli rovesciò l'incertezza sopra di sé. Nel cercare l'assoluto di una predizione ordinata, egli amplificò invece il disordine, distorse la predizione.» Tornando in cima alla duna con un solo balzo, Leto disse: – Ora sono io la tua guida. – Mai! – Ritorneresti a Shuloch? Anche se ti dessero il benvenuto, arrivando senza Tariq, dove si trova Shuloch, dimmi? Riescono a vederlo, i tuoi occhi? Allora Paul fronteggiò suo figlio, puntando le sue orbite senz'occhi su Leto: – Conosci veramente l'universo che hai creato qui? Leto percepì quella particolare enfasi. La visione che – come entrambi sapevano – aveva iniziato, lì, quel terrificante movimento, aveva richiesto un atto creativo in un certo punto del tempo. A causa di quel particolare istante, l'intero universo senziente condivideva una visione lineare del tempo che possedeva le caratteristiche di una progressione ordinata. Essi entrarono in questo tempo come se balzassero in un veicolo in movimento, e avrebbero potuto lasciarlo soltanto allo stesso modo. Contro questa condizione, Leto stringeva in mano le redini multi-filo, bilanciate nella sua particolare immagine del tempo, rivelata – dalla visione – come multilineare e multiintersecante. Lui era l'uomo dotato di vista in un universo di ciechi. Soltanto lui era in grado di disperdere l'ordine imposto da suo padre, poiché quest'ultimo non stringeva più le redini. Secondo Leto, il figlio poteva alterare il passato del padre, anzi, l'aveva già fatto. E un pensiero, nel più lontano futuro non ancora sognato, poteva riflettersi sull'adesso, spingendo la sua mano a muoversi. Ma soltanto la sua mano. Paul lo sapeva, ma poiché non era più in grado di vedere in qual modo Leto avrebbe manovrato le redini, poteva soltanto riconoscere le conseguenze inumane che Leto aveva accettato. E pensò: Questo è il

mutamento per il quale ho pregato. Perché lo temo? Perché è il Sentiero Dorato! – Sono qui per dare uno scopo all'evoluzione, e quindi anche alla nostra vita, – dichiarò Leto. – Vuoi vivere tutte quelle migliaia d'anni, mutando nel modo che ora tu sai? Leto capì che suo padre non parlava di mutamenti fisici. Entrambi conoscevano le conseguenze fisiche: Leto si sarebbe adattato, e avrebbe continuato a farlo. La spinta evolutiva di ogni sua singola parte si sarebbe fusa con le altre, e ne sarebbe emersa un'unica, grande trasformazione. Quando fosse giunta la metamorfosi, se fosse giunta, una creatura pensante di dimensioni terrificanti sarebbe emersa sull'universo... e l'universo l'avrebbe venerato. No... Paul si riferiva ai mutamenti interiori, ai pensieri e alle decisioni che sarebbero stati inflitti ai fedeli. – Quelli che ti credono morto, – disse Leto, – sai come riferiscono le tue ultime parole? – Sì, lo so. – Ora io faccio ciò che tutta la vita deve fare al servizio della vita, – citò Leto. – Tu non l'hai mai detto, ma un sacerdote convinto che tu non saresti mai tornato a dargli del bugiardo ti ha messo in bocca queste parole. – Non lo chiamerei bugiardo. – Paul respirò profondamente. – Come ultime parole sono buone. – Preferisci restare qui oppure ritornare in quella capanna nel bacino di Shuloch? – Ora questo è il tuo universo, – disse Paul. Queste parole gravide di sconfitta agirono su Leto come una lama tagliente. Paul aveva cercato di guidare gli ultimi fili di una visione personale, una scelta che aveva fatto molti anni prima a Sietch Tabr. Per questo aveva accettato il suo ruolo come strumento di vendetta dei Cacciati, i sopravvissuti di Jacurutu. Essi lo avevano contaminato, ma lui aveva preferito accettare questo piuttosto che la sua visione dell'universo che Leto aveva scelto. La tristezza che Leto provava era talmente grande che non riuscì a parlare per parecchi minuti.. Quando riuscì a farlo, disse: – Così hai pungolato Alia e l'hai disorientata per farla agire e farle prendere le decisioni sbagliate. E ora lei sa chi sei. – Lo sa... Sì, lo sa.

La voce di Paul si fece vecchia e carica di proteste sottintese. Tuttavia, c'era ancora una punta di sfida, in lui. Disse: – Ti strapperò via la visione, se potrò farlo. – Migliaia di anni di pace, – replicò Leto. – Ecco cosa darò loro. – Ristagno! Istupidimento! – Naturalmente. E quelle forme di violenza che io permetterò. Sarà una lezione che l'umanità non dimenticherà mai. – Sputo sulla tua lezione! – gridò Paul. – Credi che anch'io non abbia visto un futuro simile a quello che tu hai scelto? – L'hai visto, – ammise Leto. – La tua visione è forse migliore della mia? – Neppure di un atomo. Peggiore, forse, – annuì Leto. – Allora, che cosa posso fare se non resisterti? – chiese Paul. – Uccidermi, forse? – Non sono così ingenuo. So che cosa hai messo in movimento. So dei qanat spezzati e delle sommosse. – E ora Assan Tariq non tornerà mai più a Shuloch. Tu dovrai ritornare con me o non ritornare affatto, poiché adesso questa è la mia visione. – Scelgo di non tornare. Come suona vecchia la sua voce, pensò Leto, e quel pensiero fu per lui un dolore straziante. Disse: – Ho l'anello degli Atreides nascosto nella mia dishdasha. Vuoi che te lo restituisca? – Ah, se fossi morto... – bisbigliò Paul. – Volevo davvero morire quando m'inoltrai nel deserto, quella notte, ma sapevo che non avrei potuto lasciare questo mondo. Dovevo lasciare indietro, e... – ... restaurare la leggenda, – concluse Leto. – Lo so. E gli sciacalli di Jacurutu ti stavano aspettando quella notte come tu sapevi che sarebbe stato. Essi volevano le tue visioni! Tu lo sapevi. – Mi rifiutai. Essi non hanno avuto nessuna visione da me. – Ma essi ti hanno contaminato. Essi ti hanno nutrito di essenza di spezia e ti hanno assediato con donne e sogni. E tu hai avuto visioni. – Qualche volta. – La sua voce suonò sardonica. – Riprenderai il tuo anello col falco? – chiese Leto. Paul all'improvviso si lasciò cadere seduto sulla sabbia, una macchia scura sullo sfondo delle stelle. – No! Così, egli conosce la futilità di quel sentiero, pensò Leto. Ciò rivelava molto, ma non abbastanza. La disputa sulle visioni si era spostata dal piano sottile e delicato delle scelte alla più grossolana operazione di scarto delle

alternative. Paul sapeva di non poter vincere, ma sperava ancora di poter annullare quella singola visione alla quale Leto si aggrappava. Poco dopo, Paul disse: – Sì, sono stato contaminato da Jacurutu. Ma tu hai contaminato te stesso. – È vero, – ammise Leto. – Io sono tuo figlio. – E sei un buon Fremen? – Sì. – Permetterai a un vecchio di poter finalmente andare nel deserto? Mi lascerai cercare la pace alle mie condizioni? – Batté la mano sulla sabbia, accanto a sé. – No, non lo permetterò, – disse Leto. – Ma è nel tuo diritto cadere sopra il tuo coltello, se proprio insisti. – E a te rimarrebbe il mio corpo! – Esatto. – No! Dunque, conosce il sentiero, pensò Leto. La deposizione del corpo di Muad'Dib in un santuario da parte di suo figlio avrebbe potuto esser considerato il consolidamento definitivo della visione di Leto. – Non gliel'hai mai detto, vero, padre? – Non gliel'ho mai detto. – Io, invece, gliel'ho detto, – dichiarò Leto. – A Muriz, l'ho detto. Kralizec, l'uragano ai confini dell'universo. Paul curvò le spalle. – Non puoi, – bisbigliò. – Non puoi. – Ora sono una struttura di questo deserto, padre, – replicò Leto. – Parleresti così a una tempesta di Coriolis? – Mi credi un codardo perché ho rifiutato quel sentiero, – disse Paul, con voce rauca e tremante. – Oh, ti capisco bene, figlio. Auguri ed aruspici sono sempre stati il tormento di se stessi. Ma io non mi sono mai smarrito nei possibili futuri perché questo è... inenarrabile! – Il tuo Jihad sarà un picnic estivo su Caladan in confronto, – assentì Leto. – Ora ti accompagnerò da Gurney Halleck. – Gurney! Egli è al servizio della Sorellanza tramite mia madre. Ora Leto comprese i limiti della visione di suo padre. – No, padre. Gurney non è al servizio di nessuno. So dove trovarlo e posso portarti lì. È tempo che venga creata la nuova leggenda. – Vedo che non posso piegarti. Permetti allora che ti tocchi, poiché tu sei mio figlio. Leto protese la mano destra fino a incontrare quelle dita brancolanti,

sentì la loro forza, la eguagliò e resistette ad ogni spostamento del braccio di Paul. – Neppure un coltello avvelenato può farmi del male, ormai, – disse Leto. – Io appartengo a una chimica diversa. Le lagrime scivolarono giù da quegli occhi ciechi e Paul lasciò la presa, lasciando ricadere la mano sul fianco. – Se avessi scelto la tua strada, sarei diventato il bicouros di shaitan. Che cosa diventerai tu? – Per un po' chiameranno anche me «il missionario di shaitan», – disse Leto. – Poi cominceranno a stupirsi e alla fine capiranno. Non ti sei spinto avanti a sufficienza con la tua visione, padre. Le tue mani hanno fatto cose buone, e malvagie. – Ma il male si è manifestato dopo l'evento! – Questo è il modo di manifestarsi di molti grandi mali, – obiettò Leto. – Tu sei penetrato dentro una sola parte della mia visione. La tua forza non era forse sufficiente? – Non avrei potuto fermarmici, e tu lo sai. Non avrei mai potuto commettere un atto malvagio che mi fosse manifesto prima ancora dell'atto stesso. Io non sono Jacurutu. – Raddrizzò il corpo. – Mi credi uno di quelli che ridono da soli, la notte? – È un peccato che tu non sia mai stato un vero Fremen, – disse Leto. – Noi Fremen sappiamo in qual modo conferire l'incarico all'arifa. I nostri giudici sanno scegliere tra i diversi mali. È sempre stato così per noi. – Fremen, vero? Schiavi del destino che tu hai contribuito a creare. – Paul si protese verso Leto, alzò una mano con un movimento stranamente timido, toccò il suo braccio, lo esplorò fin dove la membrana lasciava scoperto un orecchio, poi la guancia, e infine la bocca. – Ahh, questa è ancora la tua carne, – esclamò. – Dove ti porterà questa carne? – Abbassò la mano. – In un luogo dove gli esseri umani potranno creare il proprio futuro istante per istante. – Tu dici questo. Ma un'Abominazione direbbe lo stesso. – Io non sono un'Abominazione, anche se sarei potuto esserlo, – ribatté Leto. – Ho visto ciò che sta accadendo ad Alia. Un demone vive in lei, padre. Ghani ed io conosciamo quel demone: è il Barone, tuo nonno. Paul si nascose il volto tra le mani. Per un attimo le sue spalle furono scosse da un fremito, poi piegò la testa e strinse le labbra in una linea dura. – C'è una maledizione sulla nostra casa. Ho pregato perché tu gettassi quell'anello sulla sabbia... perché tu mi ricusassi e ti precipitassi via di corsa per cominciare... un'altra vita. Era lì che ti aspettava.

– A quale prezzo? Dopo un lungo silenzio, Paul riprese: – Il fine, lo scopo, determinano il sentiero dietro di sé. Soltanto una volta ho mancato di combattere per i miei princìpi. Soltanto una volta. Accettai il Mahdinato. Lo feci per Chani, ma fui un cattivo capo. Leto scoprì di non poter rispondere a questo. Il ricordo di quella decisione era lì, dentro di lui. – Non posso mentirti più di quanto io possa mentire a me stesso, – aggiunse Paul. – Lo so. Ogni uomo dovrebbe possedere una simile forma di controllo. Ti chiederò soltanto questo: l'Uragano ai confini dell'Universo è davvero necessario? – Questo, o gli uomini si estingueranno. Paul sentì la verità nelle parole di suo figlio. Parlò a bassa voce, riconoscendo la maggiore ampiezza della visione di Leto. – Non vidi questo, fra le scelte possibili. – Credo che la Sorellanza lo sospetti, – annuì Leto. – È l'unica spiegazione che accetto per le decisioni di mia nonna. In quell'istante, il vento della notte cominciò a soffiare gelido intorno a loro. Fece sbattere la veste di Paul intorno alle sue gambe. Il vecchio rabbrividì. Quando vide questo, Leto disse: – Hai il tuo kit, padre. Gonfierò la tenda e potremo passare questa notte confortevolmente. Ma Paul riuscì soltanto a scuotere la testa, ben sapendo che non avrebbe trovato conforto né in quella né in qualunque altra notte. Muad'Dib, l'Eroe, doveva essere distrutto. L'aveva detto egli stesso. Ora soltanto il Predicatore poteva continuare a vivere.

I Fremen furono i primi esseri umani a sviluppare una simbologia conscia/inconscia attraverso la quale afferrare i movimenti e le relazioni del loro sistema planetario. Essi furono il primo popolo a descrivere il clima mediante un linguaggio semi-matematico i cui simboli scritti inglobano (o interiorizzano) i rapporti esterni. Questo linguaggio era parte intrinseca di ciò che descriveva. La sua espressione scritta aveva la forma di ciò che descriveva. Implicita in questo sviluppo era la conoscenza locale, intima, di quanto era disponibile, nell'habitat, per sostentare la vita. Possiamo misurare quanto fosse profonda l'interazione di questo linguaggio/sistema riflettendo sul fatto che i Fremen accettavano di considerare se stessi animali da foraggio e da pascolo. – La Storia di Liet-Kynes di Harq al-Ada

– Kaveh wahid, – disse Stilgar. Porta il caffè. Fece un gesto con la mano a un aiutante in piedi accanto all'unica porta che si apriva sull'austero locale dalle pareti di roccia dove egli aveva passato quella notte insonne. Quello era il luogo dove il vecchio Naib Fremen di solito faceva la sua spartana colazione, e infatti era quasi l'ora della colazione, ma dopo una simile notte Stilgar non aveva fame. Duncan Idaho sedeva su un basso cuscino accanto alla porta. Cercò di sopprimere uno sbadiglio. Si era appena reso conto che l'intera notte era trascorsa, mentre lui e Stilgar parlavano. – Perdonami, Stil, – disse Duncan. – Ti ho tenuto sveglio tutta la notte. – Restare svegli tutta la notte aggiunge un giorno alla tua vita, – replicò Stilgar. Qualcuno sporse il vassoio col caffè attraverso la porta, e lui l'afferrò. Spinse un basso tavolino davanti a Idaho, vi depositò il vassoio e si sedette di fronte al suo ospite. Entrambi gli uomini indossavano la veste gialla del lutto, ma quella di Idaho era stata presa a prestito, quando la gente del sietch si era risentita a causa del verde della sua uniforme di guardia degli Atreides. Stilgar versò l'infuso scuro dalla grossa caraffa di rame, lo sorseggiò per primo, poi sollevò la tazza nell'antico segnale dei Fremen: È sicuro, ne ho bevuto un po'! Il caffè era stato preparato da Harah proprio come piaceva a Stilgar: i chicchi arrostiti fino a diventare rosso-bruni, macinati in una polvere sottile dentro a un mortaio di pietra mentre erano ancora caldi, e subito fatti bollire nell'infuso, aggiungendovi un pizzico di melange. Idaho inspirò l'aroma ricco di spezia, sorseggiò con cautela ma rumorosamente. Ancora non sapeva se era riuscito a convincere Stilgar. Le

sue facoltà di mentat avevano cominciato a funzionare a rilento nelle ore prima dell'alba, tutte le sue computerizzazioni si erano concluse con l'identico, inevitabile risultato, ricavato dal messaggio inviatogli da Gurney Halleck. Alia aveva saputo di Leto! L'aveva saputo! E Javid era senz'altro a parte di questa sua conoscenza. – Devi liberarmi dai tuoi divieti, – esclamò finalmente Idaho, riprendendo la disputa. Stilgar tenne duro: – L'accordo di neutralità esige che io prenda delle decisioni difficili. Ghani, qui, è al sicuro. Come pure tu e Irulan. Ma non ti è permesso spedire messaggi. Riceverne, sì, ma non spedirli. Ho dato la mia parola. – Questo non è il trattamento che di solito si riserva ad un ospite e ad un vecchio amico che ha condiviso i tuoi pericoli, – ribatté Idaho, pur sapendo di essersi già servito prima di questa argomentazione . Stilgar mise giù la tazza, deponendola con cura nel punto esatto del vassoio e tenendo fissi gli occhi su di essa, mentre parlava. – Noi Fremen non ci sentiamo colpevoli delle stesse cose che in altre persone destano simili sentimenti, – dichiarò. Alzò nuovamente gli occhi su Idaho. Bisogna costringerlo a prendere con sé Ghani ed a fuggire da questo posto, pensò Idaho. – Non era mia intenzione scatenare una disputa sulle nostre rispettive coscienze, – replicò. – Capisco, – disse Stilgar. – Ho sollevato io la questione per ribadire l'atteggiamento di noi Fremen, poiché è questo con cui abbiamo a che fare: Fremen. Perfino Alia pensa da Fremen. – E i sacerdoti? – Quelli sono un'altra faccenda, – replicò Stilgar. – Essi vogliono che la gente s'impregni del grigio vento del peccato, portandosi quello nell'eternità. È una pustola, un bubbone, di cui essi vogliono impestare gli altri per dar prova della propria devozione. – Aveva parlato con voce piatta, uniforme, ma Idaho ne avvertì tutta l'amarezza e si chiese come mai tutta questa amarezza non riuscisse a influenzare le decisioni del vecchio Fremen. – È un vecchio, vecchissimo espediente del governo autocratico, – disse Idaho. – Alia lo conosce bene. I buoni sudditi devono sentirsi colpevoli. Il senso di colpa comincia come una sensazione di fallimento. Il buon autocrate dà molte opportunità di fallimento al suo popolo. – L'ho notato più volte, – replicò, asciutto, Stilgar. – Ma devi

perdonarmi se ti ripeto ancora una volta che stai parlando di tua moglie. È la sorella di Muad'Dib. – È posseduta, ti dico! – Molti lo dicono. Un giorno dovrà sottomettersi alla prova. Nel frattempo, ci sono altre considerazioni più importanti. Idaho scosse tristemente la testa. – Tutto ciò che ti ho detto può essere controllato. Le comunicazioni con Jacurutu sono sempre avvenute attraverso il Tempio di Alia. Il complotto contro i gemelli contava dei complici là dentro. Il denaro ricavato dalla vendita di vermi fuori del pianeta finisce lì. Tutti i fili conducono ad Alia, e alla Reggenza. Stilgar scosse la testa, respirò profondamente. – Questo è un territorio neutrale. Ho dato la mia parola. – Le cose non possono continuare così! – protestò Idaho. – Sono d'accordo. – Stilgar annuì. – Alia è intrappolata in un cerchio che ogni giorno diventa più stretto. Come la nostra antica abitudine di avere molte mogli. Questo illumina la sterilità del maschio. Lanciò un'occhiata interrogativa a Idaho. – Hai detto che lei ti tradisce con altri uomini... «usando il suo sesso come un'arma», è il modo, mi sembra, in cui tu ti sei espresso. Allora, tu hai a disposizione una via perfettamente legale. Javid è qui a Tabr con dei messaggi da parte di Alia. Devi soltanto... – Sul tuo territorio neutrale? – No, ma fuori nel deserto... – E se cogliessi quell'occasione per fuggire? – Non ti verrà data una simile occasione. – Stil, te lo giuro, Alia è posseduta. Che cosa devo fare per convincerti che... – Una cosa difficile a provarsi, – l'interruppe Stilgar. Era l'argomentazione di cui si era servito molte volte durante la notte. Idaho ricordò le parole di Jessica e disse: – Ma tu hai un modo per provarlo. – Un modo, sì, – annuì Stilgar. Scosse nuovamente la testa. – Doloroso, irrevocabile. Per questo, ora voglio ricordarti come noi ci comportiamo nei confronti dei nostri atti. Noi neghiamo ogni nostro senso di colpa, in quanto esso potrebbe distruggerci, fuorché per quanto riguarda la Prova della Possessione. In questo specifico caso il tribunale, che è tutto il popolo, accetta la più completa responsabilità. – L'hai fatto altre volte, non è vero?

