Luigi Capogrossi Colognesi
CITTADINI E TERRITORIO Consolidamento e trasformazione della 'civitas Romana'
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Luigi Capogrossi Colognesi
CITTADINI E TERRITORIO Consolidamento e trasformazione della 'civitas Romana'
LA SAPIENZA EDITRICE ROMA
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Copyright © 2000 by Edizioni La Sapienza V.le Ippocrate, 158 - 00161 Roma - Tel. 06.44.52.786 Stampato nel mese di Maggio 2000 presso la Tipolitografia CIMER S.nx. Via M. Bragadin, 12 - 00136 Roma - Tel. 06.39.73.44.99
Luigi Capogrossi Colognesi
CITTADINI E TERRITORIO Consolidamento e trasformazione della 'civitas Romana'
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LA SAPIENZA EDITRICE ROMA
A norma della legge sul diritto d libro ο di parte di esso con qua' microfilms, registrazioni ο altre
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j 161 Roma - Tel. 06.44.67.034
Inverti et dixi 'dominae servabimus istos ' (Ον., Met., 13.837)
INDICE
CAPITOLO I
La formazione della città-stato come momento di separazione e di coagulo del tessuto sociale 1. Fusioni e processi di assorbimento individuali e collettivi alle origini della città-stato 2. L'assorbimento forzato delle comunità minori 3. La funzione delle leghe religiose 4. Il rafforzamento della 'pòlis' e la fine dei sinecismi 5. Religione e diritto nella protezione dello straniero 6. Le due forme di tutela dello straniero: la creazione di nuove norme e la assimilazione 7. 'Commercium' 8. 'Conubium' ... 9. I limiti della assimilazione
CAPITOLO Π
I Latini 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La lega latina e P'isopolitèia' 'Commercium' e 'conubium' tra i Latini Il nuovo assetto del 338 a.C La 'civitas sine suffragio' Le altre forme di «autonomia dipendente» Gli albori dell'ordinamento municipale e il valore unificante del diritto romano
vi
Indice Capitolo ΠΙ Alle origini dello Hus gentium'
■1. 2. 3. 4.
Una tutela per gli stranieri senza forme di assimilazione Il primo trattato tra Roma e Cartagine La condizione giuridica dei Romani in Cartagine ... e nell'ambito dei territori e delle popolazioni controllate da Cartagine 5. La condizione dei Cartaginesi in Roma e nelle città latine. ... 6. Il 'foedus Cassianum': alle origini dello cius commercii' ο un caso di istituti 'iuris gentium'?
103 106 112 117 119 123
CAPITOLO IV
/ / diritto romano e le città italiche sino alla guerra sociale e oltre 1. Le colonie latine 2. 'Prisci Latini' e latini coloniali: i limiti esterni dell'autonomia 3. Il diritto romano e l'ordinamento interno delle colonie latine e delle 'civitates sine suffragio' sino alla Mex Iulia de civitate'. ... 4. 'Fundus fieri' 5. Una pluralità di diritti 6. La differenziazione delle comunità dipendenti e gli statuti giuridici locali 7. La persistenza dei diritti locali nel sistema municipale e coloniario sino alla guerra sociale ed oltre 8. Diritti, lingue e giudici locali 9. Il cittadino romano e le 'due patrie'
127 134 140 148 154 162 168 174 178
CAPITOLO V
Alcuni problemi di storia romana arcaica: i agerpublicus\ (gentes'e clienti 1. Le 'gentes' e la loro terra
185
Indice 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
vii
La contesa intorno alP'ager publicus' L'esclusione della plebe La natura delP'ager publicus' arcaico L'episodio dei Claudi Il contenuto dell' 'ager' gentilizio I termini del problema Una ipotesi interpretativa
188 194 200 206 214 218 223
CAPITOLO VI
La città e la sua terra 1. La distribuzione romulea della terra 2. L' 'heredium' e le terre gentilizie 3. La primitiva agricoltura romana 4. La 'gens' e la 'civitas' 5. L"ager compascuus' 6. 'Pagi' gentilizi e tribù territoriali 7. Le tribù territoriali e F'ager publicus' 8. Le genti e le tribù 9. La leggenda dei Claudi e il territorio della tribù rustica lO.Guerre e territorio
: ....
229 232 236 239 242 245 248 252 255 259
CAPITOLO VII
'Ager publicus ' e 'ager gentilicius9 nella riflessione storiografica moderna 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Il punto di partenza Il modello niebuhriano Terre pubbliche e terre gentilizie Altre strade: la ricostruzione di Schwegler ... e quella di R. v. Jhering La 'Storia' mommseniana La storiografia del '900 Ai margini del recente dibattito
263 266 272 277 281 284 289 294
viii
Indice
9. La discussione attuale
296
CAPITOLO VHI
/ 'mores gentium9 e la formazione delle strutture cittadine 1. 2. 3. 4. 5.
I 'mores' gentilizi I 'sacra' gentilizi Un ordinamento gentilizio? 'Gentes' e 'pagi' Pietro de Francisci: un'eredità da sfruttare
Abbreviazioni di riviste ed enciclopedie Bibliografia
;
305 307 311 315 319 325 327
Prefazione Ho raccolto, in questo libro, due linee di ricerca portate avanti nel corso di molti anni, sia pure in modo affattoframmentarioe disordinato. La prima riguarda alcuni aspetti del, diciamo così, 'diritto internazionale privato' roma no, in età arcaica e sino alla tarda età repubblicana: il mio problema è essen zialmente quello della condizione reciproca di stranieri e cittadini rispetto alla sfera del diritto privato di Roma. I primi tre capitoli erano apparsi a grande distanza di tempo tra loro: il contenuto dell'attuale terzo capitolo risale infatti agli inizi degli anni '70 - la prima redazione era stata addirittura pubblicata negli Studi in onore di Edoardo Volterra, il rimpianto Maestro che proprio verso questi interessi mi aveva avviato —; mentre i primi due capitoli facevano parte di un' opera miscellanea assai più tarda(l). Il quarto capitolo è affatto inedito ed è frutto di una mia più recente riflessione su tali temi. Risale invece agli anni '80 il corpus centrale della seconda parte di que sto libro dedicata ad un tema apparentemente lontano e che parrebbe attene re piuttosto alla storia della proprietà romana: un altro filone centrale dei miei interessi. Si tratta dell'insieme abbastanza disordinato dei miei saggi dedica ti al problema dell'ager publicus arcaico e alle vicende patrizio-plebee sino alle leggi Licinie Sestie(2). Vi è un forte motivo che mi ha indotto a unire insieme temi apparente mente abbastanza lontani tra loro. Si tratta del problema centrale, ai miei occhi, della formazione dell'ordinamento giuridico statale romano: un tema a molte facce, in effetti, e di cui ho cercato di esplorare alcuni limitati aspet ti che attengono alla nebulosa zona di confine tra quello che potremmo chia mare il 'diritto pubblico' e la sfera del diritto privato. La mia tesi di fondo, in ordine a quello che chiamiamo Vager publicus romano tra la fine dell'età monarchica e i primi due secoli della Repubblica, è che le vicende ad esso relative attestano non solo un evidente conflitto sociale e politico tra le diverse componenti di una pòlis il cui definitivo asset(,)
Cfr. CAPOGROSSI, 1971, 171 ss., quanto al terzo capitolo; e CAPOGROSSI, 1994a, 3 ss., per ciò che riguarda i primi due. (2 'G!i attuali capp. V-VIII riproducono pressoché integralmente il testo dei saggi a suo tempo pubblicati, nell'ordine, in CAPOGROSSI, 1980,1988, e 1983, ora in CAPOGROSSI, 1994, capp. I-IV.
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Prefazione
to è legato anche alla soluzione di tale nodo. Esse parrebbero altresì eviden ziare il contrapporsi di quelli che potremmo chiamare addirittura due diversi diritti: uno, di stampo arcaico e 'precivico', per usare un linguaggio un po' datato, di cui sono portatrici e titolari le genti aristocratiche. L'altro proprio della civitas, pienamente consacrato come forma esclusiva della città dalle XII Tavole, nel pieno della crisi patrizio-plebea di V secolo. Con la traduzione delle antiche forme gentilizie e comunitarie di appro priazione delle terre agricole in termini di ager publicus, non si intaccavano solo le fondamenta economiche della supremazia politica del patriziato, ma si sradicava totalmente sbanco la memoria di un sistema di poteri di cui le gentes erano autonome titolari, indipendentemente dalla mediazione della città e del suo diritto. Un sistema di poteri che, pertanto, io ritengo irriducibile alla coppia 'pubblico-privato' e, conseguentemente alle due nozioni di terre in pro prietà privata ο di terre pubbliche: entrambe più tarde rispetto alla realtà delle terre gentilizie, e pertanto prodotte dal diritto cittadino e ad esso interne. Naturalmente non ho mancato di evidenziare la debolezza degli indizi a favore di un'interpretazione siffatta e la difficoltà di giungere, per problemi del genere, a ipotesi ricostruttive abbastanza sicure: difficoltà peraltro che vale anche per le interpretazioni correnti in argomento, in genere abbastanza lontane dalle mie. Si tratta insieme di una provocazione e di un tentativo di riflettere sulla preistoria dell'ordinamento privatistico romano: di come la sua affermazione dovesse necessariamente passare attraverso la dissoluzione e l'annullamento di forme, diciamo, di un predroit legato alle strutture preesi stenti alla civitas e dal cui sinecismo la civitas sarebbe sorta. In tal senso, nel corso del capitolo VII ho cercato di recuperare alla nostra consapevolezza alcuni aspetti più significativi di quanto già nella riflessione storiografica, soprattutto di quel glorioso XIX secolo, era emerso ο più chiaramente messo a fuoco. Il carattere fortemente ipotetico di questa parte del mio libro non è mai stato da me celato: esso tuttavia mi sembra tale da conservare tuttora almeno la legittimità del dubbio: le critiche avanzate in proposito, anche di recente, sono state debitamente da me ricordate e discusse. Più importante, decisa mente, là complessiva- riconsiderazione* di recente avanzata da Mantovani,
Prefazione
χι
sull'intero argomento0*. Ma, debbo dire, la prospettiva centrale del suo sag gio mi sembra investire altri obiettivi dai miei, pur destinati essi stessi a inci dere non marginalmente su questi ultimi(4). Per quanto concerne invece la prima parte del libro, com'è mia abitudi ne di vecchio bricoleur di idee e di frammenti di verità ricavate da quello straordinario patrimonio di sapere storico e di conoscenze che la nostra tra dizione di studi conserva, non ho fatto altro, ancora una volta, che aggirarmi in modo abbastanza disordinato neLrnuseo grande della memoria costruito con i libri di un sapere antico e sempre rinnovato. Non mi sembra che nulla, in queste pagine, possa considerarsi un apporto veramente nuovo, coinciden do con un'idea originale: ma non è questa un'annotazione umiliante per chi cerca semplicemente di essere il devoto custode della grande eredità che il passato ci ha trasmesso. E, d'altra parte, rispetto alla dimensione dei proble mi sfiorati ο presupposti ed all'imponenza di una tradizione storiografica che si arricchisce dei nomi più autorevoli dell'intera nostra tradizione di studi, da Mommsen, Beloch, De Sanctis, Steinwenter, Kornemann, Rosemberg, a Rudolph, Sherwin-White, Fraccaro, Schònbauer, Tibiletti, Sartori, Luzzatto, De Martino, Bernardi e Gabba, sino infine ai vasti e comprensivi lavori di Humbert e Luraschi, io sono ben consapevole, non tanto e non solo dell'ina deguatezza del mio contributo, ma dell'insufficiente capacità di cogliere i nessi significativi di un dibattito che coincide quasi con la storia stessa dei nostri studi. (3)
(4)
Cfr. MANTOVANI, 1997, 575
ss.
In effetti Mantovani mira soprattutto ariesaminarecriticamente le vecchie e fondamenta li ipotesi di Tibiletti suWager publicus arcaico circa l'esistenza di antichi costumi volti a regolare l'occupazione di tali terre nei limiti delle possibilità effettive di una loro coltivazione e della sua successiva modificazione con l'estensione di tali possessi commisurati ora alla sola spes colendi dell'occupante. Il saggio, molto articolato e insieme confortato dall'uso agguer rito di forti strumenti analitici, su più punti sfiora indubbiamente i nodi tematici da me affron tati. Non mi sembra tuttavia che le conclusioni complessive cui l'a. perviene siano di per sé incompatibili con la mia interpretazione. Al contrario, la radicale revisione dell'interpretazio ne proposta da Tibiletti del passo di Columella, re rust., 1.3.12, relativo all'episodio di Licinio Stolone potrebbe indirettamente rafforzare la mia stessa ricostruzione, permettendo (non necessitando, si badi) una cesura tra la realtà precedente e la disciplina introdotta nel 367 a.C: cfr. in particolare MANTOVANI, 1997, 588. Quanto alla successiva analisi ivi effettuata del con tenuto della lex Icilia de Aventino publicando (p. 592 ss.), la mancata discussione di tale testo evidenzia piuttosto una mia divergenza di fondo con l'amico e collega maior Feliciano Serrao, dal quale tuttavia lo stesso Mantovani dissente.
Prefazione
Xll
E tuttavia se mi sono avventurato in simile intrapresa è perché, anche qui, volevo meglio evidenziare, proprio rispetto all'immenso materiale sto riografico di cui disponiamo, un particolare aspetto del processo di romaniz zazione dell'Italia che attiene direttamente alle vicende del diritto romano. Un aspetto, coinè vedremo, solo echeggiato nelle fonti antiche e ripreso certo, ma assai più episodicamente e quasi marginalmente dai moderni di quanto non avrebbe meritato, anche per le sua grandi implicazioni teoriche. Sino a che punto la costruzione di una entità politica unitaria e sino a che punto lo spostamento della sovranità su popolazioni sempre più vaste e sulle varie comunità italiche ha comportato, insieme all'estensione dei vincoli di citta dinanza ο semicittadinanza ο dei rapporti federativi, l'espansione delle forme del diritto privato romano? Nel cercare di penetrare in questo terreno abbastanza poco battuto io mi sono mosso secondo le linee direttive tracciate già da tempo dai grandi stori ci del passato. Penso ad esempio a quel maestro italiano che segna tuttora, a più di mezzo secolo di distanza, un punto di riferimento irrinunciabile in que sto tipo di studi: Plinio Fraccaro. Per molti versi le mie pagine appaiono semplicemente lo svolgimento dei temi da lui individuati e secondo gli schemi di fondo delineati nel suo famoso saggio sull' Italia romana. Lì infatti, come si ricorderà, si ribaltava la prospet tiva che privilegiava una storia della crescita politica di Roma come fondata su un sistema federativo per sottolineare piuttosto quella primitiva tendenza immediata alla incorporazione delle comunità finitime che io ho richiamato nel corso del primo capitolo di questo libro. «Quando Roma si scosta da questa linea, lo fa - aggiunge Fraccaro - non in omaggio a primordiali concezioni federalistiche, ma per necessità insuperabili allo stato-città»(5>. È chiara la reazione alla vecchie idee ottocentesche e a quei modelli che autori come Freeman avevano a suo tempo proposto. Così come non meno netta e salutare è la reazione ad una interpretazione del sistema di alleanze romano-latino come un fatto 'prepolitico', scaturente dal profondo di una unità di stirpe assunta come fondamento di assetti politici e di relazioni giuridico-istituzionali. Si tratta di linee di pensiero tanto più forti in quanto, (5)
FRACCARO, 1933,
104.
