JOHN SAUL CREATURE (Creature, 1989) A Lynn Henderson, che ha perseverato attraverso tutto ciò, e, naturalmente, a Michae...
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JOHN SAUL CREATURE (Creature, 1989) A Lynn Henderson, che ha perseverato attraverso tutto ciò, e, naturalmente, a Michael 1 La sveglia fece un tenue ronzio, e Mark Tanner allungò pigramente un braccio per spegnerla. Non stava dormendo: era sveglio da almeno dieci minuti. Aveva poltrito a letto, a guardare i gabbiani che volteggiavano lentamente sulla baia di San Francisco. Mentre la sveglia si azzittiva senza che Mark accennasse ad alzarsi, il grosso cane da caccia disteso accanto al letto si stirò, si alzò sulle zampe, strofinò piano il collo del ragazzo e gli leccò la guancia. Finalmente Mark gettò indietro le coperte e si mise a sedere. «Okay, Chivas», disse piano, prendendo tra le mani la grande testa del cane e grattandolo forte dietro le orecchie. «So che ora è, so che devo alzarmi e so che devo andare a scuola. Ma il fatto di saperlo non significa che debba piacermi per forza!» Sembrò che le labbra di Chivas si piegassero in una smorfia quasi umana, e la sua coda batté pesantemente sul pavimento. Mentre Mark si alzava sentì la madre che lo stava chiamando dal corridoio. «La colazione è pronta tra dieci minuti. E niente accappatoio a tavola!» Mark guardò Chivas alzando gli occhi al cielo, e il cane scodinzolò di nuovo. Poi il ragazzo si tolse il pigiama, lo gettò in un angolo della stanza e si mise un cambio di biancheria pulita. Si avvicinò all'armadio e, ignorando i vestiti che sua madre gli aveva comperato solo due giorni prima, pescò un paio di logori jeans dal mucchio di panni sporchi che copriva il fondo dell'armadio. Se li infilò e, come faceva quasi tutte le mattine, esaminò malinconicamente l'immagine riflessa nello specchio dello sportello. E come sempre, si disse che non era colpa sua se era molto più piccolo di chiunque altro. A quanto pareva, la febbre reumatica che l'aveva costretto a letto per quasi dodici mesi quando aveva sette anni aveva arrestato la sua crescita al metro e cinquanta. Sedici anni, e appena più alto di
un metro e mezzo. E non solo, ma con il torace stretto e braccia sottili. Magro come un chiodo. Ecco quello che gli diceva sempre sua madre, che era magro come un chiodo, ma lui sapeva che non era vero: non era affatto magro come un chiodo, era semplicemente asciutto. Asciutto e basso. Sua madre gli aveva sempre detto che non era importante, ma Mark sapeva che invece lo era: poteva vederlo negli occhi di suo padre tutte le volte che Blake Tanner lo guardava. O lo guardava dall'alto al basso, che non era soltanto il modo in cui Mark si sentiva sempre guardato, ma era anche F assoluta verità fisica, perché suo padre era alto un metro e novantadue ed era stato così da quando aveva l'età di Mark. Se per caso suo padre si dimenticava di parlarne, e a Mark sembrava che non se ne dimenticasse mai, le prove erano in tutta la casa, specialmente nello studio, le cui pareti erano coperte di fotografie di Blake Tanner in tenuta da giocatore di football, prima alla scuola superiore poi all'università, e in cui si trovava una vetrinetta piena di luccicanti trofei. Miglior giocatore per tre anni alle superiori e per due all'università. Quarterback dell'All-Conference nell'ultimo anno delle superiori, e di nuovo all'università. Mentre Mark indossava una camicia di jeans dalle maniche lunghe e infilava i piedi nelle scarpe da ginnastica poteva immaginarsi i trofei allineati nella vetrinetta e vedere il ripiano vuoto in cima, che suo padre diceva sempre di tenere in serbo per quelli di Mark. Ma, come sia lui sia suo padre sapevano bene, lui non avrebbe vinto nessuna coppa d'argento. Il grande segreto, che non aveva mai confessato a suo padre, ma che sospettava sua madre sapesse, era che a lui non importava. Anche se aveva fatto del suo meglio per interessarsi al football, e aveva perfino passato tutta l'estate precedente ad allenarsi coscienziosamente a tirare calci piazzati, abilità che secondo suo padre non richiedeva forza ma solo coordinazione, non era mai riuscito a vederci granché. Chi se ne fregava se un gruppo di ragazzi eccessivamente muscolosi si caricavano a vicenda in un campo? Che cosa diavolo voleva dire? Niente, per quello che poteva vedere lui. Si guardò ancora nello specchio e chiuse lo sportello con un colpo. Seguito da Chivas, uscì dalla sua camera da letto, andò in soggiorno e poi,
aprendo la porta scorrevole, uscì nel cortile posteriore. Si fermò per un momento a respirare la fresca aria del mattino, che non era stata ancora resa pungente dalla nebbia che qualche volta minacciava di soffocare completamente la zona attorno a San Jose. Quella mattina il vento arrivava dalla baia e nell'aria c'era un profumo che sembrò cancellare il malumore di Mark. Improvvisamente fece un largo sorriso e Chivas, che conosceva la routine di tutte le mattine, trotterellò avanti e scomparve dietro l'angolo del garage. Quando, un momento dopo, Mark lo raggiunse il grosso cane stava già annusando una gabbia piena di conigli d'angora. Mark si era preso cura di loro da quando aveva dodici anni. Era un altro pomo della discordia tra lui e suo padre. «Se non fosse stato per quei maledetti conigli», aveva sentito che suo padre diceva a sua madre parecchi mesi prima, «forse avrebbe cominciato a fare un po' di ginnastica e a rafforzarsi.» «Fa un sacco di ginnastica», aveva risposto dolcemente Sharon Tanner. «E sai perfettamente bene che la sua statura non ha niente a che vedere con la quantità di ginnastica che fa. Non sarà mai grande e grosso come te, e non sarà mai un atleta. E quindi smettila di tormentarti.» «Oh, andiamo!» aveva borbottato suo padre. «Conigli?» «Forse diventerà un veterinario», aveva suggerito sua madre. «Non c'è niente di strano.» E forse sarebbe diventato davvero un veterinario, pensò Mark mentre apriva il grande sacchetto della spazzatura di plastica che conteneva il cibo per i conigli e ne estraeva abbastanza da riempire il piatto dentro la gabbia. In realtà non ci aveva pensato molto, prima, ma da quando aveva sentito per caso quella conversazione l'aveva fatto spesso. E più considerava quell'idea, più gli piaceva. Non era solo per i conigli e per Chivas. Era anche per gli uccelli nelle pianure vicino alla baia. Per quanto poteva ricordare, gli era sempre piaciuto andare là da solo, gironzolare intorno alla palude e guardare gli uccelli. Tutti gli anni aveva atteso pazientemente le migrazioni, poi era stato a guardare gli stormi, alcuni dei quali proseguivano mentre altri scendevano per nidificare nelle paludi e nelle battigie paludose e allevavano i piccoli durante l'estate, per poi proseguire. Un paio d'anni prima per Natale sua madre gli aveva regalato una macchina fotografica, e poco dopo aveva cominciato a fotografare gli uccelli. Una volta, mentre stava appostato per cercare di scattare qualche bella istantanea agli uccelli, ne aveva trovato uno ferito e l'aveva portato a casa per curarlo; quando era guarito l'aveva riportato nelle paludi e l'aveva rimesso in libertà. Vedere quella creaturina riprendere a volare era stata una
delle più grandi soddisfazioni della sua vita. Più ci pensava, più il suggerimento che sua madre aveva dato a suo padre gli sembrava sensato. Aprì la gabbia dei conigli e Chivas si irrigidì, con gli occhi fissi sugli animaletti all'interno. Mentre Mark si chinava e allungava un braccio per mettere il cibo nel truogolo, uno dei conigli intravide una possibilità e sgattaiolò fuori della gabbia, saltellando disperatamente lungo il prato verso lo steccato che separava la casa dei Tanner da quella contigua. «Riportalo indietro, Chivas», gridò Mark, anche se le sue parole non erano necessarie perché il cagnone stava già precipitandosi all'inseguimento del coniglio in fuga. Tenendo ancora in mano il mestolo con il cibo per i conigli Mark si drizzò per guardare. L'inseguimento ebbe termine in meno di un minuto. Come sempre, il coniglio raggiunse lo steccato pochi metri davanti al cane, si immobilizzò per un attimo poi cominciò a correre disperatamente lungo la recinzione, cercando un modo per attraversarla. Chivas lo raggiunse e, allungando una delle sue poderose zampe anteriori, lo immobilizzò al suolo. Il coniglio squittì protestando, ma il cane ignorò lo strido, afferrò per la collottola l'animaletto che si divincolava e lo riportò orgogliosamente alla gabbia. Scodinzolando freneticamente, Chivas aspettò che Mark aprisse lo sportello e rimettesse dentro il coniglio. L'animale dalla bianca pelliccia, indenne come sempre, si allontanò in fretta, poi si voltò e guardò in silenzio il cane, come se non riuscisse a capire come mai era ancora vivo. «Bravo», mormorò Mark. Diede a Chivas un colpetto sul fianco, poi riempì di cibo il truogolo dei conigli, cambiò l'acqua, estrasse la cassetta che conteneva i loro escrementi, la pulì con un getto d'acqua e la rimise a posto. Proprio mentre stava finendo il lavoro sentì la madre che gridava dalla porta posteriore. «Vieni a mangiarla, o la butterò via!» Sorridendo amorevolmente alla mezza dozzina di conigli che si stavano radunando attorno al cibo, Mark si soffermò un momento, poi si voltò con riluttanza e si avviò verso la casa. Sentendo il cambiamento di umore del padrone, Chivas gli camminò al fianco tenendo bassa la coda. Nell'istante in cui entrò in cucina e si sedette a tavola, Mark sentì che suo padre lo fissava con silenziosa disapprovazione. «È così che ti vesti il primo giorno di scuola?» chiese Blake Tanner a voce bassa ma piena di sarcasmo. Mark cercò di ignorare il tono. «Tutti portano i jeans», ribatté, e gettò un'occhiata di ammonimento alla sorella di nove anni, che gli stava facen-
do una smorfia, sperando ovviamente che finisse nei guai. «Se tutti portano i jeans», rispose Blake appoggiandosi allo schienale della sedia a piegando le braccia sulla vasta distesa del suo torace, in un atteggiamento che faceva invariabilmente presagire la sua intenzione di demolire le affermazioni di Mark con fredda logica, «perché tua madre ha speso quasi duecento dollari per comperarti dei vestiti nuovi?» Mark alzò le spalle e si concentrò a tagliare il mezzo pompelmo che stava sulla tavola. Sentiva che gli occhi del padre erano ancora posati su di lui. Sapeva quello che sarebbe venuto dopo ancora prima che Blake parlasse. «A Joe Melendez piace che i ragazzi della squadra abbiano un bell'aspetto», disse Blake quasi rispondendo a un'imbeccata. «Crede che i componenti della squadra debbano essere di esempio a tutti gli altri», disse. Mark fece un profondo respiro e guardò il padre negli occhi. «Non faccio parte della squadra», ribatté. «Potresti farne parte questo pomeriggio», gli ricordò Blake. «Tiri calci piazzati meglio di quello che facevo io.» «Io li battevo meglio di te» si intramise Sharon Tanner mettendo davanti al marito la solita pila di frittelle e chiedendosi ancora una volta perché non avessero nessun effetto sulla sua linea. «E Mark ha ragione... a scuola tutti portano i jeans. Lo sapevo perfettamente bene quando ho comperato quei vestiti.» Fece l'occhiolino al figlio, e Mark si sentì arrossire, imbarazzato al pensiero che sua madre credesse di doverlo difendere. Fece un profondo respiro. «Non importa che tu dica che sono bravo, papà. Non è vero, e anche se lo fosse non farebbe nessuna differenza. Sono troppo piccolo per fare parte della squadra.» «Quelli che tirano i calci piazzati non devono essere grandi e grossi», cominciò Blake, ma Mark scosse la testa. «Non abbiamo uno specialista dei calci piazzati, papà», disse. «Non è una squadra professionistica... è solo la squadra della San Marcos High School. E il signor Melendez prenderà solo i ragazzi grandi e grossi che riescono a fare molto di più che tirare i calci piazzati. E poi non posso fare parte della squadra e contemporaneamente fare fotografie», aggiunse, perché l'idea che gli si era formata in qualche angolo della mente era venuta in superficie prima di averla formulata del tutto. Suo padre lo guardò perplesso. «Fare fotografie? Di che cosa stai parlando?» «Per il giornale della scuola», disse Mark, parlando più in fretta adesso
che aveva toccato l'argomento. «Sono bravo con la macchina fotografica... il signor Hemmerling ha detto che l'anno scorso sono stato il più bravo di tutti. Se fotografo le partite per il giornale, come posso fare parte della squadra? E comunque, non è meglio se sono in campo a fare qualche cosa invece di stare in panchina?» Blake strinse minacciosamente gli occhi, ma prima che potesse dire qualche cosa Sharon si intromise di nuovo. «Prima di cominciare una discussione è meglio che diate un'occhiata all'orologio.» Cogliendo l'occasione, Mark finì il pompelmo, bevve in fretta il cacao e uscì di corsa dalla cucina. Solo dopo che anche Kelly se ne fu andata, con la faccia dispiaciuta perché la lite che aveva aspettato non era scoppiata, Blake rivolse la propria attenzione alla moglie. «Avevamo già deciso», disse. «Quest'anno doveva presentarsi candidato per entrare nella squadra. Ne abbiamo parlato per tutta l'estate.» Sharon scosse la testa. «Tu ne hai parlato per tutta l'estate», lo corresse. «Ne hai parlato da quando è nato. Ma non succederà, Blake.» Abbassò la voce. «So quanto fosse importante per te, tesoro. Ma Mark non è te, e non lo sarà mai. Forse se non si fosse ammalato...» Tacque, e gli occhi le si annebbiarono al ricordo della malattia che aveva quasi ucciso suo figlio e aveva distrutto tutti i sogni di Blake che ripetesse i suoi trionfi sul campo di football. Poi fece un profondo respiro e finì di parlare. «Forse se non si fosse ammalato le cose sarebbero andate in modo diverso. Ma avrebbe anche potuto non essere così. Semplicemente Mark non è tagliato per il football. Non è adatto alla sua taglia... e neanche al suo temperamento. Non riesci a capirlo?» Mentre si alzava faticosamente in piedi, Blake si scurì in volto. «Capisco un sacco di cose, Sharon. Capisco che ho un figlio pappamolla e disadattato, che ha una madre che lo difende sempre. Santo Dio! Passare tutto il tempo con una macchina fotografica e con un mucchio di conigli e di uccelli mezzi morti! Se fossi stato così quando avevo la sua età...» «...tuo padre ti avrebbe frustato!» Sharon non tentò nemmeno di nascondere la rabbia mentre finiva la ben nota litania. «E tuo padre era un ubriacone che frustava te e tua madre per tutte le ragioni che riusciva a trovare, e anche per molte che non riusciva a escogitare! È questo che vuoi per Mark? Che butti fuori tutta la sua rabbia sul campo di football come hai fatto tu?» «Non è stato affatto così», protestò Blake. Ma naturalmente era vero, e lo sapeva bene quanto Sharon. In realtà era stata lei che l'aveva capito sin dall'inizio, quando si erano conosciuti alle superiori e lui si era innamorato
di lei. E da allora in poi, quando le cose con suo padre si mettevano male, l'aveva sempre incoraggiato a non reagire, a non rendere la situazione in famiglia peggiore di quello che era. «C'è il campo», gli ripeteva continuamente. «Va' a metterti la divisa, va' sul campo e restaci finché non sei più arrabbiato. Perché se non fai qualche cosa in proposito adesso, diventerai come tuo padre, e io non sposerò mai un uomo simile.» E così aveva fatto quello che le aveva detto lei, e aveva funzionato. Tutta la rabbia che aveva sentito verso suo padre era stata convogliata nel gioco, e alla fine l'abilità che aveva ottenuto sul campo gli aveva consentito di pagarsi l'università. Non era come suo padre e non lo sarebbe mai diventato. Tranne che... Tranne che nell'intimo nutriva ancora la speranza che suo figlio sarebbe diventato come lui; che tramite Mark avrebbe potuto rivivere i giorni della sua giovinezza, quando aveva sentito la folla acclamarlo dalla tribuna, aveva sentito il brivido di completare un passaggio di sessanta iarde, aveva sentito lo scoppio di esultanza a ogni touchdown segnato. Non importava che Sharon fosse certa che non sarebbe mai successo, perché nel profondo del cuore lui era ne era sicuro. Dopotutto Mark era solo al second'anno, quell'anno. Aveva perso un anno per la malattia, e quindi era il più vecchio del suo corso. Poteva ancora riprendere a crescere... quand'era malato i medici avevano detto che anche se non sarebbe mai diventato grande e grosso come Blake, non c'era ragione di pensare che sarebbe rimasto al di sotto della media. E quindi quell'anno, o l'estate seguente, avrebbe ancora potuto cominciare a crescere in fretta come aveva fatto Blake quando aveva compiuto quindici anni. E allora... Ma Blake non parlò delle sue speranze, perché Sharon, che dopo tutti gli anni passati insieme gli leggeva perfettamente nella mente, conosceva i suoi pensieri quasi bene quanto lui stesso. Invece, la abbracciò e le diede un bacio, poi uscì dalla cucina e andò a prendere la sua borsa. Ma prima che arrivasse alla porta lei lo fermò. «È un buon ragazzo, Blake», gli disse. «Non è come te, forse non lo sarà mai. Ma è sempre nostro figlio, e avremmo potuto fare di peggio.» Blake si girò e le lanciò un sorriso. «Non ho detto che non lo è», assentì. «Tutto quello che voglio per lui è il meglio. E non c'è nessuna ragione perché non lo abbia.» Poi uscì per andare in ufficio e Sharon rimase sola in casa. Cominciò a lavare i piatti della colazione. Con Mark via di casa per tutto il giorno,
Chivas rivolse a lei la sua attenzione, strofinandosi contro la sua mano finché lei non la allungò e gli grattò le orecchie. «Be', non è andata tanto male, vero, Chivas? Scommetto che pensavi che ci sarebbe stata una grande lite, e che tu avresti dovuto proteggere Mark dal suo papà, vero? Be', ti sei sbagliato. Blake vuole bene a Mark proprio quanto gliene vuoi tu.» Fece un triste sorriso. «Solo non lo capisce altrettanto bene, ecco tutto.» Quasi come se comprendesse le sue parole Chivas uscì dalla cucina trotterellando e si acciambellò sul pavimento davanti alla porta della camera da letto di Mark, dove avrebbe atteso pazientemente per tutto il giorno. Erano quasi le quattro del pomeriggio quando la segretaria di Blake, Rosalie Adams, comparve sulla soglia del suo ufficio. «Tutto pronto per il grande colloquio?» Blake alzò le spalle. Per tutto il giorno lui e Rosalie avevano cercato di immaginare quello che stava succedendo, ma fino a quel momento nessuno dei due aveva trovato una risposta alla ragione per cui Ted Thomton voleva parlare a Blake. Dopo tutto, Thornton era il presidente della TarrenTech, e sebbene la posizione di Blake come Direttore del Marketing della Digital Division non fosse certo bassa nella scala, alla TarrenTech tutto si svolgeva secondo la linea gerarchica. Se John Ripley, che era l'immediato superiore di Blake, era nei guai, sarebbe stato il capo di Ripley, il vicepresidente esecutivo della Divisione, a chiamare Blake per dirgli che avrebbe sostituito John. Ma per quanto risultava a Blake e a Rosalie (e quest'ultima aveva passato la maggior parte della mattina tra le segretarie a raccogliere pettegolezzi) John Ripley non era affatto nei guai. Inoltre, dato che era Thornton in persona a voler parlare con Blake, la storia «il povero Ripley è fregato» non aveva molto senso, in realtà. C'erano moltissime altre persone che Thornton avrebbe informate molto prima di arrivare a Blake Tanner. «Nessun bollettino dell'ultima ora?» Blake chiese a Rosalie alzandosi e aggiustandosi la cravatta. Fece quasi per prendere la sua cartella, ma si trattenne in tempo, ricordandosi che non gli era stato detto di portare con sé delle pratiche. Anche quello sembrava insolito. «Nessuno», rispose Rosalie. «Sembra che nessuno sia nei guai, e se sei stato cattivo quello che hai fatto è tanto orribile che nessuno me lo dice, o hai cancellato tanto bene le tue tracce che nessuno ti ha scoperto. Quindi
entra e segnati bene tutto... voglio sentire in dettaglio quello che ha da dire il grande capo.» E «grande capo», rifletté Blake mentre camminava verso la imponente serie di uffici che all'estremità opposta del corridoio alloggiava Ted Thornton e i suoi collaboratori, erano proprio le parole che si adattavano al presidente della TarrenTech. Perché era Thornton che aveva fondato la società poco più di dieci anni prima e l'aveva trasformata da un fornitore secondario di software in quel conglomerato gigante di alta tecnologia che era diventata. Anche se il software era ancora uno dei prodotti principali, Thornton si era reso conto della mutevolezza dell'industria dei computer e aveva varato un programma di espansione e diversificazione. In quel momento la TarrenTech produceva ogni genere di apparecchiature elettroniche, dai televisori agli astnisi congegni per i programmi spaziali, e si era anche introdotta nel settore dei prodotti di consumo e dei servizi. Quando Thornton aveva deciso che la società aveva bisogno di una propria flottiglia di aerei, aveva semplicemente comperato una compagnia aerea, poi un'altra e un'altra ancora. Quello aveva portato ad alberghi, a noleggi di auto e a una serie di altre società del settore viaggi. In seguito, quando Thornton si era reso conto che la popolazione degli Stati Uniti stava invecchiando, erano venuti gli ospedali, le case di riposo e le società farmaceutiche. La Digital Division era diventata solo un piccolo ingranaggio della grande macchina, ma Ted Thornton, in parte per un senso di nostalgia, in parte per sembrare molto più umile di quanto non fosse, teneva ancora i propri uffici in quello che era stato l'unico spazio occupato all'inizio del suo vasto conglomerato. «Va' direttamente dentro, Blake», gli disse Anne Leverette dal suo posto di guardia fuori dall'uscio di Thornton. «Ti aspetta.» Il suo sorriso fece rilassare Blake, perché era risaputo che se Thornton stava per tagliare qualcuno a fettine Anne non sorrideva mai alla vittima. La sua lealtà verso Thornton era leggendaria, e si sapeva che se la prendeva con tutti quelli che secondo lei avevano fatto arrabbiare il suo capo. Blake oltrepassò la porta a due battenti che immetteva nell'immenso ufficio d'angolo e trovò Ted dietro una spoglia scrivania di marmo nero, con un telefono all'orecchio. Thornton gli fece cenno di sedersi, poi terminò rapidamente la telefonata. Appena deposto il ricevitore si alzò in piedi, porgendo la mano a Blake e chiedendogli se voleva qualche cosa da bere. Blake si rilassò ancora di più: l'offerta di un drink era invariabilmente il segno di buone notizie, e non era fatta per essere rifiutata.
«Chivas e acqua», rispose Blake, e Thornton sorrise. «Non accontentarsi mai che del meglio», disse versando a entrambi un'abbondante dose di whiskey sopra un unico cubetto di ghiaccio. Mentre allungava a Blake uno dei bicchieri fece un largo sorriso. «È una frase fatta, ma anche per Lei è diventato il momento migliore, vero?» Alzò il bicchiere verso un grande mosaico incorniciato appeso a una parete. Su uno sfondo blu cobalto delle lettere stilizzate formavano lo slogan che Blake aveva ideato sette anni prima. SE È HIGH-TECH È TARRENTECH «Può ben dirlo», assentì Blake alzando leggermente il bicchiere, poi bevendo un sorso di whiskey. Di certo, dopo tanto tempo, questo colloquio aveva uno scopo più importante che non il semplice riconoscimento da parte di Thornton dello slogan che era in realtà diventato, negli anni, una frase fatta. Mentre osservava il presidente sedersi di nuovo dietro la scrivania e guardarlo con apprezzamento, si chiese dove volesse andare a parare Thornton. «Ha mai sentito parlare di Silverdale, nel Colorado?» chiese, e a Blake batté il cuore più forte. Era qualche cosa a cui non avevano pensato né lui né Rosalie. «C'è qualcuno, alla TarrenTech, che non ha sentito questo nome?» ribatté. «Oh, qualcuno c'è.» Thornton ridacchiò. «Non sono certo che la maggior parte delle persone nella Divisione Viaggi sappia qualche cosa della Ricerca e Sviluppo, o tanto meno se ne preoccupano.» Blake si concesse un lieve sorriso. «Temo di dover essere in disaccordo con lei», dichiarò. «Dopotutto, Tom Stevens dirige la Divisione Viaggi, e il suo ultimo incarico è stato a Silverdale.» Non sentì la necessità di aggiungere che non era solo il capo della Divisione Viaggi a essere stato assegnato in precedenza a Silverdale, ma virtualmente tutti i dirigenti di più alto grado della TarrenTech. Un incarico a Silverdale, come quasi tutti sapevano, significava essere candidati ai posti più importanti. Per quanto ne sapeva Blake, tuttavia, nessuno della Divisione Marketing era ancora stato inviato in quella località. «Vero», ammise Thornton con aria meditabonda, poi rimase in silenzio per qualche istante mentre i suoi occhi grigi sembravano valutare lentamente Blake. «Jerry Harris ha un incarico laggiù, e ha chiesto lei.»
Blake cercò di non mostrare il suo stupore. Fino a due anni prima Jerry aveva diretto la Digital Division, e anche se era più avanti di parecchi gradini nella gerarchia aziendale, i due uomini erano diventati buoni amici, in gran parte per l'influenza delle mogli, nessuna delle quali sembrava dare la benché minima importanza alla disapprovazione di Ted Thornton che i suoi dirigenti diventassero troppo amici di persone che un giorno avrebbero potuto anche dover licenziare. Come se leggesse i suoi pensieri, Thornton parlò di nuovo. «Naturalmente, se qui lei lavorasse per lui non avrei considerato la cosa neppure per un momento... non ho mai creduto giusto lasciare che la gente costruisca degli imperi all'interno della mia società. Ma qui lei non lavora per Harris, almeno non direttamente, e lui è un brav'uomo. Se ho fiducia in lui per dirigere la R&S, devo fidarmi a lasciargli scegliere i suoi collaboratori. Quindi lei trasloca.» Non era una domanda, era un ordine. Blake capì immediatamente che non gli si offriva un nuovo incarico; lo si informava che lo aveva. Non che avesse pensato di rifiutare, rifletté, neppure per un momento. A parte il fatto che rifiutare avrebbe significato la fine della sua carriera alla TarrenTech, si rendeva conto, come avrebbero fatto tutti, che essere inviato a Silverdale significava che, a trentott'anni, era già stato scelto per una delle posizioni più importanti nella società. E quel genere di posizioni, alla Tarrentech, era estremamente buono. Istintivamente capì che sarebbe stato un errore chiedere quale sarebbe stato il suo lavoro a Silverdale. C'era solo una domanda importante, e la fece. «Quando parto?» Thornton si alzò. «Si presenterà ad Harris tra quindici giorni, e quindi vorrà essere là alla fine della prossima settimana. È già stato tutto predisposto. C'è una casa che l'aspetta, e quelli dell'agenzia di trasloco saranno da lei a San Marcos la prossima settimana per imballare tutto.» Blake inghiottì, e la sua testa cominciò a girare. Che cosa avrebbe pensato Sharon? Non avrebbe dovuto almeno parlargliene? Ma naturalmente lei sapeva bene quanto lui come funzionava la TarrenTech, e non era certo il primo dirigente a venire trasferito su due piedi. Si alzò e disse: «Grazie, signor Thornton. Le sono molto grato della sua fiducia, e non la deluderò.» Thornton sollevò leggermente le sopracciglia, e quando parlò la sua voce aveva una nota aspra. «È in Jerry Harris che ho fiducia», disse. «E sarà
Jerry che lei non deluderà.» Poi sorrise e tese la mano. «E chiamami Ted», aggiunse. Il colloquio era finito. Nella vita di Blake Tanner e in quella della sua famiglia tutto era appena cambiato. 2 Fu solo quando si furono avviati verso sud sulla Highway 50, dopo il Grande Raccordo, che Sharon Tanner cominciò a sentirsi meglio. Per due giorni, mentre avevano proceduto da San Jose a Reno, poi avevano attraversato le zone desertiche del Nevada e dello Utah, apparentemente senza fine, era rimasta seduta come inebetita accanto a Blake nel sedile anteriore della giardinetta, con la desolazione del panorama che rispecchiava perfettamente la tetraggine del suo umore. In meno di due settimane tutto era cambiato. Naturalmente il fatto che sarebbero partiti non era mai stato messo in dubbio. Dopo tutto, non avevano parlato per anni di quella possibilità? Ma di certo nessuno dei due aveva mai pensato seriamente alla probabilità che Blake venisse trasferito a Silverdale: era uno stabilimento di ricerca, ed era sempre sembrato a entrambi che la competenza di Blake nel campo del marketing precludesse il salto di qualità che all'interno della società era rappresentato da un incarico a Silverdale. Eppure era successo, e per i dieci giorni seguenti, fino all'arrivo del personale dell'agenzia di traslochi, Sharon era stata troppo indaffarata con la miriade di incombenze che comportava la loro partenza da San Marcos per occuparsi dei suoi sentimenti. Solo in quel momento, mentre cominciavano ad avanzare tra le colline pedemontane delle Montagne Rocciose, si era resa conto che era tutto vero. E mentre il panorama cominciava ad assumere una maestosa bellezza Sharon sentì che le sue condizioni di spirito miglioravano. Di tutt'e quattro, solo Blake era sembrato impassibile alla prospettiva del repentino trasferimento. Mark si era immediatamente entusiasmato del cambiamento. Per lui i vantaggi avevano istantaneamente superato gli svantaggi, poiché la prospettiva di vivere nelle Montagne Rocciose, con le cime torreggianti, le ampie vallate e l'abbondanza di animali selvatici era stata irresistibile. Per Kelly era stata qualcosa di completamente diverso. Sulle prime la prospettiva di lasciare gli amici l'aveva fatta tremendamente arrabbiare.
Poi, quando si era resa conto che la sua rabbia non avrebbe cambiato le cose, era sprofondata in un cupo silenzio che era, aveva pensato Sharon, meglio degli accessi d'ira e delle urla dei primi giorni dopo che Blake era tornato a casa con la notizia del trasferimento. La sua reazione, adesso se ne rendeva conto, era stata contrastante. I vantaggi del trasloco erano ovvi: lo stipendio di Blake sarebbe cresciuto di un terzo, e all'improvviso le sue possibilità future non avevano più limiti. Neanche la prospettiva di vivere a Silverdale la turbava; in realtà era sempre stata molto curiosa a proposito della cittadina annidata tra le montagne, che era tanto importante per il datore di lavoro di suo marito, e avrebbe raggiunto la sua amica Elaine Harris. A Sharon non dispiaceva neppure lasciare San Marcos, che era stata inghiottita da un pezzo dalla disordinata espansione urbana di San Jose, perdendo qualsiasi caratteristica potesse aver avuto e scomparendo nel pantano senza volto delle lottizzazioni e dei centri commerciali. Ma imballare tutto e andarsene in poco più di una settimana le era sembrato in certo modo innaturale. Stranamente, quasi simile a morire. Aveva a mala pena avuto il tempo di far sapere alle amiche che partiva, e non era certo riuscita a incontrarle tutte per salutarle. Naturalmente avevano dato una festa d'addio, ma la casa era già in uno stato di caos troppo avanzato perché potesse organizzarla lei stessa. Alla fine la festa d'addio dei Tanner era stata data da John Ripley, il capo di Blake, e gli intervenuti erano per la maggior parte dipendenti della TarrenTech, non la vasta cerchia di amici della comunità accademica e artistica con cui Sharon si era sempre sentita maggiormente a proprio agio. Eppure la decisione era stata presa, l'agenzia di traslochi era arrivata, e in quel momento tutti i loro averi terreni erano nel camion che era partito da San Marcos qualche ora prima che loro stessi si ammucchiassero sulla giardinetta. La macchina era stipata da loro quattro più Chivas e la gabbia di conigli di cui gli addetti dell'agenzia di traslochi si erano rifiutati di assumere la responsabilità e che Mark, con il suo sostegno, si era rifiutato di abbandonare nonostante l'opposizione del padre, espressa ad alta voce. Risultò che i conigli rappresentavano una distrazione per Chivas, che aveva trascorso la maggior parte del viaggio disteso placidamente nella parte posteriore dell'auto, fissando gli animaletti che ignari si rannicchiavano insieme nella gabbia, con gli occhi spalancati per la paura e il naso che vibrava. Il cupo silenzio di Kelly aveva finalmente cominciato a dissolversi, poiché l'ener-
gia necessaria per mantenere la rabbia per un periodo superiore a due settimane si era dimostrata troppo per lei, e Mark aveva passato il tempo con una raccolta di guide apparse da chissà dove, che identificavano ogni cespuglio, ogni albero, ogni fiore e ogni caratteristica geologica dei luoghi che avevano attraversato. In quel momento Silverdale era a una cinquantina di chilometri davanti a loro. Mezz'ora dopo Blake abbandonò la Highway girando a sinistra, e cominciarono a salire la strada verso la valle nascosta in cui si trovava Silverdale. Un tempo era stata una città mineraria, ma da parecchio tempo il minerale si era esaurito e la città, come molte altre in quella zona, aveva cominciato a morire. Dieci anni prima Ted Thornton l'aveva scoperta e in seguito, avendo perduto tre importanti progetti grazie al genere di spionaggio industriale endemico a Silicon Valley, aveva deciso di trasferire la sua Divisione Ricerca e Sviluppo lontano da San Jose. Aveva comperato di nascosto vaste estensioni di terreno attorno a Silverdale, e prima che la cittadina capisse quello che stava succedendo, nella parte occidentale del villaggio in rovina era comparso uno strano genere di insediamento industriale leggero. Gli edifici, lunghi e bassi, erano stati perfettamente inseriti nel panorama, ma non tanto che i pochi abitanti rimasti non si fossero resi conto delle macchine fotografiche che riprendevano tutto quello che c'era nella zona. Ma insieme agli edifici erano arrivate le occasioni di lavoro, e poi la gente. E improvvisamente Silverdale, dopo cinquant'anni di declino lento e continuo, era ritornata a vivere. Mentre superavano il passo che sembrava separare Silverdale dal resto del mondo, Sharon vide per la prima volta la città. Rimase senza fiato, perché non era assolutamente come si aspettava. Le comparve davanti simile a una figura di un libro illustrato: distesa ordinatamente, con le strette strade ombreggiate da una profusione di pioppi e di pini. Le case, tutte al centro di ampi lotti di terreno, avevano forme diverse ispirate all'architettura del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo secolo; erano tutte una diversa dall'altra, ma sufficientemente simili da dare alla città un senso di armonia. Avevano tutte delle vaste verande nella parte anteriore, e ogni cortile era circondato da un bello steccato bianco. Prima di scendere nella valle Sharon riuscì a vedere che tutte le strade principali che attraversavano la città sembravano portare da qualche parte: verso nord c'era la scuola superiore e quella che sembrava un'antiquata Biblioteca Carnegie; verso sud una zona commerciale; tutto era facilmente raggiungibile a piedi da
qualsiasi punto della città. «E incredibile», sussurrò mentre Blake rallentava fino al limite indicato di trentadue chilometri all'ora. «Sembra uscita dal passato.» Blake le sorrise. «L'idea è quella, a quanto ho capito. Ted ha trovato un gruppo di architetti che sembrano credere che stiamo rovinando tutto con i centri commerciali e le lottizzazioni, e ha lasciato loro carta bianca. Ha detto loro che voleva una città societaria che non fosse tale né desse l'impressione di esserlo, e siccome ha comperato ogni lotto di terreno qui intorno è riuscito a farlo. È qualcosa di imponente, vero?» Sharon diede al marito un'occhiata acuta. Aveva un'espressione che le diceva che tutto ciò non rappresentava una sorpresa, per lui. «Sapevi com'era?» gli chiese. «Ho visto un film la settimana scorsa.» Ridacchiò piano. «Credo che John Ripley temesse che stessi per cambiare idea, e perciò mi ha fatto vedere qualche cassetta. Ma devo dire che il posto è anche più carino di quanto mi aspettassi.» «Sembra una foto del posto in cui si pensa che viva la nonna di tutti», disse Kelly con voce stridula, dal sedile posteriore. «Tranne che nessuna ci vive. Ad ogni modo, nessuna che conosco. I nonni di tutti quanti vivono in condomini.» «Dov'è la nostra casa?» chiese Mark. Finalmente aveva messo da parte i suoi libri e stava guardando fuori del finestrino con la stessa meraviglia di tutta la famiglia. «In Telluride Drive», rispose Blake. «240 South.» La strada era diventata bruscamente più stretta, e due isolati dopo girò a sinistra, percorse altri due isolati quindi voltò a destra. Il camion dell'agenzia di traslochi era parcheggiato davanti a una casa vittoriana di media grandezza a metà dell'isolato. Alcuni dei mobili dei Tanner erano già allineati lungo il marciapiede. Blake arrestò la giardinetta nel vialetto d'accesso e tutta la famiglia, seguita da Chivas, scese dalla macchina per guardare la nuova casa. Era dipinta di verde chiaro, con decorazioni in una tonalità parecchio più scura, ornata qua e là da tocchi di color ruggine. Nella parte anteriore della casa si estendeva un'ampia veranda, che curvava dolcemente attorno alla torretta che si innalzava nell'angolo di sudest. Dai lati della casa sporgevano dei piccoli bovindi e al primo piano tutte le finestre avevano delle persiane. Il tetto, che sembrava di ardesia, era ad angolo acuto, con le asperità addolcite da delicati ammandorlati. La casa era circondata da alti pioppi la cui snellezza ne completava il disegno, e sebbene quello stile architettoni-
co avesse visto i suoi giorni di maggior fulgore almeno cent'anni prima, Sharon poté dire alla prima occhiata che la casa stessa non aveva più di cinque anni. La osservò in silenzio per parecchi minuti, osservandone ogni particolare. Quando infine si voltò verso Blake, sul volto le aleggiava un sorriso. «Quando, l'anno scorso, ho visto qualche cosa di simile a San Marcos ho pensato che era tanto affettato da nausearmi», osservò. Poi scrollò le spalle confusa e il suo sorriso si allargò. «Ma qui... be', non chiedermi perché, ma sembra assolutamente perfetto.» Con Kelly che correva davanti a loro, salirono i gradini anteriori e attraversarono la veranda. All'interno c'era un piccolo ingresso che immetteva da una parte in uno studio e dall'altra in un soggiorno. Dall'altra estremità del soggiorno, racchiusa nella torretta circolare, c'era una piccola stanza per la prima colazione, con una vasta cucina che dava in una sala da pranzo. Al piano di sopra la torretta conteneva un salottino per la suite padronale, più altre tre camere da letto e due bagni. Al piano terreno c'erano due caminetti, e un altro nella camera da letto padronale. E sebbene dall'esterno la casa fosse sembrata un po' troppo carica di fronzoli e ammassata, dentro le camere erano luminose e arieggiate, e più ampie di quanto Sharon non avesse ritenuto possibile. Quando ebbero finito di ispezionare la casa e ritornarono nella veranda anteriore, tutte le apprensioni a proposito del trasferimento erano scomparse. Abbracciò forte Blake e disse: «Mi piace. La città è bella e la casa è perfetta. Quanto tempo ci staremo?» Blake alzò le spalle. «Almeno un paio d'anni», rispose. «Forse cinque o sei.» Poi allontanò in fretta gli occhi da Sharon e aggrottò leggermente la fronte. Lei si voltò e vide che Mark stava togliendo la gabbia dei conigli dalla parte posteriore della giardinetta. Come se sentisse su di sé gli occhi dei suoi genitori, lui si girò e sorrise contento. «Ci credereste che c'è già una conigliera vicino al garage?» urlò. «Grazie, papà!» Sharon guardò il marito, con un'espressione perplessa negli occhi. «Credevo che tu non volessi che portasse i conigli.» «Infatti non volevo», rispose lui. «Andiamo a dare un'occhiata.» Seguirono Mark lungo il vialetto e lo trovarono che stava trasferendo con cura i conigli dalla gabbia in una conigliera perfettamente costruita, che, ovviamente, era stata finita solo un giorno o due prima del loro arrivo. Chivas, con la zampa anteriore destra che vibrava a cinque centimetri dal
suolo e la coda tesa all'infuori, fissava i conigli quasi come se sperasse che uno di loro sarebbe scappato in modo che lui potesse divertirsi a catturarlo e a riportarlo nella conigliera. «Che sia dannato», sussurrò Blake. «Non ho mai parlato a nessuno, di quei conigli. Come facevano a saperlo?» Poi la sua espressione si schiarì perché intuì la risposta. «È stato Jerry», esclamò. «Ma certo! Jerry non dimentica mai niente.» Allungò una mano e scompigliò il ciuffo riccioluto di capelli scuri del figlio. «O hai scritto a Robb per ricordarglielo?» chiese. Mark alzò gli occhi dalla conigliera, tenendo ancora in mano, con delicatezza, l'ultimo coniglio. «No», disse. «Fino all'ultimo minuto non ero neppure sicuro che me li lasciassi portare.» Poi aggrottò la fronte in una replica quasi perfetta del modo in cui l'aveva fatto il padre. «Dove sono gli Harris?» chiese. «Non dovevano venirci incontro?» «Quanto a quello», soggiunse Sharon, «dove sono tutti quanti?» Blake guardò la moglie con curiosità, e per un momento si chiese di che cosa stesse parlando. Poi capì. Arrivando a Silverdale e percorrendo le strade fino alla loro casa non avevano visto nessun'altra automobile, nessuna persona. Era, si rese conto, come se fossero arrivati in una città fantasma. Elaine Harris era seduta nella tribuna principale dello stadio della Scuola Superiore di Silverdale, con il marito da un lato e la figlia quindicenne, Linda, dall'altro. Sotto la tribuna, suo figlio Robb era seduto in panchina mentre la squadra all'attacco prendeva posizione. Con due minuti soltanto da giocare e i Silverdale Wolverines che conducevano la partita per quarantadue a zero, sembrava proprio che Robb non avrebbe più giocato, per quel pomeriggio. «Non credi che potremmo andare?» chiese a Jerry guardando nervosamente l'orologio. «Ho promesso a Sharon che saremmo stati là.» Jerry scosse la testa senza smettere di guardare il campo. «Forse non arriveranno che dopo cena», rispose. «E poi, che effetto farebbe? È la prima partita della stagione, Robb sta giocando, e io sono il capo della divisione.» «Be', anche se siamo a Silverdale questo non ti rende sindaco», osservò seccamente Elaine, anche se a voce bassa in modo che non sentisse nessun altro. Si rendeva conto che la sua posizione avrebbe benissimo potuto farlo sindaco, poiché quasi tutti in città dipendevano dalla TarrenTech, in un modo o nell'altro. Se non lavoravano direttamente per la società, la mag-
gior parte forniva servizi per quelli che vi lavoravano. E inoltre, anche se non fosse stato il capo della Divisione R&S avrebbe potuto essere ugualmente considerato sindaco, perché non c'era nessuno in città a cui suo marito non piacesse. Con un sospiro ammise tra sé che aveva ragione: il meno che potessero fare era restare fino alla fine della partita. Resistendo all'impulso di guardare un'altra volta l'orologio, sistemò il suo corpo leggermente sovrappeso in una posizione più comoda sulla dura panca e rivolse la propria attenzione al campo, dove i Wolverines, in possesso di palla, erano posizionati sulla loro linea delle trenta iarde. E conoscendo la squadra bene come lei la conosceva, decise che poteva davvero valere la pena di guardare. A Phil Collins piaceva sempre che i suoi ragazzi mantenessero la spinta fino agli ultimi secondi della partita. Non sarebbe stata sorpresa se la squadra avesse segnato ancora prima della fine. E nelle tribune, in cui si trovava praticamente tutta la città, nessun altro dava segno di volersene andare via. Jerry aveva ragione, come al solito: non c'era nessun motivo per andare via in quel momento. Sul campo Jeff LaConner pensò rapidamente al gioco che aveva in mente poi batté le mani per dare il segnale della fine della huddle. Trotterellò fino alla sua posizione di quarterback mentre il resto della squadra prendeva posto lungo la linea di scrimmage e dietro di essa. Guardò la squadra di Fairfield e sorrise tra sé mentre si preparavano per quello che sarebbe stato, ne erano certi, un passing play. Avrebbe fatto loro una bella sorpresa. Un momento dopo il centro mise in gioco la palla e Jeff rallentò, rimanendo indietro, come se stesse cercando un ricevitore. Poi, ficcandosi la palla sotto il braccio, chinò la testa e caricò la linea avversaria. Davanti a lui il centro ed entrambe le guardie avevano aperto un varco, e Jeff si precipitò verso di esso. A sinistra sentì qualche cosa che si muoveva, ma invece di evitarla le si buttò contro. Vide uno dei placcatoli del Fairfield cadere di fianco. Davanti a lui altri due giocatori avversali gli si facevano contro, e capì che sarebbe caduto. Ma mentre una delle guardie si gettava contro le gambe di Jeff lui fece una brusca giravolta e si lasciò cadere con tutti i suoi quasi cento chili sul corpo molto più piccolo dell'avversario. Un altro giocatore del Fairfield gli si lasciò cadere sopra, e contemporaneamente tre dei suoi compagni di squadra si unirono alla mischia. Si sentì il fischietto e Jeff si immobilizzò, sicuro di avere guadagnato almeno sette iarde. Un attimo dopo i giocatori cominciarono a districarsi, e
Jeff si alzò faticosamente in piedi, lasciando la palla dove si trovava. Il giocatore del Fairfield su cui Jeff era rovinato quando era stato placcato rimase disteso, immobile, e la folla trattenne il fiato. Jeff guardò in basso per un attimo, con la fronte aggrottata, poi si lasciò cadere in ginocchio. «Ehi, tutto a posto?» L'altro ragazzo non rispose, ma Jeff riuscì a vedere bene, dietro le sbarre dell'elmetto, che aveva gli occhi aperti. Si alzò in piedi e fece un cenno all'allenatore del Silverdale, ma Phil Collins stava già gridando per chiamare una barella. Dall'altra estremità del campo Bob Jenkins, l'allenatore del Fairfield, stava correndo verso di lui dalle linee laterali. «Ti ho visto!» gridò mentre si inginocchiava accanto al suo giocatore infortunato. «Santo cielo... ti aveva preso! Non dovevi cadergli sopra in quel modo!» Jeff fissò l'allenatore del Fairfield. «Non ho fatto niente», protestò. «Ho solo cercato di liberarmi di lui.» Jenkins gli diede un'occhiataccia, poi rivolse la propria attenzione al ragazzo, che era ancora disteso sul campo, immobile. «Tutto bene, Ramirez?» Il ragazzo non rispose, e in quel momento arrivò la barella. Due ragazzi del Silverdale fecero il gesto di sollevare la guardia caduta, ma Jenkins li fermò. «Non toccatelo», disse. «Voglio un dottore. Voglio sapere che cos'ha prima che venga mosso.» «Abbiamo un dottore proprio qui, e sta arrivando un'ambulanza», disse Phil Collins, lasciandosi cadere sull'erba accanto a Jenkins. «Riesci a capire se c'è qualcosa di rotto?» «Come diavolo faccio a capirlo?» chiese bruscamente Jenkins, fissando l'allenatore del Silverdale con occhi irati. «Questa volta farò reclamo, Collins. E voglio che quel giocatore resti in panchina per il resto del campionato.» «Su, calmati, Bob», rispose Collins. Cominciò a fare scorrere delicatamente le dita sulle gambe del ragazzo infortunato cercando una rottura, ma non ne trovò. «Il tuo ragazzo starà bene. Cose così succedono continuamente...» Sembrò che Jenkins volesse aggiungere qualche cosa d'altro, ma prima che potesse parlare il ragazzo disteso sul terreno emise un debole lamento, e per il momento la questione fu dimenticata.
«Sta bene?» chiese Charlotte LaConner. Era in piedi, in tribuna, e si riparava gli occhi dal sole del tardo pomeriggio mentre si sforzava di vedere che cosa stava succedendo in campo. Nella fila davanti Elaine Harris si voltò e sorrise con fare incoraggiante. «Starà bene», rispose Elaine. «È solo finito in fondo al mucchio, e Jeff l'ha messo fuori combattimento.» Charlotte aprì la bocca per aggiungere qualche cosa, poi cambiò idea. La verità, lo sapeva, era che a lei il football non piaceva affatto. Ma una cosa del genere a Silverdale era quasi un tradimento, e da molto tempo aveva imparato ad andare alle partite e a fare il tifo per la squadra di casa. Non che la squadra di Silverdale ne avesse molto bisogno, perché era una delle migliori dello stato. In effetti l'anno prima era arrivata in finale e aveva perso per un solo punto contro una squadra di Denver. Ma perché quel gioco doveva essere tanto violento? Era quello che non capiva. Le sembrava tutto così privo di senso. Tutto quello che era riuscita a capire era che due maree di esseri umani si muovevano su e giù per il campo in una serie di giochi che non riusciva a comprendere, tanto meno a gustare. Ma a Jeff il gioco piaceva, e da quando era diventato quarterback, l'anno prima, suo marito era diventato quasi fanatico. Anche lei doveva ammettere che a Silverdale non c'era molto altro da fare, e quindi era facile capire perché tutta la città andava sempre alle partite, in particolar modo dato che era quasi sicuro che la squadra avrebbe vinto. In realtà qualche volta lei si chiedeva se la città era tanto tifosa perché i Wolverines erano tanto bravi o la squadra era così in gamba perché la città era tanto fanatica. Eppure era un gioco violento e pericoloso, e l'urto tra i corpi sul campo qualche volta la faceva rabbrividire. In quel momento, mentre l'ambulanza arrivava sul campo, la sua attenzione si rivolse al ragazzo che era ancora disteso sull'erba, immobile. Non era solo rimasto senza fiato... se fosse stato così non avrebbero chiamato l'ambulanza. Doveva essere rimasto seriamente infortunato quando Jeff era crollato su di lui. Senza pensare strinse forte la mano del marito, e Chuck LaConner, capendo quello che lei stava pensando, ricambiò il gesto. «Non è stata colpa di nessuno», le assicurò. «È quello che succede nelle partite, e devi abituartici.» Ma Charlotte scosse la testa. «Non mi ci abituerò mai», rispose. «Possiamo andarcene, adesso?» Chuck la guardò come se avesse parlato in una lingua straniera. «Andar-
cene? Tesoro, è la prima partita dell'anno, e tuo figlio è il protagonista. Come puoi volertene andare?» «Ma è finita, non è vero?» «C'è ancora un minuto e mezzo», le disse con un sorriso affettuoso. «Hanno fermato l'orologio alla fine del gioco. Guarda.» Charlotte fissò il campo e vide che il ragazzo infortunato era stato messo sull'ambulanza. Mentre l'automezzo lasciava il campo la folla urlò un'acclamazione per il giocatore caduto. Poi, quasi come se non fosse successo niente, le due squadre ripresero la posizione per gli ultimi giochi della partita. Nell'ultimo gioco Jeff LaConner fece un passaggio di quaranta iarde che consentì di segnare un ultimo touchdown, e i compagni lo portarono fuori del campo in trionfo mentre i tifosi del Silverdale scendevano dalle gradinate per congratularsi con i loro eroi. Nelle tribune la madre di Jeff rimase immobile al suo posto. Che cosa contava di più, si chiese. Il fatto che il Silverdale avesse vinto? O il fatto che adesso uno dei ragazzi del Fairfield fosse in ospedale? Fu Elaine Harris che alla fine le fornì la risposta. «Che cosa fai ancora lassù?» chiese sorridendo a Charlotte. «E il grande momento di Jeff. Scendi e va' a congratularti con lui!» Con Chuck che gridava di gioia e la trascinava tra la folla, Charlotte scese per dire al figlio quanto fosse orgogliosa di lui. Ma non era proprio sicura di esserne tanto orgogliosa. «Ma come hai fatto?» Elaine Harris chiese a Sharon Tanner un'ora dopo. Le due donne erano da sole nella cucina dei Tanner e stavano cercando in una scatola da asciugamani su cui era scritto chiaramente STOVIGLIE DI TUTTI I GIORNI nella vana speranza di trovare delle tazzine da caffè. I loro mariti erano in soggiorno e stavano già parlando di lavoro, e Mark aveva portato fuori Linda Harris per farle vedere la conigliera, con Kelly alle costole. Robb non era ancora arrivato, perché era uscito con la squadra per festeggiare la vittoria mangiando degli hamburger in deroga alla dieta di allenamento. «Non sembri più vecchia neanche di un giorno da tre anni fa», continuò squadrando la snella figura di Sharon con aperta invidia. «E suppongo che i tuoi capelli siano ancora del loro colore naturale, vero?» Sharon ridacchiò. «Naturale com'è sempre stato. Nessuno è castano dorato di natura, e lo sai benissimo. Ma neanche tu sei cambiata.» Elaine strinse amabilmente le spalle e si diede qualche colpetto sulle an-
che. «Se chiami 'non cambiare' quasi dieci chili di più, ti ringrazio. Ma ho deciso che se a Jerry non importa non importa neppure a me, e così mangio quello che voglio, e al diavolo.» Poi la sua espressione si fece seria. «Neanche Mark è cambiato, vero?» chiese, con aria incerta. Sharon esitò solo un secondo, poi scosse la testa, ma il suo sguardo si spostò verso la finestra. Vicino al garage, Mark era in piedi accanto a Linda Harris. Perfino lei, che non era certo una ragazza alta, superava Mark di quasi tre centimetri. «Ma speriamo ancora che cresca un po'», disse con forzata allegria, «e sta certa che ci spera anche lui. E Robb?» Elaine fece un largo sorriso. «Non lo riconosceresti. Uno e ottantacinque, e spalle larghe quasi un metro.» Sharon sospirò tristemente. «Be', sarà qualche cosa d'altro a cui Mark dovrà adattarsi. Ho la sensazione che creda che Robb sia tale qual era tre anni fa.» «Niente rimane uguale», osservò Elaine, poi allargò le braccia. «E allora, che cosa ne pensi, di tutto quanto? Non è come San Marcos, vero?» «Niente affatto», assentì Sharon. «Ma credo che mi piacerà.» «Molto di più», le assicurò Elaine. «Tra un mese l'adorerai, e non capirai come hai potuto vivere in un altro posto. Aria pulita, città piccola, gente simpatica, sci, passeggiate, il festival cinematografico di Telluride... è stato come se fossi morta e andata in paradiso.» «E se vi trasferissero?» chiese Sharon senza cercare di nascondere l'acredine nella propria voce. Ma Elaine alzò le spalle. «Ci penserò quando succederà, e da qui potremo solo andare più in alto. E parlando di cose che non hanno fatto altro che andare più in alto, guarda chi sta arrivando!» Sharon guardò fuori della finestra e riconobbe a stento il ragazzo che se ne era andato da San Marcos tre anni prima. Robb Harris, il ragazzo magro e ossuto che era alto solo poco più di Mark, ed era anche un po' asmatico, era diventato un giovanotto robusto i cui lineamenti erano maturati in una robusta bellezza. Sembrava che con l'adolescenza i suoi occhi azzurri, lontani uno dall'altro, fossero diventati più vivaci, e i suoi capelli biondi, tagliati corti, parevano ancora più chiari in contrasto con la sua pelle abbronzatissima. Vedendola attraverso la finestra fece un largo sorriso, mettendo in mostra una dentatura perfetta e regolare. «Salve, signora Tanner», gridò. «Benvenuta a Silverdale. Dov'è Mark?» «Dietro la casa», rispose Sharon con aria assente. Il cambiamento di Robb era tanto sbalorditivo che non sapeva che cosa pensarne. Mentre lui
si dirigeva verso il garage lungo il vialetto di accesso, lei si voltò verso Elaine. «Mio Dio», esclamò. «È splendido! Ma che ne è della sua asma? Fin da quando era bambino...» «Era lo smog», disse Elaine. «Appena siamo venuti qui è guarito completamente! L'avevo quasi sospettato, ma quel ciarlatano di San Marcos insisteva sempre che era una malattia psicosomatica. Ma comunque, se ne è andata.» Sharon scosse la testa, e quando parlò di nuovo la sua voce era quasi triste. «Vorrei che fosse così facile anche per Mark», disse. Ma purtroppo non c'era niente di connesso con lo smog né di psicosomatico nelle conseguenze di una febbre reumatica.» Elaine, comprendendo perfettamente i sentimenti dell'amica, non disse niente. Era uno di quei momenti in cui il silenzio è meglio di qualsiasi forma di solidarietà. 3 Andrew MacCallum, noto come Mac quasi da quando era nato, trentadue anni prima, fissò cupamente il mucchio di radiografie sulla sua scrivania. Quando quasi tre ore prima Rick Ramirez era stato portato all'ospedale, Mac aveva pensato che non stesse molto male. In realtà, sulle prime aveva ritenuto che il ragazzo fosse stato semplicemente messo fuori combattimento. In quel momento ne sapeva di più. Due vertebre del collo rotte, un rene spappolato, tre costole incrinate. Due delle costole avevano perforato il polmone sinistro, che aveva ceduto, e nelle poche ore in cui era stato ricoverato la sue condizioni erano peggiorate tanto che in quel momento si trovava nel reparto rianimazione. L'incombenza di informare la madre del ragazzo toccava naturalmente a Mac MacCallum. Uscì dall'ufficio e girò nel corridoio verso la sala d'aspetto, poi decise di dare un'altra occhiata a Rick. Forse, con un po' di fortuna, avrebbe potuto riscontrare un minimo di miglioramento che avrebbe addolcito le notizie che doveva dare a - guardò rapidamente la voce «Parente più prossimo» nella cartella del ragazzo - Maria Ramirez. Susan Aldrich, il cui turno stava finendo quando era arrivata l'ambulanza con il ragazzo legato a una barella, era seduta accanto al suo letto. Quando Mac la guardò interrogativamente, lei scosse la testa e strinse le labbra.
Mac prese nella mano il floscio braccio del ragazzo e gli controllò rapidamente il polso, poi diede un'occhiata alla fila di indicatori sui monitor al di sopra del letto del ragazzo. Non era cambiato niente: le pulsazioni erano ancora irregolari, la pressione sanguigna bassa. Solo il respiro, aiutato dalla macchina accanto al letto, sembrava normale. Ma Mac sapeva che senza quella macchina Rick avrebbe smesso di respirare in poco tempo. «Assolutamente nessun cambiamento?» chiese, anche se conosceva già la risposta. Susan scosse di nuovo la testa. «È così strano», disse con voce tremante. I suoi occhi si posarono sul viso di Rick e fissarono in silenzio la sua espressione calma che sembrava indicare un sonno tranquillo piuttosto che una lotta per la sopravvivenza. «Continuo a credere che si sveglierà e dirà qualcosa, e che tutto si sistemerà. Ma non andrà così, vero?» Mac scosse la testa. «Sarà meglio che vada a parlare con sua madre.» Chiuse piano la porta dietro di sé, poi continuò lungo il corridoio fino alla piccola sala d'aspetto in cui Maria Ramirez, pallida in viso, si alzò bruscamente in piedi mentre entrava. A Mac sembrò così giovane... così vulnerabile. «Ricardo» sussurrò. «Per favore... guarirà?» Mac le fece cenno di risedersi e spostò gli occhi sull'uomo che le sedeva accanto. «Lei è...?» cominciò, lasciando deliberatamente in sospeso la domanda. «Bob Jenkins», rispose l'uomo. «L'allenatore del Fairfield.» «Capisco», rispose Mac. «Potrei parlare un momento da solo con la signora Ramirez?» Ma Maria scosse la testa. «Va bene così», disse con voce tanto bassa che Mac la udì appena. «È un buon amico di Ricardo... di tutt'e due...» Anche se la voce le venne meno Mac capì perfettamente la situazione mentre la donna fissava l'allenatore che le prese la mano con gesto protettivo. «Vorrei potervi dare delle buone notizie», cominciò Mac, e sentì una stretta al cuore vedendo che gli occhi di Maria si riempivano di lacrime. «Ricardo», sussurrò con voce appena percettibile. «È...» «È vivo», la rassicurò in fretta Mac, «ma è in coma, e ha molte lesioni interne.» Più delicatamente che poté descrisse i danni che Rick Ramirez aveva subito, ma prima che finisse Maria seppellì il viso tra le mani e cominciò a singhiozzare in silenzio. Quando ebbe finito, fu Bob Jenkins che gli fece una domanda. «Che speranze ci sono che guarisca?» chiese, e la fermezza del suo sguardo quando incontrò quello del medico disse a Mac
che non ammetteva temporeggiamenti. «In questo momento, devo dire qualcosa di meno del cinquanta per cento», rispose. Dalle labbra di Maria Ramirez sfuggì un grido di angoscia, e Mac ricacciò giù il groppo che gli era salito in gola. «Ma questo non vuol dire che le cose non possano cambiare radicalmente da domani», soggiunse. «Temo però che anche se sopravvive le probabilità che possa tornare a camminare siano molto scarse. Le fratture delle vertebre hanno danneggiato alcuni dei nervi principali.» Jenkins abbassò gli occhi. «Ma la chirurgia?» chiese bruscamente. «Pensavo...» Mac scosse la testa «In questo momento di chirurgia non se ne parla nemmeno. Rick non potrebbe assolutamente sopportare lo choc. Forse in seguito...» «No!» gridò Maria. Tolse le mani dal viso e fissò MacCallum con occhi sgranati e imploranti. «Non può rimanere storpio», supplicò. «Non il mio Ricardo. È tutto quello che ho... Lui...» Ma la voce le venne a mancare e crollò contro Jenkins, che la circondò con un braccio e la strinse forte. Per un momento MacCallum li osservò in silenzio, poi fece cenno a Jenkins che voleva parlargli a quattr'occhi. Quando fu certo che l'altro aveva capito ritornò nel suo studio. Cinque minuti dopo Jenkins entrò nello studio di MacCallum e chiuse la porta dietro di sé. «Si riprenderà», disse leggendo la domanda inespressa negli occhi di MacCallum. Fece un teso sorriso. «E una donna notevole. Ha allevato Rick da sola, e l'ha messo al mondo quando aveva solo quattordici anni.» La sua voce si indurì. «Non ha mai detto a nessuno chi è suo padre, e i suoi genitori l'hanno scacciata quando hanno scoperto che era incinta. Ma non si è mai lamentata. Lavora come cameriera, e da un paio d'anni, da quando Rick è cresciuto abbastanza, va alle scuole serali. Vuole assolutamente che Rick vada all'università, e quindi deve trovare un altro lavoro.» «Gesù», sussurrò MacCallum. Fece cenno a Jenkins di sedersi nella poltrona dall'altro lato della sua scrivania. «Il ragazzo avrà bisogno di un sacco di cure. Se sopravvive e si potrà fare qualche cosa per le lesioni alla spina dorsale, avrà bisogno di moltissima fisioterapia. Ma prima che quella possa cominciare dovrà rimanere in ospedale per moltissimo tempo. Forse», aggiunse abbassando la voce, «per sempre. C'è la possibilità che non esca dal coma, e se sarà così...» Spalancò le braccia in un'eloquente espressione, che lasciava intendere domande senza risposta.
«E tutto ciò costerà molti quattrini», osservò Jenkins, e Mac annuì immediatamente. «Be', Maria non ne ha.» continuò l'allenatore. «Un'assicurazione?» chiese Mac. Jenkins alzò le spalle. «Forse ne ha una, ma sono sicuro che non basterà. E anche la scuola ha una qualche assicurazione, suppongo.» Piegò le labbra in un ironico sorriso. «La mia posizione sarà un po' particolare», disse. «Sono due anni che cerco di convincere Maria a sposarmi, ma lei ha sempre detto che non mi sposerà finché Rick non avrà finito l'università. Dice che non sarebbe onesto verso di me. Se mi avesse sposato, lei e Rick sarebbero coperti dalla mia assicurazione. E così adesso dovrò consigliarle di fare causa al distretto scolastico per cui lavoro.» MacCallum arricciò pensosamente le labbra. «O fare causa a Silverdale», suggerì. «Dopo tutto, quello che è successo è capitato proprio qui, no?» Jenkins esitò, poi annuì. «Ci avevo già pensato» disse. «Francamente, non ne ho parlato per causa sua. Voglio dire...» Esitò, chiaramente a disagio, e MacCallum capì improvvisamente l'imbarazzo di quell'uomo: era ovvio che Jenkins aveva pensato che lui avrebbe adottato automaticamente la stessa posizione difensiva che Phil Collins aveva assunto sul campo. Ma da lungo tempo MacCallum era arrivato alla conclusione che la Silverdale del passato, quella che aveva trovato subito dopo il suo arrivo, non esisteva più. La TarrenTech aveva cambiato tutto, al di là di ogni possibile riconoscimento, e MacCallum non sentiva più una grande lealtà verso la cittadina. Semmai provava un profondo risentimento contro i cambiamenti che vi avevano avuto luogo e una rabbia ancora più profonda verso l'azienda che li aveva provocati. «Io non lavoro per la città di Silverdale», rispose infine. «Lavoro per la contea, e il mio unico interesse attuale è Rick Ramirez. Avrà bisogno di moltissimo aiuto, e intendo che lo ottenga.» Si alzò in piedi e tese la mano all'allenatore. «Ho fatto portare un altro letto nella camera di Rick. Penso che Maria voglia restare con lui, almeno per il momento.» Jenkins si alzò pure lui e strinse la mano di MacCallum. «Grazie», disse. «Maria e io le siamo grati per tutto quello che ha fatto...» Ma MacCallum lo interruppe. «Finora non ho fatto granché, e non sono affatto sicuro di che cosa riuscirò a fare. Ma farò tutto quello che posso, e chiamerò tutti quelli che credo ci possano servire. Sarà una cosa che andrà per le lunghe.»
Quando Jenkins se ne fu andato, MacCallum ritornò ancora una volta nella stanza in cui Rick Ramirez era disteso sul letto, privo di sensi. Nella mezz'ora che era passata non era cambiato nulla. MacCallum non era sicuro se fosse buon segno oppure no. Phil Collins era disteso sulla poltrona reclinabile che era l'elemento dominante del suo soggiorno, con le dita che premevano oziosamente i pulsanti del telecomando, quando all'improvviso il grande pastore tedesco sdraiato sul pavimento vicino alla poltrona emise un sordo brontolio. Un istante dopo il cane si alzò in piedi drizzando il pelo attorno al collo, e Collins diede nervosamente un calcio all'animale. «Zitto!» ordinò mentre il campanello suonava. «Non viviamo più a Chicago.» Gettò il telecomando sul tavolino accanto alla poltrona e si alzò. Con il cane che lo precedeva di mezzo passo, brontolando ancora piano, si recò alla porta e l'aprì. Sulla veranda, con il viso parzialmente illuminato da una luce fioca, riconobbe Bob Jenkins. Collins aggrottò leggermente le sopracciglia, ma aprì di più la porta. «Giù, Sparks», ordinò in tono brusco, e il cane poliziotto si accucciò obbedientemente. «Vieni dentro», disse. «Mi stavo chiedendo se saresti venuto. Come sta il tuo ragazzo?» Mentre entrava nella casa, a Jenkins scintillarono irosamente gli occhi, ma si immobilizzò quando il cane ringhiò come per dargli un avvertimento. «Non preoccuparti di Sparks», gli disse Collins. «È tutto parole e niente fatti. Almeno», aggiunse con un mezzo sorriso sul volto, «credo che lo sia. Finora nessuno ha avuto il fegato di sfidarlo.» Il sorriso scomparve, e lui ripeté: «Il tuo ragazzo sta bene?» «Il mio 'ragazzo' si chiama Ricardo Ramirez», disse Jenkins, «e no, non sta bene. Ha il collo fratturato, un sacco di ferite interne ed è in coma. Cose che sapresti molto bene», continuò amaramente, «se tu o qualcuno della tua scuola si fosse preso il disturbo di farsi vedere in ospedale.» «Ehi», protestò Collins sgranando gli occhi. «Come facevo a saperlo? Per quanto ne sapevo, l'ambulanza l'aveva riportato a Fairfield!» «Non fare il finto tonto», ribatté Jenkins alzando la voce. Il cane, sentendo immediatamente una minaccia al suo padrone, ringhiò pericolosamente. «E metti fuori quel cane, Collins», continuò in tono più ragionevole. «Quello che devo dirti non piacerà né a te né al tuo cane. E, credimi, sarei molto contento di farti causa per ogni centesimo che potrai mai valere.» Collins strinse la mascella ma non disse niente. Invece portò il cane in
cucina e ritornò con due lattine di birra, chiudendo la porta dietro di sé. Ne offrì una a Jenkins ma non fu sorpreso quando l'altro la rifiutò. Aprendo la sua birra con uno strappo tornò a sedersi sulla poltrona reclinabile e indicò un'altra poltrona all'allenatore del Fairfield. Ma Jenkins rimase in piedi. «Sono venuto a dirti che presenterò reclamo contro la tua squadra e contro Jeff LaConner in particolare», disse. «A quanto pare tutti gli anni la tua squadra diventa più violenta, e adesso ho un ragazzo gravemente infortunato.» Collins alzò una mano in un gesto conciliatorio. «Aspetta un momento», disse. «Capisco che tu sia stravolto, e sono d'accordo che faremo meglio a parlarne. Ma non credo che tu voglia cominciare a parlare di reclami o di cause o di qualsiasi altra cosa tu abbia in mente. Il football è uno sport duro...» «Lo sappiamo», lo interruppe Jenkins con voce gelida. «E nessuno si aspetta che non ci sia qualche incidente, ogni tanto. Ma questo è stato assolutamente ingiustificabile.» Collins si accigliò. «È stato un incidente, Bob, lo sai.» «Non è stato un incidente», obiettò Jenkins. «L'ho visto benissimo. Il tuo ragazzo stava per cadere e si è buttato su Rick deliberatamente.» Collins fece un profondo respiro, poi si alzò e si avvicinò al televisore, in cima al quale si trovava un videoregistratore. «Perché non ci diamo un'occhiata?» suggerì. Jenkins fissò sorpreso l'altro uomo. «Stai scherzando. Vuoi dire che registrate le vostre partite?» «Tutte quante», rispose Collins. «Come fai a correggere gli errori se non puoi mostrare ai ragazzi in che cosa hanno sbagliato?» Premette il pulsante «play» del videoregistratore e un attimo dopo un'immagine della partita del pomeriggio apparve sullo schermo. Mentre entrambi gli uomini osservavano, davanti a loro si svolse il penultimo gioco della partita. «Proprio qui!» esclamò improvvisamente Jenkins. «Proiettalo di nuovo. Hai la moviola?» Collins riavvolse il nastro di qualche metro, poi lo rimandò avanti, questa volta al rallentatore. Videro chiaramente Rick Ramirez che placcava Jeff LaConner. Jeff si girava leggermente, poi crollava sopra Rick. E per un attimo, prima che gli altri giocatori si ammucchiassero sui due, entrambi gli uomini poterono vedere che la testa di Rick si era girata a un angolo innaturale. Guardarono di nuovo il nastro, poi un'altra volta ancora. «Ebbene?» chiese finalmente Collins.
Jenkins stava mordendosi le labbra in atteggiamento pensieroso, ma Collins poté vedere che molta della sua rabbia era svanita. «Non so», disse infine, con la voce che tradiva il dolore che provava a dover fare quell'ammissione di incertezza. «Ma mi sembra che si sia buttato su Rick deliberatamente», insistette. «E a me sembra che abbia perso l'equilibrio», ribatté Collins, riavvolgendo il nastro un'ennesima volta. «Guardiamo ancora.» Di nuovo le immagini apparvero sullo schermo, e ancora una volta gli uomini guardarono in silenzio. Quando fu finito, Collins parlò di nuovo, scegliendo con cura le parole. «Senti, Bob, so che cosa stai pensando, e so come ti senti. Ma tutto quello che è successo è stato che Rick... come si chiama?» «Ramirez», rispose Jenkins quasi senza espressione, con gli occhi ancora fissi sullo schermo, dove la testa di Rick era congelata in un angolo penosamente grottesco. «Ramirez», ripeté Collins. «Be', mi sembra che abbia fatto il suo lavoro, forse anche un po' troppo bene, e sia finito sotto LaConner mentre cadeva. Ma non è stata colpa di nessuno.» Jenkins annuì lentamente e infine si allontanò dal televisore. «Forse», disse piano, «cambierò idea per quella birra.» La prese dal tavolino, la aprì e ne bevve un lungo sorso. «È stata una brutta giornata. Rick... be', se le cose fossero andate come volevo, Rick sarebbe mio figliastro.» «Oh Gesù», gemette Phil Collins. «Mi dispiace. Non ho parole per dirti quanto mi dispiaccia. Se c'è qualche cosa che posso fare...» Jenkins guardò bruscamente Collins negli occhi. «C'è», disse. «Puoi dirmi che genere di assicurazione ha la tua scuola e se ti opporrai a un reclamo per questo caso. La madre di Rick non ha neanche un soldo e...» Ma Phil Collins stava già alzando una mano. «Basta», assicurò a Jenkins. «Non credo che nessuno di noi voglia una causa... bada, non credo che il ragazzo la vincerebbe, ma non voglio doverla sostenere. Quello che vogliamo tutti quanti è il meglio per il ragazzo. Comincerò a fare andare avanti le cose questa sera stessa, e ti terrò informato. E se c'è qualcosa che posso fare personalmente, fammelo sapere. Va bene?» Jenkins esitò un momento, poi annuì e tese la mano. «Penso di doverti delle scuse», cominciò. Ma Collins l'allontanò. «Non pensarci nemmeno», disse. Si lasciò cadere di nuovo sulla poltrona, poi strinse le spalle. «In certo modo», continuò, «non posso dire di essere in disaccordo con te. Qualche volta penso anch'io che il gioco stia diventando troppo violento. E sembra che di anno in anno
i ragazzi diventino sempre più grandi e grossi. Ma che cosa possiamo farci? Per moltissimi ragazzi in questa parte della nazione il football è l'unico modo per andare all'università, e ci possono arrivare solo se giocano per una delle squadre migliori. Così continuano a darci sempre più dentro. Ma puoi scommettere», soggiunse, «che i miei ragazzi vedranno quel film e si sorbiranno anche un discorso su come cadere quando vengono placcati. Incidenti come quello di oggi non dovrebbero succedere.» Pochi minuti dopo, quando Jenkins se ne fu andato, Collins prese il telefono e fece il numero del preside della scuola superiore di Silverdale. Il più brevemente possibile riferì la conversazione che aveva avuto con Jenkins. Quando ebbe finito Malcolm Fraser, le cui preoccupazioni per i pericoli del football erano ben note, schioccò la lingua nervosamente. «Non so», sospirò, «forse abbiamo dato troppa importanza al vincere...» Collins lo interruppe. «Vincere è lo scopo del gioco, Malcolm. Se non cercassimo di vincere non varrebbe nemmeno la pena di giocare. Così faremo tutto il possibile per Ramos, o come si chiama, e dimenticheremo tutta la faccenda.» «A meno che non decidano di farci causa», rispose Fraser. «Se faranno causa, la faranno», obiettò Collins energicamente. «E non sarà un problema nostro. Ci penseranno gli avvocati.» «Capisco», rispose Fraser dopo un lungo silenzio. Poi disse: «E Jeff LaConner? Che cosa farai di lui? Gioca piuttosto duro, non è vero?» Collins ridacchiò sordamente. «È vero», assentì. E se continua così ti dico che cosa farò. Lo eleggerò Miglior Giocatore del campionato.» Quando riattaccò stava ancora ridacchiando. Charlotte LaConner osservò il marito che apriva un'altra birra e la passava a Jeff, poi ne apriva un'altra per sé. Era la terza per Jeff e la quarta per Chuck, e infine non riuscì più a trattenersi. «Che cosa credi che direbbe Phil Collins?» chiese accennando alla Bud tra le mani del figlio. Ma Chuck le sorrise. «Andiamo, tesoro», protestò. «È una grande serata, per Jeff! La prima partita della stagione, e un passaggio perfetto nell'ultimo gioco! Ed è stato Phil a dire ai ragazzi di andare fuori a divertirsi.» Charlotte fece un profondo respiro. Era inutile discutere con Chuck, specialmente dopo che aveva bevuto un paio di birre. E il fatto che lui sapesse bene quanto lei che l'allenatore non intendeva includere il bere quando quel pomeriggio aveva abolito le restrizioni non faceva nessuna differenza.
Aveva ancora in mente l'immagine del ragazzo infortunato che giaceva immobile sul campo, e anche se Chuck aveva insistito che si sbagliava sentiva che, come madre di Jeff, avrebbe dovuto recarsi in ospedale per vedere se il ragazzo del Fairfield stava bene. Ma Chuck aveva voluto uscire con i genitori di alcuni degli altri ragazzi della squadra, e alla fine, come sempre, l'aveva seguito. Come sempre, Charlotte era stata nel gruppo dei genitori che festeggiavano, sentendosi terribilmente sola nel mezzo della conversazione che non cambiava mai, ininterrotta rievocazione della partita del pomeriggio. Alla fine aveva lasciato che i propri pensieri vagassero alla deriva, e quando il gruppo aveva cominciato a sciogliersi Chuck aveva dovuto riscuoterla dalla sua fantasticheria. Poi, quando, un'ora prima, Jeff era ritornato a casa era ricominciato. Gioco dopo gioco, padre e figlio avevano rivissuto la partita. Infine erano arrivati al momento in cui Jeff si era precipitato attraverso la linea, era caduto sull'altro ragazzo ed era scomparso sotto il mucchio formato dagli altri giocatori. «Hai visto, papà?» stava chiedendo Jeff con gli occhi che gli luccicavano al ricordo e un largo sorriso sul volto. «Pensava di di avermi preso, ma l'ho sistemato! Non ho fatto che girarmi e cadergli addosso. Gli ho messo un ginocchio proprio sul rene!» Charlotte sentì che lo stomaco le si contraeva, e improvvisamente capì di non poter resistere oltre. Senza parlare si alzò, uscì dalla stanza, andò in camera da letto e chiuse la porta. Prese l'elenco del telefono dal cassetto del comodino, lo consultò e fece il numero dell'ospedale della contea. «Parla Charlotte LaConner», disse. «Telefono per quel ragazzo che è stato ricoverato questo pomeriggio, dopo la partita di football.» Ci fu un momento di silenzio, poi la voce all'altro capo del filo parlò freddamente e impersonalmente. «E qual è il suo grado di parentela con il paziente?» Charlotte esitò, poi rispose fermamente: «È stato mio figlio che ha placcato il ragazzo.» «Capisco», disse incertamente la voce. Poi: «Forse è meglio che le passi l'infermiera di turno.» Alcuni momenti più tardi, dopo aver spiegato ancora una volta chi era, Charlotte ascoltò inebetita l'infermiera che riassumeva le ferite di Ricardo Ramirez. «Ma... Ma guarirà, vero?» chiese infine Charlotte, e la domanda sembrò
una supplica. «Non lo sappiamo, signora LaConner», rispose l'infermiera. Lentamente, Charlotte depose il ricevitore, troppo fiacca per poter fare altro che sedersi immobile sul letto. Mentre cercava di raccogliere i propri pensieri passarono parecchi minuti. Poi, quando una rauca risata echeggiò nel soggiorno, si decise. Si alzò in piedi, si sistemò il didietro del vestito e uscì dalla camera da letto. Si fermò sulla soglia del soggiorno e aspettò che il marito la notasse. Per un momento sembrò perplesso, finché non vide l'espressione sul suo viso e il sorriso cominciò a scomparirgli dal volto. «Che cosa c'è?» chiese infine. «Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.» «Ho telefonato all'ospedale», disse lei. Poi si girò verso il figlio. «Il ragazzo che hai placcato. Si chiama Rick Ramirez.» Jeff si accigliò. «E allo-ora?» Charlotte si leccò nervosamente le labbra. «Potrebbe morire, Jeff. Ha il collo fratturato, e un polmone ha ceduto.» Suo malgrado, la voce le si indurì. «E quando hai messo il ginocchio sul suo rene, a quanto pare l'hai spappolato.» Jeff spalancò gli occhi e Charlotte vide che le sue dita si strinsero sul bicchiere di birra. «Gesù», sussurrò. Ma poi sembrò che un velo gli scendesse sugli occhi. «Non è stata colpa mia» disse, con una voce che aveva assunto una sfumatura di bellicosità. Dalla sua poltrona a poca distanza da Jeff Chuck le lanciò uno sguardo ammonitore, ma Charlotte decise di ignorarlo. «Non è stata colpa tua?» chiese senza più cercare di trattenere la collera che sentiva. Si avvicinò a Jeff. «Ti ho sentito dire che gli hai dato deliberatamente una ginocchiata.» «Be', e allora?» chiese bruscamente Jeff, alzandosi in piedi. Era alto, quasi un metro e novanta, e torreggiava sul metro e sessanta circa della madre. «Merda, mamma, mi aveva appena placcato, non è vero? Che cosa ti aspettavi che facessi? Che me ne stessi lì buono buono?» Charlotte allungò una mano per afferrare il braccio del figlio. «Ma quello fa parte del gioco, non è vero? Tu cerchi di scappargli, e lui cerca di placcarti. Ma non cerchi di colpirlo apposta...» Jeff strinse la mascella, e i suoi occhi si riempirono di un'improvvisa rabbia. «E tu non sai un accidente di football!» gridò. Bruscamente liberò il braccio dalla mano della madre e gettò nel caminetto il suo bicchiere, ancora mezzo pieno. Il boccale da birra si frantumò contro i mattoni, poi Jeff uscì come una furia dalla stanza, sbattendo la porta dietro di sé.
«Jeff!» gridò Charlotte, troppo tardi. Aveva sbattuto anche la porta posteriore. Un attimo dopo sentirono la sua macchina che si metteva in moto e scendeva rombando lungo il vialetto d'accesso. Furiosa, si girò di scatto verso Chuck. «Basta!» sbottò. «Niente più football! Lunedì mattina uscirà dalla squadra. Ne ho abbastanza.» Ma suo marito la guardò come se fosse uscita di senno. «Ehi, calmati, tesoro», disse alzandosi e avvicinandosi a lei. «Forse non avrebbe dovuto gridare con te e buttare il bicchiere in quel modo, ma come credi che si senta?» «Lui?» ribatté Charlotte. «E Rick Ramirez, allora?» «Jeff non aveva intenzione di fargli del male», rispose Chuck. «Nella foga della partita, cose simili succedono. E da che parte stai, ad ogni modo? L'hai quasi accusato di aver cercato di ammazzare quel ragazzo. Tuo figlio! Come diavolo ti aspetti che reagisca?» Charlotte rimase in silenzio per un secondo, e quando parlò la sua voce era tesa. «Mi aspetto che si comporti nel modo in cui l'abbiamo educato. Mi aspetto che sia un buon sportivo e tenga presente il fatto che è molto più grande della maggior parte dei ragazzi e che potrebbe fare del male a qualcuno. E se non ci riesce, mi aspetto che smetta di giocare a football.» Chuck LaConner fissò la moglie in silenzio, poi scosse la testa. «Quello che vuoi dire è che vuoi tenerlo legato alle tue sottane e non vuoi che cresca», disse. «Ma non puoi farlo, Charlotte. Non è più il tuo bambino.» E prendendo in mano il bicchiere da birra vuoto uscì dalla stanza. Charlotte, senza sapere bene che cosa era andato storto, ma rendendosi conto dì avere condotto molto male la faccenda, cominciò a raccogliere i frammenti di vetro sparsi sul pavimento del soggiorno. 4 Lunedì mattina l'aria era frizzante, e la prima cosa che Mark Tanner notò uscendo dalla porta posteriore nella brillante luce del sole fu il cielo. Di uno splendido blu cobalto, aveva una profondità che non aveva mai visto a San Marcos, dove, non importava quanto fosse limpida la giornata, sembrava incombesse dappertutto una vaga foschia. Qui le montagne a est si delineavano nettamente contro il cielo, e c'era anche un profumo diverso, non l'odore pungente della baia, qualche volta acutamente salato, che portava il più delle volte la puzza leggermente nauseante delle pianure palu-
dose, ma il puro profumo dei pini. Anche Chivas sembrò sentire la differenza, e abbaiò allegramente mentre oltrepassava Mark e correva fino alla conigliera vicino al garage. Ma mentre dava da mangiare ai conigli Mark sentì che il senso di allegria cominciava a svanire, perché sospettava già che avrebbe avuto dei problemi ad adattarsi agli altri ragazzi di Silverdale. Aveva cominciato a pensarci sabato sera, quando aveva visto Robb Harris. Aveva cercato di riprendere la loro amicizia dov'era rimasta tre anni prima, ma si era reso rapidamente conto che non avrebbe funzionato. Robb era cambiato. Era molto più alto di Mark, e sembrava aver perso ogni interesse per molte delle cose che avevano condiviso mentre stavano crescendo. I conigli, per esempio. Robb li aveva fissati per un attimo, poi aveva chiesto a Mark - e Mark era certo di non avere equivocato il disprezzo nella voce di Robb - perché stava ancora «gingillandosi» con loro. Mark aveva aggrottato le sopracciglia. «Tu allevavi porcellini d'India», gli aveva fatto notare. Robb aveva alzato gli occhi al cielo. «Lo facevamo tutti, quando eravamo bambini. O criceti, o gerbilli.» Poi aveva sorriso, ma non era stato il genere di sorriso amichevole che Mark ricordava dagli anni precedenti. «Perché non li lasciamo andare?» aveva suggerito. «Poi potremno dargli la caccia.» Anche se aveva provato un impeto di rabbia, Mark non aveva detto niente. Ma da quel momento in poi, per lui la serata era andata di male in peggio. Aveva cercato di fingere interesse per la partita che Robb aveva giocato quel pomeriggio, ma non aveva funzionato del tutto, e Robb alla fine aveva chiesto di quale squadra sarebbe entrato a far parte. Era stato Mark a sorridere. «Non lo so», aveva risposto. «Forse quella dei dibattiti?» Robb l'aveva guardato come se fosse una specie di extraterrestre. «Non abbiamo una squadra per i dibattiti», aveva risposto. «E anche se l'avessimo, nessuno vorrebbe farvi parte.» Allora Mark era ammutolito; e il giorno prima, quando sua madre gli aveva suggerito di andare dagli Harris a trovare Robb aveva scosso la testa e aveva inventato una scusa. Sua madre l'aveva guardato con attenzione, ed era sembrato che volesse dire qualche cosa, ma poi aveva cambiato idea. Così lui aveva passato la giornata con Chivas, seguendo un sentiero tra le colline, godendosi la. solitudine e il maestoso panorama, ma comincian-
do già a preoccuparsi di quello che sarebbe successo il giorno dopo. Improvvisamente Kelly uscì come un fulmine dalla porta posteriore. «La mamma dice che se non vieni dentro immediatamente farai tardi!» Allargò i piedi e si mise le mani sui fianchi. «E deve accompagnarmi a scuola, quindi spicciati!» Mark sorrise alla sorellina. «E cosa succede se non vengo?» le chiese prendendola in giro. Kelly ridacchiò, come faceva sempre quando lui la stuzzicava. «Non lo so», ammise. «Ma scommetto che finirai nei guai!» «Allora mi spiccio», rispose Mark. Finì di lavare il vassoio e lo rimise sotto la gabbia, poi aggiunse un po' d'acqua nella vaschetta dei conigli. In meno di un minuto era ritornato in casa ed era scivolato al suo posto a tavola per fare colazione. Suo padre, che aveva già quasi finito, alzò lo sguardo su di lui. «Ieri ho parlato con Jerry Harris», disse Blake. Mark aggrottò le sopracciglia ma non rispose. «Pensava che tu potresti farti vedere da loro. Voleva sapere se qualcosa è andato storto tra te e Robb.» Mark strinse le spalle, ma ancora rimase in silenzio. Blake si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia, e Mark si sentì irrigidire. «So che questo trasferimento è un grande cambiamento per tutti noi», cominciò Blake. «Dovremo fare un grande sforzo di adattamento. Ma è una grossa occasione.» Esitò per un attimo, e finalmente Mark alzò gli occhi. Suo padre stava guardando proprio lui. «Specialmente per te», gli disse Blake. Mark si agitò sulla sedia, a disagio. Che cosa stava succedendo? Aveva fatto qualche cosa che non andava? «Voglio che tu ti inserisca», continuò suo padre. «So che in passato, dopo aver perso un anno di scuola, hai avuto qualche problema di inserimento. Ma questa è un'occasione perché tu ricominci daccapo.» Improvvisamente Mark capì. «Vuoi dire che vuoi che faccia dello sport», disse. Blake non disse niente, ma il lungo sguardo interrogativo che diede al figlio parlò per lui. «Pensavo che ne avessimo già parlato...», cominciò Mark. Suo padre lo azzitti con un gesto. «Quello è stato prima... e avevi ragione. A San Marcos probabilmente non saresti riuscito a entrare in squadra. Ma questa è una scuola molto più piccola, e Jerry mi ha detto che c'è posto
per tutti.» Gli occhi di Mark si incupirono. «Ma...» Di nuovo, Blake non lo lasciò finire. «Tutto quello che voglio è che tu ci provi» Mark esitò, poi annuì controvoglia, capendo che era inutile discutere con il padre in quel momento. Eppure quando, pochi minuti dopo, uscì per andare a scuola stava già cominciando a pensare a un modo per aggirare la decisione che suo padre aveva già preso per lui. «Ehi! Aspetta!» Mark era ancora a due isolati dalla scuola quando sentì la voce della ragazza. La ignorò finché non sentì di nuovo il grido, questa volta seguito dal suo nome, poi si voltò e guardò indietro. A mezzo isolato c'era Linda Harris che correva per raggiungerlo. Quando arrivò alla sua altezza respirava forte e aveva la fronte coperta da un velo di sudore. «Non mi hai sentito?» chiese ansimando. «Non ti avevo sentito», protestò Mark. «Vuoi dire che non stavi ascoltando», lo contraddisse Linda, con gli occhi che brillavano maliziosamente. «Ti ho visto che vagabondavi con la testa tra le nuvole. Avrebbe potuto investirti un autobus, e tu non te ne saresti neppure accorto.» Mark si sentì arrossire, ma più di piacere che di imbarazzo. Perché anche Linda era cambiata dall'ultima volta che l'aveva vista. In tre anni si era trasformata da una ragazzina allampanata con l'apparecchio per i denti e le treccine in una quindicenne dalle curve delicate i cui capelli biondi, un po' più scuri di quelli del fratello, le ricadevano morbidamente sulle spalle. «A Silverdale non ci sono autobus, vero?» ribatté, tanto per dire qualche cosa. Mentre Linda riprendeva a camminare, lui si mise al passo con lei. «Un paio», gli disse. «Qualche ragazzo vive nei ranch, e devono andare a scuola anche loro, sai.» Lo guardò con curiosità. «E allora, a che cosa stavi pensando?» Mark esitò. Il suo primo istinto fu di dirle la verità, cioè che stava cercando di trovare il modo di aggirare la decisione del padre che lui giocasse a football, ma non sapeva come l'avrebbe presa. E, con un sobbalzo, si rese conto che non voleva che Linda Harris avesse una brutta reazione nei suoi confronti. Così strinse le spalle affabilmente e le sorrise. «Non lo so. Mi pare che stavo solo guardandomi intorno. Sai, per sentire le cose. Io... be', lo faccio spesso», finì in tono poco convincente.