– Sono convinto che la Reverenda Madre non ha omesso la nostra storia nel suo esposto, – disse Stilgar. – Sai bene che l'abbiamo fatto altre volte. Idaho reagì al tono irritato di Stilgar: – Non stavo cercando d'intrappolarti in una falsità. È soltanto che... – La notte è stata lunga, e le domande senza risposta, – l'interruppe Stilgar. – Ora è il mattino. – Devi concedermi il permesso d'inviare un messaggio a Jessica, – insisté Idaho. – Sarebbe un messaggio a Salusa, – commentò Stilgar. – Io non faccio promesse vane. Quando ho dato la mia parola, la mantengo: per questo Tabr è un territorio neutrale. No, tu rispetterai il silenzio. Mi sono impegnato a farlo a nome di tutta la mia casa. – Alia dev'essere sottoposta alla vostra Prova! – Forse. Ma per prima cosa dobbiamo scoprire se esistono circostanze attenuanti. Un pessimo uso dell'autorità, magari. O perfino sfortuna. Potrebbe trattarsi semplicemente di quella naturale tendenza alla cattiveria che tutti gli esseri umani condividono, e niente affatto una possessione. – Tu vuoi essere certo che io non sia il marito maltrattato che cerca di conseguire la sua vendetta attraverso qualcun altro, – replicò Idaho. – Qualcun altro l'ha pensato, non io, – rispose Stilgar. Sorrise, per togliere ogni asprezza alle sue parole. – Noi Fremen abbiamo la nostra scienza della tradizione, la nostra hadith, e ad essa facciamo ricorso quando temiamo un mentat o una Reverenda Madre. Si dice che l'unica paura che noi non possiamo dominare sia la paura dei nostri errori. – Lady Jessica dev'essere informata, – insisté Idaho. – Gurney dice che... – Quel messaggio potrebbe non provenire da Gurney Halleck. – Non può provenire da nessun altro. Noi Atreides abbiamo i nostri sistemi per verificare l'autenticità dei messaggi. Stil, non vorresti controllare almeno alcuni dei... – Jacurutu non esiste più, – affermò, reciso, Stilgar. – È stata distrutta molte generazioni or sono. – Toccò il braccio di Idaho. – In ogni caso, non posso privarmi di nessun guerriero. Questi sono giorni turbolenti, la minaccia al qanat... capisci? – Si ritrasse. – Ora, quando Alia... – Non esiste più nessuna Alia, – esclamò Idaho. – Così dici tu. – Stilgar inghiotti un altro sorso di caffè e rimise la tazza sul vassoio. – Ma ora fermiamoci qui, amico Idaho. Per togliere una scheggia, è raro che si debba strappar via tutto il braccio. – Allora parliamo di Ghanima.

– Non ce n'è bisogno. Ghanima ha la mia protezione, il mio impegno. Nessuno può farle del male in questo luogo. Non può essere così ingenuo, pensò Idaho. Ma Stilgar si stava alzando in piedi, a indicare che il colloquio era finito. Anche Idaho si alzò, le ginocchia e i polpacci intorpiditi. In quel preciso istante, un inserviente entrò e si fece da parte. Javid fece il suo ingresso nella stanza dietro di lui. Idaho si voltò. Stilgar era a quattro passi di distanza. Fulmineamente, Idaho estrasse il pugnale e lo conficcò nel petto dell'ignaro Javid. Questi fece un mezzo giro su se stesso e stramazzò a terra bocconi. Scalciò con le gambe e giacque morto. – Questo per tappare la bocca ai pettegolezzi, – disse Idaho. L'inserviente, che istintivamente aveva sguainato il cryss, restò immobile, incerto sul da farsi. Idaho, aveva già rinfoderato il pugnale, macchiando di sangue l'orlo della sua veste gialla. – Hai insozzato il mio onore! – urlò Stilgar. – Questo è territorio neutrale e... – Taci! – Idaho fissò ferocemente il Naib sconvolto. – Tu porti un guinzaglio Stilgar! Era uno dei tre insulti mortali che si potevano rivolgere a un Fremen. Stilgar impallidì. – Sei un servo, – esclamò Idaho. – Hai venduto l'acqua dei tuoi fratelli Fremen! Questo era il secondo, fra gli insulti mortali... ciò che aveva portato alla distruzione di Jacurutu. Stilgar digrignò i denti e portò una mano al cryss; l'inserviente arretrò, scostandosi dal cadavere sulla soglia. Voltando la schiena al Naib, Idaho si apprestò ad uscire, infilandosi nello stretto spazio lasciato libero dal cadavere di Javid, e senza voltarsi pronunciò il terzo insulto: – Tu non possiedi l'immortalità, Stilgar. Nessuno dei tuoi discendenti porta il tuo sangue! – Dove stai andando ora, mentat? – gridò Stilgar, mentre Idaho continuava a scivolar fuori. La sua voce risuonò gelida come il vento del polo. – A cercare Jacurutu, – disse Idaho, senza voltarsi. Stilgar sguainò il pugnale: – Forse posso aiutarti. Ora Idaho era quasi del tutto fuori della stanza. Senza fermarsi, replicò: – Se vuoi aiutarmi col tuo pugnale, ladro d'acqua, per favore conficcalo nella mia schiena. È il modo migliore, da parte di chi è tenuto al guinzaglio

da un demonio. Con due balzi, Stilgar attraversò la stanza, scavalcò il corpo di Javid e afferrò Idaho, ormai nel corridoio esterno. Con la sua mano scarna e deforme costrinse Idaho a voltarsi e l'affrontò, digrignando i denti, col pugnale snudato. Tale era la sua ira che Stilgar neppure vide lo strano sorriso sul volto di Idaho. – Sfodera il tuo pugnale, feccia d'un mentat! – ruggì Stilgar. Idaho scoppiò a ridere, colpì Stilgar con due schiaffi, uno sulla guancia destra, l'altro sulla sinistra. Digrignando i denti, con un urlo incoerente, Stilgar cacciò il coltello nell'addome di Idaho, spingendo verso l'alto la lama attraverso il diaframma e dentro il cuore. Idaho si afflosciò sulla lama, sorrise a Stilgar, la cui rabbia si dissolse in un improvviso sbigottimento. – Morto due volte per gli Atreides, – farfugliò Idaho. – E la seconda per una ragione non migliore della prima. – Barcollò di lato, crollando bocconi sul pavimento di pietra. Il sangue gli uscì copioso dalla ferita. Stilgar fisso il corpo esanime, oltre il pugnale grondante sangue, e ansimò, in preda a un tremito. Javid giaceva morto dietro di lui. E il consorte di Alia, l'Utero del Cielo, giaceva morto per mano di Stilgar. Si sarebbe potuto affermare che un Naib aveva semplicemente protetto l'onore del suo nome, vendicando la minaccia alla neutralità solennemente promessa. Ma quel morto era Duncan Idaho. Nessuna argomentazione, nessuna «circostanza attenuante» avrebbe contato, niente poteva cancellare un simile atto. Anche se Alia l'avesse approvato privatamente, sarebbe stata costretta a reagire pubblicamente per vendicarsi. Dopotutto, era una Fremen. Per governare dei Fremen non avrebbe potuto esser altro, neppure un poco. Soltanto allora Stilgar si rese conto che questa situazione era appunto ciò che Idaho aveva voluto garantirsi con la sua «seconda morte». Alzò gli occhi e vide la faccia sconvolta di Harah, la sua seconda moglie, che lo fissava tra la folla che gli si accalcava intorno. Dovunque Stilgar si voltasse, c'erano volti con l'identica espressione, sconvolti e consapevoli delle conseguenze. Lentamente, Stilgar si risollevò, asciugò la lama sulla manica e la reinfilò nel fodero. Quindi, in tono quasi indifferente, disse: – Quelli che verranno con me devono prepararsi immediatamente a partire. Mandate degli uomini a chiamare i vermi.

– Dove andrai, Stilgar? – chiese Harah. – Nel deserto. – Verrò con te, – disse lei. – Certo che lo farai. Tutte le mie mogli verranno con me. E Ghanima. Valla a prendere, Harah. Subito. – Sì, Stilgar... subito. – Esitò. – E Irulan? – Se lo desidera. – Sì, mio sposo. – Esitò ancora. – Porti con te Ghani come ostaggio? – Ostaggio? – Stilgar fu sinceramente sbalordito da quell'idea. – Donna... – Toccò con la punta del piede il corpo di Idaho. – Se questo mentat aveva ragione, io sono l'unica speranza di Ghani. – E ricordò l'avvertimento di Leto: Guardati da Alia. Prendi Ghani e fuggi.

Dopo l'esperienza dei Fremen, tutti i planetologi considerano la vita una manifestazione di energia e indagano sui rapporti fra le varie parti. Briciole, frammenti di scoperte, porzioni sempre più grandi, crescono fino a fondersi in una generale comprensione, la saggezza razziale dei Fremen si traduce in una nuova certezza. Ciò che hanno i Fremen come popolo, qualunque altro popolo può avere. È necessario, soltanto, sviluppare un senso particolare per questi rapporti energetici. Osservare che l'energia ingloba gli schemi delle cose e costruisce servendosi di quegli schemi. – La Catastrofe di Arrakeen secondo Harq al-Ada

Era Sietch Tuek, sulla parete interna del Falso Muro. Halleck era fermo all'ombra del contrafforte roccioso che proteggeva l'alto ingresso al sietch, aspettando che la gente là dentro decidesse se offrirgli rifugio. Girò lo sguardo verso l'esterno, in direzione del deserto settentrionale, e poi alzò gli occhi a fissare il cielo grigio-azzurro del mattino. I contrabbandieri che vivevano lì erano rimasti sbalorditi quando avevano appreso che lui, un uomo venuto da un altro pianeta, aveva catturato un verme e l'aveva cavalcato. Ma Halleck era rimasto ugualmente sbalordito dalla loro reazione: cavalcare un verme era facile, per un uomo agile che l'aveva tante volte visto fare. Halleck riportò la sua attenzione sul deserto, il deserto argenteo chiazzato di rocce scintillanti e campi verde-grigi dove l'acqua aveva operato la sua magia. E all'improvviso tutto questo gli apparì come un serbatoio di energia vitale terribilmente fragile: sempre alla mercè di un improvviso cambiamento nello schema evolutivo. Halleck sapeva il perché di questa reazione interiore. Essa era suscitata dall'attività frenetica che si stava dispiegando sulla superficie del deserto sotto di lui. Contenitori a rotelle pieni di trote morte venivano trasportati dentro il sietch per distillare e recuperare la loro acqua. C'erano migliaia di quelle creature. Esse erano giunte a causa d'uno spandimento d'acqua. Ed era appunto questa fuoruscita che aveva fatto galoppare la mente di Halleck. Halleck aguzzò lo sguardo attraverso i campi del sietch e il confine del qanat dove non scorreva più la preziosa acqua. Aveva visto le brecce nelle pareti di pietra del qanat, le lacerazioni nel rivestimento roccioso, attraverso le quali l'acqua si era riversata sulla sabbia. Che cosa aveva provocato quegli squarci? Alcuni si estendevano per oltre venti metri lungo i tratti più vulnerabili del qanat, là dove il pendio sabbioso portava a depressioni in grado di risucchiare l'acqua da una vasta zona. In queste

depressioni pullulavano le trote delle sabbie. I bambini del sietch si affaccendavano a catturarle e a ucciderle. Squadre di tecnici stavano lavorando a riparare le pareti frantumate del qanat. Altri trasportavano minime quantità d'acqua per irrigare le piante più deperibili. La sorgente dell'acqua nel gigantesco serbatoio sotto la trappola a vento di Tuek era stata chiusa, impedendo che l'acqua continuasse a scorrere nel qanat fracassato. Le pompe a energia solare erano state disinnescate. L'acqua per l'irrigazione proveniva ora da pozze che andavano sempre più rimpicciolendosi sul fondo del qanat e, mediante un faticoso lavoro di trasporto, dalla cisterna all'interno del sietch. L'intelaiatura metallica del sigillo dell'ingresso del sietch crepitava, adattandosi al calore crescente del giorno. Come se questo suono avesse il potere di potenziare i suoi occhi, lo sguardo di Halleck fu attratto dalla curva più lontana del qanat, il punto dove l'acqua con più irriverente abbondanza era colata via nel deserto. I pianificatori del sietch, sognando lussureggianti giardini, avevano piantato un albero che era condannato a una rapida morte a meno che un abbondante rifornimento idrico non fosse stato ripristinato al più presto. Halleck fissò lo stupido agitarsi di quelle fronde, il verdeggiante strisciare del salice già fatto a brandelli dalla sabbia e dal vento. Per lui quell'albero simboleggiava la nuova realtà per se stesso, e per Arrakis. Qui siamo entrambi alieni. All'interno del sietch stavano impiegando molto tempo per la loro decisione, ma un uomo in gamba, capace di combattere, avrebbe loro fatto comodo. I contrabbandieri avevano sempre bisogno di uomini in gamba. Tuttavia, Halleck non si faceva illusioni su di essi. I contrabbandieri di oggi non erano quelli di molti anni prima, che gli avevano dato rifugio quando lui era fuggito, alla distruzione del feudo del suo Duca. No, quelli erano una nuova razza, interessati soltanto al profitto. Ancora una volta Halleck si concentrò su quello stupido salice. E gli venne in mente che i venti tempestosi di quella nuova realtà avrebbero potuto fare a brandelli quei contrabbandieri e i loro amici, distruggere Stilgar con la sua fragile neutralità e trascinare con sé tutte le tribù rimaste fedeli ad Alia. Essi sarebbero tutti diventati una colonia. Halleck l'aveva visto accadere altre volte, ne aveva assaporato l'amaro sapore sul suo mondo natio. Lo predisse chiaramente, vista l'affettazione dei Fremen di città e dei sobborghi, e il modo inequivocabile di comportarsi dei Fremen dei sietch rurali, che arrivava perfino a influenzare i contrabbandieri che

vivevano in quel nascondiglio. I distretti rurali erano vere e proprie colonie dei centri urbani. Avevano fin troppo bene imparato ad accettare quel morbido giogo, indotti a farlo dalla loro cupidigia se non dalla superstizione. Perfino qui, specialmente qui, l'atteggiamento della gente era quello di una popolazione sottomessa, e non di uomini liberi. Erano sulla difensiva, evasivi, qualunque manifestazione di autorità suscitava mormorii e risentimento; qualunque autorità: la Reggenza, Stilgar, il loro stesso consiglio... Non posso fidarmi di loro, pensò Halleck. Lui poteva soltanto servirsi di loro e alimentare i sospetti che nutrivano verso altri. Triste cosa. L'antico dare e prendere dei Fremen era scomparso. Le tradizioni erano vuote parole rituali, la memoria aveva smarrito le loro origini. Alia aveva fatto bene il suo lavoro, punendo gli avversari e premiando gli alleati, spostando le forze imperiali a casaccio, celando gli elementi più importanti del suo potere imperiale. Le spie! Dèi sotterranei, quante spie doveva avere! Halleck poteva quasi vedere il gioco mortale delle mosse e contromosse grazie alle quali Alia sperava di mantenere sempre sbilanciati i suoi avversari. Se i Fremen non si sveglieranno, vincerà, pensò Halleck. Il sigillo dell'ingresso dietro di lui scricchiolò quando venne aperto. Un inserviente del sietch chiamato Melides ne emerse. Era un uomo basso, con un corpo simile a una zucca che si restringeva in un paio di gambe sottili. La tuta distillante accentuava ancora di più la sua bruttezza. – Sei stato accettato, – annunciò Melides. Ma Halleck percepì la simulazione nel tono sornione della sua voce. Ciò che quella voce rivelava disse ad Halleck che a Tuek avrebbe trovato asilo per un periodo assai limitato di tempo. Il tempo necessario a rubare uno dei loro ornitotteri, pensò. – La mia gratitudine al vostro Consiglio, – dichiarò. E pensò a Esmar Tuek, dal quale quel sietch aveva preso il nome. Esmar, morto da tempo per la perfidia di qualcuno, avrebbe tagliato sull'istante la gola a quel Melides.

Qualunque sentiero che restringa le possibilità future può diventare una trappola mortale. Gli esseri umani non cercano la propria strada attraverso un labirinto; essi scrutano un ampio orizzonte pieno di insostituibili opportunità. La visuale più restrittiva offerta dal labirinto dovrebbe piacere soltanto a creature che tengono la testa affondata nella sabbia. Le singolarità e le differenze ottenute tramite la riproduzione sessuata costituiscono la garanzia della sopravvivenza per una specie. – Manuale della Gilda Spaziale

– Perché non provo alcun dolore? – Alia rivolse la domanda al soffitto della sua piccola sala delle udienze, una stanza che poteva essere attraversata in dieci passi in una direzione, e in quattordici nell'altra. Due finestre alte e strette spaziavano sui tetti di Arrakeen fino al Muro Scudo. Era quasi mezzogiorno. Il sole ardeva sul bacino dentro il quale era stata edificata la città. Alia abbassò lo sguardo su Buer Agarves, il tabrita di un tempo, ora diventato l'aiutante di Zia, che comandava le guardie del Tempio. Era stato Agarves a portare la notizia che Javid e Idaho erano morti. Una folla di sicofanti, inservienti e guardie erano entrati con lui, e altri ancora si accalcavano fuori della porta, rivelando, con questo, di conoscere già il contenuto del messaggio. Le cattive notizie viaggiavano in fretta, su Arrakis. Questo Agarves era un uomo piccolo, con una faccia un po' troppo tonda per un Fremen, quasi infantile. Era uno della nuova razza, uno di coloro che si erano ingrassati con l'acqua. Alia lo vedeva come formato da due immagini sovrapposte: una, il volto serio e due occhi d'un indaco intenso, una smorfia preoccupata sulla bocca; l'altra, un'immagine vulnerabile al punto da essere eccitante. Le piacevano soprattutto le labbra grosse. Benché non fosse ancora mezzogiorno, Alia percepì nel silenzio sbigottito intorno a lei qualcosa che sapeva di tramonto. Idaho avrebbe dovuto morire al tramonto, si disse. – Come mai, Buer, sei tu il portatore di questa notizia? – gli chiese, e l'espressione di lui si fece subito guardinga. Agarves cercò d'inghiottire e parlò con voce roca, bisbigliando appena: – Avevo accompagnato Javid, non ricordi? E quando Stilgar mi ha... mandato da te, mi ha detto di dirti che io ti avrei riferito la sua ultima obbedienza. – Ultima obbedienza? – lei gli fece eco. – Che cosa voleva dire con ciò? – Non lo so, Lady Alia, – protestò lui.

– Ripetimi di nuovo ciò che hai visto, – gli ordinò, e si chiese perché mai la pelle di Agarves le sembrasse così fredda. – Ho visto... – Mosse su e giù la testa, nervosamente, fissando il pavimento davanti ad Alia. – Ho visto il Sacro Consorte morto sul pavimento del corridoio centrale, e Javid morto lì accanto. Le donne li stavano già preparando per l'huanui. – Ed è stato Stilgar a chiamarti? – Sì, mia Signora. Stilgar mi ha chiamato. Ha mandato Modibo, il suo portaordini gobbo nel sietch. Modibo non mi preavvertì in alcun modo. Mi disse semplicemente che Stilgar voleva vedermi. – E tu hai visto il corpo di mio marito lì sul pavimento? Agarves incontrò gli occhi di Alia con uno sguardo fugace e riportò la sua attenzione sul pavimento di fronte a lei, prima di annuire. – Sì, mia Signora. E Javid, morto, lì accanto. Stilgar mi ha detto... mi ha detto che il Sacro Consorte aveva trucidato Javid. – E mio marito? Tu hai detto che Stilgar... – Me l'ha detto con la sua stessa bocca, mia Signora. Stilgar mi ha detto di essere stato lui a farlo. Ha detto che il Sacro Consorte aveva provocato la sua ira. – Ira, – ripeté Alia. – E in qual modo? – Non me l'ha detto. Nessuno l'ha detto. Ho chiesto in giro, ma nessuno... – È stato allora che sei stato mandato da me con la notizia? – Sì, mia Signora. – Non c'era niente che tu potessi fare? Agarves s'inumidì le labbra, poi spiegò: – È stato Stilgar a ordinarlo, mia Signora. Era il suo sietch. – Capisco. E tu obbedisci sempre a Stilgar. – L'ho sempre fatto in passato, mia Signora, fino al giorno in cui mi sciolse dal mio obbligo. – Quando fosti mandato al mio servizio, vuoi dire? – Ora obbedisco soltanto a te, mia Signora. – Davvero? Dimmi, Buer, se ti ordinassi di uccidere Stilgar, il tuo vecchio Naib, lo faresti? Agarves la fissò negli occhi, con fermezza: – Se tu l'ordinassi, mia Signora. – Questo, ora, io ti ordino: uccidi Stilgar! Hai nessuna idea di dove sia andato?