Prefazione
χιπ
come al solito, il presente si rifletteva immediatamente sulla interpretazione del più lontano passato, in rappresentazioni di cui non sfugge la forte com ponente ideologica. Così lo ius Latii, di cui mi occupo nel corso dei capitoli II e IV del libro viene assumendo il suo effettivo significato di un risultato politico e di un'o perazione istituzionale realizzata nel tempo. Esso si associa alla storia di una alleanza, destinata progressivamente a definirsi in termini di un crescente squilibrio, come strumento egemonico di Roma, sino appunto alla conclusio ne del 338 a.C. in cui «la forma federativa subì... un inevitabile regresso» in concomitanza appunto con l'affermarsi di «una politica romana più ampia ed energica»(6), di cui vanno sottolineati due momenti essenziali: il sistema di fondazione delle colonie e l'assorbimento di molte comunità più vicine mediante la civitas sine suffragio. Estenderei a entrambe le forme quanto Fraccaro specificamente affermava per quest'ultima figura: rappresentare essa «una forma di dominio politico diretto su una comunità e il suo territo rio; (che) esclude sia la distruzione dei vinti, sia l'alleanza con essi e vi sosti tuisce la sudditanza»(7). Ciò nella sostanza, perché poi sappiamo che, ester namente, la colonia restava legata alla città fondatrice da un vincolo for male di carattere federativo. Si tratta, appunto del tema centrale di questa parte del mio libro, i cui risvolti privatistici sono affrontati soprattutto nel corso del IV capitolo. Tale capitolo è dedicato essenzialmente a sviscerare un problema che lo stesso Fraccaro aveva menzionato per queste comunità: riconoscendo come 'il diritto privato' dei cives sine suffragio fosse «assai oscuro», si cives Romanas uxores duxerint vel etiam Latinas peregrinale cum quibus conu bium habeant; cum enim conubium id efficiat, ut liberi patris condicionem sequantur, evenit, ut non <solum> cives Romani fiant, sed etiam in potestate patris sint [Egualmente sono nella nostra potestà i figli che abbiamo avuto da giuste nozze. Ciò che è un diritto particolare dei cit tadini romani. 56: (i cittadini romani hanno la patria potestà) se abbiano sposato cittadine romane ο latine ο straniere con cui esiste il conubium:, poiché il conubium ha per effetto che i figli seguano la condizione del padre, si ha che essi non solo siano cittadini romani, ma anche soggetti alla patria potestas]. E infine Gai. 1.64: ergo si quis nefarias atque incestas nuptias contraxerit (cioè matrimoni in assenza di reciproco conubium, secondo quanto definiti nel pre cedente § 55), neque uxorem habere videtur neque liberos; itaque hi qui ex eo coitu nascuntur, matrem quidem habere videntur, patrem vero non utique; nec ob id in potestate eius suntt quales sint hi quos mater vulgo concepii; nam et hipatrem habere non intelleguntur, cum is et incertus sit. [Se uno abbia contratto nozze empie ed incestuose, non sembra avere né moglie né figli; e così coloro che nascono da quel rapporto, risultano avere la madre, ma non il padre
60
Capitolo I
Più complessa è anche, come ho detto or ora, la applicazione, concreta del ius conubii, per due diversi ordini di motivi. Anzitutto perché, in linea generale, i meccanismi matrimoniali sono tra i più delicati e gelosamente esclusivi all'interno di ciascun ordinamento, proprio per la loro incidenza sociale affatto particolare. In secondo luogo perché il principio della recipro cità gioca in questo settore un ruolo ancora più singolare. Di ciò possiamo immediatamente renderci conto ove si approfondisca l'analisi delle conseguenze derivanti dal matrimonio tra uno straniero con conubium ed un Romano. Abbiamo dunque visto che, secondo la mia ipote si, un matrimonio siffatto dovrebbe essere disciplinato secondo le regole del l'ordinamento cui appartiene il marito e questo anzitutto a proposito dell'a spetto più importante del matrimonio stesso: la cittadinanza e la condizione della prole. Il matrimonio in questo caso segue una regola diversa dagli atti regola ti dal ius commercii cui si applica il diritto del luogo in cui sono avvenuti. D'altra parte anche se accogliamo l'idea che il matrimonio romano, sin dal l'età arcaica, si fondasse sul semplice consenso degli sposi, resta fermo che esso aveva inizio erisultavaalla coscienza comune attraverso un complesso rituale in cui aspetti religiosi coesistevano con elementi culturali e sociali. Si pone dunque un primo quesito: se il coniuge straniero potesse essere ammes so a tali riti ancestrali. Ma ancora più gravi sono i problemi in ordine alle conseguenze del matrimonio stesso. È infatti mia convinzione, malgrado l'esistenza di oppo ste, anche recenti valutazioni, che in origine sussistesse un organico rappor to tra matrimonio romano e manus. Se, come io credo, il matrimonio più anti co era matrimonio cum manu, essendo la coemptio e la confarreatio forme negoziali che, se non esse stesse costituivano il matrimonio, ne erano com-
e, per questo, non sono in potestà di lui, bensì sono come coloro che la madre concepì con rappori promiscui: anche costoro, infatti, non si ritiene che abbiano un padre, tanto più che è anche incerto]. (57) V. però PHILLIPSON, 1911,1, 241 s., con altra lett. Quanto alla disciplina del matrimonio cum marni ed alla efficacia degli atti a.ciò riferiti neirambito del diritto romano, confarreatio e coemptio, si eviterà per quanto possibile, in questa sede di addentrarci in una discussione adeguata dell'imponente letteratura che ha conosciuto, di recente, una nuova e feconda discus sione: v. per tutti PEPPE, 1997,127 ss.
La formazione della città-stato
61
ponente essenziale, occorre immaginare che la sposa straniera partecipasse a tali negozi solenni(57). Del resto, per quanto concerne la coemptio, costituendo essa una pecu liare forma di mancipatio, si rientra nei negozi solenni per aes et libram, cui si era già ammessi in virtù del commercium (e sicuramente chi aveva il conubium aveva anche il commercium, non viceversa: con il che, ovviamente, non voglio dire che si potesse effettuare la coemptio in virtù del ius commercii). Egualmente, ove tali atti non fossero intercorsi al momento iniziale del matri monio tra la sposa straniera e il Romano, ο fossero stati viziati, si potrebbe supporre che quest'ultimo egualmente acquisisca la manus sulla sposa col decorso dell'anno, mediante Vusus{5*\ Ma con la manus, noi sappiamo, il marito ο il di lui pater acquista anche la patria potestas sulla moglie che viene così a trovarsi loco filiae all'interno della famiglia del marito: di una famiglia romana(59).
(58)
Gai., 1.110-111: olim ìtaque tribus modis in manum conveniebant, usu, farreo, coemptione. 111 : usu in manum conveniebat quae anno continuo nupta perseverabat; quia enim veluti annua possessione usucapiebatur, ìnfamiliam viri transibat filiaque locum optine bai. ìtaque lege XII tabularum cautum est, ut si qua nollet eo modo in manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset atque eo modo usum cuiusque anni interrumperet. Sed hoc totum ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine oblitteratum est. [Un tempo le donne entravano in manum in tre modi: per uso, con la confarreatio, per compera. 111 : per uso-entra va in manum colei cherimanevamoglie per un anno ininterrotto: poiché infetti veniva usucapi ta come per annuo possesso, passava nella famiglia del marito e otteneva la condizione di figlia Perciò dalla legge delle XII tavole fu stabilito che, se una non volesse in tal modo entrare in manum del marito, ogni anno si allontanasse per tre notti, interrompendo così l'uso anno per anno. Ma tutto questo diritto, in parte è stato tolto di mezzo dalle leggi, in parte cancellato dalla desuetudine]. Questo è certamente il caso di tutte le vicende della Grecia 'classica'. Forse uno dei pochi esempi di organizzazione imperiale attuata con successo da parte di una struttura politica cit tadina è quella cartaginese: ma non a caso essa è stata precocemente individuata da Roma come direttamente a lei antagonistica.
I Latini
85
Anche qui l'aspetto più innovativo è rappresentato dal modo in cui Roma viene miscelando elementi già presenti nell'esperienza politica del mondo classico. Ho già accennato al sistema coloniario ed alle differenze strutturali e geografiche che avrebbero condizionato in modo diverso la vicenda romana da quella delle città greche. E tuttavia come non rilevare il carattere istituzionalmente differenziato di queste esperienze? Alle potenti e floride colonie greche dell'Italia meridionale e della Sicilia si contrappone il duplice schema di piccole unità politico-militari - presidi e sistemi fortifica ti in territorio potenzialmente ostile od ai confini del potere romano - di cit tadini romani e di più vasti centri di popolazione e di occupazione agricola del territorio conquistato: le colonie latine. Centri subalterni, privi di identità politica che non sia direttamente derivata da Roma e dal suo ordinamento, a partire dalla lex data che costituiva lo statuto stesso della nuova comunità. Ma, soprattutto, militarmente deboli e legati alla potenza romana proprio per la loro stessa sicurezza rispetto a popolazioni locali estranee e più ο meno pesantemente danneggiate dalla presenza stessa di queste nuove comunità coloniarie. Decisamente più innovativa appare invece la politica di trasformazione istituzionale di antichi alleati, di comunità lentamente assoggettate alla supre mazia romana attraverso vincoli di alleanza di natura sempre più squilibrata a favore di Roma ο immediatamente assoggettate marni militari al potere romano. L'introduzione dell'intera comunità alle pratiche legali romane con la civitas sine suffragio^ la meno frequente ma non meno significativa assi milazione piena della ditta straniera mediante la concessione della civitas optimo iure appaiono strumenti relativamente nuovi nell'esperienza dell'an tichità classica e costituiscono, nel corso della media età repubblicana, un meccanismo importante ai fini del rafforzamento politico-militare di Roma in vista della sua successiva trasformazione in grande potenza imperiale. In tal modo infatti si allargava la base di una piramide che non cessava di vedere, al vertice, un gruppo dirigente estremamente ristretto e attenta mente selezionato, mentre il corpo di coloro che effettivamente condiziona vano la vita politica della città non era così grandemente mutato come la più generale composizione dei partecipanti al diritto romano e degli stessi citta dini optimo iure. L'immutata forma della vita politica cittadina, la necessità
86
Capitolo II
di una partecipazione diretta dei cittadini ai Comizi, costituivano infatti un incisivo fattore frenante di fronte alla potenziali trasformazioni che il sistema municipale avrebbe potuto ingenerare. Quando infatti gli uomini delle cam pagne, i cittadini romani sparsi nella Penisola furono effettivamente chiama ti a partecipare ai comizi nel corso dei drammatici eventi scatenati dalla poli tica graccana, fu la stessa costruzione repubblicana ad entrare rapidamente e irreversibilmente in crisi con le forme stesse della democrazia diretta. Sotto il profilo dell'organizzazione politica e sociale il nuovo sistema presenta alcuni evidenti vantaggi. Anzitutto la sua elasticità: esso in teoria è moltiplicabile su vasta scala e in un ambito territoriale molto ampio, senza che ciò comporti la spoliazione di interi territori della loro popolazione con il suo spostamento nell'unico centro urbano che, nella fase precedente, si identificava con lo statuto di cittadini. Ora i centri abitativi si possono molti plicare senza che l'unità legale e politica venga messa in crisi. L'unica sostan ziale modifica sarà l'accrescimento del numero delle tribù territoriali nonché, in altri casi, l'incorporazione nelle tribù già esistenti delle aree territoriali e dei nuovi cittadini-proprietari così assorbiti all'interno della civitadX9\ Certo, vi era già un precedente in età anteriore: le colonie romane. Ma queste comportavano in generale una 'fuoriuscita' di cittadini già tali da Roma, con un relativo indebolimento demografico di questa. Anche in segui to, del resto, l'organico delle colonie romane resterà molto ristretto avendo esse essenzialmente la funzione di presidi politico militari, e non anche quel la di popolamento e di spostamento di popolazioni direttamente con finalità economico-sociali. Nel nostro caso, invece, ci troviamo di fronte alla ripresa della vecchia politica di assorbimento di nuovi venuti nell'organico cittadino con un più esteso controllo territoriale. Con il 338 a.C. questa soluzione appa re istituzionalizzata e trova nuove applicazioni: siamo agli inizi di un capito lo fondamentale nella costruzione del nuovo potere romano attraverso il gra duale disegnarsi di una entità politica che già trascende, nella sua sempre più complessa architettura, le forme 'classiche' della pòlis. Quelle forme che, ad es., una città come l'Atene di Pericle, giunta al suo massimo splendore e all'apogeo della sua potenza, tendeva a preservare con il consapevole conm
Su questi aspetti si rinvia soprattutto alle due classiche opere di Beloch e di Ross Taylor.
/ Latini
87
senso dei suoi stessi dirigenti. Ma che, appunto, segnano in modo netto il carattere così rapido nella parabola discendente della forza politica di tutte le . città del mondo greco.