Con sua grande sorpresa, Linda annuì.. «Capisco. Lo faccio anch'io. Qualche volta la gente pensa che io sia strana, perché all'improvviso mi estranio da tutto. Ma non sei obbligato ad ascoltare la gente solo perché parla, vero?» Lo guardò tanto gravemente che quasi quasi Mark scoppiò a ridere. «Penso di no», ammise. «Non che ci abbia mai pensato sul serio, ma credo che tu abbia ragione. E comunque non sembra che la maggior parte della gente abbia granché da dire. Credo che sia per questo che preferisco gli animali alle persone.» Girarono l'ultimo angolo e Mark si fermò di colpo. «Gesù», esclamò, «È quella la scuola superiore?» Linda lo fissò con uno sguardo privo di espressione. «Che cos'ha che non va?» chiese in tono di difesa. «N-Niente», balbettò Mark. «È solo... be', non è come mi aspettavo.» Senza pensarci molto, Mark aveva supposto che la scuola di Silverdale avrebbe avuto l'aspetto di tutte le altre delle innumerevoli cittadine che avevano attraversato da quando avevano lasciato San Marcos: un semplice edificio in legno, con la vernice che si scrostava, in mezzo a un prato rinsecchito in uno squallido isolato alla periferia della città, con dietro un campo da gioco in terra battuta. Ma la scuola superiore di Silverdale non assomigliava a niente che avesse visto prima. Era una costruzione in mattoni rossi, con un nucleo centrale di tre piani e due ali di due piani che si protendevano formando un'imponente struttura a V. Tutte le finestre avevano delle persiane bianche e l'alto tetto a punta del nucleo centrale era sostenuto da sei colonne rigate. Le colonne erano di marmo bianco. L'edificio guardava verso un prato vellutato attraversato da serpeggianti sentieri di mattoni, e aveva davanti dei giardini che anche in settembre splendevano di fiori dai vivaci colori. Al centro del prato c'era un'asta portabandiera. Mark vide due ragazzi che innalzavano la bandiera americana mentre si cominciavano a sentire le note dell'inno nazionale. Accanto a lui Linda era immobile, con il viso rivolto verso la bandiera, e un istante dopo Mark si rese conto che sul prato davanti alla scuola, e anche sui sentieri, pure gli altri studenti si erano fermati, come immobilizzati sul posto, con gli occhi fissi sulla bandiera. Salì lentamente nel sole del mattino poi, quando arrivò in cima, cominciò a sventolare proprio mentre risuonavano le ultime note dell'inno. Mark batté gli occhi, poi guardò Linda, perplesso. «Fanno tutti così, tutti
i giorni, qui?» Per un istante Linda aggrottò le sopracciglia, poi annuì. «Penso che ti sembri sciocco. Robb ha detto che quando siamo arrivati lo faceva andare in bestia. Ma adesso è una tradizione.» «E lo fanno tutti?» insistette Mark. «Si fermano e guardano la bandiera?» Stava cercando di immaginarsi i ragazzi della scuola superiore di San Marcos, quelli con i capelli tinti di verde e di arancione e con degli anelli alle narici, che smettevano di parlare per l'alzabandiera. Ma naturalmente non l'avrebbero fatto: avrebbero alzato il volume delle loro radio stereo e avrebbero continuato a fare quello che stavano facendo. Ma in quel momento, mentre assieme a Linda cominciava ad attraversare il vasto prato verso la scuola, si rese conto che nessuno dei ragazzi aveva i capelli alla punk, né giubbotti di pelle coperti di borchie. Dovunque guardasse vedeva ragazzi in calzoni di cotone e camicie sportive, e ragazze in maglione e sottana o in pantaloni ben stirati e linde camicette. Salirono la rampa di scale che conduceva a un vasto porticato simile a una terrazza tra le colonne di marmo e le porte principali della scuola. «E allora, ti piace?» chiese entusiasticamente Linda. Mark fece un largo sorriso. «Che cosa c'è che non dovrebbe piacere?» Linda salutò con un cenno un gruppo di amiche che stavano vicino a una delle colonne, ma non fece l'atto di avvicinarsi a loro. «Vieni, ti faccio vedere dov'è l'ufficio.» All'interno c'era un'enorme sala il cui soffitto si innalzava per tutti i tre piani, fino al tetto. Alla fine della sala un'ampia scala saliva al primo piano, e sopra di quella, divisa in due rampe più strette, c'era quella che portava al secondo piano. Il soffitto era in gesso bianco, con una decorazione lungo i bordi. Il pavimento sotto i piedi di Mark aveva un complicato disegno geometrico di marmo bianco e nero. Si fermò un istante, cercando di osservare tutto, ma Linda gli fece fretta. «L'ufficio del preside è da questa parte», disse conducendolo verso destra. Un momento dopo varcarono una porta a pannelli con una lunetta e si trovarono di fronte a una sorridente segretaria. «Questo è Mark Tanner, signorina Adams», disse Linda. «È il suo primo giorno.» La segretaria annuì. «Tuo padre mi ha telefonato la settimana scorsa», disse, poi si rivolse a Mark. «Per caso, hai portato il tuo curriculum?» Mark scosse la testa con sguardo inespressivo, ma la segretaria non sembrò darvi importanza. «Comincia a riempire questi, e lo avrò prima che
tu abbia finito», disse. Spinse verso Mark un mucchietto di moduli e di schede, poi si voltò verso il terminale di un computer che stava sulla sua scrivania. Le sue dita batterono velocemente sulla tastiera, e pochi minuti dopo una stampante che si trovava su un tavolo vicino alla parete entrò in funzione. «Ci vediamo a pranzo», promise Linda. Poi se ne andò, e Mark si mise a compilare i numerosi questionari e moduli per l'iscrizione alla scuola superiore di Silverdale. Mezz'ora dopo Shirley Adams scorse velocemente i moduli che aveva completato e gliene diede un altro mucchietto. «Porta questi all'infermiera, due porte dopo, a sinistra, poi quando hai finito ritorna qui. Per allora il tuo programma dovrebbe essere pronto.» «C-C'è la fotografia?» chiese con esitazione Mark. «A San Marcos frequentavo il secondo anno.» Il sorriso di Shirley Adams si fece ancora più largo. «Allora lo farai anche qui.» «Vuole dire che avete davvero una camera oscura?» La signorina Adams sembrò stupita. «Qui siamo a Silverdale», rispose. «Abbiamo tutto, qui.» Mark, vestito solo di un paio di calzoncini da ginnastica di due taglie troppo grandi, stava sulla bilancia quando Robb Harris entrò nell'ambulatorio. Robb guardò la bilancia, poi fece un sorrisetto di commiserazione. «Sessantotto chili?» chiese «Sei anche più magro di quello che ero io quando sono arrivato.» Prima che Mark potesse parlare Robb si rivolse all'infermiera. «L'allenatore vuole che questa mattina io vada alla clinica. Mi fa un permesso, per favore?» «Subito», rispose l'infermiera, senza sollevare lo sguardo dal blocco a molla in cui aveva segnato l'altezza, la pressione sanguigna, la capacità dei polmoni, le reazioni dei riflessi di Mark, insieme con una miriade di altri particolari che si riferivano alla sua salute. «Forse è meglio che ne faccia uno anche per Mark», continuò Robb, lasciandosi cadere su una sedia e stendendo davanti a sé le sue lunghe gambe. «Scommetto che il dottor Ames potrebbe sistemarlo immediatamente.» Mark aggrottò le sopracciglia. «Il dòttor Ames?» chiese. «Chi è?» «Il medico sportivo. Non te ne ha parlato, tuo padre?» Mark scosse la testa, ma cominciò a sentire un nodo alla bocca dello stomaco.
«È a circa tre chilometri dalla città. Per tutta l'estate è un campo sportivo, e ci arrivano ragazzi da tutta la nazione, ma per il resto dell'anno possiamo usarlo noi.» Mark fissò Robb. «Usarlo per che cosa?» «Per gli allenamenti», rispose Robb. Lo sguardo di disprezzo che aveva irritato Mark sabato pomeriggio era apparso ancora una volta nei suoi occhi. «Il dottor Ames sa praticamente tutto quello che c'è da sapere della medicina sportiva, e ha ogni genere di apparecchi speciali. È in gamba.» «E», aggiunse l'infermiera gettando a Mark uno sguardo d'intesa, «il fatto che i ragazzi ottengano una mattinata di permesso dalle lezioni quando l'allenatore li manda laggiù non lo rende certo più duro, per loro.» «Permesso dalle lezioni?» fece eco Mark. «In modo che possiate andare à ad allenarvi a giocare a football?» «E a pallacanestro, e a baseball», rispose Robb. Mark aggrottò le sopracciglia. «E allora cos'hai che non va per andare là stamattina?» Robb alzò le spalle. «Niente. È solo un controllo. Tutti i giocatori della squadra di football ne fanno uno la settimana.» «Ogni settimana! Perché?» Robb alzò gli occhi al cielo, impazientemente. «Perché giocando a football puoi farti male, stupido. Cristo, guarda quello che è successo sabato a quel ragazzo del Fairfield. Sembrava abbastanza a posto, ma dentro è tutto a pezzi» L'infermiera mise da parte il blocco per un momento, scrisse qualche cosa su un modulo e lo diede a Robb, che si alzò e si stirò pigramente, poi sorrise a Mark. «Sul serio non vuoi venire?» chiese «È molto meglio della lezione di matematica.» Mark scosse la testa. «Credo che dovrò fare a meno dei controlli settimanali, dato che non giocherò a football.» Robb lo guardò. «Oh, davvero? Non è come l'ho sentita io.» E poi se ne andò. Mark fissò la porta chiusa sulla cui soglia Robb era stato un attimo prima. Le ultime parole del ragazzo riecheggiarono nella sua mente. Il nodo d'ansia alla bocca del suo stomaco si strinse ancora di più. Sulla sua bicicletta, Robb Harris pedalò fuori città, godendosi il calore del sole sulla schiena, senza nessuna fretta di raggiungere la sua destina-
zione. Quella, decise, era una delle cose migliori del far parte della squadra di football. Non ci si doveva mai affrettare per andare da nessuna parte, tranne che agli allenamenti, e almeno una volta la settimana si poteva contare su di una mezza giornata libera dalle lezioni. Non che si potesse, naturalmente, lasciare che i propri voti peggiorassero, Phil Collins era assolutamente fanatico a quel riguardo. Se si scendeva più in basso della media dell'otto si era fuori della squadra. Ma se facevi parte della squadra di football i professori erano sempre disposti ad aiutarti un po' di più, e così non si faceva poi molta fatica. E alla fine i migliori giocatori di Siiverdale avevano sempre la possibilità di scegliere a quale università iscriversi. Potevano anche non ottenere una borsa di studio, ma almeno potevano scegliere. Respirò profondamente l'aria di montagna, godendosi l'afflusso di ossigeno che gli riempiva i polmoni. Non era più come prima, quando stava crescendo a San Marcos. Da quando aveva compiuto sette anni, quasi ogni respiro era una sofferenza. Ricordava ancora il terribile panico che lo prendeva ogni volta che cominciava un attacco, la paura impotente, orribile mentre boccheggiava in cerca dell'aria. Poi aveva cominciato ad andare dal dottor Ames ed era stato messo a un regime di allenamento. Per le prime sei settimane non l'aveva potuto soffrire, nel modo più assoluto. Poi la tosse aveva iniziato a diminuire e lui aveva cominciato a sentirsi meglio. Pochi mesi dopo, quando aveva cominciato a mettere su peso e i vestiti non gli erano andati più bene tanto era cresciuto, aveva deciso che valeva proprio la pena di fare tutto quell'allenamento. Poi l'estate prima di quella precedente suo padre l'aveva portato sul campo di football, anche se non aveva mai giocato sul serio prima di allora. Sulle prime si era sentito goffo e stupido, ma con il passare dell'estate aveva cominciato a prenderci gusto. Per la prima volta in vita sua si era sentito come qualsiasi altro. Forse, pensò, sarebbe successo così anche a Mark. Tranne che sembrava che a Mark non importasse niente se si adattava o no. Robb ridacchiò piano tra sé, ricordando come Mark aveva messo in mostra i suoi conigli, due giorni prima. Cristo, quella roba da bambini. E se gli altri ragazzi li scoprivano, avrebbe dovuto stare attento. Abbandonò la stretta strada che saliva verso le colline e girò la bicicletta per il sentiero che conduceva alla clinica sportiva, guardando appena il
cartello che conosceva tanto bene: ROCKY MOUNTAIN HIGH Mens Sana in Corpore Sano Robb pensava ancora che fosse un nome sciocco, ma non era riuscito a convincere Marty Ames che a nessuno dei ragazzi importava più niente di quella vecchia canzone di John Denver. Il cancello al di sotto del curvo cartello era aperto, e Robb lo attraversò salutando con un cenno il giardiniere che era al lavoro sul tappeto erboso del campo da gioco alla sua destra. Parcheggiò la bici su un supporto vicino all'ingresso e aprì la porta a vetri che dava nell'atrio. Era grande e arioso, e munito di comodo mobilio. Durante l'estate l'atrio serviva da salone per una eterogenea raccolta di robusti giovanotti. Ma in quel momento, durante l'anno scolastico, era deserto, e Robb lo attraversò in fretta, poi voltò a sinistra, oltrepassò la sala da pranzo ed entrò nella sala d'aspetto accanto all'ufficio del dottor Martin Ames. Marjorie Jackson alzò il capo e sorrise a Robb da dietro il cumulo di carte che c'era sulla sua scrivania. Era una donna di mezza età la cui carica ufficiale era assistente del direttore, ma era lei che si occupava in realtà dell'andamento quotidiano del campo, con ben poco controllo da parte del suo datore di lavoro. «È nella sala canottaggio», disse senza aspettare che Robb lo chiedesse. «E», soggiunse dando un'occhiata all'orologio sulla parete, «sei in ritardo di dieci minuti.» Prima che Robb potesse inventare una scusa ritornò al suo lavoro, ignorandolo di proposito. Solo leggermente in imbarazzo, Robb si voltò e uscì dall'ufficio, poi con passo veloce tagliò attraverso la sala da pranzo e la cucina e si diresse verso la grande sezione di allenamento nella parte posteriore della costruzione. Marjorie poteva perdonargli i dieci minuti di ritardo, e il dottor Ames poteva non parlarne nemmeno, ma Robb avrebbe visto negli occhi del medico uno sguardo risentito, e avrebbe capito di averlo deluso. Robb, come la maggior parte degli altri ragazzi, preferiva le urla di Phil Collins al solenne sguardo di estrema delusione di Marty Ames. Comunque, quel giorno sembrò che Ames non avesse notato il ritardo di Robb. Quando il ragazzo arrivò nella sala di canottaggio l'alto dottore dai capelli scuri alzò gli occhi dal terminale che stava guardando e gli diede il benvenuto con un sorriso.
«Hai giocato bene, sabato», disse a mo' di commento. Robb strinse le spalle modestamente. «In realtà non ho fatto granché. Una dozzina di giochi in tutto.» Ames ridacchiò. «Se non lascerai che l'altra squadra conquisti il pallone, la difesa dovrà restare in panchina.» Poi il suo viso ritornò più serio. Era un uomo di bell'aspetto, anche se non proprio bello, e sembrava che non avesse più di trentacinque anni, anche se in realtà ne aveva quasi cinquanta. Diceva sempre ai ragazzi, scherzando, che doveva lavorare sodo per tenersi in forma come i suoi pazienti. «Come ti senti?» chiese a Robb. «Bene», rispose il ragazzo. Senza che glielo dicesse, si spogliò rimanendo con la sola biancheria, poi si distese su un tettino accanto alla parete. Il dottor Ames, che era anche osteologo, passò abilmente le dita sulla spina dorsale di Robb, poi ordinò al ragazzo di girarsi e di alzare il ginocchio sinistro. Avvolgendo le braccia attorno al torace di Robb, Ames praticò una torsione veloce ma delicata alla schiena del ragazzo, e Robb sentì qualche cosa di simile a una vibrazione mentre una delle vertebre inferiori tornava ad allinearsi perfettamente con le altre. «Sembri a posto», commentò Ames, poi cominciò ad avvolgere il manicotto di uno sfigmomanometro al suo avambraccio sinistro. Soddisfatto, fece un cenno verso uno dei vogatori e Robb, dopo essersi infilato un paio di calzoncini da ginnastica, prese posizione ai remi meccanici. Aspettò pazientemente che il dottore gli infilasse nella coscia un ago da endovenosa, senza battere ciglio quando il medico trovò abilmente la vena. «Oggi controlleremo il sangue», disse, e Robb annuì, ormai abituato alla procedura, dopo più di un anno. Davanti a lui si trovava un grande schermo ricurvo, le cui estremità erano fuori della sua visione periferica. A un segnale di Ames Robb cominciò a remare. Con il primo colpo lo schermo entrò in funzione. Era una scena fluviale, e anche se a Robb sembrò che potesse essere il Charles River di Boston, sapeva che in realtà era un grafico generato da un computer, proiettato sullo schermo da tre macchine separate. Dal punto in cui era seduto l'illusione era quasi perfetta. Gli pareva di essere davvero sull'acqua. A pochi metri di distanza vedeva altri tre scafi, che procedevano di pari passo con lui. Si applicò ai remi con più forza, e immediatamente sembrò che gli altri scafi rimanessero indietro, finché anche gli altri rematori accelerarono il passo e uno cominciò ad avvantaggiarsi su di lui. Robb sentiva che stava sudando, e cominciò a remare ancora più energi-
camente. Di nuovo passò in testa, ma mentre due delle altre barche rimanevano indietro la terza accennò ancora una volta a raggiungerlo. Imprecando in silenzio, Robb rinnovò i propri sforzi. Al terminal del computer, Marty Ames stava studiando il grafico dei cambiamenti nelle proprietà chimiche del sangue di Robb mentre il ragazzo si applicava sempre di più. La quantità di zucchero nel sangue cominciò a diminuire, poi vide che la ghiandola surrenale di Robb dava il proprio contributo e una breve scarica di adrenalina veniva iniettata nel circolo sanguigno del ragazzo. Poi, mentre l'adrenalina scompariva dall'apparato circolatorio di Robb, le dita di Ames batterono velocemente sulla tastiera del computer. Sullo schermo, il grafico cambiò nuovamente. Robb strinse rabbiosamente gli occhi vedendo il rivale generato dal computer guadagnare terreno su di lui. Si piegò di più sui remi, ma cominciava a stancarsi e gli sembrò che la velocità non aumentasse. Alzò gli occhi dalla sua fatica e vide che l'altra barca lo raggiungeva e si spostava sulla destra per superarlo. «No!» gridò Robb ad alta voce, poi si morse le labbra con ferma determinatezza rendendosi conto di quanta energia avesse sprecato in quell'inutile sforzo. Con i tendini del collo tesi fino allo spasimo si costrinse a remare più forte. Di nuovo raggiunse l'altro scafo. Improvvisamente lo schermo si spense. Era finita. Era ritornato nella sala canottaggio della clinica sportiva e Marty Ames stava sorridendogli, con un'espressione che mostrava quanto fosse orgoglioso di Robb. «Niente male», disse, e quelle parole, provenendo da Marty Ames, si potevano considerare un grandissimo elogio. «Come ti sei sentito?» Per un momento Robb si appoggiò ai remi, ansimando, poi scosse la testa. «Non lo so», rispose. «Qualche volta questa attrezzatura mi coinvolge davvero. So che non è assolutamente reale, ma quando ci sono dentro mi prende tanto che giurerei di stare facendo davvero una corsa. E quel tipo sulla barca numero tre a momenti mi batteva.» «Perché non c'è riuscito?» chiese Ames con ingannevole dolcezza mentre cominciava a togliere l'ago dalla coscia di Robb. Robb sorrise. «Perché mi sono incazzato con lui», confessò. «Mi sono incazzato perché perdevo.» «E questo è esattamente il punto. La tua rabbia ha liberato una scarica di adrenalina, e questa era sufficiente per farti tagliare il traguardo. Nel caso
ti interessi», soggiunse guardando ancora una una volta il monitor del computer, «l'hai battuto esattamente di tredici millesimi di secondo.» «Non è molto», commentò Robb alzandosi e stirando i propri muscoli affaticati. «Abbastanza per vincere», gli disse Ames. «E migliorerai. Se solo continui ad applicarti, continuerai migliorare.» Mentre, pochi minuti dopo, si avviava verso le docce Robb sapeva che avrebbe continuato ad applicarsi, perché capiva quanto gli piacesse vincere. Gli piaceva moltissimo. Davvero moltissimo. 5 Charlotte LaConner sapeva che Chuck non avrebbe approvato quello che stava per fare, ed era ugualmente certa che l'avrebbe scoperto. A Silverdale, dopo tutto, tutti sapevano sempre quello che facevano gli altri. Non che avesse particolari obiezioni da fare al minuzioso sguardo indagatore delle piccole città, rifletté mentre apportava i tocchi finali alla relazione sulle spese trimestrali della Divisione R&S. Era solo che ogni tanto, per esempio in momenti come quello, avrebbe preferito una maggiore intimità. Premette il tasto di invio del suo computer, aspettò che la macchina annunciasse che la relazione di spesa era stata trasmessa con successo alla memoria principale del computer TarrenTech, poi staccò. Erano solo pochi mesi che Charlotte lavorava, partecipava a un esperimento che la società stava conducendo e che, se avesse avuto successo, avrebbe concesso a tutte le donne di Silverdale di lavorare a casa part-time. Per il momento l'esperimento era limitato alle mogli degli uomini che lavoravano per la società; solo un uomo vi prendeva parte : Bill Tangen, la cui moglie Irene era un esperto farmaceutico che lavorava a tempo pieno mentre Bill accudiva alla loro figlioletta. Per Charlotte il programma funzionava meravigliosamente bene. Aveva scoperto che lavorare da sola le piaceva, e che in poche ore faceva molto più di quanto non avesse mai concluso quando lavorava a tempo pieno negli uffici della divisione. Tuttavia quella mattina aveva fatto fatica a concentrarsi, dopo aver terminato la relazione delle spese aveva deciso di smettere. Era il pensiero di Rick Ramirez che l'aveva perseguitata tutta la mattina. A dire il vero non aveva mai smesso di pensare al ragazzo infortunato.
Non che il giorno prima fosse mai stato fatto il suo nome. Dopo la scenata al termine della quale Jeff era uscito di casa come una furia, il silenzio era piombato sulla famiglia LaConner. Né Chuck né Jeff ne avrebbero parlato con lei. E quello, si rese conto Charlotte in quel momento, era ciò che le dava più fastidio. Suo marito e suo figlio avevano rimosso dai loro pensieri quel terribile incidente. Come se non fosse successo assolutamente niente. Ma lei non era riuscita ad allontanare l'immagine del giocatore del Fairfield che giaceva infortunato sui campo, e quella mattina si era svegliata decisa ad andare all'ospedale per vedere come stava. Ma perché si sentiva tanto colpevole? Che diavolo poteva esserci di sbagliato nell'andare a trovare un ragazzo infortunato? Poteva quasi vedere Chuck che la fissava con quel suo sguardo, lo sguardo che le diceva che lui non riusciva a scandagliare i procedimenti dei suoi pensieri, e che quindi ci doveva essere in loro qualche cosa che non andava. E poteva anche sentirlo, con la voce che assumeva quello che lei considerava il «tono logico». «Ma non vedi? Se vai all'ospedale è quasi come ammettere che Jeff è in qualche modo responsabile di quello che è successo. E anche se fosse responsabile, il che non è vero, sarebbe comunque un errore. Con una cosa simile i legali andrebbero a nozze.» Ma era veramente la voce di Chuck che sentiva? O non era piuttosto quello che sentiva lei, nell'intimo? Non importava. Giusto o sbagliato, sarebbe andata. Mezz'ora dopo, costringendosi a non guardarsi intorno per vedere chi poteva osservarla, entrò nell'atrio del piccolo ospedale della contea e andò al banco. Da dietro il vetro Anne Carson le sorrise, poi alzò gli occhi al cielo e indicò eloquentemente il telefono che aveva contro l'orecchio. Per parecchie volte Anne aprì la bocca pel dire qualche cosa, poi la richiuse perché apparentemente la persona all'altro capo del filo continuava a parlare. Infine Anne depose stancamente la cornetta e aprì il vetro che separava la sala d'aspetto dall'ufficio. «Charlotte? Come mai qui?» Il suo viso assunse un aspetto preoccupato. «Non sei ammalata, vero?» Charlotte scosse la testa. «Io... be', volevo sapere come sta il ragazzo Ramirez. Quello di Fairfield.» «Per niente bene, temo», disse Anne, poi si sforzò di sorridere. «È nella stanza tre, lungo il corridoio.» Esitò, poi, rendendosi conto dell'angoscia di Charlotte, soggiunse: «È contro le regole, ma puoi dargli un'occhiata, se
vuoi.» Mentre procedeva lungo il corridoio Charlotte rallentò il passo e si fermò del tutto quando arrivò davanti all'uscio semiaperto della camera del ragazzo. Infine, facendosi coraggio, aprì del tutto la porta ed entrò. Nella stanza c'erano due letti, ma solo uno era occupato. Coperto solo da una leggera coltre, con la testa tenuta ferma da un sostegno metallico e gli occhi chiusi, Rick Ramirez dava l'impressione di una strana immobilità, e Charlotte capì che non stava semplicemente dormendo. Si avvicinò al ragazzo e lo fissò in volto. Su un occhio aveva un ricciolo di capelli neri, e istintivamente Charlotte allungò una mano per scostarlo. «Non lo tocchi», disse una voce sommessa ma pressante dietro di lei. Charlotte si voltò e vide una donna giovane e carina, di non più di trent'anni, che usciva dal bagno che divideva la stanza da quella adiacente. «Per favore», continuò la donna. «Posso farlo io.» Si avvicinò al letto e Charlotte si fece da parte. Delicatamente, con la mano che accarezzò appena la guancia del ragazzo, la donna allontanò con precauzione il ricciolo di capelli. Poi guardò in su, e i suoi occhi scuri incontrarono quelli di Charlotte. «Chi è lei?» chiese. «Sono Charlotte LaConner», rispose Charlotte. «Io... mio figlio è Jeff LaConner. Era uno dei giocatori...» Immediatamente gli occhi della donna lampeggiarono di rabbia. «So chi è», disse. «È il ragazzo che ha fatto male a mio figlio. Io sono Maria Ramirez», soggiunse, e quelle ultime parole sembrarono a Charlotte quasi una sfida. Charlotte inghiottì, cercando di controllare l'emozione. «Sono... sono venuta a vedere come sta suo figlio.» Parlò piano, con la voce che era poco più di un sussurro. «Guarirà?» Gli occhi di Maria Ramirez luccicarono di lacrime, ma quando parlò la sua voce era perfettamente sotto controllo. «No», disse. «Non guarirà. Potrebbe non camminare mai più.» Anche se vide Charlotte sussultare a quelle parole, Maria continuò implacabilmente. «Potrebbe anche non sopravvivere, signora LaConner. Suo figlio potrebbe benissimo avere ammazzato il mio.» Charlotte chiuse gli occhi, come se quel gesto potesse eliminare la realtà delle parole di Maria Ramirez. Ma quando li riaprì la magra donna ispanoamericana stava ancora fissandola. «Posso... posso fare qualcosa?» sussurrò Charlotte. «Qualsiasi cosa?» Maria Ramirez scosse la testa. Charlotte fece qualche passo in avanti,
come se volesse toccarla, ma Maria si ritrasse. In silenzio, Charlotte si voltò per andarsene. Ma quando fu sulla porta Maria parlò ancora. «Lo faccia smettere, signora LaConner. Faccia smettere a suo figlio di giocare a quel gioco. Se non smetterà farà del male a qualcun altro.» Charlotte si voltò e annuì. «Lo farò, signora Ramirez. Ne può essere certa. Jeff ha giocato la sua ultima partita.» Ma mentre usciva dall'ospedale immergendosi nel vivido bagliore del sole di mezzogiorno, Charlotte si chiese se sarebbe stata in grado di mantenere la promessa. Nei venti anni in cui era stata sposata con Chuck non aveva mai avuto la meglio in una discussione importante. Inevitabilmente la logica del marito aveva il sopravvento sulla sua emotività. Blake Tanner aveva trascorso la mattinata in giro per lo stabilimento della TarrenTech insieme a Jerry Harris. Il suo stupore era aumentato quasi a ogni svolta. Quand'era arrivato, quella mattina, era stato sorpreso dall'apparente mancanza di sicurezza dell'edificio, ma Jerry l'avevarapidamente disingannato. «Le telecamere ti hanno seguito fin da quando eri a quattrocento metri dalla costruzione», spiegò. «Una descrizione della tua macchina e il suo numero di targa sono già in memoria, ed è anche stato fatto un confronto con la tua fotografia. Inoltre abbiamo tutta una serie di allarmi perimetrali seppelliti nel terreno lungo tutta la costruzione, con dei sistemi di riserva nel caso in cui qualcuno sia tanto in gamba da superare quello principale. Non che abbiamo mai avuto qualche problema», aggiunse con una nota di compiacimento nella voce. «In tutti gli anni che sono stato qui non c'è stato neppure un tentativo di violare le nostre difese.» Jerry Harris aveva parlato come se la TarrenTech fosse una fortezza e lui il suo ufficiale in comando. E quando avevano cominciato il loro giro Blake si era reso conto che il paragone calzava. Vista dall'esterno la costruzione sembrava ingannevolmente piccola, ma si estendeva per quattro piani sotto il livello del suolo. «È inutile mettere in stato di allarme qualcuno su tutto quello che stiamo facendo qui», aveva fatto notare Jerry, ridacchiando piano. Erano andati prima di tutto alla sezione software, dove un gruppo di programmatori di prim'ordine, tutti vestiti in modo informale, stavano lavorando ai terminali o sussurrando l'uno con l'altro nello strano linguaggio che Blake non era mai riuscito a capire. «Qui è al lavoro un'unità di Intel-
ligenza Artificiale», aveva detto Jerry in risposta allo sguardo interrogativo di Blake. «Siamo molto più avanti dei ragazzi di Palo Alto e di Berkeley, ma naturalmente loro non lo sanno. In realtà, per quello che sanno loro, stiamo lavorando su un nuovo sistema operativo che dovrebbe fare la concorrenza alla Microsoft.» Blake aveva annuito. Aveva sentito delle voci in proposito e aveva cominciato a lavorare sulle strategie di marketing. «Tranne che», aveva continuato Jerry facendo un largo sorriso, «è una balla.» Blake lo aveva guardato a bocca aperta, e il suo capo aveva riso forte. «Credi che Ted Thornton sia così scemo da mettersi contro la Microsoft sul loro terreno? Abbiamo messo in circolazione quella voce noi stessi, e abbiamo fatto in modo di diffonderla per bene mandando qualche ragazzo a Berkeley e a Palo Alto.» Mentre raccontava la storia i suoi occhi avevano scintillato per l'orgoglio e il divertimento. «La ragione apparente per cui volevano andare via dalla TarrenTech era che si erano stancati dei sistemi operativi e volevano passare a occuparsi di Intelligenza Artificiale. Così adesso abbiamo i nostri uomini in entrambi i posti, e nessuno se ne è ancora accorto.» Blake aveva scosso la testa meravigliato. Poi avevano proseguito, vagando in un labirinto di laboratori. In uno si facevano esperimenti sui conduttori, concentrandosi sulla ceramica, in altri si provavano nuove forme di tecnologia delle bolle. Infine erano entrati nei laboratori farmaceutici e avevano incontrato una guardia. Anche se non aveva chiesto loro di identificarsi, li aveva sorvegliati attentamente mente si mettevano dei camici e si coprivano il viso con una maschera. «Naturalmente questa non sarebbe una gran protezione se qui dentro ci fosse qualche cosa di libero», aveva detto Jerry, «ma è meglio di niente. E la nostra capacità di controllo è praticamente la migliore possibile. In cinque anni non si è mai verificata la fuga di un virus. Nemmeno dentro al laboratorio.» «Virus?» aveva chiesto Blake, esitando sulla soglia. «Che cosa fanno, qui?» Dietro la maschera Jerry aveva sorriso, «ricerche. In questo momento, naturalmente, quello che tira di più è l'AIDS, ma siamo impegnati anche in moltissime altre cose. E non devi preoccuparti per l'AIDS... In queste condizioni è praticamente impossibile che tu possa venirvi esposto. Andiamo.»
Aveva aperto la prima di una doppia serie di porte chiuse a chiave; appena entrati, le porte si erano richiuse automaticamente alle loro spalle. Un momento dopo si era aperta la seconda serie di porte ed erano entrati nel laboratorio vero e proprio. Jerry aveva fatto del proprio meglio per spiegare quello che stavano facendo, ma quando il discorso aveva cominciato a vertere sul DNA e sull'ingegneria genetica Blake si era sentito come perso. «E adesso», aveva annunciato Jerry Harris quasi un'ora più tardi, dopo che furono usciti dai laboratori e furono ritornati al piano terreno, «andremo nella parte di tutto lo stabilimento che preferisco.» Aveva aperto una porta ed erano entrati in un lungo locale illuminato da un lucernario, contro una parete del quale erano allineate delle gabbie. «Lo zoo», aveva detto Jerry, con la voce piena di un entusiasmo che Blake non aveva mai sentito prima di allora, quella mattina. Aveva sorriso come un bambino. «Devo venire qui almeno tre volte al giorno», aveva detto. Avevano camminato lentamente lungo la fila di gabbie. A quasi ognuna Jerry si era fermato per sussurrare qualcosa ai topi, ai ratti o ai porcellini d'India. Quando erano arrivati a una gabbia piena di conigli bianchi Jerry aveva aperto lo sportello e aveva tirato fuori delicatamente, uno degli animali. L'aveva cullato dolcemente tra le mani, e a Blake era venuto subito in mente suo figlio. Era sembrato che Jerry gli avesse letto nel pensiero. «È stato Mark a farmi cominciare. Mi sono sempre piaciuti i porcellini d'India di Robb, ma i conigli hanno qualcosa che non manca mai di affascinarmi. Credo che sia perché sembrano sempre tanto cordiali o qualcosa di simile.» Blake aveva aggrottato le sopracciglia in un'espressione perplessa. «Ma sono animali da laboratorio, no?» Gli occhi di Jerry si erano annebbiati per un istante, poi si erano schiariti di nuovo. «Credo di cercare semplicemente di non pensarci», aveva detto piano. «Cerco di non affezionarmi troppo a loro, ma qualche volta, be'...» Si era interrotto improvvisamente e aveva rimesso il coniglio nella gabbia. «Vieni», aveva detto. «Andiamo dalle scimmie.» Si erano spostati all'estremità del locale, dove un gruppetto di scimmie ragno schiamazzavano tra loro, in una grande gabbia munita di anelli, sbarre e rami d'albero. Mentre si avvicinavano le scimmie erano zittite e avevano guardato a lungo i due uomini con occhi sospettosi, poi, come se qualcosa le avesse soddisfatte, erano tornate a interessarsi le une delle altre e avevano ripreso a spidocchiarsi e a squittire. «Riconoscono le persone, sai», aveva detto Jerry sottovoce. «Hanno
controllato se uno di noi era il tecnico di laboratorio. Sanno sempre che quello significa che una di loro viene portata via e non ritorna più. Avevo pensato di mandare tutte le volte una persona diversa, ma ho paura che se faccio così il branco potrebbe aver paura di tutti.» Avevano osservato in silenzio le scimmie per qualche minuto, poi Jerry si era voltato. ««Be', sarà meglio rimetterci a sgobbare, suppongo», aveva detto con un sospiro. Si erano allontanati non più di cinque passi dalla grande gabbia quando avevano udito un grido di pura rabbia animalesca e si erano voltati: un grosso maschio, più grande di tutti gli altri di almeno un terzo, aveva afferrato per il collo uno dei maschi più piccoli. Con gli occhi che scintillavano per la furia, la scimmia più grande aveva affondato i denti nella spalla di quella più piccola, e poi, mentre quest'ultima si era messa a gridare per la sofferenza, aveva cominciato a scuoterla. Blake si era fermato a guardare i due animali, in preda allo choc, ma Jerry Harris aveva allungato immediatamente una mano e aveva premuto un pulsante sulla parete. Una forte sirena aveva cominciato a suonare, la porta all'estremità opposta del locale si era spalancata e tre inservienti erano arrivati di corsa. «L'idrante!» aveva gridato Harris. «Portate l'idrante!» Mentre due degli inservienti si avvicinavano alla gabbia, il terzo aveva fatto dietrofront ed era scomparso per un attimo. Quando era riapparso aveva in mano la manichetta di un tubo antincendio che serpeggiava dietro di lui. La più piccola delle scimmie stava già morendo, con il sangue che sgorgava a fiotti dall'arteria del collo lacerata. Ma quella più grande, apparentemente ignara del rosso liquido che lo inzuppava, continuava a scrollare il corpo dell'altra. Infine l'assalitore aveva lasciato cadere sul pavimento della gabbia il corpo floscio della sua vittima. Afferrando per i piedi la creatura ormai morta, aveva cominciato a farla roteare, lasciando che la sua testa sbattesse contro le sbarre della gabbia. Lottando contro la nausea, Blake si era allontanato da quello spettacolo raccapricciante, ma Jerry Harris, con il viso pallidissimo e la mascella dura, aveva continuato a guardare, dirigendo l'attività dei tre inservienti. «Aprite l'acqua», aveva gridato. «Lo mollerà appena lo colpirete.» Il getto d'acqua aveva quasi fatto cadere l'inserviente che teneva la manichetta. Ma come aveva previsto Harris la grande scimmia, gridando an-
cora di rabbia, aveva lasciato cadere il cadavere della sua vittima ed era stato immediatamente bloccato contro le sbarre all'estremità più lontana della gabbia. Mentre l'inserviente che reggeva l'idrante teneva immobile l'animale con il potente getto d'acqua, un altro aveva rapidamente sparato una freccia tranquillante nella creatura infuriata. Non più di tre secondi dopo la grande scimmia era crollata sul pavimento. «Gesù», aveva sussurrato Blake quando tutto fu finito. «Che cosa è successo là dentro?» Harris aveva esitato un momento, durante il quale era sembrato riprendere il controllo di se stesso. Mentre gli inservienti cominciavano a spingere il resto del branco nel ricovero notturno dietro la parte principale della gabbia in modo da poter rimuovere i corpi delle due scimmie cadute, aveva preso il braccio di Blake e l'aveva condotto verso la porta. «Qualche volta succede», aveva detto con voce tremante. «Qualche volta succede a un animale che viene tenuto in gabbia. Per anni può sembrare perfettamente normale, poi, all'improvviso, può diventare furioso.» Aveva gettato un'occhiata a Blake. «Non hai mai visto i grandi felini andare avanti e indietro, allo zoo? Specialmente nelle gabbie piccole? Be', non credo che stiano solo facendo del movimento. Secondo me sono semplicemente diventati psicotici. Starebbero meglio morti.» Prima che Blake parlasse di nuovo erano ritornati nell'ufficio di Harris. «Se la pensi così», disse, «come fai a sopportare di sapere che ognuno di quegli animali morirà nei nostri laboratori?» Harris sorrise debolmente. «È il mio lavoro», disse con una traccia di amarezza nella voce. «E continuo a dirmi che le ricerche che stiamo facendo e le vite che potremmo salvare compensano quello che facciamo agli animali.» Blake rifletté un istante, poi annuì lentamente. «E che cosa farò io qui?» chiese finalmente. «Da quello che ho visto, non avete assolutamente bisogno di un esperto di marketing.» Apparentemente sollevato dal cambio di argomento, Jerry Harris lanciò a Blake un dossier, attraverso la scrivania. «Farai un sacco di cose», disse. «Conoscerai ogni aspetto di quello che stiamo facendo qui, e anche se non capisci gli aspetti tecnologici - non ci riesco nemmeno io - saprai almeno quello che stiamo cercando di fare. Sei sempre stato in gamba a trattare con la gente, Blake, e che tu sia d'accordo o no, in quello consiste soprattutto il marketing. Mostrare alla gente perché ha bisogno di quello che hai.
Naturalmente qui farai molto di quelle che potresti chiamare pubbliche relazioni. E puoi cominciare con quello.» Harris fece un cenno verso il dossier e Blake lo prese in mano. Lo aprì con curiosità e fu sorpreso di vedere che si trattava di una cartella medica. Era la cartella di Ricardo Ramirez. Perplesso, Blake Tanner fissò interrogativamente Jerry Harris. «La TarrenTech si accollerà tutte le spese mediche di cui il ragazzo avrà bisogno», gli disse Harris. «Qualunque cosa sia necessaria: chirurghi, specialisti, fisioterapisti... tutto quanto.» Blake sorrise cinicamente, certo di aver capito. «Per la teoria che non può costare più di una causa», osservò. Ma con sua grande sorpresa Harris scosse la testa. «Non ci sarà nessuna causa», disse. «Non ci sono i presupposti. È stato chiaramente un incidente.» Si appoggiò allo schienale e mise le mani dietro la testa. «Siamo in una situazione unica, qui, Blake», disse. «Quando siamo arrivati noi Silverdale non era che una cittadina. La TarrenTech è arrivata e ha cambiato tutto. Essenzialmente, abbiamo ricostruito la città da zero, fino alle scuole e alla biblioteca. Sulle prime c'è stata qualche opposizione, ma abbiamo chiesto alla gente che viveva qui di fidarsi di noi, e l'ha fatto. E non siamo mai venuti meno a quella fiducia.» Indicò il dossier nelle mani di Blake. «Legalmente, a Silverdale nessuno è responsabile di quello che è successo a quel ragazzo. Ma questo non l'aiuta di certo, vero?» La voce di Harris assunse una grave nota di autorità. «Per quanto riguarda me personalmente e la società come ente, dato che l'incidente è avvenuto qui, abbiamo la responsabilità morale. Ci prenderemo cura di Ricardo Ramirez, e non lesineremo su niente. Avrà tutto quello di cui ha bisogno, e per tutto il tempo per cui ne avrà bisogno. Se succederà il peggio, la società è pronta a istituire per lui un vitalizio.» Di nuovo guardò Blake negli occhi. «Sua madre dice che Rick vuole fare il medico, da grande. Ha i voti per farlo, e sembra che abbia anche la vocazione.» Fece una pausa, poi continuò. «Tienilo presente quando comincerai a pensare di istituire un fondo fiduciario. Penso che un ragazzo come Rick avrebbe trattato molto bene sua madre, considerato tutto. Nel caso in cui lui non possa farlo, ci penseremo noi.» Blake Tanner batté gli occhi. Le implicazioni di quello che stava dicendo Harris potevano essere smisurate. «Ne hai parlato con Ted Thornton?» chiese.
Harris fece un lieve sorriso. «Non ne ho avuto bisogno», disse. «È la politica di Ted. Ed è una politica», soggiunse, «che condivido al cento per cento. La TarrenTech ha edificato questa città. In un modo o nell'altro, siamo responsabili di quello che succede. E non rifuggiamo da questa responsabilità.» Mark Tanner si ritrovò ad andare a casa da scuola da solo. Per venti minuti aveva aspettato Linda Harris davanti alla costruzione, e quando non si era fatta vedere era andato sul retro. Proprio mentre aveva girato l'angolo la porta dello spogliatoio maschile si era spalancata e la squadra di football, in tenuta da allenamento, era scesa a passo svelto sul campo di gioco. Aveva gridato a Robb Harris, ma lui non l'aveva sentito, o aveva deciso di ignorarlo. Stava per gridare di nuovo quando era apparso l'allenatore, e Mark si rese conto che forse non era vera nessuna delle due ipotesi. Perché mentre l'allenatore si avvicinava alla squadra, tutta in formazione perfetta, si era fermato improvvisamente e aveva fissato ferocemente uno dei ragazzi dell'ultima fila. «Cinquanta flessioni!» aveva urlato. «Subito!» Sotto gli occhi di Mark, il ragazzo si era immediatamente steso a terra e aveva cominciato ad andare su e giù sui gomiti. Fu solo dopo le prime dieci flessioni che Mark si rese conto di qual era stata la colpa del ragazzo. Aveva fatto un cenno di saluto a una delle ragazze della squadra di ginnastica artistica, che stava già allenandosi nel campo adiacente. «Merda», sussurrò Mark tra sé. Fece per andarsene quando udì Linda che lo chiamava. Guardò e vide che lo salutava con un cenno. «Ciao», disse camminando verso il punto in cui lei si trovava con altre tre ragazze e due ragazzi. «Ti stavo cercando.» «Allenamento come cheerleader», gli disse Linda. «E poi devo andare in biblioteca. Vuoi aspettarmi?» Mark scosse la testa. «Non posso», rispose. «La mamma ha bisogno di me per aiutarla a disfare le valigie.» Esitò un istante. «Fai allenamento tutti i giorni?» Linda sorrise e scosse la testa. «Solo tre giorni la settimana, e la sera prima della partita.» Si guardarono negli occhi per un momento, e sentendosi arrossire Mark si voltò. «Be', ci vediamo domani, penso», borbottò. Non vide Linda sorridergli, né vide Jeff LaConner che sul campo di football si fermò un istante a guardare meditabondo nella sua direzione.
Invece di andare direttamente a casa Mark decise di percorrere Colorado Street fino al quartiere commerciale, dare un'occhiata in giro per un po', poi tornare indietro tagliando fino a Telluride Drive. Camminò lentamente, fissando tutte le case mentre passava, con la mente che inquadrava già nell'obiettivo della sua macchina fotografica gli edifici in stile vittoriano, riccamente decorati. Quasi ogni casa, decise, valeva la pena di essere fotografata. Immagini per un calendario, ecco che cosa sembravano. Archiviò quell'idea, chiedendosi che cosa bisognava fare per vendere foto da calendario. Un quarto d'ora dopo arrivò a un piccolo gruppo di costruzioni che guardavano tutte su una piazzetta e servivano a Silverdale come centro della città. Come il resto della città, la zona commerciale sembrava appartenere a un altro secolo. Erano edifici isolati, la maggior parte dei quali con una struttura in legno in uno stile che ricordò a Mark i film western. Dei marciapiedi in legno, sollevati dalla strada in mattoni di un paio di gradini, collegavano una all'altra le costruzioni, e dietro il supermercato Safeway c'era un grande parcheggio. Sembrava che la strada venisse usata solo dai pedoni e da un paio di cani distesi a prendere il sole. Mark si fermò a grattare uno dei cani. Quando alzò gli occhi vide un negozio di materiale fotografico, che aveva sulla porta, in lettere di un vivace azzurro, il nome SPALDING'S. Il negozio era piccolo, nascosto com'era tra l'emporio e il negozio di ferramenta. Se avesse avuto del lavoro dopo la scuola, suo padre non avrebbe potuto insistere perché facesse dello sport. Raddrizzandosi, si infilò per bene la camicia nei jeans ed entrò nel negozio. Da dietro il banco un uomo dall'aria cordiale con i capelli grigi e occhiali cerchiati di ferro gli sorrise giovialmente. «In che cosa posso servirti?» chiese l'uomo. «Lei è il signor Spalding?» domandò Mark. L'uomo annuì. «In persona. E tu chi puoi mai essere?» «Mark Tanner», rispose Mark. «Mi sono appena trasferito qui, e mi chiedevo se lei potesse aver bisogno di una mano. Solo part-time, dopo la scuola e forse durante il fine settimana.» Henry Spalding aggrottò scetticamente le sopracciglia. Per un istante Mark fu certo che l'avrebbe messo bruscamente alla porta. Poi, con sua grande sorpresa, Spalding chinò la testa pensieroso. «Be', in effetti avevo pensato a un aiuto. Sta arrivando la stagione sciistica, e quella porta sem-
pre un po' di gente. E poi c'è Natale, e cose simili.» Il suo sguardo si fece leggermente più acuto. «Ma è alla sera che mi serve aiuto.» Mark pensò velocemente. Che importanza aveva? Se lavorava la sera avrebbe dovuto studiare il pomeriggio. «Va bene» disse. «Sarebbe perfetto.» Spalding sparì nel minuscolo ufficio sul retro e ritornò con un modulo per domande di assunzione tutto sgualcito e macchiato. «Be', perché non compili questo, e poi possiamo parlarne», disse allungando il modulo a Mark. Mentre il ragazzo pescava una penna dal fondo della sua cartella Spalding lo considerò meditabondo. «In che squadra sei?» chiese. «Sembri un po' piccolo per il football. Tennis, forse? O baseball?» Mark scosse la testa senza alzare gli occhi dal modulo. «Non sono in nessuna squadra», rispose. «Sono... be', penso di essere più bravo in fotografia che negli sport.» Improvvisamente la mano del signor Spalding apparve nel campo visivo di Mark e tirò via il modulo di assunzione. «Non sei in nessuna squadra?» sentì che chiedeva l'uomo, e alzò gli occhi. Vide che Spalding lo guardava interrogativamente. «N-No», balbettò Mark. «Perché?» «Ma come, perché è tutta un'altra cosa», gli disse Spalding. «Qui siamo a Silverdale, figliolo. Qui, noi sosteniamo le nostre squadre. E ciò comprende assicurarsi che abbiano la prima scelta nei lavori part-time.» Poi, vedendo lo sguardo di delusione negli occhi di Mark, cercò di addolcire il colpo. «Ecco come faremo», gli disse. «Domani telefonerò alla scuola e vedrò come stanno le cose. Forse nessuno degli studenti che fanno parte di una squadra vorrà lavorare qui. E se non lo vorrà nessuno di loro potrai venire tu.» Mark si morse le labbra e fece in modo di ringraziare Henry Spalding prima di raccogliere la sua cartella e di uscire dal negozietto. Ma mentre andava a casa capì che per lui non ci sarebbe stato nessun lavoro nel negozio di Spalding. Aveva sentito per caso uno dei ragazzi nel suo corso di fotografia affermare che stava cercando un lavoro prima che cominciasse il campionato di baseball. Mentre voltava in Telluride Drive, Mark cominciò a chiedersi se dopo tutto non ci fosse qualche cosa che non andava, a Silverdale. Una settimana prima tutto era sembrato tanto entusiasmante. In quel momento non lo sembrava affatto.
6 Sharon Tanner era in cucina, in piedi vicino al lavello, con le labbra increspate e le sopracciglia aggrottate in un cipiglio preoccupato. Anche se quattro bistecche sfrigolavano sulla griglia dietro di lei, in quell'istante le aveva dimenticate, perché stava guardando Mark che, seduto a gambe incrociate sul prato vicino al garage, fissava vuotamente la conigliera. Anche se l'aveva guardato bene soltanto da pochi minuti, era stata vagamente conscia della sua presenza da almeno mezz'ora. In se stesso, ciò non era insolito; Mark aveva l'abitudine di passare almeno un'ora al giorno a occuparsi dei conigli, ad accarezzarli, a controllarli o semplicemente a giocare con loro, lasciandoli liberi nel cortile perché Chivas desse loro la caccia, sicuro che il cane li avrebbe riportati indietro senza far loro del male. Ma quel giorno c'era qualche cosa di diverso. Invece di saltellare intorno a Mark e di annusare entusiasticamente la gabbia, Chivas era disteso a terra vicino al padrone. Aveva allungato davanti a sé le zampe anteriori e vi aveva appoggiato flemmaticamente la sua grossa testa. Dietro di lui, la coda giaceva mollemente sul terreno, e anche se poteva sembrare addormentato, Sharon riusciva a vedere perfino dalla cucina che aveva gli occhi aperti e fissava il viso di Mark. A quanto pareva, anche Chivas sentiva che c'era qualche cosa che non andava. E ripensandoci Sharon si rese conto che non era così solo quel giorno. Retrospettivamente, sembrava che per tutta la settimana Mark fosse diventato sempre più silenzioso e passasse sempre più tempo da solo, vagando per le colline con Chivas dopo la scuola o sedendo semplicemente da solo nel cortile posteriore, a fissare i conigli nella loro gabbia. Ma era quasi certa che i conigli non li vedeva affatto. No, aveva in testa qualche cosa d'altro, qualche cosa di cui non era disposto a parlare. Quando Kelly entrò in cucina, chiedendo perentoriamente quando sarebbe stata pronta la cena, Sharon prese una decisione. «Tra pochi minuti, tesoro», rispose alla ragazzina. «Ti dispiace stare attenta alle bistecche?» Con gli occhi che le luccicavano per il piacere, Kelly prese subito il forchettone dal banco vicino alla griglia e punzecchiò sperimentalmente una delle grandi bistecche con l'osso che cominciavano appena a rosolarsi. «È ora di girarle?» «Ogni quattro minuti», rispose Sharon, guardando la carne e decidendo
che aveva almeno un quarto d'ora per parlare con il figlio. Lasciando Kelly in cucina uscì nel cortile e si lasciò cadere sul prato vicino a Mark. Come se avesse sentito che era arrivato un aiuto per il suo padrone, Chivas si alzò agitando la coda, con i grandi occhi fedeli fissi su di lei, pieni di aspettazione. «Ti va di parlarne?» chiese Sharon. Mark la guardò con aria incuriosita. «Parlare di che cosa? Ho fatto qualcosa di male?» «No», rispose Sharon. «Ma sono tua madre. Capisco quando qualche cosa ti tormenta. Diventi taciturno. Ma stare zitti non risolve niente.» Mark fece un profondo respiro poi sospirò. «Io... io credo di non essere sicuro che Silverdale mi piaccia», disse guardando da un'altra parte. «Oggi è solo giovedì. In meno di una settimana hai già deciso che non ti piace? Eri tanto entusiasta di venire, ti ricordi?» Mark annuì malinconicamente. «Lo so. E so quanto piace a papà. Persino Kelly ha smesso di tenere il muso per aver dovuto lasciare le sue amiche.» «E tu non vuoi fare il guastafeste, vero?» Mark esitò, poi annuì. «Credo di sì», ammise. Ma poi, incrociando gli occhi con quelli della madre, tutto quello che si era accumulato dentro di lui dal lunedì precedente si riversò fuori. «Tutti quanti, qui, pensano solo allo sport», disse. «Mamma, non posso nemmeno trovare un lavoro perché non faccio parte di nessuna squadra.» Sharon lo fissò perplessa. Che cosa diavolo stava dicendo? «Un lavoro» chiese. «Perché cerchi lavoro?» Mark arrossì per l'imbarazzo. «Be'... pensavo che se avessi un lavoro papà potrebbe smetterla di starmi alle costole perché entri in una squadra. Voglio dire, se lavorassi non avrei tempo di giocare, no?» Sharon fece fatica a trattenersi dal ridere forte, ma lo sguardo supplichevole del figlio glielo impedì. «Be', le pensi proprio tutte», commentò concedendosi una risatina. «Devo ammetterlo, probabilmente funzionerebbe. E allora, qual è il problema?» Mark alzò le spalle e le raccontò che cos'era successo lunedì al negozio di apparecchiature fotografiche. La scena si era ripetuta il martedì e il mercoledì quando si era presentato in altri negozi. Quel giorno gli avevano ripetuto le parole di Henry Spalding, questa volta all'emporio. «Che cosa devo fare? Non riuscirò a entrare in nessuna squadra e non otterrò nessun lavoro, e papà comincerà a tormentarmi.»
Per qualche minuto restarono entrambi in silenzio, come se tacendo potessero trovare una soluzione. Infine Sharon strinse le spalle. «Vorrei sapere cosa dirti», disse. «Cercherò di evitare che tuo padre insista troppo. Ma lo conosci.» Diede a Mark un affettuoso colpetto sulla schiena, poi si alzò faticosamente in piedi. «Vieni. La cena è quasi pronta.» Ma Mark scosse la testa. «Non ho molta fame», disse guardandola. «Fa lo stesso se salto la cena? Forse porterò Chivas in collina.» Sharon rifletté per un istante, poi decise. Ha quasi sedici anni, si disse. Deve cominciare a fare a modo suo. «Okay», assentì. «Ma torna indietro prima che faccia buio. Non voglio che tu ti perda lassù.» Mark le fece un largo sorriso, e il cambiamento della sua espressione bastò a farle capire che aveva preso la decisione giusta. «Non mi perderò. Ma anche se succedesse, Chivas troverebbe la strada.» Mentre Sharon ritornava in cucina, dove Kelly stava già gridando che le bistecche si sarebbero bruciate, Mark e Chivas scomparvero lungo il vialetto d'accesso. Mark non sapeva bene quanto lontano fosse andato. In effetti non aveva fatto molta attenzione a come erano arrivati in quel punto. Con Chivas che ruzzava davanti a lui, Mark aveva camminato verso nord fino ai bordi della città, poi aveva seguito il corso serpeggiante del fiume per quattrocento metri fino a un ponticello pedonale. Attraversato il ponte, aveva trovato tre sentieri che portavano in altrettante direzioni e aveva scelto quella che si dirigeva verso la cima della collina. Venti minuti dopo era arrivato al limitare della valle e aveva cominciato a salire verso la montagna. La prateria punteggiata di alberi era stata presto sostituita da fitti boschetti di pini inframmezzati da gruppi di pioppi. Chivas, con il corpo che tremava di piacere per gli strani odori che gli giungevano alle narici, aveva continuato a precipitarsi nel bosco per dare la caccia agli scoiattoli e agli uccelli, o a qualsiasi cosa che si muovesse. Mark si era tenuto sul sentiero, salendo faticosamente sempre più in alto. Poi, arrivato a una stretta curva, si era trovato sulla cima di un promontorio a picco che dominava tutta la vallata. Per qualche ragione la cresta del promontorio era sgombra di alberi, ma in parecchi punti l'alta erba era stata schiacciata, là dove apparentemente i cervi avevano trascorso la notte. Mark si guardò attorno per cercare Chivas, ma il grande cane non si vedeva da nessuna parte. Il sole, ancora sopra l'orizzonte, era caldo dopo l'ombra fonda del bosco, e quindi si lasciò cadere sopra uno dei giacigli dei cervi e guardò la valle.
Alcuni minuti dopo si distese sulla schiena e chiuse gli occhi. Solo per qualche secondo... Con un soprassalto, si rese conto che il sole era sceso dietro l'orizzonte. Chivas, ringhiando piano, stava vicino a Mark, con il corpo che tremava mentre guardava in lontananza; aveva una zampa sollevata dal suolo, la coda bassa, tutti i muscoli in tensione. Mark scacciò il sonno e si alzò in ginocchio. Socchiudendo gli occhi nella luce del giorno che stava affievolendosi, seguì lo sguardo fisso di Chivas, ma non riuscì a vedere niente. Eppure qualche cosa aveva allarmato il cane e aveva scosso Mark dal suo leggero sonno. Ma che cosa? E poi lo sentì. Era un suono debole, quasi un lamento, e quando gli giunse per la prima volta dalla valle non fu nemmeno sicuro di averlo sentito davvero. Ma poi, mentre tendeva le orecchie e il ringhio di Chivas si faceva più forte, il suono cambiò e diventò un urlo in cui c'era qualcosa che assomigliava al dolore. Dolore, o collera. Era un suono animalesco, cattivo e selvaggio, e mentre l'urlo rompeva la pace della sera Mark sentì un brivido lungo la spina dorsale. Un attimo dopo l'urlo cessò bruscamente, senza nemmeno lasciare un'eco che risuonasse tra le colline. Al suo fianco, Chivas abbaiò una sola volta poi tacque. Per parecchi minuti entrambi rimasero dove si trovavano, aspettando che il suono si ripetesse, ma il silenzio si infittì e mentre il sole continuava a tramontare e a occidente il cielo assumeva una brillante sfumatura di rosa la valle al di sotto cominciò a riempirsi di ombre lunghe e fonde. «Vieni, ragazzo», disse Mark abbassando istintivamente la voce a poco più di un sussurro. «Andiamo a casa.» Si alzò in piedi e si avviò lungo il sentiero tra il bosco. Chivas, invece di vagare intorno per conto proprio come prima, rimase vicino al padrone. Ogni pochi metri il cane si fermava per guardare indietro, mentre un lieve brontolio si levava dalla sua gola. Mark affrettò il passo, ma fu solo dopo che ebbero riattraversato il ponte e furono ritornati nell'ambiente più familiare della città che cominciò finalmente a tranquillizzarsi. Linda Harris osservò ansiosamente Tiffany Welch che faceva un pro-
fondo respiro, avanzava velocemente di tre passi, saltava poi colpiva perfettamente l'estremità dell'asse elastica. L'asse la lanciò in alto, e lei fece una capriola quasi perfetta prima di atterrare malfermamente sulle spalle di Josh Hinsdale e di Pete Nakimura. I due ragazzi, sentendo che le gambe di Tiffany tremavano, le afferrarono le caviglie per tenerla ferma, e lei spalancò le braccia e rimase per un momento sulle loro spalle prima di perdere l'equilibrio. Gridando di lasciarla andare, la ragazza saltò sulle stuoie che coprivano il pavimento della palestra. «Va bene», disse leggendo lo sguardo negli occhi di Linda. «Non è stato perfetto. Ma almeno sono andata su, e quando ci sarà la gara dell'homecoming sarò capace di restarci.» Linda scosse la testa. «O finirai per fratturarti la schiena. Tiff, se la signora Haynes scoprirà quello che stai facendo ci ammazzerà tutti.» «E allora non lasceremo che lo scopra», ribatté Tiffany. «Continuerò a esercitarmi finché non lo farò bene, e poi glielo mostreremo.» «Be', io per questa sera non mi alleno più», le disse Linda. Diede un'occhiata all'orologio. «Sono quasi le nove, e devo ancora fare algebra. Andiamo.» Le due ragazze salutarono Josh e Pete, poi andarono in fretta negli spogliatoi, fecero una rapida doccia e si vestirono. «Vuoi una coca?» chiese Tiffany mentre uscivano, un quarto d'ora dopo, con i capelli ancora bagnati che si stavano asciugando velocemente all'asciutta aria di montagna. Linda scosse la testa. «Non posso. Oltre all'algebra devo anche fare il tema di inglese.» «Le mie vacanze estive, di Linda Harris?» chiese Tiffany in tono sarcastico. «Come fanno a piacerti queste cose? Linda ridacchiò. «Questo è anche peggio», disse. «Devo tirar fuori un migliaio di parole su 'La persona più importante della mia vita'. Forse», continuò mentre le si affacciava alla mente il viso privo di umorismo del suo professore di inglese, «farò il tema proprio sul signor Grey.» Tiffany scosse la testa. «Mio fratello ci ha provato l'anno scorso. Il signor Grey gli ha dato quattro e gliel'ha fatto rifare.» Mentre giravano l'angolo della scuola un'ombra balzò fuori dall'oscurità davanti a loro. Entrambe le ragazze si immobilizzarono per un istante, poi sentirono esclamare: «Ehi, sono solo io!» La figura uscì dall'ombra, e alla luce del lampione apparve Jeff LaConner. «Stavo aspettando te», disse a Linda. Tiffany guardò Linda con la coda dell'occhio. «Che ne dici di Jeff?»
chiese. «Potresti fare il tema su di lui, no?» Poi, prima che Linda potesse pensare a una buona risposta, Tiffany la salutò brevemente e lasciò soli Linda e Jeff. Il ragazzo si affiancò a lei e le mise un braccio sulle spalle. Non era la prima volta che lo faceva, ma quella sera per qualche ragione la fece sentire a disagio. Quasi istantaneamente si rese conto del perché. Mark Tanner. Linda aveva cominciato a uscire con Jeff LaConner la primavera precedente. Ma già durante l'estate, quando avevano passato un po' di tempo insieme quasi tutti i giorni, non si era sentita sicura dei propri sentimenti. Naturalmente all'inizio era stata elettrizzata dal fatto che Jeff provasse interesse per lei, perché era solo al primo anno mentre lui era già al terzo. E per giunta anche un campione di football. Ed era stata contenta degli sguardi invidiosi che Tiffany Welch e le altre ragazze le avevano lanciato quando Jeff veniva a sederle accanto all'ora del lunch. Ma con il passare dell'estate, quando Jeff aveva cominciato a trascorrere sempre più tempo allenandosi, le erano venuti dei dubbi. Non era che lui non le piacesse... tutt'altro. Era solo che lui non sembrava interessarsi ad altro che al football, e quando andava a trovarla lui e Robb trascorrevano metà del tempo nel cortile posteriore a passarsi il pallone mentre lei sedeva nella veranda chiedendosi perché mai fosse venuto. E poi il fine settimana prima Mark era arrivato in città, e sabato, prima che arrivasse Robb e Mark diventasse tanto silenzioso, le era piaciuto parlare con lui. Non che avessero parlato di cose importanti. Ma le era stato facile parlare con Mark, perché lui, a differenza del fratello, o, la maggior parte delle volte, di Jeff, la ascoltava sul serio quando gli parlava. Era stato così tutte le mattine durante quella settimana, quando erano andati a scuola insieme. Anche durante il lunch, sebbene la maggior parte del tempo l'avesse passata con Jeff, si era ritrovata a guardarsi intorno per cercare Mark. «Allora andiamo alla riunione prima della partita, domani sera?» le stava chiedendo Jeff. Sentì che mentre parlava le stringeva la mano sulla spalla, e nella sua voce c'era una durezza che non riuscì a ricordare di aver sentito prima. «Do-domani sera?» chiese balbettando leggermente. «Ma non me l'avevi chiesto, vero?» Jeff smise di camminare e si voltò a guardarla. Erano a pochi metri da un lampione, e anche se il suo viso era parzialmente in ombra la sua espres-
sione sembrava arrabbiata. «Non credevo che ce ne fosse bisogno», disse. «Tu ci sarai, e io pure, e dopo usciamo sempre insieme, no?» «Davvero?» chiese Linda, poi si sentì stupida al suono della sua stessa domanda. Naturalmente era così... tutti sapevano che era così. Perché aveva detto una cosa tanto stupida? Mark Tanner: ecco la ragione. «Che cosa vuoi dire, con 'davvero'?» chiese Jeff. Quando domandò: «Sei la mia ragazza, no?» nelle sue parole c'era decisamente una nota di rabbia. Linda inghiottì. «Io... io non lo so», rispose. All'improvviso le sembrò che la sua testa andasse per conto proprio e che non riuscisse più a controllare i propri pensieri. «Credo... be', forse abbiamo passato insieme troppo tempo...» Perché mai aveva parlato in quel modo? Certo, aveva pensato a Jeff, chiedendosi quali erano in realtà i suoi sentimenti verso di lui, ma non aveva pensato sul serio di rompere con lui, vero? Forse sì. Jeff fece lampeggiare irosamente gli occhi e allungò le mani mettendogliele sulle spalle. «È colpa di quello sgorbio di Tanner, vero?» chiese bruscamente. «Se quello stronzetto cerca di far colpo su di te...» «Basta!» sibilò Linda guardandosi attorno, sperando che nessuno stesse osservandoli. «Mark non c'entra.» Ma c'entrava, e sembrava che Jeff lo sapesse. Le sue mani si strinsero sulle sue spalle, e lei sentì una fitta di dolore nel punto in cui le sue dita erano piantate nella sua carne. In quel momento la luce del lampione gli illuminava il volto, e all'improvviso le sembrò diverso. La rabbia gli aveva trasformato i lineamenti e il suo viso, che in precedenza aveva sempre considerato tanto bello, le sembrò grossolano. «Non voglio che parli più con lui», stava dicendo Jeff, e improvvisamente Linda si arrabbiò anche lei. Chi era Jeff LaConner per dirle che cosa poteva fare e con chi poteva parlare? «Lasciami andare», disse bruscamente. «Parlerò con chi mi pare...» Ma non riuscì a finire la frase, perché Jeff si incupì in volto per la rabbia e cominciò a scuoterla. Le sue mani erano profondamente piantate nelle sue braccia, e sentiva delle fitte di dolore che le arrivavano fino alle dita. La testa le oscillava avanti e indietro, e gli occhi le si erano riempiti di lacrime. «Basta!» gridò. «Mi fai male! Jeff, smettila immediatamente!» Il suo grido di dolore penetrò la rabbia di Jeff. Repentinamente come aveva cominciato a scrollarla, si fermò e la lasciò andare. Vide che la ragaz-
za aveva il volto rigato dalle lacrime e si stava sfregando la spalla sinistra, con le dita che massaggiavano la carne per cercare di alleviare il dolore. Per un istante Jeff la fissò in silenzio, poi si voltò bruscamente, batté il pugno contro un albero e con un urlo per metà di dolore e per metà di inutile rabbia si mise a correre e sparì nel buio. Ansimando e con il cuore che le batteva forte, Linda lo guardò mentre se ne andava. Dopo un po' il dolore alle spalle cominciò a passare, e infine riprese la strada verso casa. Che cosa diavolo era successo? Jeff non si era mai comportato in quel modo, prima... mai! Quella sera l'aveva letteralmente terrorizzata. E non aveva fatto niente, non in realtà. Ma se si comportava così... Mio Dio, e se fosse tornato indietro? Affrettò il passo, e infine si mise a correre. Quando arrivò a casa e si affrettò ad andare in camera sua, senza nemmeno parlare ai genitori, aveva preso una decisione. Sollevò la cornetta del telefono e fece il numero dei Tanner, rendendosi conto di averlo già imparato a memoria solo dopo che l'apparecchio aveva incominciato a squillare. «Signora Tanner?» chiese un attimo dopo. «Sono Linda Harris. Posso parlare con Mark?» Era quasi mezzanotte, ma Mark non era ancora riuscito ad addormentarsi. Era già a letto da più di un'ora e ancora non riusciva a smettere di pensare a ciò che era successo quella sera. Quando aveva sentito la voce di Linda al telefono non ci aveva dato molta importanza. Ma quando gli aveva chiesto se il giorno dopo andava al raduno prima della partita e poi se andava a mangiare un hamburger con lei, aveva cominciato a chiedersi che cosa stesse succedendo. Aveva accettato l'invito senza riflettere, ma appena aveva riagganciato il telefono le domande avevano cominciato ad affollarglisi nella mente. Perché gli aveva telefonato? Era la ragazza di Jeff LaConner, vero? E la sua voce gli era sembrata un po' strana, anche, come se ci fosse qualche cosa che non andasse. Alla fine aveva concluso che sua madre, preoccupata per lui dopo quello che era successo il pomeriggio, avesse chiamato la signora Harris e le avesse chiesto di fargli telefonare da Linda. Ma sua madre l'aveva negato, e Mark era pressoché sicuro che non gli avrebbe mentito. Avrebbe potuto cercare di spiegare perché l'aveva fatto, e
di convincerlo a non annullare l'impegno, ma non avrebbe mentito. Eppure doveva essere un invito fatto per compassione. Probabilmente Linda aveva provato dispiacere per lui e aveva chiesto a Jeff se poteva invitare anche lui. Ecco! Quello che intendeva era che lui andasse a rimorchio dietro lei e Jeff! Avrebbe fatto la figura dello stupido! Era stato sul punto di richiamarla subito, ma mentre allungava una mano per prendere il telefono aveva cambiato idea. Linda non avrebbe fatto una cosa simile, vero? Ci aveva pensato molto a lungo, e alla fine aveva deciso di no. Aveva fatto un po' di compiti, poi era andato a letto. Ma ancora non riusciva a capire: Linda era una cheerleader e usciva con un campione della squadra di football. E anche se non era molto alta, lo superava di due o tre centimetri almeno. Quindi perché avrebbe voluto uscire con lui? Rinunciando a dormire, accese la luce, scese dal letto e andò a guardarsi allo specchio. Magro. Non pelle e ossa come gli diceva sempre sua madre. Solo magro. Il torace era stretto e le braccia erano troppo sottili. Senza volere pensò a com'era Jeff LaConner. C'era davvero qualche probabilità che diventasse come lui? Poi si ricordò di Robb Harris. Tre anni prima, quando gli Harris vivevano a San Marcos, Robb era magro come Mark. Ma Robb era aumentato di peso e adesso aveva un aspetto magnifico. Forse poteva riuscirci anche lui, pensò Mark guardandosi malinconicamente allo specchio. E non era solo per Linda, si disse. Era per tutto quanto. Sapeva di averci pensato per tutto il pomeriggio mentre lui e Chivas camminavano per le colline. Solo che non aveva ammesso di pensarci. Ma era inutile continuare a far finta di niente. Era a Silverdale, e non si sarebbe spostato da lì. E se doveva vivere lì doveva adattarsi a tutti gli altri, anche se ciò avesse significato farsi piacere gli sport. E anche se non ci riusciva poteva far finta. Poteva andare alle partite e gridare forte come gli altri. E poteva cominciare a fare ginnastica. L'aveva fatto fin dalla settima classe, e poteva riprendere. Ecco come stavano le cose, decise. Non si piaceva, così com'era, e quindi sarebbe cambiato.
Si stese sul pavimento, puntellò i piedi sotto il cassetto più basso della scrivania e piegò le braccia dietro la testa. Facendo un profondo respiro, cominciò a fare degli addominali. Con sua grande sorpresa, riuscì a farne venticinque prima che lo stomaco cominciasse a fargli tanto male da non poter continuare. Ma domani, si disse mentre ritornava a letto, ne avrebbe fatti trenta. E il giorno dopo... I suoi pensieri furono interrotti da un suono che lacerò bruscamente la notte, azzittendo istantaneamente gli insetti che ronzavano piano all'esterno. Era lo stesso suono penetrante e angoscioso che aveva sentito in precedenza, sulle colline. Tranne che in quel momento, nell'oscurità della notte, l'urlo sembrava diverso. Sembrava quasi umano. 7 Charlotte LaConner gettò un'occhiata all'orologio che risplendeva fiocamente sul comodino. Quasi l'una e mezzo. Accanto a lei Chuck russava leggermente. Come poteva dormire, si chiese, sapendo che Jeff non era ancora tornato a casa? Charlotte si alzò, si infilò una vestaglia leggera, andò alla finestra e scrutò nella strada. La notte era tranquilla. Una calma immobilità incombeva sulla valle e sembrava completamente in contrasto con l'agitazione della sua mente. Per lei era stata una brutta settimana, e le cose erano sembrate peggiorare di giorno in giorno. Era cominciato lunedì sera, quando aveva cercato di discutere ragionevolmente con Chuck. Aveva ascoltato pazientemente quando gli aveva detto che aveva visto Ricardo Ramirez. Ma quando aveva continuato dicendogli che aveva deciso che Jeff doveva smettere di giocare a football la sua espressione si era irrigidita e i suoi occhi si erano induriti. «Questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito», aveva detto. Le sue parole l'avevano colpita come una frusta, ma si era morsa le labbra poi aveva cercato di discutere con lui. Non era servito a niente. «È stato un incidente», aveva insistito. «Non puoi chiedere a un ragazzo di rinunciare al suo sport preferito solo per un incidente.» Per quello che riguardava Chuck, la faccenda era chiusa. Se aveva notato
la tensione che si era creata in casa da quel momento non l'aveva dimostrato, comportandosi come se non fosse successo niente. Ma Charlotte, incapace di allontanare dalla mente Rick Ramirez, era diventata sempre più silenziosa e si era resa sempre maggiormente conto che Jeff era cambiato. Se poi era cambiato davvero. Perché non ne era affatto sicura. Forse Jeff non era cambiato affatto, e lei leggeva semplicemente delle cose nel suo comportamento. Eppure credeva davvero che la sua personalità stesse cambiando. Jeff, di umore sempre tanto tranquillo quando era più giovane, in quel periodo si infiammava alla minima provocazione, e quella settimana per due volte, quando gli aveva chiesto di fare qualche cosa, aveva urlato che aveva già troppo da fare e se ne era andato sbattendo la porta. In entrambe le occasioni era ritornato pochi minuti dopo e aveva chiesto scusa, e lei l'aveva perdonato subito. Una ripetizione della scena di sabato sera era l'ultima cosa di cui avesse bisogno. Ma la rabbia improvvisa del figlio aveva indotto Charlotte a osservarlo attentamente prima di parlargli, in cerca di elementi che giustificassero il suo malumore. E osservandolo, spesso mentre lui non se ne rendeva conto, aveva cominciato a sentire che non era solo la sua personalità ad avere subito una trasformazione: sembrava cambiato anche fisicamente. Sembrava che gli occhi si fossero leggermente infossati, e la fronte, sempre così forte, sembrava come ispessita e appesantita. La mascella, quadrata come quella di suo padre, era diventata prominente, e questo gli dava un'aria aggressiva che diventava ancora più pronunciata quando usciva dai gangheri. Quel giorno, quando era tornato a casa dopo l'allenamento, sembrava che avesse le mani gonfie, e quando gliene aveva fatto cenno i suoi occhi avevano lampeggiato per l'ira. «C'è qualcos'altro?» aveva chiesto bruscamente. «Hai qualche problema con me mamma?» A quelle parole Charlotte aveva indietreggiato, poi aveva cercato di dirgli che era solo preoccupata per lui, ma era stato troppo tardi. Era già scomparso nella sua stanza e aveva trascorso il tempo prima di cena a lavorare sull'attrezzatura da subacqueo che Chuck gli aveva regalato l'estate precedente. Subito dopo cena era uscito e da allora non l'aveva più visto né sentito. Sentì il debole suono della pendola ai piedi delle scale che batteva le due, e infine si allontanò dalla finestra. Con un miscuglio di emozioni, in parte ansia, in parte rabbia perché era arrivata ad aver paura del marito, si
avvicinò al letto e scosse Chuck. Lui smise di russare, poi si ritrasse e si voltò. Lo scosse di nuovo e lui aprì gli occhi e la guardò. «Che cosa c'è?» mormorò. «Che ore sono? Cristo, Char, è ancora buio, fuori!» «Sono le due, Chuck, e Jeff non è ancora tornato a casa.» Chuck gemette. «E mi hai svegliato per questo? Gesù, Char, quando avevo la sua età stavo quasi sempre fuori tutta la notte.» «Forse sì», rispose seccamente Charlotte. «E forse ai tuoi genitori non importava niente. Ma a me importa, e sto per chiamare la polizia.» A quelle parole Chuck si svegliò completamente. «Perché diavolo vuoi fare una cosa simile?» chiese bruscamente accendendo la luce e guardando Charlotte come se pensasse che fosse diventata matta. «Perché sono preoccupata per lui», sbottò Charlotte, con l'ansia per il figlio che vinse la paura delle reazioni del marito. «Perché non mi piace quello che gli sta succedendo e il modo in cui si sta comportando. E non mi piace affatto non sapere dov'è di notte!» Stringendosi la vestaglia al collo, come per proteggersi, si voltò e uscì in fretta dalla camera da letto. Era già dabbasso quando Chuck la raggiunse infilandosi una vecchia vestaglia di lana che aveva insistito per conservare nonostante i suoi bordi sfilacciati e il suo reticolo di buchi provocati dalle tarme. «Adesso calmati», le disse togliendole di mano il telefono e rimettendolo sul tavolinetto del soggiorno. «Non ti permetterò di mettere Jeff nei guai con la polizia solo perché vuoi tenerlo stretto alle tue sottane.» «Alle mie sottane!» ripeté Charlotte. «Per l'amor del cielo, Chuck! Ha solo diciassette anni! Siamo nel cuore della notte, e non c'è un posto in tutta Silverdale in cui potrebbe essere! È tutto chiuso. E quindi, se non è già nei guai, dov'è?» «Forse è rimasto a passare la notte da un amico», cominciò Chuck, ma Charlotte scosse la testa. «Non l'ha più fatto da quando era un ragazzino. E se l'avesse fatto avrebbe telefonato.» Mentre le pronunciava, sapeva di non credere a quelle parole. Un anno prima - qualche mese prima, perfino qualche settimana prima - avrebbe fatto assegnamento che Jeff l'avrebbe tenuta informata di dov'era e di che cosa stava facendo. Ma in quel momento? Non lo sapeva. Né poteva spiegare a Chuck le sue preoccupazioni, poiché lui insisteva a credere che non c'era niente che non andasse, che Jeff stava semplicemente crescendo e mettendo alla prova le ali.
Mentre stava cercando le parole adatte, le parole per esprimere le sue paure senza aumentare l'ira del marito, la porta si aprì e Jeff entrò in casa. Aveva già chiuso la porta dietro di sé e aveva cominciato a salire le scale quando vide i genitori in piedi nel soggiorno, in vestaglia con gli occhi fissi su di lui. Li guardò inebetito per un momento, quasi come se non li riconoscesse, e per un attimo Charlotte pensò che fosse drogato. «Jeff?» disse. Poi, quando sembrò che lui non le prestasse attenzione, chiamò di nuovo, più forte. «Jeff!» Con gli occhi annebbiati, suo figlio si voltò a fissarla. «Cosa c'è?» chiese con una voce che aveva il tono scontroso che le era diventato tanto familiare. «Voglio una spiegazione», continuò Charlotte. «Sono le due di notte passate, e voglio sapere dove sei stato.» «Fuori», rispose Jeff, e cominciò a voltarsi. «Fermati immediatamente, giovanotto!» ordinò Charlotte. Entrò con decisione nell'ingresso e si mise ai piedi delle scale, poi allungò una mano e accese il lampadario a corona appeso nella tromba delle scale. Un vivido fiume di luce inondò il viso di Jeff, e Charlotte rimase senza fiato. Il suo volto era rigato di terra, e sulle guance aveva delle macchie di sangue. Sotto gli occhi aveva dei cerchi neri, come se non avesse dormito da giorni, e respirava forte, con il petto che si sollevava a ogni ansito. Poi sollevò alla bocca la mano destra, e Charlotte vide che sulle nocche la pelle era lacerata. «Mio Dio», sussurrò mentre la rabbia si esauriva improvisamente. «Jeff, che cosa ti è successo?» I suoi occhi si strinsero. «Niente», borbottò, e di nuovo cominciò a salire le scale. «Niente?» ripeté Charlotte. Si girò verso Chuck, che stava in piedi sulla porta del soggiorno, anche lui con gli occhi fissi sul figlio. «Chuck, guardalo. Guardalo soltanto!» «Faresti meglio a dirci che cosa è successo, figliolo», disse Chuck. «Se sei nei guai...» Jeff si girò di scatto, con gli occhi che lampeggiavano con la stessa rabbia che aveva spaventato Linda Harris quella stessa sera. «Non so che cosa c'è che non va!» urlò. «Questa sera Linda Harris ha rotto con me, va bene? E questo mi ha fatto incazzare! Va bene? Così ho cercato di fracassare un albero e sono andato a fare una passeggiata, va bene? Ti va bene, mamma?»
«Jeff...» cominciò Charlotte, ritraendosi per l'improvviso scoppio di rabbia del figlio. «Non volevo... volevamo solo...» Ma era troppo tardi. «Non puoi semplicemente lasciarmi in pace?» gridò Jeff. Scese dall'inizio delle scale, torreggiando sulla madre, molto più piccola di lui. Poi, con un movimento improvviso, allungò una mano e spinse sgarbatamente di lato Charlotte, come se stesse schiacciando una mosca. Lei sentì un acuto dolore alla spalla mentre sbatteva contro la parete, poi crollò sul pavimento. Per un attimo Jeff fissò vuotamente la madre, come se quello che le era successo lo rendesse perplesso, poi, con un lamento angosciato, si voltò e uscì di nuovo sbattendo la porta. Chuck, sbigottito da quello che aveva visto, fissò per un momento la porta chiusa, poi si inginocchiò per aiutare la moglie a rialzarsi. Mentre Charlotte cominciava a singhiozzare piano, la condusse di sopra. Prima avrebbe fatto in modo di calmarla e l'avrebbe rimessa a letto, poi sarebbe andato a cercare Jeff. Jeff si allontanò dalla casa incespicando sul gradino del marciapiede prima di posare i piedi sulla strada. Ma quando il bagliore del lampione gli colpì gli occhi li strinse con aria sbalordita, poi si allontanò rapidamente, chinandosi, e attraversando la strada sparì nella fonda oscurità tra le due case. La testa gli martellava per un sordo dolore che sembrava penetrargli nelle ossa, e gli occhi erano pieni di lacrime. Era stato brutto scrollare Linda Harris come se fosse stata una bambola di stracci, ma colpire in quel modo sua madre... Cercò di allontanare quel pensiero dalla mente. Non poteva aver fatto una cosa simile... non poteva! Doveva essere stato qualcun altro. Ecco, era così. Dentro di lui c'era qualcun altro, uno cattivo, che gli faceva fare delle cose che lui non avrebbe mai fatto. Ma se c'era qualcun altro dentro di lui voleva dire che stava diventando matto. Stava perdendo la testa, e l'avrebbero rinchiuso. Era così che facevano con i matti, lo sapeva, almeno se diventavano violenti. Per un momento restò acquattato fra le tenebre, con gli occhi che lampeggiavano come quelli di un animale che sa di essere cacciato. Quanto tempo aveva prima che cominciassero a cercarlo, quanto tempo prima che venissero a prenderlo? Doveva fuggire, doveva trovare qualche posto in cui nascondersi.