– Nel deserto. È tutto quello che so, mia Signora. – Quanti uomini ha portato con sé? – Circa la metà degli effettivi. – E Ghanima e Irulan con lui? – Sì, mia Signora. Tutti quelli che sono partiti si trovano impacciati dalle donne, dai loro bambini e dal bagaglio. Stilgar ha dato a tutti una scelta: andare con lui, o esser liberi da ogni obbligo con lui. Molti hanno scelto di esser liberi. Sceglieranno un nuovo Naib. – Sceglierò io il loro nuovo Naib! E quello sarai tu, Buer Agarves, il giorno in cui mi porterai la testa di Stilgar. Com'era nelle tradizioni dei Fremen, Agarves poteva accettare una elezione attraverso un confronto armato. Per cui rispose: – Come ordini, mia Signora. Quanti uomini posso... – Prendi gli accordi con Zia. Non posso darti molti ornitotteri per la ricerca. Sono necessari altrove. Ma avrai guerrieri a sufficienza. Stilgar ha oltraggiato il mio onore. Molti saranno lieti di porsi al tuo servizio. – Mi metterò immediatamente all'opera, mia Signora. – Aspetta! – Lo studiò per qualche istante, riflettendo su chi avrebbe potuto affiancare a quel vulnerabile individuo grassoccio, per controllarlo. Era indispensabile controllarlo da vicino, finché non avesse confermato la fiducia riposta in lui. Zia avrebbe saputo chi mandare. – Non mi hai congedato, mia Signora? – Non ti ho congedato. Devo discutere privatamente con te, e a lungo, i tuoi piani per catturare Stilgar. – Portò una mano al viso. – Non mi mostrerò afflitta finché non sarà stata pagata la mia vendetta. Dammi pochi minuti per ricompormi. Riabbassò la mano. – Una delle mie assistenti ti mostrerà la strada. – Aveva fatto un gesto impercettibile con la mano a una delle sue assistenti, bisbigliando nel contempo a Shalus, la sua nuova Dama di Camera: – Fallo lavare e profumare prima di condurlo dentro. Puzza di verme. – Sì, padrona. Quindi Alia si voltò, fingendo un dolore che non provava, e fuggì nelle sue stanze private. Quando fu nella sua camera da letto, si chiuse con un tonfo la porta dietro le spalle, pestando i piedi per terra. Dannazione a quel Duncan! Perché? Perché? Perché? Sentiva una deliberata provocazione da parte di Idaho. Egli aveva trucidato Javid e provocato Stilgar. Ciò significava che sapeva tutto di Javid. Ciò che era accaduto doveva esser preso come un messaggio da

parte di Duncan Idaho. un gesto conclusivo. Picchiò nuovamente i piedi per terra e cominciò a camminare su e giù per la stanza in preda alla collera. Dannazione a lui! Dannazione a lui! Dannazione a lui! Stilgar passato ai ribelli, e Ghanima con lui. E anche Irulan. Maledizione a tutti loro! Pestando i piedi per terra colpì un oggetto metallico che le strappò un grido di dolore. Guardò in basso e scoprì di aver urtato violentemente una fibbia metallica. Si chinò di scatto a raccoglierla, e restò come pietrificata quando la riconobbe. Era un'antica fibbia d'argento e platino originaria di Caladan, data un giorno in premio dal Duca Leto Atreides I al suo maestro di spada, Duncan Idaho. Lei l'aveva vista molte volte portata da Duncan Idaho. Il quale l'aveva gettata proprio lì in quel punto. Alia strinse convulsamente le dita sulla fibbia. Idaho l'aveva lasciata lì quando... quando... Le lagrime le sgorgarono dagli occhi, nonostante il rigido condizionamento dei Fremen. La sua bocca s'irrigidì in una smorfia, e Alia sentì la battaglia di sempre scatenarsi nel suo cranio, travolgendola fino alla punta delle dita delle mani e dei piedi. Sentì di esser diventata due persone. Una di esse osservava con stupore quei contorcimenti della carne. L'altra cercava di rassegnarsi all'immenso dolore che le si diffondeva nel petto. Ora le lagrime le colarono liberamente dagli occhi, e la Stupita dentro di lei le chiese, in tono lamentoso: – Chi piange? Chi è che piange? Chi piange adesso? Ma niente fermò le lagrime, e Alia sentì la sofferenza bruciarle nel petto, mentre le scuoteva tutto il corpo e la faceva crollare sul letto. Qualcosa, in preda a un profondo stupore, chiedeva ancora: – Chi piange. Chi è che...

Con queste azioni Leto II tolse se stesso dalla successione evolutiva. Lo fece con un taglio netto, deliberato, affermando: «Essere indipendenti significa esser tagliati fuori.» Entrambi i gemelli non avevano bisogno della memoria per conoscere la loro distanza dalle origini umane. Ma fu lasciato a Leto II il compito di compiere l'atto audace, riconoscendo che una vera creazione è indipendente dal proprio creatore. «Anche questo mi conduce sempre più lontano dall'umanità.» Egli vide le implicazioni di questo: che la vita non può essere un sistema completamente chiuso. – La Sacra Metamorfosi di Harq al-Ada

Numerosi uccelli prosperavano cibandosi degli insetti che pullulavano nella sabbia umida oltre il qanat fracassato: pappagalli, gazze, ghiandaie. Quella era stata una djedida, l'ultima delle nuove città, edificata su un affioramento di basalto. Adesso era abbandonata. Ghanima, utilizzando le ore del mattino per esplorare l'area oltre le piantagioni del sietch abbandonato, colse, un movimento, e vide un geco striato. Poco prima le era capitato di sorprendere un picchio-gila che aveva fatto il nido in una parete di fango della djedida. Lei pensava a quella città come a un sietch, ma in realtà si trattava di un raggruppamento di basse pareti fatte di mattoni di fango, circondata da piantagioni che imbrigliavano le dune. La città era all'interno del Tanzerouft, seicento chilometri a sud della catena di Sihaya. Senza mani umane che lo mantenessero in efficienza, il sietch stava già cominciando a fondersi nuovamente col deserto, le pareti erose dalle raffiche di sabbia, le piante morenti, il terreno delle piantagioni screpolato dal sole cocente. Eppure la sabbia oltre il qanat fracassato restava umida, mostrando che il tozzo congegno della trappola a vento funzionava ancora. Nei mesi trascorsi dal giorno della fuga da Tabr, essi avevano trovato rifugio in numerosi posti come quello, resi inabitabili dal Demone del Deserto. Ghanima non credeva nel Demone del Deserto, anche se non poteva negare la prova tangibile della distruzione del qanat. Di tanto in tanto essi ricevevano notizie provenienti dagli insediamenti settentrionali, dai rari incontri con i cercatori di spezia. Alcuni ornitotteri – qualcuno diceva che non fossero più di sei – stavano compiendo voli di ricerca alla caccia di Stilgar, ma Arrakis era grande, e il deserto era amico nei confronti di chi fuggiva. Effettivamente, era stata organizzata una vera e propria spedizione cerca-e-distruggi, per scovare e massacrare il gruppo di Stilgar, ma la spedizione, guidata dall'ex tabrita Buer Agarves, aveva anche altri compiti

da assolvere e spesso ritornava ad Arrakeen. I ribelli affermavano che c'erano pochi combattimenti fra i loro uomini e le truppe di Alia. I saccheggi eseguiti a caso dal Demone del Deserto facevano sì che la prima preoccupazione di Alia e dei Naib fosse l'attività di difesa e ripristino da parte della Milizia Territoriale. Anche i contrabbandieri avevano avuto le loro difficoltà, ma si diceva che stessero a loro volta setacciando il deserto alla ricerca di Stilgar, resi avidi dalla taglia sulla sua testa. Stilgar aveva condotto il suo gruppo nella djedida il giorno prima, sul far della notte, seguendo col suo vecchio naso Fremen l'infallibile traccia dell'umidità. Aveva promesso che molto presto si sarebbero diretti a sud, verso i palmizi, ma si era rifiutato di fissare una data precisa. Nonostante vi fosse una taglia sulla sua testa – una taglia che un tempo sarebbe stata sufficiente a comperare un pianeta – Stilgar sembrava il più felice e spensierato degli uomini. – Questo è un buon posto per noi, – aveva detto, indicando la trappola a vento ancora funzionante. – I nostri amici ci hanno lasciato un po' d'acqua. Erano ridotti, adesso, a una sessantina di persone. I vecchi, i malati e i giovanissimi erano stati allontanati dal gruppo e fatti infiltrare a sud, nei palmizi, accolti da famiglie fidate. Erano rimasti soltanto i più duri, e questi avevano molti amici a nord e a sud. Ghanima si chiese perché Stilgar si rifiutasse di discutere ciò che stava accadendo al pianeta. Possibile che non vedesse? Man mano i qanat venivano frantumati, i Fremen tendevano a ritornare nei territori a nord e a sud che già un tempo erano da essi abitati. Questo movimento indicava fin troppo chiaramente ciò che stava accadendo all'impero. Una situazione era lo specchio dell'altra. Ghanima si passò una mano sotto il colletto della tuta e lo slacciò. Nonostante tutte le sue preoccupazioni, si sentiva libera come non mai, laggiù. Le vite interiori non la tormentavano più, anche se a volte sentiva quei ricordi inserirsi nella sua coscienza. Lei sapeva, da quei ricordi, che cos'era stato, un tempo, il deserto, prima dell'opera di trasformazione ecologica. Prima di tutto, era molto più asciutto. Quella trappola a vento funzionava ancora, anche se non in perfette condizioni, perché l'aria che risucchiava era molto più umida. Molte creature che un tempo avevano evitato quel deserto, ora osavano viverci. Molti, del gruppo, avevano mostrato meraviglia per il numero di gufi diurni che proliferavano laggiù. E Ghanima, in quell'istante, vide un gruppo di uccelli-formica. Si

agitavano, danzando, lungo le file d'insetti che sciamavano sulla sabbia umida, all'estremità del qanat fracassato. Intravvide pochi tassi, là fuori, ma i topi-canguro balzavano dovunque. Una paura superstiziosa dominava i nuovi Fremen, e Stilgar non era migliore degli altri. Quella djedida era stata restituita al deserto dopo che il qanat era stato squarciato per la quinta volta in undici mesi. Quattro volte erano state riparate le devastazioni provocate dal Demone del Deserto, poi non vi era stata più acqua sufficiente per rischiare una nuova perdita. Lo stesso era accaduto in tutte le djedida e in molti dei vecchi sietch. Otto su nove dei nuovi insediamenti erano stati abbandonati. Molte delle più antiche comunità sietch erano affollate come non mai. E mentre il deserto affrontava una nuova fase, i Fremen tornavano alle antiche tradizioni. Essi vedevano presagi dovunque. I vermi erano sempre più scarsi, fuorché nel Tanzerouft. Era la punizione di Shai-hulud! Ed erano stati visti dei vermi morti senza che si potesse dir nulla sulle cause della loro morte. Essi ridiventavano rapidamente polvere, ma quelle carcasse sbriciolate in cui i Fremen s'imbattevano di tanto in tanto riempivano di terrore gli uomini del deserto. Il gruppo di Stilgar aveva incontrato una di queste carcasse il mese prima, e ci erano voluti quattro giorni perché si scuotessero di dosso la sensazione di qualcosa di malefico. La carcassa puzzava di putrefazione acida e velenosa. Era stata trovata in cima a un gigantesco rigurgito di spezia, quest'ultima per la maggior parte guasta. Ghanima distolse gli occhi dal qanat e girò nuovamente la testa verso la djedida. Proprio di fronte a lei si ergeva un muro spezzato che un tempo aveva protetto una mushtamal, un piccolo giardino interno. Lei aveva esplorato lì intorno, fiduciosa nella propria curiosità, e aveva trovato in un contenitore di pietra alcune gallette di pane di spezia non lievitato. Stilgar l'aveva distrutto, dichiarando: – I Fremen non abbandonerebbero mai del buon cibo. Ghanima non era di questo avviso, ma aveva ritenuto che non valesse la pena mettersi a discutere o di correre il rischio per così poco. I Fremen stavano cambiando. Un tempo essi si spostavano liberamente attraverso il bled, spinti dalle necessità naturali: l'acqua, la spezia, il commercio. Le attività degli animali erano state il loro segnale d'allarme. Ma ora gli animali agivano secondo ritmi nuovi e strani, mentre la maggior parte dei Fremen si rincantucciavano nelle antiche tane-caverne, al riparo del Muro Scudo. I cacciatori di spezia nel Tanzerouft si erano fatti rari, e soltanto la

banda di Stilgar si spostava secondo le antiche tradizioni. Ghanima si fidava di Stilgar e del suo timore di Alia. Adesso Irulan dava ancora più forza alle sue argomentazioni, citando strani aforismi del Bene Gesserit. Ma sul lontano Salusa, Farad'n viveva ancora. Un giorno si sarebbe dovuti venire alla resa dei conti. Ghanima alzò lo sguardo verso il cielo del mattino, grigio-argento, cercando una risposta nella sua mente. Dove avrebbe potuto trovare aiuto? Dove poteva esserci qualcuno disposto ad ascoltare, quando lei avesse rivelato ciò che vedeva accadere tutto intorno a loro? Lady Jessica si trovava su Salusa, se si doveva credere ai rapporti. E Alia era una creatura su un piedestallo, impegnata soltanto ad essere gigantesca, colossale, mentre si allontanava sempre più dalla realtà. Gurney Halleck... dov'era mai? Tutti riferivano di averlo visto, ma non si riusciva a trovarlo. Il Predicatore si era eclissato, e le sue declamazioni eretiche erano soltanto un ricordo sbiadito. E Stilgar. Ghanima guardò oltre il muro spezzato, dove Stilgar stava dando una mano a riparare la cisterna. Stilgar godeva del suo ruolo di primula rossa del deserto, mentre il prezzo della sua taglia aumentava ad ogni mese. Niente aveva più senso. Niente. Chi era questo Demone del Deserto, questa creatura capace di distruggere un qanat dopo l'altro, come se fossero falsi idoli da rovesciare sulla sabbia? Era forse un verme randagio? Era forse una terza forza ribelle... molte persone? Nessuno credeva che fosse un verme. L'acqua avrebbe ucciso qualunque verme avesse osato attaccare un qanat. Molti Fremen credevano che il Demone del Deserto fosse in realtà una banda di rivoluzionari intenzionata a rovesciare il Mahdinato di Alia, restaurando le antiche tradizioni di Arrakis. Quelli che erano convinti che questa fosse la verità dicevano che era un'ottima cosa. Bisognava sbarazzarsi di quell'avida successione apostolica che si preoccupava soltanto di perpetuare la propria mediocrità, ritornando all'autentica religione che Muad'Dib aveva abbracciato. Un profondo sospiro scosse Ghanima. Oh, Leto, pensò. Sono quasi felice che tu non sia vissuto per vedere questi giorni. Mi unirei anch'io a te, ma ho un cryss che non ha ancora grondato sangue. Alia e Farad'n. Farad"n e Alia. Il vecchio Barone è il suo demonio, e ciò non può essere consentito. Harah uscì dalla djedida, avvicinandosi a Ghanima col passo aritmico dei Fremen. Harah si fermò davanti a Ghanima e le domandò:

– Che cosa fai da sola qui fuori? – Questo è uno strano posto, Harah. Dovremmo andarcene. – Stilgar sta aspettando qui per incontrarsi con qualcuno. – Oh? Non me l'ha detto. – Perché dovrebbe dirti ogni cosa? Maku? – Harah schiaffeggiò la borsa d'acqua che gonfiava il davanti della veste di Ghanima. – Sei così adulta da essere incinta? – Sono stata incinta tante volte da non poterle neppure contare, – ribatté Ghanima. – Non metterti a fare questi giochi da adulto-bambino con me! Harah, al tono velenoso della voce di Ghanima, fece istintivamente un passo indietro. – Siete una banda di stupidi, – proseguì Ghanima, con un ampio gesto del braccio che comprendeva la djedida e l'affaccendarsi di Stilgar e dei suoi. – Non avrei mai dovuto venire con voi. – A quest'ora saresti morta, se non l'avessi fatto. – Forse. Ma voi non vedete neppure quello che vi sta davanti al naso? Chi è colui che Stilgar si aspetta d'incontrare qui? – Buer Agarves. Ghanima la fissò, perplessa. – Alcuni amici del sietch del Burrone Rosso lo stanno accompagnando qui segretamente, – spiegò Harah. – Quel piccolo buffone di Alia? – Lo conducono qui bendato. – E Stilgar gli crede? – È stato Buer a chiedere l'incontro. Ha accettato tutte le nostre condizioni. – Perché non ne sono stata informata? – Stilgar sapeva che ti saresti opposta. – Opposta... Questa è follia! Harah si accigliò: – Non dimenticare che Buer è... – È uno della Famiglia! – l'interruppe brusca Ghanima. – È il nipote del cugino di Stilgar, lo so. E quel Farad'n al quale un giorno spillerò il sangue è un mio parente altrettanto prossimo. Credi che ciò fermerà il mio pugnale? – Abbiamo ricevuto un distrans. Nessuno segue il suo gruppo. Ghanima parlò a bassa voce: – Non ne verrà niente di buono, Harah. Dovremmo partire immediatamente. – Hai avuto un presagio? – chiese Harah. – Quel verme morto che

abbiamo visto! Era forse... – Ficcatelo nell'utero e fallo rinascere in qualche altro posto! – esclamò Ghanima, infuriata. – Non mi piace questo incontro, e neppure questa città morta. Non basta? – Dirò a Stilgar quello che tu... – Glielo dirò io stessa! – Ghanima passò davanti ad Harah, la quale si affrettò a compiere il gesto delle Corna del Verme alle sue spalle, per scongiurare il male. Ma Stilgar si limitò a ridere delle paure di Ghanima e le ingiunse di mettersi a cercar trote come tutti gli altri bambini. Ghanima fuggì dentro una delle case abbandonate della djedida e si rannicchiò in un angolo, a covare la rabbia. L'emozione le passò rapidamente, tuttavia; avvertì l'agitarsi delle vite interiori e ricordò che qualcuno aveva detto: «Se riusciremo a dominarle, le cose andranno secondo i nostri piani.» Che strano pensiero. Ma non riuscì a ricordare chi aveva detto quelle parole.