4. La 'civitas sine suffragio9 Con i provvedimenti del 338 il Senato parrebbe avere introdotto una nuova figura di grande importanza e che ha costituito e costituisce uno dei temi centrali della riflessione storiografica moderna: la civitas sine suffragio. Questa infatti, insieme alle città gratificate della civitas optimo iure ed alle nuove colonie latine si pone alle origini dell'ordinamento municipale roma no. Eviteremo in questo contesto di impegnarci direttamente su questo tema su cui si sono venuti misurando, con approcci e angoli visuale sovente assai distanti, i migliori e più competenti tra i nostri studiosi di storia istituzionale e di storia politica. Ma su questo punto tornerò comunque nel corso dei suc cessivi capitoli. Vorrei tuttavia ricordare, a proposito della civitas sine suffragio conces sa ai Latini e agli Ernici anzitutto, e poi, dopo pochi anni, anche ad altre città dell'Italia centro-meridionale, le città volsche e poi le città campane, un fatto molto noto. Si tratta della prima menzione di tale figufa giuridica, relativa alla attribuzione che ne sarebbe stata fatta ai Ceriti, negli anni successivi all'ospitalità da loro fornita ai sacra e ai sacerdoti romani in occasione del l'incendio Gallico(20). Si discute sulla data precisa della concessione: se nel momento immediatamente successivo alle vicende galliche, nel 390, quando tuttavia Livio colloca invece la concessione ai Ceriti dell'hospitium publicum, se nel 353 ο in una data ancora intermedia tra questa e il 338 a.C.(21) E (20)
Si ν anzitutto SORDI, 1960. Sui possibili precedenti storici, risalenti sino all'incorpora
zione di Tuscolo, v. BELOCH, 1880, 120 e TÀUBLER, 1913, 22 s. (21) D'altra parte Liv., 7.20.8, non menziona per il 353 la civitas sine suffragio, ma colloca allora l'esistenza di un trattato con una tregua di cent'anni. Egli, in precedenza, aveva men zionato la concessione dell'hospitium publicum da parte di Romani ai Ceriti, come espressio ne della loro gratitudine per l'ospitalità offerta all'epoca dell'invasione gallica: cfr. Liv., 5.50.3. Sono in verità Strabone e Gellio a menzionare la civitas sine suffragio: Strab., 5.2.3; Geli., noct. Att, 16.13. Particolarmente importante quest'ultima testimonianza che ci ricondu-
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Capitolo II
si discute ancor più sul significato e il contenuto effettivo di tale concessio ne. Eviterò un dibattito siffatto che trascende sia i miei orizzonti che le mie forze, per concentrarmi su alcuni punti specifici. Il quadro in cui si colloca tale innovazione effettuata da Roma nei suoi rapporti internazionali è quello di una forte espansione in Italia centrale e verso PEtruria stessa. Caere, per quanti motivi di benevolenza abbia potuto vantare verso i Romani, è un comune etrusco molto esrjosto al Γ offensiva romana verso il nord: dopo la caduta di Veio non ci troviamo forse, con quel la città di mare, allo stesso parallelo della città così duramente guerreggiata e ora conquistata dai Romani? L'evoluzione dei rapporti tra le due città deve dunque anche interpretarsi alla luce delle linee generali della politica romana e della sua crescente pressione sui vicini. Certo questo rafforzato rapporto tra Roma e Cerveteri non poteva e non doveva sfociare in un processo di immediata assimilazione della minore: quello che chiamerei il 'modello Tuscolo' era una delle innovazioni rispetto ad una vecchia pratica del Γ incorporazione che non era mai stata esclusiva nel campo delle relazioni internazionali di Roma e della sua precoce politica di egemonia. D'altra parte è di grande importanza sottolineare in maniera ade guata il carattere particolare che, in origine, la concessione della civitas sine suffragio avrebbe potuto assumere rispetto alla natura nettamente bilaterale delle forme di reciproca concessione del commercium e del conubium ed alla totale 'unilateralità', diciamo così, dell'assorbimento di una comunità da parte di Roma mediante la di lei incorporazione nella piena cittadinanza romana. Ma prima di approfondire questa mia particolare interpretazione vorrei preliminarmente richiamarmi a quanto già la più avvertita storiografia è ce anch'essa esplicitamente all'incendio gallico (oltre e, ancor più per il valore ai fini di quel la storia dei municipia Romana che, tuttavia, esula dalla nostra visuale). Geli., noct. Att., 16.13.7: primos autem municipes sine suffraga iure Caerites esse factos accepimus concessumque illis, ut civitatis Romanae honorem quidem caperent sed negotiis tamen atque oneribus vacarentpro sacris bello Gallico receptis custoditisque. [Ci risulta che per primi sia stato concesso ai membri di Cerveteri di divenire cittadini di un municipio (avente la cittadinanza romana) senza diritto di voto e che essi ricevessero l'onore della cittadinanza romana ma che non fossero gravati degli inconvenienti e degli oneri a causa del fatto che, all'epoca della inva sione dei Galli essi avevano accolto i sacra (dei Romani)]. Si v. l'ampia discussione del pro blema e le indicazioni sulla letteratura precedente in SORDI, 1960, 37 ss., cui adde HUMBERT, 1978, 27 ss., 141 s., 164 s., 405 ss. V. anche infra, cap. IV, § 7 s.
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venuta mettendo a fuoco nel corso di questa metà del secolo circa l'intimi rapporto esistente tra la stessa cìvitas sine suffragio e il tipo di-integrazioni degli stranieri nell'ordinamento romano mediante la concessione del iti commercii e del ius conubii: in una linea di pensiero che va da Konopka < Sherwin-White a Sordi, da Torrent e Luzzatto a Tibiletti. In sostanza si tratti dell'idea che l'originario carattere di questo tipo di cittadinanza limitati costituisca un gradino intermedio tra comunità autonome alleate e la pieni incorporazione dell'una all'interno della sfera politica e giuridica dell'altra(22) Secondo questa linea interpretativa, insomma, il concreto sostanziarsi dell; cìvitas sine suffragio sarebbe divenuto effettivo solo con lo spostamento de semicittadino all'interno di Roma, come una cittadinanza romana soli 'potenziale'. In effetti, in sé, come annota Sherwin-White, risulta difficile «t< see any difference between the status of municipes enjoying the origina form of cìvitas sine suffragio and the status of Latins enjoying conubium commercium, and ius civitatis mutandae»{23\ Questa impostazione è stata di recente contestata da Michel Humber nel suo fondamentale lavoro sulla genesi e la configurazione del sistem; municipale romano e il significato della cìvitas sine suffragio. Richiamandos con forza al valore dell'hospitiumpublicum come diritto 'di residenza privi legiata', diritto in sostanza «de se fondre dans le corps des citoyens» di cu già godevano i Ceriti prima della concessione della cìvitas sine suffragio^ egli postulava che l'innovazione da ciò rappresentata corrispondesse ad un: diversità di contenuto che non poteva esaurirsi dunque in quello che i Cere tani avevano già prima rispetto a Roma, secondo un sistema di reciprocit evidenziato appunto dalla vicenda di quei Clavtie recepiti in ambito cerite(25 La considerazione dell'illustre collega parigino è valida: ma meno pei suasivo tuttavia è il suo conseguente tentativo di superare tutte le difficolt che le difformi indicazioni delle fonti presentano in ordine alla mera identifi (22) Di grande rilievo, in tal senso, la posizione di SORDI, che già ho avuto occasione di ricoi dare e che insiste particolarmente sul carattere onorario della concessione della cìvitas sin suffragio che lascerebbe intatta l'autonomia e la sovranità delle città così gratificate. Sugli ed delle tesi della Sordi si v. HUMBERT, 1978, 27 nt. 55.
™ SHERWIN-WHITE, 1973,46. ™ HUMBERT, 1978, p5)
140 s.
HUMBERT, 1978, 141 s. Cfr. anche sopra, cap. I, nt 29.
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cazione della civitas sine suffragio come semplice inserimento della nuova comunità all'interno della cittadinanza romana(26). E tuttavia su alcuni punti io credo si possano utilmente valorizzare i risultati cui egli perviene nella sua ampia analisi. Anzitutto la svalutazione di una possibile identificazione di tale situazione giuridica con la greca isopolitèia. È un punto questo che abbiamo già sfiorato nel corso delle pagine precedenti e su cui si può piena mente concordare con Humberf27). Ma soprattutto, a mio avviso, appare feconda la sua insistenza sul carattere bilaterale dell'isopolitèia rispetto allo schema della civitas sine suffragio, di carattere essenzialmente unilaterale(28). Ma proprio questo, a mio giudizio, è l'elemento che può aprirci una linea di riflessioni diversa che, in queste ultime pagine, cercherò di evidenziare. Piuttosto infatti che discutere sulla natura meramente strumentale della civitas sine suffragio, come ponte per l'acquisto della piena cittadinanza romana da parte del singolo municipale, nonché sul rapporto tra munera a favore di Roma e tale figura, io riprenderò il discorso sulla apparente omo geneità di contenuti tra civitas sine suffragio e l'insieme del conubium, del commercium e dello ius migrandi, già riconosciuto ai Latini, per mettere bene a fuoco quanto di innovativo è comunque costituito proprio dalla nuova attri buzione della civitas sine suffragio. Che consiste nel venir meno di quella bilateralità che era propria di tali concessioni (almeno per quanto concerne la loro attribuzione a intere comu nità e non a singoli individui), fondata appunto sulla reciprocità delle rela zioni internazionali di cui esse erano elemento costitutivo. Con la concessio ne della civitas sine suffragio da parte di Roma si escludono in partenza quei meccanismi di reciprocità che erano propri degli istituti precedentemente menzionati e che'facevano sì che i cittadini delle due comunità di volta in volta partecipassero dei diritti dell'altra nel momento in cui si fossero trova ti nell'ambito della sua sfera di sovranità. Una modificazione così radicale ben si colloca nel lasso di tempo che vede accentuarsi la supremazia romana e che assume piena evidenza con la svolta del 338 a.C. Allora quello che si modifica è appunto l'originario rapp6)
Cfr. in particolare HUMBERT, 1978, 139 ss.
Cfr supra, §§ 1, 2. w
Cfr. HUMBERT, 1978,206 s., 280 s.
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porto tra i vari ordinamenti: insomma, mentre prima di tale concessione il cit tadino romano che si fosse stabilito a Cerveteri ο a Formia avrebbe parteci pato degli istituti di tali comunità, come i cittadini di queste, successivamen te ciò non sarebbe avvenuto. Al contrario, egli, in queste, come in tutte le altre città gratificate delle civitas sine suffragio avrebbe continuato ad avvalersi degli istituti del diritto romano, pur nei suoi rapporti con i cittadini di esse. In sostanza a me sembra che il contenuto della civitas sine suffragio non faccia che riprendere quella forma di assimilazione dello straniero al civis Romanus per quanto concerne tutta la sfera del diritto privato che era già pro pria del commercium (inteso ovviamente nella sua efficacia più estesa) e del conubium, cui si sarebbe venuto aggiungendo l'esercizio effettivo del ius migrando l'altro elemento di questo nuovo statuto della latinità e della civitas sine suffragio. Ma, come ho detto, la grande novità è che, ora, non è più vero il contrario per quanto concerne gli stessi Romani che si fossero trovati fuori del loro ordinamento d'appartenenza. Vi è certo un ampliamento della sfera giuridica cui è ammesso il nuovo civis: non solo per quegli aspetti processuali (non invece per la titolarità di diritti ex iure Quiritium che, a mio giudizio, già derivava dall'ammissione al commercium) rappresentati dalla piena legittimazione alle legis actiones, ma anche per una serie di situazioni personali che dovevano essere comunque estranee alla sfera del ius commercii. Penso anzitutto al diritto delle persone: ai vincoli familiari, alla titolarità della romana patria potestas sui figli legit timi nel caso del matrimonio del civis sine suffragio con una cittadina roma na, da cui invece era escluso il semplice straniero titolare del ius conubiL La grande svolta che caratterizza la seconda metà del IV secolo, secon do questa mia ipotesi, non concerne dunque l'introduzione di una situazione giuridica nuovarispettoalle pratiche precedenti, ma un uso nuovo di una vec chia situazione. Eventualmente integrata e potenziata nei suoi singoli aspetti. Si tratta cioè del venire meno dell'antica reciprocità e dell'affermarsi del pote re unilaterale di regolare il rapporto tra due comunità (Roma decide unilate ralmente e, quindi, non dipende da un accordo internazionale) definendone i caratteri e il contenuto anch'esso in senso 'unidirezionale': solo con l'espan sione del diritto romano. Alla vecchia reciprocità che presiedeva alle conces sioni del commercium e del conubium, con tutte le complesse conseguenze che
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siamo venuti esaminando nel corso del precedente capitolo, si viene ora sosti tuendo una nuova centralità romana. Roma concede l'ammissione alla sfera del diritto civile romano al di fuori del diritto pubblico - e, a partire da una certa data, verso la fine del VI sec. a.C, i beneficiari continuano a fruire dei vecchi meccanismi di assimilazione, senza tuttavia che ciò comporti una situa zione di reciprocità. Probabilmente, da allora sarà vero il contrario: che i cit tadini romani che si trovino in un comune che ha la civitas sine suffragio, potranno anche lì usare dei negozi del diritto civile romano e diventeranno conseguentemente titolari di diritti propri del loro ius civile, non invece secon do Fantico diritto di quelle città nel cui ambito si trovino a stringere rapporti. Rispetto alla concessione reciproca degli antichi iura, due mi sembrano dunque le innovazioni intervenute nel corso del IV sec. a.C: una terminolo gica e una, assai più gravida di conseguenze, di sostanza. Terminologica: consistente nella sostituzione dell'elencazione degli specifici meccanismi d'assimilazione posti in essere tra due città per legitti mare i propri cittadini ai matrimoni e alle relazioni giuridiche tra loro con un unico termine di riferimento: la civitas sine suffragio esprime meglio e più compiutamente (estendendone forse la concreta applicazione rispetto ad alcu ni limiti esistenti nel caso del commercium) questo stesso processo*29*. Di sostanza: nel senso che codesta concessione, effettuata ormai per decisione unilaterale e non sulla base di un accordo internazionale, opera ο tende ad operare solo in una direzione: quella dell'assimilazione del cittadi no straniero al Romano. E qui occorre accennare ad un ulteriore aspetto di questa figura della civitas sine suffragio: il fatto cioè che essa sembra essere attribuita in rela zione a situazioni sempre più eterogenee. È indubbio che questo punto potrebbe essere adeguatamente approfondito solo affrontando appieno la più vasta questione dell'origine e della formazione del ο dei modelli municipali romani: ciò che qui si è escluso in partenza di fare. Mi limiterò dunque ad evi denziare alcuni momenti che ci fanno cogliere una sostanziale eterogenesi di significato di questa figura, o, quanto meno, un suo articolarsi di funzioni.
e9)
Questo spiega laricorrentee diffusa tentazione di interpretare tale situazione secondo gli schemi dell 'isopolitèia delle città greche.