Si tenne basso, in equilibrio sulle punte dei piedi, poi attraversò di corsa un cortile posteriore, scavalcando la bassa siepe che lo separava dall'altro. In quel modo attraversò altri due cortili, poi scivolò di nuovo tra due case, soffermandosi per controllare se nella strada c'erano segni di vita prima di sfrecciare attraverso lo spazio aperto fino alla benedetta oscurità dell'altro lato. Non sapeva ancora bene dove stesse andando, ma sembrava che il suo istinto lo conducesse dall'altra parte della città, vicino alla scuola. E poi capì. C'era qualcuno da cui poteva andare, qualcuno di cui si fidava, qualcuno che l'avrebbe aiutato. Mentre il panico cominciò a placarsi e la sua mente a schiarirsi, il suo respiro si fece più tranquillo. Perfino il tremendo mal di testa stava diminuendo, e si mise a camminare a grandi passi, scivolando da una zona buia all'altra, evitando con cura le vivaci pozze di luce gialla che illuminavano i marciapiedi. Non più di dieci minuti dopo arrivò a destinazione. Si fermò dalla parte opposta della strada, di fronte alla casa di Phil Collins, stringendosi al tronco di un grande cedro, osservando non solo la casa dell'allenatore ma anche quelle vicine. Nelle sue orecchie il ronzio degli insetti sembrava amplificato, e nella sua paranoia non riusciva a immaginare come si potesse dormire con quel fracasso. Eppure tutte le case dell'isolato erano buie, e nelle strade non vedeva nessun movimento. Forse, dopotutto, non stavano ancora cercandolo. Si chinò per un momento, poi attraversò di corsa la strada e raggiunse il retro della casa dell'allenatore. Bussò piano alla porta posteriore, poi più forte. Immediatamente la casa si animò per l'abbaiare di un cane, e un istante dopo si accesero delle luci. Poi la porta si socchiuse e Jeff riconobbe il volto familiare dell'allenatore che lo scrutava. «Sono io, mister», disse con voce tremante. «Sono... sono nei guai. Posso entrare?» La porta si chiuse per un attimo, e il ragazzo sentì Collins mormorare qualche cosa al cane, poi la porta si spalancò e Jeff entrò nella cucina della casetta di Collins. Il grande pastore tedesco era accucciato ai piedi del suo padrone, con i denti scoperti, e un lieve brontolio gli usciva dalla gola. «Buono, Sparks», ordinò Phil Collins. «Sta' buono.» Il cane si tranquillizzò visibilmente, poi si mosse furtivamente in avanti per annusare i piedi di Jeff, che si lasciò cadere nell'unica sedia malandata che stava vicino al
tavolo di cucina e si prese la testa tra le mani. «Ho... ho picchiato mia madre», disse evitando con gli occhi quelli dell'allenatore. «Non so che cosa stia succedendo. Ma... be', delle volte è come se diventassi pazzo.» Finalmente alzò lo sguardo, con un'espressione supplicante. «Che cos'ho che non va?» chiese. «Qualche volta mi arrabbio tanto da perdere il controllo. L'unica cosa che voglio fare è mettermi a picchiare. Voglio solo mettermi a picchiare, e non mi importa di quello che succede.» Collins mise una mano sulla spalla del ragazzo. «Adesso sta' buono», disse ripetendo inconsciamente le parole che aveva usato per il cane un istante prima. «Non hai niente che non va, Jeff. Stai solo attraversando un brutto periodo, ecco tutto. Ora cerca di dimmi quello che è successo.» Mezzo singhiozzando, Jeff fece del suo meglio per raccontare a Collins l'accaduto, dal momento in cui aveva cominciato a parlare con Linda Harris fino a quello, poche ore dopo, in cui aveva improvvisamente colpito la madre senza riflettere. Ma alla fine capì che il racconto non era molto coerente... c'erano moltissimi punti vuoti, momenti in cui non riusciva a ricordare dov'era stato o che cosa aveva fatto. Con suo grande sollievo, l'allenatore non sembrò molto sconvolto da quello che gli aveva raccontato. «Mi sembra che tu abbia solo avuto una reazione eccessiva alla rottura con la tua ragazza», disse. «Succede sempre alla tua età... gli ormoni si diffondono dappertutto nel vostro corpo e non sapete mai che cosa vi faranno. Sai una cosa», continuò. «Telefonerò a Marty Ames, andremo da lui e gli diremo di darti un'occhiata. Credimi», aggiunse strizzando un occhio, «se stai per diventare matto Marty lo capirà in un attimo. Ma non è così», aggiunse in fretta mentre Jeff impallidiva. «Scommetto che dirà proprio quello che ho detto io.» «Ma, e i miei?» chiese Jeff con voce ansiosa. «Dopo quello che ho fatto alla mamma, papà mi ammazzerà!» «No, non lo farà», lo rassicurò Collins. «Se ce ne sarà bisogno gli parlerò io, o lo farà Marty Ames. Ma scommetto che non sarà necessario. Il tuo vecchio è molto orgoglioso di te, Jeff. E di certo non ti si metterà contro proprio adesso. Non lo farà, e neanche tua madre.» Mentre sembrava che Jeff si calmasse l'allenatore andò al telefono e fece una veloce chiamata. Un quarto d'ora dopo, con Jeff seduto al suo fianco, Collins fermò la macchina al cancello della clinica e abbassò il vetro del finestrino per parlare con il custode che li aspettava. Il custode premette un pulsante di telecomando e il cancello si aprì lentamente per permettere a
Collins di entrare. Martin Ames li stava aspettando nell'atrio del vasto edificio e condusse immediatamente Jeff in un ambulatorio. «Spogliati», disse al ragazzo spaventato, «e lascia che ti dia un'occhiata.» Poi si rivolse a Collins. «Dimmi che cos'è successo». Mentre Jeff si toglieva i vestiti Collins ripeté in breve quello che gli aveva detto il ragazzo. «Okay», disse Ames quando Collins ebbe finito. «Cominciamo.» Fu mentre Ames cominciava a controllargli i riflessi, battendogli le ginocchia con un martelletto di gomma, che la rabbia cominciò improvvisamente a riassalire Jeff. Poteva sentirla arrivare, ma non poteva farci niente. Eppure non c'era nessuna ragione... si era sottoposto a quella procedura centinaia di volte e non gli aveva mai dato fastidio. Ma non quella volta. Quella volta lo rese furioso. «La smetta, maledizione!» urlò. «Che cazzo crede di fare?» Allontanando con un calcio il martelletto tra le mani di Ames saltò giù dal lettino con gli occhi in fiamme per la rabbia, con le mani strette a pugno. Ames fece velocemente un passo indietro e diede un'occhiata a Collins, che immediatamente mise le braccia attorno a Jeff in una potente stretta. Un attimo prima che Jeff potesse reagire Ames gli trafisse il braccio con una siringa ipodermica e premette lo stantuffo. Jeff si immobilizzò nella stretta di Collins, e mentre la medicina cominciava a fare effetto sentì che la rabbia svaniva e il suo corpo si rilassava. Quando Collins lo lasciò andare Jeff ricadde sul lettino. L'ultima cosa che udì prima di piombare nell'incoscienza fu il suono della voce di Ames che diceva a Collins di telefonare ai suoi genitori e dir loro dove si trovava. Si sarebbe rimesso diceva Ames, ma avrebbe dovuto passare il resto della notte nella clinica. Ma si sarebbe poi rimesso? Martin Ames non lo sapeva. Sapeva che era un incubo, sapeva che doveva esserlo. Di certo quello che stava succedendogli non poteva essere reale. Tutto il corpo era tormentato da dolori, dolori accecanti, lancinanti, che gli laceravano l'animo nel profondo. Sembrava circondato dall'oscurità, eppure anche nel buio come la pece della sua camera di tortura riusciva a vedere perfettamente. Non era solo. Riusciva a vedere gli altri, alcuni incatenati alle pareti, altri legati al ca-
valietto al centro della stanza. E riusciva a sentire le loro grida... urla angosciate che mugghiavano dal profondo della loro anima, che echeggiavano nella stanza di pietra senza mai svanire, rafforzate sempre da altri urli, da altri miseri lamenti. Anche i padroni della camera erano lì, senza prestare ascolto alle lamentose suppliche delle loro vittime, e ognuno di essi aveva in mano un diverso strumento di tortura. In quel momento uno stava avvicinandosi a Jeff, con un ferro da marchio rovente tenuto in mano con precauzione. Per un attimo sembrò che gli sorridesse, e nel chiasso a Jeff sembrò quasi di sentirlo ridere mentre gli premeva contro la coscia il metallo ardente. Poi l'odore dolciastro della carne che bruciava gli riempì le narici, e un'ondata di nausea si impadronì di lui facendolo quasi vomitare. «Nooo!» gemette, e tutto il suo corpo sobbalzò e si dibatté contro le catene che lo legavano al tavolo metallico su cui era disteso. «Nooo!» Fu il suo urlo che lo liberò infine dalla morsa dell'orribile sogno, e si mise a sedere con un balzo. Un fiume accecante di luce bianca gli colpiva gli occhi. Li batté diverse volte e la vista cominciò a schiarirsi. Respirava forte; mentre annaspava in cerca d'aria gli sembrò che i polmoni gli stessero per scoppiare. Attorno a lui c'era della gente, e per un attimo il sogno gli si serrò intorno di nuovo e aprì la bocca per gridare ancora. Ma poi riacquistò il dominio di se stesso. Non erano i torturatori. Quegli uomini erano reali, e portavano dei camici bianchi... e pure bianca era la stanza in cui si trovava. Un ospedale. Era in un ospedale. Poi, lentamente, cominciò a rammentare, e mentre i ricordi si riaffacciavano un po' alla volta si tranquillizzò. Era nella clinica del centro sportivo. Era stato l'allenatore a portarlo lì, e il dottor Ames si stava prendendo cura di lui. Quindi sarebbe stato bene. C'erano tre infermieri, tre uomini che riconobbe immediatamente. Facevano parte del personale; erano suoi amici. Ma lo stavano guardando in modo strano, quasi come se avessero paura di lui. Sollevò le mani per ripararsi dalla viva luce, e fu allora che vide la cinghia di cuoio. Era legata strettamente intorno al suo polso, ma l'estremità libera era
strappata e sfilacciata, quasi come se... Come se fosse stato legato e fosse riuscito in qualche modo a liberarsi. Inghiottì a fatica e sentì che la gola gli faceva male, quel genere di male che sentiva sempre dopo aver passato il pomeriggio a gridare a una partita di football. Perplesso, cercò di togliere le gambe dal lettino e di sedersi, ma scoprì che non poteva. E quando si guardò i piedi vide che anche le caviglie erano legate con delle cinghie di cuoio. Proprio come nell'incubo, era legato a un tavolo metallico. Venne invaso da un impeto di rabbia e raccolse le forze per liberare le gambe. Ancora una volta un ago venne immerso del suo braccio, e si sentì precipitare di nuovo nella strana, soffice oscurità dell'incoscienza. Fortunatamente, l'incubo non ritornò a perseguitarlo. 8 La mattina dopo Mark Tanner si svegliò presto, ma invece di voltarsi dall'altra parte per godersi altri dieci minuti di sonno, gettò da parte le coperte, si mise a sedere e si stirò. Mentre Chivas lo guardava con curiosità dalla sua cuccia accanto al letto, scese sul pavimento e cominciò a fare delle flessioni, essendo ancora forte la sua decisione della sera prima. Continuò a farne, grugnendo per la fatica, finché non gli fecero male le braccia. Poi, anche se sapeva che era impossibile che il suo aspetto fosse cambiato, si guardo nello specchio. Ma quella mattina invece di deprimersi per quello che vedeva si fece un sorriso di incoraggiamento. «Funzionerà», mormorò. «Se ha funzionato per Robb, funzionerà anche per me.» «Che cosa funzionerà?» senti chiedere dalla voce di Kelly. Arrossendo come un peperone si girò di scatto e vide la sorella che lo guardava dalla porta.«Che cosa fai?» chiese bruscamente. «Se la mia porta è chiusa, non devi entrare.» «Dovevo andare in bagno», rispose Kelly come se quello spiegasse tutto. «Stavi facendo degli strani rumori. Stai poco bene?» «Non fare la sciocca», le disse Mark. «Se stessi poco bene, non sarei a letto? Adesso esci, o dira alla mamma che sei entrata nella mia camera senza bussare.» Naturalmente sapeva che non l'avrebbe fatto, ma sapeva anche che la minaccia sarebbe stata sufficiente a far scappare Kelly nella sua stanza.
Appena se ne fu andata si tolse la biancheria, la buttò nell'angolo con il resto dei panni sporchi, poi si mise l'accappatoio e si diresse verso il bagno. Era già nella doccia, con il bagno pieno di vapore, quando sentì la porta che si apriva. «Sei tu, papà?» urlò sopra il rumore della doccia. «Devo radermi», rispose Blake, poi aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Che cosa stai facendo, lì? Non ti sei fatto la doccia, ieri sera?» «Uh-uh», rispose Mark. Un minuto dopo chiuse il rubinetto e uscì dalla doccia afferrando un asciugamano dalla rastrelliera. «Papà?» Blake, con il viso coperto di schiuma e la testa rovesciata all'indietro mentre si radeva con cura il collo, borbottò una risposta e guardò il figlio nello specchio. «Pensi che potremmo ricominciare ad allenarci? Voglio dire durante il fine settimana o qualcosa del genere.» Mentre Blake fissava Mark il rasoio si fermò a metà. «Credevo che non volessi farlo», osservò. Ma mentre Mark arrossiva, suo padre credette di aver capito. «Linda Harris, giusto? È nella squadra delle cheerleader, vero?» Mark arrossì ancora di più e annuì. «Che ne dici di domani? O forse domenica?» Mark esitò. Per un attimo Blake pensò che stesse per cambiare idea, ma poi il ragazzo fece un breve cenno di assenso, si infilò l'accappatoio e uscì dal bagno. Mentre riprendeva la rasatura mattutina Blake provò un senso di soddisfazione. Silverdale, decise, sarebbe stata la cosa migliore mai capitata al figlio. Quaranta minuti dopo Linda Harris raggiunse Mark e si mise al passo con lui. Erano a tre isolati dalla scuola e avevano molto tempo prima dell'inizio delle lezioni. «Po-Posso parlarti di una cosa?» chiese Linda fermandosi a metà dell'isolato e voltandosi a guardare Mark. Mark si sentì mancare il cuore. Aveva già fatto la pace con Jeff LaConner e stava per disdire l'appuntamento. «È... be', è a proposito di ieri sera», continuò Linda, e Mark capì di avere ragione. «Va bene», mormorò con voce appena udibile. «Se questa sera vuoi uscire con Jeff va bene lo stesso.» «Ma no», protestò Linda, e Mark, che stava fissando a disagio il selciato, finalmente la guardò. Anche se aveva un'espressione quasi preoccupata, gli stava sorridendo. «Volevo solo raccontarti che cosa è successo, ecco tutto.» Mentre riprendevano a camminare lentamente verso la scuola gli riferì
tutto quello che era successo la sera prima dopo che se ne era andata dalla palestra con Tiffany Welch. «Mi ha fatto davvero paura», concluse. «Sembrava proprio che fosse diventato matto.» «L'hai detto ai tuoi genitori?» chiese Mark. Linda scosse la testa. «Credono che Jeff venga subito dopo Dio», rispose con la voce che le tremava. «Credono che dovrei sentirmi lusingata a morte per il fatto che vuole uscire con me, solo perché e un bravo giocatore di football.» «Be', stavi con lui, no?» chiese Mark, facendo del proprio meglio per non farsi tradire dalla voce. «Voglio dire, se non ti piaceva perché sei uscita con lui?» «Ma era diverso», insistette Linda. «È sempre stato un ragazzo dolcissimo. Ma adesso...» Alzò le spalle impotentemente. «Non lo so, è cambiato, ecco tutto. Si infuria senza nessuna ragione al mondo.» Mark non riuscì a evitare una leggera frecciata. «Certo il fatto che tu gli abbia detto che rompevi con lui non è una ragione sufficiente per sconvolgerlo tanto, vero?» chiese. Linda fece per dire qualche cosa, poi vide il suo sorriso. «Va bene, ieri sera poteva avere una ragione», ammise. «Ma non è di questo mi preoccupo», continuò, e i suoi occhi diventarono seri. «E allora che cos'è?» insistette Mark. «È solo...» cominciò Linda, chiedendosi come fare a dirlo. «È solo che cosa?» insistette Mark. «Dai, sputa il rospo.» «Sei tu», disse finalmente Linda senza guardarlo negli occhi. «Quando scoprirà di stasera non so quello che potrà fare.» Mark si sentì arrossire e cercò di controllarsi. «Vuoi dire che potrebbe picchiarmi?» chiese. Linda annuì ma non disse niente. «Bene», continuò Mark, fingendo un coraggio che non sentiva, «se ci prova penso che non ci sia molto che io possa fare, no? Forse potrei rovesciarmi e fingere di essere morto», suggerì. «Pensi che ci crederebbe?» Suo malgrado Linda ridacchio. «Non è scemo, Mark.» Poi la sua risatina svanì. «Comunque se vuoi cambiare idea, per stasera, va bene.» Mark scosse la testa. «Che cosa dovremmo fare, fingere che non ci piacciamo solo per colpa di Jeff LaConner?» Mentre si avvicinavano alla scuola, Mark smise di camminare. Parcheggiata di fronte c'era una giardinetta blu con la scritta ROCKY MOUNTAIN HIGH sui fianchi. Al volante c'era qualcuno che Mark non
riconobbe, ma dalla parte del passeggero stava scendendo Jeff LaConner. Mark si accigliò. «Che cos'è quello» chiese. Linda si accigliò. «Rocky Mountain High... è la clinica del centro sportivo», disse, «e quella è una delle loro automobili. Questa mattina Jeff dev'essere stato là.» Guardando nervosamente Mark aggiunse: «Fo-forse dovremmo entrare dalla porta laterale». Era già troppo tardi. Jeff LaConner li aveva visti e dopo aver detto qualche cosa al guidatore si stava avviando verso di loro. Con loro grande sorpresa, stava sorridendo. Nonostante il sorriso di Jeff, comunque, Mark poteva sentire la tensione di Linda mentre il grosso giocatore di football si avvicinava. «Ciao, Linda», disse Jeff, e quando lei non rispose il suo sorriso scomparve e venne sostituito da uno sguardo imbarazzato. «Io... be', volevo scusarmi per ieri sera.» Linda strinse le labbra, ma ancora non parlò. «Non mi sentivo molto bene», continuò Jeff. «Comunque, non avrei dovuto farlo.» «No», disse seccamente Linda. «Non avresti dovuto.» Jeff fece un profondo respiro, ma non la contraddisse. «Ad ogni modo», continuò, «dopo che sono tornato a casa sono peggiorato, e alla fine sono dovuto andare dal dottor Ames.» Linda aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Perché? Che cosa avevi che non andava?» Jeff alzò le spalle. «Non lo so. Mi ha fatto una puntura e ho passato la notte alla clinica, ma adesso sto bene.» Mark aveva ascoltato solo a metà, perché la sua attenzione era assorbita dal segno che aveva notato sul polso di Jeff. La pelle era scorticata e molto rossa. «Che cosa ti hanno fatto? Ti hanno legato?» Jeff lo fissò con aria interrogativa e Mark fece un cenno verso il polso dell'altro ragazzo. Senza ancora capire che cosa intendesse Mark, Jeff abbassò lo sguardo. Vedendo il segno rosso sul polso destro sollevò l'altra mano, e mentre piegava il braccio, il polsino della sua manica scese di qualche centimetro. Anche il polso sinistro era cerchiato da un infiammato livido rosso. Fissò i segni con sguardo inespressivo. Non aveva la più pallida idea di dove venissero. Sharon Tanner lasciò cadere l'ultimo cartone da imballaggio aggiungen-
dolo all'enorme mucchio vicino alla porta posteriore, poi si asciugò la fronte con il dorso della mano. «Avevi ragione», disse guardando l'orologio sopra il lavello. «Solo le undici e mezzo e abbiamo finito. E buon Dio», aggiunse lasciandosi cadere su una sedia di fronte a Elaine Harris, «fa' che non debba ripetere una cosa simile per almeno cinque anni!» Bevve un sorso di caffè dalla tazza che aveva davanti a sé, fece una smorfia, risputò il liquido nella tazza, poi si alzò e la vuotò nel lavello. «Tutto quello che ci vuole è un po' di organizzazione», rispose Elaine. «E qualcuno che ti aiuti», aggiunse Sharon. «Perché non mi fai vedere i negozi, e poi ti offro il pranzo.» Guardò i suoi jeans e la sua felpa e sorrise mestamente. «Ma niente di elegante. Non mi va di cambiarmi.» Un quarto d'ora dopo Sharon fermò la macchina nel parcheggio quasi vuoto dei grandi magazzini Safeway e scosse la testa per lo stupore. «Non è come a San Marcos. Là sarei stata fortunata se avessi trovato un posto dopo aver girato per il parcheggio dieci minuti.» «Qui tutti vanno a piedi», le ricordò Elaine. «Magnifico», gemette Sharon. «E come fanno a portare a casa la roba?» «Hai mai sentito parlare dei carrelli per la spesa?» ribatté Elaine. «Sai, quegli aggeggini di fil di ferro che si trascinano dietro le vecchiette? Be', preparati ad entrare nel mondo delle vecchie signore!» Rise forte all'espressione inorridita di Sharon. «Non ti preoccupare. La prima volta mi sono sentita un'idiota, ma adesso mi piace. Naturalmente», aggiunse dando un colpetto su una delle sue ampie cosce, «dovrei camminare più di quanto non faccia, ma penso di meritare qualche riconoscimento per lo sforzo che faccio. Vieni.» Attraversarono il parcheggio, girarono l'angolo del supermercato poi entrarono nel centro commerciale vero e proprio. Anche se c'era andata quasi tutti i giorni della settimana, Sharon lo fissò ancora una volta meravigliata, perché al contrario dei centri commerciali di San Marcos, dove sembrava che tutti avessero fretta di andare in qualche altro posto e camminavano rapidamente, senza guardarsi intorno, lì vide gruppetti di gente seduti sulle panchine di legno e di ferro battuto collocate sulle passerelle di legno davanti a quasi tutti i negozi, o fermi in mezzo alla strada di mattoni a chiacchierare pigramente. Mentre le due donne giravano tra i negozi, guardando le vetrine, quasi tutti salutavano Elaine con un cenno o si fermavano a parlare con lei. Sharon comperò qualche cosa nella drogheria e si fermò in quello che era chiamato un negozio di ferramenta ma in realtà sembrava fornito di un po' di tutto, tra cui libri, vestiti e mobili, e in cui, vista l'insi-
stenza di Elaine, acquistò un carrello pieghevole per la spesa; poi ritornarono nei grandi magazzini Safeway. A prima vista a Sharon sembrò molto simile a tutti gli altri supermercati in cui era stata. Ma mentre procedeva nelle corsie, spuntando le voci dal lungo elenco che aveva accumulato per tutta la settimana, notò qualche cosa di strano. Nel reparto panetteria cercò invano del pane bianco a cassetta. Decidendo infine che l'avevano esaurito stava per rassegnarsi a prendere del pane integrale quando si rese conto che tutti i ripiani erano pieni, come se il reparto fosse stato appena rifornito. Aggrottando le sopracciglia, chiese a Elaine se avesse visto del pane bianco. Elaine scosse la testa. «Non ne hanno. Il supermercato acquista tutto il pane da un forno di Grand Junction. Pane lievitato naturalmente e pane ai sette cereali, ma niente pane bianco.» «Magnifico», commentò Sharon. «Non credo che a Mark importerà, ma che cosa dirò a Kelly? Le piacciono i panini di pane bianco con burro di arachide e miele, senza burro dalla parte del miele, così che quando li mangia il pane sembra un favo.» «E la stessa cosa con il pane integrale», rispose Elaine. Sharon scosse la testa malinconicamente. «Ovviamente hai dimenticato come sono le ragazzine di nove anni. Sostituire quello che piace loro è 'volgare', e alle madri che fanno simili sostituzioni non importa niente della salute dei loro bambini, perché non c'è verso che le mangino, anche se muoiono di fame.» Fece un profondo respiro, mise nel carrello una pagnotta al genipapo, poi ridacchiò. «Be', almeno non potrà dirmi che 'tutti quanti mangiano pane bianco'.» Avanzarono nel supermercato e Sharon si fermò davanti a una piccola esposizione di bibite analcoliche. C'era solo acqua minerale, in una gamma di differenti sapori naturali. Guardò le bottiglie disgustata. «Non posso soffrire questa roba», disse. «Dove sono le vere bibite gassate?» Elaine scosse la testa. «Sono qui. Quelli che vogliono qualche cosa d'altro lo comperano fuori. Ma nessuno lo vuole. L'acqua minerale fa bene, e una volta che ti ci sei abituata va a finire che ti piace.» Sharon fissò la sua amica. Parlava seriamente? Non poteva essere! Era un Safeway, vero? Mentre continuavano a muoversi lungo le corsie Sharon notò un numero sempre maggiore di discordanze tra quel supermercato e quelli a cui era
abituata. Il reparto dei prodotti freschi era grande il doppio di quelli che aveva sempre visto, e dovette ammettere che la frutta e la verdura erano meglio che in California. Era lo stesso per il reparto carni. Ma nel reparto surgelati trovò soltanto qualche verdura e dei gelati di prima qualità, di quelli senza conservanti. Si voltò verso Elaine con un'espressione perplessa. «Che cos'è», chiese,«un supermercato o un negozio di cibi genuini?» «È un supermercato», protestò Elaine. «Ma non tengono prodotti di cattiva qualità, ecco tutto.» «Prodotti di cattiva qualità!» protestò Sharon. «Non hanno quasi niente di quello che piace ai miei! Non fraintendermi, sono d'accordo sulle verdure fresche, ma a Kelly piacciano i ghiaccioli, e Mark va pazzo per il pollo fritto surgelato... E che cosa devono fare i ragazzi se Blake e io vogliamo uscire da soli? Dove sono i pasti pronti da mangiare davanti alla TV?» Elaine scosse la testa. «Non ce ne sono. A Silverdale nessuno compera quel genere di roba, e quindi perché il supermercato dovrebbe tenerli? E poi, guarda i nostri figli. Hai mai visto dei ragazzi più sani? Sono grandi e robusti, e praticamente non si ammalano mai. Se vuoi il mio parere...» Sharon provò un impeto di rabbia. «Se vuoi il mio parere», l'interruppe, «stai cominciando ad assomigliare a tutti quei fanatici dei cibi genuini che prendevamo in giro a casa. E se il supermercato tenesse quello che chiami cibo di cattiva qualità forse la gente lo comprerebbe! E comunque, che genere di direttore hanno, qui? Non devono tenere tutti gli stessi articoli, i supermercati Safeway?» «Ehi, non è colpa mia...» cominciò a protestare Elaine. «Non ho detto che sia colpa tua», ribatté Sharon. «So che Jerry qui dirige la TarrenTech, ma non credevo che dirigesse anche il Safeway!» Sugli occhi di Elaine comparve una strana espressione, e per un istante Sharon ebbe la bizzarra idea di aver toccato un tasto delicato. Poi si rese conto che non stava guardando lei, ma stava fissando qualcuno che aveva appena voltato nella loro corsia. «Charlotte», sentì sussurrare a Elaine. «Che cosa è successo? Hai un aspetto orribile!» Elaine si batté una mano sulla bocca appena si rese conto della mancanza di tatto della propria osservazione. «Oh mio Dio», disse in fretta. «Non volevo...» Sharon si voltò e vide una donna piccola e bionda, con i capelli tirati indietro a formare una coda di cavallo che mettevano in mostra un viso che
sarebbe stato carino se non avesse avuto un aspetto tanto stanco. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, con le occhiaie solo parzialmente nascoste da uno spesso strato di trucco, e il braccio sinistro era tenuto fermo da una fascia. «Sharon, questa è Charlotte LaConner», sentì dire aElaine. «Sharon è la moglie di Blake Tanner. Sai, il nuovo braccio destro di Jerry.» Charlotte fece un debole sorriso e porse la mano destra. «Piacere di conoscerla», disse, con le parole che le uscirono di bocca automaticamente. Ritornò a guardare Elaine. «E non devi scusarti», disse. «So che aspetto ho.» «Ma che cosa è successo?» chiese di nuovo Elaine. Charlotte scosse la testa. «Io... io non lo so, in realtà.» Guardò Elaine acutamente. «Linda non ti ha detto che cos'è successo ieri sera?» Elaine scosse la testa incertamente. «Linda? Che cosa...» «A quanto pare ha rotto con Jeff dopo l'allenamento», continuò Charlotte. «Comunque, quando è tornato a casa... be', era parecchio sconvolto e mi ha dato uno spintone.» Elaine impallidì. «Mio Dio...» Diede un'occhiata a Sharon. «Jeff è grande e grosso», disse. «È il capitano della squadra di football...» «Non più!» esclamò con veemenza Charlotte. «È tutta la settimana che dico a Chuck che voglio che Jeff lasci quella squadra!» Stava tremando e aveva gli occhi umidi. Si guardò intorno nervosamente e abbassò la voce fino a un insistente sussurro. «Non è mai stato così, prima», disse. «Mai! È sempre stato un ragazzo dal carattere dolce. Naturalmente Chuck insiste ancora che sono solo gli ormoni... che sta attraversando il periodo dello sviluppo. Ma non è vero. È qualche cosa di più, Elaine. È quel maledetto gioco, e anche Phil Collins! Li fa lavorare così sodo, e urla sempre che l'unica cosa che conta e vincere! Ha trasformato Jeff in un estraneo, Elaine! Un estraneo e un prepotente, e non do torto a Linda se non vuole più uscire con lui.» «Charlotte...» cominciò Elaine, ma l'altra donna scosse la testa amaramente, premendo una mano contro la bocca come per trattenere le sue parole irate. La tensione era quasi tangibile, e Sharon Tanner cercò rapidamente di escogitare un modo per alleviarla. Poi ricordò le parole che aveva scambiato con Elaine proprio prima che arrivasse Charlotte. «Forse è il cibo che c'è qui», suggerì, sforzandosi di parlare in tono leggero. «Elaine stava proprio dicendomi quanto siano grandi e robusti tutti i ragazzi. Forse alla fine sono diventati troppo grandi.»
Charlotte scosse la testa. «È il football», disse amaramente. «Qui è l'unica cosa che importa a tutti quanti, e il più grande errore che ho fatto è stato lasciare che Jeff venisse coinvolto in quel gioco.» «Su, Charlotte», cercò di calmarla Elaine. «Non è poi così brutto come sembra.» «Ah no?» chiese Charlotte con voce gelida. Si voltò verso Sharon Tanner. «Prima mi sono sbagliata», disse piano. «Lasciare che Jeff venisse coinvolto nel football non è stato il mio errore più grande. Il mio errore più grande è stato venire a Silverdale.» Poi si girò e si allontanò in fretta. Per tutto il pomeriggio Sharon udì riecheggiare in testa le parole di Charlotte LaConner. «Il mio errore più grande è stato venire a Silverdale...» Non avrebbe dato importanza a quelle parole, poiché Charlotte era tremendamente sconvolta, forse anche addolorata. Eppure anche prima che lei ed Elaine si fossero imbattute in Charlotte, nel supermercato, Sharon aveva cominciato ad avere dei dubbi. Anche se non poteva sostenere che la città non fosse bella, progettata e costruita perfettamente, c'era lo stesso qualche cosa che non andava. Ed era proprio quello ciò che non andava, si rese conto all'improvviso. Era troppo perfetta, tutta quanta. Le case, i negozi, le scuole, perfino il cibo al supermercato. Troppo perfetto. Jeff LaConner capì di aver fatto confusione quel pomeriggio, all'allenamento di football. Non era per niente concentrato, e anche se Phil Collins l'aveva sgridato, gli aveva fatto fare dei giri di pista e supplementari e alla fine l'aveva messo in panchina, non era servito a niente. In quel momento, negli spogliatoi, stava guardandosi con curiosità i segni sulle caviglie. Non li aveva notati fino all'ultima parte del giorno, quando si era spogliato per l'ora di ginnastica. Ma dopo averli visti non era riuscito a toglierseli di mente. Ormai erano quasi scomparsi, appena visibili, come quelli che aveva ai polsi. Quattro strane strisce di pelle arrossata, quasi come se la sera prima l'avessero legato con del nastro adesivo. Nastro adesivo, o qualche cosa d'altro. Durante tutta la giornata, ogni tanto gli erano venuti i brividi.
Gli apparivano nella mente strane immagini tremolanti, che scomparivano prima che avesse potuto vederle bene. Ma erano immagini spaventose, e mentre il pomeriggio avanzava aveva finalmente cominciato a ricordare l'incubo che aveva avuto la notte prima. L'incubo in cui era legato a un tavolo e qualcuno, un uomo il cui volto non riusciva a ricordare, l'aveva torturato. Si tolse la divisa da allenamento e andò alle docce. C'era ancora una dozzina di ragazzi, ma invece di scherzare con loro come al solito Jeff si insaponò e rimase a lungo sotto il caldo getto, lasciando che l'acqua rilassasse i suoi muscoli indolenziti. Infine, dopo che tutti se ne furono andati, chiuse il rubinetto, si asciugò, andò nell'ufficio dell'allenatore e bussò alla porta. «È aperta», abbaiò Collins. Jeff entrò nel locale e l'allenatore lo guardo alzando gli occhi dalla sua scrivania, con un'espressione irritata. «Non voglio sentire scuse», brontolò. «Tutto quello che voglio è che tu pensi al gioco.» «Mi... mi dispiace», balbettò Jeff. «Volevo solo parlare un momento con lei.» Collins esitò, poi alzò le spalle in un gesto di impaziente rassegnazione e fece un cenno verso la sedia di fronte a lui. «Okay, spara. Che cos'hai in testa?» «Questi», disse Jeff sporgendo i polsi in modo che Collins potesse vedere bene i segni. «Li ho anche alle caviglie.» Collins strinse le spalle. «Dovrei sapere da dove vengono?» chiese. Jeff scosse la testa incertamente. «È solo... be', per tutto il giorno ho avuto delle strane sensazioni... all'improvviso mi viene paura. E ieri notte ho avuto un incubo», continuò. Raccontò a Collins tutto quello che riusciva a ricordare del sogno. Poi continuò: «Il fatto è, il sogno può avere provocato quei segni? Voglio dire, nel sogno mi avevano legato a un tavolo. E stavo pensando...» «Vuoi dire che forse hanno un'origine psicosomatica?» chiese Collins. Strinse di nuovo le spalle e stese le mani sulla scrivania. «Mi metti in difficoltà, Jeff. Non so niente di queste faccende. Se vuoi possiamo telefonare ad Ames e chiederlo a lui.» Allungò una mano verso la cornetta, ma Jeff scosse la testa. «No», disse. «È lo stesso. Andrò la domani o dopodomani e posso chiederglielo allora.» Per un momento Collins lo fissò con aria meditabonda, poi annuì.
«Okay», disse. «Ma voglio che tu stia calmo, questa sera. Niente baruffe e a letto presto. Ti voglio in perfetta forma per la partita di domani.» Jeff si alzò per andarsene, poi si voltò. «E mia madre?» chiese. «Cosa faccio se vuole ancora che esca di squadra?» Collins guardò Jeff fisso negli occhi. «Non spetta a lei decidere, vero?» chiese. «Non è una cosa che dovete decidere tu e tuo padre?» Jeff esitò, e un lieve sorriso gli comparve sul volto. «Sì», rispose. «Credo di sì, vero?» Quando Jeff se ne fu andato Collins rimase immobile a pensare per un momento, poi prese in mano il telefono e compose il numero privato del dottor Ames alla clinica sportiva. «Marty?» chiese quando il dottore rispose. «Sono Phil.» Esitò per un attimo, chiedendosi se c'era davvero una ragione per chiamare il medico. Ma quei segni sulle caviglie di Jeff erano certamente reali. «Mi stavo chiedendo se c'è qualche ragione per cui oggi Jeff debba avere dei segni sui polsi e sulle caviglie.» Ci fu un attimo di silenzio, poi il dottor Ames parlò con un leggero tono di condiscendenza. «Stai chiedendo che cosa abbiamo fatto esattamente a Jeff ieri notte?» Collins strinse le mascelle. «Chiedo solo se c'è qualche spiegazione per quei segni.» Di nuovo ci fu un momento di silenzio, e quando Ames riprese a parlare il suo tono era più gentile. «Senti, Phil, lo sai com'era Jeff ieri notte. Hai dovuto trattenerlo, e dopo che te ne sei andato ha avuto un altro attacco. Niente di cui preoccuparsi, ma abbiamo dovuto trattenerlo pure noi, finché non siamo riusciti a calmarlo. Qualche volta le cinghie lasciano dei segni. Dov'è il problema? Non sta bene, oggi?» «Sembra a posto», ammise Collins. «Ma ha avuto un incubo... qualcosa di veramente brutto. Credo che mi stessi chiedendo se i segni potevano derivare da quello.» Ames ridacchiò. «Vuoi dire che ti stavi chiedendo se Jeff sta diventando matto?» Collins sussultò, perché era proprio a quello che aveva pensato. Eppure quando Ames l'aveva detto a chiare lettere era sembrato ridicolo. «Credo di aver avuto una reazione eccessiva, forse», rispose. La voce di Ames assunse un tono tranquillizzante. «No, hai fatto bene. Sai che voglio sempre sapere quello che succede ai ragazzi, non importa quanto possano sembrare insignificanti le cose. Non che i lividi sui polsi e
sulle caviglie di Jeff siano insignificanti, aggiunse in fretta. «Hai fatto bene a chiamarmi. Ma non c'è niente di cui preoccuparsi. Okay?» Quando l'allenatore non rispose niente, Ames parlò ancora, con un brusco tono di sfida nella voce. «So quello che faccio, Collins», disse. Phil Collins strinse forte le labbra. Se quel bastardo arrogante era tanto sicuro di se stesso... Allontanò il pensiero dalla mente. Dopo tutto, per la squadra Ames aveva fatto più di qualsiasi altra persona, lui stesso compreso. «Okay», disse infine. «Volevo solo che tu sapessi quello che sta succedendo, ecco tutto.» «E te ne sono grato», rispose Ames, di nuovo in tono amichevole. Un attimo dopo la conversazione ebbe termine, ma mentre deponeva la cornetta Phil Collins si sentì a disagio. E se ci fosse davvero qualche cosa che non andava, in Jeff? E se Jeff LaConner stesse ammalandosi come aveva fatto Randy Stevens l'anno prima? Al solo pensiero Collins rabbrividì. 9 Gli ultimi giorni caldi se n'erano andati, e mentre settembre cedeva il posto a ottobre i pioppi cominciarono a cambiare colore. In quel periodo Silverdale era in fiamme per il vivido colore rosso e oro dell'autunno, e l'aria di montagna era diventata frizzante, foriera dell'inverno in arrivo. Alcune delle cime delle montagne a est della piccola valle erano già spruzzate lievemente di neve, e le lunghe sere estive erano ormai un ricordo. I Tanner cominciavano già a considerare Silverdale come casa loro, e si erano tranquillamente adattati al ritmo della cittadina. Kelly, dimenticati quasi completamente i suoi amici di San Marcos, insisteva che se i genitori non le avessero comperato immediatamente gli sci sarebbe stato troppo tardi, la sua vita sarebbe stata rovinata per sempre. Blake, anche se era ancora alle prese con la miriade di dettagli che comportava il suo nuovo lavoro, riusciva a ritornare a casa tutte le sere alle cinque e mezzo o alle sei, e non gli veniva mai chiesto di andare al lavoro durante i fine settimana. Anzi, la prima volta che aveva cercato di andare in ufficio il sabato pomeriggio aveva scoperto subito che a Silverdale lavorare durante i fine settimana era impossibile, perché un guardiano l'aveva fermato appena dentro il portone d'ingresso e e l'aveva informato che in quei giorni tutti gli uffici erano chiusi a chiave. Quando aveva protestato
che aveva del lavoro da sbrigare il guardiano aveva stretto le spalle impotentemente e aveva suggerito di telefonare a Jerry Harris. Questi aveva riso e gli aveva detto di tornarsene a casa. «Per quanto mi riguarda», aveva detto, «non c'è niente di quello che facciamo qui che non possa aspettare fino a lunedì. Quindi goditi la famiglia finché puoi. I bambini crescono troppo in fretta comunque.» Quel pomeriggio erano andati alla partita di football della scuola superiore, e il fine settimana seguente erano andati a Durango per vedere i Wolverines che giocavano là. Con grande sorpresa di Blake, Mark aveva dimostrato davvero un po' di interesse per le partite, anche se sulle prime aveva sospettato che l'interesse principale di Mark fosse Linda Harris piuttosto che la partita. Eppure era stato Mark a insistere perché tutte le domeniche pomeriggio passassero un paio d'ore sul campo di allenamento della scuola a esercitarsi di nuovo con i calci piazzati. Per quanto riguardava Sharon, i dubbi che aveva avuto al Safeway il giorno in cui aveva visto Charlotte LaConner si erano ritirati nelle profondità della mente, e quando aveva visto Charlotte alle partite di football, notando che nonostante quello che lei aveva detto quel giorno Jeff giocava ancora come quarterback, aveva deciso che forse Elaine Harris aveva avuto ragione quando aveva detto che Charlotte aveva la tendenza a reagire esageratamente. Quel giorno, il secondo giovedì di ottobre, Mark diede un'occhiata all'orologio, raccolse dal piatto l'ultimo boccone di patate e spostò indietro la sedia. «Devo andare», annunciò. Kelly si accigliò. «Perché non posso andare alle riunioni prima delle partite?» chiese bruscamente. «Alle partite ci vado, no?» Mark sorrise alla sorellina. «Non ti piacerebbero», le disse. «È solo un mucchio di gente che salta e urla continuamente.» «E allora perché a te piacciono?» ribatté Kelly. «Perché sono divertenti, in certo modo, ammise Mark. «E poi questa sera faccio delle foto per l'annuario.» Kelly alzò la testa. «Scommetto che Linda Harris sarà in tutte, vero?» «Forse», disse Mark arrossendo lievemente. «Mark ha la ragazza, Mark ha la ragazza», cantilenò Kelly. Mark alzò gli occhi al cielo e voltò la schiena alla sorella. «Dopo la riunione andremo a mangiare un hamburger in qualche posto», disse alla madre. «A che ora devo tornare?» «Alle undici», rispose Sharon. Poi, mentre Mark si avviava verso la por-
ta, gli gridò dietro: «E se dovessi tardare, telefona!» «Sì», rispose lui. Un attimo dopo la porta sbatté alle sue spalle. Quando Mark arrivò alla scuola la riunione stava appena cominciando. Entrando nello stadio vide Linda che lo salutava dal campo con un cenno. Lui sorrise, ricambiò il saluto, poi si mise a correre piano. Fino a quella sera aveva guardato le riunioni prima delle partite dalle tribune insieme agli altri ragazzi, ma quella sera sarebbe stato sul campo anche lui. Sedendosi sulla panchina, aprì la borsa e scelse in fretta uno zoom per la sua Nikon. Avvitò il flash, controllò la scorta di pellicola, poi entrò in campo. Ormai conosceva a memoria la procedura, e la settimana prima aveva deciso quali sarebbero state le istantanee migliori. Quando la banda cominciò a suonare l'inno della scuola di Silverdale e la squadra di ginnastica artistica entrò in campo, era pronto. Sorrise tra sé mentre si rendeva conto di avere appena dimostrato che Kelly si sbagliava. Linda non faceva parte di quella squadra, e quindi avrebbe scattato almeno una foto in cui lei non sarebbe apparsa. La riunione continuò. Mezz'ora dopo Mark aveva scattato tre rullini di fotografie e nella sua borsa ne era rimasto uno solo. Si mise a sedere sulla panchina accanto a Linda, e mentre i capi dei cori cominciavano a fare il loro numero al suono dell'inno di battaglia trafficò per montare sulla macchina l'ultimo rullino. Quando la canzone terminò e Peter Nakimura prese in mano il megafono per annunciare la squadra, Mark era pronto. Prese posizione vicino al cancello principale, e mentre Peter gridava i nomi dei ragazzi della squadra, il loro numero e il loro ruolo, e i giocatori, in tenuta da gioco, entravano in campo a passo veloce, Mark ricominciò a scattare fotografie. Alcuni dei giocatori sostarono un istante per lui, altri gli fecero un cenno di saluto mentre gli passavano davanti. Uno o due lo ignorarono del tutto, e Robb Harris, con una perfetta scelta di tempo, gli fece un gestaccio nel momento preciso in cui si illuminò il flash. Infine, dopo una lunga pausa accompagnata da un rullo di tamburo, Peter Nakimura gridò il nome di Jeff LaConner. Mentre la folla di adolescenti nelle tribune si alzava in piedi e il loro entusiasmo saliva alle stelle, Mark mise a fuoco lo zoom su Jeff, che stava prendendo posizione a pochi metri di distanza. Quando venne gridato il suo nome Jeff si voltò, si chinò per un attimo poi si mise a correre. Quando arrivò all'altezza di Mark si voltò, e mentre il flash si illuminava rivolse il viso proprio verso la macchina fotografica.
Lo sguardo di odio puro che lesse nei suoi occhi fece quasi sfuggire di mano a Mark l'apparecchio. Ma poi Jeff sparì, e mentre il campione dei Wolverines entrava in campo di corsa, con le braccia stese e le mani alte sopra la testa, Mark decise che doveva essersi sbagliato. Dopo tutto era un paio di settimane dacché Linda aveva rotto con Jeff, e nonostante le paure della ragazza Jeff si era comportato in modo del tutto amichevole con entrambi. No, si sbagliava, decise Mark. Doveva essere così. Jeff aveva assunto un'espressione feroce solo per la fotografia. Jeff LaConner stava alla fine della lunga fila di giocatori di football, con le mani sui fianchi. Sebbene l'aria fosse piena delle note dell'inno di battaglia di Silverdale e gli altri membri della squadra cantassero insieme alla folla, Jeff era inconsapevole di tutto. Aveva gli occhi fissi su Mark Tanner, che in quel momento era accanto a Linda Harris e le sussurrava qualche cosa in un orecchio. La ben nota rabbia, la rabbia che diventava sempre più difficile da controllare, stava montando di nuovo. Durante la settimana che aveva seguito la notte trascorsa alla Rocky Mountain High era successo una sola volta. Era sul campo di allenamento, e stava giocando bene. Quel giorno stava lavorando sui passaggi: prendeva la palla rimessa in gioco da Roy Kramer, restava indietro qualche iarda per controllare che il ricevitore esterno mantenesse lo schema poi lanciava la palla con una precisione quasi assoluta verso il punto in cui Rent Taylor si sarebbe trovato pochi secondi dopo. Su undici tentativi, avevano completato il passaggio undici volte. Al dodicesimo tentativo, mentre scrutava il campo, aveva visto Linda Harris e Mark Tanner che ridevano mentre si allontanavano dalla scuola. Il gioco era andato a pallino, perché il suo passaggio era stato troppo corto di almeno dieci iarde. Phil Collins aveva immediatamente fischiato e si era precipitato in campo chiedendo bruscamente che cos'era successo. Jeff non aveva risposto niente; aveva a mala pena sentito la sgridata dell'allenatore, perché era stato invaso da un'ondata di furore puro e semplice. Gli era quasi sembrato che gli venisse a mancare la vista, e il suo punto focale si era ristretto tanto che tutto quello che riusciva a vedere erano Mark e Linda. Stavano ridendo di lui... ne era certo come non lo era mai stato in vita sua. E poi, improvvisamente com'era venuta, la collera se n'era andata.
Era rimasto immobile per un istante, stanco come se avesse appena terminato una corsa di quindici chilometri. Riusciva ancora a vedere Linda e Mark. Si erano soffermati vicino all'angolo delll'edificio e stavano guardando verso di lui. Quando Mark aveva sollevato la mano per salutare, Jeff si era ritrovato a ricambiare. Per il resto dell'allenamento la sua concentrazione era sparita, perché la sua mente era completamente impegnata a immaginare quello che era successo. Non era arrabbiato né con Linda ne con Mark, almeno non pensava di esserlo. Da allora fino alla settimana precedente la collera non era stata un problema. Ma lunedì mattina, e poi di nuovo martedì all'ora di pranzo, per un momento aveva perso il controllo. E il giorno prima era successo due volte, e quel giorno aveva accuratamente evitato Linda e Mark, temendo che la rabbia improvvisa avrebbe potuto invaderlo di nuovo e che quella volta non sarebbe stato affatto capace di controllarla. In quel momento, mentre stava con gli altri giocatori, rivolto verso le tribune, stava succedendo di nuovo. Tenne gli occhi fissati sulla coppia, e la sua rabbia colorò di rosso le loro figure. Poteva quasi sentirli parlare, ed era sicuro che stessero parlando di lui. «Cazzettino», mormorò udibilmente. Accanto a Jeff, Robb Harris si voltò per guardarlo con la coda dell'occhio. Aveva pensato che Jeff stesse parlando a lui, ma stava guardando lontano. Dall'espressione del viso, sembrava che Jeff fosse arrabbiato per qualche cosa. Ma che cosa? Pochi minuti prima, quando erano tutti negli spogliatoi a indossare le divise, stava benissimo. Perplesso, Robb si guardò intorno per vedere che cosa stesse fissando Jeff. Tutto quello che riuscì a vedere fu sua sorella seduta sulla panchina vicino a Mark Tanner. Ma non era niente: solo un paio di giorni prima Jeff gli aveva detto che non ce l'aveva con Linda per avere rotto con lui. Ma in quel momento stava fissando ferocemente Mark, e quando Robb guardò in basso vide che Jeff teneva le dita serrate come artigli, con le nocche bianche e i tendini sporgenti come fili d'acciaio troppo tesi. Le ultime note dell'inno di battaglia svanirono e gli altri giocatori si voltarono, pronti perché Jeff LaConner li guidasse fuori dal campo, di nuovo negli spogliatoi. Ma Jeff non si mosse. Rimase immobile dove si trovava, con gli occhi fissi senza espressione su Linda e Mark.
«Su, Jeff», sussurro Robb. «Andiamo!» Sembrò che Jeff non lo sentisse. Infine Robb gli diede una gomitata. «Vuoi spostare il culo, ragazzo? Che cosa diavolo hai?» Ci volle un po' prima che Jeff recepisse le parole di Robb e si voltasse verso di lui. «Bisogna che prenda quel piccolo bastardo», disse. «Bisogna che lo pesti tanto di brutto che nessuno vorrà più guardarlo di nuovo!» «E allora, cosa c'è?» chiese Blake Tanner a Jerry Harris. Erano seduti nel soggiorno degli Harris, rivestito da pannelli di quercia, e sebbene Blake fosse lì da quasi un'ora, Jerry non era ancora arrivato al punto. E c'era una ragione, per quella visita, perché quando quella sera, dopo cena, Jerry gli aveva telefonato per chiedergli di passare da lui, nella sua voce c'era qualche cosa che aveva detto a Blake che non si trattava solo di una visita di amicizia. Non pensava che fosse qualche cosa relativo all'ufficiò, perché anche nelle poche settimane in cui era stato a Silverdale Blake aveva imparato che se si presentava qualche problema in ufficio, Jerry lo lasciava là. Naturalmente parlavano sempre di affari, dovunque fossero, ma se l'occasione era essenzialmente sociale non sollevavano mai questioni importanti. Tuttavia mentre camminava per i sei isolati che separavano la sua casa da quella degli Harris si era chiesto che cosa potesse avere in mente Jerry. Sulle prime Blake aveva deciso che si trattasse di Ricardo Ramirez, e aveva scosso la testa tristemente, pensando a quel ragazzo. Rick era ancora all'ospedale di Silverdale, con la testa immobilizzata nell'abbraccio metallico di un telaio di Stryker. Considerate le sue condizioni, Blake era arrivato a pensare che il fatto che il ragazzo fosse ancora in coma era una specie di ambigua benedizione, perché almeno Rick non si rendeva conto di quanto gravi fossero le sue ferite. Per quello che avevano potuto capire gli specialisti chiamati da Mac MacCallum, Rick era quasi completamente paralizzato dal collo in giù, e senza il respiratore sarebbe rapidamente deceduto. Ma il suo cuore era ancora forte, e fino a quel momento Maria Ramirez aveva rifiutato di prendere in considerazione la possibilità che suo figlio potesse non svegliarsi più. In realtà era ogni giorno al suo capezzale, gli teneva la mano, gli parlava piano in spagnolo, certa che in qualche modo, anche in coma, potesse udire e comprendere quello che gli diceva. Il fondo fiduciario era stato costituito: una grossissima assicurazione annuale che avrebbe continuato a pagare tutte le spese di Maria e di Ricardo
per tutta la vita. Sebbene Blake fosse certo che Maria non capisse ancora la piena estensione della loro ricchezza, era pure sicuro che non ne avrebbe mai approfittato. In effetti, dopo lo choc iniziale per le istruzioni che Jerry Harris gli aveva dato il suo primo giorno di lavoro, Blake era giunto a credere che la politica di Ted Thornton era giusta perché senza l'aiuto della TarrenTech Maria Ramirez non avrebbe avuto assolutamente nessuna risorsa. E adesso Maria aveva un fondo fiduciario e niente di cui preoccuparsi per il futuro tranne la salute del figlio. Se fosse sopravvissuto. Ma quando era arrivato dagli Harris Jerry non aveva parlato dei Ramirez né di altre faccende riguardanti il lavoro. Era sembrato più interessato a come si stessero adattando a Silverdale i Tanner. E finalmente, in risposta alla domanda di Blake, Jerry preparò a entrambi un altro drink e venne al punto. «Ho pensato a Mark», disse. Blake alzò le sopracciglia con aria interrogativa. «Mi sono chiesto se hai avuto l'occasione di dare un'occhiata a quello che stiamo facendo a Rocky Mountain High», continuò Jerry, «il centro sportivo.» Blake alzò vagamente le spalle. «A parte il fatto che lo finanziamo abbondantemente, non ne so ancora granché.» «È una specie di campo sperimentale», gli disse Jerry. «Martin Ames ha delle idee interessanti sull'allenamento sportivo, e noi gli permettiamo di metterle in pratica.» Fece un largo sorriso, con gli occhi che luccicavano. «E visto che sei andato alle partite di football hai potuto vedere come funziona bene. In effetti», continuò, «supera tutte le nostre aspettative.» Blake si sporse in avanti. «Di che cosa si tratta?» chiese. «Che cosa sta facendo?» «Vitamine sintetiche», rispose Jerry. «Ha trovato un sacco di legami tra lo sviluppo fisico e certi complessi vitaminici, e negli ultimi anni ha elaborato una serie di composti che aiutano molto a compensare le deficienze genetiche.» Fece una pausa. «Come l'asma di Robb, per esempio.» Sembrò che le parole rimanessero sospese per un istante nell'aria prima che Blake si rendesse conto della loro portata. «Vuoi dire che non sono stati solo il cambiamento di clima e l'aria di montagna salubre e pulita a guarirlo», osservò. Jerry scosse la testa. «Magari fosse stato tanto semplice. Ma non lo è stato per niente. Ames ha trovato che Robb aveva un sacco di cose che non
andavano. Non era solo l'asma... aveva dei problemi alle ossa che avrebbero potuto favorire la formazione di un tumore, e fin da piccolo aveva avuto uno sviluppo piuttosto lento. La teoria di Ames era che fosse tutto legato al modo in cui il corpo di Robb trattava certe vitamine.» Sorrise. «E, come certamente hai notato, è tutto sistemato.» Le implicazioni erano chiare, e Blake non ebbe bisogno che Jerry gliele indicasse esplicitamente. «Ma è un centro sportivo, e tu sai come la pensa Mark degli sport.» Jerry si mostrò sorpreso. «Non siete tu e Mark che vedo sul campo tutte le domeniche pomeriggio? Mi sembra che potrebbe stare cambiando.» Blake alzò le spalle con studiata indifferenza, poco disposto a rivelare perfino ad Harris le sue speranze che forse Mark, dopo tutto, avrebbe seguito le proprie orme. «È un po' piccolo per la squadra di qui, non credi? Voglio dire, tutti i vostri ragazzi sono così grandi e grossi che metterebbero sotto Mark in un niente.» «Esattamente», rispose Jerry deponendo il bicchiere. «E so che in realtà non sono affari miei, ma ho parlato di Mark a Marty Ames... della febbre reumatica e di tutto il resto. Sono arrivato al punto di fargli mandare la cartella clinica di Mark.» Blake si accigliò. «A parte il fatto che pensavo che le cartelle cliniche fossero riservate, perché hai voluto fare una cosa simile?» «Perché volevo sentire l'opinione di Marty prima di parlare con te. Non volevo suscitare delle speranze per poi non arrivare a niente.» Blake depose il proprio drink. «Va bene», disse. «E allora, tanto per parlare, che cosa ha detto?» Jerry Harris lo guardò negli occhi. «Crede di poter aiutare Mark. Non crede che i problemi derivati dalla febbre reumatica debbano essere permanenti, e pensa di poter riportare alla normalità il ritmo di sviluppo di Mark.» Blake assunse un'espressione perplessa. «Sei sicuro?» «Assolutamente», rispose Jerry «Ha scoperto una variante del complesso vitaminico con cui è stato curato Robb, ed e sicuro al novanta per cento che sarà efficace su Mark.» Blake fissò l'amico. Non c'era niente di quello che stava dicendo che avesse un senso. Se fosse esistito un simile complesso, lui e Sharon ne avrebbero sentito parlare. A meno che... «Mi stai dicendo che vuoi che qualcuno usi una medicina in fase sperimentale su Mark?» chiese.
Harris scosse la testa come se si fosse aspettato quella domanda. «Non è in fase sperimentale», rispose. «E non ha neanche niente a che fare con le medicine. È solo un nuovo modo di combinare certe vitamine per consentire al corpo di arrivare al suo pieno potenziale. Tutto quello che fanno le vitamine è agire come una specie di grilletto, liberando degli ormoni che sono presenti ma non completamente funzionali.» Vedendo il dubbio negli occhi di Blake, continuò: «Credi veramente che avrei lasciato che il dottor Ames desse a mio figlio un prodotto in cui non avevo completa fiducia? È mio figlio, Blake, non un porcellino d'India.» «Be', non so», rispose Blake. «Ma certo vale la pena di pensarci. E vorrei vedere tutta la documentazione in proposito. «Sorrise con un po' di imbarazzo. «Non sono un medico, ma dopo tutti i problemi che ha avuto Mark posso dire di saperne di più della media, sui problemi della crescita.» «Come Elaine e io sapevamo tutto quello che c'era da sapere sull'asma», assentì Harris. «Troverai tutto il materiale sulla tua scrivania lunedì mattina. E poi potresti andare a parlare di Mark con Ames. Ascoltalo, poi deciderai. Pochi minuti dopo la conversazione toccò altri argomenti, ma Blake ascolto appena, perché riandava continuamente con il pensiero a quello che gli aveva detto Harris. E ricordava i rumori che aveva sentito provenire dalla camera di Mark nelle ultime settimane. Il rumore del respiro affaticato di Mark mentre lottava con le flessioni e gli esercizi addominali, e i deboli grugniti che erompevano dalla gola del ragazzo mentre si allenava con i pesi. Se c'era davvero un modo di aiutarlo... Forse non avrebbe aspettato fino a lunedì. Forse sarebbe andato in ufficio il giorno dopo e avrebbe dato un'occhiata alla documentazione di Ames. Erano le dieci e mezzo passate da poco quando Linda e Mark uscirono dal piccolo caffè e si avviarono verso casa. Avevano ancora tempo sufficiente perché Mark accompagnasse a casa Linda senza mancare al coprifuoco delle undici, ma camminarono in fretta. Si era alzato il vento, e Mark rialzò il bavero mentre il fresco della notte gli faceva pizzicare la guance. «Ancora non credo che Jeff sia arrabbiato con te», sentì che Linda diceva mentre gli infilava la mano nella tasca della giacca e intrecciava le dita
con le sue. «Non ha detto niente, vero?» «Non ne ha avuto il tempo», le rispose Mark, e non per la prima volta. «Stava correndo. Ma credimi, aveva una faccia che mi ha fatto venire una fifa blu. Aspetta lunedì, quando avrò sviluppato la pellicola. Vedrai.» Girarono l'angolo lasciando Colorado Street. Lì la notte sembrava più fonda, con solo poche pozze di luce gialla che punteggiavano il marciapiede. Istintivamente, Mark si guardò intorno, poi si sentì stupido. Erano a Silverdale, si disse mentre continuavano a camminare, non a San Francisco, o perfino a San Marcos. Ma dopo che ebbero percorso quasi due isolati una figura uscì da un cespuglio pochi metri davanti a loro. Linda e Mark si fermarono, allarmati ma non ancora impauriti. La figura fece un passo verso di loro. «C-Chi è?» chiese Mark. La figura non disse niente, ma mentre si avvicinava sia Linda sia Mark capirono improvvisamente chi era. «Jeff?» chiese Linda. «Sei tu?» Ancora non ci fu nessuna risposta, poi la figura entrò nel fascio di luce di un lampione e Linda e Mark videro bene il viso di Jeff. I suoi occhi erano privi di espressione, e i suoi pesanti lineamenti erano distorti per la collera. Ai suoi fianchi le sue grandi mani si stringevano già a pugno. «Oh, Gesù», sussurrò Mark. «Andiamocene via di qui.» Con Linda al suo fianco, Mark si girò di scatto e corse verso Colorado Street e verso le vivide luci che fiancheggiavano i suoi marciapiedi. Là ci sarebbe stata della gente; gli altri studenti che uscivano dal caffè e gli spettatori usciti dal cinema sull'altro lato della piazza. Mentre correva ansimava forte, e il suo cuore sembrava impazzito. Linda si teneva al passo con lui, ma poteva sentire i piedi di Jeff che battevano pesantemente il marciapiede, sempre più vicini a ogni secondo che passava. Dovevano percorrere ancora un isolato e mezzo. Era troppo lontano. Improvvisamente Jeff gli si abbatté contro dalle spalle. Lasciando andare la mano di Linda, le urlò di continuare a correre, poi crollò al suolo mentre i furiosi colpi di Jeff LaConner gli percuotevano lo stomaco. 10
«Smettila!» gridò Linda. «Jeff, che cosa stai facendo?» Mark era steso al suolo, a faccia in giù, e Jeff LaConner gli stava a cavalcioni e lo tempestava di pugni. Linda gridò di nuovo a Jeff di piantarla, e quando sembrò che lui non la sentisse nemmeno, cercò di staccarlo da Mark. Jeff alzò un braccio e lo agitò furiosamente, colpendo Linda alle costole. Stordita, cadde anche lei sul marciapiede, poi si alzò faticosamente in piedi, senza fiato. Con gli occhi pieni di lacrime e una mano stretta contro le costole indolenzite percorse a fatica il resto dell'isolato e voltò in Colorado Street. «Aiuto!» gridò, ma anche a lei stessa la sua voce sembrò un rauco sussurro. Si fermò per un attimo, reggendosi a un lampione, lottando per riempire d'aria i polmoni. Poi gridò ancora; «Aiuto! Che qualcuno mi aiuti, per favore!» A un isolato di distanza vide tre ragazzi che uscivano dal caffè e agitò freneticamente il braccio verso di loro. Per un orribile istante pensò che stessero dirigendosi dalla parte opposta, poi la videro e un attimo dopo suo fratello e due dei suoi amici stavano correndo verso di lei. «Laggiù», ansimò indicando la buia strada laterale. «È Jeff! È diventato matto! Sta picchiando Mark!» Robb Harris fissò la sorella senza capire, finché nella sua mente apparve all'improvviso l'immagine di Jeff quando, quella stessa sera, l'aveva visto fissare Mark e Linda tremando in tutto il corpo, con il viso in fiamme per la rabbia. «Merda», esclamò. «Chiama papà», disse a Linda, poi gridò ai suoi amici: «Andiamo!» Con Pete Nakimura e Roy Kramer che lo seguivano, Robb sfrecciò lungo il marciapiede verso il punto in cui riusciva già a vedere Jeff e Mark che lottavano a terra. Linda, con le costole che cominciavano a farle male, corse lungo Colorado Street verso il caffè vivacemente illuminato, entrò barcollando e si diresse verso il telefono a gettone. Fu solo quando cercò un quarto di dollaro che si rese conto che non aveva più il portafoglio. Con un singhiozzo di delusione si voltò verso il banco in fondo al locale, dove Mabel Harkins stava contando lentamente i soldi dell'incasso. Tranne Mabel, il caffè era vuoto. «Mi dispiace, tesoro, è chiuso», disse Mabel, alzando un attimo gli occhi mentre Linda si avvicinava al banco. Poi smise di contare e la fissò. «Gesù, tesoro, che cosa ti è successo?» Linda ignorò la domanda. «Posso usare il tuo telefono, Mabel? Devo chiamare mio padre.»
Mabel passò immediatamente a Linda il telefono che stava vicino alla cassa, ma la ragazza, con le mani che tremavano forte, non riuscì a premere i pulsanti. Mabel riprese l'apparecchio. «Faccio io», disse. «Qual è il numero?» Jerry Harris rispose al terzo squillo. «Sono Mabel Jerkins», disse la cameriera. «Del caffè.» Senza aspettare che Jerry dicesse qualche cosa continuò: «C'è qui Linda, Jerry, ed è stravolta. Un momento.» Passò il telefono a Linda e ascoltò mentre la ragazza cercò di raccontare al padre quello che era successo. «Non so perché l'abbia fatto», concluse Linda. «Stavamo camminando per la strada e lui è sbucato fuori davanti a noi. Era come se ci aspettasse, più o meno. Ad ogni modo Robb e qualche altro ragazzo stanno cercando di farlo smettere. Puoi venire, papà?» Ascoltò per un momento, poi disse a suo padre dov'erano Jeff e Mark. Infine riattaccò, con le mani che le tremavano ancora. Mabel le diede un bicchier d'acqua. «Prendi, tesoro», disse. «Adesso mettiti a sedere e bevi questa e cerca di calmarti.» Ma Linda scosse la testa. «Non posso. Devo... Devo tornare là. Non posso lasciare Mark da solo...» «Non è da solo», disse con decisione Mabel. «E non c'è niente che tu possa fare, adesso. Mettiti a sedere per un po' e calmati, poi andremo a vedere tutt'e due che cosa sta succedendo.» Quando riattaccò Jerry Harris sembrava sconvolto. «Che cosa c'è?» chiese Blake Tanner. «Che cosa sta succedendo?» «Non lo so, esattamente», rispose Jerry. Già in piedi, con Blake dietro di lui, andò in soggiorno dove riferì a Blake e a sua moglie quello che gli aveva detto Linda. «Oh Signore», sussurrò Elaine. Guardando Blake, disse: «Tu va con Jerry, e io chiamerò Sharon.» Quando i due uomini uscirono in fretta nella notte stava già prendendo in mano la cornetta del telefono. Per due volte Mark era riuscito a divincolarsi dalla stretta di Jeff, ma non gli era servito a niente. Nessuna delle due volte era riuscito ad allontanarsi più di un paio di metri prima che Jeff lo placcasse di nuovo. In quel momento, mentre veniva tempestato di pugni, rinunciò a cercare di sfuggire al ragazzo più grande e si limitò a fare del proprio meglio per difendersi dalla pioggia di colpi che sembravano arrivare da tutte le direzioni.
Il naso gli sanguinava, e sentiva in bocca il salato sapore del sangue. Pensava di avere anche un taglio sopra l'occhio sinistro, e le orecchie gli ronzavano ancora per un colpo che aveva ricevuto in testa. In quel momento Jeff era di nuovo sopra Mark con gli occhi vuotamente fissi sull'oggetto della propria furia. La sua mente aveva quasi cessato di funzionare, ma mentre sentiva i propri pugni martellare di colpi Mark, Jeff si sentì invadere da un senso di soddisfazione. Gliel'avrebbe fatta vedere, al piccolo deficiente... l'avrebbe fatta vedere a tutti! Pochi attimi dopo, quando Robb Harris, Pete Nakimura e Roy Kramer arrivarono sulla scena, Jeff non si rese nemmeno conto della loro presenza, tanto era impegnato a picchiare Mark. Né sentì la voce di Robb che gli gridava: «Che cosa diavolo stai facendo, Jeff? Lo ammazzerai!» Robb fissò le figure che lottavano, a stento riconoscibili nell'oscurità. Non era nemmeno una lotta, vide subito, perché Mark, inchiodato al suolo, faceva poco più che riparare il viso. E sembrava che Jeff, con il volto stravolto in una irriconoscibile maschera di furia irrazionale, non si rendesse nemmeno conto di quello che stava facendo. Era come osservare un cane che stesse azzannando un topo mezzo morto, pensò Robb con una sensazione di disgusto. Si aspettò che da un momento all'altro Jeff sollevasse Mark e cominciasse a scuoterlo. «Aiutami!» gridò a Pete Nakimura. «Dobbiamo staccarlo da Mark.» Mentre dall'altra parte della strada si accendeva la luce di una veranda, e poi di un'altra più in giù nell'isolato, Robb si avvicinò a Jeff e gli afferrò un braccio. Con un rapido movimento Jeff si divincolò dalla stretta di Robb poi gli tirò un pugno, colpendolo alla mascella. Robb urlò per l'acuto dolore e si fece indietro, toccando istintivamente con la mano il punto colpito. Il primo colpo di Jeff contro Pete Nakimura prese l'altro ragazzo sull'occhio sinistro. Roy Kramer si gettò sulla schiena di Jeff, stringendogli il collo con le braccia. Mentre la presa di Roy si faceva più stretta, Jeff sembrò esitare un momento e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Poi un gorgoglio strozzato di rabbia gli eruppe dalla gola. Con uno sforzo si sollevò in piedi, tenendo Roy Kramer sulla schiena. Si girò di scatto, come se si aspettasse di trovare dietro di sé il suo nuovo avversario, poi si lasciò cadere al suolo e si rovesciò. Mentre il suo peso schiacciava Roy, le braccia dell'altro ragazzo allentarono la presa per un attimo, e improvvisamente Jeff fu libero. Si voltò
ancora, poi si accucciò al suolo. Girò gli occhi, che luccicavano alla luce del lampione, da Robb a Pete, poi di nuovo a Roy, che steso sulla schiena cercava di riprendere fiato. Mark Tanner, gemendo per il dolore, si era rannicchiato con le ginocchia strette contro il petto. Dalle case dell'isolato stava uscendo della gente, e la notte cominciava a riempirsi di grida mentre le persone si chiedevano l'una all'altra che cosa stava succedendo. Jeff girò la testa e vide la folla che si stava radunando. Poi emise dalla gola uno strano suono animalesco e se ne andò, correndo lungo un vialetto e sparendo dietro l'angolo di una casa. Jerry Harris svoltò in Pueblo Drive e fermò immediatamente la macchina. A pochi metri di distanza si stava radunando una folla, e vide Robb che si massaggiava la mascella, in piedi in mezzo al prato di una casa lì vicino. Blake Tanner era già sceso dalla macchina e stava correndo verso Robb. Fu solo quando Blake cadde in ginocchio vicino a lui che Jerry si rese conto che la forma scura ai piedi di Robb doveva essere Mark. Corse verso il figlio lasciando il motore al minimo. «Che cosa è successo?» chiese. «Stai bene?» Robb annuì, ma per un momento non disse niente. Quando finalmente parlò la sua voce tremava. «È stato... pazzesco», sussurrò. «Jeff lo tempestava di pugni e non si fermava...» «Dov'è?» chiese bruscamente Blake. «Se ne è andato», gli rispose Robb. «È stato veramente strano, papà. Alla fine Roy gli è saltato addosso alle spalle e l'ha staccato da Mark, ma poi lui si è rotolato e Roy l'ha dovuto lasciare. E allora ha cominciato a guardarci come se non sapesse nemmeno chi eravamo. Poi si è messo a correre.» Robb indicò le due case tra cui Jeff era fuggito e Jerry annui. «Okay», disse. Diede una rapida occhiata alla folla che si stava radunando, poi riconobbe un dipendente della TarrenTech. «Chiami un'ambulanza», disse all'uomo. «Poi raduni un po' di persone e vediamo se possiamo trovare Jeff LaConner. E qualcuno chiami i suoi genitori», disse a nessuno in particolare, ma quasi immediatamente una donna si staccò dalla folla che circondava Mark e attraversò in fretta la strada. Infine Jerry raggiunse Blake Tanner accanto a Mark. «Sta bene?» Blake alzò gli occhi con il volto teso per la rabbia. «Come può stare bene uno a cui sanguina il naso, che ha il viso tagliato e un occhio gonfio? E
dove diavolo è quel LaConner?» «Su, sta' calmo'», rispose Jerry. «Pensiamo a una cosa per volta e cerchiamo di sistemare tutto. E la cosa più importante è Mark. Ho fatto arrivare un'ambulanza, nel caso in cui ce ne sia bisogno.» Mark, al suolo, si mosse e aprì leggermente l'occhio destro. «Pa-pa-pà?» chiese. «Sei tu?» «È tutto a posto, Mark», gli assicurò Blake. «Io sono qui, ed è tutto finito. Starai bene.» Mark emise un singhiozzo, in parte di dolore, in parte di puro e semplice sollievo. Lentamente, come se avesse paura di andare in mille pezzi, distese le gambe. Poi senza quasi preavviso si girò, si sollevò sulle mani e sulle ginocchia e vomitò. Dopo qualche conato di vomito tossì e si lasciò ricadere sul prato. Qualcuno, percependo l'imbarazzo di Mark, si girò dall'altra parte. In lontananza si sentì il lamento di una sirena, e un paio di minuti dopo la strada si riempì di luci intermittenti mentre l'ambulanza girava l'angolo e si fermava accanto al marciapiede con grande stridore di freni. Quando aprì la porta anteriore a Elaine Harris, Sharon Tanner era pallida in viso. «Dov'è?» chiese. «Dov'è Mark?» «Mettiti il soprabito e andiamo», le disse Elaine. «Jerry e Blake sono già là. Tutto si sistemerà, ne sono certa.» Sharon allungò una mano per prendere il soprabito, poi le venne in mente Kelly, che era in camera sua profondamente addormentata. «Un momento», disse. «Devo prendere con me Kelly.» Mentre Elaine aspettava nell'ingresso Sharon salì in fretta le scale e riapparì un attimo dopo. Kelly la seguiva, ancora in pigiama, cercando di allacciarsi la cintura di una vestaglia. «Ma dove stiamo andando, mamma?» chiese. «Non preoccupartene, tesoro», le rispose Sharon. Scese in fretta le scale e si infilò il soprabito. «Andrà tutto bene. Andiamo a fare un giretto, ecco tutto.» Kelly, ancora assonnata, seguì la madre fino alla giardinetta degli Harris e si arrampicò nel sedile posteriore. Mentre Sharon si sedeva davanti Elaine accese il motore e ingranò la marcia. Quando la donna premette l'acceleratore la macchina balzò in avanti, e ben presto furono fuori dal vialetto d'accesso. «Che cosa è successo?» chiese Sharon mentre procedevano lungo la
strada. «Perché Jeff avrebbe voluto picchiare Mark?» Elaine scosse la testa. «Proprio non lo so»», rispose. «A meno che non abbia rimuginato su Linda per tutto questo tempo. Ma non è da Jeff. È sempre stato un bonaccione...» Poi tacque, mentre entrambe ricordavano contemporaneamente il loro incontro con Charlotte LaConner al Safeway, un paio di settimane prima. In un paio di minuti arrivarono in Pueblo Drive ed Elaine fermò la giardinetta dietro la macchina di Jerry. Dicendo a Kelly di restare in macchina, Sharon aprì lo sportello e balzò fuori. Esaminò velocemente la folla, poi individuò Blake che stava in piedi vicino a Jerry Harris. Vicino a loro due infermieri vestiti di bianco stavano adagiando delicatamente Mark su una barella. «Mio Dio», sussurrò Sharon. Mettendosi a correre, si fece strada fra la folla di astanti, poi dovette afferrare il braccio di Blake per reggersi quando guardò il viso tempestato di colpi di Mark. Represse il grido che le si era formato in gola, poi si lasciò cadere in ginocchio e sfiorò delicatamente il viso del figlio. «Mark?» chiese. «Tesoro? Mi senti?» Mark aprì l'occhio sinistro e si sforzò di accennare un sorriso. «Credo... Credo di non aver rispettato il coprifuoco, vero?» riuscì a dire. Sharon venne invasa da un'ondata di sollievo e gli diede un colpetto sulla mano che era appoggiata al petto. «Non preoccuparti per quello», disse. «Stai bene? Ti fa molto male?» Mark deglutì e mosse leggermente le spalle come per alzarle. «Sei mai stata investita da un autobus?» chiese. Sharon si sentì venire le lacrime agli occhi e scosse la testa. «Be', se ti viene la curiosità di sapere com'è mettiti a fare a pugni con Jeff LaConner.» Poi chiuse di nuovo l'occhio e gemette mentre i due infermieri lo sollevavano dal suolo e si avviavano verso l'ambulanza. Sharon camminò a fianco della barella e Blake si mise dall'altra parte, ma nessuno dei due parlò finché la barella non venne messa dentro il veicolo e gli sportelli non vennero chiusi. «Dove lo portate?» chiese Sharon. Uno degli infermieri le sorrise. «All'ospedale della contea, signora. Non si preoccupi... non sta male come sembra. Forse un paio di punti sopra l'occhio sinistro e una fasciatura alle costole. Ma presto starà bene.» Sharon sospirò per il sollievo. Poi, mentre si guardava intorno, si rese conto che c'era qualche cosa che non andava. Si accigliò e si voltò verso Blake. «Dov'è la polizia?» chiese.
Fu Jerry Harris, che era un paio di passi dietro a Blake, a risponderle. «È stata solo una baruffa tra due studenti delle superiori, Sharon. Non ho creduto che ci fosse bisogno della polizia.» Sharon lo guardò furiosa. «Vuoi dire che nessuno l'ha chiamata?» chiese con voce incredula. Jerry Harris alzò le sopracciglia incerto. «Andiamo, Sharon, cose come queste succedono in continuazione...» «E quando qualcuno viene picchiato duramente come Mark questa sera si chiama la polizia!» lo interruppe Sharon. «E dov'è Jeff LaConner? Che cosa ha fatto, se ne è semplicemente andato?» «È scappato, tesoro», disse Blake cercando di calmarla. «Sono arrivati Robb e qualche altro ragazzo, e Jeff è scappato.» «Ma lo troveremo», le assicurò Jerry. «Probabilmente adesso sarà a casa a cercare di spiegare ai suoi quello che è successo.» L'espressione di Sharon si irrigidì ancora di più. «Farà ben di più che dare spiegazioni ai suoi», disse. «Ne darà anche alla polizia. La chiamerò appena arrivo in ospedale. E allora scopriremo che cosa è successo esattamente questa sera.» «Sappiamo che cosa è successo», cominciò Jerry, ma ancora una volta Sharon lo interruppe. «Sappiamo che Jeff LaConner ha picchiato un ragazzo che è quasi la metà di lui», disse. «E non mi importa quale provocazione Jeff pensasse di avere subito. Non la passerà liscia.» «Tesoro, nessuno ha detto questo»? intervenne Blake. «Ma pensiamo a una cosa alla volta, okay? Va' all'ospedale con Mark, e io farò un giro con Jerry. Quando sapremo esattamente che cosa è successo cominceremo da lì.» Sembrò che Sharon volesse aggiungere qualche cosa, poi sembrò cambiare idea. Uno degli infermieri aprì di nuovo le sportello e lei salì e si accoccolò accanto al figlio. Un attimo dopo l'ambulanza partì, velocemente ma senza azionare la sirena. 11 Al sergente Dick Kennally sembrava che mezza Silverdale avesse cercato di stiparsi nella minuscola sala d'aspetto dell'ospedale della contea. Quando, poco più di un'ora prima, aveva sentito il lamento della sirena dell'ambulanza si era quasi aspettato che squillasse il telefono per chiamarlo
sul luogo di un incidente automobilistico. Ma il telefono era rimasto muto. Aveva deciso che il motivo per cui c'era stato bisogno dell'ambulanza non riguardava la polizia ed era ritornato alle parole crociate su cui aveva lavorato con poco entusiasmo da quando aveva cominciato il turno, alle quattro del pomeriggio. In realtà quando era arrivata la telefonata, poco dopo le undici, aveva dimenticato del tutto la sirena. Che diamine, situazioni come quella dovevano sempre succedere proprio prima della fine del turno? si era chiesto mentre si recava all'ospedale. Perché la gente non poteva aspettare sin dopo mezzanotte, per chiamare la polizia? Wes Jenkins, che di solito faceva il secondo turno di notte, si lamentava sempre che non aveva niente da fare. Ma naturalmente dopo dieci anni nella minuscola forza di polizia di Silverdale Kennally conosceva la risposta: a mezzanotte la maggior parte della città era già a letto, e quelli che erano ancora alzati non erano certo tipi da chiamare la polizia. Erano piuttosto i tipi per cui l'avrebbero chiamata gli altri. Quando arrivò fu sorpreso vedendo insieme ai Tanner Jerry Harris con la moglie e i figli. Harris cercò di spiegare quello che era successo, ma mentre ascoltava le parole di Jerry si trovò ad osservare Sharon Tanner. Gli occhi le lampeggiavano per una rabbia a stento repressa, e parecchie volte era sembrata sul punto di interrompere Harris. Ogni volta il marito l'aveva fermata. Finalmente, dopo che Harris gli ebbe delineato brevemente la situazione, Kennally si rivolse a Linda Harris. «Puoi dirmi che cosa è successo esattamente?» chiese con voce cortese. Linda alzò le spalle in segno d'impotenza. Aveva il viso pallido e le guance rigate di lacrime. «Non so che cosa è successo», disse con aria infelice. «Stavamo semplicemente camminando per la strada verso casa mia, e Jeff è uscito da un cespuglio. Era... be', era quasi come se ci aspettasse. In principio non abbiamo pensato a niente, ma poi abbiamo visto la sua faccia...» Smise di parlare e rabbrividì violentemente. «La sua faccia?» ripeté Kennally. «Che cosa aveva?» Linda cercò di trovare le parole adatte. «Non so, sembrava impazzito. Aveva gli occhi privi di espressione, come se non sapesse davvero chi eravamo. È stato Mark a pensare che ce l'avesse con noi. Ci siamo spaventati e abbiamo cominciato a correre, ma Jeff ci ha raggiunti subito.» «Perché?» chiese seccamente Kennally. «Perché era arrabbiato con Mark Tanner? Che cosa ha detto?» Linda scosse la testa. «Niente. Non ha detto assolutamente niente. È stato... be', è stato davvero tremendo. È saltato addosso a Mark e ha comin-
ciato a picchiarlo.» Kennally si morsicò pensosamente il labbro inferiore. «Uscivi con Jeff, non è vero?» chiese. Linda esitò, poi annuì. «Ma è finita settimane fa. Jeff si è arrabbiato con me quando gliel'ho detto, ma poi gli è passata. Da allora è stato normale.» «Non è vero», intervenne Robb Harris. Fino a quel momento era stato zitto, seduto tranquillamente vicino al padre Quando Kennally lo guardò interrogativamente Robb cercò di raccontargli quello che era successo in precedenza al raduno di preparazione della partita. «Era strano», concluse Robb un paio di minuti dopo. «È come ha detto Linda... i suoi occhi erano come senza espressione, e li fissava come se volesse ammazzarli o qualche cosa di simile. Poi all'improvviso è ritornato normale. Dopo, negli spogliatoi, si è comportato come se non fosse successo niente.» Kennally aggrottò profondamente le sopracciglia. Sulle prime, ascoltando Jerry Harris, aveva pensato che forse la zuffa non fosse stata niente di più di un bisticcio tra studenti. Ma in quel momento... Sospirò profondamente e infine si voltò verso Sharon Tanner, che l'aveva chiamato appena era arrivata in ospedale, esattamente come aveva promesso a Jerry Harris. «È sicura di voler sporgere denuncia?» le chiese, anche se l'espressione che lei aveva sul volto rispondeva abbastanza chiaramente a quella domanda. Fu sorpreso di leggere negli occhi di Sharon un certo grado di incertezza. «Non... non ho detto questo», rispose. «Ma credo proprio che lei dovrebbe parlargli. Sono disposta ad ascoltare la sua versione della storia, e allora potremo decidere che cosa fare. Però se quello che hanno detto Linda e Robb è vero bisogna assolutamente fare qualche cosa.» Kennally annuì con riluttanza. Jeff LaConner gli piaceva... gli era sempre piaciuto. Era un peccato doverlo fermare, quella sera. Sabato, dopo tutto, era un giorno di partita, e senza Jeff... Eppure, non aveva scelta. Entrando nel piccolo ufficio adiacente alla sala d'aspetto per prima cosa chiamò Chuck LaConner, che gli disse che Jeff non era ancora ritornato a casa. Kennally raccontò in breve a Chuck che cosa era successo, e sentì LaConner imprecare piano. «Come sta Tanner?» chiese Chuck un attimo dopo. «Non lo so», rispose Kennally. «MacCallum sta ancora visitandolo.» Abbassò la voce e voltò le spalle alla vetrata che dava sulla sala d'aspetto... «Se fossi in te, Chuck, verrei subito qui. La signora Tanner è molto sconvolta, se capisci cosa voglio dire.»
Vi fu solo una brevissima pausa prima che Chuck LaConner rispondesse che sarebbe arrivato in pochi minuti. Poi Kennally chiamò il reparto di polizia e quando Wes Jenkins rispose, lo informò di quello che era successo. «Chiama qualcuno dei ragazzi», gli disse. «Dovremo andare a cercarlo.» «Qualche idea di dove potrebbe essere andato?» chiese Jenkins. «Direi di no. Ma non dovrebbe essere difficile rintracciarlo. Sappiamo in che direzione è andato dopo la zuffa.» Kennally finì di dare istruzioni al sergente in servizio notturno, poi lasciò l'ospedale. Ma dopo pochi isolati si fermò in un parcheggio deserto illuminato dalla debole luce di una cabina telefonica in un angolo. Entrato nella cabina, fece di nuovo il numero del reparto di polizia. «Wes? Sono ancora io. Un'altra cosa; di' ai ragazzi che se prendono Jeff LaConner voglio che lo portino dal dottor Ames alla clinica del centro sportivo.» «Da Ames?» rispose Jenkins. «Perché? Non sta bene?» Kennally esitò. «Non lo so», disse infine. «Ma ho una sensazione, okay? Adesso chiamo Ames, e se c'è qualche cambiamento te lo faccio sapere.» Riappese, poi rovistò nella tasca interna della giacca per cercare l'agendina con i numeri telefonici riservati che portava sempre con sé, sia in servizio sia fuori servizio. La sfogliò, lesse un numero stringendo gli occhi e inserì nel telefono un altro quarto di dollaro. Una voce assonnata gli rispose al sesto squillo. «Sì?» «Dottor Ames? Sono Dick Kennally, del dipartimento di polizia. Mi dispiace di doverla chiamare così tardi.» Istantaneamente dalla voce del dottore scomparve ogni traccia di sonno. «Che cosa c'è?» chiese. «E successo qualche cosa?» Kennally parlò per cinque minuti di seguito, consultando addirittura il suo taccuino per essere sicuro di non dimenticare nessun dettaglio. «Ho già detto a Jenkins di portare LaConner da lei se lo troviamo. Posso cambiare, se crede che sia meglio.» «No», rispose immediatamente Ames. «Hai fatto bene. Farò preparare una équipe per accoglierlo, e tienimi informato. E, Dick», aggiunse. «Sì.» «Sta' attento», gli disse Ames. «Da quello che hai detto sembra un caso come quello di Randy Stevens. E se è così Jeff LaConner deve essere considerato pericoloso.»
Kennally tacque per un momento, poi grugnì e riattaccò. Ames credeva davvero di avergli detto qualche cosa che lui non sapesse già? Anche in quel momento, quasi un anno dopo gli avvenimenti, ricordava ancora la sera in cui Randy Stevens era crollato. Era stata una sera tranquilla, a Silverdale, almeno fino alle undici circa, quando Kennally aveva ricevuto una telefonata dai vicini degli Stevens che riferivano di un disturbo alla quiete pubblica. Gli era sembrato strano, perché nei due anni in cui gli Stevens erano a Silverdale erano stati cittadini praticamente esemplari. Inoltre Randy era stato il ragazzo che gli altri genitori di Silverdale indicavano come modello ai loro figli. Bello, cortese, con voti magnifici, Randy era anche stato il campione della squadra di football. E non aveva mai creato neanche l'ombra di un problema né ai suoi genitori né a chiunque altro. Ma quella sera qualche cosa era scattato in Randy, e quando Kennally era arrivato dagli Stevens una piccola folla di astanti impauriti si era già radunata attorno alla casa. All'interno era evidente che si stava svolgendo un gravissimo litigio. Quando Kennally era entrato con la forza aveva trovato Phyllis Stevens che singhiozzava sul divano del soggiorno con il viso insanguinato. Nello studio Tom Stevens e Randy stavano lottando sul pavimento. Tranne che non era davvero una lotta, perché Tom era sdraiato sulla schiena e faceva del suo meglio per ripararsi dalla tempesta di colpi che suo figlio, a cavalcioni su di lui, gli infliggeva senza pietà. Kennally aveva capito subito che non era semplicemente un litigio, una discussione tra padre e figlio che aveva superato i limiti. Perché negli occhi di Randy c'era uno sguardo - una fredda assenza - che aveva detto a Kennally che il ragazzo non si rendeva nemmeno conto di quello che stava facendo. Aveva perso la testa e stava semplicemente picchiando chiunque fosse a portata di mano. C'erano voluti tre uomini per domare il ragazzo, che era stato finalmente portato via dalla casa legato su una barella. Su richiesta di Tom Stevens, Randy era stato portato alla clinica del centro sportivo e affidato alle cure di Marty Ames. La mattina dopo Randy era stato trasferito all'ospedale per malattie mentali di Canon City.