Muad'Dib fu diseredato, ed egli parlò per i diseredati di tutti i tempi. Egli elevò la sua protesta contro le profonde ingiustizie che alienano l'individuo da ciò che gli è stato insegnato a credere, da ciò che sembrava spettargli di diritto. – Il Mahdinato, un'analisi di Harq al-Ada

Gurney Halleck sedeva sopra la collina conica di Shuloch col baliset accanto a sé, su un tappeto di fibre di spezia. Sotto di lui, la depressione racchiusa fra le rocce brulicava di lavoranti intenti alle coltivazioni. Lo scoscendimento sabbioso artificiale che i Cacciati avevano usato per attirare i vermi su un sentiero impregnato di spezia era adesso attraversato da un nuovo qanat. Le piantagioni si estendevano lungo il pendio per difenderlo. Era quasi l'ora del pasto di mezzogiorno, e Halleck si trovava sulla collina da più di un'ora, alla ricerca di solitudine per poter pensare. Gli esseri umani faticavano sotto di lui, ma tutto ciò che vedeva era opera del melange. Personalmente, Leto aveva valutato che la produzione della spezia sarebbe discesa, per stabilizzarsi a circa un decimo del massimo raggiunto negli anni degli Harkonnen. Le riserve sparse per tutto l'Impero stavano aumentando vertiginosamente di valore. Si diceva, ad esempio, che trecentoventun litri fossero bastati alla famiglia Metulli per acquistare metà del pianeta Novebruns. I Cacciati stavano lavorando come uomini pungolati dal diavolo, e forse lo erano. Prima di ogni pasto, essi si voltavano verso Tanzerouft e pregavano Shai-hulud personificato. Così essi vedevano Leto, e attraverso i loro occhi, Halleck scorgeva un futuro in cui la maggior parte dell'umanità avrebbe condiviso un simile punto di vista. Lui, Halleck, non era sicuro che gli piacesse una simile prospettiva. Lo stesso Leto era il responsabile di quest'immagine divinizzata e terrorizzante che avevano di lui. Quando aveva ricondotto lì il Predicatore e Halleck nell'ornitottero che Halleck aveva rubato, Leto a mani nude aveva scavato una breccia nel qanat di Shuloch, scagliando le più grosse pietre a più di cinquanta metri di distanza. Quando i Cacciati avevano cercato d'intervenire, Leto aveva decapitato il primo che l'aveva raggiunto, con un unico, fulmineo, movimento del braccio. Aveva spinto violentemente indietro gli altri, mandandoli a sbattere fra loro, facendosi beffe delle loro armi. Con una voce demoniaca aveva ruggito: – Il fuoco non mi toccherà! I vostri pugnali non mi faranno alcun male! Io indosso la

pelle di Shai-hulud! I Cacciati l'avevano allora riconosciuto e si erano ricordati della sua fuga, quand'era balzato giù dalla vetta della collina «nel cuore del deserto». Si erano prostrati davanti a lui, e Leto aveva emanato i suoi ordini: – Vi porto due ospiti. Li onorerete e li difenderete. Ricostruirete il vostro qanat e comincerete a piantare un'oasi, un giardino. Un giorno, farò di questo luogo la mia casa. Voi preparerete la mia casa. Non venderete più un solo grammo di spezia, ma immagazzinerete ogni frammento da voi raccolto. Aveva proseguito con le sue istruzioni, e i Cacciati avevano assorbito ogni sua parola, fissandolo con gli occhi vitrei per la paura, in preda a un superstizioso terrore. Lì, davanti a loro, Shai-hulud era finalmente uscito dalla sabbia! Non vi era stato nessun accenno a questa metamorfosi quando Leto aveva trovato Halleck insieme a Ghadhean al-Fali in uno dei sietch più piccoli dei ribelli, a Gare Ruden. In compagnia del suo compagno cieco, Leto era sbucato fuori dal deserto seguendo l'antica strada della spezia, viaggiando sui vermi attraverso un territorio dove i vermi adesso erano una rarità. Aveva parlato delle numerose deviazioni che era stato costretto a compiere a causa della presenza dell'umidità nella sabbia, una quantità d'acqua sufficiente ad avvelenare un verme. Erano arrivati poco dopo mezzogiorno ed erano stati scortati dalle guardie nella sala comune cinta da muri di pietra. Quel ricordo ora ossessionava Halleck. – Così, questo è il Predicatore, – aveva detto. Girando intorno al cieco a grandi passi, studiandolo, Halleck aveva ricordato le storie che circolavano su di lui. Non c'era nessuna maschera a nascondere quel vecchio volto, lì nel sietch, e i lineamenti erano davanti a lui perché la sua memoria facesse i confronti. Sì, l'uomo assomigliava al vecchio Duca dal quale Leto aveva preso il nome. Era una somiglianza fortuita? – Tu conosci le storie che circolano su costui? – aveva chiesto Halleck tirando in disparte Leto. – Che si tratta di tuo padre ritornato dal deserto? – Ho udito queste voci. Halleck si era voltato a scrutare il ragazzo. Leto indossava una strana tuta distillante con i bordi arrotolati intorno al viso e alle orecchie. Una veste nera copriva la tuta e un paio di stivali da sabbia gli rivestivano i piedi. La sua presenza in quel luogo avrebbe richiesto molte spiegazioni...

Come aveva fatto a fuggire una seconda volta? – Perché hai condotto qui il Predicatore? – Halleck gli aveva chiesto. – A Jacurutu hanno detto che lavora per loro. – Non più. Lo conduco con me perché Alia lo vuole morto. – E allora? Credi che questo sia un asilo sicuro? – Tu sei il suo asilo. Durante tutto questo tempo il Predicatore era rimasto accanto a loro, ascoltando, ma senza dar segno che gl'importasse la direzione presa dalla loro discussione. – Mi hai servito bene, Gurney, – aveva aggiunto Leto. – La Casa degli Atreides non ha perduto ogni senso dell'obbligo verso coloro che l'hanno servita. – La Casa degli Atreides? – Io sono la Casa degli Atreides. – Sei fuggito da Jacurutu prima che io potessi completare le prove ordinate da tua nonna, – aveva obiettato Gurney, con voce gelida. – Come puoi dire... – La vita di quest'uomo va difesa come se fosse la tua. – Leto aveva parlato come se non vi fosse niente da discutere, e affrontò lo sguardo di Halleck senza batter ciglio. Jessica aveva addestrato Gurney Halleck in molti dei sottili modi con cui le Bene Gesserit analizzavano gli uomini, e lui non aveva trovato niente che potesse smentire la tranquilla sicurezza ostentata da Leto. Tuttavia, gli ordini di Jessica restavano. – Tua nonna mi ha affidato l'incarico di completare la tua educazione e di garantirmi che tu non sia posseduto. – Non sono posseduto. – Una recisa affermazione. – Perché sei fuggito? – Namri aveva l'ordine di uccidermi, indipendentemente da ciò che avrei fatto. I suoi ordini venivano da Alia. – Allora, sei anche una Veridica? – Lo sono. – Un'altra affermazione recisa, piena di sicurezza di sé. – E anche Ghanima? – No. A questo, il Predicatore aveva rotto il silenzio, volgendo le orbite vuote verso Halleck ma indicando Leto. – Credi, tu, di poterlo mettere alla prova? – Non intrometterti, – l'aveva rimbeccato Halleck, senza guardarlo. – Tu non sai niente del problema e delle sue conseguenze.

– Oh, conosco le conseguenze molto bene, – aveva replicato il Predicatore. – Una volta sono stato messo alla prova da una vecchia donna convinta di sapere ciò che stava facendo. Come risultò poi, non lo sapeva. Halleck l'aveva fissato: – Sei un'altra Veridica? – Chiunque può essere una Veridica, perfino tu, – aveva ribattuto il Predicatore. – È questione di essere onesti con noi stessi sulla natura dei nostri sentimenti. Tu devi avere una propensione interiore alla verità, perché sia possibile riconoscerla, e subito. – Perché t'immischi? – aveva esclamato sgarbatamente Halleck, portando di scatto la mano al cryss. Chi era quel Predicatore? – Io sono sensibile a questi avvenimenti, – aveva replicato il Predicatore. – Mia madre potrebbe anche giungere a sacrificare il proprio sangue sull'altare, ma ciò che spinge me è diverso. E io vedo il tuo problema. – Oh? – Ora Halleck era diventato davvero curioso. – Lady Jessica ti ha ordinato di cercare qualcosa che possa distinguere il lupo dal cane, fra lo ze'eb e il ke'leb. Per sua stessa definizione, il lupo è qualcuno che ha il potere e ne abusa. Tuttavia, se li vedi alla luce grigia dell'alba, è difficile distinguere il lupo dal cane. – Sì, hai quasi colto nel segno, – aveva replicato Halleck, notando come in numero sempre crescente la popolazione del sietch fosse entrata nella sala comune per ascoltare. – Come fai a saperlo? – Perché conosco questo pianeta. Non capisci? Pensa a com'è. Sotto la superficie vi sono rocce, terra, sedimenti, sabbia. Tutto questo è la memoria del pianeta, la sua storia. E lo stesso avviene per gli esseri viventi. Nella memoria del cane vi è il lupo. Ogni universo ruota intorno a un nucleo di essere, e da quel nucleo tutti i ricordi muovono verso l'esterno, fino a giungere alla superficie. – Molto interessante, – aveva commentato Halleck. – E questo, come può aiutarmi a eseguire i miei ordini? – Guarda dentro di te, l'intero quadro della tua storia. Istintivamente, come farebbe un animale. Halleck aveva scosso la testa. C'era un'irresistibile sincerità in quel Predicatore, una qualità che lui aveva riconosciuto molte volte negli Atreides; e anche più di qualche indizio che quell'uomo stava usando il potere della Voce. Halleck aveva sentito il cuore che cominciava a martellargli in petto. Era forse possibile che... – Jessica esigeva una prova suprema, qualcosa di talmente intenso da rovesciare all'esterno anche l'interiorità più profonda di suo nipote, – aveva

detto il Predicatore. – Ma essa è già lì, completamente esposta al suo sguardo. Halleck si era voltato per fissare Leto. Un movimento istintivo, provocato da una forza irresistibile. Il Predicatore aveva proseguito, come se stesse impartendo una lezione a un allievo ostinato: – Questa giovane persona ti confonde perché non è un essere unico. È una comunità. Come ogni comunità sottoposta a tensione, uno qualunque fra i suoi membri può assumerne il comando. Questo comando non è sempre benigno, ed è da manifestazioni di questo tipo che deriva il nome di Abominazione e il terrore da essa suscitato. Tu hai già sondato, fin quasi a frantumarla, quella comunità, Gurney Halleck. Ma come hai fatto a non capire che essa si è già trasformata? Questo ragazzo ha raggiunto una cooperazione interiore così potente che niente può sovvertirla. Io, senza occhi, l'ho vista. Ho tentato di oppormi a lui, una volta, ma ora gli obbedisco. Egli è il Guaritore. – Chi sei? – gli aveva chiesto Gurney Halleck. – Tu guarda invece questo giovane Atreides! Egli è l'ultima retroazione, il cruciale feedback da cui la nostra specie dipende. Egli reinserirà nel sistema i risultati delle sue opere passate. Nessun altro essere umano può conoscerle meglio di lui. E tu pensi di distruggere una simile creatura! – Mi è stato ordinato di metterlo alla prova, e non ho... – Ma l'hai fatto! – È un'abominazione? Uno stanco sorriso si disegnò sul volto del Predicatore. – Tu insisti con queste sciocchezze del Bene Gesserit. Quanto abilmente sanno creare i miti sui quali gli uomini si adagiano! – Sei Paul Atreides? – chiese Halleck. – Paul Atreides non esiste più. Egli cercò di ergersi come un supremo simbolo morale, rinunciando allo stesso tempo ad ogni pretesto morale. Divenne un santo senza un dio: ogni sua parola era una bestemmia. Come puoi pensare... – Parli con la sua voce. – Vuoi mettere alla prova me, adesso? Stai attento, Gurney Halleck. Halleck aveva deglutito, costringendosi a riportare la sua attenzione sull'impassibile Leto che era ancora lì, immobile, e li osservava con calma. – Chi viene messo alla prova? – chiese il Predicatore. – Forse Lady Jessica ha messo te alla prova, Gurney Halleck? Halleck aveva trovato quel pensiero profondamente inquietante,

chiedendosi come mai egli consentisse alle parole del Predicatore di metterlo in agitazione. Ma nei servitori degli Atreides era qualcosa di profondamente istintivo obbedire a quella mistica autocratica. Jessica, con le sue spiegazioni, l'aveva resa ancora più misteriosa. Halleck, in quell'istante, aveva sentito qualcosa cambiare dentro di lui, un qualcosa che era stato appena sfiorato dall'addestramento Bene Gesserit impostogli da Jessica. Una furia inespressa stava crescendo in lui. Non voleva cambiare! – Chi di voi fa la parte di Dio, e a quale fine? – chiese il Predicatore. – Non puoi basarti sulla sola ragione per rispondere a questa domanda. Lentamente, deliberatamente, Halleck aveva trasferito la sua attenzione da Leto al cieco. Jessica gli aveva continuamente ripetuto che lui avrebbe dovuto conseguire l'equilibrio del kairits: «tu devi tu non devi». Lei la definiva una disciplina senza parole né frasi, senza regole né argomentazioni. Era il netto confine della propria verità interiore, che tutto assorbiva. Qualcosa nella voce del cieco, il suo tono, accese una furia che aveva bruciato, accecante e silenziosa, dentro ad Halleck. – Rispondi alla mia domanda, – aveva detto il Predicatore. E Halleck aveva sentito che, a causa di quelle parole, la sua attenzione si concentrava come non mai su quel luogo, quell'istante, quel problema. E quell'intensa concentrazione bastava a definire, da sola, la sua posizione nell'universo. Quello era Paul Atreides, non morto, ma ritornato. In lui non rimaneva alcun dubbio. Halleck aveva nuovamente guardato Leto, e finalmente l'aveva visto: i segni della tensione intorno agli occhi, il perfetto equilibrio del corpo, l'arguto senso dell'umorismo che aleggiava sulla sua bocca. Leto sembrava stagliarsi come sullo sfondo di una luce accecante. Aveva raggiunto l'armonia semplicemente accettandola. – Dimmi, Paul, – aveva detto Halleck, – tua madre lo sa? Il Predicatore aveva sospirato: – Per la Sorellanza, per tutta la Sorellanza, io sono morto. Non cercare di farmi rinascere. Sempre senza guardarlo, Halleck aveva chiesto: – Ma perché lei... – Lei fa quello che deve fare. Lei costruisce la propria vita, pensando di governare molte vite. Così, noi tutti recitiamo la parte di Dio. – Ma tu sei vivo, – aveva bisbigliato Halleck, sopraffatto, ora, da questa conferma, voltandosi finalmente a fissare quell'uomo più giovane di lui, ma così invecchiato dal deserto al punto da dimostrare il doppio dei suoi anni. – Perché? – chiese Paul. – Io vivo, forse?

Halleck si era guardato intorno, aveva visto i Fremen che li osservavano, i volti dibattuti fra il dubbio e il timore. – Mia madre non è mai stata costretta a imparare la mia lezione. – Era la voce di Paul! – Essere un dio può, alla fine, diventare noioso e degradante. Questa sarebbe già una ragione più che sufficiente per inventare il libero arbitrio! Un dio potrebbe desiderare di rifugiarsi nel sonno ed esser vivo soltanto nella proiezione inconscia delle creature dei suoi sogni. – Ma tu sei vivo! – insisté Halleck, con voce ancora più alta. Paul aveva ignorato l'eccitazione crescente del suo vecchio compagno, e gli aveva chiesto: – Avresti davvero messo questo ragazzo a confronto con sua sorella nella prova del Mashhad? Che mortale sciocchezza! Ognuno dei due avrebbe gridato: «No! Uccidete me! Lasciate vivere l'altro!» Dove avrebbe condotto una simile prova? Che cosa vuol dunque dire esser vivi, Gurney? – Non sarebbe stata quella la prova! – aveva protestato Halleck. Non gli piaceva il modo in cui i Fremen si accalcavano sempre di più intorno a loro, gli occhi puntati su Paul, ignorando Leto. A quel punto Leto si era intromesso: – Guarda la trama, padre. – Sì... sì... – Paul aveva alzato la testa come per annusare l'aria. – È Farad'n, allora! – Com'è facile seguire i nostri pensieri invece dei nostri sensi, – aveva detto Leto. Halleck era stato incapace di seguire quel pensiero e, mentre stava per chiedere una spiegazione, Leto l'aveva interrotto appoggiando una mano sul suo braccio. – Gurney, non chiedere. Finiresti per sospettare di nuovo che io sia un'Abominazione. No! Lascia che accada, Gurney. Se cercherai di forzare la cosa, finirai soltanto per distruggere te stesso. Ma Halleck si era sentito sopraffatto dai dubbi. Jessica l'aveva avvertito: Questi pre-nati possono essere molto infidi. Hanno trucchi che tu non potresti mai sognarti. Halleck aveva scosso lentamente la testa. È Paul! Dèi sotterranei! Paul vivo, e in lega con questo angoscioso interrogativo che lui stesso aveva generato! Non era stato più possibile tener lontani i Fremen sempre più numerosi che li circondavano. Avevano cominciato a premere, insinuandosi fra Halleck e Paul, fra Leto e Paul, isolando quest'ultimo. L'aria aveva risuonato di un gran numero di domande pronunciate con voce rauca: – Sei Muad'Dib? Sei davvero Muad'Dib? È vero ciò che dicono? Parla! – Dovete pensare a me soltanto come al Predicatore, – aveva detto Paul,

respingendoli. – Non potrò mai più essere Paul Atreides o Muad'Dib. Io non sono il consorte di Chani, non sono l'imperatore. Halleck, temendo ciò che tutte queste domande frustrate avrebbero potuto provocare, se non avessero trovato una risposta soddisfacente, era stato sul punto d'intervenire energicamente, ma Leto si era mosso prima di lui. Qui Halleck aveva sperimentato concretamente il terribile cambiamento sopravvenuto in lui. Una voce taurina aveva ruggito: – Fatevi da parte! – E Leto si era proiettato in avanti, scagliando Fremen adulti a destra e a sinistra, abbattendoli, picchiandoli con le mani, afferrando per le lame i loro cryss e strappandoli alla loro presa. In meno di un minuto i Fremen erano stati respinti indietro contro le pareti, costernati e silenziosi. Leto era in piedi, accanto a suo padre. – Quando Shai-hulud parla, voi dovete obbedire! – aveva detto. E quando alcuni Fremen avevano cominciato a discutere, Leto aveva strappato uno spuntone di roccia dalla parete del corridoio, accanto all'uscita della stanza, e l'aveva sbriciolato a mani nude, continuando a sorridere. – Strapperò l'intero sietch sulle vostre teste, – aveva dichiarato. – Il Demone del Deserto, – era stato il tremebondo mormorio di qualcuno. – E squarcerò i vostri qanat, – aveva proseguito Leto. – Noi non siamo mai stati qui, mi avete udito? Tutte quelle teste assentirono, in un gesto di terrorizzata sottomissione. – Nessuno ci ha visto qui, – aveva ribadito Leto. – La più piccola indiscrezione da parte vostra, e io ritornerò per cacciarvi nel deserto senz'acqua. Halleck aveva visto le mani dei Fremen innalzate nello scongiuro, le Corna del Verme. – Ora mio padre ed io ce ne andremo, accompagnati dal nostro vecchio amico, – aveva concluso Leto. – Preparate il nostro ornitottero. Quindi, Leto li aveva condotti a Shuloch, spiegando durante il percorso che avrebbero dovuto fare in fretta, perché Farad'n sarebbe giunto su Arrakis molto presto. – E come mio padre ha detto, – era stato il commento di Leto, – allora assisterai alla vera prova, Gurney. Guardando in basso dalla collina conica di Shuloch, Halleck si chiese ancora una volta, come si era chiesto ogni giorno: – Quale prova? Che cosa intende dire? Ma Leto non si trovava più a Shuloch e Paul si rifiutava di rispondere.