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Abbiamo già ricordato, all'inizio stesso di questa vicenda, l'attribu-zione di tale status ai Ceriti con un chiaro valore di gratificazione. Seppure quest'a spetto mascherava una sostanziale evoluzione dei rapporti di forza a favore di Roma, è chiaramente indicato dagli autori antichi che ad esso si richiamano nell'associarlo al trattato tra Roma e i Ceriti del 353 a.C.ricordatoda Livio(30). Nel 338 a.C. abbiamo invece visto assai bene il netto carattere unilaterale del l'attribuzione di questa stessa cìvitas che già segnala, più che uno squilibrio politico, una vera e propria subalternità e uno stato anche formale di dipen denza. Pochi anni dopo, nel 306 un nuovo tentativo di sottrarsi all'egemonia romana da parte degli Anagnini viene severamente represso dai Romani, come narra Liv., 9.43.23, che nei riguardi di costoro quique arma Romanis intulerant cìvitas sine suffraga lattone data, concilia conubiaque adempia et magistratibus praeterquam sacrorum curatione interdictum* Marta Sordi vede in questo episodio il punto di svolta della degradazio ne della stessa cìvitas sine suffragio, da statuto semiprivilegiato ο privilegia to rispetto a Roma, ad una situazione deteriore(3I). Ciò è confermato da un aspetto già ben colto dagli storici moderni e che consiste nel fatto che, con temporaneamente a tale attribuzione, i Romani avevano provveduto a disgre gare la stessa struttura politica di Anagni, rendendo impossibili sia i concilia (anche le assemblee interne alla città, sia vietando l'elezione di magistrati cit tadini, ad eccezione che per l'adempimento di funzioni meramente religio se^. Qui infatti la cessazione delle magistrature locali significava la paralisi, se non la dissoluzione della stessa res publica, con la conseguenza che pro prio la cìvitas sine suffragio contestualmente concessa a tale provvedimento, (30) Liv., 7.20.8: movit populum non tam causa praesens quam vetus meritum, ut malefica quam benefica potius immemores essent. Itaque pax populo Caeriti data indutìasque in centum annosfactas in aes referri placuit. [Il ricordo delle benemerenze passate, più forte che non l'offesa recente, indusse il popolo romano a dimenticare questa più che non quelle. Perciò il popolo di Cere ebbe la pace e una tregua di cento anni che si volle eternare nel bronzo]. Su cui v. esattamente LURASCHI, 1979,240 s. * Tr. it: gli Anagnini e gli altri che avevano fatto guerra ai Romani ebbero la cittadinanza senza il diritto di voto, con la proibizione di tenere assemblee e di stringere connubi fra di loro, di avere magistrati propri, tranne che per la celebrazione dei riti sacri. (3, >Ctr. SORDI, 1960,47. w
Cfr. TORRENT, 1970, 32 s.; TIBILETTI, 1973, 349 s.
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diveniva l'unico punto di riferimento anche per i rapporti dei cittadini di Anagni tra loro. Viene tuttavia in mente il trattamento degli Anziati ad opera del Senato nel 338 a.C. e, soprattutto, il riferimento a tale situazione effettuato dai moderni studiosi del successivo passaggio livianó, sempre relativo agli Anziati, già da noi considerato nel corso del precedente paragrafo: ... sine legibus certis, sine magistratibus. E in effetti, data l'analogia dei casi, giac ché anche per questi ultimi si trattava di un provvedimento punitivo da parte del Senato romano, troverebbe conferma la interpretazione dei moderni che civitas data di Liv., 8.14.8, riguardasse per l'appunto la civitas sine suffragio™. In tal caso il processo di rivalutazione di quest'ultimo statuto potrebbe essere fatto risalire al 338 a.C: anche sotto questo profilo dunque accentuan dosi il significato di 'svolta' dei provvedimenti allora assunti dal Senato. Secondo questa mia interpretazione tale contraddizione si spiegherebbe anche in relazione ad un possibile modificarsi della posizione di ciascuna comunità rispetto a Roma: migliorativa in alcuni casi, relativamente al prece dente statuto (così la attribuzione della civitas sine suffragio appare ancora un premio per i cavalieri campani e per Fondi e Formia: Liv., 8.14.10 s.), stabi le ο peggiorativa in altri. In quest'ultimo caso la concessione avrebbe avuto come suo significato ultimo quello di rafforzare il ruolo centripeto di Roma parallelamente - mi riferisco di nuovo al caso di Anzio - alla disgregazione interna della comunità dipendente, privata delle condizioni necessarie per il suo stesso funzionamento.
5. Le altre forme di «autonomia dipendente» Nel 338 vediamo infine ristituzione di nuove colonie civium Romanorum: ma qui ci troviamo di fronte alla mera prosecuzione di una politica tra dizionale, il cui carattere strategico-militare resterà a lungo l'elemento quali ficante. Molto più importante, ai fini di quel mutamento complessivo di oriz-
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zonti dovuto alle nuove funzionalità di vecchie istituzioni, l'ulteriore svilup po della colonizzazione latina. A mio giudizio infatti, già prima della defini tiva assunzione della sovranità di Roma sui membri dell'antica Lega Latina, da parte della città egemone si era venuta sviluppando una politica che, di fatto forse più che di diritto, si era sostituita alla volontà generale della Lega come titolare del potere di fondare nuove colonie latine. Certamente, a parti re da tale data, questa sarà anche formalmente la situazione corrente: con il che, in maniera definitiva, va sottolineato, la latinità coloniaria non è più una forma di cittadinanza autonoma da Roma e la giustificazione interna di una comunità sovrana, ma esclusivamente uno statuto giuridico personale nel l'ambito della sovranità e della sempre più articolata e ricca organizzazione statale romana. Vi è un complessivo processo di romanizzazione dell'Italia centrale e della Campania che corrisponde al delinearsi di un nuovo sistema politico statuale che, serbando il modello della città-stato, già ne supera la sostanza e l'intima struttura organizzativa, almeno per quanto concerne sia l'organizza zione territoriale dei suoi cittadini, sia il profilo dell'efficacia stessa della sua sfera sovrana. L'ultimo elemento di questo sistema sono ancora le città latine che continuano a godere della condizione preesistente: Tivoli, Palestrina, espropriate di una parte del loro territorio, e le altre città latine ed erniche, cui sono tolti i reciproci conubia, commercia e concilia. Ovvia la funzione preventiva di quest'ultimo provvedimento, onde rendere più difficili le aggregazioni e i contatti organici tra le varie comunità, poten zialmente in senso antiromano. Ma più interessante il fatto che anche la persistenza degli ordinamenti giuridici di ciascuna di queste città, ora, non deriva dall'autonomia sovrana di ciascuna di esse, ma dal benvolere e dalla libera decisione del Senato romano. Lo statuto, ο meglio, tutti i vari statuti di queste città latine sono ormai, né più né meno come gli sta tuti dati da Roma alle nuove colonie, espressione della sua sovranità e, in ultima analisi, elementi singolari di quello che possiamo definire il nuovo ordinamento dello Stato 'federale' romano. Ormai la condizione del Latino e la stessa più comprensiva figura del peregrinus, lo 'stranie ro', tendono a indicare categorie giuridiche esistenti all'interno dell'or-
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dinamento giuridico romano e che della volontà sovrana di Roma sono, come quella del civis optimo iure e del civis sine suffragio, diretta espressione(34). Questo colossale rimescolamento dei vecchi modelli e sistemi di rela zioni interstatali, lo svuotamento dall'interno della loro natura internaziona le senza che sovente l'apparenza esterna, la fisionomia venisse a mutare in modo immediatamente percepibile, costituiscono una fase, nella storia della costituzione romana, straordinariamente dinamica. Non è un quadro stabile che si delinea in modo netto e ben definito sin dall'inizio. Al contrario, un tentativo di razionalizzarlo attraverso categorie troppo rigide e un sistema concettuale troppo preciso rischierebbe di imprigionarlo in una visione astratta e per ciò stesso, statica e incapace di evidenziare la stessa comples sità e il rapido articolarsi temporale dei processi di trasformazione che carat terizzano questa fase dell'organizzazione del. potere romano a livello istitu zionale. Quanto in verità fosse in rapido mutamento la situazione di quegli anni e quanto 'processuale', con un grado più ο meno accentuato di pragmaticità che alla nostra tendenza alle categorie giuridiche (tendenza inevitabile: altri menti in che modo potremmo cercare di intepretare e 'tradurre' i fenomeni considerati?) rischia di sfuggire, lo provano diversi indizi. Si pensi, ad es., a un passaggio come quello di Liv., 34.42.5, dove si narra della temporanea esclusione di alcune comunità etniche dal conubium (mentre ad esse, ed è cosa su cui riflettere, è attribuita contestualmente la civitas sine suffragio), evidentemente tra loro. Ebbene, ivi immediatamente si indica come siffatto provvedimento fosse del tutto temporaneo: quod aliquamdiu soli Hernicorum. Esclusione dunque che «fu per un certo tempo degli Ernici», venendo poi, evidentemente soppressa con la loro riammissio ne ai (precedenti?) conubia. Nel medio periodo si delineano certamente delle soluzioni stabili e pren dono corpo categorie e regimi giuridici diversi degli individui all'interno del sistema politico romano. Ma questo proprio a costo di una continua 'speri mentazione' con modifiche ο innovazioni che si susseguono a proposito delle (34)
Su questo aspetto v. anche infra, cap. IV, § 2.
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stesse comunità e individui e in ordine alla definizione degli stessi statuti per sonali elaborati dai Romani. Così ho appena accennato alla situazione delle civitates sine suffragio: al tipo di diritto che, in fatto, veniva ad applicarsi nel loro stesso ambito. Ed anche qui si deve immaginare un processo in fieri: che ha inizio dai, del tutte marginali, problemi derivanti dai rapporti tra cives Romani optimo iure e membri di quelle civitates sine suffragio, nell'ambito giuridico di queste ulti me. Ed ho già accennato all'idea che, in prevalenza se non necessariamente, fosse il diritto romano ad aver già vigore per codesto tipo di rapporti. Senonché il processo di allargamento del campo di applicazione del primo a danno dei diritti locali venne realizzandosi in forme e con tempi diversi, ma in modo sicuro, per tutti questi municipi. È sufficiente pensare al fatto che, anche se non immediatamente, il governo di queste comunità passò ai magistrati romani cum imperio ο a loro rappresentanti periferici. È chiaro che sempre più i tribunali sotto il control lo di costoro tendessero ad applicare il diritto romano ο schemi su di esso modellati. Così, in tempi abbastanza rapidi, prese corpo la romanizzazione delle comunità già politicamente assorbite all'interno dell'impero di Roma. È vero infatti che, secondo questa mia ricostruzione, la civitas sine suffragio giocava solo per i rapporti tra i Romani e gli abitanti locali, non avendo inve ce modificato il regime giuridico secondo cui vivevano questi ultimi, nei loro rapporti intemi. Ma è anche vero che la giurisdizione superiore per queste comunità risentisse dell'azione delle magistrature romane(35). Ciò che dovette agevolare l'espansione dei modelli giuridici romani, favorendo gli esiti fina li di tale processo, con il passaggio di tali comunità dalla titolarità della civi tas sine suffragio alla civitas optimo iure.
(35)
Sul punto v. anche infra, cap. IV, § 6 s. BELOCH, 1888,119 s., insiste particolarmente sulla giurisdizione delegata romana con ìpraefectì su questi più antichi municipi sine suffragio, ma secondo una linea interpretativa complessiva tutt'altro che pacifica, che tenta di spiegare la presenza di una duplice configurazione dei municipi sine suffragio. Perplessi lascia indubbia mente l'interpretazione dell'autonomia municipale in termini direttamente ispirati ai moderni ordinamenti: sul punto la mia interpretazione diverge integralmente.