Anche se a Silverdale una cosa simile non era mai successa prima, Marty Ames aveva spiegato che non era poi tanto insolita. Randy, dopo tutto, era sempre stato troppo perfetto, aveva sempre corrisposto a ogni attesa dei genitori. Ma insieme alle attese c'erano state delle pressioni, e Randy non si era mai permesso di lasciarle sfogare. E così alla fine si era rivoltato contro i genitori, essendo completamente crollata la sua struttura emotiva. Aveva cercato di ucciderli. E c'era quasi riuscito. E in quel momento, quella sera, Kennally riusciva a vedere molto chiaramente il parallelo tra Randy Stevens e Jeff LaConner. Erano entrambi dei ragazzi di troppo successo. Mai che nessuno dei due si fosse messo nei guai, mai che nessuno dei due avesse mostrato di avere qualche problema. Quando Randy era scoppiato aveva quasi ammazzato suo padre. Quella sera, Jeff avrebbe effettivamente ucciso Mark Tanner? Kennally non lo sapeva, ma sospettava che avrebbe benissimo potuto farlo se ne avesse avuta la possibilità. E quindi avrebbe seguito il consiglio di Ames e avrebbe considerato Jeff LaConner estremamente pericoloso. Mac MacCallum sorrise in maniera incoraggiante a Mark Tanner, che era disteso di schiena sul lettino. Il torace del ragazzo era abbondantemente fasciato, ma Mac gli aveva assicurato che in realtà non aveva nessuna costola rotta. Però quattro erano incrinate, e MacCallum l'aveva avvisato che gli avrebbero fatto male per un po', specialmente se rideva, tossiva o starnutiva. In quel momento era all'opera sul viso di Mark, e stava ricucendo accuratamente il taglio sopra l'occhio destro. «Ancora un paio di punti e ho finito» disse. «Resisti?» Mentre l'ago penetrava ancora una volta nella pelle, Mark fece una smorfia. «Okay», disse a denti stretti. «A confronto di Jeff, questa è una pacchia.» Mac non parlò più finché non ebbe dato l'ultimo punto, legato il filo con un accurato nodo da chirurgo e coperto i punti con una benda. Mark cercò di sollevarsi a sedere, ma MacCallum lo fermò. «Rimani sdraiato. Voglio fare qualche altra radiografia. «Perché?» chiese Mark. «Non ho niente di rotto, vero?» «Niente che io possa vedere dall'esterno», assentì MacCallum. «Ma a giudicare da quello che è successo alla tua faccia e alle tue costole mi
sembra una buona idea dare un'occhiata.» In effetti, MacCallum era quasi sicuro che la mascella del ragazzo avesse subito una sottile frattura, e c'era anche una forte possibilità di lesioni interne, specialmente ai reni e alla milza. Si lavò le mani poi prese la cartella clinica di Mark e cominciò a scrivere delle istruzioni. Quando ebbe finito passò la cartella all'infermiera di turno, Karen Akers. «Si occupa lei di tutto?» Karen dette una veloce occhiata alla cartella, poi annuì. Scomparve nel corridoio e ritornò un momento dopo spingendo davanti a sé un lettino con le ruote. Tenendolo fermo vicino al lettino per le visite aiutò Mark a trasferirvisi. A quasi ogni movimento Mark fece una smorfia, ma quando finalmente ci riuscì si sforzò di sorridere all'infermiera. «Vede? Non è difficile. Potrei correre una dieci chilometri, se dovessi.» «Giusto», rispose seccamente Karen. «Ma il problema è se riesci a stare fermo mentre ti faccio la radiografia.» MacCallum li seguì nel corridoio, ma mentre loro girarono a destra verso la sala raggi lui prese l'altra direzione. Pochi secondi dopo entrava nella sala d'aspetto dove attendevano i Tanner e gli Harris. Nell'angolo più lontano riconobbe anche Chuck LaConner. «Sta bene?» chiese ansiosamente Sharon. MacCallum diede un'altra occhiata a Chuck LaConner, poi si rivolse a Sharon. «Tutto considerato, direi che non ha un aspetto troppo brutto. Descrisse i punti e le fasciature che aveva già eseguito e riassunse le ferite di Mark nel modo più rassicurante possibile. «Naturalmente», continuò, «voglio che questa notte rimanga qui, in modo da poterlo tenere d'occhio. Adesso gli stanno facendo i raggi e dopo che vedremo i risultati ne sapremo molto di più.» Alzando la voce, in modo da essere assolutamente sicuro che Chuck LaConner sentisse quello che avrebbe detto, aggiunse: «Francamente, considerato quello che gli è successo, è abbastanza in forma.» Gli occhi di Sharon si annebbiarono. «Considerando quello che gli è successo?» ripeté. «Che cosa vuole dire?» «Considerato che era Jeff LaConner quello in cui si è imbattuto», rispose gravemente MacCallum. «Il ragazzo che è venuto qui prima di lui non è stato così fortunato.» «Ehi, aspetti un momento», lo interruppe Chuck LaConner alzandosi in piedi e facendo un passo verso il dottore. «Tutti sanno che quello che è successo a Ramirez non è stata colpa di Jeff.» Sharon impallidì e guardò rapidamente prima LaConner poi il marito. «Rick Ramirez?» chiese con voce cupa. «Il ragazzo che è in coma?»
MacCallum fece un breve cenno di assenso. Improvvisamente Sharon sentì che le cedevano le gambe, ma si rifiutò di lasciarsi ricadere sul divano. Ancora più arrabbiata, si voltò verso Blake. «Credevo che mi avessi detto che Ramirez è stato vittima di un incidente», disse con una nota di incertezza nella voce, come se stesse cercando di raccogliere le idee. «È stato...» cominciò Blake, ma MacCallum lo interruppe. «Potrebbe essere stato», corresse. Gli occhi di Chuck LaConner erano in fiamme per la rabbia. Ma prima che potesse parlare Sharon Tanner lo assalì furiosa. «È quello che vuole che diciamo che è successo anche a Mark?» chiese bruscamente. «Che Jeff l'ha picchiato accidentalmente? E sua moglie, allora?» aggiunse con voce aspra. «È stato anche quello un incidente?» Blake fissò la moglie stupito. «Sua moglie?» ripeté. «Tesoro, di che cosa stai parlando?» «Sto parlando di Jeff LaConner», rispose Sharon, con voce aspra per l'ira. «Mark non è l'unica persona che ha picchiato, sai.» Si girò di nuovo a fissare Chuck LaConner. «O lei sostiene che è stato un incidente anche quello?» chiese bruscamente. Sembrò quasi che LaConner si ritraesse. «Non voleva», disse, ma la sua voce aveva assunto un tono di difesa. «Quella sera era sconvolto. Era la sera in cui lui e Linda hanno rotto...» «Ha fatto male anche a me, quella sera.» Anche se aveva detto quelle parole a voce bassa, in tono quasi di scusa, Linda Harris, seduta tranquillamente tra il padre e il fratello, attirò improvvisamente l'attenzione generale. «Ha fatto male anche a te?» chiese Jerry Harris. «Tesoro, non hai mai detto niente.» «Credo... credo di aver pensato che non fosse importante», rispose Linda con voce tremante. «Era davvero arrabbiato, e ha incominciato a scuotermi. Ma... be', quando ho urlato mi ha lasciato andare.» «E non ci hai mai detto niente?» chiese Elaine. «Ma cara, dev'essere stato terribile!» «Credo che non volessi metterlo nei guai. Quella sera è stato male, e dopo sembrava... be', sembrava a posto, credo.» «Bene, adesso è nei guai», affermò Sharon Tanner. «Credo che non diventerò molto popolare a Silverdale, con Jeff che è un campione della squadra di football e tutto il resto, disse senza cercare di nascondere il sar-
casmo della sua voce. «Ma anche se nessuno di voialtri farà niente io ho intenzione di mettere Jeff LaConner nei guai più che posso.» Si rivolse a Blake. «Lo denunceremo», disse. «Mi sembra che Jeff pensi di poter fare tutto quello che vuole perché è il campione della squadra. Charlotte mi ha detto questo anche lei, il giorno dopo che lui, l'ha sbattuta contro il muro.» Si voltò verso Chuck, con gli occhi pieni di sfida. «Questo è quello che è successo, non è vero, signor LaConner?» LaConner esitò, poi annuì. «E allora è tutto», disse piano Sharon. «Mi sembra che Jeff abbia bisogno di venire rinchiuso per un po', per farlo riflettere a lungo.» «E questo è quello che gli succederà, tesoro», le ricordò Blake «appena i poliziotti lo trovano.» «Davvero?» chiese Sharon. «O gli daranno solo una scoppola sulle mani e lo manderanno in campo, domani, perché cerchi di ammazzare qualcun altro?» Le sue parole fecero tacere tutti, nella sala d'aspetto. E quando qualche momento dopo Karen Ackers comparve per dire a MacCallum che le radiografie erano finite e che Mark era ritornato nella sua stanza, nessuno aveva ancora detto una parola. Ma mentre Blake si alzava per seguire Sharon fino alla camera del figlio, Jerry Harris gli mise una mano sul braccio e Tanner si fermò un momento. I suoi occhi incontrarono quelli di Jerry, e riuscì quasi a leggere nel pensiero del suo capo. «Lo so», disse con voce stanca. «Se Mark fosse stato più in forma questo non sarebbe successo. Non dico che sarebbe riuscito a battere Jeff, ma almeno avrebbe potuto difendersi.» Aveva pensato alla sua conversazione con Jerry quasi dal momento in cui aveva visto Mark steso inerme sul prato, un'ora prima. In quel momento aveva quasi preso una decisione. Jeff LaConner si accovacciò dietro un grande masso. Sulle prime aveva corso alla cieca, da un cortile buio all'altro, fermandosi solo pochi attimi per dare un'occhiata guardinga alle strade prima di attraversarle sfrecciando e ripararsi di nuovo nella tranquilla oscurità delle case. Era arrivato al limitare della città, poi aveva avanzato lungo la riva del fiume ed era arrivato al ponte pedonale. Fu il lamento della sirena dell'ambulanza che lo fece decidere, e attraversato in fretta il ponte iniziò a salire il sentiero che portava in collina. Non aveva difficoltà a vedere anche se la luna non era più di un quarto, e si muoveva agilmente, con la fatica per la zuffa, che ricordava solo vaga-
mente, che si dissipava mentre camminava a grandi passi lungo il sentiero. Infine arrivò al masso, e con un istinto quasi animalesco gli si accucciò contro, con la schiena attaccata alla pietra. Là aspettò e osservò. Per lungo tempo non successe niente, poi vide una macchina della polizia che girava per le strade, e che sparì verso l'ospedale della contea quasi un chilometro fuori città. Dopo un po' la macchina era tornata indietro e si era fermata un momento in un parcheggio buio. Poi era ripartita, e un attimo dopo l'aveva raggiunta un'altra auto. Era certo di sapere dove stavano andando, e non fu sorpreso quando si fermarono nell'isolato ormai quasi deserto dove aveva avuto luogo la zuffa. Gli stavano dando la caccia. Si ritrasse per farsi ancora vicino al masso. Wes Jenkins arrivò sulla scena della zuffa solo pochi minuti dopo Dick Connally. In macchina con lui c'erano Joe Rankin e, nello scompartimento separato della giardinetta bianca e nera, Mitzi, il grane cane poliziotto la cui funzione principale si era rivelata quella di fare compagnia al sergente durante il turno di notte, normalmente noioso. Ma quella notte sembrava che Mitzi sentisse che stava succedendo qualche cosa, e mentre scendeva con un salto dalla parte posteriore della giardinetta abbaiò entusiasticamente. Frank Kramer, il padre di Roy, era già lì, avendo percorso a piedi i tre isolati da casa sua dopo che Wes Jenkins gli aveva telefonato. «Roy dice che è andato da quella parte», disse Kramer mentre gli uomini gli si radunavano intorno. Indicò l'altra parte della strada, e Wes Jenkins si chinò per fissare al collare di Mitzi un grosso guinzaglio di cuoio. «Andiamo», disse. «Vediamo che cosa riesce a trovare.» Mentre Kramer e Jenkins conducevano il cane dall'altra parte della strada gli altri due uomini salirono nella giardinetta bianca e nera. Joe Rankin si mise al volante e Dick Kennally accese la radio sintonizzandola sulla frequenza della radio portatile che Kramer aveva con sé. «Ha già trovato una pista», gracchiò la voce di Kramer un attimo dopo. «Si dirige verso est.» Joe Rankin ingranò la marcia, fece un'inversione a U e si avviò lentamente lungo la strada, tenendosi all'altezza degli uomini che seguivano il cane attraverso i cortili posteriori. «Volta a nord», disse Kramer pochi secondi dopo. «Stiamo at-
traversando Pecos Drive.» L'inseguimento continuò, mentre Kramer teneva informati della sua posizione gli uomini nella macchina, con Rankin che faceva del proprio meglio per anticipare le loro mosse. Infine la macchina di pattuglia parcheggiò sulla strada a pochi metri dal ponte pedonale, dove Frank Kramer e Wes Jenkins aspettavano gli altri. Mitzi, strattonando il guinzaglio, voleva a tutti costi andare sul ponte. Kennally e Rankin scesero dalla macchina e raggiunsero i due uomini che si trovavano già vicino al ponte. «Non so», disse dubbiosamente Kramer, guardando nel buio dall'altra parte del ponte. «Perché avrebbe dovuto andare laggiù? L'unica cosa che potrebbe succedergli sarebbe di perdersi.» «Forse Mitzi sta seguendo un procione o qualcosa del genere», suggerì Jenkins. Ma Kennally scosse la testa. «Non credo. Penso che sia là, e che non ragioni molto bene. Andiamo.» Prendendo il guinzaglio dalle mani di Jenkins, Kennally si avviò verso il ponte. Il cane, con il naso vicino al suolo, uggiolava impazientemente. Al bivio tra i due sentieri al di là del ponte Mitzi non esitò neppure un istante. Si avviò decisamente lungo il sentiero di mezzo, e Kennally sentì che Frank Kramer sospirava. «Te l'ho detto che te la saresti spassata», gli disse girando la testa. «Forse sarai fortunato, questa notte, e potremo fare anche otto chilometri.» Mentre i lampioni della città svanivano dietro di loro, gli uomini accesero le torce elettriche e si avviarono lungo il sentiero, sparendo ben presto nella fitta oscurità del bosco. Mentre osservava le torce che si avvicinavano, Jeff strinse gli occhi. Riusciva a malapena a distinguere le sagome degli uomini che gli davano la caccia, ma aveva visto chiaramente il cane quando un raggio di luce aveva sfiorato per un attimo la sua forma flessuosa. Rimase vicino al masso per un momento, cercando di decidere che cosa fare. Ma aveva la testa confusa e non riusciva a pensare in modo chiaro. Infine, seguendo l'istinto, riprese a salire verso l'alto. Quasi subito il sentiero si fece bruscamente più ripido, e dopo pochi minuti Jeff cominciò ad ansimare. Ma si costrinse ad andare avanti. Poco dopo si sentì mancare un piede e provò un acuto dolore per una storta alla caviglia. Soffocando il grido che gli saliva dalla gola si abbassò
e massaggiò l'articolazione dolente. Sostò per un momento, poi si risollevò con fatica, appoggiando tutto il peso del corpo sulla gamba buona. Con circospezione cercò di fare un passo. Non riusciva a camminare. «Sarebbe meglio che fosse qui», borbottò Frank Kramer un quarto d'ora dopo. Erano usciti in una radura su un promontorio che guardava sulla città, e Mitzi stava fiutando freneticamente la base di un grande masso. Kramer si asciugò dalla fronte il velo di sudore e cercò di riprendere fiato, ripromettendosi in silenzio che dopo quella notte avrebbe cominciato seriamente la dieta e l'allenamento che aveva continuato a rimandare più a lungo di quanto non fosse disposto ad ammettere. Sembrava che gli altri tre uomini, notò, non avessero nemmeno il fiatone. «È quassù», rispose Kennally, dirigendo maliziosamente il raggio della torcia sul viso di Kramer. «Guarda che cosa fa Mitzi. Non mi meraviglierei se Jeff si fosse seduto qui per un po' a guardarci arrivare.» «Come posso guardare, con quella maledetta luce negli occhi?» borbottò Kramer. Poi soggiunse: «Per quanto tempo continueremo a cercare? Potrebbe essere in qualunque posto, quassù.» Kennally inclinò la testa in un gesto di indifferenza. «Dovunque sia, Mitzi riuscirà a trovarlo.» In quel momento il cane aveva lasciato il masso e tirava di nuovo il guinzaglio cercando di arrampicarsi per il ripido sentiero. I quattro uomini lo seguirono per altri dieci minuti, finché non si fermò di colpo, con il corpo irrigidito, mentre fissava il buio davanti a sé. Kennally diresse la torcia verso il sentiero, e tutti e quattro videro quello che stavano cercando. Era rannicchiato vicino a un altro masso, e nel bagliore delle torce sembrava che i suoi occhi scintillassero in modo innaturale. Mentre fissava in silenzio il ragazzo, la mente di Dick Kennally venne attraversata da uno strano pensiero. Un animale intrappolato. Sembra proprio un animale intrappolato. «Va bene, Jeff», disse ad alta voce. «Non ti faremo del male. Ti riporteremo solo in città.» Jeff LaConner non rispose niente, ma nel bagliore della torcia lo videro stringersi più vicino al masso, come per cercare rifugio. Kennally esitò un momento, poi parlò di nuovo, a voce più bassa. «Okay, ragazzi. Sparpagliamoci e avviciniamoci lentamente. Non voglio
che qualcuno si faccia del male.» Joe Rankin lo guardò con aria interrogativa. «Del male? Cristo, Dic, non è Charles Manson. È solo un ragazzo.» Ma Kennally scosse la testa, avendo ancora nella mente le parole di Martin Ames. «Fa' semplicemente quello che ti dico, va bene.» Kramer e Rankin si spostarono a sinistra e Wes Jenkins scivolò nel bosco sulla destra mentre Kennally avanzò lentamente lungo il sentiero, tenendo la torcia puntata su Jeff LaConner. Il ragazzo non batté ciglio, ma cominciò a muovere la testa facendola ondeggiare stranamente, in un modo che ricordò a Kennally un serpente che si prepara a colpire. Con la coda dell'occhio seguiva l'avanzata degli altri uomini, e quando essi si furono disposti a ventaglio, tagliando al ragazzo ogni possibile via di fuga, fece loro segno di avanzare. Cominciò a parlare a Jeff, usando i toni tranquillizzanti che avrebbe impiegato con un animale spaventato. Mentre Frank Kramer si avvicinava, Jeff stese improvvisamente il pugno destro, colpendolo alla spalla e facendolo indietreggiare barcollando. «Merda!» Sentì che Kramer esclamava. «Che cosa diavolo hai che non va?» Ma Jeff non sentì, con gli occhi fissi con circospezione su Wes Jenkins. Poi, mentre Joe Rankin si avvicinava dalla parte opposta, Kennally vide la buona occasione. «Adesso!» gridò, e balzò in avanti lasciando cadere la torcia. Jeff, ignorando la storta alla caviglia, si alzò faticosamente in piedi e si strinse più vicino al masso. Mentre i tre uomini gli si accostavano cominciò ad agitare i pugni. Ci vollero tutti e quattro gli uomini per domare l'adolescente che lottava con furia, e alla fine dovettero riportarlo giù dalla collina con le mani ammanettate dietro la schiena e con le caviglie legate da un altro paio di manette. Anche mentre lo trasportavano sul ponte e lo infilavano nella parte posteriore della giardinetta continuò a dibattersi tra le loro mani, dimenandosi furiosamente mentre cercava di sfuggire alla loro stretta. Dalla sua gola uscì una serie di urla selvagge, simili alle grida angosciate di un coyote la cui zampa sia stata presa in una tagliola. 12 «Che cosa diavolo ha che non va?» chiese Frank Kramer. Guardò nervo-
samente sopra la propria spalla. Nella parte posteriore della giardinetta Jeff LaConner stava ancora lottando contro le manette che gli bloccavano le mani e i piedi. La caviglia destra stava gonfiandosi rapidamente, e anche se l'anello metallico gli incideva profondamente la carne apparentemente sembrava non badare al dolore. Era rannicchiato nello stretto spazio dietro la robusta rete metallica, ma sotto gli occhi di Kramer il ragazzo si girò di scatto e diede un calcio alla barriera. La rete metallica si gonfiò leggermente ma resistette. Dalla gola di Jeff saliva uno strano lamento. «Una specie di esaurimento nervoso», rispose concisamente Dick Kennally. Stavano arrivando in città, e la strada si restrinse mentre si dirigevano a est verso la Rocky Mountain High, dove alcune luci risplendevano fiocamente nell'oscurità. Sentendo che Jeff urtava ancora una volta la rete metallica, fece una smorfia. Poi Mitzi, sollevandosi sul sedile tra Kramer e Joe Rankin, cominciò ad abbaiare. «Non puoi far stare zitto quel cane?» chiese Kennally. «E sempre meglio che ascoltare il chiasso che sta facendo il ragazzo», rispose acidamente Rankin. Poi, cogliendo l'occhiata di Kennally nello specchietto retrovisore, mise una mano sull'ispido collo del cane. «Buona, Mitzi» mormorò. «Non c'è niente di cui preoccuparsi.» L'abbaiare di Mitzi si placò in un basso ringhio, ma mentre la giardinetta accelerava e si lasciavano indietro la città, Rankin poteva ancora sentire la tensione nei muscoli del cane. Kennally rallentò e svoltò nel vialetto d'accesso del centro sportivo. Suonò il clacson, e il rumore soffocò per un momento gli angosciati lamenti di Jeff, ma già il cancello stava aprendosi. Kennally attese con impazienza, poi lanciò la giardinetta attraverso il varco anche prima che il cancello si aprisse del tutto. Mentre entrava a tutta velocità un guardiano gli fece cenno di recarsi nella parte posteriore dell'edificio. Si fermò davanti a una porta aperta. L'oscurità venne spezzata dall'aspro fulgore delle lampade alogene e scendendo dalla macchina Kennally dovette ripararsi gli occhi. Anche gli altri erano scesi nel vialetto d'accesso, ma Mitzi era rimasta dov'era, con gli occhi vigili fissi su Jeff LaConner. Il bianco splendore delle lampade aveva invaso l'interno dell'auto e sembrava che l'improvvisa illuminazione avesse avuto qualche effetto sul ragazzo, perché questi improvvisamente si era immobilizzato, con il collo piegato a un angolo innaturale, come se cercasse di sfuggire alla luce. Martin Ames, con un camice bianco sbottonato sul davanti che copriva solo in parte una camicia di flanella, uscì dalla porta e scrutò dentro l'auto.
Strinse le labbra in una linea sottile, poi diede un'occhiata a Kennally. «È stato molto brutto, Dick?» Kennally alzò le spalle, come per sminuire la lotta che aveva avuto luogo sulle colline mezz'ora prima. «Be', diciamo solo che non sembrava entusiasta di venire con noi», rispose infine. Fece un cenno agli altri tre uomini. «Portiamolo dentro.» Joe Rankin sollevò con cautela il portellone posteriore della giardinetta. Quasi immediatamente Jeff si girò e stese le gambe. Rankin scansò i calci del ragazzo e con l'aiuto di Wes Jenkins gli bloccò le gambe sul pavimento della macchina. Un attimo dopo Kennally e Kramer avevano afferrato le braccia di Jeff. Mentre il ragazzo lottava ancora per liberarsi, lo trasportarono dentro l'edificio. «Lì dentro», disse Ames accennando a una porta aperta pochi metri più in là lungo il corridoio. I quattro poliziotti portarono Jeff in una piccola stanza dalle bianche pareti illuminate a giorno da tubi fluorescenti. Al centro della camera c'era un grande tavolo con delle pesanti cinghie di rete metallica alle estremità. Mentre due infermieri le scostavano, i poliziotti deposero Jeff sul tavolo. Gli infermieri legarono velocemente al tavolo le gambe di Jeff, immobilizzandole. Solo allora Kennally tolse le manette dalle caviglie del ragazzo. «Okay», disse Ames. «Adesso togli le manette dai polsi.» Appena ebbe le braccia libere, Jeff si sedette di colpo e cominciò a tirare pugni agli uomini che gli stavano intorno. Kennally e Jenkins si spostarono dietro di lui e afferrandogli ognuno una spalla riuscirono a distenderlo. Lo tennero fermo mentre anche le braccia, come le gambe, venivano fissate al tavolo con le pesanti cinghie. I due uomini si allontanarono solo quando furono sicuri che Jeff era stato immobilizzato. Avevano la fronte imperlata di sudore, e le braccia di Jenkins tremavano per lo sforzo fatto nel lottare contro Jeff. «Va bene», disse Ames. «Penso che possiamo cominciare qui.» Si avvicinò a un armadietto contro la parete di fronte alla porta e prese una delle siringhe ipodermiche che si trovavano sul suo ripiano di smalto bianco. Uno degli inservienti strappò una manica della camicia di Jeff e Ames inserì abilmente l'ago in una vena. Sembrò che la medicina non facesse nessun effetto sul ragazzo, i cui occhi, spalancati e annebbiati, saettavano per la stanza come se cercassero una via di fuga. Fu solo dopo che Ames ebbe praticato la terza iniezione che Jeff comin-
ciò finalmente a cedere. Mentre il gruppetto attorno a lui stava a guardare, le forze sembrarono abbandonarlo. Infine lasciò cadere la testa sul duro metallo del tavolo e chiuse gli occhi. «Gesù,» esclamò infine Frank Kramer nell'improvviso silenzio che aveva invaso la stanza. «Non ho mai visto niente di simile. E spero di non vederlo mai più.» Marty Ames diede un'occhiata a Kramer. «Lo spero anch'io.» Un quarto d'ora più tardi, dopo che Dick Kennally e i suoi uomini ebbero lasciato la clinica, Marty Ames ritornò nella saletta delle visite. I due inservienti si trovavano ancora nel piccolo locale; uno stava togliendo a Jeff gli ultimi capi di vestiario, l'altro stava finendo di sistemare un complicato armamentario di dispositivi elettronici di monitoraggio. Mentre Ames osservava in silenzio cominciarono a fissare dei sensori sul corpo di Jeff. Solo quando ebbero finito e lui si fu accertato che le apparecchiature funzionassero adeguatamente e che Jeff non corresse alcun pericolo immediato, Ames si avviò verso il proprio ufficio preparandosi per la telefonata che doveva fare a Chuck LaConner. Riteneva queste telefonate la parte peggiore del suo lavoro. Ma facevano anche parte del patto che aveva fatto con se stesso cinque anni prima, quando Ted Thornton si era messo in contatto con lui per proporgli di dirigere il centro di medicina sportiva che aveva intenzione di fondare a Silverdale. Naturalmente Thornton l'aveva conquistato, come riusciva a fare con tanti uomini, ma nei momenti in cui Ames era completamente sincero con se stesso - momenti che diventavano sempre più rari mentre si stava avvicinando al successo che aveva ormai a portata di mano - doveva ammettere che era stato disposto a lasciarsi conquistare. Thornton gli aveva promesso il mondo, quasi letteralmente. Primo, un laboratorio che superava i suoi sogni più sfrenati, di gran lunga migliore di qualsiasi cosa che avrebbe potuto fornire l'Istituto per il cervello umano di Palo Alto. Tutto quello di cui poteva avere bisogno, tutto quello che voleva, gli sarebbe stato messo a disposizione. Fondi illimitati per le ricerche e un'autonomia quasi completa. Se avesse avuto successo un premio Nobel non era impossibile, e di certo sarebbe stato in grado di chiedere quello che voleva, sia professionalmente sia finanziariamente. E poi, cosa migliore di tutte, il progetto era un prolungamento diretto del suo lavoro all'Istituto, dove aveva fatto ricerche sugli ormoni della crescita
nel tentativo di correggere le imperfezioni del corpo umano. La teoria di Ames era che non esisteva nessuna ragione perché ogni essere umano non dovesse possedere un corpo ideale, nessuna ragione per cui alcune persone dovessero essere di misura inferiore al normale o sovrappeso, o provviste all'infinità di difetti e debolezze fisici che affliggono l'umanità. Ted Thornton aveva riconosciuto il valore commerciale degli studi di Martin Ames, l'aveva assunto portandolo via all'Istituto e l'aveva mandato a Silverdale. Immediatamente la città stessa era diventata il suo laboratorio privato. Aveva limitato i suoi esperimenti più avanzati ai figli dei dipendenti della TarrenTech. Thornton l'aveva stabilito fin dall'inizio, spiegando che era semplicemente una questioni di controllo dei danni: entrambi si rendevano conto che qualche cosa sarebbe andato storto; alcuni esperimenti sarebbero certo falliti. Ma quando sarebbe successa una cosa simile Thornton voleva essere in grado di occuparsi delle conseguenze immediatamente e con efficacia. Fino a quel momento le cose erano andate proprio come Thornton aveva programmato. La maggior parte degli esperimenti era andata bene. Ma quando qualche cosa era andato storto, quando qualcuno dei soggetti aveva subito a causa delle sue somministrazioni dei gravi effetti collaterali, il più comune dei quali era una estrema aggressività, Thornton aveva mantenuto la sua promessa. Ai ragazzi si provvedeva velocemente e senza fare rumore nel modo in cui Ames riteneva più appropriato, e la loro famiglia veniva immediatamente trasferita lontano dalla zona, con promozioni abbastanza importanti e aumenti di stipendio talmente generosi, che fino a quel momento nessuno aveva pensato nemmeno alla lontana che la ricompensa finanziaria non era altro che una compensazione per la perdita di un figlio. I fallimenti erano stati tanto pochi - solo tre in quasi cinque anni - che Ames considerava il suo programma alla Rocky Mountain High un successo completo. La maggior parte dei ragazzi aveva risposto bene ai suoi trattamenti, e ad alcuni di essi, a Robb Harris, per esempio, non erano nemmeno stati somministrati gli ormoni della crescita. E quella era una cosa magnifica, perché così Jerry Harris era in grado di spiegare con precisione quello che era stato fatto a suo figlio in completa onestà. Per Jeff LaConner il trattamento era stato quello normale, cioè massicce fleboclisi di ormoni della crescita, e fino a due settimane prima sembrava un successo. Ma le cose si erano volte al peggio, per la prima volta dopo
Randy Stevens, e Marty Ames doveva fare quell'incresciosa telefonata. Avrebbe dovuto spiegare a Chuck LaConner che Jeff avrebbe dovuto passare un po' di tempo in un «istituto». Quella era la frase che Ames era arrivato a preferire. Consentiva ai genitori del ragazzo la vaga speranza che forse un giorno loro figlio sarebbe stato di nuovo bene. E forse, se Ames fosse stato fortunato, per qualcuno dei ragazzi sarebbe stato proprio così. Forse avrebbe trovato il modo di invertire la crescita incontrollata e la furia sfrenata di cui cadevano vittime. In realtà negli ultimi mesi era arrivato a sperare che potessero non verificarsi più casi come quello di Randy Stevens, che non ci fosse più il bisogno di telefonate come quella che stava per fare. Era tanto vicino... proprio tanto vicino. Forse, dopo tutto, la telefonata di quella notte sarebbe stata l'ultima. Ma naturalmente, con la scienza sperimentale non si poteva mai essere sicuri di niente. Sharon era seduta in silenzio su una poltrona vicino al letto in cui Mark era addormentato. Sembrava più giovane dei suoi sedici anni, e i lividi sul viso, la benda sull'occhio destro e la mascella gonfia lo facevano solo sembrare più vulnerabile. Sharon non sapeva da quanto tempo fosse seduta accanto a lui, quanto tempo fosse passato da quando era finalmente scivolato in un sonno tranquillo. Il suo respiro, il suono più forte che poteva udire, sembrava affannoso, e anche se sapeva che lui non sentiva niente si immaginò di poter sentire il dolore che ogni sommesso ansito provocava al suo petto ammaccato. Alle sue spalle sentì un debole scatto, e udì, più che vederla, la porta che si apriva. Un istante dopo sentì le mani di Blake posarsi delicatamente sulle sue spalle; automaticamente mise le mani sulle sue. Per un momento nessuno dei due parlò, poi Blake tolse le mani. «Non credi che dovremmo andare a casa?» chiese spostandosi dall'altra parte del letto in modo che lei potesse vederlo. Sharon scosse la testa. «Non posso. Voglio essere qui se si sveglia.» «Questa notte non si sveglierà», rispose Blake. «Ho parlato proprio adesso con l'infermiera, e lei dice che dormirà fino a domattina.» Sharon fece un profondo sospiro. I suoi occhi lasciarono il figlio e si posarono sul marito. «Non fa nessuna differenza. Voglio stare qui per lui, ecco tutto.»
Blake esitò, poi annuì. «Capisco», disse. «Sta' a sentire. Tu resti qui, io vado dagli Harris a prendere Kelly.» Restò in silenzio per un istante, poi soggiunse: «Mi accompagni alla porta?» Per un momento pensò che Sharon avrebbe rifiutato, poi lei si alzò, allungò una mano per toccare delicatamente la guancia del figlio e annuì. Nessuno dei due parlò finché non arrivarono al gabbiotto dell'infermiera. La sala d'aspetto lì accanto era deserta. «Come va?» chiese Karen Akers alzando gli occhi dal terminale che risplendeva sulla scrivania, di fronte a lei. Sharon fece un debole sorriso. «Dorme ancora.» «Dovrebbe davvero andare a casa, signora Tanner», insistette Karen. «Non può fare granché per lui, adesso.» Mentre pronunciava quelle parole Karen si rese conto che non avrebbero avuto nessun effetto. Dopo tutto, se fosse stato suo figlio quello che dormiva nella camera in fondo al corridoio sarebbe andata via, lei? Neanche per sogno. «Senta», disse senza aspettare la risposta di Sharon. «Vado a fare del caffè fresco e gliene porterò una tazza quando sarà pronto.» Poi sparì lungo il corridoio per andare nella cucinetta sul retro della costruzione. Sharon e Blake si fermarono in silenzio sulla porta, poi Blake la baciò piano. «Andrà tutto bene», le assicurò. «Tra pochi giorni ricorderà a malapena quello che gli è successo.» Sharon annuì automaticamente anche se non era d'accordo. Sapeva che la vista di Mark steso sulla barella e della sua faccia ammaccata e insanguinata non l'avrebbe mai lasciata. Mentre Blake se ne stava andando, un pensiero che era rimasto nascosto in qualche angolo della sua mente, quasi dal momento in cui era uscita dalla sala d'aspetto per fare la veglia a Mark, emerse improvvisamente. «Blake...» disse. «Sai... sai esattamente che cosa è successo a Ramirez?» Blake esitò, poi annuì. «Ho visto la videocassetta», rispose, e si preparò alla domanda che sapeva sarebbe seguita, la domanda alla quale aveva cercato di rispondere da quando aveva sentito parlare della zuffa tra Jeff e Mark. «Ebbene?» chiese Sharon. «È stato davvero un incidente? O Jeff ha fatto male a Ramirez deliberatamente?» Per un istante Blake non rispose, e ripeté mentalmente la proiezione della cassetta che Jerry Harris gli aveva mostrato il giorno in cui aveva cominciato a lavorare al caso Ramirez. «Non lo so», rispose infine. «Avrebbe potuto esserlo. Ma c'è la possibilità che non lo sia stato.»
Sharon non parlò, ma anche prima che lo baciasse di nuovo e lo facesse uscire Blake poté vedere l'ombra apparsa nei suoi occhi. Invariabilmente quello sguardo significava che si era concentrata su una cosa e avrebbe cominciato a esaminarla, preoccupandosene finché non avesse risolto qualunque fosse il problema fino a piena soddisfazione. Dopo che se ne fu andato, Sharon rimase per un po' appoggiata contro il pesante vetro della porta. Poi, avendo preso una decisione, ripercorse il corridoio. Ma invece di ritornare nella camera di Mark, entrò nella stanza dall'altra parte del corridoio. La camera in cui si trovava Ricardo Ramirez, con il corpo immobilizzato dal grottesco meccanismo del telaio Stryker, era quasi identica a quella di suo figlio, e le somiglianze fecero rabbrividire Sharon. Questo è ciò che avrebbe potuto succedere a Mark questa sera, pensò. Passò in rassegna i monitor sopra il letto, con i loro indicatori verdi che risplendevano stranamente nella stanza semibuia e le tracce delle forze vitali di Ricardo Ramirez, sostenute artificialmente, che ripetendosi senza fine attraversavano gli schermi con un ritmo quasi ipnotizzante. Mentre osservava in silenzio, ancora una volta Sharon perse la sensazione del tempo. Che cosa stava succedendo nella mente del ragazzo? si chiese. Si rendeva conto di qualche cosa? Stava sognando, soffrendo per incubi da cui non poteva fuggire? O era semplicemente perso da qualche parte in un vuoto grigio, lontano da ogni realtà, ignaro di tutto? Non lo sapeva... non poteva saperlo. Forse nessuno l'avrebbe mai saputo. «Signora Tanner?» La voce sommessa di Karen Akers penetrò nella fantasticheria di Sharon, facendola trasalire. «Sta bene?» Sharon annuì. Allontanandosi dal letto di Ricardo Ramirez ritornò nel corridoio, socchiudendo gli occhi per la forte luce. «Volevo... volevo solo vederlo», disse con voce tremante. «È terribile.» «E avrebbe potuto essere suo figlio», disse Karen esprimendo il pensiero che pochi attimi prima aveva invaso prepotentemente la mente di Sharon. «Ma Rick non è suo figlio, signora Tanner. E Mark guarirà.» Sharon annuì, poi si costrinse a sorridere lievemente mentre prendeva con gratitudine, dalle mani dell'infermiera, la tazza di caffè bollente. «Certo», disse. Ritornò nella stanza di Mark e riprese la veglia accanto al suo letto. Ma mentre i minuti passavano lentamente si ritrovò a pensare ancora a Ricardo Ramirez. Sapeva che cosa stava facendo per il ragazzo la TarrenTech, e fino a
quella notte non aveva mai pensato di mettere in dubbio la generosità e la sincerità della società. Ma in quel momento si ritrovò a porsi delle domande. Ritornò con la mente alle partite di football che aveva visto nei fine settimana precedenti, e vide la squadra di Silverdale che scendeva in campo come un manipolo di gladiatori. Erano ragazzi grandi e grossi - tutti quanti - e in quel momento si ricordò di avere notato, mentre cominciava la partita, quanto sembrava impari la squadra avversaria. I ragazzi di Silverdale, sovrastando i loro avversari, li superavano facilmente con la pura e semplice forza delle loro dimensioni. E giocavano anche duro. Non importava quanti punti di vantaggio avessero, i Wolverines non si rilassavano mai, non smettevano mai di incalzare i loro avversari, non aspettavano mai la fine della partita diminuendo l'impegno. Mentre ci pensava, rabbrividì nell'oscurità della camera di ospedale. Ragazzi grandi e grossi, forti, che scoppiavano di salute. E, a quanto sembrava, anche pericolosi. Perché se la TarrenTech credeva veramente che quello che era successo a Ricardo Ramirez fosse stato un incidente, per quale motivo era disposta a pagare qualsiasi prezzo per evitare una causa contro la scuola, o forse anche contro i LaConner stessi? Era forse perché in definitiva una causa sarebbe ricaduta contro la TarrenTech stessa? Improvvisamente, Sharon Tanner si spaventò più di quanto non lo fosse mai capitato in tutta la sua vita. Chuck LaConner cercò di fare in modo che la sua espressione non rivelasse le sue emozioni mentre ascoltava Marty Ames che gli parlava al telefono. Nella poltrona di fronte a lui dall'altra parte del caminetto Charlotte stava seduta rigidamente, con il viso pallidissimo anche nel bagliore arancione del fuoco che ardeva nel focolare. Quando lui riattaccò lei gli rivolse immediatamente una domanda. «Chi era?» chiese. «Notizie di Jeff, vero? E in carcere?» Seguendo i consigli di Ames, Chuck era stato attento a non far capire con chi stesse parlando, e scosse la testa alzandosi contemporaneamente in piedi. «Non è in prigione», le rispose. «Ha avuto una specie di crollo nervoso. A quanto pare ha perso completamente il controllo, questa volta, e l'hanno portato dal dottore.» Andò all'armadio del corridoio, con Charlotte
immediatamente alle spalle. «Vengo con te», disse. Ma Chuck scosse la testa e lei lo guardò incredula e sbigottita. «Non adesso», rispose. «Mi hanno chiesto esplicitamente di andare là da solo. Credo...» cominciò, poi si interruppe, non volendo ripetere alla moglie quello che gli aveva detto il dottor Ames. «Credo che stia parecchio male», disse infine. «Hanno... be', hanno detto che probabilmente Jeff dovrà rimanere in ospedale per un po' di tempo.» Charlotte si abbandonò contro la parete. «E non posso nemmeno vederlo?» sussurrò con voce rauca. «Ma è mio figlio!» «Solo per stanotte», le promise Chuck. «Vogliono solo calmarlo un po', ecco tutto.» Allungò una mano e toccò il mento di Charlotte, delicatamente, alzandole la testa in modo che non potesse fare a meno di guardarlo in faccia. «Guarirà, tesoro», le promise. «Sistemeremo tutto. Ma devi avere fiducia in me. Okay?» Con la mente troppo confusa per poter pensare chiaramente, Charlotte annuì automaticamente. Fu solo un minuto dopo, quando udì la macchina di Chuck che se ne andava, che ritornò in sé. Lei e Chuck erano stati seduti vicino al caminetto per ore, da quando Dick Kennally aveva telefonato chiedendo se Jeff era in casa. Chuck se ne era andato per un po', poi era ritornato per assicurarle che Mark Tanner stava bene, che le sue ferite non erano gravi. Avrebbe voluto uscire, avrebbe voluto andare lei stessa in ospedale, se non altro per scusarsi con Sharon Tanner per quello che era successo, ma Chuck non gliel'aveva permesso. Era andato all'ospedale da solo, mentre lei attendeva in ansia, preoccupata per il figlio e per il ragazzo che lui aveva ferito. Ma in quel momento non poteva aspettare ancora. Non era più solo Mark Tanner a essere ricoverato in ospedale; c'era anche Jeff. Cinque minuti dopo la partenza di Chuck, anche lei uscì in fretta nella notte. Dieci minuti più tardi si fermò nel parcheggio dell'ospedale e senza nemmeno guardarsi intorno per cercare la macchina del marito si recò in fretta nella sala d'aspetto. Da dietro il vetro divisorio Karen Akers alzò gli occhi incuriosita, poi, riconoscendo Charlotte, si alzò e uscì dal piccolo ufficio. «Perché non posso vederlo?» chiese Charlotte senza preamboli, con voce tremante. «Che cos'ha che non va che non me lo lasciano vedere?» Karen fissò Charlotte piena di stupore. Di che cosa diavolo stava parlan-
do quella donna? «C-Chi?» «Jeff», rispose Charlotte. «Chuck ha detto che l'hanno portato dal dottore...» Si interruppe, rendendosi conto che la sala d'aspetto era vuota e che tutto l'edificio era silenzioso. «Non c'è mio marito?» chiese, ma capì la risposta ancora prima che Karen parlasse. «Qui non c'è nessuno, Charlotte, tranne la signora Tanner. Sta vegliando Mark.» Stanca e confusa, con le testa che le girava, Charlotte si lasciò cadere in una delle poltrone ricoperte in similpelle che fiancheggiavano una parete della sala d'aspetto. Rimase in silenzio per un istante, raccogliendo le idee. «Ma lui ha detto...» cominciò, con voce piena di disperazione. Poi capì. Non l'avevano affatto portato lì, Jeff... l'avevano portato alla clinica del centro sportivo, dal dottor Ames, come l'ultima volta, quando Jeff l'aveva sbattuta contro il muro poi si era precipitato fuori di casa nella notte. Per qualche ragione, rendersi conto di quel fatto la fece sentire meglio. Dopo tutto, Jeff era tornato a casa il giorno dopo... in realtà non era neppure tornato a casa, era andato direttamente a scuola. E stava bene. Forse Chuck aveva ragione. Guardò Karen Akers sentendosi sciocca. «Non so che cos'ho che non va», disse, poi vide lo sguardo preoccupato negli occhi dell'infermiera, come se Karen pensasse che stesse perdendo il controllo. «Voglio dire, sono sicura che Chuck deve avermi detto dove stavano portando Jeff. Penso... be', penso che non sia stata una notte facile per nessuno di noi.» L'espressione di Karen Akers si schiarì un poco. «Come sta?», chiese Charlotte. «Mark Tanner, intendo dire.» Karen esitò, non sapendo che cosa dire. Ma quando vide la sincera preoccupazione negli occhi di Charlotte fece un cenno verso il corridoio. «Adesso sta dormendo. Ma se vuoi entrare un momento penso che la signora Tanner non avrà niente in contrario.» Charlotte si alzò e si avviò lungo il corridoio, fermandosi un istante vicino alla porta della camera di Ricardo Ramirez. Con un profondo respiro attraversò il corridoio e aprì piano la porta della stanza di Mark. Dentro era quasi buio; solo una piccola lampada da notte emanava una debole luce fioca all'angolo vicino alla porta del bagno. Mark era steso immobile sul letto, e sulla poltrona al suo capezzale Sharon Tanner stava dondolando la testa in modo discontinuo. Charlotte esitò, e stava per uscire dalla stanza quando Sharon sollevò il capo e aprì gli occhi. «Ch-chi è?» chiese incertamente.
«Sono io», sussurrò Charlotte. «Charlotte LaConner.» Charlotte vide che Sharon si irrigidiva, e improvvisamente desiderò non essere entrata nella stanza. Ma poi Sharon si alzò in piedi e le si avvicinò. «Volevo solo vedere come sta», disse Charlotte. «E dirle quanto mi dispiace...» Charlotte si interruppe, e Sharon si sorprese di sentire un empito di comprensione per quella donna. Fece uscire Charlotte nel corridoio e chiuse la porta.... «Guarirà», disse. Poi, mantenendo un tono di voce più neutro possibile, chiese: «Hanno trovato Jeff?» Charlotte mandò giù il nodo alla gola e annuì. «L'hanno portato dal dottor Ames», rispose. «Lui... Non so che cosa gli sia successo, signora Tanner.» «Sharon», rispose l'altra donna. «Sharon,» ripeté Charlotte, pronunciando il nome con cura, quasi in modo sperimentale. «Lui... be', credo che fosse come la sera che ha colpito me», disse. «È la collera. Sembra che non riesca più a controllarla. Qualche cosa lo fa scattare, e lui semplicemente scoppia.» Aggrottò le sopracciglia, come se le tornasse in mente un ricordo remoto. «Come Randy Stevens», continuò parlando lentamente. «Ecco com'è. È come Randy prima che lo portassero via...» Sharon fissò Charlotte. Randy Stevens? Chi era? Non ne aveva mai sentito parlare in vita sua. Chuck LaConner fissò inebetito Marty Ames. Erano seduti da mezz'ora nell'ufficio di Ames al centro sportivo e il medico aveva fatto il discorso provato tante volte, un discorso scelto con cura per ottemperare sia ai suoi scopi sia a quelli di Ted Thornton. «Naturalmente non potremo dimetterlo», aveva concluso Ames, stendendo impotentemente le mani sulla scrivania. «Faremo del nostro meglio per correggere lo squilibrio chimico del suo cervello, ma non sono sicuro che esista qualche cosa che faccia effetto.» Gli occorse un po' di tempo per capire, ma poi Chuck si raddrizzò sulla poltrona. «Ma aveva detto che niente sarebbe andato storto», protestò. «Quando ho accettato di inserire Jeff nel programma, mi ha promesso...» «Non le ho promesso niente», l'interruppe Ames. «Le ho detto che eravamo sicuri al novantanove per cento di avere perfezionato il composto, ma che c'era sempre la possibilità che si manifestassero degli effetti collaterali. E lei aveva capito che c'erano ancora alcuni...» esitò, cercando le pa-
role giuste, «alcuni, diciamo, aspetti sperimentali nella cura.» Chuck si prese la testa fra le mani. Era vero, naturalmente. Ricordava ancora il giorno in cui, tre anni prima, aveva parlato per la prima volta con Ames, il quale gli aveva detto che c'erano delle buone probabilità che Jeff superasse le deficienze congenite che l'avevano afflitto sin quasi dalla nascita. Non che Jeff fosse troppo piccolo... la sua costituzione era perfettamente normale, e lo era sempre stata. Ma le sue ossa avevano una fragilità che lo trasformava quasi in un invalido, e praticamente dal giorno in cui aveva imparato a camminare e si era rotto una gamba al primo ruzzolone, aveva portato un gesso in una parte o in un'altra del corpo quasi ogni momento della sua vita. Nessuno dei medici da cui i LaConner l'avevano portato aveva dato loro la benché minima speranza. Così quando Jerry Harris gli aveva parlato del programma di Ames, una nuova cura che combinava delle vitamine con un ormone che era in grado di stimolare la produzione di calcio, Chuck aveva immediatamente accettato di provare. Il peggio che poteva succedere sarebbe stato che non si ottenesse nessun risultato. Ma i risultati erano arrivati. In un mese le ossa di Jeff avevano cominciato a rafforzarsi, quasi miracolosamente. Quella primavera - aveva quattordici anni - era cresciuto moltissimo, e anche durante quel difficile periodo in cui si stava adattando alla nuova statura non si era fratturato neanche un osso. In realtà la sua ossatura, che era sempre stata tanto fragile nelle radiografie che avevano mostrato a Chuck fin dall'inizio, aveva assunto un aspetto solido, con le lunghe ossa, visibilmente più spesse di prima, che l'avevano fatto aumentare di peso e gli avevano dato una robustezza che non aveva mai avuto. Le sue spalle, sempre tanto strette quando era un ragazzino, si erano allargate, e insieme al programma di vitamine e ormoni Ames gli aveva fatto iniziare un regime di allenamento. Fino a poche settimane prima non c'era nessun motivo di sospettare che il trattamento non fosse stato un successo completo. Ma adesso... Chuck si alzò in piedi lottando per controllare le proprie emozioni. «Posso vederlo?» chiese. Ames esitò per un attimo, poi si alzò anche lui. «Naturalmente», disse. «Ma voglio che si prepari. Adesso è sotto l'effetto dei tranquillanti e probabilmente non è cosciente. E anche se lo fosse potrebbe non riconoscerla.» Mentre percorrevano il labirinto di corridoi che costituiva il centro sportivo Chuck cercò di prepararsi. Ma quando infine entrarono nella clinica e
Marty Ames aprì la porta della camera in cui Jeff era ancora disteso sul tavolo, immobilizzato dalle cinghie, Chuck si sentì assalire da un'ondata di nausea. Suo figlio era nudo, con le braccia e le gambe ancora legate strettamente al tavolo. Sembrava che da ogni parte del suo corpo fossero spuntati dei fili, e in entrambi gli avambracci aveva una fleboclisi. Ma non fu la grande quantità di apparecchiature, e nemmeno le cinghie che lo bloccavano sul tavolo, a far trasalire Chuck LaConner. Fu Jeff stesso. Nelle ultime ore era cambiato, tanto che Chuck fece fatica a riconoscerlo. Sembrava che le sue mani si fossero ingrandite. Aveva le dita più lunghe, e le nocche sporgevano come contorti nodi di legno. Anche nel sonno le mani di Jeff si agitavano spasmodicamente, come se cercassero di liberarsi dai legami che l'immobilizzavano. Anche il suo viso era cambiato. Gli occhi si erano infossati nelle orbite e la fronte sporgeva nettamente, dandogli un aspetto leggermente scimmiesco. La mascella, che era sempre stata forte, sembrava troppo grande per il resto del volto, e cadeva rilasciata, scoprendo i denti e la lingua. Respirava con degli strani rantoli. «Mio Dio», sussurrò Chuck. «Che cosa gli sta succedendo?» «Le sue ossa hanno ripreso a crescere», rispose Ames. «Solo che questa volta la crescita è fuori di ogni controllo. Sta cominciando dalle estremità, dalle dita delle mani e dei piedi e dalla mascella. Se non riusciamo a controllarla la crescita si estenderà anche alle altre parti del corpo.» Chuck LaConner fissò il dottore con una grande paura negli occhi. «E allora che cosa gli succederà?» chiese. Ames restò in silenzio per un istante, poi decise che era inutile nascondere la verità al padre di Jeff. Quando parlò, la sua voce aveva un freddo tono professionale. «Morirà.» Sulla stanza piombò il silenzio, rotto solo dal respiro affannoso di Jeff. Mentre Chuck fissava disperato il viso contorto del figlio, Jeff aprì improvvisamente gli occhi. Erano occhi selvaggi, gli occhi di un animale. E brillavano per una rabbia che Chuck non aveva mai visto. Con il viso bianco come uno straccio, con il corpo invaso da un orribile gelo, Chuck si ritrasse dal proprio figlio.
13 Mark Tanner sbatté gli occhi, poi li aprì. Per un attimo non capì dove si trovava. Dalla finestra entrava la luce del sole, e alzò istintivamente la mano destra per ripararsi dal bagliore. Il suo corpo fu percorso da uno spasimo di dolore e lasciò cadere la mano sul letto, chiudendo di nuovo gli occhi. Lentamente, le idee cominciarono a schiarirglisi e a frammenti ricordò quello che era successo la sera prima. Era in ospedale. Adesso se lo ricordava. Ricordava la zuffa con Jeff, che in realtà non era stata affatto una zuffa. Ricordava il viaggio in ambulanza con la madre accovacciata sul pavimento accanto a lui, che si comportava come se lui stesse per morire o qualche cosa di simile. Ricordava il dottore... come si chiamava? Mac... MacQualcosa... che gli medicava il viso. Fece una smorfia al ricordo dell'acuto dolore che aveva sentito mentre l'ago gli perforava la pelle. Poi gli avevano fatto delle radiografie e infine, misericordiosamente, l'avevano messo a letto e gli avevano permesso di addormentarsi. Con gli occhi ancora chiusi per proteggerli dal bagliore del sole, cominciò a muovere sperimentalmente gli arti. Non andava troppo male, in realtà. Il torace gli doleva tutte le volte che muoveva le braccia, ma non troppo, e se stava attento a non fare dei respiri profondi non sentiva quasi le costole incrinate. La mascella gli faceva male, e se la toccò con circospezione, poi la mosse. Non era poi così terribile. Come una specie di mal di denti. Infine, resistendo al dolore al torace, sollevo di nuovo la mano e passò le dita sopra la fasciatura che aveva in fronte. Poi, infine, riaprì gli occhi. O meglio, l'occhio sinistro. Quello destro non si apriva quasi per niente, solo una nebbia indistinta, per cui lo chiuse di nuovo. Poi girò la testa e si guardò intorno. Sua madre, con la testa reclinata sul petto, era abbandonata su una poltrona vicino al letto, ma anche nel sonno sembrò sentire i suoi occhi posati su di lei. Bruscamente si destò e si raddrizzò in fretta. «Sei sveglio», esclamò con una voce sorpresa che costrinse Mark a chiedersi se per caso non fosse convinta che non si sarebbe svegliato mai più. «Credo di sì», ammise. «Sei stata qui tutta la notte?»
Lei annuì. «Non volevo che ti svegliassi e che ti spaventassi.» Mark gemette tra sé. Pensava che fosse ancora un bambino? Cercò di sollevarsi ma ricadde sul letto mentre un dolore lancinante gli trafiggeva il torace. «Prova questo», disse Sharon dandogli il comando per cambiare la posizione della rete. Mark fece qualche esperimento, poi la testata del letto si sollevò finché lui non fu quasi seduto. Il dolore al torace si calmò, e lui fece un debole sorriso. «Credo di non essermela cavata molto bene ieri sera, vero?» «Non ti preoccupare», gli disse lei. «E se Jeff LaConner crede di farla franca...» Interruppe la frase mentre la porta si apriva. Mac MacCallum entrò, prese in mano la cartella appesa all'estremità del letto di Mark, la esaminò rapidamente, poi rivolse l'attenzione al ragazzo. «Come stai stamattina?» chiese prendendo in mano il polso di Mark e misurandogli le pulsazioni. «Dormito bene?» «Non mi sono mai svegliato», rispose Mark. «Quanto tempo devo restare qui?» MacCallum sollevò le sopracciglia. «Hai già sentito di come si mangia qui?» chiese sarcasticamente. Poiché Mark sembrò un po' perplesso, il suo tono divenne più serio. «Direi fino a domani, di primo acchito. Non sembra che ci sia niente di serio, ma non sarà male tenerti qui per un giorno, in modo da poterti tenere d'occhio.» Fece un cenno verso la televisione sulla parete di fronte al letto di Mark. «Che ne dici di un giorno a casa da scuola con la TV come soprappiù?» Mark alzò le spalle. «Okay, credo che vada bene. Che cosa mi è successo? Voglio dire, che cos'ho che non va?» MacCallum riassunse brevemente l'elenco dei danni. «Da quello ho sentito», terminò, «sei stato fortunato. Jeff LaConner è grande e grosso, ma sembra che abbia maltrattato i tuoi lineamenti più che le tue budella.» Si girò verso Sharon. «Ho già controllato le radiografie e gli altri esami, e a meno che oggi non salti fuori qualche cosa di nuovo, non c'è nessun motivo per cui tu non possa tornare a casa domani. Forse persino questa sera.» «Che cosa potrebbe saltare fuori oggi?» chiese immediatamente Sharon. «Niente di tremendamente grave», la rassicurò MacCallum. «Ma se per caso il rene è stato danneggiato, cosa che non credo, potrebbe esserci del sangue nelle urine. Francamente, non mi aspetto niente. E se fossi in lei», aggiunse, «penserei di andare a casa a dormire un po'. Fino a mezzogiorno Mark andrà avanti a sonnecchiare ed è inutile che lei stia qui.»
«Ma io voglio starci», insistette Sharon. «Va' a casa, mamma», disse Mark. «Non farò altro che starmene qui disteso.» Sharon fu sul punto di protestare, poi si rese conto che MacCallum aveva ragione. Sentiva la stanchezza in tutte le fibre del corpo, e la schiena le faceva male perché era stata seduta tutta notte sulla poltrona dallo schienale rigido. Si alzò e assentì: «OK. Ma se hai bisogno di qualche cosa o hai qualche desiderio, chiamami. Va bene?» «Certo», rispose Mark, poi arrossì mentre lei si chinava a baciarlo. Mentre seguiva MacCallum fuori della stanza sentì che aveva acceso la televisione. Sorridendo mestamente tra sé andò con il dottore nella sala d'aspetto, lo ringraziò ancora per quello che aveva fatto per Mark e chiamò Elaine Harris perché venisse a prenderla. Poi, mentre aspettava l'amica, ricordò la sua conversazione con Charlotte LaConner. Con la fronte profondamente aggrottata, si affrettò a seguire MacCallum, e lo raggiunse proprio mentre stava per entrare nel suo ufficio. «Dottor MacCallum», chiese, «ha mai avuto un paziente che si chiama Randy Stevens?» MacCallum le lanciò una brusca occhiata. «Randy Stevens? Che cosa le hanno detto di lui?» Gli raccontò rapidamente la visita di Charlotte LaConner la notte prima. «Dal modo in cui parlava», concluse Sharon, «sembrava che in Randy ci fosse qualche cosa che non andava.» MacCallum annuì. «Certo che mi ricordo di lui. Circa un anno fa era il campione più forte della squadra di football. Quasi un altro Jeff LaConner. E credo che potesse essere anche altrettanto spregevole. Ma poi gli Stevens se ne sono andati. Credo che suo padre sia stato trasferito a New York o da qualche altra parte.» Sharon esitò, perplessa. «Ma non l'ha mai avuto in cura?» MacCallum strinse le labbra. «Nessun me l'ha mai chiesto.» Sembrò sul punto di aggiungere qualche cosa, ma il cicalino trillò forte e una voce senza corpo richiese la presenza di MacCallum al pronto soccorso. Sentendosi vagamente insoddisfatta di quanto le aveva detto il dottore, e in certo modo disturbata dall'interruzione, si scusò per avergli fatto perdere tempo e uscì in fretta dall'ospedale. Non notò le due giardinette gemelle con la scritta ROCKY MOUNTAIN HIGH entravano nel vialetto d'accesso dell'ospedale mentre lei saliva sulla macchina di Elaine. Il dottor Martin Ames, con gli occhi cerchiati di rosso, scese dalla prima delle due giardinette. Facendo cenno ai passeggeri dell'altra macchina di
restare dov'erano, entrò a grandi passi nella sala d'aspetto dell'ospedale della contea. Si soffermò vicino allo sportello della receptionist inclinando la testa verso il corridoio che conduceva verso l'ufficio di MacCallum. «C'è?» L'infermiera alzò gli occhi dal lavoro e annuì. Un istante dopo Ames bussò ed entrò mentre il dottore gridava allegramente: «Avanti». Riconoscendo Ames, MacCallum dimostrò una certa sorpresa, ma sorridendo fece un gesto verso la poltrona di fronte alla propria scrivania. «Che cosa ti conduce qui tanto presto?» Ames si mise in tasca una mano ed estrasse una busta che depose sulla scrivania di MacCallum. «Mark Tanner», disse. «Penso che possa venire trasferito, vero?» Prendendo in mano la busta, MacCallum aggrottò la fronte. «Certo», rispose. «Ma temo di non capire...» Estrasse dalla busta un unico foglio di carta e aggrottò ancora dì più la fronte mentre leggeva l'ordine, firmato da Blake Tanner, di trasferire Mark dall'ospedale della contea alla piccola clinica del centro sportivo. «Di che cosa si tratta?» chiese MacCallum spostando lo sguardo dal foglio ad Ames. «Gesù, Marty, avevo intenzione di dimettere quel ragazzo domani.» Ames alzò le spalle, torcendo i lineamenti in una smorfia di comprensione. «Non ne ho la minima idea, Mac. Tutto quello che so è che ieri sera tardi ho ricevuto una telefonata di Jerry Harris dalla Tarrentech, che mi ha chiesto se non mi rincresceva occuparmi del caso. E mi conosci... quando chiama Jerry Harris, io rispondo. Così questa mattina uno dei loro ragazzi è arrivato con questa. Ed eccomi qui.» «Ma non c'è nessuna ragione», protestò MacCallum. «Il ragazzo non ha niente di grave. Qualche livido e un paio di costole incrinate.» «Prova a dirlo a un padre preoccupato», rispose Ames. «Ad ogni modo c'è un ordine. A meno che lui sia in grado di fare un viaggio in macchina di dieci minuti, non spetta a noi decidere.» «A meno che tu non rifiuti il caso», precisò seccamente MacCallum, ma sapeva di stare sprecando il fiato. Anche se Ames avesse voluto, cosa che MacCallum sospettava che non avrebbe fatto, Martin Ames sarebbe stato un pazzo a mettere in pericolo la generosa sottoscrizione in favore della Rocky Mountain High che la Tarrentech versava ogni anno rifiutandosi di fare un favore a Jerry Harris. E Marty Ames non era certo pazzo. «Cominciamo pure», disse MacCallum. Sospirando, prese in mano la
cornetta del telefono. Robb Harris si avviò verso l'ufficio di Phil Collins con apprensione. Era stato preoccupato sin da quando l'insegnante di inglese, a metà lezione, gli aveva passato un biglietto in cui gli si ordinava di andare a rapporto dall'allenatore durante l'intervallo prima della seconda ora. Era quasi certo di sapere di che cosa si trattava... Collins voleva spiegazioni sul suo ruolo nella zuffa dell'altra sera. Ma quando entrò nell'ufficio, Collins gli disse solo di sedersi, cosa che non faceva mai se voleva darti una lavata di capo. Con il nervosismo che cedeva il posto alla curiosità, Robb lasciò cadere sul pavimento la cartellae si sedette. «Te la sentiresti di giocare da quarterback?» chiese Collins. Robb lo fissò. Di che cosa stava parlando? Nessuno poteva sostituire Jeff LaConner. Lui poi? Non faceva nemmeno parte della squadra d'attacco. Aveva sempre giocato solo in difesa. «LaConner è fuori causa», gli disse Collins. «Almeno per adesso, e forse per il resto del campionato.» Per un attimo si morse il labbro inferiore, come se cercasse di decidere quanto dire a Robb. Ma in realtà aveva deciso un'ora prima: il modo migliore di spargere la notizia era di dirlo a uno dei ragazzi. «Credo che tu sappia quello che è capitato a Jeff ieri sera. In ogni caso, Jeff è ridotto piuttosto male. Mi hanno detto che forse dovrà rimanere in ospedale per un po'.» Non ebbe bisogno di specificare di quale ospedale si trattasse; il tono della sua voce lo rendeva chiarissimo. «Ch-che cosa gli è successo?.» chiese Robb. «È scoppiato?» Collins alzò le spalle. «Come faccio a saperlo? Sono un allenatore, non uno strizzacervelli. Ad ogni modo ho riveduto la formazione e il tuo nome è il primo della lista. Non che pensi che tu sia pronto», aggiunse di proposito mentre Robb arrossiva per il piacere, «ma non posso spostare nessun altro dalla posizione in cui gioca. E i tuoi passaggi non sono male, tutto considerato.» Si appoggiò allo schienale della sedia e intrecciò le mani dietro la nuca, valutando Robb. «E ieri sera? Ho sentito che sei stato coinvolto anche tu.» Robb agitò le spalle sdegnosamente. «Jeff mi ha tirato un pugno, ma non è stato troppo forte.» «Be', perché non lasciamo che lo giudichino i computer?» chiese l'allenatore. Cinque minuti dopo, in calzoncini da ginnastica, Robb incontrò Collins nella saletta di allenamento vicino alla palestra maschile. Nonostante le piccole dimensioni era stipata da una grande varietà di attrezzi collegati da
una serie di fili a un piccolo computer posto in un angolo, su una scrivania. Robb cominciò la familiare routine degli esercizi, quelli che aveva già eseguito centinaia di volte, spostandosi velocemente da una macchina all'altra. Lì i suoi progressi erano controllati dal movimento delle macchine piuttosto che da quelli del suo corpo. Sebbene sapesse che le misurazioni non erano neanche lontanamente esatte come quelle di cui erano capaci i macchinari della Rocky Mountain High, era sempre interessante vedere i risultati sulla serie di grafici e di diagrammi che la stampante vomitava alla fine di ogni seduta. Un quarto d'ora dopo aveva finito, e quasi subito la stampante entro in funzione, lavorando energicamente per un minuto buono. Infine Collins strappò i risultati, li studiò per un momento e poi li passò a Robb. «Niente male», osservò l'allenatore. «Ma nemmeno magnifici, però.» Robb guardò i grafici e scopri che mentre aveva ottenuto come sempre dei buoni risultati in quasi tutti gli esercizi, le distensioni e i sollevamenti delle gambe erano al di sotto della norma. Il vago dolore al fianco, nel punto in cui la sera prima l'aveva colpito il pugno di Jeff, gli fece capire qual era il problema. Guardò l'allenatore, che stava già scribacchiando una nota su un pezzo di carta. «Questo ti farà saltare le lezioni per tutto il giorno», gli disse Collins. «Voglio che tu vada al centro e ti faccia vedere da Ames. Se domani devi giocare, voglio che tu sia in forma perfetta.» Sorridendo per la contentezza, Robb Harris ritornò negli spogliatoi, si rivesti e si diresse verso la rastrelliera delle biciclette dietro la palestra. «Ma perché?» chiese Mark dal sedile posteriore di una delle giardinette. Da ogni lato era seduto un inserviente, e anche se il torace gli faceva un po' male in realtà il dolore non era troppo forte. Ma si sentiva costretto, e si chiedeva perché i due uomini fossero saliti in macchina con lui. L'altra giardinetta, davanti a loro, era occupata soltanto dal guidatore. «Tuo padre vuole che ti dia un'occhiata, ecco tutto», gli rispose il dottor Ames dal sedile anteriore. «Ma perché?» insistette Mark. Aveva cercato di ottenere da Ames una risposta diretta da quando il dottore era entrato nella sua stanza mezz'ora dopo che sua madre se n'era andata. Si era presentato e gli aveva detto che sarebbe stato trasferito alla Rocky Mountain High. Mark non riusciva ancora a capire: il dottor MacCallum aveva detto che sarebbe stato in grado di ritornare a casa la mattina dopo.
«Credo che tuo padre voglia che ti suggerisca della ginnastica da fare», gli disse Ames, «e ho un complesso di vitamine che potrebbe aiutarti a superare i problemi di crescita.» Mark si accigliò. Suo padre non gliene aveva parlato affatto. «Quando ci ha pensato?» chiese. Poi, naturalmente, capì. La sera prima, dopo la zuffa, quando non era nemmeno riuscito a scappare da Jeff LaConner. Eppure, se i suoi genitori avevano deciso di mandarlo al centro sportivo, perché sua madre non gliene aveva parlato? Con gli occhi fissi sulla nuca di Ames, chiese: «Mia madre lo sa?» Come se si sentisse gli occhi di Mark addosso, Ames si voltò e fece al ragazzo un amichevole sorriso. «A tuo padre, mi sembra di capire, piacerebbe che tu fossi in grado di difenderti, e presumo che tua madre la pensi allo stesso modo. E poiché a quanto mi risulta hai cominciato a fare ginnastica da solo», aggiunse sarcasticamente, «penso che anche tu sia un po' stanco di essere il ragazzo più piccolo dell'isolato.» Quasi controvoglia, Mark si ritrovò a ridere. Doveva ammettere che era vero... be', non doveva ammetterlo con il dottor Ames, ma l'aveva già ammesso con se stesso. E suo padre doveva esserselo immaginato, anche se lui aveva cercato di non dare troppa importanza a quello che stava facendo. Si appoggiò allo schienale e cercò di rilassarsi, ma si sentiva ancora incalzato dai due inservienti che gli stavano ai lati. Era quasi come se lo portassero in prigione, pensò improvvisamente, e avessero paura che cercasse di scappare. Quando arrivarono al grande cancello che proteggeva la Rocky Mountain High dal resto della valle, l'immagine della prigione si rafforzò nella sua mente. «Che cos'è?» chiese. «Un centro sportivo o una specie di campo di concentramento?» Sentì Ames ridacchiare dal sedile anteriore. «Effettivamente sembra una proprio una prigione, non è vero?» sentì che il dottore diceva. «Ma è per tenere la gente fuori, non dentro. Abbiamo moltissime apparecchiature di valore, e un sacco di programmi che non vogliamo che nessun altro conosca.» Si voltò e strizzò l'occhio a Mark, e il ragazzo credette di capire. Era come la TarrenTech e tutte le altre società della Silicon Valley, che passavano metà del loro tempo a cercare di evitare che gli rubassero le nuove idee, e l'altra metà a cercare di rubare le idee degli altri. A lui tutta la faccenda era sempre sembrata un po' sciocca. Dopo tutto, alla fine ognuno scopriva sempre quello che stavano facendo gli altri, vero? Il cancello si aprì e Mark guardò con curiosità il grande edificio che o-
spitava il centro. Era grazioso: sembrava un albergo di villeggiatura, non un ospedale. Poi si ricordò quello che gli aveva detto Robb Harris. «Quanti ragazzi vengono qui, d'estate?» chiese. «Quasi cinquanta, quest'anno», rispose Ames, facendogli un largo sorriso. «Naturalmente non concediamo loro in pieno i vantaggi di quello che sappiamo. Se lo facessimo, la squadra di casa potrebbe avere un po' di concorrenza.» Fece una pausa, guardando pensierosamente Mark. «Ti piace il football?» Mark scosse la testa. «Non proprio», ammise. «In realtà ho sempre pensato che fosse un po' stupido.» La macchina in cui si trovava passò di fronte all'edificio e andò sul retro, mentre l'altra si arrestava davanti all'ingresso principale. «Dove stiamo andando?» «Nella parte posteriore», rispose Ames. «Entreremo dal garage.» Pochi secondi dopo l'auto si fermò davanti a un'imponente porta metallica, la quale si aprì lentamente verso l'alto. Appena fu aperta del tutto, la macchina entrò e la porta si chiuse con un forte fragore metallico. «Eccoci», gli disse Ames. Uno degli inservienti scese e tenne aperto lo sportello per Mark. Il ragazzo lo seguì attraverso una porta e poi lungo un corridoio, e infine entrarono in una saletta molto simile a quella in cui il dottor MacCallum l'aveva visitato la sera prima. Tranne che al lettino per le visite erano fissate delle pesanti cinghie di robusto tessuto. Mark le guardò accigliandosi, e improvvisamente si ricordò gli strani segni che aveva visto sui polsi di Jeff LaConner la mattina dopo che aveva passato la notte in quel posto. «Ch-che cosa sono, quelle?» chiese Mark con la voce che tradiva la paura che aveva cominciato a invadere la sua mente. «Niente di cui preoccuparsi», rispose Ames. «Togliti i vestiti e metti questa», gli disse allungando a Mark una vestaglia da ospedale verde pallido. «Perché?» chiese bruscamente Mark. «Sa già che cos'ho che non va, vero? Sono solo stato picchiato. Non sono malato.» La voce di Ames si indurì. «Fa' quello che ti si dice, Mark. Non ti faremo del male. Tutto quello che faremo sarà aiutarti. Mark gettò un'occhiata verso la porta, ma uno degli inservienti la bloccava, con gli occhi fissi su di Mark come se sapesse quello che stava pensando. Mark esitò un istante, con il cuore che gli batteva forte. Poi ricordò che era stato suo padre a mandarlo lì, e quindi di qualunque
cosa si trattasse doveva andare bene, vero? Eppure mentre si toglieva lentamente i vestiti e si infilava la vestaglia da ospedale il suo nervosismo non fece che aumentare. Fu solo quando era già disteso sul lettino che improvvisamente gli inservienti gli saltarono addosso: uno lo tenne fermo mentre l'altro gli legava strettamente gambe e braccia alla superficie metallica. «Che cosa diavolo...» gridò Mark. Poi gli misero un bavaglio sulla bocca e sentì un ago scivolare in una vena del suo avambraccio. «Starai bene», gli assicurò ancora una volta Ames. «Credimi, Mark, ti sentirai meglio di quanto non ti sia mai sentito in vita tua.» Per un momento Mark lottò contro le pesanti cinghie, ma mentre cercava di liberarsi sentì un dolore lancinante al petto. Ancora prima che la tremenda fitta scomparisse, Mark Tanner precipitò nell'oscuro abisso dell'incoscienza. 14 Quando suonò la campana per l'intervallo del pranzo Linda Harris aveva già preparato la cartella. Ci aveva pensato tutta mattina, ma aveva deciso solo un quarto d'ora prima. Avrebbe saltato il pranzo e sarebbe andata a trovare Mark Tanner in ospedale. Non ne aveva il tempo, in realtà, ma alla ripresa aveva solo un'ora di studio, e poteva sempre dire di avere passato il tempo in biblioteca. Se ne avesse avuto bisogno, poteva chiedere a Tiffany Welch, che in quell'ora aiutava sempre la bibliotecaria, di confermare la sua affermazione. Mentre il suono della campana svaniva Linda si affrettò a uscire dalla classe e ad andare verso l'ampia scala che conduceva al piano terra. Era a metà della scala quando sentì Tiffany che la chiamava dall'ammezzato. «Linda? Aspettami!» Linda esitò, quasi tentata di fingere di non aver sentito, poi cambiò idea. «Ciao», disse mentre l'altra ragazza la raggiungeva. «Senti, ho bisogno di un grosso favore. Se dovessi perdere l'ora di studio, diresti al professor Anders che ero in biblioteca?» Per un istante il viso ovale di Tiffany si mostrò sconcertato, poi i suoi vivaci occhi azzurri assunsero uno sguardo da cospiratrice. «Dove vai? Salti tutto il pomeriggio?» L'entusiasmo nella voce dell'amica fece capire aLinda che Tiffany stava pensando di andare con lei; per l'amica praticamente tutto era più interes-
sante della scuola. «Vado solo in ospedale», rispose Linda. Il viso di Tiffany si illuminò. «A trovare Jeff? Vengo con te.» «Perché dovrei voler vedere Jeff?» chiese bruscamente Linda, con gli occhi che le brillavano per la rabbia. «Dopo ieri notte spero di non vederlo mai più!» Dagli occhi di Tiffany scomparve lo sguardo pieno di entusiasmo. «E allora chi?» Infine capì. «Vuoi dire che vai a trovare Mark?» chiese in un tono che rivelava una traccia di disprezzo. «Be', perché non dovrei?» ribatté Linda. «È un tale... be', è una mezzacalzetta, non è vero?» I lineamenti di Linda si irrigidirono. «Solo perché non è un fanatico degli sport come tutti qui in giro non significa che sia una mezzacalzetta. Si dà il caso che sia un ragazzo simpaticissimo. E tra l'altro non va in giro a saltare addosso ai ragazzi molto più piccoli di lui.» Tiffany non riuscì a rinunciare all'occasione. «Non ci sono ragazzi più piccoli», osservò, «a meno che tu non li cerchi alle medie.» Vedendo che a Linda stavano venendo le lacrime agli occhi si addolcì. «Mi dispiace», si scusò. «E ti coprirò, certo. Salutalo da parte mia, va bene?» Linda annuì, poi si voltò e uscì in fretta dalla scuola. Venti minuti dopo arrivò al piccolo ospedale della contea ed entrò nella sala d'aspetto. Tranne una donna ispano-americana, con il viso pallido e gli occhi infossati e stanchi, la stanza era deserta. Linda si guardò intorno incerta per un momento, poi andò a suonare il campanello sul banco che separava la reception dall'ufficio. «È nella stanza di Ricardo», disse improvvisamente la gracile donna. «Sta facendo il bagno a mio figlio.» Linda si voltò verso la donna, rendendosi conto di chi era ma senza sapere che cosa dirle. Prima che potesse parlare Susan Aldrich comparve. «Fatto, signora Ramirez», disse, poi riconobbe Linda. «Ehi, ciao. Come mai qui?» Istintivamente diede un'occhiata all'orologio. «È l'ora di pranzo», spiegò Linda. «Ho pensato di uscire e di venire a salutare Mark.» «Mark?» ripeté l'infermiera con sguardo assente, poi capì. «Ah, vuoi dire Mark Tanner. Non c'è più.» Linda guardò l'infermiera sconcertata. «Ma ieri sera l'hanno portato qui.» Susan Aldrich annuì. «E se ne è andato questa mattina, quindi penso che
non doveva avere niente di serio.» Linda non riuscì quasi a crederci. Ricordò di aver visto di sfuggita Mark, la sera prima, mentre lo portavano fuori dalla sala di pronto soccorso, con il viso pieno di lividi e gonfio e con il torace coperto da pesanti fasciature. «Ma dov'è andato?» chiese a bassa voce. «A casa, suppongo», rispose Susan. «Se vuoi posso controllare. Questa mattina quando sono arrivata qui era già stato dimesso.» Linda scosse la testa. Se si sbrigava faceva in tempo a passare dai Tanner, salutare un momento e tornare a scuola per la quinta ora. Quando Linda arrivò Sharon Tanner stava uscendo di casa. «Ciao!» la salutò. «Mi hai preso appena in tempo. Stavo andando all'ospedale.» Sollevò qualche rivista e un libro. «Mark si sarà annoiato della TV, ormai, non credi?» Linda fissò Sharon a bocca aperta. Di che cosa stava parlando? «Ma-ma non è qui?» chiese. «Sono appena andata in ospedale e mi hanno detto che è stato dimesso stamattina!» Sharon la fissò senza espressione, stordita e perplessa. Ci doveva essere un errore: quando era andata via dall'ospedale il dottor MacCallum aveva detto chiaramente che Mark non sarebbe stato dimesso fino alla mattina seguente o al più presto quella sera. «Ma è assurdo!» protestò. «Deve per forza essere là. Con chi hai parlato?» Linda ripeté quello che era successo in ospedale. Mentre ascoltava, gli occhi di Sharon si incupirono per la preoccupazione, ma si afferrò ancora all'idea che dovesse esserci un equivoco. «Vieni», disse a Linda, e ritornò verso casa. «Chiamerò l'ospedale e chiarirò questa faccenda. Mio Dio», soggiunse, costringendosi a fare una debole risata. «Non possono averlo perso, vero?» Cinque minuti dopo, quando riuscì finalmente a parlare con il dottor MacCallum, non rideva più. «Ma perché nessuno mi ha detto niente?» chiese bruscamente. «Non ho mai nemmeno parlato con il dottor Ames!» Ascoltò impazientemente mentre MacCallum le spiegava che cosa era successo. «Ma è ridicolo», protestò quando lui ebbe finito. «Lei stesso ha affermato che non aveva niente di grave. E perché avrebbe dovuto avere bisogno di uno specialista in medicina sportiva? È stato picchiato, non si è infortunato in una partita di football.» «Non lo so», rispose sinceramente MacCallum. «Tutto quello che posso dirle è che sull'ordine di dimissione c'era la firma di suo marito. L'ho per-
fino confrontata con quelle sui moduli che aveva riempito ieri sera, tanto per essere sicuro. Non mi è venuto in mente che stamattina non gliel'avesse detto, altrimenti le avrei telefonato.» Quando finalmente riattaccò, la preoccupazione di Sharon era stata sostituita da una fredda rabbia. Che suo marito avesse fatto trasferire Mark in un altro ospedale senza nemmeno dirglielo... era scandaloso! Lasciò Linda a scuola, non sentendosi affatto meglio alle assicurazioni della ragazza che il dottor Ames aveva in cura Robb quasi da quando si erano trasferiti a Silverdale, e che Robb era entusiasta della cura a cui questi l'aveva sottoposto. «Ma non è quello il punto», cercò di spiegare. «Sono certa che non c'è niente che non va. Mi secca solo che nessuno mi abbia detto niente di quello che avrebbero fatto con Mark, ecco tutto!» Linda scese dalla macchina e chiuse lo sportello. «Dica a Mark che verrò a trovarlo dopo la scuola», gridò. Ma era troppo tardi. Sfogando la propria rabbia sull'acceleratore, Sharon era già lontana dalla scuola, con le gomme che stridevano protestando. Mark era disteso con la mente annebbiata e guardava senza espressione un grande monitor sospeso dal soffitto sopra la sua testa. Aveva le orecchie coperte da una cuffia e con le medicine che gli ottenebravano il cervello solo le immagini sullo schermo e i suoni nelle sue orecchie erano reali. Sembrava un sogno... un sogno piacevole in cui camminava lungo la riva ombrosa di un fiume, fermandosi ogni tanto a osservare l'acqua che rimbalzava sulle rocce o una tartaruga acquatica che stava al sole su un tronco. In alto volavano degli uccelli, e il loro canto, mescolato al chiacchiericcio dell'acqua corrente, gli riempiva le orecchie. Da un boschetto di pioppi davanti a lui sbucò un cervo, e Mark si fermò a osservare l'animale che brucava svogliatamente un ciuffo d'erba vicino al corso d'acqua. Poi altre immagini cominciarono a tremolargli in modo vago nella mente, immagini che non riusciva a vedere bene ma che venivano nondimeno registrate e ricordate dal suo subcosciente. Erano queste immagini, quelle che non riusciva a vedere bene, che avrebbe ricordato più tardi. Tutto il resto, la visione del corso d'acqua e degli uccelli che cantavano, sarebbe svanito. Così come sarebbe svanita la realtà di quello che stava succedendo attorno e dentro di lui.
Era ancora legato al lettino metallico, ma non si trovava più nell'ambulatorio in cui l'avevano portato al suo arrivo al centro sportivo. E in realtà le cinghie non erano necessarie, perché Mark aveva cessato di lottare immediatamente dopo la prima iniezione... la prima di una dozzina e passa che gli erano state praticate nelle poche ore passate da quando si trovava in quel luogo. Il corpo di Mark, rilassato come la sua mente, si sottoponeva alla cura senza opporre resistenza. Ma mentre trasportavano il lettino metallico da una stanza all'altra avevano lasciato le cinghie, più per precauzione che per altro. Il corpo di Mark, come quello di Randy Stevens e di Jeff LaConner in periodi precedenti, era collegato a una serie di apparecchi di misura e di monitor. Una fleboclisi scendeva a gocce in un ago fissato saldamente alla coscia destra, e un'altra prelevava lentamente ma continuamente dei campioni di sangue che venivano analizzati quasi nello stesso momento in cui attraversavano il tubicino capillare attaccato all'ago. Un analizzatore sospeso sopra il suo corpo si muoveva lentamente su e giù per tutta la lunghezza del tavolo, inviando una serie di dati in costante cambiamento a un computer che ronzando piano espandeva e ingrandiva le immagini ridotte a cifre a mano a mano che venivano assorbite nella memoria, passandole poi a un monitor più grande del normale. Dentro di lui si erano già verificati dei cambiamenti, dei cambiamenti drastici anche se impercettibili a occhio nudo. La frattura capillare nella mandibola era quasi scomparsa, e le costole incrinate stavano guarendo rapidamente. Le sue ossa, stimolate dalle massicce dosi di ormoni sintetici che avevano cominciato a inoculargli sin dalla mattina presto, avevano cominciato a reagire, riproducendo le proprie cellule a una velocità accelerata che aveva già aggiunto un millimetro e mezzo all'altezza di Mark e quasi mezzo chilo al suo peso. Da quasi cinque ore Martin Ames supervisionava il trattamento cui era sottoposto Mark, attento a osservare la minima traccia di reazioni negative. Fino a quel momento tutto procedeva anche meglio delle sue più rosee aspettative. Molte persone non avrebbero nemmeno saputo che cosa cercare, ma Ames era in grado di percepire i cambiamenti nel corpo di Mark quasi nello stesso momento in cui si verificavano. La capacità dei suoi polmoni era leggermente aumentata, come pure le dimensioni del suo cuore. La sua pressione sanguigna, leggermente alta quando era stato portato lì quella mattina, in quel momento era normale, e
Ames si sentì soddisfatto notando che i fattori di compensazione che aveva introdotto per controllare lo stato emotivo di Mark prima che gli venisse misurata la pressione per la prima volta si erano rivelati, a quanto pare, assolutamente esatti. Perfino il cervello di Mark mostrava dei cambiamenti chimici quasi impercettibili, cambiamenti che avrebbero presto avuto un corrispondente fisico. Eppure, Ames lo sapeva, senza gli ingrandimenti prodotti dalla batteria di computer Mark non sarebbe sembrato diverso dal ragazzo che era stato poche ore prima. Un debole campanello elettronico squillò disturbando la concentrazione di Ames, che alzò gli occhi irritato. Sulla parete lampeggiava una luce blu. Potevano essere già passate davvero cinque ore da quando era entrato nella sala del trattamento e i suoi aiutanti avevano circondato il tavolo e apportato le continue, impercettibili regolazioni delle sostanze chimiche che entravano nel corpo di Mark mentre lui emetteva tranquillamente un flusso costante di ordini? La tensione dei suoi muscoli gli disse che era proprio così. «Va bene», disse stirandosi in tutta la lunghezza del suo metro e ottanta abbondante e massaggiandosi la spalla sinistra. «Basta, per adesso.» Immediatamente uno degli aiutanti arrestò il flusso della flebo nella coscia di Mark e un altro estrasse l'ago dalla vena e applicò sul punto un batuffolo di cotone impregnato di alcol. Era un ago sottile, e il segno che aveva appena lasciato era quasi invisibile, al centro di un minuscolo livido che sarebbe scomparso in poche ore. Altri aiutanti cominciarono a togliere le apparecchiature di controllo. A uno a uno gli schermi si spensero, tutti meno quello che mostrava l'attività cardiovascolare di Mark. Sarebbe stato l'ultimo a venire rimosso, dopo la fine dell'ultima fase del trattamento. Ames osservò impassibile gli aiutanti che si affacendavano. La seduta era andata in modo perfetto. Era certo che la prognosi per Mark Tanner era favorevole. A meno che... La sua mente cambiò registro, e ripensò a Jeff LaConner, che era stato nel locale solo poche ore prima, collegato alle stesse apparecchiature. Non sapeva ancora che cosa fosse andato storto con Jeff. Era stato così attento, e aveva modificato il trattamento non appena aveva visto che il ragazzo presentava i primi segni di una reazione negativa. Non aveva funzionato;
le condizioni di Jeff non avevano fatto altro che peggiorare. Da qualche parte una risposta c'era, e lui era deciso a trovarla, a scoprire l'errore di calcolo nella miscela di ormoni che aveva scatenato quell'esplosiva reazione in Jeff e in tutti gli altri. Nel frattempo Mark Tanner, con la sua anamnesi di febbre reumatica e crescita ritardata, avrebbe fornito altri dati, altre conoscenze, altro progresso. Come aveva promesso Jerry Harris, Mark era un soggetto perfetto per fare esperimenti. E alla fine, penso Ames, anche Mark avrebbe potuto trarre vantaggio, tanto quanto lui stesso, dal trattamento sperimentale. A meno che... Mentre la squadra di aiutanti terminava il suo lavoro scacciò quel pensiero dalla mente. Lo schermo sopra la testa di Mark si era spento, e la cuffia era stata tolta. Il ragazzo si stava muovendo, mentre le medicine che inibivano la consapevolezza venivano eliminate dal suo flusso sanguigno. Ancora pochi minuti e si sarebbe svegliato. «Levategli le cinghie prima che cominci ad agitarsi», disse Ames facendo un passo avanti e togliendo dalle mani dell'assistente capo un ago ipodermico. «Non vogliamo che gli rimanga qualche segno.» Controllando con cura l'ago, lo introdusse in una vena del braccio destro di Mark e premette lo stantuffo. Quasi nel momento stesso in cui l'insulina gli entrava nel circolo sanguigno il ragazzo cominciò a sudare freddo e a tremare violentemente. Il tremito aumentò. Bruscamente l'espressione sognante sul viso di Mark venne sostituita da una smorfia di dolore e di paura. Poi cominciarono le convulsioni, e il suo corpo iniziò a sussultare spasmodicamente mentre entrava nella terza fase dello choc insulinico. Solo quando ripiombò nell'incoscienza e il suo corpo si rilassò Ames fece un cenno di assenso. «Va bene», disse. «Portatelo via e vestitelo. Quando si sveglierà non ricorderà niente.», Piegò le labbra in un sorriso sardonico. «In realtà» soggiunse, «probabilmente si sentirà meglio di quanto non si sia mai sentito in vita sua.» Sulle prime Sharon Tanner non fu sicura di essere arrivata nel posto giusto. Aveva percorso i tre chilometri fuori città quasi senza rendersene conto, semplicemente seguendo la strada, mentre la sua rabbia, principalmente diretta verso Blake, aumentava. Perché avrebbe dovuto fare una cosa simi-
le senza chiedere il suo parere? Non era da lui; non era assolutamente da lui. Ma anche mentre la sua rabbia cresceva la parte razionale della sua mente le fornì la risposta alla propria domanda. Se avesse chiesto il suo consenso lei avrebbe semplicemente ritenuto che fosse un'altra fase della sua campagna per interessare Mark allo sport e si sarebbe automaticamente opposta. E lui avrebbe avuto ragione. Arrestò bruscamente la macchina e fissò la costruzione alla sua destra. Il centro sportivo assomigliava più a un campus che a una clinica, completamente circondato com'era da prati ben tenuti. Ma poi, avvicinandosi, si rese conto che non erano prati: erano campi da gioco, uno dietro l'altro, senza fine. Almeno due campi da football, un diamante da baseball e un campo di hockey. C'era anche una pista, con una parte interna che vantava una serie di ostacoli alti e bassi, una pedana per il salto in lungo e una per quello in alto, come pure diverse sbarre per gli allenamenti. Al centro di tutto ciò si trovava quello che sembrava un albergo di villeggiatura, ma tra lei e la costruzione c'era un cancello chiuso. Fermò la macchina davanti al cancello, abbasso il finestrino e premette un pulsante su una grande scatola metallica fissata a una colonna di ferro. Un istante dopo una voce maschile gracchiò da un altoparlante dentro alla scatola: «Desidera?» «Voglio vedere il dottor Ames» disse Sharon con voce un po' più forte di quanto intendesse. «Mi chiamo Sharon Tanner. Sono la madre di Mark Tanner.» «Un momento, per favore», rispose la voce. L'altoparlante tacque. I secondi passarono, e dopo circa un minuto Sharon si chiese se per caso non avesse davvero sbagliato posto. Stava pensando a quello che doveva fare, quando l'altoparlante entrò di nuovo in funzione; contemporaneamente il cancello cominciò ad aprirsi. «Parcheggi davanti alla costruzione ed entri dalla porta principale, signora Tanner», le disse la voce senza volto. Tolse il piede dal freno e percorse lentamente il vialetto d'accesso, impressionata da quello che vedeva nonostante la rabbia. Era una graziosa costruzione che ben si adattava alle montagne che la circondavano, e di qualunque cosa si trattasse era ovviamente ben riuscita. Parcheggiò la macchina, salì in fretta i gradini, attraversò l'ampia veranda ed entrò nell'atrio spingendo la pesante porta di quercia. Una donna sorridente, con un camice aperto su un vestito di buon taglio la stava aspettando.