La Chiesa e lo Stato, la ragione scientifica e la fede, l'individuo e la sua comunità, perfino il progresso e la tradizione: tutto ciò può essere conciliato negli insegnamenti di Muad'Dib. Egli c'insegnò che non esistono opposti intransigenti, fuorché nelle convinzioni degli uomini. Chiunque può scostare il velo del Tempo. Voi potete scoprire il futuro nel passato o nella vostra stessa immaginazione. Facendo ciò, voi riconquistate la coscienza del vostro essere interiore. Allora saprete che l'universo è un insieme coerente e che voi siete indivisibili da esso. – Il Predicatore ad Arrakeen secondo Harq al-Ada

Ghanima sedeva lontana dal cerchio di luce della lampada a spezia e osservava quell'individuo, Buer Agarves. Non le piacevano la faccia tonda e le sopracciglia arruffate, e meno ancora il modo in cui muoveva i piedi mentre parlava, come se le sue parole fossero una musica nascosta che lo faceva danzare. Non è qui per parlamentare con Stil, si disse Ghanima, trovando conferma di questo in ogni parola, in ogni movimento di quell'uomo. E si discostò ancora di più dal cerchio formato dagli uomini del Consiglio. Ogni sietch aveva una stanza come quella, ma la sala degli incontri della djedida abbandonata dava a Ghanima l'impressione di un luogo schiacciato, soffocante, a causa del soffitto troppo basso. Sessanta uomini del gruppo di Stilgar, più i nove che erano venuti con Agarves. riempivano soltanto un'estremità della sala. La luce delle lampade a olio di spezia si rifletteva contro le basse travi che sostenevano il soffitto. La luce proiettava ombre tremolanti che danzavano sulle pareti, e un fumo pungente riempiva l'intero ambiente di odore di cannella. L'incontro aveva avuto inizio al tramonto, dopo le preghiere per l'umidità e il pasto della sera. Durava già da un'ora, e Ghanima non riusciva a sondare le correnti segrete di quella messa in scena di Agarves. Le sue parole sembravano abbastanza chiare, ma i gesti e il furtivo movimento degli occhi erano assai discordanti. Ora Agarves stava rispondendo alla domanda di uno dei luogotenenti di Stilgar, una nipote di Harah chiamata Rajia. Era una giovane donna ascetica, dalla pelle scura, la cui bocca era piegata in basso agli angoli, dandole un'aria eternamente sospettosa. Viste le circostanze, Ghanima trovò quell'espressione perfettamente adeguata. – Ma certo che sono convinta del completo perdono di Alia per tutti voi! – esclamò Agarves. – Altrimenti non sarei qui con questo messaggio. Stilgar si affrettò a intervenire, quando Rajia fece per parlare di nuovo: –

Non mi preoccupa tanto il fatto che noi ci si possa fidare o no di lei, quanto se lei si fidi di te. La voce di Stilgar risuonava di un basso ringhio. Si sentiva a disagio nel ritornare al suo primitivo rango. – Non importa che lei si fidi oppure no di me, replicò Agarves. Ad esser franco, credo che non si fidi affatto. Ho impiegato troppo tempo a cercarvi, prima di trovarvi. Ma ho sempre avuto l'impressione che lei, in realtà, non volesse che voi foste catturati. Lei era... – Era la moglie dell'uomo che ho trucidato, – l'interruppe Stilgar. – Ammetto che è stato lui a volerlo. È stato come se si fosse lasciato cadere sul proprio pugnale. Ma questo nuovo atteggiamento puzza di... Agarves balzò in piedi, il volto contorto dalla rabbia: – Ma lei vi perdona! Quante volte devo ripeterlo? Ha organizzato una grande messa in scena coi sacerdoti per chiedere la guida divina di... – Ciò serve soltanto a sollevare un'altra questione. – Era stata Irulan a intervenire, piegandosi in avanti; la sua testa bionda si stagliò contro la carnagione scura di Rajia. – Lei ti ha convinto, ma potrebbe avere altri piani. – Il Clero ha... – E ci sono tutte queste altre voci, – insisté Irulan, – che tu sia più che un consigliere militare, che tu sia il suo... – Basta! – Agarves era fuori di sé dalla rabbia. Avvicinò impulsivamente la mano al pugnale. Le convulsioni della sua pelle tradivano un intenso conflitto di emozioni. – Credete pure a ciò che volete, ma fate tacere quella donna! Mi insozza! Infanga tutto quello che tocca! Sono stanco, insudiciato. Non ho mai sollevato il pugnale contro i miei fratelli del sangue, ma ora... basta! Ghanima, di fronte a ciò, pensò: In questo, almeno, è sincero. Stilgar, sorprendentemente, scoppiò a ridere: – Ahh, cugino, – esclamò. – Perdonami, ma c'è verità nella rabbia. – Allora acconsenti? – Non ho detto questo. – Alzò una mano quando la collera di Agarves minacciò di esplodere di nuovo. – Non è per il mio interesse, Buer, ma ci sono questi altri. – Indicò con un gesto quelli intorno a lui. – Sono responsabile per loro. Consideriamo per un momento quali risarcimenti Alia ci offre. – Risarcimenti? Non si parla di risarcimenti. Il perdono, ma non... – Allora, che cosa offre come garanzia della sua parola? – Sietch Tabr e te come Naib, completa autonomia nella tua neutralità.

Ora lei capisce come... – Non tornerò a far parte del suo seguito o a fornirle combattenti, – lo avvertì Stilgar. – È chiaro, questo? Ghanima sentì che Stilgar cominciava a cedere e pensò: – No, Stil! No! – Non ce ne sarà bisogno, – disse Agarves. Alia vuole solamente che Ghanima le sia restituita, e venga mantenuta la promessa di fidanzamento che lei... – Così salta fuori, alla fine! – esclamò Stilgar, tempestoso. – Ghanima è il prezzo del perdono. Lei crede forse che io... – Ti crede un uomo pratico, – dichiarò Agarves, ricomponendosi. Colta da un'ilarità interiore, Ghanima pensò: Non lo farà. Risparmiati il fiato. Non lo farà. Mentre pensava a questo, Ghanima udì un lieve fruscio dietro di lei, sul lato sinistro. Fece per voltarsi ma si sentì afferrare da mani potenti. Un pesante tappeto impregnato di sonnifero le coprì il viso prima che potesse lanciare un grido. Si sentì trascinare verso una porta nell'angolo più buio e lontano della sala. E riuscì a pensare: Avrei dovuto intuirlo! Avrei dovuto esser pronta! Ma le mani che l'imprigionavano erano quelle di un adulto, e forti. Anche divincolandosi, non poté sfuggire alla loro stretta. Le ultime impressioni sensoriali di Ghanima furono la gelida aria della notte, una fugace visione di stelle, e un volto incappucciato che abbassò lo sguardo su di lei e poi chiese: – Non le è stato fatto del male, non è vero? La risposta si perse mentre le stelle turbinavano e sfrecciavano attraverso il suo sguardo, perdendosi in un lampo di luce che era il nucleo più interno dell'Io.

Muad'Dib ci diede un particolare tipo di conoscenza sull'intuito profetico, sul tipo di comportamento che circonda un tale intuito e la sua influenza sugli avvenimenti visti «in linea» (cioè avvenimenti che sono predestinati ad accadere in una successione strettamente collegata, che il profeta rivela e interpreta). Come è stato notato altrove, un tale intuito può funzionare altresì come una trappola per lo stesso profeta. Egli può diventare la vittima di ciò che sa, il che è un difetto umano relativamente comune. Il pericolo è che coloro i quali predicono avvenimenti reali trascurino l'effetto polarizzante prodotto dagli abusi della loro propria verità. Essi tendono a dimenticare che nulla, in un universo polarizzato, può esistere, senza che il suo opposto sia anch'esso presente. – La Visione Presciente di Harq al-Ada

La polvere sollevata dal vento era sospesa come una nebbia all'orizzonte e oscurava il sole che stava spuntando. All'ombra delle dune la sabbia era gelida. Leto si trovava oltre la fila delle palme e scrutava il deserto. Percepiva l'odore della polvere e l'aroma delle piante spinose, udiva il rumore della gente e degli animali, al primo mattino. In quel luogo, i Fremen non mantenevano in funzione nessun qanat. Avevano piante in numero appena sufficiente, irrigate dalle donne che trasportavano l'acqua in otri di pelle. La loro trappola a vento era un congegno assai fragile, che veniva distrutto dalle tempeste ma era facile da ricostruire. Le avversità, i rischi del commercio della spezia, l'avventura, erano il modello di vita quaggiù. Quei Fremen credevano ancora che il paradiso fosse il rumore dell'acqua corrente, ma essi conservavano un concetto di libertà che Leto condivideva. La libertà equivale alla solitudine, rifletté dentro di sé. Leto aggiustò le pieghe della veste bianca che copriva la sua tuta distillante vivente. Sentiva quanto la membrana della trota l'avesse cambiato e, come sempre gli accadeva con le sue sensazioni, era costretto ad affrontare un profondo senso di perdita. Egli non era più completamente umano. Strane cose nuotavano nel suo sangue. Le ciglia della trota erano penetrate in ogni suo organo, cambiando forma e struttura. La stessa trota si stava adattando alla sua nuova condizione. Ma Leto, pur conscio di tutto questo, si sentì ugualmente lacerato da questa rottura degli antichi fili della sua perduta umanità, l'angoscia per la continuità interrotta della sua lunghissima esistenza. Egli conosceva la trappola insita nel lasciarsi andare a simili emozioni. La conosceva troppo bene. Che il futuro accada da solo, pensò. L'unica regola che governa la

creatività è l'atto creativo stesso. Gli era difficile staccare lo sguardo dalla sabbia, dalle dune, da quell'immenso vuoto. Qui, ai margini della sabbia, sporgeva qualche roccia che serviva però, soltanto, a spingere l'immaginazione verso l'esterno, tra i venti, la polvere, le piante rade e gli animali solitari, le dune che si fondevano con altre dune, il deserto nel deserto. Alle sue spalle s'innalzò il suono di un flauto che invitava alla preghiera del mattino, il salmo dell'umidità, ora un cantico lievemente modificato per celebrare Shai-hulud. Nella mente di Leto quella musica accresceva ancora di più il senso di eterna solitudine. Potrei semplicemente allontanarmi nel deserto, pensò. Allora tutto sarebbe cambiato. Una direzione sarebbe equivalsa all'altra. Lui aveva già imparato a vivere una vita libera da possessioni Aveva affinato la mistica Fremen fino ad aguzzarla in modo terrificante. Tutto ciò che portava con sé era necessario, e questo era tutto ciò che portava. Ma lui portava soltanto la veste che gli copriva le spalle, l'anello col falco degli Atreides nascosto fra le pieghe e la-pelle-che-non-era-la-sua-pelle. Sarebbe stato facile andarsene da lì. Un movimento in alto nel cielo attirò la sua attenzione: le ali dalle punte sbreccate e appiattite identificarono un avvoltoio. Quella vista gli riempì il petto di dolore. Come i Fremen selvatici, anche gli avvoltoi vivevano lì perché quella era la terra dov'erano nati. Essi non conoscevano nulla di meglio. Il deserto li aveva modellati a propria immagine. Tuttavia, un'altra razza di Fremen stava emergendo sulla scia di Muad'Dib e Alia. Essi erano la ragione per cui egli non poteva consentire a se stesso d'incamminarsi nel deserto come aveva fatto suo padre. Leto ricordò le parole che Idaho gli aveva detto, ai primi tempi: – Questi Fremen! Sono magnificamente vivi! Non ho mai incontrato un Fremen in preda alla bramosia. Ora di Fremen bramosi e ghiotti ce n'erano in abbondanza. Un'ondata di tristezza avvolse Leto. Egli si era impegnato su una strada che avrebbe cambiato tutto questo, ma a un prezzo terribile. E dirigersi su quella strada diventava sempre più difficile man mano si avvicinavano al vortice. Kralizec, l'Uragano ai Confini dell'Universo, era lì avanti... e Kralizec, o qualcosa di ancora peggiore, sarebbe stato il prezzo di un passo falso. Alcune voci si fecero udire dietro a Leto, poi la voce limpida e squillante di un bambino esclamò: – È qui.

Leto si voltò. Il Predicatore era uscito fuori dalle palme, guidato da un bambino. Perché penso ancora a lui come al Predicatore? si chiese Leto. La risposta era lì, chiaramente incisa nella sua mente: Perché costui non è più Muad'Dib, non è più Paul Atreides. Il deserto aveva fatto di lui ciò che era. Il deserto e gli sciacalli di Jacurutu con le loro massicce dosi di melange e i continui tradimenti. Il Predicatore era invecchiato prima del suo tempo, e proprio a causa della spezia, non per la sua mancanza. – Mi hanno detto che volevi vedermi subito, – disse il Predicatore, quando la sua piccola guida si fermò. Leto fissò quel bambino uscito dal palmeto, un piccolo essere alto quasi quanto lui, con meraviglia e avida curiosità. Quei giovani occhi luccicarono cupi sopra la maschera della sua piccola tuta distillante. Leto fece un gesto: – Lasciaci soli. Per un attimo le spalle del piccolo fremettero, manifestando la sua protesta, poi il timore e l'innato rispetto dei Fremen per la privacy presero il sopravvento. Il bimbo li lasciò. – Sai che Farad'n è qui su Arrakis? – chiese Leto. – Gurney me l'ha detto quando mi ha portato quaggiù con l'ornitottero la scorsa notte. E il Predicatore pensò: Come sono misurate e fredde le sue parole. È com'ero io ai vecchi tempi. – Mi trovo di fronte a una scelta difficile, – disse Leto. – Credevo che tu avessi già fatto tutte le scelte. – Noi conosciamo quella trappola, padre. Il Predicatore si schiarì la gola. Le tensioni che percepiva gli dicevano come fossero vicini alla crisi frantumante. Ora Leto non si sarebbe più basato sulla pura visione, ma sulla utilizzazione della medesima. – Hai bisogno del mio aiuto? – chiese il Predicatore. – Sì. Sto per tornare ad Arrakeen e desidero andarci come tua guida. – Per quale scopo? – Saresti disposto a predicare ancora una volta ad Arrakeen? – Forse. Ci sono cose che ancora non ho detto loro. – Non ritornerai più nel deserto, padre. – Se verrò con te? – Sì. – Farò qualunque cosa tu decida. – Hai riflettuto bene? Con Farad'n ad Arrakeen, tua madre sarà con lui.

– Indubbiamente. Ancora una volta il Predicatore si schiarì la gola. Muad'Dib non si sarebbe mai permesso di tradire così il proprio nervosismo. Quella carne era rimasta troppo a lungo lontana dall'antico regime dell'autodisciplina, la sua mente troppo spesso tradiva la follia di quelli di Jacurutu. E il Predicatore pensava che forse non sarebbe stato saggio tornare ad Arrakeen. – Non sei obbligato a ritornare laggiù insieme a me, – riprese Leto. – Ma mia sorella si trova laggiù e io devo ritornare. Tu potresti andare con Gurney. – E tu andresti ad Arrakeen da solo? – Sì. Devo incontrare Farad'n. – Verrò con te, – sospirò il Predicatore. E Leto, nel comportamento del Predicatore, percepì un'ombra dell'antica follia collegata alle visioni, e si chiese: Ha forse fatto il gioco della prescienza? Non avrebbe mai più imboccato quella strada. Egli conosceva la trappola di un impegno soltanto parziale. Ogni parola del Predicatore confermava che lui aveva trasferito le visioni a suo figlio, sapendo che tutto in quell'universo era stato previsto. Erano le antiche polarità a farsi beffe del Predicatore. Egli era fuggito a un paradosso per finire in un altro. – Partiremo fra pochi minuti, allora, – disse Leto. – Vuoi avvertire Gurney? – Gurney non viene con noi? – Voglio che Gurney sopravviva. Allora il Predicatore si aprì alle tensioni che agivano intorno a lui. Esse erano dovunque, nell'aria che lo circondava, nel suolo sotto i suoi piedi, qualcosa di mobile che convergeva sul non-bambino che era suo figlio. L'urlo attutito delle antiche visioni era lì in attesa, nella gola del Predicatore. Questa maledetta santità! L'acre sentore delle sue paure non poteva essere evitato. Egli sapeva che cosa li aspettava ad Arrakeen. Essi avrebbero giocato ancora una volta con forze mortali e terrificanti che non avrebbero mai potuto portar loro la pace.

Il bimbo che si rifiuta di viaggiare nella bardatura del padre, questo è il simbolo della più singolare capacità dell'uomo. «Io non devo essere ciò che mio padre è stato. Io non devo obbedire alle regole di mio padre o persino credere in tutto ciò che lui credeva. È la mia forza come essere umano quella di poter compiere le mie scelte su ciò che debbo o non debbo credere, su che cosa essere o non essere.» – Leto Atreides II La Biografia, di Harq al-Ada

Le pellegrine danzavano al suono dei tamburi e dei flauti nella piazza del Tempio, le teste scoperte, braccialetti al collo, vesti leggere e rivelatrici. Le loro lunghe chiome nere balzavano in alto rovesciandosi poi sui loro volti ad ogni piroetta. Alia fissava la scena dal suo covo situato in alto nel Tempio, provandone, contemporaneamente, attrazione e disgusto. Era metà mattina, l'ora in cui l'aroma del caffè di spezia cominciava ad aleggiare per la piazza, proveniente dai venditori ambulanti sistemati all'ombra delle arcate. Tra poco, lei avrebbe dovuto uscire a dare il benvenuto a Farad'n, presentandogli i doni ufficiali e sovrintendendo al suo primo incontro con Ghanima. Tutto procedeva secondo i piani. Ghani l'avrebbe ucciso e, nello sconvolgimento che ne sarebbe seguito, una persona soltanto sarebbe stata pronta a raccogliere i pezzi. I burattini danzavano quando si tiravano i fili. Stilgar aveva ucciso Agarves proprio come lei aveva sperato. E Agarves, nella sua marcia fino alla djedida, aveva un trasmettitore di segnali nascosto, senza saperlo, negli stivali che lei gli aveva donato. Ora Stilgar e Irulan aspettavano il loro destino nelle segrete del tempio. Forse sarebbero morti, ma era possibile che si potessero usare altrimenti. Non c'era niente di male ad aspettare. Vide che i Fremen della città stavano osservando le danzatrici, sotto di lei, i loro occhi fissi e ardenti. Tra i Fremen del deserto vi era sempre stata, in pratica, una completa uguaglianza fra i sessi, che si era mantenuta poi nei villaggi e nelle città, ma, ora, già si stavano manifestando nuove differenze sociali tra maschi e femmine. Anche questo procedeva secondo i piani. Dividere per indebolire. Alia percepiva il sottile cambiamento semplicemente dal modo in cui i Fremen, laggiù, fissavano quelle donne giunte da fuori il pianeta e le loro danze esotiche. Che guardino pure. Che ciò riempia pure le loro menti di ghafla. I lucernari sopra le finestre di Alia erano stati aperti, e lei percepì il

rapido aumento di calore che in quella stagione cominciava fin dallo spuntar del sole e avrebbe raggiunto il suo apice verso la metà del pomeriggio. La temperatura sul selciato della piazza doveva essere ben più alta e assai sgradevole per quelle danzatrici, ma esse continuavano ancora a vorticare e a inarcarsi, facendo roteare le braccia e le chiome nella frenesia della loro devozione. Esse avevano dedicato la loro danza ad Alia, l'Utero del Cielo. Un aiutante l'aveva informata di questo con un bisbiglio, facendosi beffe di quelle donne venute da un altro mondo e delle loro singolari abitudini. Aveva aggiunto che quelle donne provenivano da Ix, dove restavano ancora vestigia della scienza e della tecnologia proibite. Alia sbuffò di disprezzo. Quelle donne erano ignoranti, superstiziose, retrograde come i Fremen del deserto... Quell'aiutante era nel giusto, se si faceva beffe di loro, cercando di accattivarsi i suoi favori riferendole a chi avevano dedicato questa danza. E né l'aiutante ne' gli ixiani sapevano che Ix era semplicemente il simbolo di una lingua dimenticata. Ridendo tra sé, Alia pensò: Che danzino pure. La danza sprecava energie che altrimenti sarebbero state impiegate per scopi più distruttivi. E la musica era piacevole, un gemito sottile modulato sullo sfondo di timpani confezionati con zucche mote e di un ritmici battito di mani. All'improvviso la musica fu soffocata dal ruggito di molte voci provenienti dal lato più lontano della piazza. Le danzatrici saltarono un passo, si ripresero dopo un breve attimo di confusione, ma la sensualità dei loro movimenti si era ormai dileguata, e anch'esse rivolsero la loro attenzione alla lontana porta della piazza, dove si scorgeva una folla che si stava allargando sul selciato come acqua rovesciata fuori dalla valvola aperta di un qanat. Alia fissò quell'onda in arrivo. Cominciò a distinguere delle parole, e una sopra ogni altra: – Predicatore! Predicatore! – Poi, lo vide che avanzava a grandi passi sulla cresta della prima ondata, la mano sulla spalla della sua giovane guida. Le danzatrici rinunciarono infine ai loro volteggi e si ritrassero sui gradini a terrazza proprio sotto Alia. Ad esse si unirono gli spettatori e Alia percepì in modo quasi palpabile il timore reverenziale che li dominava. La paura sembrava impregnare ogni cosa. Come osa! Alia fece per voltarsi e convocare le guardie, ma arrestò il suo gesto. La folla già riempiva la piazza. Avrebbe potuto diventar pericolosa se fosse rimasta frustrata nel suo ovvio desiderio di ascoltare quel visionario cieco.