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6. Gli albori dell'ordinamento municipale e il valore unificante del diritto romano L'intervento unificatore dei nuovi titolari della giurisdizione locale, di investitura romana, era, tra l'altro, reso opportuno, se non necessario, dalla complessità delle situazioni che essi si trovavano a dover regolare. Si pensi solo, sempre in relazione al quadro latino-campano successivo al 338 a.C, alla diversità di situazioni statutarie che si riflettevano su una sostanziale incertezza del diritto da applicare in una serie di possibili casi derivanti dai rapporti tra membri di comunità vicine e con antichi legami tra loro. Mi limi to, ad alcuni esempi: a) negozi tra un cittadino romano e un cittadino di Arida, di Nomentum ο di Lanuvio, comunità gratificate della civitas optimo iure. Il diritto che si applica, tanto in Roma che nelle altre città è sempre il diritto romano. Così come è affatto verosimile che lo stesso diritto si applichi ai rapporti tra loro dei cittadini di queste diverse comunità. Più incerto resterei invece sulla pos sibilità che, sin dall'inizio (in prosieguo di tempo ciò appare invece affatto probabile) egualmente il diritto romano si applicasse necessariamente, a regolare i rapporti interni alla stessa comunità, tra i Lanuvini ο tra gli Aricini, in radicale sostituzione dei loro antichi ordinamenti; b) negozi tra un cittadino romano e un abitante di Caere, di Fondi ο di Formia, gratificate e confermate nella titolarità della civitas sine suffragio. A me sembra che la situazione sia affatto analoga a quella esposta sub a), come analoga anche la soluzione nel caso di rapporti tra loro dei membri di queste varie comunità ο di quelle ricordate sub a); e) rapporti con Roma dei membri di città latine che, come Tivoli e Palestrina, hanno conservato la preesistente condizione, fondata sul foedus Cassianum o, comunque ad esso riconducibile. Parrebbe doversi ammettere che, in tal caso, restasse in vigore l'antico sistema del reciproco commercium e conubium, applicandosi dunque il diritto della città in cui la transazione si fosse verificata: stando infatti a Liv., 8.14.10, nulla parrebbe innovato in pro posito dal Senato romano rispetto alla situazione preesistente. Lo stesso cri terio mi sembra poi valere per il rapporti tra i Tiburtini e i Prenestini tra loro ed, egualmente, per i rapporti tra i Romani e i cittadini di tutte le comunità
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latine che hanno conservato la loro preesistente condizione: ovviamente nel caso di Tivoli e Palestrina, ma anche per quelle città cui il Senato aveva tolto i conubia commerciaque et concilia inter se. Tra loro, appunto, ma non certo con Roma; d) tenderei aritenere,ma con grande cautela, che tale esclusione non si applicasse al caso di rapporti tra tali Latini e i cittadini di Praeneste e Tibur, giacché per queste ultime il dettato liviano dovrebbe farci escludere che si applicasse il provvedimento senatorio che aveva tolto i conubia commercia que et concilia inter se. In questo caso solo una delle due parti era priva ormai di questa comunità di diritto, ma senzariferimento,appunto, né a Tivoli né a Preneste; e) per tali città, private dei conubia commerciaque tra loro, si pone infi ne il problema dell'eventuale rapporto tra i loro cittadini e i membri delle altre comunità gratificate della civitas optimo iure ο sine suffragio, da me richiamate sub a) e sub b). Il tessuto comune, in tal caso, non mi sembra più costituito dall'antico ius commerci et conubii (che avrebbe comportato l'ap plicazione dei vari diritti locali, relativamente alla sede in cui il negozio era posto in essere), ma dal diritto romano, esteso a queste ultime città, al quale, però, indirettamente partecipano anche le altre città latine in virtù del loro legame giuridico conservato con Roma e solo interrotto tra loro. Ho già accennato, sub a) al problema rappresentato dai possibili rapporti tra cittadi ni di comunità gratificate entrambe dalla civitas Romana, sia optimo iure che sine suffragio. Vorrei rapidamente tornare sul punto, giacché esso evidenzia una tensione tra vecchia e nuova realtà che è dato più intuire, in base ad un ragionamento deduttivo, che non cogliere nel concreto di una realtà storica che dovette troppo rapidamente evolversi per lasciare traccia consistente, con il dilatato applicarsi delle forme giuridiche del vincitore. In effetti le due situazioni che evidenzierò immediatamente di seguito troveranno soluzione, diversa a seconda del contenuto che si riconosca alla stessa civitas sine suffragio. Essa in effetti era atta a disciplinare il comples sivo statuto giuridico del nuovo cittadino all'interno dell'ordinamento politi co romano, ma significava anche che il diritto romano avrebbe sostituito all'improvviso e in forma esclusiva il vecchio ordinamento locale senza che esso continuasse a disciplinare la posizione dei propri cittadini al suo inter-
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no? Anche sulla base di quanto abbiamo visto a proposito di Anzio, dove la civitas romana (non rileva poi troppo se sine suffragio ο no) e la contempo ranea dissoluzione del locale ordinamento cittadino ebbero a ingenerare una evidente (e del resto programmata) situazione di crisi, io tendo a immagina re un'ipotesi più complessa. Sospetto infatti che, nella prima fase di applica zione - direi di 'sperimentazione' - di questa nuova situazione giuridica, la civitas sine suffragio fosse utilizzata primariamente come strumento di inte grazione della comunità locale in una più vasta koinè istituzionale che Roma veniva costruendo nell'Italia centrale, fondata sulla sua centralità non solo politica, ma anche giuridica. Si potrebbe dunque immaginare che, per un certo periodo, la concessio ne della civitas sine suffragio non dovette escludere in modo radicale e improvviso la persistenza interna degli ordinamenti e delle tradizioni locali, destinate tuttavia rapidamente a tramontare, ma forse non a dissolversi inte gralmente, se consideriamo come ancora i giuristi dell'età imperiale richia massero, sia pure senza eccessivo interesse, i mores regionis come criteri nor mativi atti a integrare e rendere concreti gli schemi generali del diritto roma no al centro del loro interesse. Io comunque tendo a pensare a una persistenza dei vecchi statuti citta dini, e quindi alla possibilità che le relazioni 'intercittadine' (espressione orrenda: ma non oso più parlare per questo periodo di relazioni 'internazio nali'), fossero disciplinate sulla base degli eventuali preesistenti rapporti di commercium o, comunque, sulla base di preesistenti prassi. E tuttavia non può non colpire il fatto che, in relazione a questa sempre più vasta koinè di comunità e di individui, l'assetto di fine IV secolo abbia introdotto un tessu to unificanterappresentatodall'attribuzione a tutti della partecipazione al ius civile di Roma. Come il latino diventerà la lingua dei Volsci non meno che dei Falisci e degli Etruschi sino ad un oblio delle loro lingue originarie, così il diritto romano diventa lo strumento più ovvio e facile di circolazione e di comunicazione giuridica. Oltre ad essere - e non è poca cosa: lo vediamo noi con la crescente penetrazione dei modelli giuridici anglosassoni - anche il diritto dei padroni del momento. Infine va menzionato il caso di un rapporto negoziale tra un membro di una delle sempre più numerose colonie latine e un membro di una città che continui a godere o.no della sua autonomia giù-
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ridica, ma sia comunque titolare della civitas sine suffragio attribuitagli dai Romani. È pensabile che, in questo caso l'elemento di mediazione e il terreno negoziale oggettivamente imposto in tale rapporto sia altro dal diritto romano? Nel corso del IV sec. a.C. il potere politico romano si era garantito il controllo di un complesso di popolazioni molte delle quali già legate da vin coli giuridici, di alleanza, di amicitia con Roma e molte delle quali fruivano con essa di una comunanza di negozi giuridici e di reciproche forme di tute la dei propri cittadini. Una volta definito il quadro politico-militare venne gradualmente prendendo corpo un mutamento interno di significato di queste stesse istituzioni che avevano avuto origine, quasi tutte, da rapporti interna zionali fondati sul presupposto della reciproca sovranità delle parti. Esso fu il più efficace veicolo dell'ulteriore processo di assimilazione giuridica dei governati ai governanti, non imposta dall'alto con forzature e con strappi, ma come crescita di comportamenti concreti, di una domanda dal basso e dalla periferia (... sine legibus certis sine magistratibus agere quaerebantur) che Roma si limita a registrare e, se del caso, a soddisfare. Così il geloso particolarismo delle comunità locali, il loro attaccamento ai propri culti, alla propria lingua, alle istituzioni e alla cultura ancestrale viene superato senza strappi. Se alcuni ancora vorranno continuare a suis legibus uti, saranno in molti ad accogliere le nuove istituzioni e ad integrarsi anche trop po rapidamente nella nuova realtà. E dei primi — i pochi — resterà forse più memoria oggi, perché piùricordatitra i loro stessi contemporanei per la loro singolarità e, forse, più ammirati in segreto per la loro costanza, mentre dei molti conformisti che seguirono mode e accolsero con facilità i modelli e le forme dei più forti, non si fece discorso allora, né resta consapevolezza oggi. Certo, dopo qualche generazione, delle stesse vetuste tradizioni di quel le che erano state grandi civiltà, della loro lingua e, meno che meno, del loro diritto, non resterà praticamente più traccia. E penso al faticoso interrogarsi dell'Imperatore Claudio sulla storia e sulla lingua degli Etruschi da cui pur tanti membri della stessa classe dirigente romana erano venuti, ripiegato sul deserto di una memoria ormai totalmente occupata dagli orizzonti dei tempi nuovi e dell'Italia romana. Ma cerchiamo, appunto, di cogliere ancora qualche vaga traccia di questo processo di dissoluzione e della progressiva romanizza zione delle comunità italiche.
Capitolo III Alle origini dello 'ius gentiumy
1. Una tutela per gli stranieri senza forme di assimilazione Sinora abbiamo soprattutto considerato lo schema seguito dai Romani nella costruzione di una serie di rapporti giuridici con le popolazioni più affini culturalmente e geograficamente più vicine. Abbiamo visto in propo sito come i sistemi di tutela reciproci e poi, in misura crescente, di caratte re unilaterale assicurati ai membri delle città vicine si fondassero su mec canismi di tipo 'assimilativo'. In una misura più ο meno ampia - e siamo incerti sino a che punto — lo straniero veniva ad essere posto nella stessa condizione del cittadino. Se un sistema del genere poteva essere assai efficace per realizzare l'inte grazione di popolazioni stanziate in aree culturali relativamente omogenee esso appariva meno adatto arisolvereun altro fondamentale problema che si pone va per Roma almeno sin dalla fine dell'età monarchica. Miriferiscoalla esi genza di procurare protezione ad una crescente moltitudine di commercianti stranieri di varia provenienza, spesso appartenenti a tradizioni giuridiche e ad aree culturali e linguistiche anche molto lontane. Per costoro infatti sarebbe stato particolarmente arduorispettareilrigidoformalismo dell'arcaico ius pro prio dei cittadini romani. Senza contare che la loro estraneità alla unità cultu rale laziale non avrebbe giustificato quei meccanismi di assimilazione propri
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Capitolo-III
dello ius commerciL In sostanza il sistema del ius commercìi poco si adattava a favorire lo sviluppo di un grande sistema commerciale di carattere internazio nale. Non può dunque meravigliare che sin dalla sua formazione come 'ordi namento compiuto' il diritto romano abbia avviato la formazione di meccani smi giuridici che definirei 'integrativi5 ο 'aggiuntivi' rispetto al sistema chiuso e coerente del ius civile. Il sistema del ius civile infatti restava essenzialmente concepito come esclusivo per i cittadini romani ο ad essi assimilati. Le forme integrative destinate ad agevolare i contatti anche giuridici tra i commercianti stranieri e i cittadini romaniriguardavanoalcune specifiche tran sazioni ed essenzialmente quei rapporti legati allo scambio: dalla compraven dita al mero trasferimento della disponibilità materiale dei beni, da alcuni con tratti obbligatori alla tutela dei diritti personali. È in questo ambito che si viene sviluppando il nucleo originario di quello che gli stessi Romani in seguito indi cheranno come ius gentium: una sfera nuova del diritto, nuovi istituti più sem plici e caratterizzati da un minor formalismo, più immediatamente orientati a evidenziare la diretta volontà delle parti interessate. Questo nuovo complesso di istituti - non diversamente dagli altri aspet ti delle relazioni internazionali di carattere politico - traeva fondamento ed esaltava \&fides: la buona fede delle parti contraenti. È a difesa della buona fede delle parti piuttosto che per il rispetto della forma dei negozi che il pre tore interveniva a rendere vincolanti gli impegni così assunti. Si avviava così, in stretta dipendenza dal ruolo crescente della giurisdizione del pretore, una nuova dimensione della realtà giuridica romana e un vero e proprio nuovo sistema destinato ad avere un valore fondamentale nel definirsi della stessa fisiononia del diritto romano nell'età classica tra fine Repubblica e Principato. Si capisce d'altra parte come il sistema dei diritti reali, sia tocca to assai meno dei rapporti obbligatori da questa nuova realtà. I commercian ti si trovano infatti in Roma e vi sono protetti per vendere e comprare beni che non resteranno all'interno dell'ordinamento romano ma che verranno portati anche molto lontano. D'altra parte le merci da essi venduti ai cittadi ni romani rientreranno nella sfera di signoria di questi stessi cittadini e7 non richiederanno forme di tutela particolari. Nell'accezione che più immediatamente rileva si dovettero venire enu-
Alle origini dello 'ius gentium '
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cleando un insieme di regole e di procedure processuali e negoziali che dovettero innestarsi su pratiche ancora più antiche legate all'arcaico sistema dell'hospitiwn e della clientela internazionale. Di fronte a questa realtà lo stesso sistema del ius commercii appare a sua volta come un 'sistema chiuso', applicabile solo sulla base di una espressa volontà del potere statale a favore di soggetti da lui specificamente predeter minati, tanto che si tratti di concessioni individuali che di concessioni ad inte re comunità: in questo caso in base ad un rapporto di reciprocità. Lo ius gen tium invece è aperto a tutti, sin dall'inizio ai suoi istituti accede qualsiasi stra niero si trovi in Roma ed egualmente di esso potranno fruire gli stessi citta dini romani. Si tratta in effetti di una sfera aggiuntiva al sistema giuridico preesistente, non di una integrazione in questo di soggetti originariamente estranei. Proprio in ragione di quanto si è detto si può meglio valutare come il sistema del ius gentium si distingua da quello del ius commercii per la sua unilateralità. La costruzione di un sistema di regole destinate a proteggere e a disciplinare tutti gli stranieri in Roma non poteva essere il risultato di impe gni internazionali della stessa Roma. Anche se è vero che una volta costruite queste regole, Roma, in particolari trattati internazionali, avrebbe potuto impegnarsi a rispettarle nei riguardi dei membri di singole comunità. Per questi motivi diventa abbastanza comprensibile la diversa e opposta parabola temporale che caratterizza questi due sistemi di tutela degli stranie ri. Da una parte il sistema del ius commercii conoscerà la sua massima vita lità nel periodo dell'espansione italica di Roma, confondendosi in seguito con la più comprensivafiguradel ius Latii, destinata invece a restare un principio organizzativo estremamente importante ancora nel corso della prima età imperiale. Il ius gentium al contrario diventerà un fattore dinamico di primaria importanza a partire dalla tarda età repubblicana: mi limito a citare in proposi to una data simbolica rappresentata dal 242 a.C, allorché fu introdotta una figu ra particolare di magistrato, il praetor peregrinus, avente giurisdizione sui rap porti tra il cittadino romano e lo straniero e che evidentemente operava secon do criteri assai più lati di quelli applicati nei rapporti tra cittadini romani.
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Capitolo III
2. Il primo trattato tra Roma e Cartagine Già in età regia abbiamo vaghe notizie di particolari accordi tra città per la tutelarispettivadei propri membri. Ma di gran lunga più importante appa re un documento che con ogni probabilità risale al 509-508 a.C, secondo le indicazioni di Polibio che ne riporta il testo. Per molto tempo si è dubitato di tale datazione, proponendosi da parte degli studiosi moderni un'età assai meno antica cui far risalire il trattato(1). Ma oggi da parte della maggior parte HUMBERT, 1978,299. i64 > Cfr. HUMBERT, 1978, 304 ss.
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Altro problema sollevato dallo stesso Humbert è se questa stessa auto nomia nonnativa che parrebbero conservare i municipi sine suffragio, carat terizzi anche le comunità cui sia stata estesa la cittadinanza romana optimo iuare, e per cui, come nel caso di Tuscolo dopo il 381a.C, si dice egualmente che abbiano conservato la loro res publìca. Lo studioso francese su questo punto accoglie integralmente la formulazione di Gellio e riconosce anche ai municipii optimo iure la stessa autonomia normativa che parrebbe aver carat terizzato le civitates sine suffragiom. Il punto è di grande difficoltà e gravi le conseguenze che ne discendono: esso soprattutto non può trovare una solu zione sicura senza una previa interpretazione del significato e del ruolo assol to dai praefecti iure dicundo: un'altra realtà istituzionale romana su cui si è addensata una letteratura imponente. In queste pagine finali non vi è spazio per ulteriori approfondimenti in proposito: ancora una volta ci troviamo di fronte all'intera questione dell'or dinamento municipale e del suo rapporto con le praefecturae. E quanto la testimonianza festina evoca senza ombra di dubbi, laddove i due tipi di pre fetti inviati da Roma riguardano da una parte Capua, Cumae e le altre città campane, dall'altra Funài, Formia, Caere:riferendosicosì indifferentemente a municipi optimo iure e sine suffragio^. L'immagine del municipium come una comunità che conserva la sua res publica e la sua autonomia è in apparente, forte contrasto con l'idea di una giurisdizione locale dei magistrati romani e delegata dal centro, soprattutto perché, come nel caso dei praefecti Capuam Cumas - il caso piùrisalente— la loro istituzione, appare legata all'indebolimento della capacità di autogo verno delle stesse comunità*67*- E tuttavia proprio questa costituisce la chiave (65) Cfr. HUMBERT, 1978, 297. Una conferma di tale interpretazione potrebbe essere offerta dalla presenza, in Arpino, di specifiche norme relative alla successione ereditaria di cui parla Catone per un'epoca in cui tale comunità doveva essere già pienamente romanizzata: cfr.