«La signora Tanner?» chiese la donna, poi continuò senza aspettare risposta. «Sono Marjorie Jackson, l'assistente del dottor Ames. Tutti mi chiamano Marge. Mi segua, per favore.» Sharon strinse le labbra, ma nonostante l'impulso di sfogare la collera che le si era accumulata dentro si ritrovò a seguire docilmente Marge Jackson. Attraversarono l'atrio e quella che sembrava una stanza da pranzo, poi si diressero, lungo un corridoio, verso una delle grandi ali dell'edificio. «Sembra tremendamente vuoto, non è vero?» chiese Marge dando un'occhiata a Sharon che camminava dietro di lei. «Ma dovrebbe vedere durante la stagione. L'estate scorsa siamo stati costretti a dar mangiare ai ragazzi in due turni!» Un istante dopo Sharon venne condotta in una serie di uffici. Marge Jackson si sedette a una scrivania. «Penso che sia venuta a trovare», fece una pausa per dare un'occhiata a un dossier davanti a lei sulla scrivania, «Mark, non è vero?» «Sono venuta per molto di più», rispose Sharon in tono gelido. Le piacque vedere il sorriso di Marjorie Jackson scomparire e la donna assumere un'espressione perplessa. «Prego?» disse. «Temo di non capire... C'è qualcosa che non va?» «Che non va?» ripeté Sharon, non facendo niente per nascondere la sua collera. «Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va? Questa mattina ho lasciato mio figlio nell'ospedale della contea e all'ora di pranzo ho scoperto che era stato trasferito. Nessuno ha chiesto il mio parere... nessuno me l'ha detto! E lei vuole sapere se c'è qualche cosa che non va?» L'espressione perplessa di Marge Jackson venne sostituita da un sincero interesse, e improvvisamente Sharon si sentì sciocca. Qualunque cosa fosse successa, non era certo colpa di quella donna. Emettendo un lungo sospiro si appoggiò allo schienale e chiese scusa. Più brevemente che poté spiegò quello che era successo esattamente. Quando ebbe finito, Marge Jackson annuì con comprensione. «Dev'essere stato terribile», disse. «Se mio marito avesse fatto una cosa simile penso che l'avrei ammazzato. Ma sono sicura che è stato solo un equivoco, e posso dirle che è tutto a posto.» «Ma perché Mark è stato portato qui?»,chiese Sharon. «Sembra così, be', assolutamente inutile.» «Temo che dovrà parlarne con il dottor Ames, di quello», rispose Marge. Il viso le si illuminò e fece un cenno verso una persona che era appena entrata. «Eccolo. Dottor Ames, le presento Sharon Tanner, la madre di
Mark.» Sharon si alzò in piedi, sorpresa di vedere che chi le porgeva la mano era un uomo dall'aspetto cordiale, vicino alla quarantina, i cui occhi grigi brillavano mentre le sorrideva. Gli strinse la mano automaticamente, rendendosi conto solo allora che nel subconscio si era aspettata una specie di subdolo mostro che aveva freddamente rapito suo figlio e che si sarebbe scusato mellifluamente per quello che aveva fatto. Ames la guidò fino al suo ufficio, le offrì una tazza di caffè e dopo avere ascoltato il suo racconto le assicurò che era tutta colpa sua. «Avrei dovuto farle telefonare da Marge, se non altro per accertarmi che sapesse quello che stava succedendo. E mi chiami Marty», soggiunse. «Mi chiamano tutti così, perfino molti dei ragazzi.» Sorrise, poi si appoggiò allo schienale. «Comunque», continuò, «sarà contenta di sapere che Mark non ha niente che non va.» «Lo sapevo già», gli disse Sharon. «Il dottor MacCallum l'ha curato la maggior parte della notte, sa.» Ames sembrò confuso. «Lo so, e non volevo certo implicare che Mac non sia a posto. È a postissimo. In realtà è un bravissimo medico.» «E allora perché mio marito ha voluto che lei visitasse Mark, dottor Ames?» chiese Sharon, non ancora convinta. Ames alzò le spalle. «Suppongo che volesse solo un altro parere», rispose. «E penso che Jerry Harris gli abbia detto che la mia specialità è curare ragazzi che hanno avuto problemi fisici e di sviluppo.» Sharon trasalì. Così aveva ragione, almeno in parte. Blake stava ancora cercando un modo per superare le conseguenze della febbre reumatica di Mark. «E lei se l'è fatta, un'opinione?» chiese cercando di mantenere un tono neutro. Marty Ames allargò le braccia con un gesto non impegnativo. «È difficile dirlo, in realtà. Ma l'ho sottoposto a un esame completo, e sono lieto di poterle dire che non ha niente di grave. In effetti, considerata la sua anamnesi, è un ragazzo straordinariamente sano.» Sharon sentì la tensione calare. «Allora quando posso riportarlo a casa?» «Non c'è ragione perché non possa farlo adesso», disse affabilmente Ames. «Gli ho dato un po' di codeina per evitare che il dolore al torace gli dia noia. In un paio di giorni dovrebbe tornare come nuovo.» Sharon fissò Ames. Tutto lì? Si era arrabbiata tanto, era stata così certa che in qualche modo Blake e questo dottore avessero inventato qualche genere di piano. E adesso...
«Senta», disse Ames alzandosi. «Perché non facciamo un giro di questo posto, così le mostro quello che facciamo qui. Quando avremo finito Mark sarà pronto per andarsene.» «Non credo che sia necessario», cominciò Sharon, ma Ames alzò una mano per protestare. «Abbiamo rapito suo figlio, si ricorda?» chiese. «Il minimo che possiamo fare è tranquillizzarla.» Con sua grande sorpresa Sharon si ritrovò a seguire obbedientemente Ames fuori dal suo ufficio e ad ascoltarlo attentamente mentre la guidava in un giro delle attrezzature e parlava del programma estivo. «Quello che cerchiamo di fare», disse mentre entravano in una palestra equipaggiata con apparecchiature che Sharon non aveva mai visto prima, «è trattare i ragazzi come individui. Mi è sempre sembrato che affermare che ci sia un'unica dieta, o un unico regime di allenamento, o perfino un unica medicina che vada bene per tutti i ragazzi sia assolutamente assurdo. E dato che ogni ragazzo che viene qui ha un problema specifico di qualche genere, cerco di non considerarli semplicemente dei ragazzi. Sono individui, e devono essere trattati come tali.» Sharon si soffermò a fissare una cyclette che aveva davanti un grande schermo curvo. «A che cosa diavolo serve, quello?», chiese indicando lo schermo. Ames fece un largo sorriso.«È mai salita su uno di questi aggeggi?» chiese. Sharon annuì. «Ho provato qualche anno fa. Ho comperato una cyclette, l'ho usata due o tre volte, poi l'ho venduta. È stata la cosa più noiosa che abbia mai fatto in vita mia.» «Provi questa», suggerì Ames. Sharon esitò ma poi, spinta dalla curiosità, montò sulla cyclette. Fu sorpresa quando scoprì che il manubrio non era fisso ma si muoveva agevolmente a destra e a sinistra. Ames si avvicinò al quadro di comando di un piccolo computer e lo accese. «Le piace San Francisco?» chiese. Sharon aggrottò le sopracciglia. «Piace a tutti, no?» Un attimo dopo nella palestra si affievolirono le luci e lo schermo di fronte a Sharon si illuminò con una vivace veduta di Market Street. Provò la sensazione di trovarsi sulla destra della strada, di fronte ai Twin Peaks, e le auto sfrecciavano in entrambe le direzioni. «Cominci a pedalare», le disse Ames. I suoi piedi cominciarono a far girare lentamente i pedali, e sorprenden-
temente il quadro sullo schermo cambiò. Era come se stesse muovendosi lungo la strada. «Acceleri un po' e si sposti in mezzo al trafficò», le ordinò Ames. Alzando le sopracciglia, Sharon aumentò la velocità delle pedalate e girò il manubrio a sinistra. Il quadro cambiò ancora, e le sembrò di trovarsi al centro della corsia di destra. Continuò a pedalare, poi udì Ames che le diceva di svoltare a destra in Van Ness Avenue. Mentre le sbarre del manubrio si spostavano tra le sue mani il quadro girò e poté vedere il grande viale che si estendeva verso nord. Continuò a pedalare, osservando il noto panorama della città dispiegarsi davanti a lei. Fece parecchie altre voltate, poi arrestò la cyclette, sentendosi sciocca quando si rese conto che in realtà si era fermata accanto al marciapiede. Quando lo schermo si spense e le luci si alzarono guardò Ames stupita. «Che cos'è?» chiese. «Come funziona?» «È fatto tutto con i computer», le spiegò Ames. «Praticamente tutta la città a nord di Market Street e a est di Divisidero viene incisa su un disco laser collegato al manubrio. Può girare per tutta San Francisco e guardare quello che vuole. E simula anche le colline, così non si deve mai cambiare la spinta sui pedali.» Le fece un largo sorriso. «E adesso le chiedo: è stato noioso?» Sharon scosse la testa. «No, è stato magnifico. Avrei potuto continuare per un paio d'ore.» «È così per tutti», osservò sarcasticamente Ames. «Il problema, qui, non è fare allenare i ragazzi. È farli smettere.» Diede un'occhiata all'orologio. «Be', è proprio così. Andiamo a vedere a che punto è Mark.» Si avviarono verso gli uffici, ma quando arrivarono all'atrio principale Mark balzò in piedi da un divano su cui stava sdraiato. «Ciao, mamma», le disse con un largo sorriso. Sharon lo fissò. I lividi sul suo viso avevano un aspetto molto migliore, e mentre la mattina era pallido, quasi cinereo, aveva ora le guance di un sano colorito roseo. L'occhio destro era ancora un po' gonfio, ma era in grado di aprirlo, e al di sotto la contusione sembrava in via di guarigione. «Mark?» sussurrò. «Tesoro, stai bene? Il tuo torace...» Mark le sorrise. Quando si era alzato in fretta dal divano non aveva sentito il minimo dolore. «Sto bene», le assicurò. «Marty mi ha dato qualcosa per le costole e non mi fanno assolutamente male.»
Sharon lo fissò per quasi un minuto. Aveva un aspetto migliore di quanto credesse possibile. Fu solo mezz'ora dopo, mentre attraversavano la città per ritornare a casa, che le si presentò improvvisamente un pensiero. Dopo la mattina passata al Rocky Mountain High Mark era quasi come la città. Perfetto. Troppo perfetto. 15 «Non importa quello che hai pensato, o quello che ti ha detto Jerry Harris», insistette Sharon. «Sono tua moglie, e la madre di Mark. Non avevi il diritto di prendere una decisione che riguarda nostro figlio senza nemmeno dirmelo!» Erano nella piccola zona salotto della camera da letto matrimoniale. Nel caminetto il fuoco stava spegnendosi lentamente. Blake l'aveva acceso quando erano saliti, un'ora prima, perché quel pomeriggio era arrivato dal nord un forte freddo e fuori nevicava debolmente. Ma a Sharon non importava né della nevicata né del fuoco, e fissava il marito piena di rabbia. «Hai capito quello che ho detto?» Blake alzò stancamente le spalle. Gli sembrava che la discussione avesse cominciato a girare su se stessa molto tempo prima, ma ripeté una volta ancora quello che le aveva detto già tre volte: «Hai già ammesso che al centro non gli è successo niente di terribile. In realtà, considerato tutto, ha un aspetto tremendamente buono. E questa mattina eri esausta... eri stata sveglia tutta notte e non avevi le idee chiare.» «Ma tu...» cominciò Sharon. «Basta!» esclamò Blake. Aveva continuato a camminare su e giù per la stanza, poi si era fermato alla finestra a osservare la neve che cadeva al suolo ondeggiando. Si girò verso di lei, con la mascella dura e un'espressione che le disse che aveva esaurito la pazienza. «Per l'amor del cielo, Sharon, che cosa credi che intendessi? Non è come se avessi cercato di fare qualche cosa di terribile! Jerry ha solo consigliato di farlo visitare da Ames, e sembrava una buona idea! Se mi sono sbagliato, mi sono sbagliato, e chiedo scusa. Ma non mi sono sbagliato!» «Non puoi parlare piano?», chiese Sharon abbassando la voce in un rauco sussurro.«Non è necessario far sapere a tutto il vicinato che stiamo liti-
gando, vero?» Fu un errore. Sharon lo capì nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole. Blake strinse la mascella e i suoi occhi brillarono per la rabbia. «No di certo. In realtà non c'è alcun motivo di litigare. Arrivederci.» Uscì dalla stanza prima che Sharon potesse parlare. Lo sentì scendere le scale in fretta, poi udì sbattere la porta sul davanti. Dalla finestra d'angolo della torretta lo guardò allontanarsi dalla casa, con le spalle curve e la testa bassa. Camminava in fretta, e lei fu certa di sapere dove stava andando. Dagli Harris, dove Jerry gli avrebbe assicurato che aveva fatto la cosa giusta, qualunque cosa potesse pensare sua moglie. Si allontanò dalla finestra e aggiunse al fuoco un pezzo di legna, come se quel gesto mettesse fine al litigio. Non era giusto, si rimproverò. Se Jerry avesse pensato che Blake si sbagliava non avrebbe esitato a dirglielo. Si raggomitolò nella poltroncina ricoperta di chinz accanto al caminetto e cercò di ordinare razionalmente i propri pensieri, accantonando con decisione la rabbia causata dal fatto che Blake non l'aveva consultata prima di mandare Mark da Marty Ames. Complessivamente doveva ammettere che il marito aveva ragione... di certo il dottore non aveva fatto nessun male, a Mark; in realtà, a quanto sembrava, gli aveva fatto molto bene. E da quello che aveva detto Mark mentre tornavano a casa Ames non aveva poi fatto granché. In effetti, in retrospettiva si ritrovò a ridacchiare per l'esasperazione di Mark quando aveva insistito perché le fornisse i particolari di quello che era effettivamente successo al centro sportivo. Non era stato diverso da quando chiedeva a Kelly che cosa era successo a scuola un dato giorno. «Niente», era l'immancabile risposta della figlia, e così era stata anche quella di Mark quando aveva la stessa età. Infine quel pomeriggio, quando l'aveva accompagnato a casa, si era voltato verso di lei mostrando chiaramente negli occhi il disprezzo di un adolescente per la stupidità della madre. «Te l'ho detto, mamma, non è successo assolutamente niente», aveva insistito. «Il dottor Ames mi ha visitato e mi ha fatto un'iniezione di codeina per le costole, e poi ho fatto un po' di ginnastica. Ecco tutto.» «Ginnastica?» gli aveva fatto eco Sharon, gettandogli un'occhiata dubbiosa con la coda dell'occhio. «Mio Dio, Mark, hai tre costole incrinate. Deve averti fatto male come...» «Non mi ha fatto per niente male», la interruppe Mark, non avendo af-
fatto l'intenzione di dire alla madre che in realtà era svenuto per un minuto mentre si allenava con un vogatore. Si sarebbe arrabbiata come una matta e l'avrebbe messo a letto per il resto della giornata. E poi non era stato niente di importante. Aveva aperto gli occhi e uno degli assistenti di Marty Ames gli stava sorridendo. Per un attimo si era chiesto che cosa fosse successo, poi la memoria gli era tornata a pezzi e bocconi. Non aveva idea che quei ricordi erano solo quelli che erano stati introdotti nel suo subconscio, accuratamente e subliminalmente, durante le lunghe ore che aveva passato sul tavolo metallico nella sala dei trattamenti. Di quella penosa prova non conservava ricordo alcuno. Infine Sharon aveva lasciato cadere l'argomento quando aveva svoltato nel loro vialetto d'accesso e aveva messo la macchina in garage. Chivas, che sonnecchiava sdraiato vicino alla porta posteriore, si era alzato pigramente in piedi. Mentre Mark scendeva dalla macchina il cane aveva abbaiato con gioia all'inaspettata ricomparsa del padrone. Era balzato in avanti scuotendo la coda, poi però si era fermato improvvisamente. Aveva lasciato cadere la coda e aveva drizzato leggermente il pelo sul collo mentre un incerto ringhio gli brontolava in gola. «Ehi, amico, non mi riconosci?» aveva chiesto Mark. Si era chinato e Chivas, accucciandosi a terra, si era fatto avanti piano piano, annusando con circospezione la mano tesa di Mark. «Che cos'ha?» aveva chiesto Sharon. Mark aveva allungato la mano e aveva grattato il collo del cane, poi aveva sorriso alla madre. «Dovrei essere a scuola, e scommetto che ho un odore davvero strano dopo una notte passata in ospedale. Probabilmente ho lo stesso odore dell'ambulatorio del veterinario, e tu sai che non lo può soffrire.» Sharon aveva quasi dimenticato l'incidente fino all'ora di cena, quando Mark, che era stato chiuso in camera sua la maggior parte del pomeriggio, era sceso a tavola. Per tutta la cena Sharon aveva notato che Kelly sembrava insolitamente tranquilla. Parecchie volte l'aveva colta mentre guardava Mark di nascosto, con un'espressione perplessa. Era stato solo quando si erano trovate da sole in cucina che Sharon aveva infine chiesto a Kelly la ragione del suo comportamento. «Non lo so», aveva detto Kelly fissando la madre con occhi seri. «Sembra diverso, mi pare.» «Be', certo che lo è» aveva replicato Sharon. «Ha un occhio nero e un brutto taglio.»
«Non volevo dire quello», aveva protestato Kelly. «È il suo aspetto. Non è più lo stesso.» Quella era la vera ragione della sua discussione con Blake, decise Sharon in quel momento, fissando il fuoco. Aveva cercato di parlargliene, aveva cercato di spiegare quello che era successo con Chivas e quello che aveva detto Kelly dopo cena, ma lui non vi aveva dato importanza. «Certo che Mark è diverso», aveva detto. «È stato picchiato e medicato, e se le ferite non l'hanno cambiato puoi scommettere che l'ha cambiato la zuffa. Non si picchia una persona come è stato picchiato lui senza che cambi nell'intimo.» «Ma non è nell'intimo», aveva insistito Sharon. «Chivas l'ha visto, e anche Kelly, e credo di averlo capito anch'io. Non è lo stesso di prima.» Alla fine non era stata in grado di indicare esattamente in che cosa Mark fosse cambiato, e aveva rinunciato a far capire a Blake quello che lei stessa non riusciva a descrivere. Per la verità, aveva ammesso con se stessa, forse non c'era niente da capire. Forse voleva capire qualche cosa a tutti i costi semplicemente per giustificare la sua rabbia verso Blake per avere mandato Mark da Ames senza parlargliene prima. Fece un profondo respiro e si alzò, compiendo uno sforzo quasi fisico per allontanare le ultime trace di rabbia e i suoi dubbi vaghi e indescrivibili. Mark era sembrato davvero contento per tutto il giorno, e per niente preoccupato per le ore trascorse al centro sportivo. Se mai sembrava che gli fossero veramente piaciute. E quindi perché doveva continuare a preoccuparsi? Attizzò il fuoco, spostando all'indietro il pezzo di legna che bruciava, contro il parafiamma, e sistemando un parafuoco davanti al camino. Scendendo dabbasso, vide Kelly alla finestra del soggiorno, che guardava malinconicamente la neve. Leggendole nel pensiero, Sharon sorrise alla figlia. «Vuoi andare a fare una passeggiata nella neve», le chiese. Gli occhi di Kelly si illuminarono per l'entusiasmo. «Davvero?» «Andiamo», rispose Sharon. Parecchi minuti dopo, infagottate nelle giacche a vento che Sharon aveva comperato solo pochi giorni prima, madre e figlia uscirono nella sera piena di neve. I fiocchi erano grandi e soffici, e mentre si avviavano lungo il marciapiede l'aria fredda pizzicò loro le guance; ben presto vennero avvolte dall'ovattato silenzio che accompagna sempre la prima neve dell'anno. Kelly allungò una mano e prese quella della madre. «Mi piace, qui», disse guardandosi intorno con lieta meraviglia. «Non sei contenta che ci sia-
mo trasferiti?» Per un istante Sharon rimase in silenzio, poi il senso di calma che dava la nevicata invase anche lei. «Sì», rispose. «Credo di sì.» Ma le vennero dei dubbi nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole. Charlotte LaConner rabbrividì guardando la neve che si accumulava lentamente sul prato davanti alla casa. In circostanze normali sarebbe stata felice di vederla, perché significava che la stagione sciistica era alle porte e che Natale, il periodo dell'anno che preferiva, era proprio dietro l'angolo. Ma quella sera il bianco là fuori rifletteva solo il gelo che sentiva nell'anima, e infine si allontanò dalla finestra e si voltò a guardare il marito. I suoi occhi, lo sapeva, erano rossi e irritati, e le sue guance erano ancora rigate di lacrime. «Ma non è giusto», affermò ancora una volta. «Sono sua madre», Chuck. «Non ho il diritto di vederlo?» Chuck LaConner, con il ricordo dei lineamenti stravolti del figlio ancora scolpito profondamente nella mente, si costrinse a guardare in faccia Charlotte mentre ripeteva ancora una volta la storia che lui e Ames avevano concordato la notte prima. Spiegava razionalmente a se stesso che almeno le sarebbe stata risparmiata la vista di ciò che era diventato Jeff. Meglio che vivesse nell'ignoranza piuttosto che avere per sempre scolpita nel cuore quella terribile visione. «Non servirebbe né a te né a lui» disse di nuovo. «Char, non ti riconoscerebbe nemmeno.» «Ma è impossibile» gemette Charlotte, rannicchiandosi come se quelle parole l'avessero colpita. «Sono sua madre, Chuck... ha bisogno di me!» «Ha bisogno di riposo», insistette Chuck. «Tesoro, so che sembra assurdo, ma qualche volta queste cose succedono. Ultimamente Jeff è stato molto sotto pressione...» «Ed è colpa mia?» sbottò improvvisamente Charlotte. «Io volevo che abbandonasse la squadra, ti ricordi?» Chuck imprecò tra sé. Ti ricordi? Come poteva dimenticare? La discussione era andata avanti quasi ogni giorno da quando era andata a trovare quel ragazzo in ospedale, e non era ancora stato capace di convincerla che qualunque cosa fosse successa non era colpa di Jeff. Poi si rese conto che forse c'era il modo di rivolgerle contro le sue stesse parole, e mettere fine
alla discussione una volta per tutte. «Ti è mai venuto in mente che i tuoi continui brontolamenti potrebbero aver contribuito a provocare quello che è successo?» chiese in tono volutamente gelido. Mentre lei indietreggiava si ripeté ancora una volta che era tutto per il suo bene. Charlotte si lasciò cadere esausta sul divano e lo fissò con espressione assente. «Ha detto questo?» chiese a bassa voce. «Che è tutta colpa mia?» Chuck si leccò nervosamente le labbra. «Forse non proprio con queste parole», rispose prendendo tempo. «Ma il morale della favola è che la cosa migliore che possiamo fare, tutti e due, è lasciare che i medici si prendano cura di Jeff. E non è per sempre, tesoro», continuò. «Fra un po' di tempo, quando starà meglio...» Non terminò la frase. Parte della sua mente gli disse che aveva appena detto alla moglie una bugia bella e buona; Jeff non sarebbe mai stato meglio. Ma c'era in lui un'altra parte che voleva credere che in qualche modo Marty Ames avrebbe trovato una soluzione alla cosa terribile che stava succedendo a loro figlio. Ma la cosa più importante, in quel momento, era impedire a Charlotte di scoprire esattamente la gravità delle condizioni di Jeff. Naturalmente non si sarebbe mai perdonato per quello che era successo, non si sarebbe mai perdonato per aver fatto partecipare Jeff a un programma medico che comportava dei rischi, non importava quanto piccoli fossero. Aveva perduto suo figlio. L'aveva capito quella mattina, nelle tetre ore prima dell'alba, quando Marty Ames l'aveva finalmente portato a vedere Jeff. Il suo primo istinto era stato di rivoltarsi contro Ames, di colpire l'uomo che aveva fatto una cosa simile. Ma alla fine, come gli succedeva sempre, la ragione aveva prevalso. Era arrivato a capire che in ultima analisi il colpevole era lui stesso, e aveva preso la decisione definitiva di permettere che Jeff venisse curato con i composti sperimentali di Ames. Aveva desiderato tanto che funzionasse, aveva desiderato tanto che Jeff diventasse come tutti gli altri ragazzi, in particolare come tutti gli altri ragazzi di Silverdale, che aveva volutamente ignorato i possibili effetti collaterali della cura di Ames. E così aveva perduto il suo unico figlio. E se Charlotte scopriva quello che aveva fatto avrebbe perso anche lei. Ma non doveva andare così, pensò. Se solo avesse potuto convincerla che i problemi di Jeff non erano affatto fisici, convincerla che a loro figlio era semplicemente venuto un esaurimento nervoso e aveva bisogno di un periodo di riposo, forse lei non avrebbe mai dovuto sapere la verità.
Forse Ames avrebbe trovato una cura e Jeff sarebbe guarito. O forse... Allontanò con decisione dalla mente l'altra possibilità, dicendo a se stesso che non si sarebbe verificata. Sarebbe stato come Jerry Harris gli aveva detto quel pomeriggio. «Non voglio che ti preoccupi di niente», gli aveva detto Harris dopo aver chiamato Chuck nel suo ufficio. «Ho parlato a Marty Ames, e lui crede che ci siano delle buone probabilità di poter invertire il processo. E puoi contare sulla TarrenTech. Tutto quello di cui ha bisogno Jeff l'avrà.» Avevano parlato per un po', e Jerry gli aveva assicurato che non importava quello che sarebbe successo, avrebbero pensato sia a Jeff sia alla famiglia LaConner. «E quando sarà finito tutto», aveva detto Harris, «potrai portare Charlotte dovunque vorrete andare. Non penso certo che vorrete rimanere a Silverdale, non dopo quello che è successo. Ma il mondo è grande, e noi siamo una società grande. E ci prendiamo cura dei nostri.» Anche nel suo dolore e nel suo senso di colpa, Chuck aveva capito perfettamente il messaggio. Quello che era successo a Jeff sarebbe stato nascosto sotto il tappeto, e né la situazione né la parte che in essa lui aveva avuto sarebbero state rese di pubblico dominio. Perun momento aveva odiato Jerry Harris, l'aveva odiato come nessun altro in vita sua. Ma poi ancora una volta era venuto in primo piano il nucleo realistico che aveva nel profondo dell'anima: l'aspetto freddo e analitico della sua personalità che non solo l'aveva reso prezioso alla TarrenTech negli anni, ma che tre anni prima gli aveva fatto considerare tutte le probabilità e gli aveva fatto fare quella che riteneva una scommessa quasi senza rischi con la vita di suo figlio. Era inutile odiare Jerry. Dopo tutto, non aveva fatto anche lui la stessa scommessa con la vita di Robb? E Tom Stevens con Randy? E quanti altri? Erano tutti uguali. Tutti avevano le stesse speranze e le stesse aspirazioni per i loro figli, le stesse ambizioni per loro stessi. Avevano scommesso tutti quanti. La maggior parte aveva vinto. Tom Stevens aveva perso. Adesso aveva perso lui. Ma non doveva perdere tutto. Aveva ancora la sua carriera, e aveva ancora sua moglie. E non intendeva perdere né l'una né l'altra, a nessun costo. Si avvicinò a Charlotte e l'abbracciò. «Migliorerà», le promise. «E appe-
na migliora so che vorrà vederti. Ma per adesso dobbiamo solo lasciarlo tranquillo.» La strinse a sé e sentì che faceva un profondo respiro. «Proverò», promise. Lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. «Ma sentirò la sua mancanza, Chuck», continuò con voce spenta. «Mi manca tanto, ed è stato via solamente un giorno.» Chuck rimase in silenzio, perché improvvisamente non fu più capace né di parlarle né di guardarla. Mark chiuse il libro che stava leggendo e si stese sul letto con gli occhi chiusi. Non era riuscito a concentrarsi sui compiti e capiva che avrebbe dovuto rileggere lo stesso capitolo la sera del giorno dopo. Ma non gliene importava, perché mentre scorreva le pagine vedendo le parole senza capirle veramente aveva ripensato continuamente agli avvenimenti della sera prima e di quel giorno. Ricordava la zuffa: ne ricordava ogni umiliante momento. Sin dal primo istante, quando Jeff l'aveva placcato, non aveva avuto la minima possibilità. E quando era tutto finito e si era trovato sull'ambulanza che lo portava in ospedale, si era sentito come se stesse per morire. E non si era sentito molto meglio quando si era svegliato quella mattina. Ma in quel momento, dopo le ore passate alla clinica del centro sportivo, si sentiva bene. Certo, aveva ancora qualche segno sul viso, ma il dolore se n'era andato, e sembrava che le ferite stessero guarendo rapidamente. In un momento imprecisato della mattinata aveva preso una decisione: non avrebbe mai più permesso a se stesso di farsi picchiare come l'aveva picchiato Jeff LaConner. Anche in quel momento il ricordo lo rendeva furioso, e con la mano destra stretta a pugno colpì con forza il palmo sinistro. Trasalendo per il rumore, Chivas ringhiò piano. Mark si sedette e mise i piedi giù dal letto. «Le cose cambieranno, ragazzo», mormorò al grosso cane, e allungò una mano per grattare la testa dell'animale. Chivas ritirò le orecchie contro il cranio. Uggiolò piano, poi si allontanò scivolando dal tocco di Mark. Il ragazzo si accigliò, infastidito dal cane. Ma poi, notando solo allora la prima neve, dimenticò il fastidio e andò alla finestra per guardare nel cortile posteriore. Sul tetto della conigliera la neve era già alta due o tre centimetri. Anche da lì Mark riusciva a vedere le creaturine che si stringevano insieme in un angolo della gabbia. «Accidenti!» borbottò. «Moriranno dal freddo. Andiamo, Chivas.»
Uscì dalla stanza e scese in fretta le scale, seguito quasi di malavoglia da Chivas. Fu solo quando si trovò accanto all'armadio dell'ingresso, a cercare il suo giubbotto tra la fila di cappotti che vi erano appesi, che notò il vuoto silenzio della casa. Chiamò, poi, quando non ricevette risposta, strinse le spalle con indifferenza. Infilandosi il giubbotto attraversò la sala da pranzo e la cucina e uscì dalla porta posteriore. Chivas abbaiò contento, tornando improvvisamente di buon umore quando la raffica di aria fredda dell'esterno gli colpì le narici. Balzò fuori, ma si fermò bruscamente quando le sue zampe sprofondarono nella neve gelida per la prima volta in vita sua. Il cane annusò con circospezione la strana roba bianca, poi estrasse la lingua e leccò incertamente il tappeto soffice e umido che ricopriva il cortile. Fece un passo avanti, esitò, saltò al centro del cortile, compì tre grandi giri e si rotolò nella neve, sprofondandovi dentro con le spalle. Rialzandosi sulle zampe, Chivas corse verso Mark e si abbassò contro il suolo, scuotendo furiosamente la coda. Mark gli sorrise. «Ti piace, eh?» gli chiese. «Be', lasciami pensare ai conigli, poi cercheremo la tua palla.» Chivas, comprendendo immediatamente il riferimento al suo giocattolo preferito, si precipitò verso lo steccato sul retro, annusando freneticamente per cercare una delle palle da tennis ben masticate che aveva nascosto nel cortile. Mark tirò su fino al mento la cerniera del suo giubbotto e si diresse in fretta verso la conigliera. Sembrò che i conigli, ancora rannicchiati l'uno vicino all'altro e tremanti per il freddo, lo guardassero in attesa. «Avete un po' freddo, ragazzi?», chiese. «Be', possiamo sistemare la faccenda, no? Certo», aggiunse fissando le bestiole con finta severità, «avreste potuto stare un po' più al caldo se aveste pensato di entrare nella vostra tana.» Aprì la porta della grande gabbia, allungò una mano all'interno e azionò l'interruttore che accendeva l'unica lampadina appesa al tetto nell'angolo più lontano del piccolo rifugio. La luce si accese ma i conigli non si mossero. «Andiamo», li incitò Mark. «Non siate tanto sciocchi da stare fuori a morire di freddo!» Allungò una mano verso di loro per spingerli dentro al riparo. Per un istante non successe niente. Poi, prima che Mark potesse allontanare la mano, il grande maschio bianco con le macchie nere spinse di colpo la testa verso la mano di Mark e gli morse un dito. Istintivamente Mark ritrasse la
mano e si mise in bocca il dito sanguinante. Lo succhiò per un momento, poi lo estrasse e lo guardò. Il taglio era piccolo ma profondo, e mentre lo guardava si mise a sanguinare copiosamente. «Maledizione!» imprecò ad alta voce, con gli occhi fissi sul coniglio mentre veniva invaso da.un impeto di rabbia irragionevole. «Ti insegnerò io!» Allungando un braccio dentro la gabbia afferrò il coniglio che l'aveva ferito e lo allontanò dai compagni tremanti. L'animale si agitò tra le sue mani, con le zampe posteriori che scalciavano mentre cercava di liberarsi. Ma Mark non si curò delle contorsioni della bestiola. Lo fissò per un attimo con occhi freddi e privi di espressione, poi lo afferrò per il collo. Mentre Mark cominciava a stringere il coniglio emise un acuto grido, che si interruppe quando l'altra mano di Mark gli lasciò andare le orecchie e gli storse improvvisamente la testa. Si sentì un debole rumore di ossa rotte, e il coniglio si afflosciò tra le mani di Mark. Per un istante fissò vuotamente l'animaletto, come se non sapesse bene quello che aveva fatto. Poi, rigettandolo nella gabbia, si voltò e tornò lentamente verso la casa. Chivas, con una palla in bocca, lo raggiunse alla porta posteriore e uggiolò entusiasticamente. Mark lo ignorò. 16 Charlotte LaConner guardò la figura nello specchio con apatico disinteresse. Era davvero lei, quella che vedeva? Ma conosceva la risposta. La Charlotte LaConner con la quale era cresciuta, la donna che sorrideva gentilmente e i cui dolci occhi castani avevano sempre guardato il mondo con serena accettazione, era sparita quasi completamente durante la settimana appena trascorsa. Al suo posto c'era un pallido fantasma del suo essere precedente. Il sorriso era scomparso, e attorno alle sue labbra si era formato un ruvido reticolato di minuscole rughe. I suoi occhi, infossati per la mancanza di sonno, lampeggiavano sospettosi, e anche in riposo sembravano muoversi costantemente, come in cerca di qualche nemico invisibile che doveva stare in agguato appena fuori del campo visivo, pronto a balza-
re su di lei, ad attaccarla se la sua vigilanza fosse venuta meno anche solo per un istante. La figura dello specchio non era truccata, e la sua carnagione giallognola era esposta allo sguardo di tutti, i suoi lineamenti rigidi ed erano contornati da un floscio intrico di capelli non lavati dal debole luccichio oleoso. Ma l'aspetto di quella figura non aveva nessuna importanza, si rese conto Charlotte, perché nessuno l'aveva visto. Dopo tutto, non era uscita di casa per più di una settimana. Era sabato pomeriggio, anche se Charlotte se ne rendeva conto solo vagamente. Sembrava che per lei il tempo avesse rallentato. In quel momento, mentre si allontanava dallo specchio e dalla strana figura che rifletteva, una persona che era certa di non conoscere, ebbe l'impressione di muoversi con il lento ritmo di una di chi è impantanata in una palude. C'erano delle cose che avrebbe dovuto fare; ne aveva compilato mentalmente un elenco, aggiungendo ogni giorno qualche voce senza cancellare nessuna delle precedenti. Le pulizie, per esempio. Accanto alla poltrona preferita di Chuck c'era un ordinato mucchio di giornali, che aumentava perché ogni giorno lei si rammentava che doveva toglierli ma poi non lo faceva. Sui mobili c'era un sottile velo di polvere, e negli angoli si erano radunati dei batuffoli di lanugine. Con uno sforzo disperato Charlotte cercò di ricomporsi per cominciare le sue faccende, poi si lasciò cadere davanti alla televisione con la mano che si allungava automaticamente verso il telecomando per accenderla. Rimase seduta immobile, con gli occhi fissi sul quadro tremolante che appariva sullo schermo, ma senza capire quello che stava vedendo: la spessa ragnatela che le offuscava la mente escludeva in modo efficace lo stimolo vuoto del cartone animato che veniva proiettato. Chuck era stato paziente con lei, e aveva accettato in silenzio quando, all'inizio della settimana, aveva usato la neve come scusa per non uscire di casa. Ma la neve si era sciolta il martedì mattina, eppure Charlotte era rimasta asserragliata in casa, ritirandosi sempre di più in se stessa, afflitta per l'improvvisa e completa separazione dal figlio. Si rese vagamente conto che la porta posteriore si apriva e si chiudeva. Quando Chuck entrò nel piccolo studio in cui era seduta, appollaiata rigidamente sul bordo della poltrona, come se temesse che sarebbe crollata del tutto se si fosse rilassata, spostò lentamente gli occhi dalla televisione e li fissò sul marito. Chuck la guardò preoccupato. Aveva un aspetto peggiore, quel giorno,
perfino peggiore di quando l'aveva lasciata, la mattina, per una veloce riunione con Jerry Harris. Adesso gli parlava appena, e quando l'aveva osservata, in precedenza, seduta al tavolo di cucina, che mescolava lentamente una tazzina di caffè diventato freddo da un pezzo, si era chiesto se anche lei non fosse ormai perduta, come lo era Jeff. Ma in quel momento, dopo avere visto Jerry, aveva un debole raggio di speranza. «Tesoro?» disse a bassa voce. «Come ti senti?» Charlotte si costrinse a fare un debole sorriso. «C'è tanto da fare», rispose percorrendo incertamente la stanza con gli occhi. «Ma non riesco a mettermici.» Chuck trattenne il respiro, poi le si avvicinò, si sedette sul bracciolo della poltrona e la abbracciò con fare protettivo. «Non importa», mormorò. Lei si voltò e lo fissò negli occhi. «Andiamo via, tesoro. Sono stato trasferito.» Negli occhi di Charlotte apparve uno sguardo perplesso, come se non fosse sicura del significato di quelle parole. «T-trasferito? Ma non possiamo andare da nessuna parte, adesso... siamo a metà anno. Jeff...» Si interruppe, come se il solo fatto di pronunciare il nome del figlio le avesse ricordato che non andava più a scuola. «Andrà tutto bene. È già stato disposto tutto. Andiamo a Boston.» Era la città in cui Charlotte era cresciuta, e aveva sperato che la prospettiva di tornare a casa l'avrebbe fatta uscire dalla depressione che le si era serrata intorno nell'ultima settimana, ma lei lo fissò per un istante e poi scosse la testa. «Ma naturalmente non possiamo andare.» Pronunciò quelle parole in tono spento, come se ripetesse qualche cosa che Chuck doveva già sapere. «No, cara», le disse Chuck. «Questo è stato l'argomento della riunione di questa mattina con Jerry. È tutto stabilito... possiamo partire in qualsiasi momento. Anche oggi, se vuoi.» Finalmente sembrò che le sue parole penetrassero nella nebbia che la circondava. Lo guardò di nuovo, quasi sospettosamente, come un topo che annusa il formaggio in una trappola prima di cercare di afferrarlo. Poi i suoi occhi si schiarirono. «Ma non possiamo!» esclamò. Allontanò il braccio di Chuck e si alzò in piedi. «Non possiamo semplicemente imballare tutto e andarcene... e Jeff? Dobbiamo prendere degli accordi, trovargli un ospedale...» Poi, vedendo il cupo vuoto degli occhi del marito, comprese la verità di quello che le stava dicendo. «Mio Dio!» sussurrò. Vuoi dire che non lo prendiamo con noi,
vero? Pensi che noi ce ne andremo semplicemente e lo lasceremo qui...» «No», protestò Chuck, anche se sapeva che le parole della moglie erano vere. Non doveva essere come Charlotte lo faceva sembrare. «Non possiamo portarlo con noi, adesso», ammise. «Ma quando starà meglio Jerry dice...» «Jerry!» Charlotte gli sputò in faccia il nome. «Avrei dovuto capire che c'entrava Jerry Harris.» Le brillavano gli occhi per la rabbia. «Fa tutto parte di uno dei grandi piani della TarrenTech, vero?» Alzò pericolosamente il tono della voce e scrutò per la stanza come se si aspettasse di vedere Jerry Harris in persona che la osservava da un angolo. «È così?» chiese bruscamente. «Hanno fatto qualche cosa a Jeff, vero? E adesso vogliono comperare il tuo silenzio. Che cosa faranno, Chuck? Ci faranno sparire, come hanno fatto con Tam e Phyllis Stevens?» Aveva tirato a indovinare, ma vide che aveva colpito nel segno. Vedendo lo sguardo di Chuck, in parte di dolore, in parte di paura, si portò una mano alla bocca. «Non essere ridicola», ribatté Chuck, ma la sua reazione controllata era giunta troppo tardi. Per un attimo lei rimase immobile dove si trovava, ad ascoltare le menzogne che gli uscivano di bocca. «A Tam e a Phyllis non è successo niente. Stanno a New York. Tam dirige la Divisione Viaggi e ho visto Phyllis a una riunione a San Marcos meno di cinque mesi fa. Ha un aspetto splendido.» Charlotte strinse gli occhi. «E Randy? Ti hanno detto come sta?» gli sibilò letteralmente contro. «Gliel'hai chiesto?» Per un momento lui non rispose, e il tono della sua voce si alzò pericolosamente. «Gliel'hai chiesto?» ripeté gridando. Chuck era in piedi, e fece un passo verso di lei. «No, non gliel'ho chiesto, ma...» Charlotte si ritrasse, poi si girò di colpo e uscì in fretta dalla stanza. Era una trappola! Adesso lo sapeva. Era tutto una trappola. Doveva uscire, doveva andare via di casa, lontano da Chuck e da tutto quello che stava succedendo. Corse alla porta anteriore senza nemmeno fermarsi a prendere una giacca. Non importava, perché mentre si precipitava fuori non sentì nemmeno l'aria gelida. Si soffermò in mezzo alla strada, spostando in fretta gli occhi sulle altre case dell'isolato. Chi la stava guardando? Quanti erano? Sapevano quello che stava succedendo? Avevano una parte in tutto ciò? Cominciò a correre, quasi barcollando mentre i suoi piedi battevano sul-
le pietre diseguali del selciato. Doveva trovare aiuto, trovare rifugio. Ma dove? A chi si poteva rivolgere? Di chi si poteva fidare? Elaine Harris. Elaine era sua amica da... Abbandonò l'idea. Non si poteva fidare di Elaine... doveva essere coinvolta anche lei. Se c'entrava Jerry, doveva entrarci anche Elaine. Poi ricordò. Conosceva una persona che poteva aiutarla, che poteva almeno ascoltarla. Respirando con singhiozzi soffocati si voltò e corse lungo la strada. Quella mattina Mark era uscito di casa immediatamente dopo aver fatto colazione, e Sharon aveva dovuto ricordargli di dar da mangiare ai conigli, come aveva dovuto fare tutte le mattine della settimana. Aveva alzato gli occhi al cielo per l'irritazione e aveva suggerito che lo facesse Kelly, ma Sharon aveva scosso la testa. «I conigli sono tuoi. Non puoi scaricarli su tua sorella.» Aveva sospirato pesantemente ma si era diretto verso il cortile posteriore e aveva riempito in fretta i contenitori del cibo e dell'acqua all'interno della gabbia. Erano rimasti solo cinque conigli, e mentre guardava Mark che puliva in fretta la gabbia Sharon diresse gli occhi alla piccola croce che segnava il punto dietro il garage in cui Kelly aveva insistito che seppellissero il coniglio che aveva trovato morto nella gabbia il fine settimana precedente. Era stato Mark che era andato a dare un'occhiata quando sabato mattina, il giorno dopo la nevicata, Kelly era entrata gridando che uno dei conigli era morto per il freddo. Quando era rientrato sia Sharon che Blake l'avevano guardato interrogativamente, ma lui aveva alzato le spalle, per niente preoccupato. «Credo che non sia andato dentro assieme agli altri», aveva detto. «Ieri sera ho acceso la luce, e quelli rimasti stanno bene. L'ho buttato nel bidone dell'immondizia.» Kelly, scandalizzata per il trattamento indegno riservato all'animale morto, aveva insistito perché facessero il funerale al coniglio, e quindi dopo colazione erano andati tutti dietro il garage e avevano seppellito il cadaverino in una scatola da scarpe. Solo dopo che Kelly era andata a giocare con una delle sue amiche Sharon aveva disseppellito la scatola, l'aveva sostituita con una pietra e aveva rimesso il coniglio nel bidone delle immondizie, così Chivas non sarebbe stato tentato di disseppellirlo e di portarlo in casa, presentandolo orgogliosamente come un bambino che ha appena vinto una coppa.
Ma mentre la settimana avanzava e diventava sempre più chiaro che Mark aveva perso qualsiasi interesse per le creaturine, si era chiesta che cosa fare con la piccola colonia che era sopravvissuta. Blake aveva suggerito di mangiarli, ma anche se Sharon si ricordava di aver mangiato dei conigli da bambina il pensiero di divorare quelli che erano stati i beniamini della famiglia le faceva rivoltare lo stomaco. In quel momento, mentre Blake era seduto in soggiorno a esaminare un mucchio di incartamenti e Kelly era sdraiata sul pavimento a guardare un cartone animato alla televisione, guardò fuori della finestra le pelose creature che, completamente ignare che il loro futuro era improvvisamente diventato incerto, masticavano tranquillamente il loro cibo. Forse avrebbero potuto semplicemente liberarli e lasciare che si unissero alle numerose colonie di lepri dalla coda bianca che proliferavano in tutta la valle. La sua fantasticheria venne improvvisamente interrotta da un forte picchiare alla porta anteriore. Prima che potesse alzarsi in piedi Kelly si precipitò fuori della stanza. Un minuto dopo era di ritorno con gli occhi sgranati e la voce tremante. «C'è una signora», disse. «E sembra pazza o qualcosa del genere.» Esitò un attimo, poi continuò orgogliosamente: «Non l'ho fatta entrare» Aggrottando la fronte Sharon andò alla porta e l'aprì di pochi centimetri. Per un istante non riconobbe Charlotte LaConner che stava in piedi nella veranda anteriore, con il viso pallido come un cencio e gli occhi cerchiati di scuro arrossati per le lacrime. Ma infine Charlotte parlò. Senza fiato, Sharon spalancò la porta. «Per favore», disse Charlotte con voce stridula e tesa, guardandosi dietro le spalle come se temesse di essere inseguita. «Non ho un posto dove andare. Devi lasciarmi entrare.... per favore?» Mentre Kelly le si stringeva contro Sharon tenne la porta con una mano e con l'altra fece entrare Charlotte. «Charlotte! Che cosa c'è? Che cosa e successo?» «Mi mandano via», singhiozzò la donna. «Vogliono che vada via e dimentichi Jeff. Ma è mio figlio, Sharon!» gemette. «Non posso dimenticarlo. Non posso!» Sharon fissò Charlotte LaConner con la testa che le girava. Di che cosa stava parlando? Jeff era da qualche parte in un ospedale, no? Cominciò a guidare delicatamente Charlotte verso la cucina e il soggiorno al di là, poi si rese conto che Kelly era ancora dietro di lei e guardava con curiosità la donna sconvolta. «Va' in camera tua, tesoro», le disse. «Solo per un po'. Va bene?»
Per un attimo pensò che Kelly avrebbe protestato, ma poi, come se capisse che stava succedendo qualche cosa che lei non doveva sapere, salì le scale. Quando fu in cima si voltò e guardò indietro. «È la madre di Jeff LaConner?» chiese. Sharon esitò, poi annuì. Kelly sembrò sul punto di soggiungere qualche cosa, ma cambiò bruscamente idea e sparì nel corridoio verso la sua stanza. Quando Sharon e Charlotte entrarono nel soggiorno Blake si era già alzato in piedi. Quando vide in che stato si trovava Charlotte cominciò a rimettere in fretta i documenti nella cartella. «Me ne vado tra un secondo», borbottò. Ma tacque quando gli occhi velati di Charlotte si fissarono su di lui. «Ci sei in mezzo anche tu?» chiese bruscamente, con la voce che non era più che un roco rantolo. Lottando per riprendere il fiato, che aveva quasi esaurito nella sua pazza corsa per le strade, si lasciò cadere sul divano. Ma i suoi occhi continuarono a fissare Blake. «In mezzo... io?» chiese Blake. Di che cosa stava parlando, quella donna? Naturalmente sapeva dell'esaurimento nervoso di Jeff LaConner. Aveva anche aiutato a organizzare l'ammissione del ragazzo in una clinica privata per le malattie mentali vicino a Denver. Gli occhi di Charlotte LaConner sembravano quelli di una pazza. «Ci sono in mezzo tutti, sai», disse con voce stridula spostando lo sguardo verso Sharon. «Hanno fatto qualche cosa a Jeff e non vogliono che scopra che cosa. Non lasciano che lo veda. Dicono perfino che è colpa mia!» Si seppellì la testa tra le mani e cominciò a singhiozzare. Sharon allungò una mano, volendo consolarla, ma Charlotte si ritrasse. Suonò il campanello, e Charlotte trasalì visibilmente a quel rumore. Senza dire niente Blake uscì in fretta dalla stanza, e un attimo dopo Sharon udì il suono di una conversazione a bassa voce. Poi Blake tornò. Dietro di lui, con gli occhi velati di preoccupazione, c'era Chuck LaConner. Come vide Charlotte il suo sospiro di sollievo riempì la stanza. «Mi dispiace» disse a Sharon mentre andava a sedersi accanto alla moglie. Ma quando cercò di metterle un braccio sulle spalle con fare protettivo lei si ritrasse come aveva fatto un momento prima con Sharon. «Non sapevo dove fosse andata. Ho girato un po' in macchina per cercarla.» Fece una pausa, poi allungò ancora una volta un braccio verso Charlotte. «Tesoro, andrà tutto bene. Sono qui, e mi prenderò cura di te.» «No» Charlotte balzò in piedi e si allontanò in fretta finché non si ritro-
vò in un angolo della stanza e non poté andare oltre. Si immobilizzò là per un momento. Sentiva la voce del marito indistintamente, come se venisse da una grande distanza. «Dovete capire», stava dicendo. «Da quando Jeff ha cominciato a star male lei e stata sempre peggio.» Doveva riprendere il controllo di se stessa... assolutamente! Lui stava convincendoli che era pazza, e se ci riusciva... Fece un profondo respiro, poi un altro. Per ancora un istante restò immobile, poi, lentamente, con le mani sui fianchi, si voltò verso le tre persone che la stavano osservando. Anche se ognuno dei suoi nervi logorati le chiedeva di voltarsi ancora, esigeva che lui cedesse al panico che la stava invadendo, sapeva di non poterlo fare. Deglutì, cercò di liberare la gola dal nodo che minacciava di toglierle il fiato, poi fece un altro respiro. «Sto bene», disse, pregando perché la sua voce non la tradisse. «Solo che... be', è stata una settimana tremenda, per me, e credo di essere semplicemente crollata per un momento.» Tenne gli occhi fissi su Chuck pregandolo in silenzio di non dire altro. Se lui capì quello sguardo, decise di non tenerne conto. «È stata la tensione della settimana scorsa», disse guardando Blake negli occhi. «Tu conosci la situazione... Jeff è in isolamento e...» Tacque e distolse gli occhi dai Tanner. «Be'», continuò infine, «temo che Charlotte abbia cominciato a immaginare delle cose.» Attraversò la stanza e prese la mano della moglie. «Vieni, cara», disse piano. «Andiamo a casa e cerca di riposarti un po'» Quando se ne furono andati la casa piombò in uno strano silenzio. Infine fu Blake a parlare, dopo aver scosso tristemente la testa. «Ho lavorato a questo caso per tutta la settimana», disse. «È solo che qualche cosa ha fatto cilecca nella testa di Jeff.» Si passò la lingua sul labbro inferiore, con aria meditabonda. «E credo che sia abbastanza ovvio da dove sia venuta l'instabilità, vero?» Sharon non parlò, perché mentre Chuck LaConner aveva cercato di spiegare quello che stava succedendo alla moglie lei aveva continuato a fissare Charlotte. E nei suoi occhi aveva letto un chiaro messaggio. Non credergli. Per favore... non credergli. Mark Tanner e Linda Harris stavano scendendo dalle colline sopra Silverdale. Avevano camminato per un'ora, e sebbene avesse preso con sé la
macchina fotografica fino a quel momento Mark non aveva scattato nemmeno una foto. Perfino quando un grosso cervo maschio con grandi corna portate orgogliosamente sulla testa era uscito da un boschetto di pioppi e si era immobilizzato fissandoli Mark non aveva fatto il gesto di catturare l'immagine. «Che cos'hai» chiese infine Linda, con voce resa acuta dall'irritazione. Dopo quasi due minuti il cervo era balzato via ed era scomparso, con Chivas che l'aveva inseguito svogliatamente per qualche metro prima di rinunciare e di raggiungerli mentre si avviavano per ritornare in città. «Credevo che ti piacesse fotografare tutto.» Mark strinse le spalle laconicamente. «Sì», ammise. «Ma non so... ultimamente mi sembra che fare fotografie sia come qualsiasi altra cosa che facevo.» Tacque, cercando di trovare le parole per spiegare a Linda quello che gli stava succedendo, «Fare fotografie è come rimanere al di fuori, come stare a guardare», continuò. «E sono stanco di avere la sensazione di essere lasciato fuori di tutto.» Linda lo guardò con la coda dell'occhio. Dalla sera in cui era stato picchiato sembrava diverso, ma fino a quel momento non era sembrato disposto a parlarne. In realtà, quella settimana l'aveva visto poco; per tre volte dopo la scuola era dovuta andare all'allenamento delle cheerleaders, e gli altri due giorni Mark era andato al centro sportivo perché aveva appuntamento con il dottor Ames. «Vuoi dire come lo sport?» chiese cercando di mantenere un tono il più indifferente possibile. Con sua sorpresa, Mark annuì. «Credo di sì» ammise. «Voglio dire, prima non mi importava di essere tanto piccolo, perché non volevo fare parte di nessuna squadra.» Le fece un largo sorriso e piegò esageratamente un braccio. «Ma all'improvviso comincio ad allenarmi e a mettere su peso. Guarda!» Si stese al suolo e fece cinquanta flessioni mentre Linda osservava stupita. «Che cosa ne pensi?» chiese. «Tre settimane fa non riuscivo a farne neanche dieci.» «Magnifico», commentò acidamente Linda. «Così adesso riesci a fare un sacco di flessioni. E allora? Jeff LaConner era capace di farne cento, e guarda che cosa gli è successo». «Ma dai», rispose Mark, improvvisamente sgonfiato. Era stato tanto sicuro di averle fatto impressione, almeno un po'. «Solo perché cerco di mettermi in forma non vuol dire che diventi uno stronzo come Jeff!» Linda gli diede un'occhiataccia. «Non è sempre stato uno stronzo, sai.
Quando ho cominciato a uscire con lui era davvero carino. In realtà», soggiunse causticamente, «è stato proprio carino finché non è diventato un fanatico degli sport!» Mark si sentì avvampare le guance. «Be', io non diventerò così», protestò. Stavano camminando lungo il fiume, e la casa degli Harris era a pochi isolati di distanza. «E che cosa c'è che non va a cercare di essere come tutti gli altri?» chiese bruscamente. «Forse sono stanco di non inserirmi!» Linda tacque finché non furono a pochi metri da casa sua, poi si voltò a guardarlo. «Senti» disse. «Non sono arrabbiata con te o qualcosa di simile. Sono solo preoccupata, okay? E se vuoi 'inserirti', qualunque cosa significhi, sono sicura che per me va bene... Ma se hai intenzione di diventare un altro Jeff LaConner faresti meglio a dirmelo subito.» Mark la guardò perplesso. Diventare un altro Jeff LaConner? Non era come Jeff, e non lo sarebbe mai diventato. «Ma non sono così», protestò. «Sono sempre io, e lo sarò sempre.» Voltarono nel vialetto d'accesso della casa degli Harris. Dalla piattaforma davanti al garage Robb li salutò con un cenno. «Ehi, Mark!» gridò. «Vuoi fare un po' di canestri?» Prese la mira e buttò con perizia attraverso l'anello la palla che aveva tra le mani. Quando gli occhi di Robb incontrarono i suoi, Mark fu certo di vedervi una sfida. Per un istante esitò, poi fece un largo sorriso. «Certo», rispose. «Perché no?» Corse lungo il vialetto, con Chivas che gli trotterellava dietro, e non notò lo sguardo di delusione che apparve negli occhi di Linda prima che si voltasse e si affrettasse a entrare in casa. Tre minuti dopo Mark cominciava ad avere il fiatone, ma era contento perché nonostante le dimensioni e l'abilità di Robb, era riuscito a segnare tre canestri. In quel momento, manovrando la palla con cura e dirigendosi verso il canestro cercò l'occasione di aggirare Robb. Fece una finta a sinistra e poi si spostò a destra, ma mentre saltava verso il canestro sentì il gomito di Robb penetrargli con forza nelle costole. Grugnì per il dolore lancinante, e la palla rimbalzò sul tabellone e ricadde nelle mani di Robb, il quale si sollevò per fare un tiro ravvicinato e la fece passare attraverso l'anello. «Non vale», urlò Mark. «hai commesso fallo!» «Un corno», disse Robb sorridendo. «Vedi un arbitro qui intorno?» Mark venne invaso da un impeto di rabbia. «Che cosa dici?» chiese bruscamente. «Un fallo è un fallo.» Robb strinse le spalle. «Gioco per vincere», disse buttando ancora una
volta la palla attraverso l'anello. Mark lo fissò. «Ma il gioco ha delle regole, sai.» Dalle labbra di Robb scomparve il sorriso, e i suoi occhi si indurirono. «L'unica regola che conosco è vincere», osservò. Lasciò cadere la palla e diede una spinta aMark. Sorpreso dall'atto improvviso, Mark barcollò all'indietro. Robb gli diede un'altra spinta, e Mark urtò con la schiena contro la porta del garage. «Via», disse, «che cosa c'è?» «Fifone?» chiese Robb. «Il ragazzino è arrabbiato perché ha perso un punto?» Mark strinse la mascella e prima di rendersi conto sul serio di quello che stava facendo allungò un braccio e diede un pugno sulla mascella di Robb, il quale sgranò leggermente gli occhi e fece un sorriso malizioso. «Allora vuoi fare a pugni, eh?» lo schernì. «Il ragazzino sta crescendo, finalmente?» Cominciò ad agitare i pugni, con i colpi che toccavano appena Mark mentre prendeva in giro il ragazzo più piccolo. Infine si avvicinò e Mark colse l'occasione. Stringendo forte il pugno destro si lanciò contro Robb affondandolo nello stomaco dell'altro ragazzo. Dai polmoni di Robb uscì tutta l'aria, e lui balzò indietro, tenendosi lo stomaco e lottando per riprendere fiato. Mentre stava per tirare altri colpi a Mark la porta posteriore si aprì ed Elaine Harris uscì di corsa. «Smettetela!» ordinò. «Smettetela immediatamente!» Entrambi i ragazzi, impressionati dall'asprezza della sua voce, si voltarono verso di lei. Lei guardò Robb infuriata. «Non voglio sentire scuse,» affermò. «Sei più alto di Mark di quasi trenta centimetri, e pesi una ventina di chili più di lui. Adesso entra in casa e quando tuo padre ritorna lo spiegherai a lui!» Aspettò con le mani suoi fianchi, e finalmente Robb con la testa bassa le passò davanti in fretta e sparì all'interno. Quando Elaine parlò di nuovo la sua voce aveva un tono gentile e pieno di scuse. «Mi dispiace», disse. «Qualunque cosa sia successa non avrebbe dovuto darti un pugno.» Mark si sentì arrossire per la vergogna. Che cosa credeva che fosse, una specie di bambino piccolo che non era nemmeno capace di difendersi? Mentre senza dire una parola si voltava e si affrettava lungo il vialetto ricordò quello che era successo la sera in cui non era stato capace di difendersi. Ma questa volta era stato diverso. Questa volta, anche se Robb gli aveva
tirato una sventola, lui non aveva cercato di scappare. Questa volta aveva mantenuto la propria posizione e aveva reagito. E per un istante, dopo avere assestato quel colpo allo stomaco di Robb, era sembrato che avrebbe anche potuto vincere. Naturalmente Robb si era già ripreso dal colpo quando la signora Harris era uscita, e lui avrebbe potuto essere pestato ben bene. Ma perlomeno, questa volta ci aveva provato. In realtà, si rese conto mentre si avviava verso casa, la zuffa gli era quasi piaciuta. La sensazione di piacere in uno scontro fisico era qualche cosa che non aveva mai provato prima. Di certo non aveva mai pensato che potesse piacergli. 17 Nell'ospedale della contea era stata una mattina calma, e quando Susan Aldrich diede un'occhiata all'orologio appeso alla parete sopra la sua scrivania dietro il banco delle accettazioni fu sorpresa vedendo che erano solo le nove e mezzo. Quello era il problema, nei giorni tranquilli, rifletté: sembrava che il tempo non passasse mai. Guardò nella sala d'aspetto, poi sorrise quasi mestamente quando vide che era già stata pulita. E non poteva neppure passare qualche minuto a preparare una pentola di caffè fresco, perché solo pochi momenti prima aveva visto Maria Ramirez che si avviava verso la cucina. Nel piccolo ospedale Maria era ormai un'istituzione, e man mano che gli interminabili giorni passati al capezzale del figlio erano diventati settimane, Maria aveva lentamente cominciato ad acquisire una routine tutta sua. Aveva cominciato con le pulizie della camera di Ricardo, ma piano piano aveva allargato il suo campo d'azione, non chiedendo mai se c'era qualche cosa da fare ma semplicemente osservando l'infermiera e gli inservienti di turno mentre eseguivano le loro faccende e poi sollevandoli in silenzio da qualcuna delle loro incombenze. In principio Susan aveva cercato di dire a Maria che non doveva disturbarsi a fare i lavori che si era accaparrata per se stessa, ma lei aveva sorriso all'infermiera. «Fate tanto per mio figlio», aveva risposto. «E se io non posso aiutare lui, almeno posso aiutare le persone che sono in grado di farlo.» Così Susan, come Karen Akers e gli altri membri del personale, aveva lasciato che Maria riempisse il suo tempo come desiderava. In quel momento molto del
lavoro di routine del turno di giorno, e anche di quello di notte, veniva svolto con perizia dalla donna esile e graziosa ai cui occhi scuri sembrava non sfuggisse mai nulla. Susan era arrivata a rendersi conto che in quel modo Maria stava anche aiutando il figlio, perché tutto il personale aveva preso l'abitudine di capitare nella camera di Ricardo parecchie volte al giorno, qualche volta fermandosi semplicemente un attimo accanto al suo letto, qualche altra rimanendo qualche minuto a parlare con lui, anche se tutti erano certi, nel loro intimo, che lui non si rendesse conto della loro presenza. Mickey Esposito, l'inserviente del turno di giorno, molti dei cui compiti erano stati usurpati in silenzio da Maria, aveva preso l'abitudine di portare al lavoro un libro e di passare parecchie ore al giorno a leggere ad alta voce alla figura inerte tenuta immobile nel telaio Stryker. La prima volta che MacCallum era entrato mentre Mickey stava leggendo a Rick, l'inserviente aveva alzato gli occhi sentendosi in colpa e aveva chiuso il libro, ma MacCallum gli aveva detto di continuare. «Nessuno sa quello che succede nella sua testa», aveva assicurato a Mickey. «Pensiamo che non possa udirci, ma in realtà non lo sappiamo. E se può udirci deve esserti eternamente grato per quello che fai.» La camera di Ricardo era diventata il punto principale dell'ospedale. Negli intervalli il personale non si radunava più attorno al tavolo di formica della cucina, ma al capezzale di Ricardo. In quel momento Susan, con alcuni minuti a disposizione, percorse automaticamente il corridoio per dare un'occhiata al ragazzo. Come sempre esaminò i monitor sopra il suo letto, e aggrottò la fronte. Il battito cardiaco, sempre così perfettamente regolare, fluttuava pazzamente e i suoi occhi, che erano rimasti chiusi e fermi dal momento in cui era stato portato in ospedale, si muovevano spasmodicamente dietro le palpebre abbassate. Mentre guardava incredula lo schermo un allarme risuonò all'esterno, mettendo in agitazione il piccolo ospedale. Dopo pochi secondi comparve MacCallum, seguito da due inservienti e da Maria Ramirez. «Che cosa c'è?» chiese Maria con la voce piena di paura e gli occhi fissi sulla figura immobile del figlio. Poi gli occhi del ragazzo si mossero ancora, e Maria esclamò senza fiato: «Si sta svegliando!» Si avvicinò al letto e si chinò, mentre MacCallum si rivolgeva a Susan Aldrich e iniziava a impartire ordini per fare portare nella stanza le attrezzature di emergenza. Maria alzò gli occhi, e l'entusiasmo che li illuminava un istante prima era stato sostituito dalla paura. «Che cosa c'è?» chiese.
«C'è qualcosa che non va?» MacCallum strinse le labbra.«Il cuore sta per fermarsi», disse. Maria spalancò gli occhi e impallidì. Poi guardò di nuovo Rick, e vide che aveva improvvisamente aperto gli occhi e aveva cominciato a muovere la bocca. Dalla sua gola si levò un rantolo, debole e rauco. Maria si piegò di più e mise le mani su quelle del figlio. «Sono qui, Ricardo. Andrà tutto bene.» Ricardo strinse gli occhi e le sue labbra si mossero di nuovo. Maria avvicinò l'orecchio. Mentre un inserviente entrava in fretta nella camera portando un carrello con le apparecchiature per applicare l'elettrochoc al cuore di Ricardo, lei pensò di avere udito il figlio sussurrare un'unica parola. «Addio...» Per un istante Maria non fu certa di avere udito quella parola, ma mentre MacCallum la spostava per poter strappare il camice dal torace di Ricardo e applicare gli elettrodi alla pelle del ragazzo, prese una decisione. «No!» gridò in tono acuto, e la sua voce echeggiò stranamente nella stanzetta. Attorno al letto tutti interruppero quello che stavano facendo e fissarono Maria. «Ma sta per...» cominciò MacCallum. Si fermò quando Maria annuì. «Sta per morire», disse piano. «Lo so, e lo sa anche lui. Dobbiamo lasciarlo andare.» Susan Aldrich trattenne il fiato, e MacCallum stesso sussultò alle parole di Maria. Diede ancora una volta un'occhiata ai monitor. La pressione sanguigna di Ricardo scendeva rapidamente, e i battiti del cuore erano intermittenti. «È sicura?» chiese. Malia esitò solo un'impercettibile frazione di secondo. Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma annuì. «Sì. Mi ha detto addio, e quindi anch'io devo dire addio a lui.» Poi, mentre gli altri guardavano in silenzio, si chinò e baciò delicatamente le labbra di Ricardo. Susan Aldrich prese nella sua una mano del ragazzo, e Mickey Esposito prese l'altra. Mac MacCallum allungò una mano e la pose sulla fronte di Ricardo. Anche se tutti sapevano che il ragazzo non era assolutamente in grado di parlare, nessuno voleva togliere a Maria quell'unico conforto. Un attimo dopo Ricardo Ramirez aprì di nuovo gli occhi, che sembrarono per un attimo a fuoco. Quella che poteva essere solo una contrazione spasmodica, ma anche la lievissima traccia di un sorriso, gli apparve agli angoli della bocca.
Poi gli occhi si chiusero di nuovo. La linea del cuore sul monitor si appiattì. E cominciò a risuonare un'unica nota, quasi un lamento funebre. Ricardo Ramirez era morto. Mezz'ora dopo Mac MacCallum era seduto nel suo ufficio e fissava come intontito il certificato di morte che aveva completato. Come tutti gli altri membri del personale dell'ospedale della contea era stato completamente colto di sorpresa dall'improvvisa morte del ragazzo. Come gli altri, anche Mac aveva preso l'abitudine di passare parecchie volte al giorno nella camera del ragazzo, non perché ci fosse qualche cosa di particolare da fare per lui, ma semplicemente perché anche in coma aveva qualche cosa che arrivava fino a lui. Anche lui era arrivato a considerare Rick come qualche cosa di più di un semplice paziente. Anche se lui e Rick non si erano mai scambiati una parola, Mac MacCallum era arrivato a considerarlo un amico. Adesso il suo amico era morto e Maria Ramirez, che MacCallum considerava anch'essa un'amica, era in sala d'aspetto, con la profondità del suo dolore tradita solo dagli occhi, e cercava di scendere a patti con la perdita dell'unica cosa della sua vita che avesse veramente amato e in cui avesse creduto. Infine, indurendo i lineamenti, MacCallum prese in mano il telefono e chiamò Phil Collins alla Silverdale High School, quindi aspettò impazientemente, tamburellando sulla scrivania con le dita, mentre l'allenatore veniva chiamato dal campo di gioco. «Sono MacCallum», disse Mac quando Collins venne all'apparecchio. «So che in realtà non gliene importa niente, ma Ricardo Ramirez è morto mezz'ora fa.» «Cristo», imprecò Collins, ma MacCallum fu certo che l'unica emozione nella voce dell'allenatore era la preoccupazione, non il dispiacere. «E adesso che cosa succederà?» «Non lo so», rispose MacCallum. «Ma posso dirle che so bene che cosa avete predisposto per Maria lei, Ames e la TarrenTech, e non credo che sia sufficiente.» La sua voce si indurì. «Ne ho abbastanza di lei e della sua squadra di football, Collins. Il fine settimana scorso è arrivato uno con una gamba rotta, e ieri l'altro uno con la milza spappolata.» Esitò, chiedendosi se sarebbe stato in grado di sostenere quello che stava per dire, poi rincarò la dose. «Consiglierò a Maria di intentare una causa per omicidio colposo contro di lei, la scuola, Jeff LaConner, i suoi genitori, Marty Ames e la Rocky Mountain High. Non so che cosa stiate combinando, tutti quanti, ma deve smettere immediatamente.»
«Aspetti un momento», cominciò Collins, ma MacCallum lo interruppe. «No, Collins», sussurrò, e depose delicatamente la cornetta sull'apparecchio. Non sapeva che cosa aveva ottenuto, se pure aveva ottenuto qualche cosa, e non credeva davvero che una causa per omicidio colposo avrebbe condotto a qualche risultato. Ma almeno si sentiva meglio. Nel suo ufficio, Phil Collins fissò per un attimo il telefono muto che aveva in mano, poi pigiò il pulsante sull'apparecchio finché non ebbe il segnale di via libera. Compose il numero privato di Marty Ames e aspettò, tamburellando impazientemente con le dita in una inconsapevole ripetizione del gesto che MacCallum aveva compiuto pochi minuti prima. Quando Ames prese la comunicazione, Collis gli ripeté le parole di MacCallum quasi alla lettera. Due minuti dopo Ames le ripeteva a Jerry Harris. «Va bene», rispose stancamente Harris. Rifletté un momento, poi parlò di nuovo. «Dobbiamo sistemare immediatamente la faccenda LaConner. Puoi pensare a fare tutti i preparativi che occorrono?» «Naturalmente», rispose Ames. Prima di chiamare Chuck LaConner nel suo ufficio Jerry Harris dispose che uno degli elicotteri della TarrenTech si preparasse a effettuare un volo fino a Grand Junction, dove sarebbe stato atteso da un Learjet. Charlotte LaConner sentì un vuoto allo stomaco. Non poteva aver capito bene quello che aveva detto Chuck... doveva esserci un errore. Forse, dopo tutto, cominciava davvero a immaginarsi le cose, come aveva insistito lui a partire da quel terribile momento dai Tanner l'altro giorno - non riusciva nemmeno più a ricordare bene che giorno era stato - quando Chuck aveva praticamente detto a Blake e a Sharon che lei stava diventando matta. Forse stava perfino immaginandosi che oggi lui era ritornato a casa dal lavoro a metà mattina. Forse non era nemmeno lì con lei. Scosse la testa con aria sbalordita. «Fare una valigia? Adesso» Chuck annuì. «Giusto», disse. «Parto.» «Ma non capisco.» «Sono stato trasferito, tesoro, non ricordi?» disse Chuck. «Vado a Boston.» Charlotte agitò le mani in un gesto disperato. «Ma pensavo... pensavo che aspettassimo Jeff...» «Non posso, Charlotte», rispose Chuck. «Devo andare adesso. C'è un elicottero che mi aspetta.»
Charlotte tirò un sospiro di sollievo. Allora andava bene. Lui partiva, ma lei non doveva seguirlo. Lei poteva rimanere lì e aspettare che Jeff migliorasse. «F-forse io andrò a Boulder», disse. «Potrei essere più vicina a Jeff.» Le dita della mano destra tormentavano la sinistra, e le unghie, rose e mal tenute per l'abitudine completamente inconscia che aveva preso negli ultimi giorni di mordersele mentre guardava vuotamente il nulla davanti a sé, incidevano la pelle, lasciando rossi segni infiammati. Ma Chuck scosse la testa. «Mi dispiace, Charlotte», disse piano. Non riusciva a guardarla, non poteva costringersi a guardare il dolore sul suo viso mentre le diceva quello che stava per succederle. «Dovrai andare in ospedale per un po'. Ne ho parlato con Jerry e con Marty Ames, e siamo tutti d'accordo che hai bisogno di un periodo di riposo. Un periodo di tempo per adattarti a quello che è successo e superare tutte quelle idee paranoiche.» A quelle parole Charlotte si ritrasse come se ne fosse stata colpita. «No», gemette. «Non puoi farmi questo! Sono tua moglie, Chuck.» «Tesoro, sii ragionevole», la supplicò Chuck, ma Charlotte non l'ascoltava più. Lo aggirò e salendo precipitosamente le scale fino al primo piano entrò nella camera da letto matrimoniale e chiuse a chiave la porta. Era in preda al panico. Sarebbero venuti a prenderla e l'avrebbero rinchiusa, proprio come avevano fatto con Jeff. Ma perché? Che cosa aveva fatto? Tutto quello che voleva fare era vedere suo figlio, parlargli, dirgli che gli voleva bene. Ma non glielo lasciavano fare. Perché? In quel momento capì. Improvvisamente le fu tutto chiaro; avrebbe dovuto rendersene conto molto tempo prima! Le mentivano, le avevano mentito fin dall'inizio. Jeff non era affatto in una clinica privata, né a Boulder né in qualsiasi altro posto. L'avevano rinchiuso da qualche parte in modo che né lei né nessun altro potessero vederlo. Non stava male! Lo tenevano prigioniero in qualche posto! Aiuto. Doveva cercare aiuto prima che fosse troppo tardi. Frugò nel primo cassetto del suo comodino, dov'era sicura di avere nascosto il pezzetto di carta su cui aveva scribacchiato il numero di telefono di Sharon. Finalmente lo trovò e trafficò con il telefono con le dita tremanti che si rifiutavano di obbedire alla sua mente in tumulto. Fu in quel momento, mentre cercava freneticamente di comporre il numero, che avrebbe potuto alzare gli occhi e guardare fuori della finestra;
avrebbe potuto vedere l'ambulanza che si avvicinava alla casa e voltava nel vialetto d'accesso. Ma non guardò, non vide, non ebbe il tempo di fuggire dalla casa. Finalmente le sue dita trovarono i pulsanti giusti e aspettò in preda al panico mentre il telefono dall'altro capo squillava quattro volte, poi una quinta, poi una sesta. Poi, con un sospiro di sollievo, udì una voce ansimante all'altro capo del filo. «Sharon?» disse. «Sharon, devi aiutarmi. Mi stanno portando via. Hanno fatto qualcosa di terribile a Jeff e non vogliono che lo scopra...» «Charlotte?» l'interruppe la voce di Sharon Tanner. «Charlotte, che cosa c'è? Non capisco niente.» Charlotte si costrinse a smettere di parlare e con uno sforzo di volontà vinse il tremito. Si concentrò, fece un profondo respiro e stava per ricominciare a parlare quando sentì bussare forte alla porta della camera da letto. «Charlotte?» Era la voce di Chuck. «Charlotte, devi farmi entrare.» Poi udì Chuck che parlava a qualcun altro, e la sua calma, costruita con tanta cura, crollò come un castello di carte. «Oh, mio Dio», gemette. «Sharon, sono qui! Sono venuti a prendermi, Sharon! Che cosa farò?» Si sentì uno schianto e la porta della camera da letto si aprì di colpo. Chuck, seguito da due inservienti, si precipitò nella stanza, la fissò senza espressione per un attimo e mentre lei lo osservava in silenzio si avvicinò, le prese la cornetta dalle mani e la depose sull'apparecchio. «Andrà tutto bene, cara», le disse abbracciandola e stringendola delicatamente mentre faceva un cenno agli altri due uomini. Mentre uno usciva dalla stanza l'altro le si avvicinò e le infilò un ago nella spalla. Troppo sbigottita da quello che stava succedendo per protestare, Charlotte cominciò a singhiozzare in silenzio mentre la medicina faceva rapidamente effetto. Un attimo dopo il secondo inserviente riapparve con una barella pieghevole munita di ruote. Quando la deposero sulla barella Charlotte aveva già perso conoscenza. Sharon fissò in silenzio il telefono che le era diventato muto tra le mani come se non avesse capito quello che era successo. Ma un momento dopo prese una risoluzione, sfogliò le pagine del sottile elenco di Silverdale finché non trovò l'indirizzo dei LaConner, poi si infilò il giaccone mentre usciva in fretta di casa, imprecando piano tra sé perché lei e Blake avevano
deciso di non sostituire la logora Subaru che lui usava per recarsi al lavoro a San Marcos. In quel momento l'ultima cosa di cui aveva bisogno era una camminata. Quando raggiunse l'angolo stava già quasi correndo, con nelle orecchie il ricordo dello schianto che aveva udito al telefono. E Charlotte era sembrata così impaurita, così completamente terrorizzata. Si mise a camminare in fretta, procedendo nella frizzante aria di montagna senza badare al freddo pungente. Si fermò all'angolo di Colorado Street, e stava per attraversarla quando vide un'ambulanza con le luci che lampeggiavano, ma con la sirena spenta, attraversare velocemente l'incrocio. Girò a sinistra e scomparve a una curva. Imprecò di nuovo, sospettando che nell'automezzo ci fosse Charlotte, sapendo che se avesse avuto la macchina l'avrebbe seguita. Ma in quel momento non c'era niente che potesse fare, e riprendendo fiato attraversò in fretta la strada e si avviò verso Pueblo Avenue e la casa dei LaConner. Dall'esterno sembrava molto diversa dalle altre case dell'isolato. Abbastanza lontana dal marciapiedi, era quasi una copia esatta della casa dei Tanner. Eppure aveva qualche cosa che rese Sharon inquieta, le diede la sensazione che ci fosse qualche cosa che non andava. Diede un'occhiata alla macchina nel vialetto d'accesso, poi salì in fretta i gradini e suonò il campanello. Nessuna risposta. Sharon suonò di nuovo, poi spinse la porta e vide che non era chiusa. Con il cuore che le batteva forte, l'aprì e si sporse all'interno. «Charlotte?» gridò incertamente. «Charlotte, sono Sharon Tanner. Ci sei?» Ancora nessuna risposta. Sharon oltrepassò la soglia, chiudendosi la porta alle spalle. Udì un movimento al piano di sopra, e un attimo dopo Chuck LaConner comparve alla sommità delle scale con una valigia in mano. Si fermò, stupito di vederla. «Sharon», disse. Poi i suoi occhi si velarono. «Era con te che Charlotte parlava al telefono, vero?» Sharon annuì. «Che cosa le è successo?» chiese. «Sta bene?» Spostò gli occhi sulla valigia. Chuck la alzò, quasi la presentasse come prova di qualche cosa. «Temo di avere fretta», disse iniziando a scendere le scale. «Dov'è, Chuck?» chiese Sharon. «Che cosa sta succedendo?» Per un istante Chuck non parlò, poi abbassò le spalle e si chinò stancamente, mettendosi seduto a metà delle scale. «Penso che sia inutile tacertelo», disse infine con voce spenta. «Ho... be', ho dovuto far ricoverare
Charlotte in una clinica per malattie mentali.» Sharon risucchiò il fiato, con un rumore simile a un ansito, ma Chuck strinse le spalle impotentemente. «Non c'era più niente che potessi fare», spiegò. «Hai visto com'era sabato, e da allora non ha fatto altro che peggiorare. Stamattina sembrava che stesse un po' meglio, così sono andato a lavorare. E poi un'ora fa mi ha telefonato. Ha fatto ogni genere di pazze accuse, affermando che il telefono era sotto controllo e che c'erano delle persone che sorvegliavano la casa.» Scosse la testa tristemente. «Non erano discorsi sensati, e infine ho chiamato un amico di Canon City.» Sharon sollevò le sopracciglia. «Canon City?.» «È dall'altra parte delle montagne, vicino a Pueblo.» Guardò Sharon negli occhi. «C'è una clinica di stato per le malattie mentali», disse. «Il mio amico lavora lì.» «Capisco», sussurrò Sharon passandosi la lingua sulle labbra. «Comunque», continuò Chuck, «mi ha detto che avrei fatto meglio a mandare là Charlotte. Così ho chiamato un'ambulanza e sono venuto a casa.» Strinse le labbra. Guardò l'orologio, poi si alzò in piedi. «Vieni su», disse. «Non ci crederai.» In silenzio, Sharon seguì Chuck nella camera da letto matrimoniale. La porta pendeva di traverso da un'unica cerniera ed era stata spinta contro la parete, e in tutta la stanza regnava una tremenda confusione. Il pavimento era coperto dei vestiti di Chuck, e dal comò vicino alla parete erano stati tolti i cassetti. «Aveva chiuso a chiave la porta», spiegò. «Mi ha detto che mi cacciava fuori di casa, che io facevo parte di un complotto. Non faceva assolutamente dei discorsi razionali, e alla fine, be'...» Strinse di nuovo le spalle, poi diede un'altra occhiata all'orologio. «Senti, devo andare. Ho delle cose di Charlotte, qui, e devo portarle a Canon City.» «Capisco», sussurrò Sharon. Diede un'altra occhiata alla stanza in sfacelo poi seguì Chuck al piano di sotto e fuori della casa. «Deve... deve essere stato terribile», disse infine mentre Chuck gettava la valigia sul sedile posteriore della Buick dei LaConner. «Non è stato facile», assentì Chuck mentre si sedeva dietro il volante. I suoi occhi incontrarono quelli di Sharon, e distolse in fretta lo sguardo. «Ma è stato molto peggio per lei», osservò. «Credo... credo che proprio non so che cosa faremo, adesso.» «Se posso fare qualcosa», cominciò Sharon, ma Chuck liquidò con un cenno le sue parole.
«Magari», disse tristemente. «Ma ho paura che non ci sia niente da fare. Non adesso, perlomeno.» Mise in moto la macchina, poi offrì un passaggio a Sharon, ma lei rifiutò, e un istante dopo si allontanò. Sharon rimase sul marciapiede a guardare la Buick finché non fu scomparsa, poi si voltò e guardò ancora una volta la casa. Nella memoria udì ancora la sconnessa telefonata in cui Charlotte aveva chiesto aiuto, e ancora una volta rivide lo sguardo negli occhi di Charlotte sabato, subito prima che Chuck la guidasse fuori della casa dei Tanner. Non credergli aveva detto quello sguardo. Per favore non credergli! Poi rivide la confusione nella camera da letto. I vestiti di Chuck erano sparsi dappertutto, ma non aveva visto traccia di quelli di Charlotte. Eppure Chuck aveva detto che stava facendo una valigia con le cose di Charlotte per portarle in ospedale. «Non ti preoccupare», disse Sharon ad alta voce anche se non c'era nessuno ad ascoltarla. «Non credo a una sola parola di quello che ha detto!» 18 Sharon guardò il palazzo della TarrenTech con una sensazione di disagio. Naturalmente l'aveva visto prima di quel momento, l'aveva perfino ammirato. Era stato progettato in modo da adeguarsi tanto perfettamente all'ambiente che sembrava quasi un'escrescenza del paesaggio stesso. Ma in quel momento sembrava che fosse cambiato, che avesse preso l'aspetto di un animale accovacciato nel sottobosco in attesa della preda. Ma naturalmente era ridicolo... non era altro che una costruzione e non era cambiata affatto. Era lei che era cambiata, e mentre percorreva a piedi gli ottocento metri che separavano la città dalla bassa costruzione che sorgeva tra giardini ben curati aveva sentito la differenza in se stessa. Aveva cercato di camminare piano, come se stesse facendo una tranquilla passeggiata, nel caso in cui qualcuno la osservasse. E anche quello era sciocco, rammentò a se stessa mentre si avvicinava all'ingresso principale. Non aveva fatto altro che rispondere a una richiesta di aiuto da parte di una conoscenza. Perché avrebbero dovuto osservarla? Eppure mentre si avvicinava all'entrata si ritrovò a guardarsi intorno a disagio, cercando le telecamere nascoste che sapeva essere puntate su di lei. Ma queste non avevano nessun interesse personale per lei; non erano altro che oggetti inanimati che scrutavano continuamente la zona attorno all'edi-
ficio, in allarme per niente in particolare, ma tuttavia registrando tutto quello che incrociava il loro percorso. Erano state le parole di Charlotte LaConner che avevano portato i nervi di Sharon a fior di pelle, e le riecheggiavano ancora nella mente: «Mi portano via. Hanno fatto qualcosa di terribile a Jeff e non vogliono che lo scopra.» Si riferiva alla TarrenTech, o al centro sportivo? Sharon aveva riflettuto molto su quelle parole, esaminandole sotto tutti gli aspetti, e infine era giunta alla conclusione che non importava a chi si era riferita Charlotte, perché era sicura che in un modo o nell'altro il centro sportivo, come quasi ogni altra cosa a Silverdale, dipendeva completamente dalla TarrenTech per la sua sopravvivenza. Un'impresa come quella di Marty Ames non poteva assolutamente sopravvivere con le rette che poteva racimolare come campo di addestramento estivo per i ragazzi delle scuole superiori. Raddrizzando inconsciamente la schiena, Sharon entrò e si diresse al banco delle informazioni, dove fu accolta da una receptionist sorridente. «In che cosa posso esserle utile, signora Tanner?» Sharon aggrottò le sopracciglia, poi guardò istintivamente il bavero della ragazza, cercando la targhetta di identificazione che portavano tutti i dipendenti della TarrenTech. Quella ragazza non la portava. Comprendendo il dilemma di Sharon, la ragazza fece un sorriso ancor più largo. «Sono Sandy Davis», disse. «E lei non mi conosce. Il sistema di sicurezza ha fatto un confronto con la sua foto, e così sapevo chi era ancora prima che entrasse.» Sharon si irrigidì. Un confronto con la sua foto? Ma perché? E come? Non aveva mai dato una sua foto alla società... non gliel'avevano nemmeno chiesta. Ma naturalmente la risposta era ovvia: a San Marcos le telecamere avevano ripreso i suoi andirivieni, e senza dubbio le sue foto erano state trasmesse a Silverdale insieme ai documenti personali di Blake. Eppure c'era qualche cosa di strano in tutto ciò, qualche cosa di raccapricciante nel sapere che era stata localizzata e individuata ancora prima di entrare nell'edificio. Ricambiò il sorriso di Sandy Davis, sperando che non si notasse il suo nervosismo. «Potrebbe dirmi dov'è l'ufficio di mio marito?» «Lungo il corridoio a sinistra, poi giri a destra, è nell'angolo più lontano, vicino a quello del signor Harris.»