Alia strinse i pugni. Il Predicatore! Perché mai Paul doveva... Per metà della popolazione egli era un «pazzo del deserto», e perciò sacro. Altri bisbigliavano nei bazar e nelle botteghe che era senz'altro Muad'Dib. Perché altrimenti il Mahdinato gli avrebbe consentito di proclamare tante rabbiose eresie? Alia poteva scorgere dei profughi tra la folla, i resti dei sietch abbandonati, con le vesti a brandelli. Quella piazza, là sotto, era un luogo assai pericoloso, adesso, dove si sarebbero potuti compiere gravi errori. – Padrona? La voce giunse dalle spalle di Alia. Zia era comparsa sotto l'arcata che conduceva fuori del piccolo osservatorio. Altre guardie armate della Milizia Territoriale la seguivano dappresso. – Sì, Zia? – Mia Signora, Farad'n è qui fuori e chiede udienza. – Qui? Nelle mie stanze? – Sì, mia Signora. – È solo? – Due guardie del corpo e... Lady Jessica. Alia portò istintivamente una mano alla gola, ricordando l'ultimo incontro con sua madre. I tempi erano cambiati, tuttavia. Nuove condizioni regolavano i loro rapporti. – Com'è precipitoso, – replicò Alia. – Quale ragione ha addotto? – Ha saputo di... – Zia indicò la finestra che dava sulla piazza. – Sembra che gli sia stato detto che il tuo è il miglior posto di osservazione. Alia si accigliò: – Tu credi a questa ragione, Zia? – No, mia Signora. Credo che abbia sentito le voci che corrono. Vuole osservare con i suoi occhi le tue reazioni. – Mia madre l'ha istigato a farlo! – Molto probabile, mia Signora. – Zia, mia cara, ora ti darò una serie di ordini speciali che tu eseguirai con estrema precisione. Vieni qui. Zia si avvicinò a un passo da Alia. – Mia Signora? – Fai entrare Farad'n, le sue guardie e mia madre. E subito dopo prepara Ghanima e conducila qui. Dovrà essere impaludata come una sposa Fremen, in ogni dettaglio... completa, m'intendi? – Con il coltello, mia Signora? – Con il coltello. – Mia Signora, questo è...

– Ghanima non costituisce alcun pericolo per me. – Mia Signora, c'è ragione di credere che Ghanima sia fuggita con Stilgar più per proteggerlo che per qualunque altra... – Zia! – Mia Signora? – Ghanima ha già chiesto che Stilgar rimanga in vita, e Stilgar rimarrà in vita. – Ma è l'erede presunta! – Basta. Limitati ad eseguire i miei ordini. Fai preparare Ghanima. E mentre ti occuperai di questo, manda cinque aiutanti del Clero del Tempio fuori in piazza. Dovranno invitare il Predicatore a salire quassù. Fai in modo che aspettino l'occasione propizia per parlargli, nient'altro. Non dovranno usare in alcun modo la forza. Voglio che l'invito sia espresso in termini cortesi. Assolutamente, niente uso della forza. E, Zia... – Mia Signora? – Che voce imbronciata aveva! – Il Predicatore e Ghanima dovranno esser condotti davanti a me nel medesimo istante. Dovranno entrare insieme a un mio segnale. Hai capito? – Sì, mia Signora. Ma... – Fallo e basta! Tutti e due, insieme. – E Alia fece un gesto di congedo. Mentre Zia si voltava per andarsene, Alia aggiunse: – Quando esci, manda dentro Farad'n e il suo gruppo, ma assicurati che siano preceduti da dieci tra le amazzoni più fidate. Zia tornò a voltarsi per un attimo a guardarla: – Sarà fatto come ordini, mia Signora. – Poi uscì. Alia tornò a guardare fuori della finestra. Entro pochi minuti, il piano avrebbe dato i suoi sanguinosi frutti. E Paul sarebbe stato presente, quando sua figlia avrebbe inflitto il coup-de-grace alle sue sante pretese. Alia sentì il pesante scalpiccio del distaccamento delle guardie di Zia che faceva il suo ingresso. Presto sarebbe finito... tutto finito. Alia guardò fuori, in basso, con un crescente senso di trionfo, mentre il Predicatore prendeva posto sul primo gradino. La sua giovane guida si accovacciò accanto a lui. Alia vide le vesti gialle dei Sacerdoti del Tempio che aspettavano alla sua sinistra, tenuti indietro dalla calca. Tuttavia essi avevano una gran pratica sul modo in cui muoversi tra la folla. Essi trovarono il modo di avvicinarsi al loro obiettivo. La voce del Predicatore tuonò sopra la piazza, e la folla, estatica, si preparò ad ascoltare le sue parole. Che ascoltassero pure! Molto presto si sarebbe fatto in modo che le sue parole avessero un significato del tutto diverso da quello che lui intendeva. E non ci sarebbe più stato lì

intorno un Predicatore a protestare. Udì il gruppo di Farad'n che entrava, la voce di Jessica: – Alia? Senza voltarsi, Alia rispose: – Benvenuti, Principe Farad'n, Madre. Venite avanti a godervi lo spettacolo. – Quindi si voltò, e vide quel grosso Sardaukar, Tyekanik, che fissava trucemente le guardie del Tempio che gli sbarravano la strada. – Ma questa non è buona ospitalità! – si affrettò a intervenire Alia. – Lasciate che si avvicinino, – intimò ai suoi. Due delle sue guardie, agendo ovviamente per ordine di Zia, si avvicinarono ad Alia, formando uno sbarramento protettivo nei confronti dei nuovi venuti. Le altre guardie si scostarono, Alia si portò al lato destro della finestra, e fece un gesto d'invito: – Questo è veramente il miglior punto di osservazione! Jessica, che indossava la tradizionale veste nera, lanciò un'occhiata furiosa ad Alia, scortò Farad'n alla finestra, ma s'interpose a sua volta fra lui e le guardie della figlia. – È molto gentile da parte tua, Lady Alia, – osservò Farad'n. – Ho tanto sentito parlare di questo Predicatore. – Eccolo lì in carne ed ossa, – replicò Alia. Vide che Farad'n indossava l'uniforme grigia di comandante sardaukar senza decorazioni. Si muoveva con un'agile grazia che Alia ammirò. Forse, questo Principe di Corrino avrebbe significato qualcosa di più che un vano divertimento. La voce del Predicatore tuonò nella stanza attraverso gli amplificatori che affiancavano la finestra. Alia rabbrividì fino alle ossa e le sue parole fecero breccia in lei con crescente incanto. – Mi trovai nel deserto di Zan, – urlò il Predicatore, – in quella distesa di ululante desolazione. E Dio mi ordinò di render pulito quel luogo. E perché? Perché quel deserto era fonte di provocazione, di sofferenza e di tentazione, perché ci aveva spinto ad abbandonare le nostre tradizioni. Il Deserto di Zan, pensò Alia. Quello era il nome dato al luogo della Prova Suprema dagli Zensunni Erranti dai quali erano discesi i Fremen. E... quelle parole! Stava forse attribuendo a se stesso le distruzioni provocate ai sietch delle tribù fedeli? – Bestie selvagge infestano la vostra terra, – riprese il Predicatore, con una voce tonante che rimbombava da un lato all'altro della piazza. – Tristi creature riempiono le vostre case. E voi che siete fuggiti dalle vostre case non moltiplicate più i vostri giorni sulla sabbia. Sì, voi che avete abbandonato le nostre tradizioni, voi morrete dentro a tane insozzate se continuerete su questa strada. Ma se ascolterete il mio ammonimento, il Signore vi guiderà attraverso una terra di pozzi e caverne fino alla

Montagna di Dio. Sì, Shai-hulud vi guiderà. Gemiti sommessi si levarono dalla folla. Il Predicatore fece una pausa, ruotando le orbite senz'occhi da un lato all'altro a quel suono. Poi alzò le braccia, spalancandole, e gridò: – O Dio, la mia carne arde dal desiderio della Tua Strada in una terra arida e assetata! Una vecchia proprio di fronte al Predicatore, ovviamente una profuga a giudicare dai suoi abiti logori e rattoppati, tese la mano verso di lui e implorò: – Aiutaci, Muad'Dib. Aiutaci! Provando un improvviso morso di paura al petto, Alia si chiese se quella vecchia sapesse davvero la verità. Alia lanciò un'occhiata a sua madre, ma Jessica era rimasta immobile, dividendo la sua attenzione fra le guardie di Alia, Farad'n e il panorama che si vedeva dalla finestra. Farad'n fissava la scena affascinato, attento, quasi impietrito. Alia diede un'occhiata fuori della finestra, cercando di scorgere i Sacerdoti del Tempio. Non li vide, e sospettò che essi avessero cercato di farsi strada portandosi vicino alle porte del Tempio, proprio sotto di lei, per scendere la gradinata nel modo più diretto. Il Predicatore puntò la mano destra oltre la testa della vecchia, e urlò: – Voi siete l'unica speranza che mi rimane! Voi vi eravate ribellati. Avete portato con voi il vento secco che non purifica né raffredda. Su di voi grava il fardello del nostro deserto e il turbine giunge da laggiù, da quella terribile terra. Io sono stato in quella desolazione. L'acqua scorre sulla sabbia dai qanat frantumati. I ruscelli attraversano il suolo. L'acqua è caduta dal Cielo nella Cintura di Dune! O amici miei, Dio mi ha ordinato: Traccia una grande strada diritta nel deserto per il Nostro Signore, poiché io sono la voce che viene a te dalla desolazione. Egli indicò i gradini sotto i suoi piedi con un dito rigido e vibrante: – Questa non è una djedida perduta che non sarà più abitata per sempre! Qui noi abbiamo mangiato il pane del cielo. E qui lo schiamazzo degli stranieri ci caccia dalle nostre case! Essi stanno creando una desolazione completa sul nostro mondo, una terra dove non soltanto nessun uomo abiterà, ma neppure vorrà passarvi vicino! La folla si agitò, a disagio, i profughi e i Fremen di città si guardarono attorno, lanciando occhiate ai pellegrini dello Hajj che si trovavano fra loro. Potrebbe scatenare un sanguinoso tumulto! pensò Alia. Bene, che lo faccia pure. I miei sacerdoti potranno afferrarlo, nella confusione. In quell'attimo, vide i cinque sacerdoti, uno sventolio di vesti gialle, che

scendevano i gradini alle spalle del Predicatore. – Le acque che noi abbiamo sparso nel deserto sono diventate sangue! – gridò il Predicatore, a braccia spalancate. – Sangue sulla nostra terra! Guardate il nostro deserto il quale, gioendo e fiorendo, ha attirato gli stranieri e li ha sedotti al punto di farli mescolare a noi. Essi vengono a farci violenza! I loro volti incombono su di noi come il vento devastatore di Kralizec! Essi imprigionano la sabbia, ne risucchiano la ricchezza, il tesoro nascosto nelle sue profondità. Guardateli mentre proseguono nel loro malefico lavoro. Sta scritto: «Ed io mi ergevo sulla sabbia, io vidi una bestia uscire dalla sabbia, e sulla testa di quella bestia c'era il nome di Dio!» Rabbiosi mormorii s'innalzarono dalla folla. Si videro pugni levati che si agitavano. – Che cosa sta facendo? – bisbigliò Farad'n. – Vorrei saperlo, – disse Alia. Si portò una mano al petto, sentendo che il cuore le balzava in gola. La folla si sarebbe scagliata contro i pellegrini, se lui avesse continuato così! Ma il Predicatore fece un mezzo giro, puntò le orbite morte verso il Tempio e sollevò una mano per indicare le alte finestre del nido di Alia. – E infine, – gridò, – la somma empietà. E il nome di questa empietà è Alia! Un silenzio attonito calò sulla piazza. Alia restò immobile, costernata. Lei sapeva che la folla non poteva vederla, ma si sentì sopraffatta dalla sensazione di trovarsi esposta, vulnerabile. L'eco delle parole calmanti nella sua testa non riusciva a sopraffare il martellare del suo cuore. Lei riuscì soltanto a fissare, immobile, quell'incredibile spettacolo. Il Predicatore era rimasto con la mano alzata a indicare le sue finestre. Tuttavia le sue parole erano state troppo per i sacerdoti. Essi ruppero il silenzio con grida rabbiose e discesero impetuosamente i gradini, spingendo da parte la gente. Ma quand'essi si mossero, la folla reagì, frangendosi come un'onda sopra i gradini, spazzando via le prime file degli astanti, trascinando il Predicatore davanti a sé. Questi incespicò, improvvisamente separato dalla sua giovane guida. Poi un braccio rivestito di giallo si alzò fuori dalla calca: la sua mano brandiva un cryss. Alia vide il coltello colpire verso il basso, conficcandosi nel petto del Predicatore. Il clangore delle gigantesche porte del tempio che venivano chiuse fece uscire Alia dallo shock. Evidentemente le guardie avevano sbarrato le porte per bloccare la folla. Ma già la gente stava arretrando, lasciando uno

spazio libero intorno alla figura rattrappita sui gradini. Un silenzio sovrannaturale calò sulla piazza. Alia vide molti corpi, ma soltanto quello giaceva lì, solo. Poi una voce lanciò un grido acuto nel mezzo della folla: – Muad'Dib! Hanno ucciso Muad'Dib! – Dèi sotterranei, – balbettò Alia tremando. – Dèi sotterranei. – Un po' tardi per questo, non pensi? – chiese Jessica. Alia si girò di scatto, notò l'improvvisa sorpresa sul volto di Farad'n quando vide la rabbia sul suo viso. – Colui che hanno ucciso era Paul! – urlò Alia. – Era tuo figlio! Quando ne avranno conferma, sai che cosa accadrà? Jessica restò immobile per lunghi istanti, pensando che le era stato detto qualcosa che lei sapeva già. La mano di Farad'n sul suo braccio spezzò quell'attimo di sospensione: – Mia Signora, – le disse, e vi era tanta compassione nella sua voce al punto che Jessica pensò che avrebbe potuto morirne lì, sul posto. Fece scorrere lo sguardo dalla rabbia gelida e feroce sul volto di Alia allo sguardo sofferto e comprensivo di Farad'n, e pensò: Forse ho fatto fin troppo bene il mio lavoro. Non era possibile dubitare delle parole di Alia. Jessica ricordava ogni intonazione della voce del Predicatore, cogliendo in essa tutti i suoi stessi espedienti, i lunghi anni d'insegnamento impartiti a un giovane che doveva diventare imperatore, ma che ora giaceva sui gradini del Tempio, un mucchio di stracci insanguinati. La ghafla mi ha accecato, pensò Jessica. Alia fece un cenno a una delle aiutanti e ordinò: – Fate venire Ghanima, adesso. Jessica con uno sforzo riconobbe quelle parole: Ghanima? E perché mai Ghanima, proprio adesso? L'aiutante si voltò verso la porta esterna e fece un gesto perché fosse sollevata la sbarra, ma prima ancora che questa fosse toccata, la porta si gonfiò verso l'interno. I cardini saltarono. La sbarra si spezzò e la porta, un robusto manufatto di plastacciaio, destinato a resistere ad energie tremende, crollò dentro la stanza. Le guardie balzarono di lato per non farsi travolgere, estraendo le armi. Jessica e le guardie del corpo di Farad'n fecero muro intorno al Principe di Corrino. Ma la porta squarciata rivelò soltanto due bambini: Ghanima a sinistra, impaludata nella veste nera del fidanzamento, e Leto sulla destra, la grigia levigatezza di una tuta distillante visibile sotto una veste bianca macchiata

dal deserto. Alia fissò la porta caduta, poi i due bambini, e scoprì che stava tremando incontrollabilmente. – La famiglia è qui a darci il benvenuto, – commentò Leto. – Nonna. – Salutò con un cenno del capo Jessica, poi portò la sua attenzione sul Principe di Corrino. – E questi dev'essere il Principe Farad'n. Benvenuto su Arrakis, Principe. Gli occhi di Ghanima erano vacui. Teneva la mano destra appoggiata a un cryss da cerimonia appeso alla cintura, e sembrava che stesse cercando di sfuggire alla presa di Leto, che le stringeva il braccio. Leto la scrollò, agitando violentemente il suo corpo. – Guardatemi, famiglia, – esclamò Leto. – Io sono Ari, il Leone degli Atreides. E questa... – Diede una nuova scrollata a Ghanima, facendo sussultare con sconvolgente facilità l'intero corpo di lei, – ... questa è Aryeh, la Leonessa degli Atreides. Siamo venuti per condurvi al Secher Nbiw, il Sentiero Dorato. Ghanima assorbì le parole-chiave, Secher-Nbiw, e sentì la coscienza travolgere ogni barriera e rifluire nella sua mente. Fu qualcosa di bello e gratificante, con la vigile consapevolezza di sua madre sospesa là, dentro di lei, come un guardiano. E Ghanima seppe, in quel preciso istante, di aver conquistato anch'essa il dominio di quel suo molteplice, vociante passato. I mesi di autosoppressione ipnotica le erano serviti a edificare un luogo sicuro dal quale poter dirigere la propria carne. Fece per voltarsi verso Leto, spinta dall'impellente bisogno di spiegargli tutto questo, non appena si fu resa conto del luogo in cui si trovava e delle persone intorno a lei. Leto le lasciò libero il braccio. – Il nostro piano ha funzionato? – bisbigliò Ghanima. – Discretamente bene, – annuì Leto. Riprendendosi dallo shock, Alia gridò a un gruppo di guardie alla sua sinistra: – Prendeteli! Ma Leto si piegò di scatto, afferrò con una sola mano la porta caduta e la scagliò attraverso la stanza contro le guardie. Due furono schiacciate contro la parete. Le altre si allontanarono precipitosamente in preda al terrore. La porta pesava mezza tonnellata e quel bambino l'aveva scagliata con una sola mano! Alia si rese conto che l'intero corridoio, oltre la porta, doveva esser ricoperto dai corpi delle guardie abbattute da Leto, il quale, con quel suo

corpo in apparenza di bambino, aveva poi sfondato la porta creduta inespugnabile. Anche Jessica aveva assistito alla spaventevole esibizione di potenza da parte di Leto, ma le parole di Ghanima avevano sfiorato l'indistruttibile nucleo di disciplina Bene Gesserit in lei che la costrinse a conservare il suo sangue freddo. Quel suo nipote aveva parlato di un piano. – Quale piano? – chiese Jessica. – Il Sentiero Dorato, il piano per il nostro Impero. – Leto indicò Farad'n con un cenno del capo. – Non pensare troppo severamente di me, cugino. Io agisco anche nel tuo interesse. Alia sperava che Ghanima ti trucidasse. Io preferisco che tu viva la tua vita, e anche che tu sia felice. Alia urlò alle guardie ancora vive che si acquattavano nel corridoio: – Vi ordino di prenderli! Ma le guardie si rifiutarono di entrare nella stanza. – Aspettami qui, sorella, – disse Leto. – Ho un compito spiacevole da svolgere. – Si lanciò attraverso la stanza verso Alia. Lei arretrò precipitosamente in un angolo della stanza, si rannicchiò ed estrasse il coltello. Le verdi gemme del manico lampeggiarono alla luce della finestra. Leto continuò ad avanzare, a mani vuote, le braccia protese e frementi. Alia si lanciò in avanti impugnando il coltello. Leto balzò quasi fino al soffitto e scalciò in avanti col piede sinistro. Colse Alia alla testa con un colpo fulmineo e la mandò lunga distesa per terra, con un marchio insanguinato sulla fronte. Il pugnale le sfuggì di mano e rimbalzò sul pavimento. Alia fece per inseguirlo a quattro zampe ma trovò Leto a sbarrarle la strada. Alia esitò, fece appello a tutto il suo addestramento Bene Gesserit. Si alzò da terra con un movimento scattante, il corpo pronto a balzare. Ancora una volta Leto avanzò contro di lei. Alia fece una finta sulla sinistra, ma sollevò invece la gamba destra e tirò un calcio con la punta del piede che avrebbe potuto sbudellare un uomo. Leto guizzò e ricevette il colpo sul braccio, afferrò il piede di Alia, la sollevò completamente da terra e la fece roteare intorno alla propria testa. La velocità fu tale che il corpo di Alia sibilò nell'aria e la veste le flagellò il corpo con un violento crepitio. Gli altri arretrarono e si tuffarono a terra per schivare quel mulinello umano. Alia urlò e urlò, ma continuò a roteare, a roteare, a roteare... Poi, tacque. Lentamente Leto ridusse la velocità di rotazione, depositando infine il