BERNARDI, 1938,258. (66)
Fest., s.v. praefecturae (LINDSAY, 262), su cui v. soprattutto MARQUARDT, 1881,42 (1889,
57), ed ora HUMBERT, 1978, 356 (67)
ss.
In effetti la creazione dei prefetti Capuam Cumas appare, in Liv., 9.20.5, quasi il risulta to di un collasso istituzionale interno, piuttosto che l'automatica conseguenza dell'estensione della cittadinanza romana: eodem anno {sciL il 318 a.C.) primum praefecti Capuam creari coepti legibus a L Furio praetore datis, cum utrumque ipsi prò remedio aegris rebus discor dia intestina petissent. [tr. it.: in quello stesso anno furono nominati per la prima volta prefet ti per Capua e stabilite leggi dal pretore L. Furio, essendo entrambi (tali provvedimenti) richie—
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di lettura di un processo dinamica in cui l'espansione dei modelli giuridicoistituzionali romani appare avvenire più attraverso meccanismi di erosione e di sovrapposizione rispetto alle strutture tradizionali in fase recessiva, che non per mera sostituzione. Se quest'ultimo aspetto diverrà prevalente, lo sarà, lo ripeto ancora una volta, solo successivamente alla generalizzata conces sione della, cittadinanza agli Italici dopo la guerra sociale. sti dagli stessi [Capuani] come rimedio per la crisi derivante dalle lotte intestine]. Ma se la sostituzione del diritto romano ai diritti originari delle nuove civitates sine suffragio fosse stato un fenomeno generalizzato, la creazione di magistrati a ciò preposti sarebbe stata automatica e non avrebbe senso la giustificazione addotta da Livio. Che tuttavia suscita qualche perples sità per il fatto di far derivare il collasso istituzionale da semplici lotte politiche, quasi che esse rendessero inapplicabili le leggi della città. Più che di leggi civili si tratta verosimilmente delle istituzioni politiche interne. V. anche BERNARDI, 1938, 246 s., 252 s., che propone una inter pretazione riduttiva delle funzioni di tali figure, limitandone il ruolo giurisdizionale per gli anni successivi al 339 aC. affermatosi solo nel 211 a.C. Quanto alla dissoluzione interna della comunità, ad opera diretta dei Romani, analogamente a quanto verificatosi per Anzio, succes sivamente al 338 a.C. (v. anche supra, cap. II, § 3). Il passo di Livio circa lo specifico prov vedimento assunto dai Romani rispetto ad Anagni, relativo alla sistemazione degli Ernici dopo il 306 a.C, è per noi di particolare interesse per più aspetti: leggiamolo. Liv., 9.43.23-24: Hernicorum tribus populis Aletrinatì Verulano Ferentinati, quia maluerunt quam civitatem, suae leges redditae conubiumque inter ipsos, quod aliquamdiu soli Hernicorum habuemnt, permìssum, Anagninis quique arma Romanis intulerant civitas sine suffagii latione data con cilia conubiaque adempia et magistratibus praeter quam sacrorum curatione interdictum (tr. it: ai tre popoli degli Ernici di Alatri, Veroli e Ferentino furono ripristinate le loro leggi per ché [le] avevano preferite alla cittadinanza [romana], e permessi i matrimoni tra loro che da tempo, soli tra gli Ernici, avevano avuto. Agli Anagnini che avevano guerreggiato contro i Romani venne data la cittadinanza romana sine suffragio e tolte le assemblee e i rapporti matri moniali {conubia) e vietata l'istituzione di magistrati salvo che per funzioni religiose). Cfr. DE SANCTIS, 1907a, 321 e BRUNT, 1971, 529 s. Tre punti vanno messi in evidenza: anzitutto il carattere antinomico della cittadinanza romana e del suis legibus ufi, che parrebbe contraddi re alla ipotesi di fondo, da me ripresa nel corso di queste pagine, circa la persistenza, almeno anteriormente all'89 a.C, dei diritti locali anche in comunità gratificate della cittadinanza romana (almeno di quella sine suffragio). Ma la perplessità potrebbe essere superata dalla spe cifica valenza, in questo contesto, dello stesso riferimento al suis legibus uti come forma piena di autonomia sovrana (cfr. anche supra, nt 54). In secondo luogo la perplessità che sorge al divieto di connubio irrogato agli Anagnini, che evidentemente di riferisce - analogamente a quanto vedemmo per i Latini dopo il 338 a.C: supra, cap. II, § 2) non già ai rapporti interni ad essi, malgrado la genericità dell'espressione, ma ai loro rapporti con le altre comunità erniche evocate nella prima parte della frase, cui invece tali conubia erano stati, appunto, restitui ti. E infine la destrutturazione interna di Anagnini: privata sia delle assemblee che di magistrati aventi funzioni politico-amministrative. Anche qui diventa di primaria importanza una piena comprensione del testo: che evidenzia l'eccezionalità di tali provvedimenti, specificamente ricordati dallo storico patavino, come appunto nel caso di Anzio. Il che indica in modo evi dente che, questa intema dissoluzione della comunità politica originaria non è l'effetto ordi nario della concessione della cittadinanza romana, sia optimo iure che sine suffragio. D'ordinario, anche per quest'ultima, restavano le istituzioni precedenti alla estensione della cittadinanza romana.
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Ed è in questo quadro dunque che assume evidenza quanto a suo tempo scriveva uno dei migliori studiosi di tali problemi, Gianfranco Tibiletti, erede di quella grande tradizione di studi sull'Italia romana cui si associa nel tempo il nome di Plinio Fraccaro. Partendo infatti dalla duplice presenza della giu risdizione dei magistrati locali e di quella dei magistrati delegati da Roma, egli sottolineava in modo brillantissimo una differenza profonda con i diver si gradi di giurisdizione che si potrebbero incontrare in un moderno ordina mento, rispetto a cui «il diritto vigente, sia per la competenza alta che per quella bassa sia uno solo»(68). Al contrario, egli giustamente ritiene, che la diversa giurisdizione, nel nostro caso, esercitata in due lingue diverse - quella locale da una parte, quel la romana dall'altra - coinciderebbe con la presenza di «due diritti diversi, l'autentico diritto romano e un diritto locale (diverso da municipio a munici pio)»^. In sostanza - e il parallelo è, ancora una volta, estremamente per suasivo - si poneva così e si dovette porre per secoli interi, «il problema ... della duplicità del diritto, mentre l'esistenza del bilinguismo ufficiale è stata già accertata da tempo». Una duplicità, questo è il nodo, cui del resto accen na lo stesso Tibiletti, non definita una volta per tutte e, direi, di carattere 'sta tico': al contrario. Incessantemente il patrimonio locale dovette rifluire e rimodellarsi nelle forme più forti del diritto romano: politicamente e cultu ralmente più forti(70). Giacché era pressoché inevitabile che l'autorità romana, titolare della giurisdizione «superiore, imponesse, quasi insensibilmente, con i68)
TIBILETTI, 1973,185.
m
TIBILETTI, 1973,188. L'a. suppone che i diritti locali, nell'Italia centro-meridionale siano consistiti nei diritti indigeni depurati «di quegli elementi che contrastino con la mentalità giu ridica romana», mentre nel settentrione si sarebbe trattato di «un complesso di istituti dichia ra derivazione romana e nelle colonie latine di un diritto eguale a quello romano». Anche in quest'ultimo caso esso tuttavia «non era formalmente il diritto romano», giacché il magistrato locale lo applicava «nell'ambito della sua competenza ed autonomia, e non rappresentava il pretore urbano il quale solo era competente ad applicare il diritto romano». Solo su quest'ul timo aspetto, come risulta da quanto ho precedentemente esposto (cfr. supra, § 6), posso nutri re qualche dubbio non tanto sull'esistenza di forme analoghe a quelle del diritto romàno, quan to sulla loro estensione che l'insigne studioso mi sembra generalizzi eccessivamente: ma si tratta di ricostruzioni ipotetiche abbastanza marginali, che nulla tolgono al valore complessi vo del modello proposto e che io tendo a recepire integralmente. V. per un'interessante analo gia con il regime vigente in una realtà affatto particolare come l'Egitto romano, ARANGIORUIZ, 1950,67. ™ TIBILETTI, 1973,
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le sue equivalenze (e magari forzature) adeguamenti eripensamentiinterpre tativi del diritto indigeno in chiave romana». Senza che ciò, appunto, segnas se «imposizioni improvvise e repentine», ma attraverso «un lavorìo lento e quasi inconscio» destinato a sfociare, nel corso di un processo continuo e penetrante, «nell'adesione totale da parte degli indigeni al diritto romano» coincidente e integrata dall'«adozione spontanea della lingua latina»(7,). È il processo appunto che si definisce e si accentua con la svolta - subita più che imposta da Roma- successiva alla guerra sociale, quando ormai nell'insieme dei popoli che avevano imposto alla vincitrice, con la forza delle armi, l'e stensione della cittadinanza, questa azione profonda e coinvolgente aveva già prodotto i suoi frutti in termini di assimilazione culturale e di assuefazione ai modelli ora generalizzati. Quasi in filigrana, attraverso la ricomposizione delle tessere sparse e apparentemente così contraddittorie di un mosaico perduto, si può rintraccia re il carattere, direi quasi 'fluttuante' di una realtà giuridica e di pratiche profondamente lontane dal nostro modo di concepire sia le entità statali che i sistemi giuridici. Una realtà tutt'altro che episodica se si considera che cor risponde ad un arco di circa tre secoli, che va dal IV al I secolo a.C, in coin cidenza con una fase straordinaria della storia di Roma e del suo potere. Per questa valgono, in conclusione, le parole già usate da quel grande Maestro di scienza e di vita che è per tutti noi Francesco De Martino, e che ritengo opportuno riprodurre integralmente. «L'estensione della cittadinanza romana - scrive egli dunque - poneva il problema dell'applicazione del diritto romano ai nuovi cittadini. Tale pro blema non venne sempre risolto nel senso che di un tratto si abbandonassero gli antichi principi e ricevessero i nuovi. Gellio sottolinea che i municipes erano cittadini romani, i quali vivevano secondo le loro leggi ed il loro dirit to tenuti soltanto ai munera del popolo romano. E più oltre egli riferisce un discorso dell'imperatore Adriano, nel quale viene attestato che vi erano municipi, i quali suis morìbus legibusque uti possent. Sarebbe difficile com prendere come si potesse improvvisamente imporre ad un popolo il diritto romano, che aveva proprie caratteristiche, abrogando il diritto nazionale. Per quanto concerne le istituzioni pubbliche, negli antichi municipi soprawisse^TIBILETTI, 1973,189.
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ro gli organi nazionali e non subentrarono affatto le magistrature romane. A maggior ragione bisognaritenereche ciò accadesse per il diritto privato assai più strettamente legato alla vita sociale ed economica». Ed è proprio per que sto, conclude De Martino, che la lexlulia richiedeva, per l'acquisto della cit tadinanza, che funài populi Jacti ... essent. Che si sottopponessero cioè al diritto romano: il che attesta, al contrario, che anteriormente a tale legge si potesse acquistare la cittadinanza, senza rinunciare al proprio diritto(72).
8. Diritti, lingue e giudici locali Nel corso di queste mie pagine, ho cercato di applicare il tipo di pro spettive maturate nella moderna storiografia relativamente al significato della civitas sine suffragio ed al sistema delle autonomie municipali ad uno speci fico ordine di questioni, pur straordinariamente rilevante per una piena com prensione dei meccanismi di assimilazione e delle forme di indipendenza ed autonomia che il processo di romanizzazione dei popoli italici ha comunque tollerato, ο meglio, su cui si è fondato. Mi riferisco al tipo di diritto che dovet te continuare a vigere all'interno della comunità cui era stata estesa la citta dinanza romana sine suffragio. All'uopo mi sono limitato arileggerele fonti e la moderna letteratura, cercando di inquadrare il modo in cui il 'diritto pri vato' dei Romani venne man mano ampliando la sua sfera di applicazione nella Penisola e, ancor più, venne assumendo un valore di riferimento nelle trasformazioni interne dei singoli ordinamenti, sino alla loro intrinseca dis soluzione. Una storia tuttavia celata, nel suo concreto divenire, ai nostri occhi e che possiamo solo immaginare. È interessante tuttavia come, attraverso un adeguato gioco di luci, s'im ponga in primo piano una singolarità che non può non riflettersi sulla nostra interpretazione del significato stesso del diritto nell'esperienza di Roma, in ^ DE MARTINO, 1973, 90 s. V. già BONFANTE, 1934, 246. Tenendo conto del valore essen ziale dell'estensione dell'uso del latino come condizione per una piena romanizzazione delle istituzioni e delle pratiche giuridiche locali, occorre tener presente l'accelerazione nella pene trazione del latino nella realtà italica successivamente alla guerra sociale: cfr. da ultimo GIARDINA, 1997,43 s. e lett ivi, nt. 191 (p. 102).