Sharon si avviò per il lungo corridoio, ma dentro l'edificio la strana sensazione di essere sorvegliata era anche più forte. Si sentiva drizzare i capelli sulla nuca. Affrettò istintivamente il passo, e dovette ricordare a se stessa di sembrare come se non ci fosse niente che non andasse. Quando arrivò all'ufficio di Blake era tornata a camminare a passo normale. Entrando nell'ufficio più esterno venne accolta dalla sua segretaria, un'altra donna che Sharon non aveva mai visto, con un caldo sorriso che era una copia quasi esatta di quello di Sandy Davis. «Adesso è al telefono, ma gli ho passato un biglietto per avvertirlo che lei è qui», disse dopo essersi presentata con una decisa stretta di mano. «Vuole una tazza di caffè?» Sharon scosse la testa, e quasi immediatamente la porta interna si aprì e Blake uscì. «Che piacevole sorpresa», esclamò con un sorriso di benvenuto. «Come mai sei venuta fin quaggiù?» Sharon fornì la prima scusa che le venne in mente. «La macchina» disse. «Volevo fare la spesa, ma la lista è troppo lunga per il mio carrello.» Poi guardò la segretaria con la coda dell'occhio. «Possiamo andare nel tuo ufficio?» Blake sembrò perplesso ma annuì e la lasciò passare per prima. Quando furono entrati entrambi nell'ufficio Sharon chiuse la porta. Lui drizzò la testa. «Che cosa c'è che non vuoi che senta Ellen?» «È Charlotte LaConner», disse abbassando automaticamente la voce. Cercando accuratamente di non tradire le emozioni che la sconvolgevano spiegò a Blake che cosa era successo. Quando ebbe finito il marito la guardò meravigliato. «Sei venuta fin qui per dirmi questo?» chiese. «Che Charlotte ha avuto un collasso nervoso? Tesoro, abbiamo visto tutti e due che stava arrivando, un paio di giorni fa.» «Non è questo», ribatté nervosamente Sharon. «Per lo meno non è tutto. È quello che lei detto. Che 'loro' avevano fatto qualche cosa a Jeff. Credo che si riferisse al centro sportivo.» «O al grande complotto comunista», osservò maliziosamente Blake. Vedendo negli occhi di Sharon che era stata ferita dalle sue parole, cercò di addolcirle. «Non volevo dire quello», disse in tono di scusa. «Ma sappiamo che Charlotte stava diventando paranoica, e con la paranoia...» «Davvero?» interruppe Sharon. «Non credo affatto che lo sapessimo. Sappiamo che era sconvolta, e ne aveva il diritto. Dopo tutto quello che è successo a Jeff, perché non avrebbe dovuto esserlo?» Blake fece un profondo respiro, poi sprofondò nella poltrona dietro alla
scrivania. «Va bene», disse. «Che cos'hai in testa? Non si tratta solo di Charlotte, vero?» Sharon esitò, poi scosse la testa. «Credo di no», disse. «E un sacco di cose... cose che non mi avrebbero affatto dato fastidio se ce ne fossero state solo una o due. Ma continuo ad avere la sensazione che qui ci sia qualche cosa che non va, Blake.» Allargò le braccia, e le mani tremanti tradivano la sua preoccupazione. «È tutto l'insieme... la città, la scuola, perfino i ragazzi. Tutto è troppo perfetto.» Blake sorrise sarcasticamente. «A quanto pare Jeff LaConner non è perfetto», si intromise. Poi la sua espressione si fece seria. «Ramirez è morto stamattina», continuò. «Mi dicono che la madre sta ancora cercando di dare la colpa a Jeff.» Ricordando la misera figura di Rick Ramirez gli occhi di Sharon si velarono di lacrime, ma poi i suoi pensieri ritornarono a Jeff LaConner. «Ma Jeff ha l'esaurimento nervoso, vero?» chiese. «E Charlotte ha cominciato a fare storie per Jeff e adesso è venuto anche a lei.» «Adesso aspetta un momento», cominciò Blake. «Comincia a sembrare che tu stia credendo...» Sharon non lo lasciò terminare. «Sto dicendo che non sono sicura che abbiano fatto bene a venire qui», disse. «In principio tutto era a posto. Ma adesso anche Mark sta cominciando a cambiare. Ed è successo da quando ha cominciato ad andare dal dottar Ames. «Sta facendo un po' di ginnastica e si sta irrobustendo.» Ma Sharon lo interruppe di nuovo. «Ieri si è azzuffato con Robb Harris. Non è da Mark... non si è mai picchiato con nessuno in vita sua. Blake strinse la mascella e piegò le braccia sul petto. «Che cosa vuoi?» chiese. «Vuoi che ritiri Mark dal centro sportivo? Forse non dovremmo fermarci lì. Forse dovrei licenziarmi dalla TarrenTech e dovremmo ritornare in California.» «Forse sì», Sharon si sentì ribattere. Era quello che aveva realmente pensato per tutto il tempo? Non ne era sicura. All'improvviso credette di vedere gli occhi di Blake muoversi nervosamente per la stanza, come se temesse che potessero venire sorvegliati anche nell'intimità del suo ufficio. Si frugò in tasca e le gettò le sue chiavi. «Sentì», disse. «Capisco che adesso sei sconvolta, e forse ne hai anche il diritto. Ma questa è una cosa di cui possiamo discutere più tardi, a casa. Okay? Prendi la macchina... stasera verrò a piedi o mi farò dare un passaggio da Jerry.»
Era un congedo. Per un istante Sharon fu tentata di discutere con lui, di esigere che ne parlassero immediatamente. Ma l'espressione del suo viso e lo strano tremolio di nervosismo dei suoi occhi la fecero tacere. «Va bene», disse infine. Girò dall'altra parte della scrivania per baciarlo, e per un istante credette che stesse per schivare il suo gesto. «Ma non sto scherzando», gli sussurrò all'orecchio. «Sta succedendo qualche cosa, qui, Blake. Non so che cos'è, ma lo scoprirò.» Un attimo dopo Blake l'accompagnò alla porta e la salutò con un bacio. Mentre usciva dall'ufficio ebbe la strana sensazione che non avesse realmente avuto l'intenzione di baciarla, che il bacio gliel'avesse dato più a beneficio di qualche pubblico nascosto che come segno di affetto. Nell'ufficio accanto a quello di Blake Tanner Jerry Harris spense il minuscolo apparecchio che aveva registrato ogni parola che era stata detta nell'altra stanza. Si appoggiò allo schienale della poltrona, con le mani intrecciate dietro la testa, come se stesse meditando su quello che aveva appena sentito. Finalmente prese una decisione: si piegò avanti, afferrò il telefono e compose un numero a memoria. Un attimo dopo Marty Ames era in comunicazione con lui. «Forse c'è un altro problema», disse senza pronunciare il nome di Ames né dire il suo. «Sarò lì tra meno di un'ora. Ne parleremo allora.» «Ho un paio di cose in programma...» cominciò Ames, ma Harris lo interruppe bruscamente. «Rimandale.» Harris riappese la cornetta, poi tolse la minuscola microcassetta dal registratore nell'ultimo cassetto della scrivania e se la infilò in tasca. Charlotte LaConner E se si fosse rivelato indispensabile sarebbe stato necessario sistemare anche Sharon Tanner. Sharon non era sicura di aver voltato apposta nella direzione sbagliata uscendo dall'ufficio di Blake, ma sospettava che fosse proprio così. Né conosceva esattamente la ragione per la quale voleva esplorare gli uffici della TarrenTech. Stava davvero cercando qualche cosa di particolare, si aspettava di trovare qualche indizio che fornisse la risposta a tutte le domande vaghe e indefinibili che si agitavano nella sua mente? No di certo. L'edificio, come qualsiasi altro grande complesso di uffici, era sempli-
cemente un labirinto di corridoi pieni di porte, alcune aperte, la maggior parte chiuse. Eppure continuò a camminare, vagando per i corridoi finché non seppe più dove si trovava. Poi, in lontananza, udì un suono, come se qualche animale stesse soffrendo. Affrettò il passo in quella direzione. Pochi istanti dopo il suono si ripeté. Si trovava in un lungo corridoio, e davanti a lei c'era una porta chiusa con una finestrella protetta da una rete metallica ad altezza d'occhio; a poca distanza dalla porta c'era un ascensore. Sharon sostò per un attimo, in attesa che il suono si ripetesse. Mentre aspettava le porte dell'ascensore si aprirono e uscì un uomo vestito di quello che sembrava un camice da laboratorio. Aveva in mano una scatola di cartone non più larga di novanta centimetri ma anche dal punto in cui si trovava riusciva a leggere l'unica parola scritta in grandi lettere rosse su di un lato: INCENERIRE Lo strano suono si ripeté ancora. L'uomo aggrottò le sopracciglia, poi diede un'occhiata alla porta con la finestrella rinforzata. Quando il suono si sentì ancora una volta depose la scatola sul pavimento, aprì la porta con una chiave ed entrò nel locale. Senza quasi riflettere su ciò che faceva, Sharon corse verso la scatola e la raccolse. Sollevando il coperchio sbirciò all'interno, poi lasciò quasi cadere la scatola per la sorpresa. Esitò per un attimo, dando un'occhiata al soffitto in cerca di telecamere di sorveglianza. Non ne vide nessuna. Prendendo una decisione frugò nella borsetta in cerca del pacchetto di Kleenex che portava sempre con sé. Facendo un profondo respiro infilò le dita tremanti nella scatola e ne estrasse due degli oggetti che conteneva, poi li avvolse con cura nei fazzolettini. Infine li mise con circospezione nella borsetta. Rimettendo con cura il coperchio alla scatola, la depose esattamente nella posizione da cui l'aveva raccolta pochi attimi prima e si affrettò lungo il corridoio. Era appena scomparsa dietro l'angolo quando la porta vicino all'ascensore si riaprì e il tecnico di laboratorio ricomparve, raccolse la scatola e proseguì nel suo incarico fino all'inceneritore nella parte posteriore dell'edificio. Sharon girò altri due angoli, poi vide un uomo in divisa da custode che
veniva verso di lei. Il suo primo istinto fu di infilarsi nella porta più vicina, poi cambiò idea. «Mi scusi», disse mentre il custode si avvicinava, con voce leggermente troppo forte. Lui la guardò sospettosamente, poi sembrò capire il suo problema. «Si è persa.» Sharon radunò un sorriso imbarazzato. «Mi sento una sciocca», disse. «Sono la signora Tanner. Sono venuta a parlare con mio marito, e devo aver voltato nella direzione sbagliata...» Strinse le spalle confusa, e l'espressione del custode si addolcì in un sorriso divertito. «Succede sempre», le disse. «Una voltata sbagliata e si può vagare per venti minuti prima di trovare l'atrio. Venga... le faccio vedere.» Camminandole a fianco, voltò prima a sinistra e poi a destra, e un istante dopo furono nell'atrio principale. «Grazie», disse Sharon mentre il custode le teneva aperta la porta. L'uomo toccò educatamente il cappello con le dita e se ne andò. Con il cuore che le batteva forte, Sharon uscì nel freddo pomeriggio autunnale e scrutò nel parcheggio in cerca della giardinetta. Solo quando si fu allontanata parecchio dalla TarrenTech fermò la macchina sul lato della strada, lasciando il motore al minimo e prese la borsa che aveva deposto sul pavimento davanti al posto del passeggero. Con le mani che le tremavano aprì la borsa ed estrasse il primo dei due oggetti che aveva tolto dalla scatola vicino all'ascensore. Era un topolino bianco, che non pesava più di mezz'etto. Era morto, e il suo corpo era rigido. Sharon fissò per un istante il cadaverino, poi lo depose con cura sul sedile accanto a lei. L'altro oggetto era più grande, e pesava circa sei etti. Sembrava molto simile al topo, tranne che le zampe e le unghie parevano grandi in modo anormale, e tutto il corpo aveva un aspetto deforme. Mentre lo teneva le mani di Sharon tremarono ancora più forte, come se sentissero che c'era qualche cosa che non andava. Anche il ratto bianco, se lo era davvero, era morto e rigido, ma c'era un'altra differenza con il topo. Sul collo del ratto il pelo era stato rasato, e c'era un livido scuro, al cui centro si vedeva il segno di un'iniezione, come se la sua pelle fosse stata forata da un ago. Entrambi gli animali avevano una targhetta metallica attaccata all'orecchio destro. Sharon dovette frugare ancora nella borsetta per prendere gli
occhiali da lettura prima di poter distinguere le piccole lettere stampate sulle targhette. Le scritte erano quasi identiche. Entrambe portavano la stessa serie di numeri e di lettere: 05-08-89#61F#46. Ma sulla targhetta del ratto c'era un altro numero: GH13. Sharon fissò per un istante le creature, cercando di capire che cosa significassero quei numeri. Le prime sei cifre, ne era assolutamente sicura, formavano una data, ma il resto? E poi pensò di conoscere la risposta, ma non aveva nessun senso. Rimettendo in fretta nella borsa i due cadaverini ingranò la marcia e si allontanò, cercando di pensare a un modo per confermare i suoi sospetti. Era davvero possibile, si chiese, che i due animali potessero aver fatto parte della stessa covata? E se era così, che cosa era stato fatto alla seconda creatura per farla crescere tanto? Rabbrividì, sapendo che non voleva conoscere la risposta... ma allo stesso tempo sapendo anche che niente l'avrebbe trattenuta dallo scoprire esattamente qual era quella risposta. Mentre suonava la campana delle tre e dieci Mark chiuse il quaderno e pescò la cartella da sotto il banco. Quel giorno non si era sentito granché di prendere appunti; aveva trovato piuttosto difficile concentrarsi sulla lezione di storia. Si era ritrovato a dimenarsi e a guardare l'orologio ogni pochi minuti, aspettando ansiosamente che suonasse la campana. Mentre gli ultimi squilli stavano svanendo si alzò in piedi e uscì di classe. Iniziò a fare le scale che portavano al piano terreno a due gradini alla volta, ma si fermò quando sentì Linda Harris che lo chiamava. Lei si affrettò a raggiungerlo, con un'espressione di scusa sul viso. «Mi dispiace per stamattina», gli disse. Per la prima volta in quasi tre settimane non l'aveva incontrata all'angolo della strada a tre isolati dalla scuola per fare insieme il resto della strada. Lui aveva aspettato qualche minuto, poi aveva concluso che non sarebbe venuta. Quand'era arrivato a scuola aveva visto che era già là, seduta sui gradini con Tiffany Welch. Quando le aveva parlato aveva fatto finta di non sentirlo per un minuto buono, poi, quando finalmente aveva notato la sua presenza si era comportata freddamente. «Mi... mi sa che mi sono comportata come una bambina, questa mattina, vero?» chiese. Mark strinse le spalle. «Non riesco a capire perché tu sia tanto arrabbiata», osservò.
Linda si mise al passo con lui mentre si dirigeva verso l'uscita. «Penso di non essere arrabbiata, in realtà», disse. «Solo che...» Per un attimo tacque, con le sopracciglia aggrottate, e decise non non pronunciare le parole che aveva sulla punta della lingua. «Non importa», disse. «Dove vai? Vuoi andare a mangiare qualche cosa?» Mark scosse la testa. «Non posso. Ho un appuntamento con il dottor Ames.» Improvvisamente Linda tornò ad aggrottare le sopracciglia. «Perché?» «Devo fare un controllo», rispose distrattamente Mark scrutando la folla di studenti che riempiva l'atrio. «Hai visto Robb da qualche parte?» Linda si meravigliò. «Robb?» chiese. «Credevo che tu e Robb aveste fatto a pugni, ieri!» «Sì», rispose Mark con un sorriso. «E avrei anche potuto vincere, se tua madre non ci avesse fatto smettere. Comunque viene al centro anche lui. Ha detto che ci saremmo trovati qui.» Proprio in quel momento Robb girò l'angolo venendo dall'ala orientale e gettò la cartella alla sorella. «Me la porti a casa?» Linda gli diede uno sguardo stizzito. «Altrimenti?» chiese in tono di sfida. «Ma la porterai», la canzonò Robb. «Non vorrai sembrare una bambinetta davanti al tuo ragazzo, vero?» Sia Linda sia Mark arrossirono, e Robb diede un colpetto sul braccio di Mark. «Andiamo... Ames non può soffrire i ritardatali.» Mark esitò un istante, ma si voltò prima di vedere gli occhi di Linda incupirsi. Seguendo Robb, scese la gradinata e si avviò verso la rastrelliera dov'era parcheggiata la bicicletta dell'altro ragazzo. Mentre Robb cominciava a pedalare Mark saltò sul portapacchi posteriore e sentì che i tubi metallici cedevano leggermente sotto il suo peso. «Cristo», si lamentò Robb. «Quanto pesi?» «Due chili e passa più della settimana scorsa», rispose Mark. «Sono tutti muscoli, quindi farai meglio a stare attento!» Linda, ferma in cima alla scalinata mentre osservava i due ragazzi allontanarsi dalla scuola, provò uno strano miscuglio di emozioni. Supponeva che fosse bello che Robb e Mark fossero tornati amici, e capiva di non potersi aspettare che Mark non cambiasse mai, eppure dentro di lei c'era una vocina che continuava a dirle che c'era qualche cosa che non andava, che Mark non stava affatto cambiando. Aveva la strana sensazione che venisse cambiato, e che lui non lo sapes-
se nemmeno. Sconsolatamente si gettò sul braccio la cartella di Robb e si avviò verso casa. «Ecco il mio ragazzo!» esclamò Marty Ames quando entrò nella sala delle visite dove Mark era vestito solo con la biancheria intima. Un'infermiera gli aveva già misurato la pressione e le pulsazioni, l'aveva pesato, aveva misurato l'altezza e aveva controllato la capacità dei polmoni. «Come ti senti?» «Magnificamente», gli rispose Mark. «Sono cresciuto quasi un chilo e più di un centimetro.» Ames inarcò le sopracciglia con un gesto di apprezzamento e scorse le statistiche più recenti che l'infermiera aveva inserito nella cartella clinica computerizzata di Mark. «Anche la capacità dei polmoni è cresciuta di qualche centimetro cubo», osservò. Poi spostò lo sguardo su Mark. I lividi sul viso erano quasi scomparsi, e solo una sottile cicatrice segnava il punto in cui la fronte era stata tagliata. «Hai male alle costole?» Mark scosse la testa. «Bene, in questo caso ti dichiaro guarito.» Sul viso di Mark comparve un'espressione di disappunto. «Vuole dire che è tutto?» chiese incertamente. «Ho finito, qui?» «Non ho detto questo», ridacchiò Ames. «In realtà adesso comincia la vera cura. Le vitamine vanno bene, ma sei tu che devi fare la maggior parte del lavoro. Mettiti un paio di calzoncini e vieni con me. Mark tirò fuori dalla cartella i pantaloncini che aveva cominciato a portare sempre con sé la settimana prima, poi si infilò i calzini e le scarpe da ginnastica. Lasciando nel locale gli altri vestiti e la cartella seguì Ames lungo il corridoio fino alla palestra. Vi aveva già passato del tempo in precedenza, imparando come funzionava ogni macchina e che effetto aveva sui suoi muscoli, ma quel giorno Ames lo condusse in un locale più piccolo in cui Robb era già in azione su un vogatore, con gli occhi fissi sullo schermo curvo che gli stava di fronte. Quando vide gli aghi nelle coscie di Robb e i tubi delle flebo che vi erano attaccati Mark esitò. «Che cos'è?» chiese. Mentre Mark si sistemava su un vogatore che era esattamente uguale a quello che stava usando Robb, e uno degli inservienti lo regolava perché si adattasse al suo corpo, Ames spiegò il sistema di monitoraggio e i suoi scopi. «Abbiamo bisogno di sapere esattamente quello che succede al tuo corpo mentre ti alleni. Il modo più facile è analizzare i cambiamenti chimici
del sangue. E per questo», aggiunse con un largo sorriso che era la parodia del piacere sadico, «dobbiamo forarti le vene e infilarti degli aghi nella carne.» Mark ridacchiò all'esagerata malvagità di Ames, eppure trasalì quando gli aghi gli penetrarono la carne e vennero poi fissati fermamente con del nastro. Un istante dopo, mentre cominciava a remare, comparvero sullo schermo le prime immagini e ben presto si trovò immerso nell'illusione di stare effettivamente gareggiando con degli altri rematori. Si piegò sulla macchina, accelerando il ritmo, e sulla fronte gli apparve un velo luccicante di sudore. Poi, mentre uno dei suoi rivali bidimensionali lo sopravanzava sulla sinistra, provò un impeto di rabbia. Imprecando tra sé azionò con più forza i remi e un istante dopo sorpassò la figura sullo schermo. Per un po' remò regolarmente, mantenendo il passo con gli altri vogatori, ma poi questi ricominciarono a sopravanzarlo lentamente, e sentì di nuovo crescere la rabbia. L'immagine sullo schermo tremolò quasi impercettibilmente. Accadde tanto rapidamente che Mark non se ne rese quasi canto. Le altre barche lo stavano superando, e i muscoli delle braccia e delle gambe cominciavano a fargli male. Il sudore gli colava dalla fronte bruciandogli gli occhi, e lo sentiva anche gocciolargli sulla schiena e sotto le ascelle. L'immagine sullo schermo continuava a tremolare, ma lui non ci faceva caso, e la sua rabbia cresceva di continuo mentre le altre due barche lo superavano inesorabilmente. Era furioso, e quasi tremava per la rabbia che provava verso gli altri rematori. Poi, lentamente, cominciò a pensare a sua madre. Non sapeva perché gli fosse venuta in mente, dato che era del tutto inconsapevole della sua immagine mentre veniva proiettata sullo schermo a livello subliminale, troppo velocemente e troppo brevemente perché la sua mente conscia la registrasse. Ma nel suo intimo si stava convincendo che era colpa di lei se stava perdendo la gara contro gli altri rematori. Colpa sua... perché l'aveva trattato per tutta la vita come un bambino piccolo, perché aveva inventato delle scuse per lui, perché insisteva che era diverso dagli altri ragazzi. Ma non era diverso. Era solo più piccolo e più debole. Remò più forte, grugnendo per lo sforzo, cercando di raggiungere gli al-
tri rematori. Li avrebbe raggiunti... lo sapeva. Stava crescendo e diventando più forte, e forse non sarebbe successo quel giorno, ma alla fine avrebbe vinto. E non avrebbe lasciato che sua madre lo fermasse. Un'ora più tardi, dopo che Mark e Robb se n'erano andati dal centro sportivo e stavano ritornando a casa, Marty Ames telefonò a Jerry Harris. «Penso che andrà tutto bene», disse. «Ho la sensazione che tutto sommato il nostro problema più recente possa risolversi.» Mentre riattaccava Ames sorrise tra sé. Gli esperimenti con Mark avevano preso una nuova direzione. Stava già sentendo il formicolio di aspettativa che provava sempre quando era sul punto di scoprire qualche cosa di assolutamente nuovo. Se avesse funzionato... se l'aggressività che era in grado di provocare nei suoi soggetti avesse davvero potuto essere concentrata su uno scopo specifico... Accantonò quel pensiero in un angolo della mente, rifiutandosi di gustarlo appieno finché non avesse saputo se l'esperimento riusciva o falliva. 19 Kelly Tanner sapeva che erano là fuori, sapeva che quelle creature davano la caccia a lei. Non sapeva come aveva fatto ad arrivare fino a lì, non era nemmeno sicura di dove fosse. Mark l'aveva portata a fare una passeggiata sulle colline, e in principio era stato divertente. Chivas era con loro, e seguendo il fiume dentro le colline avevano trovato una piccola cascata. Attorno al laghetto ai piedi della cascata c'era un boschetto di pini, e lei e Mark si erano seduti sotto gli alberi sul tappeto profumato di aghi, mentre Chivas annusava attorno ai massi sulla riva del fiume, grattando un buco scavato da qualche animale. Improvvisamente Mark aveva raccolto un sasso e l'aveva tirato a Chivas. Il cane, guaendo per il dolore, si era girato di scatto, accucciandosi sul terreno, aveva fissato Mark per un momento poi era sparito nel bosco. «Perché hai fatto così?» aveva chiesto Kelly. Mark non le aveva risposto. Invece si era alzato e si era allontanato, sparendo tra il fogliame dietro a Chivas. Non le era piaciuto - sapeva che Mark non doveva assolutamente lasciarla sola - ma sulle prime non si era preoccupata. Sarebbe ritornato dopo pochi minuti, aveva pensato, insieme al cane. Poi avrebbero ripreso la strada
di casa. Ma Mark non era ritornato. Aveva aspettato a lungo. E all'improvviso era cambiato tutto. I rami dei pini, così protettivi solo un momento prima, sembravano delle braccia tese per afferrarla. Anche il sole era scomparso, e in principio aveva pensato che non fosse nient'altro che una nuvola di passaggio. Ma poi l'oscurità le si era stretta attorno e aveva sentito le prime fitte di paura. Aveva chiamato Mark, ma non aveva ricevuto nessuna risposta. Si alzò faticosamente in piedi. Non doveva fare altro che seguire il fiume, e ben presto sarebbe uscita dalle colline e sarebbe ritornata nella valle, e là ci sarebbero state le note case e i noti negozi della città. Ma mentre camminava le sembrò che il sentiero cambiasse, le sembrò che diventasse sempre più stretto, finché non riuscì più a capire dov'era. Era stato allora che erano cominciati i rumori. In principio erano deboli grida, e sembrava che venissero da una grande distanza. Poi li udì di nuovo, più vicini, e si immobilizzò ad ascoltare. I rumori si avvicinarono ancora, e cominciarono a cambiare. Prima erano lamenti; suoni strani e strozzati, come qualcuno che piangesse. Ma poi i gemiti si trasformarono in grida cacofoniche che echeggiavano nelle colline attorno a lei, e Kelly rabbrividì. Scrutò l'oscurità che le si stringeva attorno, cercando la fonte di quei rumori terrificanti. Alle sue spalle un ramoscello scricchiolò, e lei si girò di scatto, ma non riuscì a vedere niente. Un altro ramoscello scricchiolò, ma quella volta il rumore proveniva da un'altra direzione. Cominciò a correre, ma per ogni passo sembrava impiegare un'eternità. Sentiva i piedi pesanti; riusciva appena a muoverli. Cercò di gridare, cercò di chiamare a gran voce Mark perché venisse ad aiutarla, ma la voce le si strozzò in gola e non ne uscì che un debole rantolo. Ormai la circondavano, chiunque fossero, e credette di sentirli annusare l'aria in cerca del suo odore. Sapeva che cosa sarebbe successo quando l'avessero trovata. L'avrebbero circondata, le si sarebbero avvicinati e sarebbero venuti a prenderla, con gli occhi gialli risplendenti nel buio, le zanne gocciolanti di saliva. Improvvisamente ne vide uno. Era grande... più grande di qualsiasi altra cosa che avesse mai visto.
Aveva delle braccia lunghe, con degli artigli curvi che si estendevano dalle dita e raggiungevano quasi il suolo. Grugniva aprendosi la strada tra la boscaglia, e nell'aria si sentiva l'aspro odore del suo respiro. Era quasi lì, era quasi su di lei, e radunò quel poco di forze che le restavano per urlare un'ultima volta. Fu allora che si svegliò, con tutto il corpo che tremava in uno spasimo di paura. La figura del mostro era ancora in agguato nell'oscurità, e in lontananza sentiva ancora le grida degli altri. Piagnucolò stringendosi vicino le coperte, e gridò ancora una volta, più piano, mentre la porta della sua camera da letto si apriva. «Va tutto bene, tesoro», le disse la madre accendendo il lampadario e riempiendo la stanza della luce brillante che scacciò le ombre terrificanti. «Hai avuto un incubo, ecco tutto.» Sharon si avvicinò e si mise a sedere sul bordo del letto. Abbracciò la figlia e la strinse forte. «Vuoi raccontarmelo?» Incertamente Kelly cercò di ripetere quello che era successo nel sogno, e infine guardò la madre con gli occhi spalancati. «Perché Mark mi ha abbandonata in quel modo?» chiese. «Ma non l'ha fatto, cara», la rassicurò Sharon. «Era solo un sogno, e nei sogni le cose non sono reali.» «M-ma sembrava reale», protestò Kelly. «E Mark era così diverso da com'è in realtà. Almeno», soggiunse abbassando la voce e distogliendo gli occhi dalla madre, «era diverso da com'era prima che ci trasferissimo qui.» Sharon sentì una stretta allo stomaco, ma quando parlò fece del suo meglio per non tradire i propri sentimenti. «Che cosa vuoi dire?» chiese. Kelly strinse le spalle incerta, poi si rannicchiò nel letto e si tirò le coperte sotto il mento. «Non so», disse con un'espressione di intensa concentrazione sul faccino. «Sembra solo diverso, ecco tutto. Voglio dire, non si interessa più dei conigli, e non credo che a Chivas piaccia come una volta.» Sharon posò delicatamente una mano sulla guancia della ragazzina. «E tu?.» chiese. «Ti piace ancora, Mark, vero?» «S-sì», rispose Kelly, ma nella sua voce c'era una traccia di esitazione, come se non ne fosse del tutto sicura. «Ma è diverso. Ha... ha perfino un aspetto diverso.» Sharon fece un sorriso tirato. «È perché fa un sacco di ginnastica e ha
cominciato a crescere più in fretta.» Kelly si accigliò e scosse la testa. «Non è quello», disse. «È qualcos'altro. È come se..» Smise improvvisamente di parlare mentre un rumore attraversava la notte. Anche se sembrava venire da molto lontano, Kelly lo riconobbe immediatamente. Era lo stesso acuto urlo di furia che aveva udito nell'incubo solo pochi minuti prima. Sgranò gli occhi per la paura e strinse ancora più a sé le coperte. «Ha-hai sentito» chiese. Sharon esitò, poi andò alla finestra e l'aprì. La gelida aria della notte entrò nella stanza, e lei si strinse addosso l'accappatoio. Fuori tutto era tranquillo, e verso oriente i primi fiochi bagliori dell'alba facevano stagliare la montagne contro il cielo che si stava rischiarando. Rimase in ascolto per un attimo, ma non sentì nulla. Stava allontanandosi dalla finestra quando il suono si ripeté. Questa volta non si poteva sbagliare. Era un animale che cacciava nella notte, ma sembrava che soffrisse. A Sharon venne subito in mente l'immagine di una scena che aveva visto in un museo qualche anno prima. Era un diorama, e dietro il vetro, fissato per sempre in un momento di angoscioso dolore, un puma impagliato, con le fauci spalancate in un ruggito silenzioso, aveva una delle sue grandi zampe stretta tra i denti di una tagliola. Con molto realismo, strisce di sangue macchiavano il pelo della zampa, e al di sopra della tagliola la pelle era stata strappata dove la creatura aveva cercato di liberarsi a forza di morsi. Il suono che aveva lacerato la notte mentre Sharon stava vicino alla finestra di Kelly era esattamente quello che aveva immaginato venire dalla gola del puma intrappolato e ferito. Il grido si esaurì e Sharon chiuse accuratamente la finestra. «È solo un animale, tesoro», disse a Kelly, che si era seduta rigidamente sul letto e la fissava con occhi impauriti. «È da qualche parte sulla montagna, e non può farti male.» «M-ma se viene giù?» chiese Kelly con voce tremante. Sharon diede un'occhiata all'orologio sul comò di Kelly. Erano quasi le sei, e fuori il cielo si schiariva di minuto in minuto. «Senti», le disse. «Perché non ci vestiamo e scendiamo dabbasso? Possiamo preparare una bella colazione e fare una sorpresa a tuo padre e a Mark.» Kelly si illuminò immediatamente e scivolando fuori dal letto si tolse il pigiama e cominciò a vestirsi.
«Prima fa' la doccia», le ricordò Sharon. Mentre Kelly si dirigeva in bagno scese le scale e cominciò a preparare il caffè. Ma anche quando Kelly la raggiunse, pochi minuti dopo, Sharon si ritrovò a non parlare molto, con la mente ancora occupata da quello che Kelly aveva detto di Mark. Perché anche Sharon si era resa acutamente conto dei cambiamenti che stavano avvenendo nel figlio. Aveva cercato di attribuirli agli squilibri ormonali dell'adolescenza, eppure nel momento stesso in cui insisteva con se stessa che non c'era niente che non andasse sapeva che stava mentendosi. I cambiamenti avvenivano troppo in fretta ed erano troppo marcati per essere normali. In effetti aveva perfino cercato di parlarne con Blake, la sera prima, ma lui aveva tagliato corto, come sembrava sempre fare negli ultimi tempi con tutto ciò che non fossero gli argomenti più banali. «Sii contenta», le aveva consigliato. «Finalmente sta crescendo.» Sì, stava crescendo. Ma che cosa sarebbe diventato? Aprì il freezer e prese una lattina di succo d'arancia; i suoi occhi si posarono per un attimo sul pacchettino avvolto in carta da macellaio nascosto là in fondo. Anche se a tutti sarebbe sembrato niente di più di una bistecca pronta per essere scongelata, lei sapeva che non era così. Avvolti nella carta da macellaio c'erano i cadaveri dei due roditori che aveva sottratto all'immondizia alla TarrenTech. Non ne aveva ancora parlato con nessuno, non li aveva nemmeno guardati di nuovo. Eppure era sicura che fossero importanti, e che finché non avesse deciso esattamente che cosa farne non avrebbe dovuto accennarne nemmeno al marito. Un'ora più tardi, quando Blake e Mark scesero a colazione, si ritrovò a osservare di nascosto il figlio, cercando sul suo volto i segni del cambiamento. Quella mattina credette di vederli molto bene. Nei lineamenti delicati di Mark c'era una durezza che non ricordava di avere mai visto prima di quel momento. Tre ore più tardi Mark entrò a passo veloce negli spogliatoi per prepararsi per l'ora di ginnastica e si rese conto che quella settimana, per la prima volta in vita sua, aveva in realtà cominciato a non vedere l'ora di allenarsi. Era ancora uno degli ultimi a venire scelti quando la classe si divideva in due squadre, ma il giorno prima c'erano ancora quattro ragazzi che aspettavano con aria infelice di scoprire quale di loro sarebbe stato l'escluso del giorno (onore che fino a quella settimana era invariabilmente stato di
Mark) quando con sua grande sorpresa uno dei capitani aveva gridato il suo nome. E non aveva giocato male, il giorno prima. Si era impadronito di due passaggi, uno dei quali era sfociato in un touchdown perché aveva schivato con successo due avversali che avevano cercato di atterrarlo. Quindi quel giorno indossò con entusiasmo i calzoncini e la maglietta e uscì a passo svelto sul campo insieme agli altri. Fu di nuovo sorpreso quando, immediatamente dopo aver cominciato i dieci minuti di riscaldamento che iniziavano ogni ora, l'insegnante lo chiamò fuori dai ranghi e lo mandò in palestra. Si sentì mancare il cuore quando vide che l'aspettava Phil Collins, e si chiese che cosa potesse aver fatto di male che richiedesse una lavata di capo da parte dell'allenatore della squadra di football. Ma con sua grande sorpresa Collins stava sorridendogli gentilmente. «Ho sentito parlare bene di te, Tanner», gli gridò Collins. L'allenatore era all'estremità opposta della palestra e stava soppesando oziosamente una grande palla da allenamento ricoperta di cuoio. «Marty Ames dice che stai facendo un sacco di muscoli.» Mark sorrise timidamente. «Credo di sì», ammise. «E allora vediamo che cosa sei capace di fare», continuò Collins. Senza preavviso gettò la palla verso Mark il quale, invece di cedere al solito istinto di scansare il pesante oggetto, balzò in avanti, lo afferrò e lo rimandò immediatamente all'allenatore con forza sufficiente perché Collins barcollasse leggermente mentre gli arrivava tra le mani. «Niente male», osservò l'allenatore, sollevando il sopracciglio destro in un segno di approvazione. «Vuoi provare con la fune?» Fece un cenno verso un grosso cavo di nylon intrecciato con dei grandi nodi a intervalli regolari, sospeso al soffitto mediante un pesante gancio. Mark non parlò ma si avvicinò alla fune e le diede uno strattone sperimentale. Poi la afferrò con entrambe le mani e si sollevò dal pavimento. Tolse la mano sinistra e la spostò rapidamente in corrispondenza del secondo nodo, e ripeté l'operazione con la mano destra. Senza nemmeno riflettere piegò automaticamente il corpo alle anche, in modo che mentre procedeva regolarmente verso il soffitto le sue gambe erano quasi parallele al pavimento. Arrivato in cima si fermò per un istante, poi diede un colpo al soffitto con la mano destra. Un attimo dopo, per un capriccio improvviso, lasciò andare completamente la fune e saltò a terra da quasi quattro metri e mezzo. Le ginocchia gli si piegarono con garbo e cadde su un fianco,
poi si rialzò. «Attento», gli disse Collins dopo aver fatto un fischio di ammirazione a quella manovra. «Se non sai quello che stai facendo potresti romperti una caviglia, in quel modo.» «Ma non me la sono rotta, vero?» rispose Mark con un largo sorriso. Per la mezz'ora seguente Collins fece fare a Mark una serie di severi esercizi, ma anche quando ebbe finito il ragazzo ansimava solo appena un po' più del normale. Sebbene avesse la fronte coperta da un velo di sudore, la maglietta era ancora asciutta, e i muscoli li sentiva come se avesse potuto continuare per un'altra ora. «Decisamente niente male», osservò Collins quando ebbe finito. Fece cenno a Mark di seguirlo e andò nel suo ufficio. Lasciandosi cadere nella poltrona dietro la scrivania guardò Mark con aria meditabonda. «Hai mai pensato di giocare a football?» Mark si passò nervosamente la lingua sulle labbra. «N-non fino a un paio di settimane fa», rispose infine. Fissò gli occhi sul pavimento a poca distanza dalla scrivania dell'allenatore e chiese: «Sono un po' piccolo, vero?» Collins agitò la mano destra con indifferenza. «Molti ragazzi compensano la piccolezza con qualcos'altro», osservò. «La velocità, l'agilità, un sacco di altri elementi possono cambiare le cose. E c'è la volontà fondamentale di vincere», aggiunge. «Se hai quella, può compensare un sacco di cose.» Mark rifletté a lungo sulle parole dell'allenatore. Sapeva che era vero... lo sapeva se non altro dagli esercizi di voga che aveva fatto al centro sportivo, quando la vista degli altri due rematori che lo sorpassavano era stata sufficiente a inviargli nel sangue una scarica di adrenalina che gli aveva dato l'impeto supplementare di cui aveva bisogno per raggiungerli. «Credo che mi piacerebbe provare», disse infine, e Collins si alzò in piedi sorridendogli. «Allora ci vedremo oggi pomeriggio dopo la scuola», disse. «Chiedi a Toby Miller una divisa da allenamento» L'espressione entusiastica di Mark si spense. «Oggi devo andare dal dottor Ames», cominciò, ma Collins lo fece tacere con un gesto. «È tutto a posto», disse facendogli l'occhiolino. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto provare, e quindi mi sono messo d'accordo con lui. L'appuntamento è spostato di un'ora, dopo l'allenamento.» Mark fissò sorpreso l'allenatore, poi un sorriso gli si sparse lentamente
sul viso. «Ehi, grazie», disse. «Grazie mille. A più tardi.» Sarebbe stato magnifico, pensò. Stava per riuscire a entrare in squadra, e suo padre sarebbe stato finalmente orgoglioso di lui. E poi, senza che ci pensasse, gli si presentò alla mente la figura della madre, e la sua gioia si attenuò all'improvviso. Poteva già sentirla che gli diceva che era troppo piccolo per giocare a football, e che l'unica cosa che avrebbe ottenuto sarebbe stato di farsi male. Mentre cominciava a vestirsi il minuscolo germe di collera contro la madre che era spuntato nella doccia stava già cominciando a crescere. 20 Sharon Tanner guardò malinconicamente l'elenco delle cliniche mentali del Colorado che aveva ricopiato lunedì in biblioteca. Da allora le aveva chiamate tutte, e il giorno prima era perfino andata a Canon City per chiedere personalmente di Charlotte LaConner. Anche se la maggior parte delle cliniche aveva semplicemente negato di avere una paziente di nome LaConner, altre si erano rifiutate di rispondere alle sue domande, facendo riferimento alla loro linea di condotta e alle leggi della riservatezza. Era una causa persa, e Sharon se ne rendeva conto. Anche se Charlotte o Jeff erano ricoverati in una delle cliniche che aveva chiamato avrebbero potuto essere stati registrati sotto un nome diverso, o nella loro cartella clinica ci poteva essere l'indicazione che non si dovevano fornire informazioni su di loro. E in quel momento, mercoledì pomeriggio, era finalmente pronta ad ammettere che in realtà non aveva fatto altro che procrastinare, che rimandare il momento in cui avrebbe dovuto occuparsi dei topi nel freezer... uno che sembrava perfettamente normale, l'altro grottescamente deformato e innaturalmente grande. Sapeva che aveva cercato di eludere il problema, che aveva cercato di negare la possibilità che i topi avessero qualche cosa a che fare con il centro sportivo. Eppure ogni volta che pensava a loro l'immagine della squadra di football di Silverdale continuava a ritornarle alla mente. Ragazzi grandi e grossi, ragazzi più sviluppati del normale... tutti quanti. Ma non era possibile, vero? Di certo la TarrenTech non avrebbe permesso nessun tipo di esperimento sugli esseri umani, per non parlare dei figli dei propri dipendenti. Dopo tutto, anche il figlio di Jerry ed Elaine Harris faceva parte della squadra.
E lui era grande e grosso, ricordò a se stessa, molto più dei suoi genitori. Ancora una volta ricordò il ragazzo magro e sofferente d'asma che era partito da San Marcos tre anni prima. Era davvero possibile che solo un regime di vitamine e di ginnastica, combinato con l'aria pura di montagna, avesse provocato in Robb un cambiamento? Sembrava troppo bello per essere vero. Ma se alla TarrenTech e al centro sportivo stava succedendo qualche cosa di brutto, Mark c'era già dentro fino al collo. Era quello il fatto, naturalmente, che aveva cercato di evitare di affrontare. Non voleva credere che i cambiamenti avvenuti in Mark, quei mutamenti che aveva cercato di negare finché Kelly non ne aveva parlato quella mattina, fossero qualche cosa di diverso da quelli che avvengono in tutti gli adolescenti. Ma i topi continuavano a perseguitare i suoi pensieri. Guardò di nuovo il telefono e allungò una mano per prendere la cornetta, poi esitò. Si disse che nonc'era nessun motivo di preoccuparsi, che non aveva fatto niente di male a telefonare per cercare di scoprire dove si trovava Charlotte LaConner. Eppure negli ultimi giorni quando aveva parlato al telefono aveva sentito parecchie volte uno strano vuoto, come se qualcuno avesse alzato la cornetta di una derivazione. In due occasioni era sicura di avere sentito un debole clic, come se qualcuno si fosse inserito in linea o avesse interrotto la comunicazione. Era forse sotto controllo, il suo telefono? Mio Dio, gemette tra sé. Comincio a sembrare paranoica come Charlotte LaConner! A quel pensiero rimase senza fiato. Non aveva lei stessa insistito che forse Charlotte non era paranoica, che forse stava succedendo davvero qualche cosa e che Charlotte vi si era imbattuta per caso? Superando le sue paure prese in mano la cornetta e fece il numero dell'ospedale della contea. Un istante dopo riconobbe dall'altro capo del filo la voce cordiale di Mac MacCallum. «D-dottor MacCallum?» chiese balbettando, non ancora certa di quello che avrebbe detto. «Sono Sharon Tanner... la madre di Mark» «Salve», disse MacCallum, poi la sua voce assunse un tono preoccupato. «Che cosa succede? Mark sta bene, vero?» «Sì», rispose Sharon. Poi, anche se sapeva che il dottore non poteva vederla, scosse la testa. «Voglio dire... be', credo che stia bene. Ma mi stavo chiedendo se potevo parlarle di una questione.» Nel suo ufficio, MacCallum aggrottò la fronte. Dal tono della voce capi-
va che la signora Tanner era sconvolta, ma se Mark aveva qualche cosa che non andava perché aveva detto che stava bene? «Che questione, signora Tanner?» Sharon esitò, e stava per cercare di spiegare le sue paure quando sentì un debole scatto di quel genere strano e vuoto che aveva notato anche in precedenza. Sentì un brivido correrle lungo la schiena, e quando parlò di nuovo si rese conto di sembrare nervosa. «È... Be', è una cosa di cui non mi sento a mio agio a parlarne al telefono.» rispose. MacCallum aggrottò la fronte ancora di più. Che cosa stava succedendo? Era entrato qualcuno mentre parlava? Aveva paura che il telefono fosse controllato? «Capisco», disse lentamente. «Allora forse preferisce venire qui», suggerì, dando un'occhiata all'agenda degli appuntamenti che era aperta sulla scrivania. «Che ne dice di venire alle quattro, oggi pomeriggio?» Sharon esitò un istante e cercò di mantenere un tono di voce indifferente. «Non posso»?, ribatté. «Voglio dire... be', in realtà non è una questione medica. È solo qualcosa per cui ho bisogno di un consiglio, e...» MacCallum si raddrizzò sulla poltrona. La notte in cui Mark era stato in ospedale Sharon Tanner l'aveva colpito come una donna che sapeva quello che voleva ed esitava raramente a esprimere i propri pensieri. In quel momento invece si impappinava, non trovava le parole, sembrava che non riuscisse a dirgli quello che le passava per la testa. Aveva paura che il suo telefono fosse sotto controllo. «Senta», le disse. «Devo fare un paio di commissioni in città. Se viene anche lei potremmo prendere un caffè insieme.» Sharon si sentì quasi cedere le gambe per il sollievo. Aveva capito e collaborava. «Effettivamente devo proprio fare qualche compera», rispose. «Diciamo tra mezz'ora?» «Bene», rispose MacCallum. Depose la cornetta, rimase alla scrivania per un momento, con aria meditabonda, poi si diresse verso l'uscita. Mentre passava davanti al banco delle accettazioni Susan Aldrich lo guardò con curiosità. «Da quando si prende il pomeriggio libero?» MacCallum fece un largo sorriso. «Da quella telefonata», le rispose. «Può darsi che abbiamo trovato una crepa nel grande muro di sicurezza attorno alla TarrenTech.» Il citofono privato di Jerry Harris ronzò con discrezione, e lui prese immediatamente in mano il ricevitore che lo collegava direttamente con l'uf-
ficio sicurezza nel sotterraneo. «Harris. Che cosa c'è?» «Forse niente», rispose la voce all'altro capo del filo. «Ma negli ultimi due giorni la signora Tanner ha fatto un sacco di telefonate cercando di trovare Charlotte LaConner. E adesso ha fissato un incontro con MacCallum.» Harris aggrottò la fronte con aria pensierosa. «Okay», disse dopo qualche istante di silenzio. «Voglio che intercettiate il loro colloquio e che mi riferiate subito quello che succede.» Sapendo che i suoi ordini sarebbero stati eseguiti senza domande, depose il ricevitore e ritornò al dossier che stava esaminando. Era un rapporto completo degli esperimenti che Martin Ames aveva messo in atto nel caso di Mark Tanner. Quel pomeriggio Sharon stava quasi per prendere la macchina per andare in città, ma cambiò idea all'ultimo minuto. Capiva di comportarsi come una sciocca, capiva di cedere ancora una volta allo stesso genere di pensieri paranoici per cui si era chiesta se il suo telefono non fosse per caso sotto controllo. Eppure era meglio se sembrava che non avesse nient'altro a cui pensare se non a una tranquilla passeggiata fino al supermercato. Tirò fuori dall'armadietto delle scope il carrello pieghevole, lottò per un po' prima che le si aprisse all'improvviso tra le mani e il fondo di fil di ferro andasse al suo posto, poi andò all'armadio a muro dell'ingresso e tirò fuori il suo giaccone. Solo quando fu pronta per uscire andò nel freezer a prendere il pacchettino che conteneva gli animali morti che aveva portato a casa dalla TarrenTech. Con una vaga sensazione di nausea allo stomaco sapendo che cosa conteneva, lo nascose con cura sul fondo della sua grande borsa, che si mise a tracolla. Infine, trascinando goffamente dietro di sé il carrello uscì dalla porta posteriore e si avviò verso la strada lungo il vialetto d'accesso. Era un pomeriggio freddissimo, ma il cielo era limpido, una cupola color cobalto sopra la valle, che faceva sembrare come se Silverdale fosse stata tagliata fuori dal resto del mondo e fosse accessibile solo a quelle poche persone fortunate che vi vivevano. Ma a Sharon la perfezione del villaggio dava una sensazione di claustrofobia sempre maggiore ogni giorno che passava. Alla fine era arrivata a pensare che in un modo o nell'altro quasi tutti gli abitanti di Silverdale vivessero una vita abbellita artificialmente e pianificata accuratamente come la comunità che li ospitava.
Vide qualche altra donna che camminava per la strada quel pomeriggio, con i carrelli per la spesa che ruzzolavano dietro di loro come altrettanti piccoli carri di servizio. Sharon fece un cenno a quelle che non riconobbe, parlò con quelle che riconobbe. Mentre camminava dovette costringersi a non voltarsi indietro per guardare se qualcuno la seguiva. Quando arrivò in paese cominciò a sentirsi un po' sciocca per tutta la faccenda, eppure la consapevolezza di ciò che aveva nella borsa e dei cambiamenti che aveva fatto Mark la mantenevano guardinga. Anche quando riconobbe MacCallum seduto comodamente su una delle panchine della passerella di legno che collegava i negozi esitò e scrutò la zona per vedere se c'era qualche cosa di sospetto. Ridacchiò vuotamente tra sé rendendosi conto che non era sicura di che cosa dovesse considerare pericoloso e che cosa no. Infine, a grandi passi decisi, si diresse verso MacCallum. Mentre si avvicinava lui si alzò in piedi e strinse gli occhi chinando leggermente la testa. «Sembra che abbia un mistero tra le mani», osservò a voce tanto bassa che Sharon, sebbene lei l'avesse udito benissimo, dubitò che qualcun altro che fosse nella zona avesse potuto sentirlo. «N-non lo so», rispose balbettando. Fece un cenno verso il piccolo parco dall'altra parte della strada. Quel pomeriggio i suoi giardini, circondati dal lindo steccato bianco che predominava in tutta la cittadina, erano deserti tranne che per un cagnolino bianco e nero che annusava in giro nel campo di giochi all'estremità a nord. «Perché non andiamo laggiù?» MacCallum fece un cenno di assenso, e i due attraversarono la strada ed entrarono nel parco. «Che cosa sta succedendo?», chiese MacCallum. «E potrebbe cominciare col dirmi perché crede che il suo telefono sia sotto controllo.» Sharon trasalì. «Era tanto evidente?» Non riuscì a resistere alla tentazione di dare un'occhiata in giro, ma il parco era ancora vuoto, e le poche persone sul marciapiede sembravano ignorare la loro presenza. «Be', se è davvero sotto controllo suppongo che fosse evidente per chiunque ascoltasse come lo è stato per lei.» Poi, sedendosi su una panchina al centro del parco, cominciò a spiegare tutto quello che era successo, dalle sue preoccupazioni su Charlotte LaConner alle sue ansie non ben definite per Mark. «Suppongo che sembri un po' assurdo, no?» chiese quando ebbe finito. Fu quasi sorpresa di vedere che MacCallum scosse la testa. «Sembra che quello che lei suppone sia una specie di complotto, con la TarrenTech al centro di tutto.»
Sharon si morse un labbro e annuì. «Ma è assurdo, non è vero?» MacCallum fece un profondo respiro. «Forse lo è», ammise. «Ma d'altra parte se non si fa parte della TarrenTech questo posto sembra parecchio strano.» Guardò acutamente Sharon con la coda dell'occhio, ma il viso di lei non tradiva nessun segno che stesse sulla difensiva. Le sorrise malinconicamente. «O forse a lei non sembra strano che, sia pure in una città come questa, creata da una società, la TarrenTech finanzi o gestisca ogni cosa. Ogni cosa. Le scuole, il municipio, la biblioteca, perfino il Rocky Mountain High.» «E l'ospedale?» chiese Sharon, sentendosi improvvisamente mancare il cuore. Ma con suo grande sollievo MacCallum scosse il capo. «Noi siamo della contea. Completamente indipendenti, anche se non per scelta della TarrenTech. In realtà, qualche anno fa avevano offerto di acquistare l'ospedale dalla contea. Affermavano di poterlo gestire con minor costo e maggiore efficacia della contea. Sfortunatamente per loro», continuò senza tentare di nascondere il sarcasmo e la rabbia contro la TarrenTech dal tono della sua voce, «non tutti sono entusiasti di avere qui la TarrenTech come la società ritiene dovremmo essere, e la contea non la pensava come loro. Pensavano che un ospedale pubblico dovesse essere gestito dal pubblico e non hanno ceduto a Thornton.» Piegò le labbra in un sarcastico sorriso e soggiunse: «Quindi se lei pensa che ci sia in giro qualche genere di complotto non discuterò. Questo posto è sempre stato troppo perfetto per i miei gusti. In realtà ero contento di com'era. Ad ogni modo tutta la faccenda mi puzza.» Tacque per un istante poi continuò. «Penso che sappia tutto di Ricardo Ramirez.» Sharon annuì. «Be', secondo me la TarrenTech non sarebbe stata tanto ansiosa di evitare qualsiasi azione legale da parte di Maria se non avesse qualche cosa da nascondere. Temo di non credere granché in tanto altruismo da parte di una società. E questo, lo confesso, è una delle ragioni per cui adesso sono qui.» La guardò apertamente e soggiunse: «Penso che lei sappia qualche cosa di cui non mi ha ancora parlato.» Per qualche momento Sharon tacque, decidendo se doveva fidarsi di lui oppure no. Ma naturalmente non aveva scelta. Infine annuì e allungò un braccio per estrarre il pacchettino dal fondo della borsa. «L'altro giorno alla TarrenTech ho trovato questi», disse con voce tanto bassa che MacCallum riuscì appena a sentirla. «Erano in una scatola su cui c'era scritto 'incenerire', e quando ne ho avuta l'occasione... be', li ho presi.»
Dette il pacchetto a MacCallum. Lui lo fissò per un istante, poi lo scartò lentamente. Un attimo dopo la vivida luce del sole del pomeriggio risplendeva sui due animali morti, entrambi ancora congelati. Aggrottando profondamente la fronte, MacCallum lesse le etichette. «La stessa nidiata», disse. «Nati l'otto maggio. I loro genitori erano il maschio n. 651 e la femmina n. 46.» «È quello che ho pensato anch'io», rispose Sharon. «Ma che cosa può significare l'altro numero? Quello sul più grande?» MacCallum lo studiò per un momento. Improvvisamente fu quasi certo di avere capito. E allora, pensando a Jeff LaConner e a Randy Stevens forse anche Robb Harris? - sentì un'ondata di nausea salirgli allo stomaco. «Ormoni della crescita», mormorò quasi a se stesso. Guardò Sharon con gli occhi stranamente offuscati. «Dev'essere così, no? Fanno degli esperimenti sugli animali con gli ormoni della crescita.» Fissò ancora una volta il più grande dei due topi. Adesso le sue strane deformità sembravano molto evidenti. I piedi ingranditi e le lunghe unghie. La pesantezza della struttura ossea attorno agli occhi e il prolungamento della mascella. Scosse la testa, non riuscendo ad accettare l'idea che gli si era improvvisamente formata nella mente. «Non pensa che stiano facendo degli esperimenti anche sui ragazzi, vero?» «Non so che cosa pensare», disse Sharon come stordita, ma nell'intimo sapeva di avere pensato proprio a quello. «Senta», le disse MacCallum. «Mi lasci portare in ospedale queste cose e fare qualche prova su di loro. Potrebbe darsi che siamo completamente sulla strada sbagliata. Voglio dire... forse stanno facendo degli esperimenti con qualche tipo di ingegneria genetica. In quel campo, adesso sono certamente possibili ogni genere di cose, e quello più grande potrebbe essere solo qualche forma di mutazione. Se è così non dovrebbe essere troppo difficile scoprirlo... tutto quello che devo fare è mandarli a un laboratorio di Denver per fare un paragone del DNA.» «E se non fosse così?» chiese Sharon, sentendo ancora nella mente l'eco delle assicurazioni di Blake che la cura a cui era sottoposto Mark non era altro che un complesso di vitamine di qualche tipo. «Allora faremo un passo alla volta», le rispose MacCallum. Avrebbe voluto dirle di non preoccuparsi, avrebbe voluto assicurarle che a Silverdale non poteva aver luogo niente di tanto perfido come degli esperimenti sugli
esseri umani. Ma non poteva. Pochi minuti dopo si lasciarono; MacCallum aveva reincartato con cura i due cadaverini e li aveva messi nella sua cartella. Appena si furono allontanati dalla piazza l'uomo che era rimasto parcheggiato in una giardinetta a mezzo isolato di distanza, senza che né Sharon né MacCallum notassero la sua presenza, scese dall'auto e attraversò il marciapiede fino a una cabina telefonica, trascurando il poco sicuro apparecchio telefonico montato sul cruscotto vicino al posto di guida. Per quella telefonata aveva bisogno di riservatezza. MacCallum si allontanò dalla cittadina guidando piano, con la niente solo parzialmente occupata a percorrere la familiare strada che portava all'ospedale, a poco più di ottocento metri di distanza dal limitare della città. Stava esaminando ancora una volta la conversazione che aveva avuto con Sharon Tanner, considerandone ogni parte, desiderando di poter trovare un modo di essere in disaccordo con lei. Ma anche lui aveva conosciuto Charlotte LaConner, e secondo lui Charlotte non sembrava il tipo di donna da nascondere tendenze paranoiche. Voltò nella strada principale, ma non si prese la briga di accelerare. C'era poco traffico, e lui non aveva fretta. Sul sedile accanto a lui c'era la cartella con i topi morti. Dandole un'occhiata, cominciò a fare delle congetture su quello che poteva essere stato fatto al più grande dei due. Sapeva che si stavano facendo degli esperimenti sugli ormoni della crescita dell'uomo, sapeva che da quando era stata elaborata la tecnologia della loro sintetizzazione stava cominciando a diventare possibile correggere ogni genere di deficienze genetiche e di squilibri ghiandolari. E naturalmente quello era proprio il genere di cosa in cui la divisione farmaceutica della TarrenTech poteva essere interessata. Inoltre, era proprio il genere di cosa in cui poteva essere interessato Martin Ames, con la sua ricerca in corso nel campo dello sviluppo fisico dell'uomo. Ma di certo non potevano aver cominciato a fare esperimenti sugli esseri umani. Quello era il genere di cose che avevano fatto i nazisti durante la seconda guerra mondiale. E ormai eravamo alla fine del secolo! Perfino prendere in considerazione una cosa simile... Il corso dei suoi pensieri si interruppe quando venne improvvisamente distratto da qualche cosa sulla strada davanti a lui.
Era un camion, un grande semirimorchio, e anche dalla sua auto MacCallum poteva vedere che superava di molto il limite di velocità di ottanta chilometri all'ora della strada a due corsie che si diramava verso ovest dall'asse principale nord-sud. Aggrottò la fronte. Quel tizio non sapeva che a ovest c'era una vasta distesa di pascoli non recintati, e che gli poteva capitare davanti una mucca che vagava sulla strada? Alla velocità a cui procedeva il camion avrebbe avute ben poche probabilità di cavarsela, proprio come la mucca. Istintivamente si spostò a destra, per dare al veicolo che sopraggiungeva tutto lo spazio possibile. Nella cabina del camion il guidatore scorse l'auto davanti a lui... una Audi verde scuro. Sollevò agli occhi il canocchiale e controllò la targa, poi diede un'occhiata agli specchietti retrovisori. Come gli era stato detto, dietro di lui non c'erano automezzi. E non ce n'era neanche nessuno che seguisse la Audi. Il lavoro sarebbe stato facile. Premette ancora di più l'acceleratore, e il rombo del motore diesel sotto il cofano mutò leggermente. Dagli scarichi gemelli a lato della cabina uscì uno sbuffo di fumo nero, e il tachimetro si spostò lentamente sul segno dei centotrenta chilometri l'ora. Vide che la Audi si spostava leggermente dal centro della strada mentre il suo guidatore cercava di dargli maggior spazio. «Ma non abbastanza, disgraziato figlio di puttana», borbottò tra sé il guidatore. Si stava avvicinando in fretta all'Audi; ormai li separavano meno di cento metri. Premette più forte sull'acceleratore, guadagnando ancora un po' di velocità. Cinquanta metri, poi venticinque. Le sue mani si tesero sul volante, e il piede sinistro si librò sul freno, pronto a eseguire la rapida manovra che aveva messo in pratica tante volte in passato. Dieci metri. Fino all'ultimo istante MacCallum non si rese conto di quello che stava succedendo. Si era spostato completamente sulla destra della sua corsia, e le gomme di destra sollevarono una nuvola di polvere toccando la terra battuta e la ghiaia ben compattata del bordo della strada. Il camion che sopraggiungeva era arrivato quasi alla sua altezza, e con le gomme di sinistra si era spostato sulla linea della mezzeria. Mac pensò che gli si fossero rotti i freni e che avesse perso il controllo, ma poi si rese conto che la strada era
quasi piana... di certo il motore avrebbe dovuto farlo rallentare. Poi udì lo stridore delle gomme che slittavano sul selciato, e improvvisamente il camion si voltò verso di lui, con il clacson che suonava, l'enorme massa della cabina che si precipitava come un bolide contro il finestrino chiuso accanto alla sua testa. Diede uno strattone al volante, e per un attimo sentì che lo sterzo dell'Audi rispondeva, poi il grande paraurti cromato del camion urtò violentemente la macchina. Il vetro del finestrino si spaccò verso l'interno e un turbine di frammenti di vetro gli tagliò il viso, accecandolo. L'auto si sollevò in aria, con il fianco quasi strappato via per l'urto, poi si capovolse e atterrò con le ruote in aria, scivolando sul terreno per una decina di metri prima di sbattere contro un grande masso. Quando la macchina aveva toccato il suolo il tetto aveva immediatamente ceduto e Mac, con il sangue che colava dai tagli che gli coprivano il viso, cercò debolmente di liberarsi dal groviglio di rottami. Aveva il volante premuto contro il petto, e ad ogni respiro sentiva un dolore lancinante mentre le costole fratturategli foravano i polmoni e gli laceravano i muscoli attorno alla cassa toracica. Ma l'auto non aveva preso fuoco, e lui non era ancora morto. Il guidatore del camion arrestò il veicolo con grande stridore di freni, con le ruote bloccate dalla grande forza che aveva applicato sul circuito di frenatura. Scese dalla cabina con una piccola pompa d'aria stretta in mano, con il filo già collegato all'accendisigari sul cruscotto. Ignorando l'auto che si trovava a poche decine di metri di distanza, sfasciata in modo da essere quasi irriconoscibile, collegò il tubo della pompa d'aria alla valvolina della gomma anteriore di sinistra. Solo quando fu certo che la pompa funzionava perfettamente rivolse l'attenzione all'Audi sfasciata e alle deboli grida di aiuto che provenivano dalla sua carrozzeria contorta. Si avvicinò in fretta all'auto, poi si fermò prudentemente e aspettò di vedere se prendeva fuoco. Sotto il bocchettone di riempimento si era formata una piccola pozza di benzina, ma non vide da nessuna parte segni di fumo. Trascurando il posto di guida si affrettò dall'altro lato della macchina e si chinò finché non vide quello che stava cercando. Una cartella nera, di quel tipo antiquato che si apre in cima, era incuneata tra il posto di guida e il cruscotto fracassato.
Il guidatore del camion allungò un braccio attraverso il finestrino e la liberò rapidamente. La aprì, vi frugò dentro un istante, poi estrasse il pacchettino di carta da macellaio. Soddisfatto, ributtò la cartella nell'auto e si fece indietro. «A-aiuto» udì mormorare una debole voce. «Non posso...» «Spiacente, amico», disse il guidatore del camion. «Se vai a ficcare il naso dove nessuno ti vuole, devi aspettarti qualche guaio.» Ficcandosi una mano in tasca tirò fuori una malconcia scatola di fiammiferi. Guardando disinvoltamente in entrambe le direzioni vide che non si avvicinava ancora nessun veicolo. Allora sfregò un fiammifero e si accese una sigaretta. Poi, indietreggiando e prendendo accuratamente la mira, gettò il fiammifero nella pozza di benzina che si era formata sotto il bocchettone di riempimento, si voltò e fuggì via. Per un attimo avvampò solo la pozza di benzina, poi presero fuoco i vapori nel serbatoio e l'aria venne riempita da una sorda esplosione. Mentre il serbatoio si staccava, sopra la macchina si formò una lucente palla di fuoco, e l'automezzo venne inghiottito dalle fiamme. Dentro l'auto MacCallum, ancora cosciente, vide le fiamme arancione turbinargli intorno e sentì il calore dell'aria mentre cercava di respirare. Un attimo dopo, mentre il fuoco succhiava l'ossigeno dall'aria della macchina, si sentì morire. Il suo ultimo pensiero prima di morire fu per Sharon Tanner. Si chiese se avessero ucciso anche lei. Il guidatore rimase lontano dal camion finché la piccola pompa non ebbe gonfiato la gomma fino al punto di farla scoppiare, poi rimise rapidamente la pompa nel suo alloggiamento sotto il sedile anteriore. Guardò solo una volta le larghe strisce nere che le gomme avevano lasciato quando aveva lanciato il camion contro l'Audi, rendendosi conto che erano un'imitazione quasi perfetta dei segni che avrebbe lasciato cercando di riprendere il controllo del grande semirimorchio dopo che era scoppiata una gomma. Soddisfatto, accese la radio montata sul cruscotto e la sintonizzò sul Canale 9. Solo dopo che ebbe riferito l'incidente sulla banda di emergenza ritornò verso la macchina incendiata, in modo che quando la polizia fosse arrivata sarebbe stato chiaro che stava facendo del proprio meglio per salvare l'uomo che aveva appena ucciso. 21
«Mamma?» chiese Kelly. Quando la madre non si voltò ripeté la parola a voce più alta. «Mamma!» Sharon era seduta al tavolo di cucina e guardava fuori della finestra senza rendersi conto in realtà di quello che succedeva fuori. Come aveva sempre fatto dal suo incontro nel parco con Mac MacCallum stava pensando al passo seguente. Aveva già preso una decisione: non appena Mark fosse tornato a casa gli avrebbe detto che non doveva più andare al centro sportivo. A Blake non sarebbe piaciuto, lo sapeva, e non sapeva ancora che cosa gli avrebbe detto quando avrebbe chiesto una spiegazione. Che cosa poteva dirgli? Che era quasi sicura che il centro sportivo non fosse altro che un laboratorio che usava i ragazzi di Silverdale per fare degli esperimenti? Il minimo che poteva fare sarebbe stato riderle dietro, e in realtà non l'avrebbe biasimato se l'avesse accusata di essere vittima dello stesso genere di paranoia che aveva colto Charlotte secondo quanto affermava Chuck LaConner. «Mamma!» gridò di nuovo Kelly, e quella volta la voce della ragazzina penetrò la coscienza di Sharon. Si voltò e le sorrise a fatica. «Scusa, tesoro, stavo pensando.» Kelly era in piedi vicino alla porta posteriore, con le sopracciglia aggrottate. «Quando ceniamo?» chiese bruscamente. «Ho fame!» Sharon guardò l'orologio. Erano quasi le sei e mezzo, e si rese conto che era stata seduta al tavolo per quasi due ore. Si alzò in fretta e si diresse verso il freezer, facendo mentalmente l'inventario del suo contenuto. «È tornato a casa, Mark?» chiese. Kelly alzò le spalle. «Non lo so. Io non l'ho visto.» Sharon si diresse verso la porta di cucina per chiamarlo da in fondo alle scale, poi notò Chivas acciambellato vicino alla cucina economica, con il muso appoggiato sulle zampe anteriori e i grandi occhi che la fissavano malinconicamente. La presenza del cane era sufficiente a farle capire che suo figlio non era in casa: se ci fosse stato Chivas sarebbe scomparso da un pezzo dalla cucina per seguire Mark dovunque fosse andato. Si sentì sbattere la porta davanti, e un istante dopo Mark entrò in cucina. Immediatamente Chivas si alzò e scivolò lungo il lucido pavimento di linoleum scodinzolando freneticamente. «Ehi! Sta' giù, grosso idiota.» Mark spinse da parte il cane, con il viso illuminato da uno strano sorrisetto di trionfo che Sharon non gli aveva mai visto prima. «È ritornato papà?»
Sharon scosse la testa. «E tu dove sei stato?» ribatté, facendo un esplicito cenno verso l'orologio. «Guarda che ore sono.» Il sorriso di Mark si spense solo un poco. «Al centro», rispose. «Erano quasi le quattro quando ci sono arrivato.» Sharon aggrottò la fronte, ma quando parlò cercò di mantenere un tono neutro. «Che cosa diavolo ci hai fatto, per due ore?» chiese. Mark alzò le spalle e prese oziosamente una mela da un cestino sul bancone. «Le solite cose. Marty mi ha controllato e poi ho fatto un po' di ginnastica.» Sharon strinse le labbra. «Che genere di ginnastica?» chiese. Il sorriso di Mark scomparve.«Che importanza ha?» le chiese in tono di sfida. «Quello che faccio non ti piace comunque.» «Non può essere curiosa, una madre?» disse Sharon allegramente, ignorando il tono leggermente sprezzante delle sue parole. «Accidenti, mamma» rispose Mark alzando impazientemente gli occhi al cielo. «Che cosa te ne importa di quello che faccio quando sono fuori?» La voce di Sharon si indurì. «Sono tua madre. E poi, c'è forse qualche grosso segreto? Sta succedendo qualche cosa che non vuoi che io sappia?» Mark la fissò un momento, poi fece in sorriso insolente. «Sì», disse. «Marty è gay e ce lo facciamo tutti quanti. È questo che vuoi che ti dica?» «Mark!» esclamò Sharon mentre i suoi occhi si posavano immediatamente su Kelly, che stava fissando il fratello con curiosità. «Che cosa diavolo ti ha fatto anche solo pensare a una cosa del genere?» chiese prima che la figlia potesse intromettersi. Mark strinse le spalle. «Non lo so. Sembra solo che tu ce l'abbia con il centro, ecco tutto.» «Non è che ce l'abbia, come dici tu», disse seccamente Sharon. «Voglio solo sapere che cosa fai, ecco tutto. E se non vuoi che continui a farti delle domande comincia a darmi qualche risposta.» Gli occhi di Mark lampeggiarono di rabbia. «Va bene!» sbottò. «Se per te è così maledettamente importante, ecco che cosa è successo. Sono arrivato là, mi sono svestito, mi hanno misurato le pulsazioni, la pressione e l'altezza. Okay?» La fissò con occhi penetranti, ma non le diede modo di dire niente. «Poi ho remato per venti minuti al vogatore. Okay? E poi basta, sono tornato a casa. Ti va bene, adesso?» Sharon fece un passo indietro, sbalordita dall'intensità dell'ira nella voce di Mark. Poi perse le staffe. «Non parlarmi in quel tono, giovanotto», disse aspramente. «E no», si lanciò, decidendo di tirare fuori tutto in quel mo-
mento, «non mi va bene affatto! Non ci vogliono due ore per i semplici esami che continui a descrivere e per venti minuti di vogatore.» Mark strinse gli occhi. Perché lo tormentava? Lui non aveva fatto niente. Ma era quello che faceva sempre. Sempre a osservarlo, come se facesse qualche cosa che non andava, e lo fissava mentre mangiavano come se fosse un fenomeno da baraccone! Venne invaso da un impeto di rabbia e strinse i pugni. «Che cosa te ne importa di quello che faccio là?» chiese bruscamente, con voce roca. «Vuoi semplicemente che smetta di andarci, vero? Vuoi che torni a essere un pappamolla!» Sharon guardò il figlio con occhio furioso, tremando tutta. Non era affatto come aveva immaginato la cosa. Voleva mettersi a sedere con Mark e parlare tranquillamente della faccenda, spiegargli le sue ansie e ascoltare le sue spiegazioni di quello che stava succedendogli al Rocky Mountain High. Ma in quel momento stavano cercando di sopraffarsi, e Sharon si rese conto che se si fosse tirata indietro avrebbe perso qualsiasi controllo sul figlio. «Hai ragione», disse. «Voglio che tu smetta di andarci. Non so che cosa ti faccia Ames, ma non sei più il ragazzo che eri un mese fa. E quello che vedo non mi piace.» «Quello che vedi non ti piace», la scimmiottò Mark, con la voce che saliva e scendeva in una cantilena piena di ironia. La vista gli si offuscò leggermente, e gli sembrò di vedere la madre in una nebbia rossastra. Da qualche parte nelle profondità del subconscio salì un impeto incontrollabile di colpirla, e fece un passo verso di lei. Ai suoi piedi Chivas ringhiò piano e drizzò i peli del collo mentre il suo corpo si irrigidiva. Fissò gli occhi su Mark e abbassò la coda, che fino a quel momento teneva sollevata. «Basta!» esclamò Sharon. «Puoi andare in camera tua e restarci finché non avrai deciso di chiedermi scusa!» Si interruppe un istante, ma Mark non si mosse. «Mi hai sentito?» chiese bruscamente. Mark sentì la tensione del suo corpo aumentare rapidamente. Sembrava che tutti i suoi muscoli formicolassero, e nella mente sentì una vocina che gli sussurrava, esigendo che liberasse l'energia repressa dentro di lui. Con un rauco suono che gli usciva dalla gola fece un passo in avanti. Ma prima che potesse avvicinarsi alla madre Chivas gli saltò contro con un ringhio furioso, con le labbra ritratte per mettere allo scoperto le zanne, si gettò contro il petto del suo padrone. Mark indietreggiò traballando sotto il peso del grande cane. Alzò le braccia per proteggersi, e le sue mani si strinsero attorno al collo dell'animale.
Sharon si immobilizzò, guardando con gli occhi spalancati lo spettacolo che aveva davanti. Sembrava che gli occhi di Mark fossero diventati vitrei; aveva stretto tanto forte la mascella che i tendini del collo sporgevano. Le sue dita, tremanti per la rabbia, si strinsero attorno alla gola del cane. Chivas, sollevato dal pavimento una trentina di centimetri, stava lottando per liberarsi dalla stretta del padrone. «Mamma» gridò Kelly. «Mamma, che cosa sta facendo Mark. Fallo smettere!» Ma non c'era niente che Sharon potesse fare. Le sembrava che i suoi piedi avessero messo radici nel pavimento. Eppure allungò una mano verso Mark. «Smettila!» gridò. «Per amor di Dio, Mark... lo stai uccidendo!» Mark sentì che le sue dita si stringevano attorno alla gola del cane, e riuscì appena a distinguere una voce che da molto lontano gli gridava di smettere. Ma era completamente concentrato sul cane. Lo sentiva dimenarsi nella sua stretta, con le zampe anteriori che gli raspavano debolmente il petto. Poi, mentre continuava a stringere più forte, il cane smise di raspare e tutto quello che sentì furono pochi esitanti strattoni. Poi più niente. La vista cominciò a schiarirglisi. Improvvisamente fissò il muso di Chivas. Gli occhi del cane, fuori dalle orbite, sembravano fissarlo, e la lingua gli pendeva floscia dalla mascella allentata. «Chi-Chivas?» chiese con voce rotta dall'emozione. Quindi i suoi occhi lasciarono il cane e si fissarono sulla madre, che lo guardava con il viso pallido come un cencio e gli occhi pieni di sgomento. Nell'angolo vicino alla porta posteriore Kelly era rannicchiata sul pavimento e piangeva. Poi anche gli occhi di Mark si riempirono di lacrime quando fissò smarrito il corpo senza vita che teneva ancora tra le mani. La forza gli abbandonò le dita, e Chivas scivolò sul pavimento, allungandosi quasi come se fosse addormentato. «Mi-mi dispiace», gemette Mark. «Non volevo!» Si voltò, incapace di guardare la madre o la sorella, uscì barcollando dalla cucina, salì la scale incespicando e andò in camera sua. Sbatté la porta alle sue spalle e poi rimase immobile, con la schiena appoggiata all'uscio, ansimando raucamente. Non era possibile... non poteva avere ucciso Chivas. Non poteva! Ma sapeva di averlo fatto. Il cane l'aveva assalito, e lui l'aveva ucciso. Ma non era vero nemmeno quello, in realtà. Chivas aveva solo cercato di proteggere sua madre.
Sua madre! In quel momento riusciva a ricordare la sua collera, a ricordare il furore accecante che gli era salito dentro, l'aveva sopraffatto, l'aveva spinto a scagliare il pugno verso di lei, a volerlo abbattere sulla sua faccia. Sua madre! Non era possibile. Soffocando un singhiozzo andò incespicando verso il letto, ma si arrestò vedendosi nello specchio dell'armadio. I capelli, fradici di sudore e incollati alla testa, incorniciavano un viso che quasi non riconobbe. Sembrava che gli occhi si fossero affondati nelle orbite e scrutassero sospettosamente dalle arcate sopraccigliari. La mascella sembrava più spessa e le labbra, leggermente storte, gli davano un aspetto imbronciato. «Nooo...» gemette piano. «Quello non sono io. Non posso essere io.» E improvvisamente lo riprese la collera. Strinse il pugno, portò indietro il braccio e colpì lo specchio con tutta la forza che poté raccogliere. Lo specchio si frantumò, e delle crepe si protesero in tutte le direzioni dal punto dell'urto. «Nooo» singhiozzò di nuovo. Indietreggiò barcollando e per un attimo non riuscì a distogliere gli occhi dalla figura contorta nello specchio fracassato. Ma infine si voltò e strisciò verso il letto. Strappò la biancheria e le coperte, togliendole con un unico strattone furibondo, poi afferrò la pesante sopraccoperta con entrambe le mani e ne strappò un pezzo prima di buttarla da una parte. Saettò gli occhi, che brillavano furiosamente, intorno alla stanza, in cerca di qualche cosa d'altro da distruggere. Quando finalmente crollò sul letto, mezz'ora dopo, con la rabbia ormai spenta, la camera era nel caos. Le piume di un cuscino sventrato coprivano tutto e volteggiavano ancora nell'aria. I vestiti, strappati dall'armadio e dal cassettone, erano sparpagliati sul pavimento. La sveglia era fracassata, e in un angolo giaceva una lampada con il paralume schiacciato. Ma finalmente il furore che lo rodeva dentro si era acquietato. Nella casa la tensione si poteva quasi toccare. Infine Sharon buttò da una parte la rivista che teneva in grembo da venti minuti senza leggerla. «Dobbiamo parlarne», disse con gli occhi fissi su Blake, che, ne era sicura, non era preso dallo spettacolo televisivo più di quanto lei non lo fosse dalla sua rivista.
«Non so come potremmo parlarne quando non mi hai fatto nemmeno parlare con Mark», rispose lui. Anche se la sua voce era normale, aveva una sfumatura che fece trasalire Sharon. «Tu non eri qui», disse «Non puoi assolutamente capire quello che è successo.» «Ha ucciso Chivas», le disse Blake. «Sembrava che stesse per darti un pugno, e quando Chivas lo ha assalito l'ha ucciso. Non è stato cosi?» Sharon sapeva che aveva ragione, eppure nel momento stesso in cui diceva quelle parole voleva gridargli che era qualche cosa di completamente diverso, che Mark non era lui, che era come se un estraneo furibondo si fosse impadronito del corpo di Mark. Ma aveva già tentato di spiegarglielo. Era tornato a casa dall'ufficio pochi minuti dopo che Mark era sparito nella sua stanza, aveva ascoltato sbalordito mentre Sharon gli aveva raccontato con voce rotta quello che era successo, poi aveva seppellito Chivas nel cortile posteriore, con Kelly che guardava tremando mentre cercava di controllare i singhiozzi che l'avevano sopraffatta quando si era resa conto che Chivas era morto. Aveva già cominciato a salire le scale per occuparsi di Mark quando Sharon l'aveva fermato. «Lascialo stare», aveva supplicato. «È inorridito come te per quello che è successo.» Blake l'aveva guardata sbalordito. «Ha cercato di picchiarti e ha ammazzato il suo cane, e dici che è inorridito? Io dico che ha bisogno di una bella sgridata, se non di qualche frustata!» Era stato allora che aveva cercato di spiegare quello che era successo, e cioè che dal momento in cui Mark era tornato a casa quel giorno c'era in lui qualche cosa di diverso, qualche cosa di più dei cambiamenti che si erano verificati nelle ultime settimane. «C'era uno strano sguardo nei suoi occhi, e quando gli ho detto che non volevo che tornasse da Martin Ames ha perso le staffe.» Blake l'aveva fissata. «Che cosa gli hai detto?»aveva chiesto. «Mi hai sentito», aveva risposto lei abbassando la voce, non volendo che Kelly, la quale era salita in camera sua dopo avere annunciato che non voleva cenare, sentisse quello che probabilmente sarebbe sfociato in una discussione. Aveva avuto ragione. Era andato e venuto mentre aveva preparato la cena e aveva continuato quando infine lei e Blake si erano seduti da soli al tavolo di cucina. Infine Blake aveva spinto da parte il piatto e aveva getta-
to il tovagliolo sul tavolo. «Non capisco», aveva detto. «Non hai la più pallida idea di quello che sta facendo Ames ma sei convinta che sia qualche tipo di terribile programna sperimentale che trasforma i nostri ragazzi in mostri. E non mi lasci sgridare mio figlio neanche dopo quello che ha fatto oggi pomeriggio.» L'aveva fissata per un attimo, e quando aveva ripreso a parlare la sua voce era spezzata. «Che cosa diavolo vuoi che faccia, Sharon?» L'aveva guardato con occhi supplicanti. «Voglio che acconsenti che non ritorni da Ames finché non sappiamo che cosa succede al centro sportivo. E non voglio che tu cominci a punirlo per qualcosa che, ne sono assolutamente certa, non voleva fare.» Per un istante Blake l'aveva guardata con aria meditabonda. «E come faremo?» aveva chiesto con voce fredda. «Dovrei andare là e affrontare Ames? Dovrei dirgli che tu credi che sia una specie di Mengele moderno e chiedergli di vedere tutti i suoi dati medici? Diavolo, non capirei nemmeno quello che potrebbe dirmi.» «Ma hai capito abbastanza da permettergli che cominciasse la cura su Mark, vero?» aveva chiesto bruscamente Sharon, con voce dura. Queste parole avevano fatto perdere le staffe a Blake. «Sì, proprio così, maledizione!» esplose. «E non ha fatto nessun male a Mark. È in forma migliore di quanto non sia mai stato. Avrei pensato che tu ne fossi contenta.» In quel momento era quasi stata sul punto di raccontare a Blake dei topi, ma aveva rapidamente cambiato idea. Non era tanto il fatto che li avesse rubati alla società, ma con il suo umore di quel momento l'avrebbe solo derisa ancora di più, poi avrebbe preteso di sapere che cosa ne aveva fatto. E se gli diceva che li aveva dati a MacCallum... Aveva rabbrividito internamente, ricordando la sua rabbia, un anno prima, quando aveva scoperto che un programma che stava per lanciare era arrivato fino a un concorrente che l'aveva copiato, con qualche miglioramento, e aveva battuto la TarrenTech sul mercato. Dalla cena in poi si erano parlati appena, ma la tensione della discussione, aumentata dal fatto che Mark non era uscito dalla sua stanza, li sovrastava ancora. «Va bene», sospirò. «Non ne parleremo, allora. Buona notte.» Si alzò e fece per uscire dalla stanza, con gli occhi di Blake che la seguivano. Ma fu solo quando raggiunse la porta che lui parlò. «Vuoi che venga con te?» chiese in tono incerto.
Sharon si voltò a guardarlo. «Non mi sembra di aver detto questo. Se non posso parlarti, non ho certo voglia di dormire con te. Forse questa notte faresti meglio a restare quaggiù.» Blake non rispose niente, e lei uscì dallo studio e si avviò su per le scale. Si soffermò davanti alla porta di Mark, come aveva fatto già due volte quella sera. Come prima, non sentì nessun rumore, eppure era sicura che non stesse dormendo. In realtà poteva quasi immaginarselo, sdraiato di schiena sul letto, che fissava il soffitto con le mani intrecciate sotto la testa. Doveva lasciarlo in pace o entrare e cercare di parlargli? Dopo aver esitato un istante bussò piano alla porta. Per parecchi secondi non vi fu nessuna risposta. Poi udì la voce di Mark che diceva: «Non è chiuso a chiave.» Girò la maniglia e aprì la porta, restando a bocca aperta alla vista del caos. Vestiti, coperte e lenzuola, piume... dappertutto c'era un grande confusione. I cassetti del comò erano sparsi per la stanza e la lampada si trovava ancora nell'angolo dove Mark l'aveva scaraventata. Si morse le labbra, costringendosi a ignorare i danni. «Stai bene?», chiese con voce cortese. Si avvicinò al letto, su cui Mark era sdraiato a faccia in giù sul materasso scoperto. Quando gli toccò una spalla si scostò rotolando di schiena e la guardò cupamente. «Non so quello che è successo», disse. «Era... era come se dentro di me ci fosse qualcun altro. N-non volevo picchiarti, mamma. Solo... solo che non sono riuscito a trattenermi.» Sharon chiuse gli occhi un istante e sentì che si riempivano di lacrime. «Non ci pensare, tesoro», disse con voce tremante. Mark si sedette e allontanò la mano che aveva ancora una volta allungato verso di lui. «Come faccio?», esclamò. «Ho ucciso Chivas, mamma! Ho ucciso il mio cane!» Anche i suoi occhi si riempirono di lacrime, e le asciugò con il dorso della mano. «Che cos'ho che non va?» chiese bruscamente. Di nuovo Sharon cercò di toccarlo, ma lui mise giù i piedi dal letto e si alzò. Mentre lo guardava vide di nuovo quella strana luce nei suoi occhi... lo stesso bagliore furioso che aveva visto prima in cucina. «M-Mark?» chiese. «Mark, che cosa sta succedendo?» Mark si allontanò da lei. «No-non lo so», balbettò. «Sta... mamma, sta cominciando di nuovo.» Anche Sharon si alzò. «Che cosa, Mark? Che cosa sta cominciando di nuovo?»