corpo di Alia, delicatamente, a terra. Lei giacque ansante, come un mucchio di stracci. Leto si piegò sopra di lei. – Avrei potuto scagliarti attraverso una parete, – le disse. – Forse sarebbe stato, meglio, ma ora siamo al culmine della lotta. Hai diritto alla tua possibilità. Alia lanciò feroci occhiate in tutte le direzioni. – Io ho conquistato le mie vite interiori, – riprese Leto. – Guarda Ghani, anche lei può... Ghanima lo interruppe: – Alia, posso mostrarti... – No! – La parola era stata strappata ad Alia. Il suo petto si gonfiò e numerose voci cominciarono ad uscire dalla sua bocca. Erano sconnesse, imprecavano, imploravano. – Vedi! Perché non mi hai ascoltato? – E poi: – Perché fai questo? Che cosa sta accadendo? – E un'altra voce: – Fermali! Falli smettere! Jessica si coprì gli occhi, sentì la mano di Farad'n che la sosteneva. Alia continuò a delirare. – Vi ucciderò! – Bestemmie orrende irruppero dalla sua bocca: – Berrò il vostro sangue! – Il suono di molte lingue sgorgò da lei sempre più intenso, folle e confuso. Le guardie superstiti rannicchiate nel corridoio esterno fecero tutte il segno delle Corna del Verme e si premettero le mani strette a pugno vicino alle orecchie. Alia era posseduta! Leto restò immobile, scuotendo la testa. Poi si avvicinò alla finestra e con tre rapidi colpi fracassò la massiccia lastra di vetro-cristallo che si presumeva infrangibile, sconquassandone il telaio. Un sorriso astuto comparve sul volto di Alia. Jessica sentì qualcosa di simile alla propria voce uscire da quella bocca contorta, una parodia dell'addestramento Bene Gesserit: – Tutti voi! Restate dove siete! Jessica, abbassando le mani, scoprì che erano umide di lacrime. Alia rotolò sulle ginocchia, poi si alzò in piedi, barcollando. – Non sapete chi sono? – chiese. Era la sua voce di un tempo, la voce dolce e musicale della giovane Alia che non esisteva più. – Perché mi guardate tutti così? – Si rivolse a Jessica con occhi imploranti: – Madre, fermali. Jessica riuscì soltanto a scuotere la testa, stremata da quel supremo orrore. Tutti gli antichi avvertimenti del Bene Gesserit erano veri. Fissò Leto e Ghani in piedi l'uno accanto all'altro, accanto ad Alia. Che significato avevano quegli avvertimenti per gli sventurati gemelli? – Nonna, – disse Leto, e la sua voce risuonò implorante. – Dobbiamo

avere, qui, una Prova della Possessione? – Chi sei tu per parlare di prove? – chiese Alia, e la sua era la voce di un uomo petulante. Il Vecchio Barone Harkonnen. Ghanima sentì la stessa voce che cominciava ad echeggiare nella sua testa, ma la porta interiore fu immediatamente sbarrata, e Ghanima percepì la presenza della madre. Jessica restò in silenzio. – Allora la decisione spetta a me, – disse Leto. E la scelta è tua, Alia. La Prova della Possessione, oppure... – Indicò con un cenno del capo la finestra spalancata. – Chi sei tu per darmi una scelta? – chiese Alia, ed era ancora la voce del Vecchio Barone. – Demonio! – urlò Ghanima. – Lascia che faccia la sua scelta! – Madre, – implorò Alia col tono di voce di quand'era bambina. – Madre, che cosa stanno facendo? Che cosa vogliono che io faccia? Aiutami. – Aiutati da sola, – ribatté Leto e, per un attimo fugace, vide la presenza lacunosa e sconnessa di sua zia affacciarsi a quegli occhi, un'immagine carica d'angoscia che lo fissò e scomparve. Ma il suo corpo avanzò con passo rigido, da mummia. Alia ondeggiò, incespicò, deviò dalla sua strada ma vi ritornò, sempre più vicina alla bocca spalancata della finestra. Ora la voce rabbiosa del Vecchio Barone esplose dalle sue labbra: – Ferma! Ferma, ti dico! Fermati, ti ordino! Senti questo! – Alia si strinse la testa fra le mani e, incespicando, si avvicinò ancora di più alla finestra. Il davanzale premette contro le sue cosce, ma la voce continuò a delirare: – Non farlo! Fermati e ti aiuterò. Ho un piano. Ascoltami. Fermati, ti dico. Aspetta! – Ma Alia si strappò le mani dalla testa e si avvinghiò al telaio contorto. Con un unico balzo si sollevò oltre il davanzale e scomparve. Non lanciò un solo grido mentre precipitava. Nella stanza si udì l'urlo della folla e il tonfo molle del corpo di Alia che si schiacciava molti più gradini più sotto. Leto guardò Jessica: – Essa merita la nostra pietà. Jessica si voltò e affondò il volto nella giubba di Farad'n.

L'ipotesi che un intero sistema possa esser fatto funzionar meglio mediante un'aggressione ai suoi elementi consci rivela una pericolosa ignoranza. Questo è stato spesso l'approccio inconsulto di coloro che si definiscono scienziati e tecnologi. – Il Jihad Butleriano di Harq al-Ada

– Corre durante la notte, cugino, – disse Ghanima. – Corre. L'hai visto correre? – No, – replicò Farad'n. Egli era in attesa insieme a Ghanima fuori della piccola sala delle udienze della Rocca dove Leto li aveva convocati. Tyekanik era immobile a qualche distanza, insieme a Lady Jessica che sembrava ritirata in se stessa, come se la sua mente vivesse altrove. Non era passata neppure un'ora dal pasto del mattino, ma già molte cose si erano messe in movimento: una convocazione alla Gilda, messaggi alla CHOAM e al Landsraad. Farad'n trovava difficile capire questi Atreides. Lady Jessica l'aveva avvertito, ma ancora adesso ciò che aveva constatato lo lasciava perplesso. Essi continuavano a parlare del fidanzamento, anche se la maggior parte delle condizioni politiche che l'avevano giustificato sembravano non esistere più. Leto sarebbe salito al trono; sembrava che vi fossero ben pochi dubbi in proposito. La sua strana pelle vivente avrebbe dovuto essergli tolta, naturalmente... ma col tempo... – Corre per stancarsi, – riprese Ghanima. – È Kralizec incarnato. Nessuna tempesta si è mai precipitata in avanti con la sua velocità. È una macchia confusa in cima alle dune. Io l'ho visto. Corre e corre. E quando finalmente è esausto, ritorna e appoggia il capo nel mio grembo. «Chiedi alla nostra madre, dentro di te, un modo per farmi morire», implora. Farad'n la fissò. In quell'ultima settimana, dallo scoppio del tumulto in piazza, nella Rocca si erano potuti percepire strani ritmi, misteriosi andirivieni. Racconti di accaniti combattimenti al di là del Muro Scudo gli erano giunti tramite Tyekanik, al quale erano stati chiesti consigli militari. – Non ti capisco, – chiese Farad'n. – Un modo per farlo morire? – Mi ha chiesto di prepararti, – replicò Ghanima. Non era la prima volta che restava colpita dalla curiosa innocenza di quel Principe di Corrino. Era stata opera di Jessica, oppure si trattava di qualcosa d'innato in lui? – Prepararmi... a che cosa? – Lui non è più umano, – spiegò Ghanima. – Ieri tu mi hai chiesto

quando si sarebbe tolto quella pelle vivente? Mai. Ora fa parte di lui, e Leto fa parte di essa. Leto calcola di avere quattromila anni a disposizione, prima che la metamorfosi lo distrugga. Farad'n cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. – Capisci perché corre? – chiese Ghanima. – Ma se vivrà così a lungo e sarà così... – Perché il ricordo di essere uomo è così vivo, e ricco, in lui. Pensa a tutte le vite che possiede in lui, cugino. No, non puoi immaginare che cosa voglia dire perché non l'hai provato. Ma io lo so. Io posso immaginare il suo dolore. Egli dà più di quanto abbia dato chiunque altro prima di lui. Nostro padre s'incamminò nel deserto cercando di sfuggirvi. Alia ne ebbe paura, e a causa di questo divenne un'Abominazione. Nostra nonna sperimenta questa condizione soltanto in una forma iniziale, confusa, eppure deve servirsi di ogni espediente Bene Gesserit per convivere con essa: ed è proprio questo, essenzialmente, lo scopo dell'addestramento di una Reverenda Madre. Ma Leto! Non c'è nessun altro come lui, né mai vi sarà. Farad'n restò di sasso a queste sue parole. Imperatore per quattromila anni? – Jessica lo sa, – riprese Ghanima, fissando sua nonna. – Lui gliel'ha rivelato la scorsa notte. Ha chiamato se stesso «il primo vero pianificatore a lungo raggio della storia umana.» – Ma qual è il suo... piano? – Il Sentiero Dorato. Te lo spiegherà lui più tardi. – E in questo suo... piano, ha previsto un ruolo per me? – Sarai il mio consorte, – disse Ghanima. – Leto sta prendendo il controllo del programma genetico della Sorellanza. Sono convinta che mia nonna ti ha parlato del sogno del Bene Gesserit, di ottenere un Reverendo maschio, dotato di poteri straordinari. Leto è... – Vuoi dire che noi dovremo soltanto... – Non soltanto. – Lei gli afferrò il braccio e glielo strinse con calda familiarità. – Egli affiderà, a entrambi, compiti di grande responsabilità. Quando non saremo impegnati a fare bambini, cioè. – Be', sei ancora un po' piccola, – osservò Farad'n, svincolando il braccio. – Non commettere mai più questo errore! – esclamò lei, vibrante di collera. Jessica si avvicinò, insieme a Tyekanik.

– Tyek mi ha riferito che i combattimenti si sono estesi fuori del pianeta, – disse Jessica. – Il Tempio centrale di Biarek è assediato. Farad'n fu stupito della singolare calma con cui lei aveva fatto questo annuncio. Lui aveva riesaminato i rapporti durante la notte, insieme a Tyekanik. Una fiammata di ribellione si stava espandendo attraverso l'Impero. Sarebbe stata soffocata, naturalmente, ma Leto avrebbe avuto un ben triste impero da restaurare. – Ecco Stilgar, – annunciò Ghanima. – Lo stavamo aspettando. – E ancora una volta afferrò il braccio di Farad'n. Il vecchio Naib Fremen era entrato dalla porta sul lato opposto della stanza, scortato da due Commando della Morte, suoi compagni dei giorni del deserto. Tutti indossavano le formali vesti nere con i cordoncini bianchi e le fasce gialle alla fronte, in segno di lutto. Si avvicinarono a lenti passi, Stilgar aveva gli occhi puntati su Jessica. Si fermò davanti a lei e la salutò con un cauto cenno del capo. – Ti preoccupi ancora per la morte di Duncan Idaho? – chiese Jessica. Non le piaceva tanta cauta prudenza in un vecchio amico. – Reverenda Madre, – fece lui. Allora sarà così? pensò Jessica, afflitta. Tutte le più rigide formalità del codice Fremen. Il sangue... così difficile da cancellare! Disse: – Secondo noi, tu hai semplicemente recitato il ruolo che Duncan ha voluto assegnarti. Non è la prima volta che un uomo ha dato la sua vita per gli Atreides. E perché mai, Stil? Tu stesso sei stato pronto a darla più di una volta. Perché? Forse perché sai quanto danno in cambio gli Atreides? – Sono felice che tu non cerchi nessun pretesto per vendicarti, – Stilgar replicò. – Ma vi sono alcune questioni che devo discutere con tuo nipote. Questioni che potrebbero dividerci per sempre. – Vuoi dire che Tabr non gli renderà omaggio? – chiese Ghanima. – Voglio dire che mi riservo il giudizio. – Stilgar fissò, gelido, Ghanima. – Non mi piace quello che i miei Fremen sono diventati, – ringhiò. – Torneremo alle antiche abitudini. E senza di voi, se necessario. – Per un po', forse, – disse Ghanima. – Ma il deserto sta morendo, Stil. Che cosa farai, quando non ci saranno più vermi, quando non ci sarà più deserto? – Non ci credo! – Entro cento anni, – ribatté Ghanima, – ci saranno meno di cinquanta vermi, e saranno malati, chiusi in una riserva amministrata con grande

cura. La loro spezia sarà riservata esclusivamente alla Gilda Spaziale, e il prezzo... – Scosse la testa. – Ho visto i calcoli fatti da Leto. Ha visitato ogni angolo del pianeta. Lui lo sa. – È questo un altro espediente per costringere i Fremen a restare vostri vassalli? – Quando mai sei stato mio vassallo? – chiese Ghanima. Stilgar la guardò, torvo. Non importava che cosa lui dicesse o facesse, questi gemelli riuscivano sempre a far ricadere la colpa su di lui! – La scorsa notte egli mi ha parlato di questo Sentiero Dorato, – sbottò Stilgar. – Non mi piace! – È strano, – disse Ghanima, lanciando un'occhiata a sua nonna. – La maggior parte dell'Impero l'accoglierà con gioia. – La distruzione di noi tutti, – borbottò Stilgar. – Ma tutti anelano all'Età dell'Oro, – replicò Ghanima. – Non è forse così, nonna? – Tutti, – assentì Jessica. – Essi anelano all'Impero faraonico che Leto procurerà ad essi, – continuò Ghanima. – A una pace ricca di abbondanti raccolti, grassi commerci, tutti ugualmente prosperi, anche se non quanto il Dorato Sovrano. – Sarà la morte dei Fremen! – protestò Stilgar. – Come puoi dire una cosa simile? Non avremo forse bisogno di soldati e di uomini coraggiosi per disperdere gli occasionali insoddisfatti? Ebbene, Stil, voi Fremen e i coraggiosi compagni di Tyek avrete tutte le possibilità di un duro lavoro. – Stilgar guardò l'ufficiale dei Sardaukar e uno strano lampo di comprensione scoccò fra i due. – E Leto controllerà la spezia, – ricordò loro Jessica. – Sarà un controllo assoluto, – ribadì Ghanima. Farad'n, ascoltando con la nuova consapevolezza che Jessica gli aveva insegnato, percepì qualcosa di molto simile a una recita preordinata, a una sorta di spettacolo preparato fra Ghanima e sua nonna. – La pace durerà e durerà e durerà, – disse ancora Ghanima. – Il ricordo della guerra svanirà del tutto. Leto condurrà l'umanità attraverso un rigoglioso giardino per almeno quattromila anni. Tyekanik fissò perplesso Farad'n, si schiarì la gola. – Sì, Tyek? – chiese Farad'n. – Vorrei parlare privatamente con te, mio Principe. Farad'n sorrise, poiché, conoscendo la mentalità militare di Tyekanik,

già sapeva quale sarebbe stata la domanda, e come lui lo sapevano almeno altri due fra i presenti. – Non venderò i miei Sardaukar, – dichiarò Farad'n. – Non sarà necessario, – esclamò Ghanima. – Tu... presti ascolto a questa bambina? – chiese Tyekanik. Era oltraggiato. Il vecchio Naib lì presente capiva i problemi sollevati da tutto quel congiurare, ma Tyekanik era sconvolto, e non lui soltanto, da quella situazione apparentemente assurda. Ghanima sorrise trucemente, ed esclamò: – Diglielo, Farad'n. Farad'n sospirò. Era facile dimenticare la stranezza di quella bambina che non era una bambina, e difficile immaginare la sua intera vita sposato con lei, ogni più segreta intimità condivisa. Non era una prospettiva del tutto piacevole, ma lui cominciava a riconoscerne l'inevitabilità. Il controllo assoluto delle riserve di spezia che stavano decrescendo! Niente più si sarebbe mosso nell'universo, senza la spezia. – Più tardi, Tyek, – disse Farad'n. – Ma... – Più tardi, ho detto! – Per la prima volta usò la Voce su Tyekanik. Vide l'uomo ammiccare, sbigottito, incapace di replicare. Un sorriso forzato aleggiò sulle labbra di Jessica. – Egli parla di pace e di morte con lo stesso fiato, – borbottò Stilgar. – L'Età dell'Oro! Ghanima proseguì: – Egli condurrà gli esseri umani attraverso il culto della morte fino all'aria libera e alla vita trionfante! Egli parla della morte perché è necessario, Stil. È una tensione continua che dà ai viventi la coscienza di esistere. Quando il suo Impero cadrà... perché anch'esso cadrà, un giorno... Tu pensi che questo crollo sarà Kralizec, ma Kralizec sarà ancora di là da venire... Quando verrà, comunque, gli esseri umani avranno riacquistato il ricordo di ciò che vuol dire essere vivi. Un ricordo che persisterà fino a quando esisterà anche un solo essere umano. Noi vivremo ancora una volta la prova più dura, Stil. E la supereremo. Noi risorgiamo sempre dalle nostre ceneri. Sempre. Farad'n, ascoltando le sue parole, comprese ciò che lei aveva voluto dire parlandogli di Leto che correva. Non è più umano. Stilgar non era ancora convinto. – Niente più vermi, – ringhiò. – Oh, i vermi torneranno, – lo rassicurò Ghanima. – Saranno tutti morti nel giro di duecento anni, ma torneranno. – Come... – Stilgar s'interruppe. Farad'n sentì la sua mente invasa dalla rivelazione. Sapeva ciò che

Ghanima avrebbe detto prima ancora che lei parlasse. – La Gilda sopravviverà a stento durante gli anni magri, e soltanto grazie alle sue scorte e alle nostre, – dichiarò Ghanima. – Ma, dopo Kralizec, tornerà l'abbondanza. I vermi torneranno, ma soltanto dopo che mio fratello sarà andato dentro la sabbia.

Come molte altre religioni, il Dorato Elisir della Vita di Muad'Dib degenerò in pura stregoneria esteriore. I suoi segni mistici diventarono semplici simboli per più profondi processi psicologici, e questi processi, naturalmente, sfuggirono a ogni controllo. Ciò di cui avevano bisogno era un dio vivente, ed essi non l'avevano. Una situazione alla quale il figlio di Muad'Dib ha posto rimedio. – Dichiarazione attribuita a Lu Tung-pin (Lu, l'Ospite della Caverna)

Leto sedeva sul trono del Leone per accettare l'omaggio delle tribù. Ghanima era in piedi accanto a lui, un gradino più in basso. La cerimonia nella Grande Sala durò per ore. Una tribù Fremen dopo l'altra, rappresentate dai propri delegati e dai loro Naib, sfilarono davanti a lui. Ogni gruppo recava doni adatti a un dio dai poteri terrificanti, un dio della vendetta che prometteva loro la pace. La settimana precedente egli li aveva indotti a sottometterglisi, esibendosi davanti agli arifa di tutte le tribù. I Giudici l'avevano visto attraversare a piedi un pozzo infuocato, emergendone indenne, e lui aveva chiesto che l'esaminassero da vicino per constatare come la sua pelle non avesse subìto il minimo danno. Aveva ordinato che vibrassero su di lui violenti fendenti con i loro pugnali, e la pelle impenetrabile si era fulmineamente protesa a coprirgli il viso, mentre i cryss colpivano invano. Gli acidi corrosivi erano scorsi sul suo corpo sollevando appena leggeri sbuffi di vapore. Leto aveva trangugiato i loro più potenti veleni e aveva riso di loro. Alla fine aveva chiamato un verme e l'aveva fronteggiato, davanti a tutti loro, in piedi, immobile, sfidando la bocca spalancata. E aveva poi raggiunto il campo di atterraggio di Arrakeen, dove con irriverente facilità aveva rovesciato una fregata della Gilda semplicemente afferrandola per una delle pinne d'atterraggio. Gli arifa avevano riferito tutto questo, sbigottiti, e ora i delegati delle tribù erano prontamente accorsi a confermare solennemente la loro sottomissione. Il grande soffitto a volta della sala assorbiva i rumori più intensi, ma il costante frusciare dei piedi in movimento s'insinuava nei sensi, mescolandosi all'odore della polvere e della roccia sbriciolata portati dall'esterno. Jessica, che si era rifiutata di partecipare ufficialmente, osservava l'intera scena da uno spioncino situato in alto, dietro il trono. Stava riflettendo su Farad'n, e sul modo in cui sia lei che Farad'n erano stati sopraffatti su tutta

la linea. Era ovvio che Leto e Ghanima avevano previsto i piani della Sorellanza! I gemelli potevano consultare dentro di sé un'intera legione di Bene Gesserit, un numero ben più grande di tutte le Reverende Madri che, ora, erano vive e attive nell'Impero! L'amareggiava soprattutto il modo in cui la mitologia della Sorellanza aveva intrappolato Alia. Paura nata e potenziata a livelli insopportabili dalla stessa paura! Il destino dell'Abominazione implacabilmente impresso su di lei da una spietata tradizione. Alia non aveva conosciuto alcuna speranza. Inevitabile, quindi, che fosse sopraffatta. Il suo destino faceva sì che fosse ancora più difficile sopportare il successo di Leto e Ghanima. Poiché – in realtà – vi sarebbe sempre stato un modo di uscire dalla trappola... anzi, due! La vittoria di Ghanima sulle sue vite interiori e il suo insistere che Alia meritava soltanto pietà erano le maggiori fonti di amarezza. La soppressione ipnotica sotto stress e il valido appoggio di un antenato benigno (sua madre) avevano salvato Ghanima. Avrebbero potuto salvare anche Alia. Ma Alia aveva perduto ogni speranza, e niente era stato tentato finché non era stato troppo tardi. L'acqua di Alia era stata versata sulla sabbia... Jessica sospirò e tornò a fissare Leto seduto sul trono. Un gigantesco vaso di vetro, simile a un baldacchino di cristallo, contenente l'acqua di Muad'Dib, occupava il posto d'onore alla sua destra. Leto si era vantato con Jessica che suo padre, dentro di lui, aveva riso di quel gesto, pur ammirandolo. Questo vantarsi, e il vaso, erano stati appunto i motivi che avevano rafforzato la determinazione di Jessica a non partecipare alla cerimonia. Lei sapeva che, finché fosse vissuta, non avrebbe potuto accettare che Paul parlasse per bocca di Leto. Jessica si rallegrava che la Casa degli Atreides fosse sopravvissuta, ma il prezzo pagato andava ben oltre la sua sopportazione. Farad'n sedeva a gambe incrociate accanto al grande vaso con l'acqua di Muad'Dib. Era la posizione dello Scriba Reale, un onore conferito di recente, e di recente accettato. Farad'n sentiva, dentro di sé, che si stava adattando bene a quella nuova realtà, anche se Tyekanik era ancora infuriato e minacciava orribili conseguenze. Tyekanik... e Stilgar: ambedue si erano in un certo senso alleati nel sospetto, e il fatto sembrava divertire Leto. Durante le lunghe ore di quella cerimonia di omaggio, Farad'n era passato dalla meraviglia alla noia e poi nuovamente alla meraviglia. Quegli impareggiabili guerrieri erano un inesausto torrente di autentica umanità.