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una fase che va dal suo consolidarsi come organismo politico unitario, secon do i moduli tipici dell'antichità classica rappresentati dalla città-stato, al suo affermarsi come impero mediterraneo e tendenzialmente già 'universale'. Si tratta del fatto che, rispetto alla sfera dell'antico diritto civile romano, la cittadinanza romana appare scomporsi in più strati, tra loro permeabili, ma non identificabili. Sicché si potrebbe affermare che questo iusproprium civium Romanorum, per secoli, non si applicherà formalmente a un notevole numero, se non alla maggior parte di individui pur definiti anch'essi come cives Roma ni. Non si applica, lo abbiamo visto a piùriprese,a quei cittadini romani dive nuti latini coloniali: ma questo non ci meraviglia gran che, né costituisce una singolarità per cui sarebbe valsa la pena spendere tutte queste pagine. Ma non si applica neppure ai cives sine suffragio e, forse, su questo sono un pò'più cauto di altri autori, neppure ai cittadini dei municipi optimo iure. Non che costoro fossero tagliati fuori integralmente dal diritto romano: tutt'altro. E anzitutto - ciò vale anche per i Latini coloniari come per i Prisci Latini in virtù del commercium e del conubium — in ambito romano tutti costoro accedevano pienamente alla sfera del ius civile ed avevano piena tute la nella giurisdizione del Pretore urbano. Ma all'interno della loro singola comunità municipale e nei rapporti interni alla loro comunità d'origine essi hanno continuato a fruire dei loro ancestrali sistemi giuridici, non dissoltisi con la concessione della civitas Romana. Una situazione peculiare e, per molti versi, ambigua: foriera anche di incertezze e contraddizioni, soprattut to perché essa, lungi dall'apparire meramente transeunte, quasi sospesa in un momento di passaggio tra un sistema che veniva abbandonato ad uno nuovo, appare dilatarsi nel tempo, coprendo sovente l'arco di più generazioni. È proprio la singolarità di questa situazione che spiega molti dei tenta tivi di interpretazione proposti dai moderni, sia che si rifacessero all'idea di una doppia cittadinanza all'interno dell'Impero, sia che sirichiamasseropiut tosto allo schema greco dell'isopolitèia, che già a più riprese ho ricordato nelle pagine precedenti, sia infine che, come Saumagne, insistessero sul carattere onorario della cittadinanza romana concessa alle nuove comunità, appaiono tutti egualmente significativi. In tal modo infatti si è tentato di dare una risposta, con strumenti per quanto possibile adeguati, ad una situazione profondamente diversa dalla nostra esperienza, ammettendosi che ad una
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stessa cittadinanza potessero corrispondere più forme di vita giuridica. L'opposto insomma di quella identificazione di ordinamento statale e sistema giuridico che è un'aspirazione generalizzata degli stati nazionali e dell'espe rienza giuridica moderna. E qui io richiamerei un'immagine recentemente riproposta alla nostra attenzione, ricavata essa stessa dalla rappresentazione ciceroniana delle 'due patrie' su cui torneremo nel successivo paragrafo. Roma in sostanza avrebbe introdotto un «originale concetto di cittadinanza, non doppia, ma a due livelli: quello inferiore, cherispettavale tradizioni della società locale, e quello superiore, che inglobava il precedente livello e impli cava la partecipazione alla vita nazionale, rappresentata dallo stato romano»(73). Per questo motivo il diritto privato romano si espande assai meno e, soprattutto, con tempi più lenti del potere e della sovanità politica di Roma. La sua crescita è comunque assicurata, nel tempo, dalla sua superiorità tecni ca e corrisponde ad una forza di irradiamento crescente, con la conseguente capacità di assorbimento e di annullamento delle realtà giuridiche locali. Se accettiamo l'insieme di ipotesi e di indizi discussi nel corso di queste pagine, la forza assimilatrice del diritto romano e l'unificazione giuridica delle comu nità italiche, che io tendo a considerare giunta ad uno stadio molto avanzato, se non compiuta con la legislazione successiva alla guerra sociale, si sono realizzate per gradi. Tale processo parrebbe essersi attuato, piuttosto che con una ammissione massiccia di intere comunità (non solo i municipi optimo iure, ma anche sine suffragio^/nonché le colonie latine) alla fruizione del sistema del diritto privato romano nella sua interezza, attraverso l'azione di quello che chiamerei un duplice statuto giuridico dei suoi membri. Forse gli stessi cives appartenenti al primo tipo di municipi qui citato, sicuramente i cives sine suffragio, i Prisci Latini sopravvissuti alla sistemazione del 338 a.C. e i Latini coloniali, dovettero continuare a fruire dei loro regimi origina ri all'interno della loro comunità, mentre nei loro rapporti con gli altri citta dini romani fruirono del diritto civile romano e della relativa protezione giu diziaria: e questo sia in Roma che nell'ambito del loro municipio d'apparte nenza. Non solo, ma anche all'interno dei vari ordinamenti municipali, dovet te essere operante la duplice giurisdizione dei magistrati romani da una parte,
^ C o s l SCUDERI, 1989, 123.
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dei magistrati locali dall'altra: e qui possiamo rifarci pienamente a quanto sostenuto in proposito da Tibiletti(74). In effetti, già assai prima della svolta segnata dalla guerra sociale e destinata a sua volta ad accelerare ulteriormente tale processo, in modo pres soché definitivo, sul piano del diritto dovette aversi la stessa vicenda che caratterizzò più in generale, sul piano culturale, le società italiche di fronte alla crescita romana. Sin nelle loro lingue ebbe inizio un processo di pro gressiva atrofizzazione che è immaginabile, almeno con la stessa intensità, per quanto concerne la formazione ο la preservazione di una sfera giuridica privatistica. Nel caso poi delle nuove colonie mi sembra si possa parlare piut tosto di incapacità di sviluppo autonomo. Ovviamente furono le élites locali a utilizzare maggiormente questo 'bilinguismo giuridico', in un processo di assimilazione che dovette contri buire grandemente al deperimento degli ordinamenti locali(75). In effetti pro prio la maggior 'debolezza' di questi rispetto al forte sviluppo del diritto romano li condannava nella misura in cui essi non riuscirono a chiudersi all'interno di sistemi autosufficienti e straniati dalla circolazione culturale in aree più ampie. Ma, appunto, il tipo di meccanismi operanti in un'area sem pre più ampia e in cui i sistemi convergenti dello ius commercii, del corrubium, della civitas sine suffragio, rendevano in partenza impossibile queste forme di chiusura autarchica, erano destinati ad operare in profondità e in forma relativamente indolore nel senso della dissoluzione interna dei singoli ordinamenti locali. Il carattere graduale di tale processo, d'altra parte, presenta anche un altro vantaggio, oltre l'evidente abbassamento delle tensioni derivanti da (74)
TIBILETTI, 1973, 188, è estremamente deciso - ed io concordo pienamente con le sue con clusioni - nel sostenere che «esistevano ... due .diritti, applicati agli stessi soggetti»: il diritto romano, associato alla giurisdizione del pretore urbano e dei suoi delegati locali, e il diritto locale affidato alla giurisdizione dei magistrati locali: diritti espressi in due lingue diverse e da magistrati parlanti due lingue diverse. Così se il confine tra le due giurisdizioni era segnato da un certo valore, «di 8.000 sesterzi, se si litigava per un fondo di 8.100 sesterzi, la causa era di competenza del pretore urbano (cioè del suo rappresentante) e si svolgeva ex iure Quiritium, in latino; se si trattava di 8.000 sesterzi era competente il magistrato locale che applicava, in osco, il diritto locale». σ5) SCUDERI, 1989,124 ss., rileva giustamente come il processo di municipalizzazione favorì la mobilità delle élites locali, che egli spiega con la disseminazione delle loro proprietà fon diarie in più municipi. Ma che, a mio giudizio, si accompagna anche alla loro attitudine a tes sere relazioni anche legali con fili altri cittadini romani.
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troppo espliciti e diretti conflitti culturali. Esso infatti ha salvaguardato l'in terno sviluppo dello stesso sistema giuridico romano in condizioni, diciamo così, ottimali. Permettendo cioè la piena e indisturbata azione di quei fattori che costituiscono la premessa, già matura nella tarda età repubblicana, per l'affer marsi di un esperienza unica ed eccezionale in Occidente, e per quello che è dato di sapere, nella storia universale, con la creazione di una 'scienza' del dirit to. Il relativo 'isolamento' dell'originaria cittadinanza romana e il lento filtrag gio di nuovi soggetti ammessi alla fruizione degli istituti privatistici romani ha permesso a tali fattori che essi potessero operare in Roma secondo le loro pro prie logiche e senza turbative 'esterne'. Senza cioè che si esercitasse la pres sione di nuovi interessi e dell'esigenza di nuove mediazioni rispetto a pratiche locali estranee alla tradizione romana. Senza risentire altresì l'influsso di prati che 'volgari', atte a riflettersi sulla purezza dei modelli dello ius civile.
9. Il cittadino romano e le 'due patrie9 Certo, un processo del genere può essere solo percepito nelle sue gran di linee e, nella documentazione antica, appaiono più i punti oscuri che le linee di evidenza, contribuendo alle incertezze dello storico. Di ciò, a me sembra, e con ciò concludo veramente il mio discorso, resta traccia in un altro aspetto del dibattito storiografico che fu particolarmente vivace in questo immediato dopoguerra. Mi riferisco appunto al problema della doppia citta dinanza cui ho già fatto riferimento più sopra. Ma prima di riprendere, nelle sue grandi linee, il dibattito che sull'argo mento si è sviluppato, occorrerà rivolgerci ancora una volta a quella ricca miniera che è per noi costituita dalle opere di Cicerone. La testimonianza centrale, in ordine al presunto divieto di doppia cittadinanza da parte di Roma, ancora una volta è offerta dalla ciceroniana prò Balbo. Ivi infatti, Balb., 28, si incontra la netta affermazione secondo cui duarum cmtatum civis noster esse iure civili nemo potest. Il cittadino romano non può essere, secondo il diritto civile, cittadino di due città(76). ™ Cfr. anche Cic, Balb. 27; Caec, 100, su cui v. ora CURSI, 1996, 27 ss.
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È molto probabile, tuttavia, che la chiarezza stessa di tale enunciato e la sua semplicità abbia potuto indurre la storiografia moderna verso una perico losa semplificazione dell'intera questione. In effetti, sul punto a me sembra abbastanza convincente l'interpretazione proposta da un autore che è a più riprese intervenuto sull'argomento: Fernand De Visscher*77*. L'illustre roma nista belga ha infatti ricondotto l'enunciato orariportatoall'interno di un più complesso volgere del discorso ciceroniano. È vero dunque che il grande ora tore afferma, come abbiamo visto, che duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo poteste e pertanto non esse huius civitatis, qui se olii civitati dicarit, potest. Questo principio serve a Cicerone tuttavia ad affermare la pos sibilità di mutare civitatem volontariamente e abbandonando il suolo stesso della propria città d'origine: emigrando nella nuova patria. Oppure iure postliminii, come nel caso ben noto di Menandro(78), sive exilio. Ma quello che De Visscher mette in rilievo è proprio il seguito del discorso ciceroniano, Balb. 29, laddove, dopo la solenne affermazione della più ampia possibilità di circolazione da una città all' altra, si conclude soste nendo che ceterae cfvitates omnes non dubitarent nostros homines recipere in suas civitates, si idem nos iuris haberemus quod ceteri. Sed nos non possumus et huius esse civitatis et cuiusvis praeterea; ceteris concessum est*. Agli altri è concesso dunque ciò che è negato ai cittadini romani: restare tali acqui stando all'un tempo la cittadinanza di un'altra città. Mi sembra che in proposito abbia ragione lo stesso De Visscher, secon do cui «il principo non si oppone dunque per nulla alla conservazione della cittadinanza locale, malgrado l'acquisto della cittadinanza romana». Questo principio (il divieto della doppia cittadinanza cioè) si doveva applicare essen zialmente «ai cittadini romani d'origine», mentre si applicherà ai nuovi citta dini d'origine straniera solo nel caso in cui essi si siano effettivamente tra sferiti a Roma, essendo allora considerati «rispetto al ius commune mutandarum civitatum illustrato da Cicerone, come aventi rinunciato al loro statuto locale e governati ormai esclusivamente dalle norme romane». Mentre, al ™ Cfr. in particolare DE VISSCHER, 1949, 112 ss.; 1955, 113 ss.
™ Sul punto v. da ultimo CURSI, 1996, 27 ss. * Tr. it.: tutte le altre città non hanno dubitato di poter accogliere i nostri cittadini nella loro cittadinanza, se noi fruissimo dello stesso regime giuridico degli altri. Ma noi non possiamo essere di questa cittadinanza (la romana) e di una qualsiasi altra: agli altri è connesso.
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Capitolo IV
contrario* per quegli «individui gratificati dalla cittadinanza romana, ma restati nella loro città d'origine, tale principio è inapplicabile, dipendendo così la persistenza dello statuto locale esclusivamente» da questa stessa città™. Insomma, per De Visscher, la testimonianze ciceroniane (egli richiama infatti anche Cic, Arch, 9) dimostrerebbero l'esistenza di «une difference fondamentale dans la situation des nouveaux citoyens romains, suivant qu'ils conservent leur domicile d'origine ou s'établissent à Rome». Nel primo caso essi avrebbero conservato il loro statuto locale, con la conseguente presenza di una duplicità di situazione giuridica, destinata a favorire la persistenza della vita stessa dei municipi. Nel secondo caso invece, con la mutatio civitatis, l'acquisto della piena cittadinanza romana avrebbe comportato l'estin zione della vecchia cittadinanza. È il mutamento di domicilio, non il vigore generalizzato del divieto di una doppia cittadinanza a comportare in tal caso la perdita delle cittadinanza originaria(80). Io tendo a sottoscrivere queste conclusioni che appaiono coincidere con i dati che sinora abbiamo considerato. Eviterò tuttavia di addentrarmi in una disamina della ricca letteratura che, intorno al problema della doppia cittadi nanza, è fiorita, come ho accennato, verso la metà di questo secolo(81). Mi limiterò a prendere in considerazione un importante contributo di un altro dei maestri della mia giovinezza, Vincenzo Arangio-Ruiz, ai miei occhi partico larmente significativo proprio per il rigore con cui egli appare aver contrasta to l'impostazione di De Visscher. Mi riferisco in particolare al suo lontano saggio pubblicato nel 1950, e particolarmente importante per la ricchezza della documentazione ivi utilizzata(82). A me sembra in effetti che le precisazioni di Arangio-Ruiz, circa l'at teggiamento romano in ordine alla possibile conservazione della precedente cittadinanza da parte del neo civis Romanusm, non siano tali da annullare Cfh D E VISSCHER, 1956, 54 s.
DE VISSCHER, 1956,59. (8,)
Cfh, oltre al già citato SCHÓNBAUER, 1950, 124 ss.; LEWALD, 1946, 30 ss.; WENGER, 1948,
251 ss.; VITTINGHOFF, 1951, 1 e TORRENT, 1970, 53. (82
> Cfh ARANGIO-RUIZ, 1950, 55 ss.
m
ARANGIO-RUIZ, 1950, 57. Ma v. a p. 59, come Pa. riconosca che Balbo, neocittadino romano si fosse trasferito a Roma: il che, anche per De Visscher, avrebbe comportato la per dita della cittadinanza di Cadice.