Ma Mark scosse solo la testa e si diresse verso la porta. «Devo andare, mamma. Devo uscire di qui!» «Mark, aspetta!» supplicò Sharon, ma era troppo tardi. Era già fuori della stanza, poi lo sentì scendere precipitosamente le scale. Quando arrivò sul pianerottolo era davanti all'armadio dell'ingresso e vi stava frugando dentro per prendere il suo giaccone. La fissò per un attimo con occhi brucianti. Poi uscì sbattendosi la porta alle spalle. Un istante dopo Blake uscì dallo studio scrutando su per le scale verso la moglie. «Che cosa diavolo succede?» chiese bruscamente. «Era Mark?» Sharon annuì. «C'è qualcosa che non va in lui, Blake», disse. «Quando sono entrata per un po' è stato normale, poi ha perso le staffe un'altra volta.» Blake aggrottò la fronte. «Che cosa gli hai detto?» «Niente!» esclamò Sharon. «Volevo solo dirgli che non ero arrabbiata con lui, dirgli che gli voglio bene. Ed era tanto infelice. Blake, avresti dovuto vederlo! E poi all'improvviso...» Lottò per un momento, cercando le parole giuste, poi vi rinunciò. «Non posso descriverlo», disse. «Ha detto che era come avere qualcun altro dentro di sé.» Si lasciò cadere sul primo gradino e si seppellì il viso tra le mani. «Oh, mio Dio, Blake. Che cosa gli sta succedendo? Ho tanta paura. Tanta, tanta paura.» Blake salì in fretta le scale e prese Sharon tra le braccia. «Andrà tutto bene, piccola», disse con voce sommessa. «Sta passando un brutto periodo, ecco tutto. E lo supererà, vedrai.» Dietro di lui si sentì il debole rumore di una maniglia che veniva girata, e Kelly uscì nel corridoio sfregandosi gli occhi pieni di sonno. Si avvicinò e mise le braccia attorno al collo del padre. «Che cos'ha Mark?» chiese. «Sta male?» «No», le rispose Blake circondandole la vita con il braccio libero e attirandola a sé. «Mark non ha assolutamente niente, e non voglio che ti preoccupi per lui.» «M-ma ha ammazzato Chivas», piagnucolò la ragazzina. Fu Sharon a rispondere alla figlia. «Non è stato Mark, tesoro», disse. «Qualunque cosa succeda non voglio che tu pensi che Mark ha ucciso Chivas. Non farebbe mai una cosa simile, tesoro. Non tuo fratello. Non Mark.» «E allora chi è stato?» chiese Kelly alzando le testa mentre cercava di decifrare le parole della madre. «Non lo so», ammise Sharon. «Ma non è stato Mark»
Mark procedeva in fretta per le strade buie, senza sapere dove stava andando o perché. La testa gli turbinava mentre cercava di capire quello che era successo. Perché era stato di nuovo invaso dalla rabbia? Quando sua madre era entrata stava bene. Aveva smesso di piangere e se ne stava sdraiato sul letto a cercare di capire quello che era successo. E sua madre voleva solo aiutarlo. Non era arrabbiata con lui, non gli aveva urlato contro, non aveva nemmeno parlato del modo in cui aveva ridotto la stanza! Tutto quello che voleva fare era aiutarlo. E poi la rabbia l'aveva invaso di nuovo. Si era girato e l'aveva guardata, e all'improvviso la fiamma dentro di lui si era accesa un'altra volta e aveva desiderato allungare le mani, metterle le dita attorno al collo e stringere, stringere... Stringere come aveva fatto con Chivas, finché non avesse smesso di parlare, smesso di respirare, perfino smesso di divincolarsi dalla sua stretta. E l'avrebbe fatto, se fosse rimasto un altro minuto. Rallentò e si guardò intorno. Dall'altra parte della strada c'era la casa degli Harris, e all'improvviso seppe che cosa doveva fare. Guardò su e giù per la strada, poi l'attraversò in fretta, scivolando tra le case nel cortile posteriore degli Harris. La casa era buia, come quella dietro e quella accanto. Bussò piano alla finestra della camera di Linda, poi un po' più forte. Dall'interno udì un rumore, poi le tende si scostarono di pochi centimetri e Linda scrutò fuori, stringendo gli occhi nell'oscurità. «Sono io», sussurrò Mark. «Vieni fuori.» «Mark?» chiese Linda. Aprì la finestra «Che cosa fai là fuori?» «Devo parlarti», sussurrò Mark. «Posso?» Linda esitò, ma l'insistenza nella sua voce la fece decidere. «Un momento solo», rispose. «Devo vestirmi.» Un paio di minuti dopo scivolò fuori della porta posteriore tenendosi un dito sulle labbra e condusse in fretta Mark lungo il vialetto di accesso e nella strada. «Che cosa c'è?» chiese quando furono ben lontani dalla casa. Mark cercò di raccontarle quello che era successo, e la sua voce si ruppe quando le disse come aveva strangolato Chivas. Si voltò a fissarlo. «Hai ucciso Chivas?» Mark annuì in silenzio, con gli occhi pieni di lacrime. «Non volevo»,
singhiozzò. «E non volevo neanche fare del male alla mamma. Ma gliene avrei fatto! Capivo che gliene avrei fatto!» Alle sue parole a Linda venne in mente Jeff LaConner, e si ricordò la sera in cui le aveva messo le mani sul braccio e aveva stretto tanto forte che le aveva fatto male. Gli aveva dato uno schiaffo, e lui era sembrato sorpreso, quasi come se non si fosse reso conto di quello che aveva fatto. Ed era quasi certa che, quando si era voltato e si era allontanato nel buio, si era messo a piangere. «Ch-che cosa farai?» chiese Linda. Mark scosse la testa confuso. Linda allungò un braccio per prendergli la mano, ma Mark si ritrasse. «N-non farlo», disse con voce tremante. «È quello che ha fatto mia madre, e sono quasi diventato matto!» Linda ritirò la mano, poi guardò Mark negli occhi. «È come Jeff, non è vero?» chiese. «Come quella sera che ti ha picchiato. Non gli avevi fatto niente, non gli avevi detto niente. Ti ha semplicemente aggredito.» Mark fissò Linda nel buio. «Fo-forse è il dottor Ames», disse infine Linda. «Forse ha fatto qualcosa a Jeff, e adesso lo sta facendo a te.» «Ma mi sta aiutando», protestò Mark. «Diavolo, questo pomeriggio sono perfino riuscito a entrare nella squadra di football!» «Che cosa?» chiese Linda fissandolo con sguardo assente. «Sono riuscito a entrare nella squadra di football», ripeté Mark. «Stavo per dirlo ai miei questa sera, prima che...» Gli venne meno la voce. «Ma il football non ti piace nemmeno», protestò Linda. Mark scosse la testa. «Credo... credo di essere cambiato, forse.» La debole luce di un lampione illuminò appena il viso di Mark, ma anche a quella fioca luce Linda riuscì a vedere che Mark era effettivamente cambiato. Il suo volto sembrava più massiccio e i suoi lineamenti delicati sembravano più duri. Gli occhi, affossati profondamente nelle orbite, avevano uno sguardo selvaggio e la bocca, con quelle labbra piene che erano sempre sembrate tanto morbide, aveva assunto un atteggiamento aspro. Di nuovo le venne in mente Jeff LaConner. «Parlerò a mio padre», disse improvvisamente. «Domani mattina gli dirò quello che è successo, e lui saprà che cosa fare. Okay?» Per un istante Mark guardò Linda con aria incerta, poi annuì. «Okay»,
rispose. Voltarono e cominciarono a tornare verso la casa degli Harris. Quando vi furono davanti Mark abbracciò Linda e la tenne stretta. «Non voglio farti del male», mormorò seppellendo il viso tra i suoi capelli. «Non voglio fare del male a nessuno.» «E non lo farai», gli disse Linda. «Non sei come Jeff, e non farai del male a nessuno.» Poi si ritrasse, e per un istante pensò di aver sentito che la stretta di Mark si faceva più forte. Ma lui la lasciò andare bruscamente e si allontanò. Stava quasi per gridargli qualcosa, ma cambiò idea perché si ricordò di nuovo di Jeff LaConner. Aspettò finché non ebbe girato l'angolo, poi si affrettò a ritornare in casa. Il giorno dopo avrebbe raccontato al padre quello che stava succedendo a Mark e tutto si sarebbe sistemato. Dopo tutto suo padre era il direttore della Tarrentech, vero? Se qualcuno poteva aiutare Mark, questi era di certo lui. 22 Quando si svegliò, il mattino dopo, Sharon pensò per un attimo che era stato tutto un brutto sogno. Avrebbe allungato le braccia verso Blake, come faceva tutte le mattine, l'avrebbe abbracciato e l'avrebbe stretto a sé per un momento prima di scivolare fuori del letto e iniziare la giornata. Mark sarebbe stato già alzato e avrebbe sentito Chivas annusare alla sua porta mentre lei ci passava davanti per andare in cucina a mettere sul fuoco una pentola di caffè. Ma quando stese un braccio verso Blake, e lui non c'era, si rese conto che non era stato un sogno. Quella mattina era sfinita, come se non avesse dormito per niente, ma quando finalmente si costrinse a dare un'occhiata alla sveglia, ancora intontita, vide che non solo aveva dormito; aveva dormito più del solito. Erano quasi le otto. Fece per buttarsi fuori del letto, poi ricadde sul cuscino, in preda a un'ondata di disperazione. La sera prima per qualche momento, dopo che Mark se n'era andato, aveva pensato che il contrasto tra lei e Blake potesse sanarsi, e per un poco era stato proprio così, mentre avevano aspettato tutti e due, nello studio, che loro figlio tornasse a casa. Il suo primo istinto era stato di chiamare la polizia, ma Blake l'aveva convinta ad aspettare, almeno per un'ora.
«Non si metterà nei guai», le aveva detto. «È solo sconvolto. Quando si calmerà tornerà a casa.» Naturalmente Blake aveva avuto ragione; poco meno di un'ora dopo avevano sentito aprirsi e richiudersi silenziosamente la porta posteriore. Mark era comparso nell'ingresso e aveva cominciato a salire le scale. Solo quando Blake gli aveva parlato si era reso conto che entrambi erano lì ad aspettarlo, seduti nella semioscurità del soggiorno. Non era entrato, ma era rimasto nella penombra dell'ingresso. Con voce tesa si era scusato ancora una volta per quello che era successo. Quando Blake gli aveva chiesto dov'era andato aveva esitato un istante poi aveva alzato le spalle. «Da nessuna parte», aveva risposto. «Sono andato in giro per un po', poi sono tornato a casa.» Era salito di sopra, e per un momento né Blake né Sharon avevano parlato. Poi Blake aveva pronunciato le parole che avevano fatto ricominciare la discussione. «Vedi? Sta bene, tesoro. Aveva solo bisogno di starsene da solo.» Aveva continuato a tratti per quasi un'altra ora, finché Sharon non era tornata di sopra, lasciando Blake a dormire nello studio e si era trascinata sul letto, con il corpo sfinito ma con la mente ancora piena di pensieri contrastanti. In un momento imprecisato era caduta in un sonno inquieto. Si alzò, si infilò un accappatoio e scese dabbasso. La casa era silenziosa, e per un istante si ritrovò a chiedersi dove fosse Chivas. Gironzolò in cucina e si versò una tazza di caffè dalla pentola che Blake aveva lasciato per lei, poi diede un'occhiata al bigliettino che lui aveva scritto. Era un bigliettino strano, che sembrava solo la breve relazione di un marito che per una mattina aveva semplicemente lasciato dormire un po' di più la moglie. Aveva preparato la colazione per i ragazzi, aveva scribacchiato, e li aveva mandati a scuola: P.S. Stamattina Mark sembra a posto. Ieri è entrato a far parte della squadra di football! Non è magnifico? Mark sembra a posto. Era tutto, dopo quello che era successo la sera prima? Mark sembra a posto! Appallottolò il biglietto e lo gettò per terra. Se Mark era tanto a posto, come le spiegava Blake le condizioni della sua stanza? Vi aveva dato un'occhiata scendendo, poi si era allontanata in fretta da quel caos, come se ignorandolo avesse potuto far finta che non era successo niente. Guardò l'orologio, chiedendosi se non fosse troppo presto per telefonare al dottor MacCallum in ospedale, e si disse che lo era. Se avesse avuto
qualche cosa da riferire l'avrebbe chiamata lui. Sgombrò il tavolo dai piatti che i suoi vi avevano lasciato - almeno quello era normale - e cominciò a buttare gli avanzi nel lavello. Automaticamente i suoi occhi vagarono nel cortile posteriore e si fermarono sulla conigliera. Anche i conigli sembravano perfettamente normali, ammucchiati come sempre in un angolo della gabbia. Poi sul terreno vide una striscia di ghiaccio rimasta dalla notte precedente - anche il cielo stesso sembrava freddo - e aggrottò la fronte. Che cosa stavano facendo, i conigli, all'esterno? Negli ultimi due giorni erano usciti solo per mangiare, poi si erano affrettati a ritornare nel loro riparo, al calduccio. Smise di fare quello che stava facendo e guardò fuori della finestra, con un piatto sgocciolante nella sinistra. I conigli non si muovevano. La mano cominciò a tremarle. Depose in fretta il piatto sul secchiaio, si strinse più vicino la vestaglia e uscì dalla porta posteriore nel freddo gelido della mattina. Sotto le sue pantofole l'erba scricchiolò mentre attraversava in fretta il prato per dirigersi verso la conigliera, e cominciò a battere i denti mentre il freddo penetrava rapidamente attraverso la stoffa leggera. Fissò per un momento i conigli, poi i suoi occhi si spostarono sul recipiente del loro cibo. Era pieno, e la ciotola vicino a esso era colma di acqua fresca. E i conigli ancora non si muovevano. Erano morti congelati. Ma nello stesso momento in cui le venne quel pensiero capì che non era così. Non erano ammucchiati insieme come al solito. Erano semplicemente ammassati in un angolo, due sulla schiena, gli altri sembravano gettati lì a casaccio, come se fossero degli stracci. Con le mani che le tremavano aprì lo sportello della gabbia e allungando un braccio raccolse una delle creaturine. La testa dell'animaletto cadde all'indietro e si fermò contro la schiena. Aveva il collo spezzato. Come un'automa controllò gli altri quattro conigli. Erano tutti morti allo stesso modo. Le si presentò alla mente un'immagine di Chivas, una visione del suo corpo che penzolava floscio sopra il pavimento con le mani di Mark strette
attorno alla gola. Il coniglio le cadde di mano. Un grido le eruppe dalla gola mentre si voltava e tornava incespicando in casa. Si lasciò cadere su una delle sedie di cucina, sforzandosi di riprendere il controllo delle proprie emozioni. Mark non poteva avere ucciso i conigli... non poteva. Voleva loro bene! Ma aveva ucciso Chivas. No! gridò a se stessa. Chivas l'ha ucciso qualcosa dentro di lui. Qualcosa dentro di lui che non poteva controllare! Sfogliò in fretta l'elenco del telefono, poi fece il numero dell'ospedale della contea. Capì che qualche cosa non andava non appena sentì la voce all'altro capo del filo. «So-sono Sharon Tanner», disse. «C'è il dottor MacCallum?» Ci fu un attimo di silenzio, poi la voce rispose: «Oh, signora Tanner, non ha saputo? Il dottor MacCallum...» La voce si spezzò, e Sharon poté sentire che la donna tirava il fiato. «Mi dispiace, signora Tanner», continuò la voce. «È morto. Ha... ha avuto un incidente automobilistico ieri pomeriggio.» Sharon udì appena Susan Aldrich che spiegava quello che era successo, perché nella propria mente riusciva ancora a sentire il debole clic e il suono vuoto che le aveva fatto pensare che qualcuno avesse ascoltato la conversazione che aveva avuto con lui il giorno prima. Qualcuno aveva ascoltato davvero, e adesso Mac MacCallum era morto. Non importava quello che aveva detto Susan Aldrich... sapeva che qualunque cosa fosse successa ad Andrew MacCallum non era stato un incidente. Charlotte LaConner sapeva di essere pazza. Era l'unica risposta possibile, perché solo la follia avrebbe potuto spiegare il mondo da incubo in cui si trovava. Non riusciva a muoversi. Si sentiva le membra pesanti, il corpo immobilizzato da una apatia che non aveva mai provato prima. Tutto quello che riusciva a fare era muovere leggermente la testa da una parte all'altra. Era entrata e uscita dal sonno, ma aveva perso da un pezzo la capacità di distinguere quale stato era sonno e quale veglia. Attorno a lei continuavano le urla soffocate degli incubi, deboli gemiti di disperazione interrotti ogni tanto da acute grida di sofferenza, o forse di fu-
rore. Non capiva quale delle due, in realtà non le importava, perché ormai il suo spirito si era abituato a quei terribili suoni, e la sua mente aveva quasi rinunciato a cercare di intuire la realtà che stava dietro di loro. Durante il sonno era peggio, perché allora quei suoni tremendi si introducevano nei suoi sogni. Collegati a loro c'erano delle figure, delle creature bizzarre che la circondavano nell'oscurità, che le consentivano solo di intravedere per un attimo le loro orrende espressioni prima di ritirarsi nel buio, lasciandola sola con il terrore di quello che poteva succedere dopo. Prima o poi quelle creature l'avrebbero uccisa, ne era sicura. E non poteva farci niente se non aspettare nell'oscurità che la circondava che arrivasse il momento decisivo. Ma ogni volta che le si avvicinavano strisciando, tanto vicino che riusciva a sentire il loro fetido respiro e a udirle raspare tra terrificanti scoppi di rumore, ogni volta che le sentiva avvicinarsi di nuovo e cominciava a pregare che finalmente la assalissero e mettessero fine al tormento in cui viveva, se ne tornavano ancora una volta nell'oscurità da cui erano venute, e Charlotte cominciava a singhiozzare in silenzio, desiderando ardentemente perfino la morte se solo l'avesse potuta liberare dal tormentoso inferno che era la sua vita. In quel momento stava tornando a galla verso uno stato di semicoscienza. Era come essere sott'acqua e rendersi conto lentamente che se non avesse fatto qualche cosa sarebbe morta. Anche se aveva spesso desiderato di morire, in quegli strani momenti di quasi razionalità in cui sentiva di potere ancora desiderare qualche cosa, si ritrovava a ritrarsi all'ultimo momento, lottando contro l'impulso di fare un profondo respiro e di sentire il freddo oblio dell'acqua limpida invaderle i polmoni. Gemette piano e ancora una volta spostò da un lato la testa. Finalmente l'oscurità sembrò svanire, e poi un raggio di luce le colpì gli occhi. Con un grido soffocato cercò di ritrarsi dalla sofferenza che arrecava. Ancora una volta cercò di muovere gli arti, e ancora una volta non ci riuscì. Rimase immobile per un istante, poi lentamente divenne consapevole di se stessa. Capì di essere completamente sveglia. Cercò di muovere la lingua, ma la sentiva spessa e intorpidita, e aveva la bocca secca. Un istante dopo cominciò a tossire. Con il corpo in preda all'acceso di tosse sentì per la prima volta le cinghie che la legavano al letto. Non si poteva assolutamente muovere.
Voleva aprire gli occhi, ma anche quello era uno sforzo troppo grande per lei. Infine, mentre la tosse cessava e sentiva che il respiro le ritornava normale, si costrinse ad aprire un poco le palpebre. Era in una stanza rivestita di piastrelle bianche. Sopra la sua testa un globo di vivida luce sembrava sospeso a mezz'aria. Ma i suoni dell'incubo continuavano. E poi ci fu una pausa nel frastuono e sentì una voce. «È sveglia, dottor Ames.» Chiuse di nuovo gli occhi, invasa da un senso di impotenza. Non sapeva per quanto tempo fosse stata sdraiata in quel posto, e non gliene importava, perché anche se in quel momento era certa di essere sveglia era altrettanto certa che l'incubo non sarebbe finito. «Charlotte? So che è sveglia, Charlotte. Riesce a parlarmi?» Aprì di nuovo gli occhi. La luce era più debole. Accanto a lei riuscì a distinguere un viso. Quello di Marty Ames. Cercò di parlare, ma le parole si smorzarono contro il palato. «Le dia un po' d'acqua», udì dire Ames. «Non molta... solo abbastanza perché si sciacqui la bocca.» Sentì che una mano le sollevava la testa, poi sentì il tocco di un bicchiere contro le labbra. Succhiò avidamente l'acqua, sciacquandosi gli angoli della bocca e poi deglutendola mentre cercava di succhiarne dell'altra. «Basta», sentì che diceva Ames. Poi la guardò di nuovo. «Do-dove sono?» chiese ansimando Charlotte, riconoscendo a stento il suono gracchiante che era la propria voce. «Nella mia clinica», le rispose Ames. «Ha avuto un crollo nervoso, Charlotte. Ha dormito.» «Qu-quanto?» «Qualche giorno», rispose Ames. E allora, confusamente, Charlotte ricordò quello che era successo prima che le tenebre si impadronissero di lei. «Jeff...» sussurrò. «Dov'è Jeff?» «È qui anche lui», le rispose Ames. Charlotte contrasse leggermente i lineamenti, come se cercasse di aggrottare la fronte ma non trovasse la forza necessaria. «Qui? Ma pensavo....» «È malato, Charlotte», le disse Ames. «Sta molto male e stiamo cercando il modo di curarlo.» «Malato» ripeté Charlotte. «Pensavo...» Esitò, incapace di trovare le pa-
role che sembravano librarsi proprio al di fuori della sua portata. «Vederlo», mormorò. «Voglio vederlo. Per favore...» Per un lungo momento non udì niente; ma lo forzo di parlare era stato troppo per lei. Poi udì ancora una volta la voce di Ames. «È molto malato, Charlotte.» Charlotte lottò ancora, sforzandosi di trovare le parole giuste. «So-sono sua madre», ansimò. «Posso aiutarlo.» Aprì di nuovo gli occhi e fissò il viso di Ames. «Per favore», supplicò, «me lo lasci vedere... lasci che l'aiuti.» Lentamente, un sorriso si sparse sul viso di Ames. «Sì», disse. «Credo che lei possa aiutarlo. E in realtà non c'è ragione perché non lo veda, se vuole davvero.» Sparì per un istante. Quando ricomparve spingeva davanti a sé una sedia a rotelle. Sciolse le cinghie che legavano il corpo di Charlotte poi l'aiutò delicatamente a scendere dal tavolo. Il piccolo sforzo di sistemarsi sulla sedia la fece sentire esausta, e anche se cercò di tenere gli occhi aperti, di vedere Ames che spingeva la sedia fuori della stanza e lungo un corridoio, lo sforzo fu troppo grande. Lasciò che gli occhi le si chiudessero di nuovo. Cercò di lottare, cercò di concentrarsi sulle parole che Ames pronunciava mentre si spostavano lentamente nell'edificio. Ma riusciva solo a coglierne dei frammenti, e la sua mente annebbiata non riusciva a trarre un senso nemmeno da quel poco che udiva: «...cercato di correggere gli squilibri... ormoni... qualcosa... fuori controllo... dobbiamo provare qualcos'altro...» Poi le sue parole furono soffocate mentre l'aria si riempiva dei suoni da incubo che avevano tormentato il suo sonno e la sua consapevolezza per tanto tempo. Ma in quel momento i suoni erano distinti, non più soffocati. Trafiggevano l'aria e spazzarono via le nebbie che avevano invaso la sua mente. Si irrigidì sulla sedia e aprì gli occhi per vedere finalmente la fonte delle urla che l'avevano ossessionata. Era una stanza molto simile a quella in cui si era svegliata, solo che in questa c'era una serie di gabbie... grandi gabbie di pesante rete metallica sostenuta da montanti di acciaio. La maggior parte era vuota. Due non lo erano. In una di esse una creatura era rannicchiata nell'angolo più lontano, con le gambe strette contro il massiccio torace, la testa china mentre fissava il mondo con occhi brucianti che brillavano da sotto una fronte sporgente. La mascella cascante della creatura metteva in mostra una fila di robusti denti, e dalle profondità della sua gola saliva e scendeva una serie infinita di bas-
si lamenti, come se provasse una sofferenza indicibile. Teneva le braccia intorno alle gambe, e all'estremità delle enormi dita Charlotte vide i resti frastagliati di unghie che si erano trasformate in artigli. Mentre Charlotte fissava quella creatura un dito scomparve nella sua bocca, ed essa cominciò a rosicchiare meccanicamente l'artiglio, pur continuando a lamentarsi piano tra sé. Charlotte era inorridita; non aveva mai visto una creatura simile. La sua vista le dava la nausea e l'affascinava nello stesso tempo. Infine staccò gli occhi e si voltò esitante verso l'altra gabbia. Fece per urlare, ma il suono venne soffocato dalla contrazione delle corde vocali quando si rese conto con terribile chiarezza che stava guardando suo figlio. O quello che una volta era stato suo figlio. Si poteva a malapena capire che una volta Jeff era stato un essere umano. In realtà era ancora possibile riconoscere i suoi occhi azzurri che scrutavano dalle orbite infossate. Aveva il viso contorto, e la mascella era diventata più pesante. I denti, che gli sporgevano dalla bocca, avevano perso l'allineamento crescendo, e non riusciva più a chiudere la bocca. Le spalle si erano allargate in modo grottesco, e all'estremità delle braccia, che gli arrivavano oltre le ginocchia, le mani erano diventate della robuste mazze da cui si protendevamo le chele nodose e contorte in cui si erano trasformate le sue dita. Era nella gola di Jeff che ribollivano le orribili grida di rabbia. Mentre Charlotte guardava, paralizzata per l'orrore, si gettò da una parte all'altra della gabbia, cercando di strappare la rete metallica fino a farsi sanguinare le dita. Ames spinse più vicino la sedia a rotelle. Improvvisamente Jeff vide la madre. Mentre i suoi occhi la fissavano lampeggiando con una furia incontrollata, dalle profondità del suo torace salì un urlo. Mentre il ruggito di rabbia risonava per la stanza, rimbalzando sulle pareti piastrellate e assalendo Charlotte da ogni direzione, Jeff si buttò contro la parte anteriore della gabbia. Là c'era una stretta fessura, una specie di piccolo boccaporto attraverso il quale gli inservienti potevano far scivolare una ciotola di cibo. Jeff inserì un braccio in quel minuscolo spazio. La sua mano si serrò attorno alla gola di Charlotte; le sue lunghe dita circondarono completamente il collo della madre e gli artigli che erano le sue unghie le si conficcarono profondamente nella carne. Lei cercò di gridare, ma ormai la gola era completamente serrata nella
stretta di Jeff e non ne uscì nessun suono. E poi, con un improvviso scatto del polso, Jeff spezzò il collo della madre. Per un attimo Ames osservò in silenzio lo spettacolo, poi allungò una mano e premette un pulsante vicino alla porta. Immediatamente si sentì un allarme. Pochi secondi dopo tre inservienti si precipitarono nella stanza e si immobilizzarono quando videro il corpo di Charlotte ancora tenuto saldamente nelle mani di Jeff. «Gesù», mormorò uno di loro. «Che cosa diavolo...» «Non sono riuscito a fermarlo», lo interruppe Ames. «Si è spinta verso la gabbia e lui l'ha afferrata.» Poi la sua voce si assunse un tono rabbioso. «Non statevene lì come degli idioti... prendete il tubo dell'acqua!» Immediatamente uno degli inservienti tolse un idrante dal sostegno sulla parete e lo svolse abilmente mentre un altro apriva la valvola che avrebbe liberato il torrente d'acqua. Ci vollero due uomini per afferrare insieme il bocchettone, per tenere sotto controllo il getto e indirizzarlo contro Jeff. Il getto d'acqua lo colpì al torace, e per un istante lui sembrò sorpreso da quello che succedeva. Alzò gli occhi urlando di rabbia, poi lasciò andare il collo della madre e indietreggiò barcollando. Afferrò la rete metallica con entrambe le mani e si puntellò contro la forza dell'acqua, gridando inconsapevolmente contro i suoi tormentatori. Mentre i primi due inservienti si concentravano a mantenere il getto su di lui, il terzo rimise con fatica sulla sedia a rotelle il cadavere di Charlotte e lo spinse rapidamente fuori della stanza. Martin Ames seguì la sedia. Appena si furono allontanati dal chiasso disse: «Portala immediatamente alla dissezione. Voglio la ghiandola pituitaria e quella surrenale entro cinque minuti... il resto può aspettare.» Can la mente già concentrata su come avrebbe potuto impiegare gli organi di Charlotte LaConner si voltò e si avviò a grandi passi verso il laboratorio. Sharon aveva appena finito di vestirsi quando sentì suonare alla porta. Scese in fretta nel piccolo ingresso, decisa a liberarsi il più presto possibile di chiunque fosse. Ma esitò quando aprì la porta e vide nella veranda l'abbondante figura di Elaine Harris. «Elaine! Santo Dio, non sono ancora le otto e mezzo. Stavo per andare...» Poi si interruppe. Che cosa faceva lì, Elaine? Prima che potesse chie-
derglielo Elaine glielo disse. «Volevo sapere se posso essere utile», disse dando a Sharon un'occhiata di comprensione. Sharon la guardò sconcertata. «N-non capisco che cosa vuoi dire.» «Va tutto bene, Sharon», continuò Elaine entrando in casa e chiudendosi la porta alle spalle. Abbassò leggermente la voce. «Linda ci ha detto quello che è successo ieri sera.» «Linda?» fece eco Sharon ancora più sconcertata. Sul volto di Elaine il sorriso fu sostituito da uno sguardo preoccupato. «Vuoi dire che Mark non ti ha detto che ieri sera è venuto a parlare con Linda?» Sharon scosse la testa, con la mente stordita. Che cosa aveva detto a Linda, Mark? E Linda, che cosa aveva detto ai suoi genitori? Due minuti dopo lo sapeva, e si sentì mancare il cuore. Qualunque cosa stesse succedendo, era certa che c'entrava la TarrenTech, e cioè Jerry Harris, se non anche Blake. Da quando aveva sentito della morte di Mac MacCallum aveva cominciato a chiedersi se fosse possibile che anche Blake si fosse lasciato coinvolgere. Aveva voluto scacciare quell'idea, ma ripensandoci, pensando alla sua riluttanza a parlare di quello che Ames stava facendo alla clinica del centro sportivo e alla sua evidente ostilità quando gli aveva detto che non voleva che Mark continuasse ad andarci, aveva cominciato a domandarselo. Su Jerry Harris, ad ogni modo, non aveva nessun dubbio. «Jerry ha promesso di mettersi in contatto con Marty Ames stamattina», continuò Elaine. «Sono sicura che qualsiasi cosa sia successa a Mark non è niente di serio.» «Come non è successo niente di 'serio' a Jeff LaConner?» sbottò Sharon. Desiderò di potersi rimangiare quelle parole quando vide lampeggiare negli occhi di Elaine uno sguardo oscuro. Ma un istante dopo Elaine stava scuotendo tristemente la testa. «Jeff non è mai stato molto stabile», disse, e Sharon sentì un brivido, rendendosi conto che Elaine stava quasi ripetendo meccanicamente quello che le aveva detto Blake un paio di giorni prima. «Penso che abbia ereditato da Charlotte. Ma questo non ha niente a che vedere con Mark, no?» Sharon si morse il labbro, decisa a non dire più niente a Elaine. «No», disse. «Credo di no.» Quando rimase in silenzio Elaine sembrò a disagio, come se la visita non fosse andata del tutto come aveva sperato. Si guardò intorno nell'ingresso,
come se stesse cercando qualche cosa ma non fosse sicura di che cosa. Poi tornò a guardare Sharon. «Stavi andando da qualche parte», disse, e lasciò le parole in sospeso come se aspettasse una spiegazione. Sharon fece lavorare in fretta la mente per cercare qualche cosa di plausibile che non insospettisse Elaine. E poi capì quello che doveva fare. «In realtà», disse con un mesto sorriso, «stavo per fare l'autostop fino alla TarrenTech per prendere la macchina di Blake.» Diede un'occhiata al piano superiore. «Temo che la maggior parte della roba in camera di Mark sia da buttare nella spazzatura, e che il diavolo mi porti se comincerò a trascinarmi dietro un sacco di lenzuola e coperte lacerate per le strade di Silverdale. Sembrerei una stracciona!» Per un attimo pensò che Elaine non le credesse, ma poi l'altra donna sorrise. «Senti», disse. «Perché non vieni a piedi fino a casa mia? Puoi prendere in prestito la mia macchina. Oggi non mi serve.» Sharon emise silenziosamente un sospiro di sollievo e riconobbe che l'idea di Elaine era migliore che chiedere un passaggio fino all'ufficio di Blake. Si mise un cappotto e uscì di casa, senza preoccuparsi di chiudere la porta a chiave. A parte il fatto che a Silverdale non era necessario chiudere a chiave le porte, Sharon aveva appena deciso che cosa fare, e le venne in mente che era assolutamente inutile chiudere a chiave una casa in cui non aveva più intenzione di ritornare. Perché appena avesse preso la macchina di Elaine sarebbe andata alla scuola superiore per prendere Mark, poi alle elementari a prendere Kelly. E dopo, senza dire a nessuno dove stava andando, aveva l'intenzione di andare via da Silverdale e di non tornarci mai più. 23 Il mal di testa cominciò durante la prima ora. Salì lentamente, e per un po' Mark non vi fece nemmeno caso. Era poco più di una leggera pulsazione alla base del cranio. Ma mentre l'ora procedeva il dolore si spostò piano piano alla nuca e quando sentì la prima fitta Mark trasalì, sollevò il capo e spalancò gli occhi per la sorpresa. Quando successe, il professore di matematica, Carl Brent, stava proprio guardando Mark. Interruppe la lezione e chiese: «Hai una domanda da fare, Mark?» La fitta di dolore stava già passando, e Mark scosse la testa. Brent ag-
grottò le sopracciglia e continuò la lezione. La fitta seguente fu più forte, e mentre trafiggeva la testa di Mark lui spinse sulla matita che aveva in mano, e questa si spezzò con un rumore secco. Carl Brent aggrottò ancora di più le sopracciglia e guardò Mark con un'espressione incerta. Il viso del ragazzo sembrava pallido. «C'è qualcosa che non va, Mark?» Mark esitò. Il dolore stava passando, ma non in fretta come la prima volta. «Ho... ho solo mal di testa, ecco tutto», disse, e mentre il sangue gli saliva alla testa venne invaso da un'ondata di dolore nauseante. Per un attimo pensò di stare per vomitare. Si raddrizzò in fretta, ma la sua fronte era già imperlata di sudore. Lo asciugò, poi si abbassò nel sedile. Frugò nella cartella in cerca di una penna e cercò di concentrarsi sulla lezione, ma gli si offuscò la vista e nell'aula tutto sembrò colorarsi di rosso. E mentre Carl Brent continuava la lezione di geometria piana in Mark cominciò ad ardere una minuscola fiamma di rabbia. Il terzo attacco di mal di testa fece coprire di sudore freddo tutto il corpo di Mark, e improvvisamente lui ebbe paura che gli stesse venendo un attacco di diarrea. Si sentiva stordito, e infine chinò il capo come se cercasse di sottrarsi al dolore. «Credo che forse faresti meglio ad andare in infermeria», disse Carl Brent. Il resto della classe si voltò a guardare Mark, ma lui non si mosse, e infine Brent parlò di nuovo. «Mark, mi hai sentito?» Mark inghiottì il nodo che gli era salito in gola e fece in modo di annuire. Si alzò in piedi e si avviò verso la porta. Un'altra ondata di dolore lancinante gli attraversò la testa, e dovette appoggiare una mano contro il muro per sorreggersi. Immediatamente Linda Harris si alzò dal banco e gli si avvicinò, dando istintivamente un'occhiata al professore. Brent esitò, poi annuì. «Va' con lui.» «Non importa», mormorò Mark. «Posso farcela. È solo un mal di testa. Non è niente di serio.» La fiamma di collera dentro di lui brillò maggiormente. Brent non disse niente, ma guardò significativamente Linda, che prese Mark per un braccio. «Vieni», disse. Gli occhi di Mark incontrarono i suoi, e Linda fu colta da un'improvvisa paura. Gli occhi di Mark, affossati anche più di quanto lo fossero stati la sera prima, sembravano perforarla. Per un istante provò l'orribile sensazio-
ne che stesse per colpirla. Poi i suoi occhi si schiarirono e lui trasalì mentre veniva invaso da un'altra ondata di dolore. Senza dire niente tornò ad avviarsi verso la porta, con a fianco Linda che gli teneva stretto il braccio sinistro per dargli un piccolo sostegno supplementare. Verna Sherman udì aprirsi la porta della sala d'aspetto e gridò a chiunque fosse di entrare direttamente nell'ambulatorio. Terminò in fretta di mettere un'annotazione nella cartella che stava aggiornando e la mise da parte mentre Mark Tanner, pesantemente appoggiato a Linda Harris, barcollava dentro e si lasciava cadere su una sedia, tenendosi la testa tra le mani. Quando vide Mark, Verna si sentì stringere lo stomaco. Non era la prima volta che aveva visto quello strano sguardo negli occhi di uno dei ragazzi. Prese in mano il telefono e fece il numero interno dell'ufficio di Phil Collins. Appena sentì la sua voce dall'altro capo del filo gli disse di venire subito nel suo ambulatorio. «È Mark Tanner», disse. «Sembra che ci sia un problema. Sembra... be', sembra proprio come Randy e Jeff quando hanno cominciato a star male.» Rimise la cornetta sull'apparecchio, poi si alzò e girò in fretta attorno alla scrivania. Mise una mano sulla fronte di Mark, ma la ritirò rapidamente mentre lui si ritraeva. Prese uno dei termometri sistemati sul ripiano sopra il lavandino e lo strofinò automaticamente con un batuffolo di cotone imbevuto nell'alcol. «Mal di testa?» chiese. Mark annuì. Un'altra ondata di dolore stava salendogli in testa, e non riuscì a parlare. «È cominciato pochi minuti fa, signora Sherman», le disse Linda. «F-forse ha bisogno di un'aspirina» Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole Linda si rese conto che qualunque cosa avesse Mark l'aspirina non sarebbe servita a niente. «Gli passerà?» chiese ansiosamente mentre l'infermiera cercava di introdurre il termometro nella bocca di Mark. Improvvisamente Mark alzò una mano e allontanò Verna Sherman con un colpo. Il termometro cadde sul pavimento e finì sotto la scrivania. Linda rimase senza fiato, ma Verna le fece segno di allontanarsi. «Lascia stare», disse bruscamente mentre lei si chinava per ricuperare il termometro. Poi, rendendosi conto dell'asprezza delle sue parole, parlò di nuovo in tono più gentile. Dopo tutto non era colpa di Linda. «È tutto a posto. Adesso posso occuparmi di lui. Ritorna in classe.» «Ma...» Linda cominciò a protestare.
Verna scosse la testa. «Non posso prendermi cura di tutt'e due» insistette. «Sono sicura che a Mark passerà, ma non se tu ed io perdiamo tempo a discutere... Va bene?» Linda esitò ancora, ma mentre l'infermiera si rivolgeva di nuovo a Mark, inginocchiandosi accanto a lui e allungando incertamente una mano verso il suo viso, decise che avrebbe fatto meglio a fare come le aveva detto la signora Sherman. Mentre usciva dall'ambulatorio udì l'infermiera che parlava a Mark, a bassa voce, pronunciando con cura le parole. «Adesso, Mark, ti guarderò negli occhi. Non ti farò del male. Sono tua amica. Capisci?» Accigliandosi, Linda si voltò in tempo per vedere Mark, con gli occhi di nuovo pieni di uno strano bagliore, fissare l'infermiera poi annuire tanto lievemente che a Linda il gesto quasi sfuggì. Con precauzione, in modo quasi guardingo, pensò Linda, l'infermiera allungò una mano e cercò di voltare verso la luce il viso di Mark. Di nuovo Mark sollevò una mano e colpì duramente il polso dell'infermiera. Linda stava per ritornare nell'ambulatorio quando una voce la fermò. «È tutto a posto. Mi prenderò cura io di questa faccenda.» Linda, sorpresa, si voltò di scatto e vide Phil Collins, con il fiatone come se avesse corso, sulla soglia della sala d'aspetto. Senza aspettare la sua risposta la spinse nel corridoio e chiuse con decisione la porta alle sue spalle. Mentre si avviava lentamente verso la sua aula Linda sentì che si chiudeva anche la porta interna. Nell'ambulatorio di Verna Sherman Phil Collins diede un'occhiata a Mark Tanner e prese in mano il telefono. Un minuto dopo stava parlando con Marty Ames. «È Tanner», disse. «Cristo, Marty, sembra che sia di nuovo come Jeff LaConner! Che cosa diavolo succede?» Ames imprecò in silenzio. Sapeva che con Mark aveva corso un rischio, ma dopo la conversazione che aveva avuto con Jerry Harris la settimana precedente aveva deciso che ne valeva la pena. E il giorno prima, dopo un'altra telefonata di Harris, aveva raddoppiato di nuovo la dose di ormoni della crescita somministrata a Mark, vi aveva aggiunto un composto di steroidi e aveva anche rafforzato i suggerimenti subliminali. Se il ragazzo si rivoltava contro la propria madre, chi avrebbe potuto dare la colpa a qualcuno se non a Mark stesso? E da quanto aveva sentito quella mattina sembrava che avesse quasi funzionato. Ma adesso...
«Va bene», disse ad alta voce. «Calmati, Phil. Sarà meglio portarlo qui. Continua a parlargli e cerca di tenerlo tranquillo. Se sta per diventare...» Si interruppe e ricominciò. «Se ha un crollo nervoso gli si sta accumulando dentro una grande pressione, sia fisica che mentale. L'ambulanza partirà tra un paio di minuti.» Collins riattaccò, poi guardò di nuovo Mark. Sembrava che si fosse rattrappito sulla sedia, ma i suoi occhi passavano in modo guardingo dall'allenatore all'infermiera, e quando Collins avanzò verso di lui il suo corpo si tese e le sue mani si strinsero a pugno. «Calma», disse Collins. «Sta' calmo, Mark. Ti aiuteremo. Ti porteremo dal dottore, troveremo che cos'hai e sistemeremo tutto. Okay?» Mark non disse niente ma chinò la testa tra le spalle. Trasalì quando un'altra fitta di dolore gli attraversò la testa. Sembrava che gli stesse per esplodere. Mentre il dolore si spandeva per tutto il corpo la rossa caligine che gli annebbiava la vista si fece più intensa, e strinse gli occhi fino quasi a chiuderli nello sforzo di vedere. Poi un movimento tremolante attirò la sua attenzione e istintivamente tirò un pugno. Si senti un grido soffocato, poi un tonfo mentre qualcosa colpiva la parete e cadeva sul pavimento. «Gesù!» imprecò a bassa voce Collins. «Tutto a posto?» Vera Sherman annuì e si alzò faticosamente in piedi, sfregandosi una contusione sulla spalla, dove il pugno di Mark l'aveva colpita. «Che cos'ha?» chiese. «Alcuni degli altri ragazzi sono stati male, ma non ho mai visto niente di simile.» Ricominciò ad avanzare verso Mark, poi cambiò idea e si ritirò sulla poltrona dietro la sua scrivania. «Il dottor Ames sta arrivando?» Collins annuì. «Da un momento all'altro dovrebbe arrivare un'ambulanza», le disse. Sembrò che le sue parole colpissero molto Mark. Balzò via dalla sedia e si diresse verso la porta. Immediatamente Collins si buttò contro di lui con tutta la sua forza e lo abbracciò alla vita mentre entrambi cadevano sul pavimento. Per un istante Collins pensò che la faccenda fosse sistemata: Mark era inchiodato sotto di lui, che era più pesante del ragazzo di almeno venti chili. Ma Mark fece un balzo in avanti e di fianco, Collins sentì che perdeva l'equilibrio, poi il ragazzo si liberò completamente dalla sua stretta e cercò un'altra volta di raggiungere la porta. Collins allungò un braccio, afferrò una delle caviglie di Mark e tirò forte. Mark crollò a terra, grugnendo quando il ginocchio sinistro batté contro
il pavimento, poi si voltò a guardare torvamente l'allenatore. Mentre affrontava chi l'attaccava il grugnito di dolore fu sostituito da un ringhio animalesco. La furia pura e semplice che gli vide negli occhi fece arretrare Collins, e Mark si raccolse per colpire ancora. Improvvisamente la porta si aprì e tre uomini del Rocky Mountain High si fecero strada nel piccolo ambulatorio. Mentre due afferravano Mark il terzo cominciò a infilargli in testa una camicia di forza. Mark cercò di schivare il pesante indumento di tela, ma i due inservienti che lo trattenevano erano troppo forti. Il tubo senza maniche gli scivolò sul torace bloccandogli le braccia lungo i fianchi, e uno degli uomini gli mise immediatamente una pesante cinghia tra le gambe e la fissò mentre un altro sistemava il collo della camicia di forza in modo che non potesse cadergli sulle spalle. «Ecco fatto», disse uno degli inservienti quando la camicia di forza fu fissata fermamente. «Portiamolo via.» Un po' portandolo, un po' trascinandolo, lo guidarono fuori dall'ambulatorio e nel corridoio. Erano quasi alla porta principale quando suonò la campana che annunciava la fine dell'ora e il corridoio, che fino a un attimo prima era completamente vuoto, si riempì di adolescenti che si muovevano qua e là. Quando videro Mark fasciato di tela pesante e sostenuto da due uomini, si arrestarono e guardarono con curiosità. Proprio mentre gli inservienti spingevano Mark fuori della porta principale Linda Harris si fece strada fra la calca. «Mark? Mark!» Mark aveva continuato a lottare selvaggiamente contro i legami mentre una serie di grugniti e di ringhi inintelligibili gli uscivano dalla gola. Ma quando Linda Harris gridò il suo nome si immobilizzò per un istante e guardò verso di lei. I suoi occhi, che solo un attimo prima bruciavano di furia, si schiarirono. Per un istante tacque, poi aprì la bocca. «Aiutami», supplicò a voce bassissima mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Aiutami, ti prego...» Mentre Linda lo fissava in silenzio, sbigottita, gli inservienti guidarono Mark fino all'ambulanza, lo fecero salire e si allontanarono. Venti minuti dopo, alla guida della macchina di Elaine, Sharon si fermò davanti alla scuola, spense il motore, salì di corsa la gradinata ed entrò nell'atrio. Diede un'occhiata in entrambe le direzioni e individuò la targhetta
dell'ufficio di Malcom Fraser. Con i tacchi che ticchettavano forte sul pavimento di marmo, si avviò a passo svelto verso l'ufficio del preside, poi si fermò per ricomporsi prima di entrare. Infine entrò, pregando che la paura che la teneva ancora nella sua morsa non le apparisse troppo in volto. Shirley Adams, che era ritornata alla sua scrivania solo da pochi minuti dopo aver aiutato il resto del personale a spingere di nuovo in classe gli studenti, alzò gli occhi con aria seccata. «Mi dispiace», cominciò, «ma non so...» Quando si rese conto che la persona che era appena entrata non era uno degli studenti si interruppe. «Mi scusi», disse. «Pensavo che fosse...» Si interruppe di nuovo, poi riprese. «Desidera?» Sharon trattenne il fiato mentre tutti i suoi allarmi interni la mettevano sul chi vive. C'era qualche cosa che non andava... lo sapeva come sapeva il suo nome. Si costrinse a sorridere cordialmente. «Sono Sharon Tanner», disse. «La madre di Mark.» La segretaria rimase senza fiato e diede un'occhiata verso l'ufficio più interno. Sharon sentì fremere tutti i suoi nervi. La segretaria premette un pulsante del citofono. «Signor Fraser? Credo che sia meglio che venga qui. C'è la signora Tanner.» C'era qualche cosa che non andava. Perché quella donna avrebbe dovuto chiamare il preside anche prima di sentire il motivo per cui era venuta? La porta dell'ufficio più interno si aprì e ne uscì un uomo dalla calvizie incipiente tra i cinquanta e i cinquantacinque, che si sfregò nervosamente le mani prima di tenderne una a Sharon. «Signora Tanner», cominciò, e Sharon fu sicura che il tono della sua voce fosse un po' troppo cordiale. «Stavo proprio per telefonarle.» Lei sentì che le ginocchia cominciavano a tremare. «È per Mark, vero?» chiese bruscamente. «Gli è successo qualcosa.» «Su, stia calma», cominciò Fraser, ma Sharon lo guardò furiosa. «Dov'è? Che cosa ne avete fatto?» Fraser lanciò un'occhiata alla segretaria, e Sharon capì senza alcuna ombra di dubbio che qualsiasi cosa stesse per dirle sarebbe stata solo una parte della verità. «Temo che questa mattina sia stato male», disse il preside. Con le dita della mano destra stava rigirando nervosamente la fede che portava nella sinistra, e parlando non riusciva a guardare Sharon negli occhi. «Naturalmente sono sicuro che non è niente di serio, ma vogliamo sempre fare del nostro meglio per i nostri ragazzi.» Sharon sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Voglio sapere dov'è!» esclamò. «Se avete fatto qualcosa a mio figlio...» «Signora Tanner, per favore», supplicò Fraser. «Se si calma cercherò di
spiegarle.» «No!» Sharon fece un passo verso di lui. «Io non mi calmerò, e lei mi dirà subito che cos'è successo esattamente a Mark.» Davanti alla sua collera Fraser sembrò rattrappirsi. «Al centro sportivo», disse con voce improvvisamente debole. «L'infermiera, e anche Phil Collins, hanno pensato che la cosa migliore fosse mandarlo dal dottor Ames.» «Mio Dio», gemette Sharon. Voltò le spalle a Fraser, uscì dall'ufficio e si mise a correre verso la porta. Al centro sportivo. L'avevano mandato al centro sportivo, dov'era cominciato tutto quanto. Mentre usciva a razzo dalla scuola e attraversava il prato incespicando verso la macchina di Elaine, pregò che non fosse troppo tardi. Phil Collins fissò Mark incredulo. L'ambulanza era parcheggiata nel garage sul retro del Rocky Mountain High, e i tre inservienti stavano lottando per fare uscire Mark dal veicolo. Il breve istante di calma, quei pochi secondi in cui Mark aveva fissato Linda Harris con uno sguardo tanto supplichevole, era passato da molto tempo, e in quel momento stava tirando calci, con il torace che sbatteva duramente contro la parte posteriore dell'ambulanza. Con un piede colpì il mento di uno degli inservienti, e l'uomo imprecò ad alta voce ma ignorò il rivoletto di sangue che cominciò immediatamente a gocciolare dal taglio sul suo viso. Afferrando un rotolo di corda da un angolo dell'ambulanza vi fece un cappio e quando Mark cercò di colpirlo di nuovo con il piede, l'inserviente era pronto. Passò il cappio attorno alla caviglia di Mark e diede uno strattone. Prima che Mark capisse che cosa gli stava succedendo l'inserviente tirò violentemente la corda, facendolo uscire dall'ambulanza e cadere pesantemente al suolo. Mark batté la testa contro il cemento con un forte schianto e rimase intontito per alcuni secondi, con la vista offuscata. L'inserviente colse l'occasione per passare altri tre cappi di corda sulle gambe di Mark, legandole strettamente insieme, e fissò l'estremità della corda alla fibbia della camicia di forza. «Okay», disse arcignamente quando ebbe finito. «Portiamolo dentro.» Gli altri due inservienti, con l'aiuto di Phil Collins, sollevarono Mark e lo portarono dentro passando per la stessa porta attraverso la quale era stato portato Jeff LaConner la notte in cui la polizia l'aveva prelevato dalle colline. Collins guardò con curiosità il corridoio rivestito di piastrelle e gli apparecchi di illumuiazione riparati da pesante rete metallica. Non era mai
stato in quella parte dell'edificio, e il suo primo pensiero fu che assomigliava più a una prigione che a una clinica. Mentre portavano Mark in un piccolo locale e lo legavano a un tavolo per le visite Collins udì echeggiare da qualche parte lì vicino un acuto lamento. Diede un'occhiata agli inservienti, ma sembrava che nessuno avesse fatto caso a quello strano suono. Un istante dopo Marty Ames entrò nella stanza e si avvicinò immediatamente a Mark. Si mise al lavoro ignorando completamente Collins. Dopo essersi assicurato che Mark fosse legato saldamente al tavolo, ordinò agli inservienti di tagliare la camicia di forza. All'improvviso sopra il tavolo venne accesa una forte lampada. Quando il bianco bagliore gli colpì gli occhi Mark gridò per il dolore. Strinse forte gli occhi e girò la testa, e improvvisamente Collins vide chiaramente il suo viso. Sembrava che stesse cambiando proprio sotto i suoi occhi. La fronte si era inclinata e le arcate sopracciliari sporgevano, dandogli un aspetto scimmiesco. Anche la mascella si era ingrandita, e quando arricciò le labbra mentre un ringhio di rabbia gli saliva dalla gola Collins vide le radici dei denti dove sporgevano dalle gengive. I denti di Mark sembravano troppo grandi in proporzione alla mascella, e due incisivi si sovrapponevano già. I canini, molto più lunghi del resto dei denti, avevano assunto l'aspetto di zanne. Gli inservienti finirono di togliere la camicia di forza, e Collins vide le mani di Mark. Le dita, con le nocche gonfiatesi in nodi deformi, trafficavano con le cinghie cercando di scioglierle e le spesse unghie, quasi simili ad artigli, graffiavano il pesante materiale lasciando grandi segni sul nylon con cui erano fabbricate. «Gesù», sussurrò Collins. «Che cosa gli sta succedendo?» Ames gli diede un'occhiata. «Sta crescendo», ribatté. «Non è evidente?» «Ma a ieri...» «Ieri abbiamo accelerato la cura», disse Ames. «Tutto il suo organismo si è squilibrato, e adesso è fuori da ogni controllo.» Affondò un ago ipodermico nel braccio scoperto di Mark, ma prima che potesse premere lo stantuffo, Mark fece un balzo in su. La cinghia sul suo torace si ruppe e mentre Mark si sollevava a sedere l'ago si spezzò, con la punta ancora affondata nella pelle.
«I puntali di contatto!» ordinò Ames, ma l'ordine non era necessario, perché due inservienti stavano già schiacciando dei puntali elettrici per il bestiame contro il corpo di Mark e stavano premendo i pulsanti che li avrebbero messi in funzione. Mentre le scosse gli attraversavano il corpo i muscoli di Mark si contrassero e lui ricadde sul tavolo. «Ancora!» ordinò Ames, che stava già preparando un'altra iniezione. Mentre Mark subiva un'altra convulsione Ames affondò il secondo ago e contemporaneamente premette lo stantuffo. Mark continuò a lottare, e Ames gli praticò un'altra iniezione. Solo allora Mark smise di agitarsi. Mentre la medicina faceva il suo effetto smise di lottare, ma continuò a muovere la mascella, con gli occhi che brillavano di una cupa furia. Poi, finalmente, fece un sospiro e chiuse gli occhi. Per qualche secondo la stanza rimase in silenzio. Fu Phil Collins che lo ruppe. «Pe-perché è successo?» chiese. «Guarirà?» Ames, con gli occhi ancora fissi su di Mark, ignorò la prima domanda. «Non lo so», rispose. «Con lui è andato avanti più in fretta che con gli altri. Stiamo cercando di pensare a come controllarlo, ma...» Collins fissò Ames. «Gli altri», ripeté. «Vuoi dire che ce ne sono altri come lui?» Ames si voltò a guardare l'allenatore con aria sprezzante, «Che cosa diavolo credi che sia successo agli altri?» chiese bruscamente. La mente di Collins vacillò. Sapeva che c'erano stati dei problemi, sapeva che qualche ragazzo aveva avuto delle brutte reazioni alle pressioni del programma di allenamento e aveva avuto dei problemi mentali. Problemi che erano stati risolti, gli era stato assicurato. Ma naturalmente lui voleva credere che i problemi fossero stati risolti, perché gli piaceva quello che Ames, e la TarrenTech, avevano fatto per la sua squadra. E Ames, come tutti quanti alla TarrenTech, da Jerry Harris in giù, gli avevano sempre assicurato che i problemi erano di secondaria importanza. Era solo questione di smettere la cura e di dare ai ragazzi il tempo di ricuperare. E naturalmente non aveva mai chiesto in che cosa consistesse la cura. O che cosa succedeva ai ragazzi dopo che se ne andavano da Silverdale. Non aveva voluto sapere. Era stato più facile ritenere che i ragazzi stessero bene, che abitassero con la loro famiglia in altre parti della nazione, continuando la loro vita. Ma in quel momento, fissando Mark Tanner, dovette affrontare quello che
nel suo intimo aveva sempre saputo. «Sono ancora qui, vero?» chiese con voce spenta mentre udiva di nuovo le urla animalesche che erano riecheggiate lungo i corridoi pochi minuti prima. Ames annuì «Certo che sono qui», rispose. «M-ma mi avevi detto che stavano bene», protestò Collins. Arrampicandosi sugli specchi per cercare di giustificare quello che si era permesso di fare, di cui era diventato parte. «Mi avevi detto che avevi semplicemente interrotto la cura! Mi avevi detto che sarebbero guariti!» «E tu ci hai creduto», replicò Ames con voce dura. «Ci hai creduto perché volevi crederci. Volevi credere nella magia, in un miracolo senza prezzo da pagare, ma cose simili non esistono! Esistono solo la scienza e la sperimentazione, e un'infinità di fallimenti prima di arrivare al successo. E bisogna sempre pagare un prezzo, Collins.» Abbassò leggermente la voce e increspò le labbra in un freddo sorriso. «Credi veramente che la vita di qualche ragazzo sia un prezzo troppo alto per quello che la TarrenTech e io abbiamo dato a questa città?» Senza aspettare risposta voltò la schiena a Collins e cominciò a impartire ordini riguardo a quello che bisognava fare di Mark Tanner. 24 Sharon riusciva già a scorgere il campus del Rocky Mountain High. Era a circa quattrocento metri di distanza, ma il grande edificio al centro dei prati e dei campi da gioco era chiaramente visibile, e mentre si avvicinava Sharon si ritrovò a chiedersi come avesse mai potuto pensare che assomigliasse a qualche cosa di diverso da una prigione. Adesso che era certa che tra le sue mura dall'aspetto rustico stava succedendo qualche cosa di malvagio, la costruzione aveva assunto un aspetto ostile che le fece venire un brivido alla schiena. Rallentò e svoltò nella traversa che conduceva verso i vasti terreni del centro sportivo, dicendosi che la strana sensazione che le era venuta improvvisamente di essere sorvegliata era solo uno scherzo dell'immaginazione. Contro la propria volontà si ritrovò a guardarsi intorno, a osservare ogni albero che superava in cerca di qualche segno di un sofisticato sistema di sicurezza. Eppure sapeva che il suo esame era inutile, perché se un sistema di telecamere e di allarmi proteggeva davvero l'edificio e i terreni annessi, di certo sarebbe stato progettato in modo da essere completamente
invisibile. Mentre si avvicinava al cancello rallentò ancora, resistendo all'impulso di voltare e ritornare in città. Ma anche se l'avesse fatto, che cosa avrebbe potuto dire? Le apparve nella mente un'immagine di se stessa che entrava nella minuscola stazione di polizia di Silverdale. Riusciva a immaginare gli sguardi scettici di guardinga incredulità sul viso dei poliziotti mentre cercava di dire loro che era certa che suo figlio era vittima di qualche genere di sperimentazione medica. Nel migliore dei casi l'avrebbero liquidata come una stravagante; nel peggiore l'avrebbero presa per matta. E quindi continuò, oltrepassando il cancello e percorrendo il vialetto d'accesso all'edificio. Dando un'occhiata allo specchietto retrovisore vide che il cancello le si chiudeva lentamente alle spalle. Per un attimo un'ondata di panico minacciò di sommergerla. Era arrivata fino a lì solo per essere fatta prigioniera? Si disse che era ridicolo, che la situazione non poteva essere grave come si era lasciata andare a immaginarla. Eppure, mentre parcheggiava la macchina di Elaine Harris davanti all'edificio, lasciava le chiavi inserite e saliva i gradini che conducevano all'ampia veranda, dovette lottare contro l'impulso di voltarsi e di fuggire. Toccò il portone quasi incertamente, rendendosi conto solo quando cominciò ad aprirsi che in realtà si era aspettata di trovarlo chiuso. Quando entrò nell'atrio e vide che era deserto sentì le proprie sensazioni intensificarsi e i nervi cominciare a formicolare. Pericolo. Sentiva il pericolo tutt'intorno a sé. Ma nell'atrio niente era cambiato dall'ultima volta in cui vi era stata. Gli stessi comodi divani e poltrone erano sistemati a gruppi sul lucido parquet, e nell'immenso caminetto era stato acceso un fuoco. Sul grande tavolino impiallacciato che separava due divani erano sparse alcune riviste. Il Rocky Mountain High sembrava ancora per tutto il mondo l'atrio di un albergo in una località di villeggiatura. Tranne che non c'era nessuno. Attraversando l'atrio andò nella sala da pranzo, con i tacchi che risonavano forte sul pavimento scoperto, poi voltò a sinistra e si diresse verso l'ufficio di Martin Ames. La sensazione di venire sorvegliata, che tutti i suoi movimenti fossero strettamente controllati, si accrebbe. Per due volte si ritrovò a guardarsi dietro le spalle, aspettandosi di vedere qualcuno dietro di sé, che si avvici-
nava pronto ad afferrarla. Ma il corridoio rimase vuoto, e lei si ritrovò dinnanzi alla porta chiusa dell'ufficio di Ames. Esitò un istante, poi allungò una mano e girò la maniglia. Aprì la porta. Marjorie Jackson alzò gli occhi dal telefono. Quando riconobbe Sharon i suoi occhi si riempirono di sorpresa. Smise di comporre il numero che stava facendo e riattaccò la cornetta. «Bene», esclamò con una vivacità un po' eccessiva. «Penso che potrò smettere di cercarla, vero?» Era l'ultima cosa che Sharon si aspettava di sentire. Guardò l'assistente di Ames, perplessa. «Ha provato a cercarmi?» chiese. Marge Jackson increspò le labbra in un atteggiamento comprensivo. «Deve avere già sentito di Mark», disse. Sharon si riprese e annuì recisamente. «Voglio vederlo», disse. «E voglio sapere perché è stato portato qui.» Il sorriso scomparve dalle labbra di Marjorie Jackson, che aggrottò nervosamente le sopracciglia. «Oh, mio Dio», rispose, «non... non so se potrà vedere Mark immediatamente. Credo che il dottor Ames si stia occupando di lui. Se mi lascia controllare...» Allungò una mano verso il telefono, ma Sharon la interruppe. «Che cosa gli sta facendo?» chiese bruscamente. «Nessuno qui ha il diritto di curare mio figlio senza il mio permesso. La scuola non aveva il diritto di mandarlo qui, e voi non avete il diritto di curarlo.» La signora Jackson sembrò sbalordita dalla fredda rabbia nelle parole di Sharon. «Signora Tanner... io... non so che cosa dire. Forse c'è stato un errore.» «L'unico errore», ribatté Sharon con voce aspra, «è stato che mio marito abbia permesso che Mark venisse coinvolto in qualsiasi cosa stia succedendo qui.» «Ma sta male, signora Tanner», ricominciò l'assistente di Ames, passandosi nervosamente la lingua sulle labbra. «Stiamo solo cercando di aiutarlo.» «Lei crede?» sbottò Sharon guardando torva la donna. «Be', lasci che le dica che Mark stava perfettamente bene fino a quando non è venuto qui. E adesso dov'è?» Alzò la voce e si piegò in avanti, appoggiandosi alla scrivania dell'assistente. «Voglio vedere mio figlio», ripeté «E voglio vederlo immediatamente. Capito?»
Il comportamento di Marjorie Jackson cambiò. Il suo sguardo di comprensione si raffreddò in un'occhiata autoritaria e lei si alzò. «Capisco che sia sconvolta,» disse con voce dura. «E ha il diritto di esserlo. Se mio figlio stesse male lo sarei anch'io. Ma non ha il diritto di precipitarsi qui e fare richieste che è impossibile accogliere. Abbiamo cercato di aiutare suo figlio, su richiesta di suo marito, e se si calma sono certa che il dottor Ames potrà spiegarle tutto con sua piena soddisfazione. Ma non può pensare a Mark e a lei nello stesso tempo, e quindi la consiglio di decidere subito che cosa è più importante per lei: ottenere una risposta alle sue domande o lasciare che ci si occupi di suo figlio?» Sharon fece un passo indietro. Il suo tono e le sue parole avevano forato la sua corazza di indignazione. Improvvisamente si sentì incerta di se stessa. E se si fosse sbagliata? Mentre fissava l'assistente cercando di valutare se le sue parole erano sincere il silenzio in cui era piombato l'ufficio venne rotto da un fievole grido. Sharon si irrigidì. E poi il grido si ripeté, più forte. Come un animale selvatico che urlasse nella notte. Sharon si irrigidì, ricordando l'incubo di Kelly e il suono che aveva udito attraversare l'oscurità delle prime ore del giorno quando aveva aperto la finestra della figlia. Il suono di un animale che urlava nella notte. Si voltò di scatto e si diresse verso la porta, avendo preso una decisione. Sapeva che Mark era lì, sapeva che doveva trovarlo. Il suono che aveva appena sentito non era affatto venuto da un animale. Era venuto da un essere umano. O almeno da qualche cosa che una volta era stato un essere umano. Appena uscì nel corridoio due inservienti vestiti di bianco le si misero a lato e le afferrarono le braccia. «No!» Cercò di divincolarsi, ma capì di non avere nessuna possibilità. Erano entrambi infinitamente più forti di lei, e le loro mani si strinsero ancora di più, affondando nella sua carne come anelli di ferro. Mio Dio, è davvero una prigione, pensò mentre uno degli inservienti la imbavagliava ed entrambi la spingevano lungo il corridoio. Era una prigione, e lei era prigioniera. Capì che era stato proprio un errore venire lì. Ma capì anche che era troppo tardi.
Blake Tanner fissava il terminal del computer che aveva davanti, ma la sua mente rifiutava di concentrarsi sulle colonne di cifre che coprivano il monitor. Infine si appoggiò allo schienale, si stirò, si alzò e andò alla finestra. Guardò le montagne che sorgevano a nord e a est, con le cime frastagliate coperte di neve. Tra un paio di settimane sarebbe cominciata la stagione sciistica. Erano passati anni da quando, in California, non si era preso un po' di tempo per andare a sciare, e adesso non vedeva l'ora di farlo. In effetti il fine settimana seguente avrebbe potuto portare Mark a far spese e comperargli l'attrezzatura per gli sport invernali. Mark. Aveva pensato al figlio tutta la mattina. In effetti la notte prima aveva dormito ben poco, disteso senza pace sul divano dello studio, con la testa sollevata a un angolo scomodo dal duro cuscino che non doveva servire altro che come sostegno per il braccio. Ma non era stata solo la scomodità che l'aveva tenuto sveglio perché, nonostante l'atteggiamento assunto con Sharon, stava cominciando a preoccuparsi anche lui per il figlio. Quella mattina aveva esaminato ancora una volta il materiale che aveva ricevuto il giorno dopo quello in cui Mark era stato picchiato, quando Jerry Harris aveva consigliato per la prima volta di mettere il figlio in cura da Martin Ames. E anche quella mattina i dati che aveva riesaminato sembravano completamente innocui. C'era una grande quantità di lavoro teorico che faceva congetture sui rapporti tra le vitamine e la produzione di ormoni nel corpo umano, e altri dati, che Blake non aveva compreso interamente, che intendevano dimostrare la base effettiva delle speculazioni teoriche. Tutto quanto, quella mattina come la prima volta che l'aveva esaminato, sembrava completamente innocuo. Troppo innocuo? Cercò di respingere la domanda ma scoprì di non riuscirci. Perché se i composti che venivano somministrati a Mark fossero stati veramente come i dati sostenevano, come mai Mark era cambiato tanto in fretta e in modo così radicale? E non si trattava solo di cambiamenti fisici... forse, se non ci fossero stati che quelli, Blake avrebbe potuto accettarli per quel che erano. Ma i cambiamenti del carattere? Per quelli Blake non era affatto altrettanto tranquillo, nonostante le assicurazioni che aveva ripetuto a Sharon tante volte e cioè che loro figlio sta-
va semplicemente attraversando le normali indecisioni e contraddizioni dell'adolescenza. In realtà, mentre la notte trascorreva lentamente, aveva cominciato a chiedersi chi aveva voluto convincere, se la moglie o se stesso. Quella mattina, con gli occhi pesanti per la mancanza di sonno, aveva cercato di studiare Mark mentre il ragazzo tracannava il succo d'arancia e trangugiava una scodella di cereali freddi prima di uscire per andare a scuola, ma ancora non era convinto di aver notato qualcosa di particolare. Forse, dopo la discussione con Sharon, aveva solo immaginato che i lineamenti di Mark sembrassero più grossolani e i suoi occhi fossero infossati. Per un istante aveva pensato che anche le dita di Mark sembrassero un po' più grandi del normale, ma aveva deciso che era ridicolo e aveva liquidato l'idea. Eppure... Il citofono ronzò, distogliendolo dai suoi pensieri. Si allontanò dalla finestra, ritornò alla scrivania e premette un tasto sotto una luce che lampeggiava. «Tanner.» «Sono Jerry, Blake. Puoi venire nel mio ufficio?» Anche se le parole erano abbastanza innocenti, nel tono di Jerry Harris c'era qualche cosa che fece accigliare a Blake. «Qualche problema?» chiese. Per un attimo vi fu silenzio, poi la voce nel citofono parlò di nuovo. «Puoi ben dirlo», rispose finalmente Harris. «Vieni qui, per favore.» Blake lasciò andare il tasto e guardò la luce che si spegneva. Lasciando sul monitor del computer la relazione che aveva fissato per tutta la mattina si diresse verso la porta che dava sul corridoio, poi cambiò idea e andò invece nell'ufficio della sua segretaria. Mentre usciva dall'ufficio interno Meg Chandler alzò gli occhi per guardarlo. «Devo tenere in sospeso le telefonate o passarle di là?» «Tenerle in sospeso, direi», rispose Poi chiese: «Sta succedendo qualcosa, stamattina?» La giovane donna strinse le spalle. «Niente, che io sappia. Perché?» Fu la volta di Blake a stringere le spalle. «Chi lo sa? Harris mi ha appena chiamato e sembra un po'...» Esitò, in cerca della parola giusta. «Non so... un po' strano.» Meg scosse la testa. «Non chiederlo a me. Una cosa che non rientra nel mio mansionario è sapere che cosa passa per la testa di Jerry Harris.» «Allora ricordami di rivedere il tuo mansionario», osservò Blake oscu-
ramente mentre usciva dall'ufficio per andare in quello accanto. La segretaria di Jerry gli fece cenno di andare direttamente nell'ufficio più interno, e quando fu entrato Harris gli indicò una poltrona. Abbassando la voce, finì la telefonata che stava facendo. Quando si voltò verso Blake i suoi occhi erano seri. «Ho paura che abbiamo davvero un problema», disse. Guardò negli occhi Blake, che fu improvvisamente certo che il problema riguardava suo figlio. «Si tratta di Mark, non è vero?» chiese cercando di mantenere ferma la voce. Harris annuì. «E' stato male a scuola, stamattina», disse. «Adesso è al centro sportivo e Ames si sta occupando di lui.» «Male?» ripete Blake. «Ma... ma stamattina stava bene.» Guardò l'orologio. Non erano neanche le dieci e mezzo. «Cristo, l'ho visto solo tre ore fa! Che cos'ha?» Harris fece un profondo respiro, poi si alzò e girò intorno alla scrivania. Vi si appoggiò contro, fissando Blake. «Temo che qualcosa sia andato storto nella cura», cominciò. Improvvisamente Blake sentì un brivido. «Non... non sono sicuro di capire», rispose. Harris allargò le braccia in un gesto di impotenza. Non sono sicuro di potertelo spiegare esattamente», disse. «Come ti avevo detto, Ames sta facendo un lavoro sperimentale e...» Ma Blake non gli lasciò finire la frase. Si alzò, e i suoi occhi lampeggiarono per l'ira. «Un momento, Jerry. Mi avevi detto che quello che faceva era perfettamente innocuo.» Harris scosse la testa ostinatamente. «No, non è vero. Ti ho detto che c'era un fattore di rischio. Piccolo, ma c'era.» Blake strinse la mascella. «Va bene», disse riacquistando la padronanza di sé. «Non litighiamo per questo, proprio adesso. Che cos'ha Mark, e perché l'hanno detto a te prima che a me?» Harris si passò nervosamente la lingua sul labbro inferiore. «Credo che Ames abbia pensato che dovevo comunicartelo io.» Blake ricadde sulla poltrona, pallido come un cencio. Con voce sconsolata sussurrò: «È... è morto, vero?» Harris fece un profondo respiro, poi lo disse lentamente. «Non ancora», disse, e vide che in Blake la tensione si allentava leggermente. «Ma non ti dirò che non possa succedere. In effetti devi prepararti a que-
sta possibilità.» Blake fissò Harris. «No...» sussurrò. «Mi avevi detto...» La voce di Harris si fece fredda. «Ti avevo detto che c'era un elemento di rischio», disse gravemente. «E sei stato tu a firmare le autorizzazioni per consentire a Ames di curare Mark. Nessuno ti ha costretto.» Quelle parole colpirono Blake come una scarica di pugni. Quindi Sharon aveva sempre avuto ragione quando aveva detto che nel centro sportivo c'era qualche cosa di losco, che qualsiasi cosa stessero facendo non era assolutamente innocua come pretendeva Harris. «Sharon», disse. «Devo parlare con lei.» Fece per alzarsi in piedi, ma l'altro lo fermò con un gesto. «Adesso è al centro sportivo, Blake.» Per un istante Blake si sentì sollevato. Almeno era là, almeno sapeva già. Poi si rese conto che Jerry Harris aveva parlato nello stesso tono gelido che aveva usato solo un attimo prima. Prima che potesse dire qualche cosa, Harris continuò. «È là a cercare di combinare dei guai.» Guardò Blake negli occhi. «Quando abbiamo parlato di questa faccenda mi hai detto che Sharon non avrebbe procurato fastidi. Mi hai assicurato che sarebbe stata d'accordo su quello che provavamo a fare qui!» La mente di Blake vacillò. Di che cosa diavolo stava parlando, Harris? Si preoccupava soltanto del progetto della società? E allora, con terribile lucidità, si rese conto che era proprio così. Era stato usato, era stato manovrato in modo che lasciasse impiegare alla TarrenTech suo figlio come un porcellino d'India. Ma non era possibile. Gli altri... E poi capì. «Jeff LaConner», sussurrò. «È quello che è successo anche a lui, non è vero?» Harris annuì. «Chuck conosceva i rischi, e conosceva la ricompensa.» Mentre Blake lo fissava in silenzio, il suo tono si addolcì. «E questa faccenda non deve essere la fine del mondo neanche per te, Blake. La società è pronta a prendersi cura di Mark. Se sopravvive, per lui verrà fatto tutto il possibile. E anche per te, e per Sharon, e per Kelly; la vita continua. Naturalmente sarai trasferito e verrai promosso a un posto importante, con un aumento di stipendio in armonia con...» - esitò in cerca delle parole giuste - «be', diciamo che anche se l'aumento non può assolutamente compensare...» - esitò di nuovo, poi proseguì - «la tua perdita, lo troverai, credo, sorprendentemente generoso. E naturalmente potrai avere delle opzioni
sulle azioni.» Blake fissò Jerry Harris senza quasi riconoscerlo. Era davvero questo l'uomo che conosceva da dieci anni e che aveva considerato un amico? Pensava davvero che qualunque somma di denaro, qualunque genere di lavoro, potesse mai alleviare il senso di colpa e la perdita che avrebbe provato per il resto della vita? Era impossibile... incredibile! E poi si rese conto che Harris stava ancora parlando. «...naturalmente ci occuperemo anche di Sharon, nel caso in cui tu non riesca a farle intendere ragione. Speravo che non saremmo arrivati a questo, ma...» Occuparsi di Sharon. Ucciderla. Il significato di quelle parole era questo. La sua mente fu tempestata dalla traduzione, dal vero significato di tutti gli eufemismi che aveva udito da Jerry Harris in tutte le settimane precedenti. «Nuovo composto...» Significava medicina sperimentale. Ormoni? Droghe? Vitamine! Come poteva essere stato tanto stupido! «Possiamo aiutare Mark.» Questo era facile: possiamo trasformare tuo figlio in qualcun altro. Possiamo farlo diventare quello che tu vuoi che sia. «Naturalmente c'è sempre un piccolo elemento di rischio.» Tuo figlio potrebbe anche morire. «Ci occuperemo di lui.» Si erano occupati anche di Ricardo Ramirez, ma questo non aveva tenuto in vita il ragazzo. E Harris gli aveva già detto che Mark sarebbe morto. «Ci occuperemo di Sharon.» La uccideremo. Se non riesci a farle intendere ragione, se non riesci a convincerla a tenere la bocca chiusa e ad accontentarsi di un posto importante per te e di denaro senza limiti - perché era sicuro che il denaro sarebbe stato davvero senza limiti - la uccideremo. Improvvisamente tutto si strinse attorno a Blake, che venne invaso da una fredda furia, resa più intensa dal fatto che si rendeva conto di essere anche lui responsabile come gli altri. Si alzò in piedi, fissando Jerry Harris. «Chi diavolo credi che sia?» chiese bruscamente. «Credi davvero che baratterei mio figlio con un aumento di stipendio e una promozione? Credi davvero che me ne starei da una parte e ti lascerei ammazzare mia moglie e mio figlio? Credevo di conoscerti, Harris, ma non ti conoscevo affatto!»
Blake spinse da parte Harris, facendolo sbattere forte contro la scrivania, poi aprì di scatto la porta. Ad aspettarlo nell'ufficio esterno c'erano due custodi in uniforme. Avevano in mano la pistola e la tenevano decisamente puntata contro di lui. «Temo che non potremo permetterle di andare da nessuna parte, signor Tanner», disse uno di loro. Mark si svegliò lentamente, con la mente che si sollevava controvoglia dalle oscure profondità dell'incoscienza. Per qualche minuto il disorientamento fu totale, poi cominciarono a tornargli dei frammenti di memoria. Il terribile mal di testa che aveva avuto durante la prima ora di lezione. Il percorso fino all'infermeria, con Linda Harris che gli camminava a fianco, sostenendolo quando le accecanti ondate di dolore minacciavano di farlo cadere a terra. La rabbia che gli era salita dentro nell'ambulatorio. Poi la terribile costrizione dei pesanti legami che gli avevano messo addosso i tre inservienti. Si rese conto di dove si trovava; l'avevano portato al centro sportivo. Aprì un poco gli occhi, e per un istante fu certo di sognare, perché attorno a lui c'era una pesante rete metallica fissata a una struttura tubolare di ferro. Era in una gabbia. Spalancò gli occhi e si drizzò, abbassando i piedi sul pavimento della piccola cella. Era seduto su un lettino di ferro nudo, senza materasso, e i muscoli erano rigidi per il contatto con il freddo metallo. Indossava ancora i vestiti che aveva messo la mattina, ma i jeans li sentiva stretti e la camicia, che aveva una manica quasi completamente staccata, aveva perso la maggior parte dei bottoni. Sentiva male all'avambraccio sinistro. Lo massaggiò perun istante prima di accorgersi dei fori gemelli dove erano stati introdotti i due aghi e del taglio superficiale dove era stato rimosso l'ago spezzato. Si sentiva le scarpe troppo strette e si chinò, sciolse i laccetti, se le tolse con un calcio e piegò le dita dei piedi. Poi udì un suono. Si guardò intorno e per la prima volta vide la grande stanza in cui era tenuto prigioniero. C'erano altre gabbie, che fiancheggiavano tutta una parete, e nella seconda gabbia dopo la sua vide una strana creatura che ricambiava il suo sguardo. Le sue labbra, tese sopra denti enormi, si muovevano
in continuazione, e dalla sua gola gorgogliava sinistramente un suono strozzato. Mark aggrottò la fronte. Sembrava quasi una specie di scimmia, ma non assomigliava a nessuna di quelle che aveva visto. Poi, mentre il suono che proveniva dalla sua gola cominciava a prendere forma, sentì un brivido. «Maaaarg...» disse la creatura. Poi, di nuovo, questa volta un po' più chiaramente: «Maaarkhh!» Mark indietreggiò barcollando. Non era possibile, eppure mentre fissava la creatura che si era alzata e aveva allungato un braccio verso di lui, stendendo tutto il suo metro e novantotto dal pavimento su cui era accovacciato, si rese conto che era vero. Stava guardando quello che una volta era stato Jeff LaConner. Dalla gola di Mark eruppe un grido d'orrore, ma lo soffocò prima che riuscisse a salirgli alle labbra. La sua mente stava lavorando furiosamente, e ricordò altre cose. Gli accessi di rabbia. Come quelli che aveva avuto Jeff prima che lo portassero via, quella sera. Gli strani cambiamenti che aveva notato nel suo viso proprio la sera precedente. Sollevò le mani al viso e seguì i propri lineamenti con le dita. Sembravano diversi. La fronte sporgeva, e anche il naso sembrava modificato. E la mascella... Passò la lingua sul profilo dei denti, che sentiva improvvisamente strano. Sembravano grandi... troppo grandi per la sua bocca. Poi si guardò le mani. Le dita, lunghe e spesse, sembravamo estendersi dalle nocche ingrandite, e dove prima la pelle era liscia sui palmi spuntavano dei ciuffi di pelo. Le unghie, più spesse del normale, si piegavano verso il basso, quasi come artigli. Venne preso dal panico, e di nuovo sentì l'impulso di gridare. Ma ancora una volta lo represse, mentre i suoi occhi si muovevano selvaggiamente per il locale cercando un mezzo di fuga. Fu allora che vide quello che una volta era stato Randy Stevens, non più riconoscibile come essere umano, rannicchiato nell'angolo di una delle gabbie, che si mordicchiava ossessivamente un dito mentre i suoi occhi si muovevano senza scopo da un punto all'altro. Poi Mark guardò verso l'alto e vide il monitor sospeso al soffitto al di
fuori della gabbia. Riconobbe immediatamente la figura sullo schermo, e questa volta un grido furibondo gli sorse dalla gola prima che riuscisse a soffocarlo. La figura sullo schermo era quella di sua madre. Era seduta su una sedia dallo schienale diritto, con uno sguardo di terrore sul viso. Mentre Mark fissava la figura si levò ancora il suo urlo da folle, che riecheggiò sulle piastrelle che rivestivano il locale e gli rimbalzò più volte contro, per perdersi poi nel rumore del suo successivo acuto grido di rabbia. La porta all'estremità del locale lungo e stretto si spalancò e tre uomini si precipitarono dentro. Uno stava svolgendo un idrante e un altro portava un puntale per elettrochoc da bestiame. Il terzo uomo aspettò nervosamente vicino alla porta, pronto ad aprire la valvola non appena l'idrante fosse stato svolto completamente. Il primo inserviente conficcò il puntale tra le maglie della rete, ma prima che riuscisse a metterlo in funzione Mark glielo tolse dalle mani, lo tirò dentro la gabbia con uno strattone e lo fracassò contro il fianco del lettino. «Apri l'acqua, maledizione», sentì che gridava l'inserviente. Mentre l'idrante si gonfiava per la pressione dell'acqua Mark si gettò contro il cancello. La rete si curvò ma resistette. Poi l'acqua uscì con forza dal bocchettone, e mentre l'uomo lottava per controllarla Mark afferrò la rete metallica con entrambe le mani e cominciò a scuoterla, gettandovisi contro con tutto il suo peso. Sentì la rete cedere leggermente e raddoppiò gli sforzi. Infine, mentre l'acqua lo colpiva violentemente, la rete cedette, e tutto il pannello che copriva lo sportello della gabbia si sganciò dal telaio. Muggendo di rabbia Mark allontanò la rete e si precipitò attraverso il varco, con le mani tese per afferrare l'inserviente più vicino. Mentre Mark lo sollevava dal suolo l'uomo gridò, ma il suo urlo cessò quando Mark lo scaraventò sul pavimento. La testa dell'inserviente colpì il cemento armato con uno scricchiolio, e attorno cominciò a formarsi immediatamente una pozza di sangue. In quel momento il getto d'acqua colpì Mark in pieno petto, e lui indietreggiò barcollando, avendo perso per un momento l'equilibrio. Poi, come incitato da quello che aveva fatto Mark, anche Jeff LaConner si gettò contro lo sportello della sua gabbia, e la forza del suo maggior peso fu sufficiente a staccare la rete dai suoi sostegni. L'inserviente con l'idrante cercò
di gridare un ammonimento, e per un istante il getto d'acqua si allontanò da Mark. Immediatamente Mark si gettò sull'uomo e gli passò un braccio attorno al collo, tirando poi verso di sé. La spina dorsale dell'uomo fece un acuto schiocco, e lui si afflosciò nella stretta di Mark. Il terzo inserviente si immobilizzò, sbigottito da quello che era successo e reso incapace di agire. Un attimo dopo, mentre l'uomo si rendeva conto del pericolo e cercava di chiudere la porta del locale, Jeff oltrepassò Mark e le sue dita si chiusero attorno alla sua gola. Sotto gli occhi di Mark Jeff sollevò l'uomo dal pavimento e cominciò a scuoterlo come se fosse una bambola di stracci, poi si girò di scatto e scaraventò l'inserviente contro le dure piastrelle della parete. Lasciandolo cadere a terra, Jeff scomparve fuori dalla porta che conduceva al locale delle gabbie. Mark si soffermò un istante. L'istinto gli diceva di seguire Jeff, di fuggire mentre poteva! Ma poi vide Randy Stevens con l'angolo degli occhi e improvvisamente capì quello che doveva fare. Si chinò e strappò l'anello con le chiavi dalla cintura del corpo che gli giaceva ai piedi. Lavorando velocemente inserì una chiave dopo l'altra nell'ultima delle gabbie chiuse a chiave, finché una non girò e lo sportello si aprì. Lasciando le chiavi nella serratura, Mark si affrettò a seguire Jeff LaConner. Nella gabbia, per qualche momento Randy Stevens fissò vuotamente lo sportello aperto, poi gli occhi gli si schiarirono leggermente e lui si trascinò in avanti, attraversando lentamente la soglia. Si fermò per un momento vicino al corpo dell'inserviente morto, e colpì sperimentalmente il molle cadavere, poi si avvicinò all'uomo che Jeff LaConner aveva scaraventato contro la parete. Quell'uomo giaceva sul pavimento con la spina dorsale fratturata, completamente paralizzato dalla vita in giù. Si lamentava debolmente e muoveva spasmodicamente le dita sul pavimento cercando di trascinarsi verso la porta. Per un istante Randy lo studiò con curiosità, poi allungò una mano e lo colpì di punta con un dito. L'uomo gridò per la sofferenza e diventò pallido come un cencio mentre il sangue gli abbandonava il viso. Con una risata da folle Randy lo colpì ancora e ancora. Poiché ogni colpo provocava un urlo, Randy ridacchiò sempre più forte, aumentando il ritmo del suo folle gioco di tortura. Fu solo quando l'uomo tacque, sopraffatto dal dolore fino al punto di svenire, che Randy perse ogni interesse per quell'orribile gioco.
Alzatosi in piedi con fatica uscì lentamente dalla porta. La sua testa ondeggiò da un lato all'altro mentre guardava prima in una direzione poi nell'altra. Infine, senza una ragione, si avviò lungo il corridoio annusando piano mentre cercava di seguire le tracce di Jeff LaConner e di Mark Tanner. Ma naturalmente erano mesi e mesi che Randy non era più capace di dare un nome a chicchessia, umana o meno. In Randy la trasformazione da essere umano in animale si era completata da molto tempo. In quel momento, secondo il comportamento della creatura che era diventata, era giunta l'ora di ampliare il proprio territorio. 25 Marty Ames stava fissando lo schermo diviso in due di un monitor ad alta definizione, paragonando la struttura genetica della glandola pituitaria di Charlotte LaConner con quella di suo figlio. Da qualche parte, ne era sicuro, c'era una minuscola differenza, e se avesse potuto trovarla, sepolta da qualche parte nel DNA delle cellule, avrebbe potuto trovare una spiegazione del mistero della crescita incontrollabile di Jeff. Quando l'allarme disturbò la sua concentrazione alzò gli occhi irritato. Per quella mattina non era in programma nessuna prova del sistema di sicurezza, e l'improvvisa interruzione del suo lavoro era una seccatura che non poteva tollerare. Stava per prendere in mano il telefono per chiedere una spiegazione quando uno dei monitor sulla parete attirò la sua attenzione. Mostrava un'inquadratura del locale delle gabbie. Guardandola, Ames spalancò gli occhi sbigottito. Due gabbie avevano lo sportello aperto, e quello della terza era stato interamente strappato, come carta velina. Uno degli inservienti era sdraiato sulla schiena, con la testa al centro di una pozza di sangue, e un altro era steso a poca distanza. Il terzo, le cui dita raspavano spasmodicamente il pavimento, fissava la telecamera con il viso stravolto dalla sofferenza. Degli occupanti delle gabbie non c'era traccia. Imprecando ad alta voce Ames premette i pulsanti del telefono, e un attimo dopo sentì Marge Jackson che con voce tesa gli diceva, all'altro capo del filo: «Sono scappati, dottor Ames.». «Lo so, dannazione», disse Ames con voce stridula. «Credi che non ci veda? Dove sono?»