La fedeltà che rinnovavano all'Atreides seduto sul trono non poteva esser messa in dubbio. Essi venivano avanti e si arrestavano di fronte a lui esternandogli il loro terrorizzato omaggio, sbigottiti da ciò che gli arifa avevano riferito. Finalmente la cerimonia giunse alla conclusione. L'ultimo Naib si fermò di fronte a Leto: era Stilgar, nella «posizione d'onore della retroguardia». Invece di panieri ricolmi di spezia, gemme di fuoco o altri doni costosi che giacevano a mucchi intorno al trono, Stilgar portava in omaggio una benda frontale di fibra di spezia. Il Falco degli Atreides era stato ricamato in verde e oro nella trama. Ghanima la riconobbe e lanciò un'occhiata obliqua a Leto. Stilgar depose la benda sul secondo gradino del trono, e s'inchinò profondamente. – A te la benda che tua sorella portava sulla fronte quando la feci venire con me nel deserto per proteggerla, – disse. Leto dissimulò un sorriso. – So che hai vissuto momenti difficili, Stilgar, – disse. – C'è qualcosa, qui, che vorresti in cambio? – Indicò con la mano i doni costosi che si ammucchiavano intorno a lui. – No, mio Signore. – Accetto il tuo dono, allora, – Leto si piegò in avanti, afferrò l'orlo della veste di Ghanima, ne strappò via una striscia sottile. – In cambio, io ti dò questo lembo della veste di Ghanima... la veste che indossava quando fu rapita dal tuo accampamento nel deserto, costringendomi a salvarla. Stilgar accettò il frammento di tessuto con mano tremante. – Ti prendi gioco di me, mio Signore? – Prendermi gioco di te? Sul mio onore, Stilgar, non mi prenderei mai gioco di te. Ti ho dato un dono senza prezzo. Ti ordino di portarlo vicino al tuo cuore, perché tu ricordi sempre che tutti gli esseri umani sono pronti a commettere errori, e che tutti i capi sono esseri umani. Un fugace sorriso aleggiò sulle labbra di Stilgar: – Quale Naib saresti stato! – Quale Naib io sono! Naib dei Naib. Non dimenticarlo mai! – Come dici tu, mio Signore. – Stilgar deglutì, ricordando ciò che gli aveva riferito il suo arifa. E pensò: Un giorno pensai di trucidarlo. Ora è troppo tardi. Il suo sguardo cadde sul grande vaso, d'una piacevole sfumatura dorata che dava sul verde. – Quella è acqua della mia tribù. – E anche mia, – replicò Leto. – Ti ordino di leggere l'iscrizione sul fianco. Leggila a voce alta perché tutti possano sentirla.

Stilgar rivolse un'occhiata interrogativa a Ghanima, ma lei si limitò a rispondere drizzando il mento, una reazione gelida che lo fece rabbrividire. Quei due piccoli demoni Atreides erano forse decisi a fargli pagare le sue impetuosità e i suoi errori? – Leggi, – tornò a intimargli Leto, indicandogli la scritta. Lentamente Stilgar salì i gradini, e si curvò sul vaso. Lesse, a voce alta: – «Quest'acqua è l'essenza suprema, una sorgente di creatività proiettata verso l'esterno. Anche se appare immobile, quest'acqua è il tramite di ogni movimento.» – Che cosa significa, mio Signore? – bisbigliò Stilgar. Quelle parole l'avevano soggiogato, toccando qualcosa nel suo intimo che non riusciva a identificare. – Il corpo di Muad'Dib è un guscio secco, come quello abbandonato da un insetto, – disse Leto. – Egli seppe dominare il mondo interiore, disprezzando allo stesso tempo quello esteriore, e ciò condusse alla catastrofe. Egli seppe dominare il mondo esteriore escludendo allo stesso tempo quello interiore, e ciò facendo consegnò i suoi discendenti ai demoni. L'Elisir Dorato scomparirà da Dune, eppure il seme di Muad'Dib sopravviverà e la sua acqua muoverà il nostro universo. Stilgar chinò la testa. Questi discorsi mistici lo mettevano sempre in agitazione. – L'inizio e la fine sono una cosa sola, – proseguì Leto. – Tu vivi nell'aria ma non la vedi. Una fase si è chiusa. Da ciò, s'inizia ora il suo opposto. Così noi avremo Kralizec. Tutto ritorna, anche se in forma cambiata. Tu hai sentito i pensieri nella tua testa: i tuoi discendenti li sentiranno nei loro ventri. Torna a Sietch Tabr, Stilgar. Gurney Halleck ti raggiungerà laggiù come mio rappresentante nel tuo Consiglio. – Non ti fidi di me, mio Signore? – Stilgar replicò a voce bassa. – Mi fido completamente, altrimenti non avrei mandato Gurney da te. Egli comincerà a reclutare la nuova milizia di cui avremo presto bisogno. Accetto il tuo voto di fedeltà, Stilgar. Sei congedato. Stilgar s'inchinò profondamente, discese a ritroso i gradini, si voltò e lasciò la sala. Gli altri Naib gli si accodarono, secondo il principio Fremen che «l'ultimo sarà il primo». Ma l'intrecciarsi delle loro domande continuò a udirsi dal trono finché non furono tutti usciti: – Di che cosa avete parlato lassù, Stil?... Che cosa significano quelle sue parole sull'acqua di Muad'Dib? Leto si rivolse a Farad'n: – Hai registrato tutto, Scriba?

– Sì, mio Signore. – Mia nonna mi ha detto che ti ha ottimamente addestrato nei procedimenti mnemonici del Bene Gesserit. Ciò è bene. Non voglio vederti scribacchiare accanto a me. – Come tu ordini, mio Signore. – Alzati e mettiti in piedi di fronte a me, – ordinò Leto. Farad'n obbedì, più che mai grato per l'addestramento ricevuto da Jessica. Quando si accettava il fatto che Leto non era più un essere umano, che non poteva pensare più come un uomo, lo svolgersi implacabile del suo Sentiero Dorato diventava ancora più spaventevole. Leto alzò lo sguardo su Farad'n. Le guardie si tenevano bene indietro, fuori della portata di ascolto. Soltanto i Consiglieri della Presenza Interiore erano rimasti nella Grande Sala, e sostavano reverentemente in gruppo ben lontani dal primo gradino. Ghanima si era avvicinata, appoggiando un braccio sullo schienale del trono. – Non hai acconsentito a concedermi i tuoi Sardaukar, – esclamò Leto, – ma lo farai. – Ti devo molto, – replicò Farad'n, – ma non questo. – Pensi che sarà difficile, per loro, intendersi con i miei Fremen? – Tutt'altro. Non hai visto quanto sono diventati amici Stilgar e Tyekanik? – E nondimeno rifiuti? – Aspetto la tua offerta. – Così, devo farti un'offerta, e subito? Davvero, mi auguro che mia nonna abbia fatto bene la sua parte, e che tu sia preparato a capire. – Capire... che cosa? – C'è sempre una mistica che prevale su ogni altra cosa, in ogni civiltà, – spiegò Leto. – Si autoedifica come una barriera contro ogni cambiamento. Ciò contribuisce, infallibilmente, a lasciare le generazioni future impreparate ad affrontare le perfidie dell'universo. Qualunque mistica si equivale, quando si tratta di edificare simili barriere – che sia una mistica religiosa, la mistica del capo-eroe, della scienza-e-tecnologia, perfino la mistica della natura. Noi viviamo in un Impero che è stato plasmato su una mistica di questo tipo, e ora questo Impero sta crollando perché la maggior parte della gente non sa distinguere fra la sua mistica e l'universo reale. Vedi, la mistica è come esser posseduti dal demonio: tende a sostituire, per chi ne è invasato, i sensi, la coscienza, tutto. – Riconosco la saggezza di tua nonna in queste parole, – dichiarò

Farad'n. – Molto bene, cugino. Lei mi ha chiesto se io ero un'abominazione. Le ho risposto di no. È stata la mia prima slealtà. Capisci, Farad'n? Ghanima è riuscita a sfuggirvi, io no. Io sono stato costretto ad accogliere le mie vite interiori sotto la pressione indotta dall'eccesso di melange. Ho dovuto accettare la collaborazione attiva di quelle vite risvegliatesi dentro di me. Ho respinto, però, quelle più malevole, scegliendo un protettore dominante impostomi da mio padre. Ma io, in realtà, non sono né mio padre, né questo protettore. E non sono neppure il Secondo Leto. – Spiegati. – Sei di una sincerità ammirevole, – commentò Leto. – Io sono una comunità di vite dominata da un essere incredibilmente antico e potente. Egli diede origine a una dinastia che durò tremila dei nostri anni. Il suo nome era Harum e, fino al giorno in cui la sua stirpe degenerò in un accumularsi di debolezze congenite e di superstizioni, i suoi sudditi vissero in una sublime armonia. Essi seguivano spontaneamente il ritmico mutare delle stagioni. Essi generavano individui che tendevano ad avere vita breve, superstizioni, ed erano facilmente governabili da un dio-re. Ma presi nell'insieme, erano un popolo potente. La loro sopravvivenza come specie divenne un fatto normale, ovvio. – È una musica che non mi piace, – dichiarò Farad'n. – E non piace neanche a me, a dire il vero, – replicò Leto. – Ma è l'universo che creerò. – Perché? È una lezione che ho appreso su Dune. Noi abbiamo mantenuto la presenza della morte come uno spettro dominatore fra i viventi di questo mondo. Tramite questa presenza incombente, i morti hanno cambiato i vivi. La gente di una società cosiffatta sprofonda dentro di sé, nei propri visceri. Ma quando il procedimento s'inverte, quand'essi risalgono, eccoli riapparire grandi e belli. – Ciò non risponde alla mia domanda, – protestò Farad'n. – Non ti fidi di me, cugino. – E neanche tua nonna si fida. – Con ottime ragioni, – rispose Leto. – Ma lei acconsente perché deve farlo. In fondo, le Bene Gesserit sono pragmatiche. Io condivido la loro visione del nostro universo, sai? Tu porti i segni di questo universo. Tu sei tuttora impregnato della tipica mentalità di chi governa, classificando tutto ciò che ti circonda in termini di possibili minacce o vantaggi che può

rappresentare. – Ho acconsentito ad essere il tuo scriba. – L'hai giudicato un fatto divertente e una lusinga al tuo vero talento, che è quello dello storico. Tu sei senz'altro un genio nell'interpretare il presente in termini di passato. Sei riuscito a precedermi in molte occasioni. – Non mi piacciono queste tue velate insinuazioni, – ribatté Farad'n. – Appunto. Tu sei precipitato da un'ambizione infinita alla tua presente condizione degradata. Ma... mia nonna non ti ha messo in guardia contro l'infinito? Esso ci attrae come un faro nella notte, ma ci abbaglia, e giunge ad accecarci, travolgendo il nostro Io limitato. – Un aforisma alla Bene Gesserit! – protestò Farad'n. – Ma assai più preciso, – ribatté Leto. – Le Bene Gesserit hanno creduto di poter prevedere il corso dell'evoluzione. Ma hanno trascurato il fatto che anch'esse sarebbero cambiate nel corso di quell'evoluzione. Hanno presupposto che sarebbero sempre rimaste identiche a se stesse, mentre il loro programma genetico si evolveva. Io non sono vittima di questa cecità per quanto mi concerne. Guardami attentamente, Farad'n, perché io non sono più un essere umano. – Così mi garantisce tua sorella. – Farad'n esitò. Poi: – Abominazione? – Secondo la definizione della Sorellanza, forse. Harum è crudele e autocratico. Io condivido la sua crudeltà. Ascolta bene ciò che ora ti dico: io ho la crudeltà del domatore di belve, e questo universo umano è il mio serraglio. Un tempo i Fremen tenevano le aquile addomesticate come animali da salotto. Io invece terrò un Farad'n addomesticato. Il volto di Farad'n si oscurò. – Guardati dai miei artigli, cugino. So bene che i miei Sardaukar finirebbero per soccombere di fronte ai tuoi Fremen. Ma riusciremmo ugualmente a infliggerti gravi ferite, e vi sono sciacalli che aspettano di colpire il più debole. – Ti userò nel migliore dei modi, questo ti prometto, – dichiarò Leto. Si sporse in avanti. – Non ti ho forse detto che non sono più umano? Credimi, cugino: non discenderanno figli dai miei lombi, poiché io non ho più lombi. E questo mi spinge alla seconda slealtà. Farad'n attese in silenzio, cogliendo finalmente lo scopo del discorso di Leto. – Andrò contro ogni precetto dei Fremen, – proseguì Leto. – Essi accetteranno, poiché non possono far altro. Io ti ho trattenuto qui con la lusinga di un fidanzamento, ma non ci sarà alcun fidanzamento fra te e Ghanima. Mia sorella sposerà me!

– Ma tu... – Sposerà me, ho detto. Ma Ghanima deve continuare la stirpe degli Atreides. E c'è inoltre la questione del programma genetico del Bene Gesserit che è adesso anche il mio programma genetico. – Mi rifiuto! – esclamò Farad'n. – Ti rifiuti di procreare una dinastia Atreides? – Quale dinastia, se tu occuperai il trono per migliaia di anni? – E plasmerò i tuoi discendenti a mia immagine. Sarà il più intenso ed esauriente programma di addestramento di tutta la storia. Noi saremo un completo ecosistema in miniatura. Capisci? Qualunque ecosistema una specie animale scelga per sopravvivere, esso dev'essere basato su una struttura di comunità interdipendenti le quali lavorino insieme armonizzandosi in un disegno più ampio. E il mio sistema plasmerà i migliori, i più esperti sovrani che la storia abbia mai visto. – Usi parole scelte con cura per descrivere il più ripugnante... – Chi riuscirà a sopravvivere a Kralizec? – domandò Leto. – Perché, ti garantisco, Kralizec verrà. – Tu sei pazzo! Tu distruggerai l'Impero! – Certo che lo farò... Io non sono più un uomo, ma creerò una nuova coscienza in tutti gli uomini. Io ti dico che sotto il deserto di Dune esiste un luogo segreto che nasconde il più grande tesoro di tutti i tempi. Io non mento. Quando l'ultimo verme morrà e l'ultimo melange sarà stato raccolto dalla nostra sabbia, questi tesori profondi zampilleranno attraverso il nostro universo. Man mano il potere dato dal monopolio della spezia si estinguerà, e le riserve nascoste finiranno, nuovi poteri compariranno dovunque nel nostro regno. È tempo che gli esseri umani imparino nuovamente a vivere dei propri istinti. Ghanima tolse il braccio dallo schienale del trono, si portò al fianco di Farad'n, gli afferrò una mano. – Come mia madre non era moglie, tu non sarai marito, – disse Leto. – Ma forse ci sarà amore, e questo basterà. – Ogni giorno, ogni istante porta il suo cambiamento, – dichiarò Ghanima. – S'impara a riconoscere questi momenti. Farad'n sentì il calore della minuscola mano di Ghanima come una presenza insistente, impossibile a ignorarsi. Riconobbe l'insistenza persuasiva delle argomentazioni di Leto, ma non una sola volta era stata usata la Voce. Era un appello ai suoi visceri, non una violenza alla sua mente.

– È questo che mi offri, per i miei Sardaukar? – chiese Farad'n. – Molto, molto di più, cugino. Offro ai tuoi discendenti l'Impero. Ti offro la pace. – Quale sarà il risultato della tua pace? – Il suo opposto, – replicò Leto, con voce calma e beffarda. Farad'n scosse la testa: – Trovo molto pesante il prezzo per i miei Sardaukar. Dovrò rimanere Scriba, il padre segreto della tua stirpe regale? – Dovrai. – Cercherai di costringermi ad accettare la tua personale versione della pace? – Lo farò. – Ti resisterò ogni giorno della mia vita. – Ma è questo, appunto, che mi aspetto da te, cugino. Questa sarà la tua funzione. Per questo ti ho scelto. E la renderò ufficiale. Ti darò un nuovo nome: da questo momento, tu sarai chiamato il Perturbatore dell'Assuefazione, che nella nostra lingua suona Harq al-Ada. Suvvia, cugino, non essere ottuso. Mia nonna ti ha istruito bene. Concedimi i tuoi Sardaukar. – Daglieli, – gli fece eco Ghanima. – Li avrà, in un modo o nell'altro. Farad'n colse nella voce di Ghanima un vivo timore per lui. Amore, dunque? Leto non chiedeva freddi ragionamenti logici, ma un balzo intuitivo. – Prendili, – disse Farad'n. – Certamente, – replicò Leto. Si alzò dal trono, un movimento curiosamente fluido, come se tenesse i suoi terribili poteri sotto il più attento controllo. Poi Leto discese i gradini finché non fu accanto a Ghanima, obbligò il corpo di lei a ruotare lentamente, finché Ghanima non guardò in direzione opposta, poi a sua volta Leto si girò e appoggiò la propria schiena contro quella della sua gemella. – Osserva, cugino Harq alAda. Questo è il modo in cui noi saremo sempre. Questa sarà la nostra posizione quando saremo sposati. Schiena contro schiena, ciascuno con gli occhi puntati dietro le spalle dell'altro, per proteggere l'entità che siamo sempre stati. – Si voltò, fissò beffardamente Farad'n, abbassò la voce: – Ricorda questo, cugino, quando sarai faccia a faccia con Ghanima. Ricordati di questo quando le parlerai teneramente d'amore, quando sarai più esposto alla tentazione di adagiarti, spinto dall'abitudine, nella mia pace e nella soddisfazione che essa potrà darti. La tua schiena, in quegli istanti, resterà scoperta. Si allontanò da loro, scendendo gli ultimi gradini e raggiungendo i

cortigiani in attesa, e uscì dalla sala attirandoli nella sua scia come satelliti. Ancora una volta Ghanima prese la mano di Farad'n, ma il suo sguardo restò fisso a lungo oltre la grande porta della sala, quando ormai Leto da tempo era scomparso. – Uno di noi due doveva accettare il dolore, – commentò, – e lui è sempre stato il più forte.