«Non... non lo so», balbettò Marge. «Credo che siano ancora dabbasso, ma non riesco a trovarli sui monitor». Ames imprecò ancora. Avrebbe dovuto far montare delle telecamere dappertutto, senza lasciare nessun decimetro quadrato dell'edificio fuori controllo. Ma avevano supposto che le gabbie fossero a prova di fuga... abbastanza forti da trattenere praticamente qualsiasi cosa. «Vado là immediatamente», disse. «Telefona ad Harris e raccontagli quello che è successo. Avremo bisogno di aiuto!» Sbatté giù il telefono e andò in fretta alla porta del laboratorio. Era al piano terra, e le scale che conducevano alla zona di sicurezza nel sotterraneo erano isolate da due porte chiuse a chiave. Con un po' di fortuna, le creature erano ancora trattenute nelle viscere dell'edificio. Eppure appoggiò l'orecchio contro la porta del laboratorio prima di aprirla, poi la scostò solo un poco e rimase in ascolto di nuovo. Ma il chiasso della sirena di allarme soffocava qualsiasi rumore potesse sentire, e infine spalancò la porta e balzò nel corridoio. Guardò in entrambe le direzioni, poi si affrettò lungo l'atrio verso il suo ufficio. Un istante dopo trovò Marjorie Jackson che, pallida in viso, era in piedi dietro la scrivania e parlava freneticamente al telefono. Quando Ames entrò, chiudendo a chiave la porta alle sue spalle, finì la telefonata con le mani che le tremavano tanto che la cornetta cadde sulla scrivania quando cercò di riattaccare. «Il signor Harris dice che qualcuno è già per strada», gli disse. «Stanno portando qui il signor Tanner e...» Ames la interruppe. «Che cosa è successo?» chiese bruscamente. «Come si sono liberati?» Marge Jackson scosse la testa. «No-non lo so. Stavo tornando in ufficio quando ho sentito un grido e quando ho guardato nel monitor erano già scappati.» Quasi controvoglia girò gli occhi verso lo schermo televisivo in cui si vedeva ancora il locale delle gabbie, e rimase senza fiato mentre l'inserviente con la spina dorsale fratturata faceva un altro debole tentativo per trascinarsi verso la porta. «Mio Dio», sussurrò. «George è ancora vivo. Dobbiamo aiutarlo» Fece per avviarsi verso la porta, ma Marty Ames la bloccò stringendole un braccio con la mano, come se fosse una morsa. «Sei impazzita?» chiese. «Sono ancora laggiù!» Marge sgranò gli occhi. «Ma dobbiamo fare qualcosa...» Ames assunse un'espressione torva mentre osservava lo schermo per qualche istante poi azionava gli interruttori delle altre telecamere sparse
per l'edificio. «Non possiamo fare niente per nessuno finché non arrivano gli aiuti.» Improvvisamente ci fu un movimento sullo schermo, e videro Jeff LaConner che guardava qua e là mentre percorreva il corridoio che conduceva alla scale. «Sarà meglio che quella porta sia chiusa a chiave», sussurrò Ames mentre l'enorme figura di Jeff riempiva lo schermo. Allungò una mano e toccò un altro comando, e la telecamera ruotò per seguire Jeff che avanzava verso la porta che conduceva alle scale. Come se sentisse l'occhio della telecamera che lo osservava, Jeff si voltò e per un attimo guardò direttamente nell'obbiettivo. Per un istante non successe niente, poi le labbra di Jeff si arricciarono, e anche se né Ames né Marjorie Jackson poterono sentirlo, entrambi rabbrividirono involontariamente al ringhio che videro uscire dalla fauci contorte della creatura che Jeff era diventata. Infine l'enorme mano di Jeff si sollevò bloccando la telecamera. Lo schermo diventò nero, e Ames e la sua assistente capirono che Jeff aveva strappato la telecamera dal suo sostegno. Per un attimo Jeff fissò in silenzio la telecamera che aveva in mano, poi la schiacciò tra i palmi e ne gettò sul pavimento i rottami contorti. Poi si voltò verso la porta a poca distanza da lui. Allungò una mano quasi incertamente e afferrò la maniglia con le dita nodose. La girò, e quando capì che era chiusa a chiave un ringhio di rabbia gli salì in gola. Poi afferrò meglio il pomello e tirò forte. Come la telecamera che era stata sospesa al supporto metallico pochi attimi prima, il pomello resistette per un po' poi cedette. Gettandolo in terra, Jeff cominciò a sferrare dei colpi al meccanismo della serratura e pochi secondi dopo questo cadde dall'altra parte. La serratura scattò aperta. Spalancò la porta spingendola con forza. Lo schianto della porta metallica contro la parete piastrellata del corridoio echeggiò forte per un attimo, poi si esaurì. Respirando forte, Jeff fissò le scale per qualche attimo, poi cominciò a salire. Arrivato in cima si avviò lungo il corridoio coperto di moquette che passava davanti ai vari uffici e conduceva nella sala da pranzo. Fissando la porta aperta a metà del corridoio, che portava agli uffici di Ames, come riusciva ancora a ricordare, venne assalito da un impeto di rabbia.
Ricordava molto bene il dottor Ames. Nella sua mente molte altre cose si erano annebbiate da quando il suo cervello aveva cominciato a schiacciarsi entro gli angusti limiti della scatola cranica, ma la figura del dottor Ames splendeva ancora vividamente. Era stato Ames a fargli quello. Ames, che aveva finto di essergli amico, che aveva finto di averlo preso in simpatia. Ames, che lo aveva trasformato nella creatura tormentata dal dolore che era diventato. Era tutta colpa di Ames, e mentre cominciava ad avanzare strascicando lungo il corridoio, verso gli uffici, sentì che l'odore di quell'uomo gli riempiva le narici alimentando la furia che provava dentro di sé. Attraversò barcollando la porta dell'ufficio più esterno. Grugnendo e con il respiro che gli veniva in rantoli brevi e pesanti sentì che la rabbia dentro di sé stava arrivando al limite di sopportazione. Afferrando la scrivania di Marjorie Jackson la capovolse, la sollevò dal pavimento e la gettò contro la parete. Sotto l'urto della pesante scrivania di noce americano l'intonaco si frantumò, e dietro l'intonaco si sentì un rumore secco mentre anche le assicelle si rompevano sotto il forte colpo. Poi, con gli occhi che brillavano sotto la profonda cresta delle sopracciglia, si avvicinò alla porta chiusa che conduceva al locale più interno. «Sta' indietro», Marty Ames disse a Marjorie Jackson. Il volto della donna era impallidito quando lo schianto nell'ufficio esterno aveva confermato che gli animali non erano più rinchiusi nel sotterraneo. Era rannicchiata contro la parete, e mentre Ames parlava si spostò dietro il tavolo. Marty Ames aprì l'ultimo cassetto in basso della sua scrivania ed estrasse la calibro 38 che aveva cominciato a tenere quando si era reso conto che alcuni dei ragazzi potevano diventare pericolosi. Ma da quando aveva comperato quell'arma non si era verificato neppure un caso in cui avesse sentito che avrebbe potuto usarla, e aveva anche smesso di esercitarsi al tiro a segno come aveva cominciato a fare il giorno stesso in cui aveva fatto l'acquisto. In quel momento, mentre trafficava con la sicura e controllava che ci fossero delle pallottole in canna, pregò che la rivoltella funzionasse ancora, e che la sua mira fosse ancora abbastanza buona per uccidere. Aveva appena riarmato la canna quando si udì uno schianto. Poi la porta dell'ufficio, un unico pannello di noce massiccio, venne strappata dalle cerniere e cadde sul pavimento in due enormi pezzi.
Sulla soglia c'era Jeff LaConner, con il corpo deforme piegato in modo che le punte delle dita toccavano quasi il suolo, con la pesante mascella a penzoloni mentre la saliva gocciolava dal labbro inferiore. Mentre fissava la figura subumana Marjorie Jackson emise un forte grido, che venne subito soffocato dal muggito di pura e semplice furia di Jeff. Balzò dentro la stanza, con le lunghe braccia protese verso Marty Ames e le dita che cominciavano già a serrarsi mentre cercava di raggiungere il collo della sua vittima. Ames, con il cuore che gli batteva forte, sollevò la rivoltella e premette il grilletto, facendo fuoco a bruciapelo contro il petto di Jeff. Jeff barcollò, abbassando gli occhi sorpreso mentre un fiotto di sangue sprizzava dal foro nel suo petto. Poi, fissando di nuovo gli occhi su Ames, mugghiò e si lanciò in avanti. Ames fece fuoco di nuovo, e poi ancora, ma al colpo seguente la rivoltella si inceppò. La gettò via e si chinò dall'altra parte mentre Jeff si piegava in avanti e crollava al suolo. Per un attimo Ames fu certo che Jeff si sarebbe rialzato e avrebbe rinnovato il suo attacco, ma quando il ragazzo non si mosse allungò un piede e voltò il cadavere con precauzione. Uno degli occhi di Jeff era stato preso in pieno e il sangue stava colando lentamente dalla massa molle e appiccicosa dell'orbita vuota. Ames fissò il cadavere per un attimo, poi prese Marge Jackson per una mano e cominciò a trascinarla fuori dalla stanza. Fuori, una delle giardinette della TarrenTech stava avvicinandosi, accelerando lungo la strada che portava al cancello principale. Randy Stevens percorse lentamente il labirinto dei corridoi. Da molto tempo il suo cervello aveva cessato di funzionare con il controllo di qualsiasi tipo di ragione e lui si muoveva senza scopo, con le narici che captavano prima un odore poi un altro. Voltò un angolo e davanti a sé vide una porta aperta. La oltrepassò e cominciò a salire le scale, sollevando goffamente il suo peso, afferrandosi alla ringhiera metallica con le dita deformi. Infine arrivò in cima ed entrò con passo malfermo nell'atrio. Esitando, mosse avanti e indietro la testa annusando l'aria, poi captò un odore che evocò vaghi ricordi dalle profondità del suo cervello. Indistinte immagini galleggiarono nella sua coscienza, immagini di alberi e di cespugli, del fiume e del cielo al di sopra. Con le narici che fremevano all'odore dell'aria fresca si diresse verso la
porta a destra, dove, sotto una fessura, splendeva una brillante striscia di sole. Trafficò con la porta, poi vi si gettò contro con tutto il suo peso e questa cedette. Rimase immobile, socchiudendo gli occhi al bagliore del sole mentre respirava profondamente e i suoi polmoni si riempivano della prima aria fresca che avesse respirato da più di un anno. In lontananza distingueva il profilo delle montagne che si innalzavano verso il cielo, e un istinto profondamente radicato gli disse che là, sulle montagne, sarebbe stato al sicuro. Si avviò in quella direzione, con il corpo che si muoveva pesantemente sulle gambe contorte, con le nocche che si trascinavano sul suolo, in parte sostenendolo nell'andatura strana e a lunghi balzi dei primati. Poi un movimento attirò la sua attenzione. Si fermò un istante per girarsi e fissare in silenzio la macchina che stava voltando l'angolo dell'edificio. Blake Tanner era seduto tra due custodi nel sedile posteriore della giardinetta. Davanti, accanto al guidatore, un terzo custode era mezzo girato, con la schiena rivolta verso lo sportello, mentre teneva d'occhio Blake. Per i primi minuti dopo che i custodi l'avevano bloccato alla porta dell'ufficio di Jerry Harris la sua mente era rimasta vuota per la paura. Ma mentre i custodi l'avevano condotto nel garage nella parte posteriore dell'edificio della TarrenTech e l'avevano spinto nella giardinetta aveva ricominciato a pensare. Si era lasciato cadere sul sedile, con gli occhi mezzo chiusi, cercando di dare ai custodi l'impressione di essere in preda a una forte emozione. Ma mentre la macchina usciva dal terreno della TarrenTech e procedeva lungo la strada principale verso la città, senza mai superare il limite di velocità stabilito, poi prendeva la strada che risaliva la valle verso il centro sportivo, Blake cominciò a rendersi conto che la sua situazione era disperata. Non era una situazione simile a quelle dei libri di Robert Ludlum che gli erano sempre piaciuti tanto, in cui un professore di inglese dai modi mansueti riusciva sempre a sopraffare cinque spie espertissime in un vicolo buio, a mezzanotte, emergendo incolume da un fuoco incrociato, con forse due o tre coltelli in circolazione per soprammercato. Quella era realtà. E mentre Blake era in buona forma e si sentiva sicuro che avrebbe potuto affrontare uno qualunque dei custodi in un combattimento da uomo a uomo, si rendeva acutamente conto che non sarebbe riuscito a resistere neppure un minuto contro i tre insieme. Né si ingannava pensando che ci avrebbero pensato due volte a sparargli se li avesse assali-
ti. E non c'era nessuno di quei comodi ritardi di cui godeva sempre James Bond mentre il cattivo giocherellava con lui abbastanza a lungo da fornirgli un'occasione che lui faceva sempre in modo di cogliere. No, quegli uomini volevano ucciderlo, e mentre avrebbero volentieri aspettato finché non l'avessero portato nella segretezza del campo di concentramento recintato di Ames, era sicuro che se avesse fatto anche un'unica mossa falsa il custode sul sedile anteriore avrebbe premuto il grilletto della calibro 45 che aveva in mano. Il colpo non sarebbe arrivato da uno dei custodi ai suoi fianchi: era troppo rischioso, c'era la probabilità che la pallottola lo trapassasse e continuasse il suo tragitto colpendo il custode dall'altro lato. Ma se fosse andato in frantumi il lunotto posteriore della giardinetta chi ci avrebbe fatto caso? Avvicinandosi al cancello l'auto rallentò, ma il guidatore premette un pulsante su un comando fissato sul parasole della macchina e il cancello si aprì, per richiudersi immediatamente dopo il loro passaggio. L'auto acquistò velocità, voltando a sinistra per dirigersi verso la parte posteriore dell'edificio. Se gli fosse capitata un'occasione sarebbe stato quando l'auto si fosse fermata e uno dei custodi al suo fianco fosse sceso. A meno che non ci fosse un garage all'interno dell'edificio, come alla TarrenTech. «Gesù!» La parola esplose dalla bocca del custode al volante, e l'uomo sul sedile del passeggero fece un balzo per la sorpresa, poi guardò con occhio furioso il conducente. «Maledizione», cominciò, ma il guidatore lo ignorò, schiacciando i freni e indicando davanti a sé. «Che cosa diavolo sta succedendo?» chiese. «Che cosa diavolo è?» Blake si drizzò, scrutando tra i due custodi sul sedile anteriore. A meno di venti metri, in piedi nel vialetto d'accesso e con gli occhi fissi sull'auto come se non fosse sicuro di quello che vedeva, stava una creatura come Blake non aveva mai visto. Assomigliava a qualche genere di avanzo dell'evoluzione, aqualche strana specie senza prospettive che non era né uomo né scimmia. Stava piegato alle anche, con la testa che oscillava in su e in giù come se avesse delle difficoltà a mettere a fuoco la macchina. L'auto si fermò stridendo e per un istante, mentre tutti i suoi cinque passeggeri fissavano la strana creatura metà uomo metà bestia nel vialetto di accesso, ci fu silenzio assoluto. Mentre il conducente cominciava a parlare udirono un grido proveniente dall'edificio. Un istante dopo Marty Ames
balzò fuori da una delle porte laterali, con Marjorie Jackson subito dietro. La creatura nel vialetto si girò di scatto e fissò gli occhi su Ames. Improvvisamente si alzò in tutta la sua altezza e un urlo di furia gli scoppiò dalla gola. «Cristo», sussurrò il guidatore. «Sta assalendo Ames!» Tirò il freno a mano, poi sganciò la cintura di sicurezza con una mano e aprì lo sportello con l'altra, e uscì dall'auto con la rivoltella già fuori della fondina. Cadendo in ginocchio afferrò l'arma con entrambe le mani, si appoggiò al cofano dell'auto e premette il grilletto. Mentre la pallottola bruciante gli attraversava la carne della coscia la creatura esitò, poi muggì di nuovo. Per un attimo sembrò che non riuscisse a decidere da che parte girarsi, poi continuò a dirigersi verso Ames. «Spara!» gridò Ames. «Per l'amor del cielo, ammazzalo» Mentre la creatura si avvicinava Marjorie Jackson si era voltata nell'altra direzione ed era fuggita attorno all'edificio. Ames era solo, stretto contro il muro. Osservando Randy Stevens che lo stava assalendo riconobbe negli occhi del ragazzo la stessa furia che aveva visto pochi momenti prima in quelli di Jeff LaConner. Voleva correre, voleva voltarsi e fuggire di nuovo nell'edificio, ma le gambe si rifiutarono di obbedire agli ordini e rimase dov'era, immobilizzato dal panico. Si udì un altro sparo e Randy esitò ancora, barcollando verso sinistra. Cadde a terra e girò la testa come se cercasse un assalitore non visto che gli vibrava dei colpi con un'arma invisibile. In quel momento tutte le guardie erano scese dall'auto, e Blake colse la sua occasione. Scese dall'auto dalla parte più lontana dall'edificio e si mise a correre velocemente, gettandosi verso il recinto che circondava la proprietà. Non era granché, ma era una possibilità. Se avesse potuto scavalcare il recinto mentre i custodi erano ancora occupati con la creatura da incubo nel cortile, forse sarebbe riuscito a fuggire. Si sentirono altri due spari, ma Blake li ignorò, concentrandosi sul recinto, con le gambe che sì muovevano velocemente. Arrivò a poco più di venticinque metri, poi a diciotto. Si sentì un altro sparo, e questa volta vide sollevarsi davanti a lui, sulla destra, uno sbuffo di polvere e di erba. Uno dei custodi gli stava sparando contro, e si spostò a sinistra, poi di nuovo a destra. Quando fu a meno di cinque metri dal recinto un'altra pallottola colpì il terreno davanti a lui, e si spostò di nuovo.
Poi arrivò al recinto e vi si lanciò contro, saltando più in alto che poté, con le dita che si chiusero sulla pesante rete metallica a poco meno di trenta centimetri dalla sommità. I duemila volt con cui era caricato il recinto gli attraversarono il corpo, facendogli contrarre i muscoli e friggendogli in un istante il cervello. Le sue dita, immobilizzate dalla forza pura e semplice della scossa, restarono attaccate alla siepe, tenendo il cadavere sospeso a quasi un metro dal suolo. Una terza pallottola colpì Randy Stevens, seppellendosi nel polmone sinistro, e lui sentì nel petto una fitta di calore bruciante. Si allontanò da Ames, concentrando sulla fuga ogni resto di ragione. Guardò di nuovo verso le montagne e si mise a camminare con passo diseguale. Zoppicava dalla gamba destra, e a ogni passo sentiva in tutto il corpo dolori lancinanti, ma non ci badò, continuando a procedere vero le lontane colline e il rifugio che, sentiva, vi avrebbe trovato. Un altro proiettile gli penetrò nel corpo, poi un altro ancora, e infine ruzzolò in avanti, battendo il viso per primo, poi si trascinò, con il braccio sinistro senza forza come la gamba destra. Ma non si fermò, non poteva farlo, perché qualche profondo istinto di sopravvivenza lo spingeva ad avanzare. Era ormai vicino al recinto, e quando venne colpito da un'altra pallottola allungò un braccio verso di esso, stendendosi quasi oltre i propri limiti. La quinta pallottola lo colpì alla testa, facendogli scoppiare il cervello proprio mentre le sue dita toccavano la rete e il suo corpo si ritraeva per l'improvvisa scossa. Le montagne erano ancora molto lontane, ma non importava, perché dopo un anno rinchiuso in una gabbia nel sotterraneo del centro sportivo Randy Stevens aveva infine trovato un ultimo rifugio. Mark aveva perlustrato accuratamente il sotterraneo e aveva finalmente trovato un locale con un quadro di comando del sistema di sicurezza. Aveva sentito Randy Stevens che si muoveva pesantemente fuori della porta della stanza in cui si trovava, ma non aveva badato a quel rumore, concentrandosi a manovrare gli interruttori e le manopole sul quadro di comando, finché infine in uno dei monitor non comparve l'immagine di sua madre. Diede un'occhiata alla targhetta sull'interruttore - SALA TRATTAMENTI B - poi guardò di nuovo il monitor. Sua madre si girò e guardò nella telecamera. Immediatamente la ben nota rabbia si impadronì di Mark, e lui di-
stolse gli occhi dal monitor e uscì in fretta dal locale. Era ai piedi delle scale quando udì il rumore degli spari all'esterno. Salì in fretta le scale e si fermò quando vide la porta aperta che conduceva all'esterno. L'istinto gli diceva attraversare di corsa quella porta, di fuggire dall'edificio mentre poteva, ma si costrinse a vincerlo. Invece si affrettò verso la porta, la chiuse e tirò il chiavistello che la bloccava, poi si voltò e percorse in fretta il corridoio verso la sala da pranzo e la palestra. Mentre passava davanti agli uffici di Ames diede un'occhiata dentro. Oltre i relitti dell'ufficio di Marge Jackson vide la figura accartocciata di Jeff LaConner distesa sul pavimento in una pozza di sangue. Si immobilizzò per un istante, poi continuò in fretta. Entrò nella palestra e l'attraversò arrivando a un piccolo locale dall'altro lato. Sulla porta era inchiodata una targhetta con la scritta SALA TRATTAMENTI B. Si gettò con tutto il suo peso contro la porta, e questa cedette. Si immobilizzò e guardò nella stanza. Sharon, ancora legata al tavolo metallico, sollevò la testa quando la porta si aprì, e i suoi occhi si posarono su Mark. La sua distorsione facciale era peggiorata, la sporgenza sovraorbitale era cresciuta tanto che gli occhi erano ormai quasi scomparsi nella profondità delle orbite. La mascella sembrava troppo pesante per il suo viso e pendeva leggermente aperta, e teneva sui fianchi le braccia eccessivamente lunghe. Mentre lo fissava un gemito angosciato uscì dalle sue labbra. Sharon soffocò un grido. «Mark», ansimò, «Aiutami» Lottò contro le pesanti cinghie di nylon, ma queste resistettero, bloccandola al lettino. Mark la fissò in volto, e la ben nota rabbia lo assalì di nuovo. Ma non gli aveva fatto niente... non aveva nessuna ragione per essere in collera con lei. E poi, vagamente, un ricordo gli si risvegliò nella mente. Il ricordo di essere su un vogatore e di sentire una rabbia crescente contro la figura degli avversari. Faceva parte della cura, adesso se ne rendeva conto. Gli avevano dato qualche genere di medicina, una medicina che provocava la collera, liberando delle riserve supplementari di energia dalle profondità del suo corpo. Una medicina che lo rendeva furioso e gli dava un estremo desiderio di vincere. Ma il giorno prima - poteva essere stato davvero solo il giorno prima? -
aveva visto anche altre immagini. Riusciva a ricordare un'immagine che tremolava sullo schermo, riusciva a ricordare che la sua rabbia si spostava e si concentrava sulla madre. Era quello che avevano voluto, e aveva funzionato. Era la vista del viso della madre che faceva scattare quella rabbia irrazionale, nient'altro. «Non guardarmi!» gridò. «Non guardarmi!» Sharon esitò, ma qualche cosa dentro di lei le disse di obbedire a Mark senza fare domande. Lasciò ricadere la testa sul tavolo e fissò gli occhi sul soffitto sopra di lei. In lontananza, vagamente, soffocato dall'edificio, sentì il rumore di armi da fuoco. «Che cosa sta succedendo?» chiese in un sussurro impaurito mentre le dita di Mark si davano da fare con le cinghie, sciogliendole. «Che cosa stanno facendo?» «Ci stanno ammazzando» rispose Mark. Sciolse l'ultima cinghia, poi si voltò mentre Sharon si sedeva e si massaggiava le gambe intorpidite. «Vogliono che ti uccida», le disse Mark. «Ecco che cos'è successo ieri sera. Non ero arrabbiato con te, mamma. Loro... loro mi hanno fatto qualcosa. Se ti guardo divento matto!» Sharon sentì un singhiozzo salirle in gola, ma lo ricacciò indietro. Non ancora... non in quel momento. In quel momento poteva pensare solo a una cosa: portare se stessa e il proprio figlio lontano da quel posto. «Dove siamo?» chiese. Gettò le gambe giù dal tavolo e provò se reggevano il peso del proprio corpo. Minacciarono di piegarsi sotto di lei, ma le costrinse a reggerla con la pura forza di volontà. «Nella... nella palestra», balbettò Mark. «Dietro la sala da pranzo.» «Andiamo», gli disse Sharon. Fece per voltarsi verso di lui, ma ricordò in tempo le sue parole. «Seguimi. Non mi volterò a meno che tu non mi dica di farlo.» Senza aspettare che Mark rispondesse corse fuori della porta e verso la sala da pranzo. Il cuore le batteva forte, ed era sicura che da un momento all'altro sarebbero apparsi gli inservienti a bloccarle la strada, ma quando arrivò alla sala da pranzo la trovò vuota. Con Mark dietro di lei attraversò di corsa l'atrio, pregando che la macchina di Elaine Harris fosse ancora parcheggiata davanti alla costruzione. Alla porta principale esitò e l'aprì solo un poco.
La macchina era ancora dove l'aveva lasciata. Nel cortile c'era uno strano silenzio. Fece un breve respiro, poi spalancò la porta. «Monta sul sedile posteriore», disse aMark sopra la spalla. «Monta e sta' giù.» Aprì di scatto lo sportello del posto di guida e salì in fretta sull'auto, con le dita che cercarono la chiave ancora prima di aver chiuso con forza lo sportello. Mentre girava la chiave sentì sbattere lo sportello posteriore, poi imprecò in silenzio quando lo starter stridette ma il motore non si avviò. Poi, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime di delusione, il motore si mise in moto. Tolse il freno e ingranò la marcia. Spinse l'acceleratore a tavoletta, e le ruote stridettero mentre la giardinetta balzava in avanti, ruotò poi si raddrizzò. Trascurò il vialetto di accesso, dirigendosi verso il cancello attraversando il prato e ritornando sul vialetto quando era ancora a quarantacinque metri dalla recinzione. Dette un'occhiata allo specchietto retrovisore, e dietro di lei vide Martin Ames che agitava freneticamente la mano cercando di attirare l'attenzione dei custodi. Ma erano tutti attorno a una massa quasi informe distesa al suolo vicino alla recinzione, e quando sollevarono lo sguardo lei aveva già quasi raggiunto il cancello. Quando urtò contro il cancello l'auto procedeva a più di sessanta chilometri l'ora, e solo all'ultimo istante, quando fu certa che la macchina non avrebbe urtato i montanti da nessuno dei due lati piegò la testa per ripararsi nel caso in cui il parabrezza fosse andato in frantumi. Sentì l'urto mentre l'auto cozzava contro il metallo. Perse un po' di velocità, poi il cancello cedette e l'auto accelerò di nuovo. Il parabrezza aveva tenuto, e Sharon guardò di nuovo davanti a sé. Aveva ancora il piede a tavoletta sull'acceleratore, e il tachimetro saliva rapidamente. Quando arrivò alla strada principale frenò, poi voltò a destra, verso le montagne, e premette ancora al massimo sull'acceleratore. La macchina, con Mark chinato sul sedile posteriore, si allontanò velocemente da Silverdale verso le colline pedemontane delle Montagne Rocciose. 26 Dick Kennally era in piedi e guardava fuori della grande finestra panoramica della sala da pranzo del Rocky Mountain High verso le montagne
che sorgevano maestose a est. La sala era silenziosa, e lui sentiva su di sé gli occhi delle tre persone che gli stavano alle spalle, sentiva che lo osservavano e aspettavano che dicesse qualche cosa. Staccò gli occhi dalle montagne e scrutò i vasti prati e i campi da gioco entro i limiti della recinzione che circondava la proprietà. Sembravano calmi e tranquilli, e non c'era davvero traccia della strage che aveva visto quando, due ore prima, era arrivato al centro sportivo. Era rimasto sgomento allo spettacolo che l'aveva accolto: il cadavere di Blake Tanner ancora sospeso alla recinzione, con le dita bloccate tra le maglie della rete, il corpo che penzolava floscio e una pozza di sangue che si allargava sotto i suoi piedi. A una novantina di metri da lui, sempre lungo la recinzione, un altro cadavere accartocciato al suolo, crivellato di pallottole ma non più morto di Tanner. Ames gli aveva detto che quei resti erano appartenuti un tempo a Randy Stevens, e mentre un'ondata di nausea aveva minacciato di travolgerlo Kennally aveva considerato impossibile l'affermazione. Qualunque cosa fosse distesa al suolo, di certo non era mai stato un essere umano. Ma poi aveva visto Jeff LaConner, e lentamente aveva cominciato a capire che cosa era successo in realtà al centro sportivo. Per quasi un'ora aveva messo da parte le emozioni e aveva portato a termine le formalità burocratiche. Erano state scattate delle foto, che, adesso ne era sicuro, sarebbero state distrutte, e i cadaveri erano stati portati in un locale del sotterraneo: luogo di cui non conosceva l'esistenza, con la sua stanza di isolamento con le gabbie, le spoglie pareti rivestite di piastrelle bianche, i lettini di duro metallo. Il lavoro era stato fatto dalle quattro guardie della TarrenTech, perché anche in preda allo choc iniziale aveva capito istintivamente che era meglio non chiamare i suoi uomini. Il vialetto d'accesso e il prato erano stati lavati, come pure la recinzione, e perciò guardando dalla finestra non vedeva nessuna traccia della strage. Ed era sicuro che la stessa cosa sarebbe stata fatta nell'ufficio di Ames. Entro la mattina del giorno dopo le stanze sarebbero state riverniciate, il tappeto e la porta sarebbero stati sostituiti e la scrivania di Marjorie Jackson, o una sua copia esatta, sarebbe stata messa nell'ufficio esterno, con Marjorie stessa a proteggere di nuovo l'intimità del suo datore di lavoro. Fuori, sulla strada che portava alle montagne, una squadra degli uomini di sicurezza della TarrenTech aveva istituito un blocco stradale. Era a circa un chilometro e mezzo di distanza, in corrispondenza di una curva, invisibile a chiunque arrivasse dalla città, sebbene fosse improbabile che quel
giorno qualcuno si dirigesse da quella parte. La strada portava solo a un campo da sci a poco più di dieci chilometri, e non c'era nessuna regione perché qualcuno andasse lassù almeno per altre due o tre settimane. Ma se Sharon Tanner avesse cercato di scendere il blocco le avrebbe sbarrato la strada. Non che sarebbe scesa... Kennally ne era certo. No, lui e una squadra della TarrenTech avrebbero dovuto darle la caccia, a lei e a suo figlio. Dar loro la caccia come a degli animali. E allora sarebbe finita. Jerry Harris gliel'aveva già spiegato. Ci sarebbe stato un altro incidente, ma questa volta avrebbe avuto luogo lontano de Silverdale. C'erano moltissimi testimoni di quello che era successo a scuola la mattina... una buona metà degli studenti aveva visto Mark che veniva portato via con la camicia di forza. La storia era semplice. I suoi genitori avevano deciso di portarlo all'ospedale statale di Canon City, ma mentre guidavano attraverso le montagne era successo un incidente. In qualche modo Blake aveva perso il controllo della macchina sulla serpeggiante strada di montagna... forse era stata proprio colpa di Mark, forse il ragazzo aveva avuto uno di quegli improvvisi scoppi d'ira che l'avevano tormentato il giorno prima e aveva assalito il padre. Ma il fatto era che aveva perso il controllo della macchina, che era uscita di strada ed era precipitata in uno dei profondi canyon al di sotto, incendiandosi. Ci sarebbero anche stati dei cadaveri, forse bruciati in modo da essere irriconoscibili, ma pur sempre dei corpi che avrebbero potuto venire sepolti a Silverdale. Si sarebbero pronunciati degli elogi funebri, si sarebbero sparse delle lacrime. E la vita avrebbe continuato come prima. Se Dick Kennally avesse accettato di seguire il piano. Harris aveva spiegato qual era l'alternativa, e anche in quel momento, mentre guardava il tranquillo pomeriggio autunnale, Kennally rabbrividiva a pensarci. Se fosse trapelato quello che era successo a Silverdale tutta la città sarebbe stata rovinata. Perché quasi tutti, in un modo o nell'altro, si erano lasciati coinvolgere nel progetto della TarrenTech che aveva come base il Rocky Mountain High. Forse non coinvolti attivamente, forse nemmeno coinvolti consciamente, eppure ugualmente colpevoli. Per alcuni di loro, e Dick Kennally sapeva al di là di ogni dubbio di essere uno di quelli, il
coinvolgimento era stato attivo. Era stato lui a consegnare a Marty Ames Jeff LaConner, quella notte di poche settimane prima; era stato lui che negli anni aveva cominciato a prendere un numero sempre maggiore di ordini direttamente da Jerry Harris. Era stato lui che aveva presentato sulla morte di Andrew MacCallum un rapporto che non aveva lasciato nessuna possibilità di conclusioni diverse dal verdetto di 'morte accidentale' che il coroner aveva reso noto solo poche ore prima. Anche Phil Collins era stato coinvolto attivamente, collaborando con Ames e Harris in ogni occasione, facendo quello che gli veniva chiesto per mantenere il programma costantemente alimentato con dei soggetti adatti. Forse non aveva saputo esattamente quello che stava succedendo, ma doveva certamente avere capito che i risultati che otteneva Ames non potevano derivare soltanto dalla ginnastica e dalla dieta. E quindi anche Collins era direttamente colpevole. Kennally non riusciva nemmeno a cominciare a contare quante persone erano state coinvolte negli anni, quanti dei ragazzi che avevano giocato nelle squadre di Silverdale avevano avuto il corpo modificato e rimodellato dalle alchimie biologiche di Martin Ames. Di certo un mucchio. E tutta la città, in beata ignoranza, aveva accettato senza fare domande, perché il progetto aveva portato prosperità e fama. Ogni anno arrivavano a Silverdale gli scopritori di talenti perfino dai college più importanti, desiderosi di scegliere tra i ragazzi di Silverdale, grandi e grossi e che giocavano duro, i ragazzi cresciuti nell'aria pura e nel salubre clima delle Montagne Rocciose. E nel laboratorio di Martin Ames. Se tutto ciò fosse trapelato naturalmente la TarrenTech sarebbe stata rovinata, insieme a Silverdale. Quanti di loro sarebbero finiti in prigione? Quanti di loro sarebbero perfino sopravvissuti, se si scopriva che avevano fatto degli esperimenti sulle vite umane? Il nome di Silverdale sarebbe stato ancora famoso, ma Dick Kennally rabbrividì rendendosi conto di quale sarebbe stata quella fama da quel momento in poi. E nessuno di loro sarebbe mai stato in grado di dimenticare. «In realtà non c'è altra scelta, vero?» sentì che chiedeva Jerry Harris. Infine si voltò e li guardò. Jerry Harris e Marty Ames lo fissavano con
occhi duri. Perfino Marjorie Jackson, con il viso pallido e le mani strette nervosamente in grembo, lo osservava con aspettazione. Infine giunse all'inevitabile decisione. «Va bene», disse. «Ma la ragazzina? Kelly, si chiama, vero?» Improvvisamente la tensione nella stanza svanì. Marge Jackson, sospirando di sollievo, si alzò e si avvicinò a una grande caffettiera che stava su una credenza, si versò una tazza di caffè, poi ne versò un'altra per il suo capo. «Naturalmente ci prenderemo cura di lei», rispose Harris. «Dio sa che niente di quello che è successo è stata colpa sua.» Diede un'acuta occhiata a Kennally. «E i tuoi uomini?» chiese. Kennally scosse la testa. «Li terremo completamente fuori di tutto. Nessuno tranne Collins e me deve sapere esattamente quello che è successo qui.» Guardò Harris negli occhi. «Quindi avrà bisogno di qualcuno dei vostri uomini per la squadra di ricerca.» Harris annuì bruscamente. «Quanti?» Kennally alzò le spalle. «Non più di mezza dozzina. Userò Mitzi per scovarli, ma non credo che andranno lontano.» Di nuovo i suoi occhi vagarono sulle montagne. «Il fatto è che scommetto che sono semplicemente seduti nella macchina di sua moglie ad aspettare che arriviamo.» Una volta presa la decisione, si sfregò vivacemente le mani, ansioso di cominciare. Più presto finiva, più presto avrebbe potuto cominciare a dimenticare che fosse mai successo. Kelly Tanner era stata irrequieta tutto il giorno, dimenandosi nel banco senza quasi ascoltare il professore. Non capiva bene che cosa non andasse, ma mentre il giorno passava e sembrava che l'orologio non andasse avanti per niente era diventata sempre più nervosa, finché non sentì che non stava più nella pelle. Ma finalmente suonò la campana e lei scivolò fuori dal banco e si affrettò verso la porta per essere la prima a uscire. Erica Mason, che Kelly aveva già deciso sarebbe stata la sua migliore amica, la raggiunse nell'atrio. «Vuoi venire a casa mia?» chiese. «Mia mamma ha detto che potevamo fare i biscotti, oggi pomeriggio, se ne avevamo voglia.» Kelly scosse la testa. «Credo che sarà meglio che vada a casa.» Erica fece un'espressione di disappunto, ma poi si illuminò. «Potrei venire con te», suggerì. «Forse i biscotti ce li lascerà fare la tua di mamma.»
Ma Kelly scosse la testa. A casa c'era qualcosa che non andava, ma non sapeva esattamente che cosa. Tutto quello che sapeva era che c'era qualche cosa che non andava in Mark e che i suoi genitori avevano litigato per quello la maggior parte della sera prima. E poi la mattina sua madre non era nemmeno scesa per la colazione, cosa che succedeva soltanto se era malata. Ma suo padre non aveva detto che era malata... in realtà non aveva detto niente. Ma aveva continuato a guardare Mark, e questi era uscito per andare a scuola prima del solito, e anche lui non aveva quasi parlato. E per tutto il giorno lei aveva avuto una di quelle sensazioni che aveva qualche volta. Non era niente che potesse riconoscere molto chiaramente... solo una strana tensione alla bocca dello stomaco, e l'idea che stesse per succedere qualche cosa di brutto. E tutte le volte che provava quella sensazione aveva una giornata di irrequietezza. Ma non ne aveva mai avuto una brutta come quel giorno. «Devo proprio andare a casa», mormorò. «Ho da fare.» Si voltò e lasciando Erica nell'atrio uscì in fretta nel cortile della scuola. Si fermò per infilarsi il giubbotto, poi si mise a tracolla la cartella e si avviò verso casa. Un quarto d'ora dopo voltò in Telluride Drive e vide casa sua a metà dell'isolato, dall'altra parte della strada. Smise di camminare e la fissò. Anche se aveva l'aspetto di sempre, quel pomeriggio aveva qualche cosa di diverso. Anche dal punto in cui si trovava sembrava per così dire vuota. Camminando più piano, con la strana sensazione di nausea alla bocca dello stomaco che peggiorava a ogni istante, continuò verso la casa, poi si fermò di nuovo quando le si trovò esattamente di fronte. Improvvisamente desiderò di essere andata da Erica, dopo tutto, o di averla fatta venire con sé. Mentre, in piedi sul marciapiede, fissava la casa venne colta da una sensazione di solitudine. Ma era sciocco, si disse. Non era una bambina, ed era tornata a casa un sacco di volte senza trovare nessuno. E aveva sempre trovato un biglietto, fissato allo sportello del frigorifero con una calamità, che le diceva dov'era andata sua madre e a che ora sarebbe tornata a casa. Ma prima, naturalmente, c'era Chivas, che le faceva un sacco di compagnia. Quel giorno il cane non ci sarebbe stato.
Si mise a piangere, ma asciugò risolutamente le lacrime con la manica del giubbotto. Infine attraversò la strada strascicando i piedi e risalì il sentiero fino alla porta anteriore. La sensazione che la casa fosse vuota diventò ancora più forte. Fece per infilarsi una mano in tasca per prendere la sua chiave, ma una vocina le disse di provare a girare la maniglia. La porta era aperta. Aggrottando la fronte la spalancò. Di solito quando la porta era aperta sua madre era in casa. Ma la casa dava ancora quella strana sensazione di vuoto. «M-mamma?» chiamò entrando nell ' ingresso e lasciando aperta la porta alle sue spalle. «Sono io! C'è nessuno in casa?» La sua voce rimbombò nell'ingresso, e quando non vi fu risposta la vaga sensazione di ansia aumentò. Se a casa non c'era nessuno, come mai la porta non era chiusa a chiave? Si disse che a Silverdale nessuno chiudeva mai la porta a chiave, ma sapeva che i suoi lo facevano sempre. Andò in cucina e lasciò cadere la cartella sulla tavola, poi cercò un biglietto sul frigorifero. Niente. Il suo primo impulso fu di telefonare a suo padre al lavoro e di chiedergli dov'era la madre, ma decise di non farlo. Doveva chiamare il padre solo se c'era una reale situazione di emergenza, come la casa in fiamme, qualcuno che stava male o qualche cosa del genere. Il fatto che sua madre non avesse lasciato nessun biglietto non significava che ci fosse in realtà qualche cosa che non andava. Aprì il frigorifero e ne passò in rassegna il contenuto mentre cercava di decidere se voleva mangiare qualche cosa, poi lo richiuse rendendosi conto di non avere affatto fame. Arricciando le labbra si avvicinò alla porta posteriore, scostò le tendine e guardò nel cortile di dietro. E vide che c'era davvero qualche cosa che non andava. Lo sportello della conigliera era spalancato, ma all'interno i conigli erano tutti raccolti in un mucchio. Era strano, perché tutte le volte che ne avevano l'occasione i conigli cercavano sempre di fuggire dalla gabbia, scivolando attraverso lo sportello quando qualcuno lo apriva. Ricordò di nuovo Chivas, e un brivido le percorse la schiena. Quando aprì la porta posteriore e uscì di nuovo nel freddo pomeriggio
rabbrividì. Chiuse fino al mento la lampo del giubbotto, ma non servì a niente, perché mentre attraversava il prato dirigendosi verso la conigliera le sembrò che tutto il suo corpo si raffreddasse. Kelly stava in piedi, in silenzio, con le lacrime che le scorrevano sul viso mentre fissava i corpi inanimati dei conigli, quando sentì che una mano le toccava una spalla. Trasalì per il tocco inaspettato, poi guardò in su aspettandosi di vedere la madre. Quando riconobbe Elaine Harris e vide l'espressione tesa che aveva sul volto capì che c'era davvero qualche cosa di tremendamente brutto. «Ti devo parlare, Kelly», disse Elaine riconducendo con delicatezza la ragazzina verso la casa. Kelly camminò impassibile, con i piedi che le sembravano di piombo, sicura di sapere già quello che la signora Harris stava per dirle. Ascoltò in silenzio mentre Elaine Harris le spiegava lentamente che i suoi genitori e suo fratello erano morti. Kelly tenne gli occhi, spalancati e imperturbabili, fissi su Elaine, e lottò per controllare le lacrime che minacciavano di sopraffarla. «È stato un incidente terribile», finì Elaine, ripetendo le parole che il marito le aveva detto poco prima, parole che non aveva nessun motivo di mettere in dubbio. Abbracciò Kelly e cercò di stringerla a sé, ma la bambina si irrigidì. «Non sappiamo che cosa sia successo, e non sono sicura se lo scopriremo mai. Ma la tua mamma e il tuo papà stavano cercando di aiutare tuo fratello. Stava... be', stava male e lo portavano all'ospedale.» Infine Kelly venne scossa da un singhiozzo e crollò tra le braccia di Elaine. Per un po' la donna tacque, ma tenne semplicemente Kelly stretta contro di sé, e anche i suoi occhi si riempirono di lacrime mentre sentiva che la ragazzina si rendeva conto di quello che era successo. «Andrà tutto bene», assicurò a Kelly. «Zio Jerry ed io ci prenderemo cura di te e non dovrai mai preoccuparti di niente.» Tenne stretta Kelly per un altro istante, poi si liberò delicatamente dalla ragazzina e la condusse vero la porta. «Andremo a casa nostra e torneremo a prendere la tua roba più tardi. Va bene?» Kelly, come inebetita, annuì in silenzio mentre Elaine la guidava attraverso la casa e fuori dal portone. Ma poi si fermò e tirò la mano di Elaine finché questa non smise di camminare. Kelly si voltò e guardò la casa. Capì nell'intimo che non avrebbe mai più rivisto i suoi famigliali.
L'immagine della casa cominciò a girare vorticosamente, mentre gli occhi le si riempivano di nuovo di lacrime. Poi si voltò un'altra volta. Sharon respirava forte e tutto il suo corpo era un fascio di muscoli doloranti, ma continuò ad arrancare. Sul sentiero, davanti a lei, Mark sembrava instancabile: avanzava a grandi passi e ogni tanto si fermava ad aspettare che lei lo raggiungesse. Anche quando lei non ce la faceva più ad andare avanti e doveva sedersi qualche minuto per riprendere fiato lui continuava a muoversi lungo il sentiero o lo abbandonava per cercare un punto da cui si potesse vedere la valle. Ogni volta che trovava una posizione simile si fermava a guardare come un animale spaventato, con gli occhi che scrutavano il terreno al di sotto, cercando i segni degli inseguitori che, entrambi se ne rendevano conto, dovevano dar loro la caccia. Quando, parecchie ore prima, erano improvvisamente arrivati alla fine della strada, dove non c'era altro che un grande parcheggio all'inizio di uno ski lift, Sharon si era sentita mancare il cuore. Avrebbe dovuto prendere la direzione opposta, attraversare velocemente Silverdale e dirigersi verso il fondovalle. Erano in trappola. Per un istante ebbe la tentazione di invertire il senso di marcia dell'auto, ma era sembrato che Mark le avesse letto il pensiero. «Non possiamo tornare indietro», le aveva detto. «Avranno bloccato la strada, e non riusciremmo mai a passare.» «Be', non possiamo neanche rimanere qui», aveva risposto Sharon, ma Mark era già sceso dalla macchina e aveva fissato le montagne. «Lassù», aveva detto infine. «Dovremo andare a piedi.» Aveva cominciato a frugare nel portabagagli della giardinetta, ma l'unica cosa che aveva trovato che avrebbe potuto essere di qualche utilità era stata una logora coperta che sembrava essere stata usata per molti anni solo per venire stesa in terra durante i picnic. Consunta e sottile, piena di fili d'erba e frammenti di foglie, avrebbe offerto ben scarsa protezione dal freddo della notte, ma era meglio di niente. Si erano messi in cammino con la coperta infilata sotto il braccio di Mark. Per i primi chilometri avevano avanzato rapidamente, ma a mano a mano che salivano costantemente Sharon aveva cominciato a stancarsi. Mark invece aveva sentito che il suo corpo cominciava rapidamente a reagire all'esercizio fisico. Sembrava che le sue gambe avessero preso un proprio ritmo, e mentre saliva il ripido sentiero il suo corpo aveva cominciato a sudare mentre il suo organismo lottava per mantenere in equilibrio
la temperatura corporea. Infine aveva sentito che le ultime tracce del male di testa se ne andavano e aveva continuato ad avanzare respirando profondamente. Quando sua madre aveva gridato che doveva riposare un po' si era voltato senza riflettere. Per un istante, mentre l'aveva guardata in viso, si era sentito invadere dalla rabbia ormai ben nota, ma l'aveva combattuta, ripetendosi più volte che non era reale, che era solo qualche cosa che Ames aveva introdotto in lui, un condizionamento pavloviano come quello di un cane che produce saliva al suono di un campanello. Infine, con il passare delle ore, aveva scoperto di essere in grado di controllare completamente la rabbia. Era ancora lì, che covava dentro di lui, ma non aveva più il timore che avrebbe potuto cercare di colpire la madre in qualsiasi momento, o di serrarle le sue forti dita attorno alla gola e cominciare a stringere. Il sole stava tramontando quando aveva individuato la squadra di ricerca. Non aveva capito quanti fossero, ma procedevano velocemente, salendo lungo il sentiero che stavano seguendo lui e Sharon, e per un momento si era chiesto come potevano essere tanto sicuri che quello fosse il sentiero giusto. Poi aveva intravisto il cane, un grande pastore tedesco, che tirava con forza il guinzaglio mentre avanzava con il naso vicino al terreno. «Oh, mio Dio», aveva esclamato Sharon quando le aveva detto del cane. «Che cosa faremo?» «Continueremo a camminare», le aveva risposto Mark con voce risoluta. «Non ci metteremo semplicemente a sedere ad aspettarli.» E così avevano continuato ad andare avanti. L'oscurità si strinse attorno a loro, e quando arrivò la notte si alzò un vento freddo che si introduceva negli abiti e gelava la pelle. Mentre il vento penetrava nel suo leggero giubbotto Sharon si sentì rabbrividire, ma sembrava che Mark, con le gambe che si muovevano con energia apparentemente inesauribile, quasi non se ne accorgesse. Poi, mentre il crepuscolo si trasformava in notte nera come la pece, Sharon incespicò e sentì un'acuta fitta di dolore mentre la sua caviglia si storceva. Gridò forte e si accasciò a terra, sfregando con precauzione l'articolazione lesa. «Mark?» chiamò. «Mark!» Lui si voltò, poi ridiscese in fretta lungo il sentiero e le si accovacciò accanto. Prendendo delicatamente la caviglia tra le grosse dita cercò di massaggiarla. Sharon trasalì, in parte per il dolore, in parte per la vista delle sue mani deformate e per la strana sensazione della sua ruvida pelle contro
la propria carne. Infine, con Mark che la sorreggeva, si alzò in piedi e provò a caricare il suo peso sulla gamba che le pulsava. Riusciva a camminare, ma zoppicava pesantemente. Senza parlare Mark le si mise accanto e le passò un braccio attorno alla vita, poi ricominciò a salire il sentiero, in parte sostenendola, in parte portandola. Dopo un'ora Sharon non poté più procedere. Si trovavano sul fianco di una collina, e il sentiero serpeggiava attraverso un dedalo di enormi massi. Mark lasciò Sharon dove si era fermata e andò avanti per qualche metro perlustrando la zona. Infine trovò un masso con una grande sporgenza, con un altro sasso più piccolo a poca distanza. Tra i due massi c'era abbastanza spazio per fornire a entrambi un po' di riparo dal vento. Ma anche mentre vi conduceva Sharon sapeva che le rocce non potevano proteggerli dal cane che li inseguiva. E il cane avrebbe portato con sé gli uomini. «Non possiamo sfuggirgli, vero?» disse infine Sharon dopo che erano rimasti seduti per parecchi minuti. Aveva la coperta avvolta intorno alle spalle, e la gamba ferita stesa dinnanzi a sé. Aveva voglia di piangere, ma non avrebbe ceduto a quell'impulso. «No-non so», rispose Mark dopo qualche istante. «A meno che non trovi il modo di ammazzare il cane.» Lo disse in modo tanto realistico che Sharon rabbrividì. Poi ricordò la strage che aveva visto al centro sportivo e si indurì contro la debolezza delle proprie emozioni. Mark aveva ucciso un cane, una volta, e l'avrebbe fatto ancora? E allora? In confronto a quello che aveva fatto Ames... «Come?» chiese. «Come potresti fare?» Mark scosse la testa. «Non posso, a meno che non lo lascino andare. Ma non lo scioglieranno.» Poi rimasero in silenzio. Dopo un po' cominciarono a sentire il cane che abbaiava mentre saliva il sentiero al di sotto. In principio non fu che un debole rumore in lontananza, ma si avvicinò costantemente. Anche se cominciava a sentirsi invadere dalla paura Sharon non riuscì ad alzarsi, non riuscì a costringere il proprio corpo a rispondere alla necessità di allontanarsi. Mark, come se capisse, le rimase seduto accanto, apparentemente rassegnato a qualsiasi cosa potesse succedere. Il cane era ormai vicino e abbaiava; sentivano anche la voce degli uomini che gridavano gli uni agli altri e vedevano tremolare il raggio delle torce
che cercavano di illuminare il sentiero davanti a loro. Poi, come sentendo di stare avvicinandosi alla preda, il cane smise di abbaiare. Un istante dopo una voce squillò nell'oscurità, amplificata da un megafono. «È tutto a posto, signora Tanner. Siamo la pattuglia della polizia di stato. È tutto finito. Può scendere.» Sharon si immobilizzò. Era davvero possibile? Ma come? E poi si sentì di nuovo la voce. «Siamo qui per aiutarla, signora Tanner. Oggi pomeriggio suo marito ci ha chiamati, quando al centro sportivo non gli hanno permesso di parlare con lei. È tutto finito, signora Tanner. Li abbiamo presi tutti.» Blake! Blake l'aveva creduta, finalmente, e aveva chiamato la polizia! Quasi piangendo per il sollievo si alzò faticosamente in piedi, ma la mano di Mark le si chiuse attorno al polso. «Stanno mentendo, mamma», sussurrò. «È solo un trucco!» «No!» gemette Sharon. «È tutto a posto... andrà tutto bene!» Nell'oscurità non poteva vedere il viso di Mark, ma sentì che la sua mano le stringeva più forte il polso. Parlò di nuovo, sforzandosi di mantenere calma la voce. «Mark, e anche se fosse un trucco? Non possiamo scappare. Io non credo di poter fare più di qualche passo. Quindi lasciami andare, tesoro, per favore. Se non è un trucco è tutto a posto. E se lo è, be'...» Si interruppe per un istante, poi continuò. «Se è un trabocchetto avrai il tempo di scappare da solo. Se non devi portare me non riusciranno a raggiungerti.» Fece una pausa, e poté quasi sentire la sua indecisione... «Va bene?» mormorò. Sentì che la stretta di Mark sul suo polso si allentava, ma poi la strinse a sé. «Ti voglio bene, mamma», sussurrò. «Non importa quello che succederà, ti voglio bene.» Allora lo baciò, sfiorando con le labbra la sua bocca contorta, e con le dita seguì la linea della sua fronte sporgente. «Ti voglio bene anch'io», sussurrò. Poi, con la caviglia che minacciava di cedere sotto di lei, avanzò fino al sentiero. «Sono... sono qui», gridò, e istantaneamente la notte fu piena di luci, tutte puntate su di lei. Fece un passo avanti. E le rivoltelle cominciarono a sparare. La notte venne lacerata dai colpi e Sharon cadde a terra, morta ancora prima di toccare il suolo.
Delle pallottole rimbalzarono contro i massi, ronzando come calabroni infuriati mentre attraversavano la notte. Il rumore degli spari echeggiò più volte nelle montagne, ma ancora prima che svanisse Mark balzò fuori dal suo rifugio dietro il masso, scivolò in uno stretto varco tra altri due sassi e cominciò a salire sulla montagna, infilandosi tra alcune rocce e scavalcandone altre. «Liberate la cagna!» sentì una voce gridare alle sue spalle. «Lasciatela andare, maledizione!» Poi la notte si riempì di nuovo dei latrati della bestia che si precipitava verso di lui, senza più seguire il suo odore, orizzontandosi facilmente con il rumore che faceva mentre si arrampicava sul fianco della montagna. Anche gli uomini stavano arrivando, facendo del loro meglio per non rimanere indietro, ma non erano affatto veloci come Mark o la cagna, e in meno di un minuto era già parecchio avanti a loro. Improvvisamente Mark sentì un ringhio furioso alle sue spalle e si voltò proprio mentre il grosso pastore tedesco gli balzava contro. Lo prese a mezz'aria, afferrandolo per la gola, tenendo a debita distanza dal viso le sue mascelle che si aprivano per azzannarlo. Non perse tempo a ucciderlo strangolandolo, perché in quel momento sapeva perfettamente quello che stava facendo. O uccideva la cagna o lei l'avrebbe ucciso. Serrando la gola dell'animale con le dita, lo sollevò sopra la testa e lo sbatté con forza contro un masso. Si sentì un acuto schianto mentre la schiena della cagna si fratturava contro il masso, e l'animale si afflosciò. Lasciandolo cadere immediatamente si voltò e sfrecciò via di nuovo nell'oscurità, al sicuro. Sapeva che senza il cane gli uomini non potevano sperare nemmeno di seguirlo, per non parlare di raggiungerlo. Ispirò profondamente l'aria della notte, e i suoi polmoni si riempirono di profumi che non aveva mai sentito prima, di tutti gli odori sottili a cui il naso dell'uomo non può reagire ma che guidano gli animali nella notte. Poi uscì dal dedalo di massi e si trovò su un prato in lieve pendio, punteggiato da pini e boschetti di pioppi. Allora attraversò correndo la notte, con le gambe che riprendevano un ritmo costante che gli sembrò potesse durare per sempre. Cominciò a salire sulla montagna, su verso le vaste estensioni di foreste e di prati dove poteva quasi sentire l'odore sublime della vera libertà che solo un animale selvatico può percepire...
27 Dal giorno del funerale in cui avevano seppellito i suoi famigliali erano passate quasi due settimane. Da allora tutte le mattine in cui si era svegliata, completamente disorientata nell'ambiente poco familiare della cameretta accanto a quella di Linda in cui gli Harris l'avevano sistemata dal giorno in cui erano morti i suoi, Kelly Tanner sentiva che il suo cuscino era umido e capiva di avere pianto. Ma quella mattina, un sabato, Kelly capì dov'era nel momento stesso in cui si svegliò. E la federa era asciutta, e questo voleva dire che quella notte Kelly non aveva pianto affatto. O almeno non abbastanza da bagnare il cuscino. Rimase a letto per qualche minuto, ascoltando i rumori nella casa degli Harris. In realtà non erano molto diversi da quelli della propria la mattina, e se chiudeva gli occhi e si concentrava intensamente riusciva quasi a immaginare che niente fosse cambiato, di essere di nuovo nella sua camera in Telluride Drive. Il rumore della doccia significava che suo padre era già alzato, e quello dei tegami in cucina che sua madre stava facendo le frittelle. Poteva perfino immaginare che i tonfi che provenivano da più in giù nel corridoio venissero dalla camera di Mark; che stesse facendo ginnastica come aveva ripreso a fare un mese prima. Ma non era Mark, e non erano i suoi genitori. Erano solo gli Harris, e anche se capiva che cercavano di essere molto gentili con lei, in qualche angolo della mente aveva sempre la sensazione che in realtà a loro non importasse niente di lei, che pensassero di dover essere gentili con lei perché adesso era orfana. Orfana. Meditò a lungo su quella parola, continuò a esaminarla finché all'improvviso non ebbe più alcun significato. Era un gioco che a volte faceva da sola: prendere la più semplice delle parole e ripeterla ancora, ancora e ancora, finché invece di avere un senso non diventava nient'altro che un suono. Quella mattina, per la prima volta fu in grado di pensare al funerale senza piangere. Non sapeva se era stato come gli altri, perché prima di allora non ne aveva mai visti. Non c'era molta gente, la cerimonia era stata abbastanza breve, e mentre stava seduta nel banco in prima fila della chiesetta, ad ascoltare un uomo che non aveva mai visto prima parlare dei suoi fami-
gliali - sapeva che non li aveva mai conosciuti, e quindi come poteva parlare di loro? - aveva cercato di convincersi che nelle tre bare allineate di fronte all'altare c'erano proprio suo padre, sua madre e suo fratello. Ma i coperchi delle bare erano chiusi e nessuno le aveva lasciato vedere i cadaveri, e per lei era stato difficile accettare che tutto quello fosse reale. In effetti, quando a un certo momento aveva sentito aprirsi la porta della chiesa si era voltata indietro, quasi aspettandosi di vedere Mark camminare verso di lei lungo il passaggio centrale. Ma non era lui. Era solo un altro estraneo, e si era voltata di nuovo verso l'altare. E poi, quando erano andati nel piccolo cimitero dietro la chiesa, mentre mettevano nella fossa la bara di Mark aveva avuto una sensazione stranissima. Non è lì! Quel pensiero le era venuto in mente dal nulla. Aveva cercato di dirsi che era assurdo, che se Mark non fosse stato nella bara non l'avrebbero seppellita. Ma quel pensiero le era rimasto. Parecchie volte dopo il funerale, non era sicura di quante fossero state, si era svegliata nel cuore della notte con il ricordo di un sogno vivido nella mente. Era come se anche lei fosse nella tomba, e Mark era insieme a lei, ed entrambi picchiavano contro le pareti della bara, ma nessuno li sentiva. Sapevano di essere sotto terra e che non sarebbero riusciti a liberarsi, ma non erano morti. Ricordava di avere pianto, in quelle notti. Le altre notti doveva aver fatto altri sogni che l'avevano fatta piangere, ma non li ricordava. Solo uno in cui Mark lottava per fare uscire entrambi dalla terribile prigione della bara. Quando si era svegliata e si era resa conto di non essere affatto in una bara aveva capito che anche Mark non c'era. Sentì che le lacrime minacciavano di sopraffarla, e scacciò quel pensiero dalla mente, decisa a non rimettersi a piangere. Si alzò e si vestì, tirando fuori dal cassetto del comò che avevano portato lì dalla casa di Telluride Drive un paio di jeans puliti. Poi si mise una delle vecchie camicie di flanella di Mark, con sopra un maglione. Le piaceva sentire sulla pelle la camicia di Mark, anche se era troppo grande per lei, e anche se era stata lavata la settimana prima immaginò di sentirvi ancora l'odore di Mark. Quando l'aveva addosso si sentiva vicina a lui.
Mentre usciva dalla stanza decise dove sarebbe andata quella mattina. Sarebbe andata a trovare i suoi genitori. Quando Kelly comparve e si sedette in silenzio al suo posto vicino a Linda gli Harris stavano già facendo colazione. La signora Harris, che non era ancora riuscita a chiamare zia Elaine, anche se lei le aveva detto che doveva chiamarla così, la stava guardando. Infine le sorrise gentilmente. «Hai dormito bene, Kelly?» Lei annuì, poi tornò a guardare la pila di frittelle che aveva nel piatto. Non aveva molta fame, in realtà, ma ricordò che sua madre le diceva sempre che non era educato non mangiare quello che ti veniva messo davanti. Cominciò a infilarsi in bocca le pesanti frittelle. Venti minuti dopo, quando il piatto fu vuoto, Kelly alzò gli occhi timidamente. «Posso alzarmi?» chiese. «Certo», le rispose Elaine. Scese in fretta dalla sedia e tornò in camera sua, dove frugò nell'ultimo cassetto del comò finché non ebbe trovato il salvadanaio in cui aveva tenuto la sua paglietta fin da quando poteva ricordare. Aprì il fondo della cassettina di ottone e tirò fuori cinque dollari. Non sapeva quanto costassero i fiori, ma le sembrò che cinque dollari fossero sufficienti. Tornò a nascondere il salvadanaio, si infilò il giubbotto e poi andò silenziosamente alla porta sul davanti. L'aveva appena aperta quando sentì una voce alle sue spalle. «Dove vai, Kelly?» Era Linda, e Kelly la guardò timidamente. «Al... al cimitero», ammise, e si senti arrossire. «Volevo andare a trovare i miei.» Linda le sorrise. «Posso venire con te?» Kelly esitò, poi annui. «Va bene.» Mezz'ora dopo, entrate nel piccolo cimitero dietro la chiesa, si avvicinarono lentamente alle tre tombe allineate una vicina all'altra, con un'unica grande lastra di marmo a segnarne la posizione. Kelly aveva in mano due rose rosse. Dal fioraio, quando le aveva comperate, Linda aveva chiesto se non gliene occorrevano tre, ma Kelly aveva scosso la testa e l'altra ragazza, aggrottando pensierosamente le sopracciglia, non aveva detto niente. Quando furono davanti alle tombe Linda guardò Kelly mettere con cura una rosa sulla tomba di sua madre e l'altra su quella di suo padre. Solo quando la ragazzina si rialzò Linda parlò. «Perché non ne hai presa una per Mark?» chiese.
Per parecchi secondi Kelly tacque, poi aggrottò pensosamente le sopracciglia. «P-perché non è qui», rispose con voce appena udibile. Linda si sentì mancare il cuore e venir meno il respiro. «Non è qui?» ripeté. Kelly scosse la testa. «Non è morto», disse. Spostò gli occhi verso le montagne a est. «Credo che sia lassù», disse. «Credo che sia lassù e che un giorno ritornerà.» I suoi occhi incontrarono quelli di Linda, e in loro c'era uno sguardo supplicante che le fece venire voglia di piangere. «Se fosse veramente morto lo capirei, vero? Voglio dire, non lo sentirei, come lo sento per la mamma e per il papà?» Linda annuì lentamente. «Ma non lo sento», disse Kelly. «Invece sento che Mark non è affatto morto.» Fu Linda a tacere per qualche istante. Infine allungò una mano e prese quella di Kelly. «Capisco», disse mentre uscivano lentamente dal cimitero. «Anch'io ho la stessa sensazione.» Sorrise di nuovo a Kelly e le strizzò l'occhio. «Ma non lo diremo a nessuno, vero? Sarà il nostro piccolo segreto.» Kelly non parlò, ma strinse la mano di Linda. In quel momento non si sentiva più così sola al mondo. «E se non fosse morto?» chiese Phil Collins. Si trovava nell'appartamento di Marty Ames al centro sportivo, e anche se nel caminetto risplendeva allegramente un fuoco il suo calore non era servito a disperdere il gelo che Collins sentiva tutte le volte che gettava un'occhiata fuori dall'enorme finestra panoramica che guardava verso le montagne. Il pensiero che Mark Tanner potesse essere ancora vivo da qualche parte lassù l'aveva perseguitato dal momento in cui gli uomini di Jerry Harris avevano rinunciato a continuare le ricerche, due giorni dopo la sua scomparsa. Ma in quel momento Marty Ames lo guardò sdegnosamente, e Collins sentì la puntura dell'evidente disprezzo del dottore. «Quante volte devo spiegarlo?» chiese Ames in tono condiscendente, come quello che avrebbe potuto usare con un bambino. «Quando è fuggito stava già morendo. Tutto il suo organismo era squilibrato... gli ormoni della crescita, la ghiandola surrenale, tutto quanto. Hai visto che cosa sembrava quando l'abbiamo portato qui. Era già mezzo pazzo. L'unico modo in cui siamo riusciti a tenerlo sotto controllo è stato somministrandogli mas-
sicce dosi di barbiturici.» «Che non hanno funzionato», gli ricordò Collins con voce pungente. «Va bene, ammetto che non avremmo dovuto farcelo scappare», rispose Ames. «Fatto sta che ci è sfuggito, e anche che è morto! Cristo, Collins... era malato, stava diventando pazzo e poi non sapeva assolutamente niente delle tecniche di sopravvivenza. Credi veramente che avrebbe potuto sopravvivere lassù?.» Fece un cenno verso le montagne, e come per sottolineare le sue parole fuori ululò una folata di vento che fece sbattere le persiane e piegare i pini. «Penso di no», acconsentì con riluttanza Collins. Ogni giorno era più corto del precedente. Anche se erano solo le sei, fuori era quasi buio. Ma in quel periodo le montagne, lo sapeva, erano già coperte di neve, e la mattina presto aveva visto alcuni sciatori che risalivano la valle verso lo ski lift, desiderosi di essere i primi a raggiungere i pendii quell'anno. Quello che gli aveva detto Ames aveva un senso. «Eppure mi piacerebbe che ne fossimo certi.» «Non lo saremo mai», gli disse Ames alzandosi in piedi in un ovvio gesto di congedo. Collins bevve l'ultimo sorso del bicchiere di bourbon doppio che aveva in mano, poi si alzò a fatica dalla poltrona e si avviò vero la porta, vicino alla quale, a un gancio di ottone fissato sulla parete, era appeso il suo pesante giaccone di panno da cacciatore. Infilandoselo a fatica guardò con circospezione Ames. «E gli altri ragazzi?» chiese. «Che aspetto hanno?» Ames gli fece un gelido sorriso. «Se vuoi dire se ce ne sono degli altri che stanno per ammalarsi la risposta è no», rispose freddamente. «Se vuoi dire se ce ne saranno degli altri che staranno male, ovviamente non posso dirtelo. Lo sai in che cosa consistono gli esperimenti: scoprire quello che succederà.» Tenne la porta aperta per Collins, e quando l'allenatore lasciò l'appartamento al primo piano per dirigersi verso le scale Ames disse ancora qualcosa, con un tono sarcastico nella voce. «Non hai paura di andare a casa da solo al buio, vero, Collins? Non si sa mai quello che può scendere dalle colline, no?» Collins lo ignorò, e scendendo con passo pesante l'ampia scala uscì dalla costruzione. Camminò con passo veloce verso il cancello principale, dove erano state messe delle guardie ventiquattr'ore al giorno, e mentre lo attraversava fece un cenno di saluto al custode. Mentre procedeva per il vialetto di accesso verso la strada principale e si accingeva a compiere gli ottocento metri che lo separavano dalla sua casa ai bordi orientali della città si
trovò ad accelerare il passo e a desiderare di aver preso la macchina invece di aver deciso che andare a piedi gli avrebbe fatto bene. Cinque minuti dopo che Collins era uscito dal suo ufficio Marty Ames diede un'occhiata all'orologio, trasalì vedendo che era tardi, poi alzò le spalle con indifferenza: se Jerry Harris non voleva aspettarlo erano affari suoi. Dopo tutto, adesso Ames era in posizione privilegiata, almeno per quanto riguardava la TarrenTech. Avevano nascosto tante magagne, si erano lasciati coinvolgere tanto profondamente nelle ricerche di Ames che non sarebbero mai riusciti a uscirne. D'ora in avanti Jerry Harris, e anche Ted Thornton, avrebbero fatto esattamente quello che Marty Ames avrebbe detto loro. Mentre usciva dal fabbricato e si sedeva al volante di una delle giardinette con la scritta ROCKY MOUNTAIN HIGH sul fianco, sorrise tra sé. In effetti lui era l'uomo che sapeva troppo, ed era quello che sapeva, unito alla sua genialità, che rendeva inattaccabile la sua posizione nella TarrenTech. Attraversò il cancello sollevando un unico dito dal volante come segno di riconoscimento della presenza del custode, poi premette l'acceleratore, con tutto il corpo che reagiva alla spinta del motore della macchina. Stava ancora accelerando quando, un minuto dopo, superò Phil Collins. Se anche notò l'allenatore, Ames non si degnò di salutarlo, per non parlare di offrirgli un passaggio. Dieci minuti dopo era già nella patte occidentale di Silverdale e si dirigeva in fretta verso la TarrenTech. Era concentrato solo in parte sulla strada, perché la maggior parte della sua attenzione, come sempre, era dedicata alle sue ricerche. La settimana seguente sarebbe arrivata a Silverdale una nuova famiglia, e quella mattina Ames aveva trovato sulla sua scrivania la cartella clinica del figlio. La sua mente era già all'opera a pensare alla cura per il ragazzo e a come avrebbe potuto evitare i fallimenti cui era andato incontro con Mark Tanner, Jeff LaConner e Randy Stevens. Quando i fari della giardinetta illuminarono la figura stranamente grande e goffa in mezzo alla strada, a poco meno di cento metri, Ames non la vide nemmeno. E quando la scorse, un paio di secondi dopo, il suo primo pensiero fu che doveva essere un cervo, perché tutto quello che riuscì a vedere in realtà al bagliore dei fari fu il vivace riflesso di due occhi che risplendevano nella massa scura.
Occhi grandi, da animale. Poi, mentre la macchina si avvicinava velocemente, Ames si rese conto che non era affatto un cervo. Era un genere di creatura completamente diverso. Una creatura plasmata da lui. Rimase senza fiato a fissare Mark Tanner. Non era possibile... il ragazzo avrebbe dovuto essere morto... avrebbe dovuto essere morto almeno da una settimana! Le mani di Ames si irrigidirono sul volante mentre lui fissava pietrificato la creatura che sembrava ipnotizzata dal bagliore dei fari. L'auto era ormai a pochi metri da Mark quando Ames si rese improvvisamente conto che il ragazzo non si sarebbe scostato dalla traiettoria dell'automezzo che si avvicinava velocemente, che avrebbe semplicemente fissato in silenzio i fari finché la macchina non l'avrebbe raggiunto e schiacciato. Ames stava per uccidere la sua creazione. All'ultimo istante capì che non poteva farlo. Tolse il piede destro dall'acceleratore e pigiò con forza sul freno, nello stesso tempo sterzando violentemente verso destra. Le gomme stridettero rabbiosamente mentre perdevano l'attrito con il selciato e la giardinetta uscì di strada, superò il basso fossato oltre il bordo e sbatté il muso contro un masso dall'altra parte. Marty Ames provò una strana sensazione di sorpresa mentre il telaio della giardinetta si accartocciava per l'urto e il gruppo motore si spostava all'indietro, spingendogli contro il petto il volante e i resti fracassati del cruscotto. Nello stesso istante in cui il volante gli urtava il petto, la testa di Ames si spostò in avanti spezzandogli il collo e frantumando il parabrezza. Morì ancora prima che fosse scomparso il breve istante di sorpresa. Mark Tanner fissò con curiosità il relitto della macchina, poi si accovacciò al suolo. I suoi occhi, gli occhi guardinghi e astuti di un animale, rimasero fissi sui resti della giardinetta mentre le si avvicinava strisciando. Si fermò a poca distanza, annusando cautamente l'aria, poi allungò una mano e toccò il metallo contorto dello sportello dalla parte del guidatore, attaccato alla carrozzeria da un'unica cerniera spezzata. Il metallo era freddo sotto la sua mano. Spostò il dito e toccò il collo dell'uomo dentro la macchina. Anche se la sua faccia era coperta di sangue e del tutto irriconoscibile,
Mark capì chi era. Per un istante sentì l'impulso di strappare Martin Ames dai rottami della macchina e di squarciarne il corpo brano a brano, lasciandone i resti dovunque cadessero. Ma quell'impulso passò e lui si voltò e scomparve silenziosamente nella notte. Si era alzato il vento, e Phil Collins si tirò il bavero sul collo e strinse le spalle, resistendo all'impulso di voltarsi e guardare verso le montagne che si ergevano attorno a lui. Arrivato all'angolo di Aspen Street girò a destra. Si fermò un istante e gli si accapponò la pelle, perché ebbe l'inquietante sensazione di essere osservato. Si voltò, riparandosi gli occhi contro il bagliore del lampione che gli risplendeva sopra la testa, senza vedere nulla nella notte nera come la pece; solo una silenziosa oscurità che sembrava serrarglisi attorno, un'immobilità soffocante, stranamente ostile. Si disse che quella sensazione era il frutto della sua immaginazione, ma di nuovo affrettò il passo. Avvicinandosi a casa sua vide che era buia e provò un fuggevole momento di incertezza mentre cercò di ricordare se aveva acceso la luce della veranda oppure no. Ma naturalmente non l'aveva accesa: quand'era uscito, un paio d'ore prima, era ancora giorno pieno. Fece i gradini della veranda anteriore in due grandi balzi, poi allungò una mano verso la cornice sotto la grondaia per prendere la chiave che lasciava sempre in quella posizione. Un istante dopo entrava in casa e cercava a tastoni l'interruttore. La plafoniera si accese, scacciando l'oscurità dal soggiorno. Collins esitò. C'era qualche cosa che non andava. Il suo grande pastore tedesco, che immancabilmente lo aspettava vicino alla porta, non si vedeva da nessuna parte. «Sparks?» chiese, «dove sei, ragazzo?» Sentì un breve latrato, seguito da un impaziente uggiolio, ma il cane non comparve. Aggrottando profondamente la fronte e con uno strano formicolio lungo la schiena, Collins attraversò il soggiorno e andò nella piccola cucina. Sparks era accucciato vicino alla porta della cantina, con il muso premuto contro la fessura tra la porta e il pavimento. Quando Collins entrò nella
stanza alzò gli occhi e dimenò la coda, ma continuo ad annusare impazientemente lo spiraglio sotto la porta. Collins si accigliò ancora di più. Non poteva esserci nessuno, laggiù. Aveva addestrato lui stesso Sparks a fare il cane da guardia, e sapeva che l'animale non avrebbe lasciato entrare in casa nessuno senza il suo permesso. I suoi vicini si erano lamentati della ferocia del cane, ma lui aveva completamente ignorato le loro lagnanze. «Che cosa c'è, ragazzo?» chiese. «Che cosa c'è che non va?» L'animale si alzò sulle zampe, scodinzolando la coda, e grattò impazientemente la porta chiusa. «Okay», disse Collins aprendo la porta. «Va' giù a prenderlo, qualunque cosa sia.» Il cane scese velocemente la ripida rampa di scale e scomparve nel buio. Collins aspettò un istante, in ascolto. Sentiva il pastore che uggiolava entusiasticamente, ma nessun altro rumore. Infine allungò una mano verso l'interruttore vicino alla porta e l'azionò. Non successe niente. Imprecando a bassa voce Collins frugò nel primo cassetto vicino al lavello e trovò una pila tascabile. Le batterie erano deboli, ma quando premette l'interruttore la pila mandò un lieve bagliore. Da un altro cassetto prese un grande coltello da macellaio. Con la pila nella sinistra e il coltello nella destra cominciò a scendere la scala. Quando arrivò in fondo si fermò al buio un istante, ad ascoltare. Sentiva Sparks, sulla destra, che emetteva quegli entusiastici uggiolii che faceva sempre quando lo grattava dietro le orecchie. Ma perché? Lì non c'era nessuno, non poteva esserci qualcuno. Diresse la pila verso il rumore e improvvisamente si immobilizzò. Due occhi risplendevano stranamente, riflettendo la luce. Non gli occhi di un animale. Ma neanche quelli di un uomo. Erano qualche cosa d'altro, qualche cosa che Phil Collins non aveva mai visto prima. E mentre li fissava un gelido brivido di terrore scese lentamente lungo la sua spina dorsale. Fece un passo avanti, stringendo più forte il coltello tra le dita. Sapeva che doveva colpire per primo, che doveva affondare la lama nella creatura che si trovava nella sua cantina prima che essa potesse attaccar-
lo. Doveva ucciderla mentre era ancora accecata dal bagliore della pila. Poi, senza nessun preavviso, si sentì un ululato repentino e Sparks gli balzò contro dall'oscurità. Per la sorpresa Collins lasciò cadere il coltello sul pavimento. Sollevò le braccia perproteggersi dall'animale, ma era troppo tardi. Le fauci di Sparks si chiusero sulla sua gola, e lui sentì i denti affilati come un rasoio lacerargli la carne, sentì che la trachea veniva forata, poi senti un fiotto caldo e appiccicoso mentre le zanne dell'animale gli laceravano la giugulare. Cadde in ginocchio. Tastandosi freneticamente intorno per cercare il coltello un grido gli eruppe dalla gola, ma era già troppo tardi, perché le sue corde vocali avevano ceduto al furioso attacco del cane e l'arma era lontana dalla sua portata. Cadde sul fianco, lungo disteso sul pavimento, poi si voltò, con il viso contro il cemento. Sparks, ringhiando furiosamente, lacerò il corpo caduto, strappando grandi pezzi di carne e gettandoli da una parte per poi rinnovare l'attacco. Infine una strana voce gutturale disse qualche cosa nel buio, e fu tutto finito. Il cane si fermò, uggiolò una volta sola, poi si voltò e salì la scala. Mark Tanner aspettò un istante, poi scavalcò il corpo dell'allenatore di football e seguì il cane su per la scala. Sparks lo aspettava vicino alla porta posteriore. I due scivolarono insieme nella notte e si allontanarono silenziosamente dalla città, verso le colline pedemontane al di sopra della valle. Mark non aveva idea di che ora fosse quando arrivò alla grotta a più di quindici chilometri di distanza dalla valle. Qualche giorno prima aveva perso la nozione del tempo, e ormai si rendeva conto solo del giorno e della notte. Di giorno dormiva, rannicchiato in fondo alla grotta che aveva scoperto il terzo giorno passato tra le montagne, dopo avere alimentato con cura il piccolo fuoco che non lasciava mai estinguere del tutto, in modo che quando si svegliava, proprio prima del tramonto, e cominciava a prepararsi per la caccia notturna avrebbe avuto ancora qualche brace. I suoi occhi erano cambiati rapidamente, e ormai la luce del sole quasi lo accecava. Ma di notte le sue grandi pupille raccoglievano qualsiasi traccia di luce, e riusciva a vederci chiaramente; riusciva a osservare i gufi e i pipistrelli che volavano nell'oscurità, a vedere le altre creature della notte che si muovevano strisciando in costante ricerca di cibo.
Adesso era anche lui uno dei cacciatori, e anche se nei primi giorni era vissuto con poco più dell'acqua del ruscello e qualche fungo che si era arrischiato ad assaggiare, stava rapidamente passando a una dieta carnivora. Aveva catturato il primo coniglio il quarto giorno, e quando si era imbattuto nell'animaletto questo era sciancato, quasi morto. L'aveva scuoiato alla bell'e meglio con un coltello rotto che aveva trovato in un terreno per campeggio vuoto, poi l'aveva cotto su uno spiedo sul fuoco che aveva passato ore a cercare di accendere il giorno prima, quando aveva scoperto la grotta. Per un po' aveva temuto che qualcuno potesse vedere il fumo del fuoco e venire a cercarlo, ma non lasciava mai che la fiamma diventasse troppo alta, e il fumo non era più di un debole filo che si disperdeva rapidamente nel vento che soffiava di continuo tra le montagne. Quasi ogni notte si era sentito attirato verso le colline che sovrastavano Silverdale. Quella notte sera aveva capito che sarebbe sceso fino alla cittadina quasi nel momento stesso in cui era uscito dalla caverna. Non aveva impiegato molto tempo a fare la strada, perché il suo corpo si era irrobustito ed era in grado di camminare senza stancarsi per tutta la notte. Lungo la strada verso la valletta in cui si trovava la città si era fermato due volte, la prima solo per pochi minuti. Aveva sentito un rumore in un cespuglio e si era fermato ad ascoltare. Ma quando l'aveva sentito di nuovo aveva capito che era solo il fruscio di un topo e aveva continuato. Pochi chilometri dopo aveva sentito l'odore di un coniglio e si era immediatamente fermato, con le narici che annusavano il vento. Dopo pochi minuti aveva individuato il coniglio, che brucava una chiazza di erba secca vicino a un gruppo di pioppi. L'aveva seguito furtivamente, con infinita pazienza, tenendosi sottovento alla creatura, finché non si era trovato a pochi metri di distanza. Quando infine gli era balzato addosso l'animaletto non aveva nemmeno avuto il tempo di reagire. Aveva semplicemente smesso di mangiare e aveva drizzato le orecchie prima che le mani di Mark gli si stringessero attorno alla gola e lo uccidessero con un rapido strattone che gli spezzò il collo. Aveva infilato il coniglio sotto il pezzo di corda che aveva trovato da qualche parte e che gli serviva come cintura, e aveva continuato la strada. Mark era quasi certo che le creature che uccideva non sentissero assolutamente nulla, come era certo che Martin Ames non avesse sentito niente quando la sua macchina era andata fuori strada un po' di tempo prima. Era stato strano guardare la macchina che si avvicinava e sapere che non
si sarebbe scostato dalla sua traiettoria. Era stata un'esperienza strana fissare i fari, esserne accecato, sentirsi per la prima volta davvero come l'animale selvatico che era diventato. E quando si era soffermato per un attimo a guardare il corpo di Martin Ames si era reso conto di nuovo di quanto fosse cambiato. Perché mentre fissava il cadavere dell'uomo che gli aveva tolto la vita stessa non aveva provato niente. Né rabbia, né rimorso. Eppure anche allora aveva capito che sebbene una parte di sé fosse ormai selvatica, c'era in lui un'altra parte che era ancora umana e lo sarebbe stata sempre. Quando era arrivato in vista della cittadina si era seduto per un po' a fissarla, dimentico del freddo. Capiva che c'erano delle cose di cui aveva bisogno, delle cose che non aveva trovato scavando nei terreni di campeggio o nella discarica che aveva scoperto a più di sessanta chilometri di distanza, ai bordi di un'altra cittadina. Avrebbe potuto rubare dovunque, ma sapeva che non l'avrebbe fatto. Era Silverdale che l'aveva reso quello che era diventato, e quindi sarebbe stata Silverdale a fornirgli ciò di cui aveva bisogno. E solo certe persone di Silverdale. Aveva capito che la casa di Collins era vuota fin dal primo momento in cui l'aveva vista. L'istinto gli aveva detto che per lui sarebbe stato sicuro entrarvi. Anche quando il cane aveva cominciato ad abbaiare, prima che fosse riuscito a forzare la porta posteriore, non aveva avuto paura. L'istinto gli diceva che il cane non gli avrebbe fatto del male. E aveva avuto ragione, perché quando la porta aveva finalmente ceduto sotto la forza delle sue braccia il cane aveva smesso di colpo di abbaiare e aveva chinato la testa. Poi gli si era avvicinato, annusando curiosamente, e infine gli aveva leccato la mano, esitante. Mark gli aveva parlato nella strana semilingua che era tutto quello che gli permetteva ormai la sua mascella deformata, poi aveva allungato una mano per accarezzarlo. Mentre toccava il pelo dell'animale e gli sussurrava a bassa voce, il cane era diventato suo. Si era aggirato rapidamente per la casa, prendendo solo le cose di cui aveva maggior bisogno: un paio di pesanti pantaloni di tela e una spessa camicia di flanella dall'armadio della camera da letto. In cantina aveva trovato una serie di tegami da campeggio e un coltello a serramanico.
Stava per andarsene quando aveva sentito la porta anteriore che si apriva e aveva salito rapidamente la scala per chiudere la porta della cantina. Avrebbe aspettato che la casa fosse ritornata silenziosa e poi sarebbe scivolato fuori. Ma il cane l'aveva tradito senza volerlo e poi, quando aveva riconosciuto la voce dell'uomo che era sceso per la scala pochi minuti dopo aveva sentito una fitta di paura che il cane aveva capito. Aveva lasciato che il cane uccidesse Collins... l'aveva capito. Avrebbe potuto fermarlo, ma non l'aveva fatto. Dopo che tutto era finito aveva trovato che gli ultimi resti della rabbia che l'aveva tormentato se n'erano andati, e che almeno una parte di quello che gli era stato fatto era finita. In lui non era rimasta più collera. Eppure anche mentre ritornava a lunghi balzi verso la grotta sapeva che quella notte sarebbe sceso a Silverdale un'altra volta. Ma non subito. Non fino a notte fonda, quando la luna sarebbe stata bassa sull'orizzonte e gli abitanti della cittadina sarebbero stati tutti addormentati. Kelly non sapeva che cosa l'avesse svegliata. Un attimo era profondamente addormentata, quello dopo era perfettamente sveglia, con tutti i senti tesi per l'aspettazione. Mark. Era lì, da qualche parte, molto vicino a lei. Scivolò giù dal letto, strisciò fino alla finestra e guardò fuori nell'oscurità. La luna era bassa, stava quasi per scomparire dietro la cresta delle montagne, e il cortile posteriore degli Harris era attraversato da profonde ombre. Anche se non riusciva a vedere niente poteva sentire che là fuori, nella notte, c'era qualche cosa. Si allontanò dalla finestra, uscì dalla camera ed entrò nella stanza accanto, quella di Linda. Anche Linda era completamente sveglia. «È qui», sussurrò Kelly. Attraversò la stanza di Linda fino alla finestra e scostò la tenda. Un istante dopo Linda la raggiunse mettendosi una vestaglia sulle spalle, e insieme scrutarono nell'oscurità che avvolgeva la casa. Fu come se un'ombra fosse scivolata sopra lo steccato: una presenza tanto silenziosa e quasi senza forma che per un istante nessuna delle due fu certa di avere visto qualche cosa. Poi, improvvisamente, un viso apparve alla fi-
nestra. Anche se era un volto disgustoso, una maschera contorta e grottesca che non era quasi più umana, né Linda né Kelly si ritrassero. Perché era il viso di Mark, e da sotto le folte sopracciglia erano i miti occhi di lui che le guardavano. Alzò una mano e toccò leggermente il vetro, e Linda capì immediatamente quello che voleva. Sbloccò la finestra e la fece scivolare silenziosamente verso l'alto. Per un lungo momento non successe assolutamente nulla, poi, con le dita contorte e nodose che tremavano, Mark toccò una guancia di Linda. Le dita dell'altra mano allontanarono delicatamente una ciocca di capelli dalla fronte di Kelly. Si sporse in avanti e fece scivolare le braccia attorno alle due ragazze, stringendole al petto. Dalla sua gola sali un lieve suono, quasi simile a un singhiozzo. Poi le lasciò andare e si voltò, sparendo nella notte silenziosamente e velocemente com'era venuto. Kelly e Linda rimasero a lungo dove si trovavano, senza che nessuna delle due parlasse. Finalmente Linda richiuse la finestra e riportò delicatamente a letto Kelly. «Ritornerà?» chiese Kelly mentre Linda le rimboccava le coperte. Linda si chinò e baciò la ragazzina sulla fronte. «Certo che ritornerà», le rispose. «Ritornerà sempre, perché ci vorrà sempre bene.» Kelly la fissò con le sopracciglia profondamente aggrottate. «E noi gli vorremo sempre bene?» chiese. Linda rimase in silenzio per un istante, poi annuì. «Perché dovremmo smettere di volergli bene?» chiese. «L'aspetto che ha, o quello che gli è successo non hanno importanza. È sempre Mark, e dentro non è diverso da quello che era.» Quella notte per la prima volta dopo il funerale sia Linda Harris sia Kelly Tanner dormirono sodo, senza essere disturbate da brutti sogni. Perché lontano, sul fianco di una collina, tra le montagne sopra la città, Mark Tanner vegliava su di loro e le proteggeva. FINE