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radicalmente gli elementi di valutazione addotti da De Visscher e dagli altri teorici della 'doppia cittadinanza'. Se approfondiamo Panalisi svolta da Arangio-Ruiz ci possiamo infatti rendere conto di una sfasatura prospettica che, del resto, è agevolata dalla stessa genericità delle enunciazioni del roma nista belga. Consideriamo in proposito la interpretazione del privilegium fori atte stato in più di un documento di concessione della cittadinanza romana(84). Per Arangio-Ruiz esso si spiegherebbe in coerenza con quanto già era permesso ai cittadini romani «residenti in città più ο meno soggette»: quello di poter adire ai tribunali locali o, alternativamente, di poter portare «la controversia alla cognizione del governatore romano»(85). Insomma il privilegio in questio ne non sarebbe altro che l'applicazione di un principio generalizzato. Il che, tuttavia, può valere a proposito di pratiche vigenti in quelle città libere situa te nelle provincie: ed infatti è alla realtà delle provincie orientali ed ellenisti che nella prima età imperiale che l'attenzione dell'insigne romanista, anche per il tipo di documentazione da lui utilizzato, si rivolge. Ma il problema dal quale siamo partiti riguarda un'altra fase storica, coincidente ο immediatamente anteriore all' epoca in cui si situa lapro Balbo. E la possibile doppia cittadinanza di cui ci occupiamo è esattamente riferibi le alla condizione di quei municipes partecipi ancora di una loro res publica e tuttavia atti ad accedere al diritto romano, già nell'ambito della stessa loro città d'appartenenza e a maggior ragione nel recarsi a Roma. Ed è interes sante come Arangio-Ruiz, riconoscesse il progressivoriemergeredi forme di doppia cittadinanza ο a tali schemi riconducibili, nella fase del «progressivo scadimento delle città già sovrane (e formalmente riconosciute come tali) ad enti autarchici territoriali»(86). Il che chiarisce appunto l'ambito di riferimen to della sua stessa analisi: che appare essenzialmente e correttamente riferita al rapporto tra entità formalmente sovrane (ο 6semi-sovrane'), nel sistema imperiale romano, in ambito provinciale. Estranea quindi alla nostra sfera di problemi riferiti a quelle civitates sine suffragio, ed a quei municipia dell'età precedente e situati essenzialmente in ambito italico. <M> ARANGIO-RUIZ, 1950, 62 s. (85)
ARANGIO-RUIZ, 1950,
(86)
ARANGIO-RUIZ, 1950,72.
68.
Capitolo IV
182
E in effetti, nel prosieguo del suo discorso il nostro autore riconosce implicitamente la opposta condizione «degli abitanti delle città italiane, che a partire dallariorganizzazionesuccessiva alla guerra sociale erano stati tutti, oltre che cives Romani, municipes e si usava dire anche cives, delle antiche comunità politicamente assorbite da Roma»(87). L'unica correzione che farei riguarda il riferimento cronologico che può estendersi perfettamente anche alla fase anteriore alla guerra sociale. Ma sul punto di sostanza ci troviamo, proprio ad opera di uno dei critici di un'estensione indifferenziata della nozione di doppia cittadinanza, di fronte alla indiretta conferma della validità di tale concetto in ordine alla situazione da noi indagata. Per questo possia mo concludere che il paradigma della doppia cittadinanza, forse inapplicabi le, come ritiene Arangio-Ruiz, all'età successiva, può esprimere l'immediata e intricata realtà anteriore all' 89 a.C, secondo cui l'estensione della cittadi nanza romana, soprattutto di quella sine suffragio, non aveva soppresso la persistenza, sia pure sempre più precaria, dei diritti locali. Si tratta, in effetti, di un riferimento atto a interpretare un limitato aspet to, non 'politico' del rapporto tra singole comunità all'interno dell'ordina mento romano e la stessa Roma, nel suo progressivo superamento della ori ginaria fisionomia della città-stato. E, forse, la lettura più convincente di que sta situazione è data da uno dei maggiori studiosi della generazione dei miei maestri che, non a caso, univa alla vivissima sensibilità di storico delle realtà locali, la sua formazione giuridica, Giuseppe Ignazio Luzzatto. Egli infatti, accogliendo in linea generale l'impostazione di Sherwin-White, per quanto concerne la persistenza dell'autonomia delle città soggette, specificava «che in questo caso, si trattava di autonomia interna e di diritto privato; non certo di autonomia sul terreno politico, come quella della pòlis nelle provineie»(8S). È ciò che appunto separa l'età successiva da quella di cui ci siamo specifica mente interessati in questa sede e definisce in modo convincente quella situa zione che ho cercato di mettere a fuoco nel corso di queste pagine. Di ciò, infine, come avevo detto, abbiamo una notevole traccia proprio in un altro testo ciceroniano, ricavato dal de legibus, dove, appunto, parreb be delinearsi quasi una gerarchia di situazioni e di appartenenze che, se vali($7)
ARANGIO-RUIZ, 1950,
73.
LUZZATO, 1952,192 nt. 29.
Il diritto romano e le città italiche
183
da ancora nell'età di Cicerone, appare proiettarsi verso una realtà ancora più antica. In effetti il grande oratore aveva ben chiaro come, successivamente al 90 a.C, la natura stessa della città-stato, quale era stata sino ad allora Roma, era venuta a mutare in profondità. E come totalmente diversa ormai, rispetto ad essa, fosse la posizione delle varie città italiche cui era stata estesa la civitas romana. Ne è chiara testimonianza Cic, leg., 2.5: (Atticus) (sed illud tamen quale est quodpaulo ante dixisti, hunc locum - id enim ego te accipio dicere, Arpinum — germanam patriam esse yestram? Numquid duas habetis patrias? an est una illa patria communis? Nisi forte sapienti illi Catoni fuit patria non Roma sed Tusculum '. (Marcus) 'Ego mehercule et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturam civitatis: ut Mie Caio, quom esset Tusculi natus, in populi Romani civitatem susceptus est; ita quom ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris;... sic nos et eampatriam dicimus ubi nati, et qua excepti sumus '*. Non sono annullate le radici d'appartenenza e il rapporto con la comu nità territoriale cui esse si riferiscono, ma ad esse s'accompagna una nuova appartenenza alla comune cittadinanza romana in cui tutti sono ormai accol ti. È da questa nuova civitas che, ora, «prende il nome di Stato tutta la comu nità»: e qua reipublicae nomen universae civitati est%9\ Immagine carica di forza simbolica ed evocatrice di valori forti, ma anche, io credo, tale da andare oltre l'aspetto meramente politico per investi re, come del resto è pacifica idea, la condizione giuridica dei singoli cittadi ni. Essi infatti sono tutti uniti all'interno dello stesso ordinamento e sottopo sti alle stesse leggi: quelle, appunto, di Roma, e tuttavia, conservano le loro radici locali, in una identità che può spingersi ad assicurare a ciascuno di essi * Tr. it: (Att.) «Ma che senso ha, tuttavia, quel che tu poco fa dicevi che questo luogo intendo che tu parli di Αφίηο - è la vostra vera patria: avete forse due patrie, ο non è unica la patria comune? A meno che di quel savio Catone non fosse patria Roma, maiuscolo». (Marc.) «Io penso, per Ercole, che lui e tutti i cittadini di un municipio hanno due patrie, una natura le, l'altra quanto alla cittadinanza; così Catone, essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella citta dinanza del popolo Romano, e dunque, poiché era Tuscolano di nascita, Romano per cittadi nanza, ebbe una patria quanto al luogo (di nascita) ed una giuridica ... così noi chiamiamo patria il luogo dove siamo nati e quella in cui siamo accolti». V. sul testo le osservazioni di TORRENT, 1970, m
59 ss.
Cfr. CRAWFORD, 1995, 49: «questo processo contribuì a creare una generale persuasione secondo cui una doppia patria, quella locale e Roma, era una cosa normale».
184
Capitolo IV
l'accesso peculiare ad un insieme di tradizioni municipali, anche di carattere legale, non contraddittorie, ma supplementari e subalterne ormai a quelle romane. Ma qui incontriamo solo una prima sistemazione di una realtà dalle molte faccie che appaiono variamente articolarsi, sia in relazione alle molte plici condizioni delle comunità esistenti all'interno del potere romano, sia nella lunga sua storia(90). Io mi sono limitato ad accentuare alcuni interrogati vi che già nelle ricostruzioni degli storici moderni erano affiorati, cercando di coglierne le non marginali conseguenze nella vita giuridica di queste stesse comunità.
(90) Questa analisi si ferma agli anni successivi alla grande svolta seguita alla guerra sociale, restando in verità aperto il problema dei tempi dell'integrazione delle città italiche nella citta dinanza romana e, soprattutto, se questa si sia estesa integralmente sin dall'inizio. Ma soprat tutto è restata fuori dal mio ambito di osservazione la documentazione relativa agli statuti municipali che si riferisce ad un periodo successivo. Anche qui resta aperto il problema se la recezione del sistema giuridico romano nei municipi e nelle colonie civium Romanorum sia stata integrale ο non si siano piuttosto affermate forme più semplificate di vigenza degli isti tuti del diritto romano. Problemi riaperti dalla lex Irnitana, pur riferita ad un municipio latino in cui peraltro vediamo ormai recepito appieno il diritto romano. Cfr. comunque sul punto, oltre a LAMBERTI, 1993, cap. IV, con orientamento parzialmente diverso, GONZÀLES, 1987,320;
GALSTERER, 1987,
195; LURASCHI, 1989, 364; STURM, 1992,482 ss.; KRANZLEIN, 1993,
182 s.
Capitolo V Alcuni problemi di storia romana arcaica: 'ager publicus \ 'gentes ' e clienti
1. Le 'gentes' e la loro terra Fondamento economico della potenza gentilizia, lungo Γ età monarchi ca e ancora nella prima età repubblicana, è il controllo dell'agerpublicus romano e la possibilità di far partecipare allo sfruttamento di tale territorio i gruppi sociali dipendenti rappresentati dai clienti. Questo, in pochissime parole, è l'assunto degli storici di Roma, sin da Savigny e da Niebuhr, che in queste pagine cercherò di analizzare in alcune sue implicazioni, senza voler ne peraltro mettere in discussione la generale validità. Naturalmente, proprio in ossequio agli obiettivi ora enunciati, non mi addentrerò in un'analisi specifica delle varie ipotesi avanzate dagli storici moderni circa il carattere e la dinamica del processo che avrebbe portato all'emersione e alla esaltazione di questo particolare rapporto fra strutture gentilizie, ager publicus e clientela. Non ha molto interesse, in questa sede, discutere se tale interrelazione avesse assunto il suo più netto significato già in età monarchica, attenuando si poi, sin dalla prima età repubblicana, oppure, al contrario, si fosse delinea ta in tutta la sua evidenza solo dopo la cacciata dei Tarquini. Limitiamoci per ora a sottolineare con forza il quadro di partenza di questa mia breve discus-
186
Capìtolo V
sione critica. Esso è costituito dall'esistenza di un'aristocrazia, organizzata nella forma delle gentes, e dal duplice fondamento della sua potenza costi tuito dal controllo di ampi territori e da gruppi più ο meno vasti di clienti. Un'idea, anch'essa, ampiamente diffusa tra i moderni studiosi. Terre gentili zie e clienti poi sono tra loro intimamente connessi sia perché le terre dei gen tili sarebbero state lavorate dai clienti, sia perché, anche a compenso di tali servigi, la loro fedeltà e la loro dipendenza sarebbero state sancite dall'asse gnazione a costoro di parte del territorio della gens. Nel corso di queste pagine, distanziandomi dall'orientamento dominan te nella moderna storiografia, cercherò tra l'altro di chiarire che Yager genti lizio ora evocato deve identificarsi con Yager publicus menzionato già per l'età monarchica e, ancor più, per la prima età repubblicana, dagli autori anti chi. È mia opinione, in sostanza che un demanio di terre pubbliche in senso proprio, con il valore che tale categaria avrà in età più avanzata, si dovette formare solo nel corso del V sec. a.C.? per assumere solo allora la sua defini tiva fisionomia, come insieme di agri occupatone di terre sottoposte a vectigal, a scriptum etc. Ma vediamo anzitutto quali indicazioni ci sono fornite da questi stes si autori. Ci volgeremo così a considerare essenzialmente il regime della terra della prima età cittadina e i suoi possibili rapporti con l'ordinamen to gentilizio. A più riprese tuttavia, nel corso della trattazione, sarò costretto a rivolgermi ad un altro aspetto della costituzione sociale primi tiva consistente nel rapporto di subordinazione che lega i clienti all'ari stocrazia gentilizia. Che intrinseco al porsi della gens come realtà aristocratica fosse la pre senza di gruppi dipendenti costituiti dai clienti, ce lo dice in modo partico larmente insistente Dionigi d'Alicamasso che tale processo riconduce, com'è noto, allo stesso momento genetico della comunità cittadina*0. Ed è chiara la funzione di supporto della clientela all'interno del gioco politico cittadino(2), ma anche del suo ruolo in funzione dell'iniziativa auto(I) Fondamentale in tal senso è Dion. Hai., 2.8-11 ; cfr. anche Liv., 6.18.6, e il noto passo cice roniano rep., 2.16. Cfr. in particolare, Liv., 2.35.4; 2.56.3; 2.64.1-2; 3.14.4; Dion. Hai., 4.23.6; 7.19.2; 7.53.3; 9.41.5; 10.15.5; 10.40.2 e 41.5; 11.22.3.
Alcuni problemi di storia romana arcaica
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noma della gensrispettoalla comunità politica più ampia(3). Vi è anche l'epi sodio della migrazione dei Claudi in Roma, insistentemente ricordato dagli antichi, che sembrerebbe ribadire la costante presenza dei clienti in ogni momento significativo.della gens: Attius Clausus, il capo della gens, abban dona la sua comunità d'origine e si sposta in Roma, accompagnato dai suoi amici e dai suoi clienti. Ma proprio questo episodio, su cui si avrà occasione di tornare più avanti, mi permette di chiarire il motivo di questo mio riferi mento ai vincoli di clientela. In esso infatti evocandosi il rapporto tra la gens e la terra, interviene questo ulteriore elemento: il vasto territorio dato dai Romani ad Attius, trans Anienem,riguardanon solo i gentili, ma anche tutti i suoi seguaci: i clienti. Direttamente dalla vicenda dei Claudi non possiamo sapere di più: da esso non emerge infatti alcuna diversità interna al gruppo tra membri optimo iure della gens e clienti subalterni, atta ariflettersi in una dif ferenziazione di funzioni in ordine ai ruoli militari e allo sfruttamento delle terre agricole. Tuttavia la ribadita presenza dei clienti che risulta soprattutto nei momenti di crisi ο di mutamento di ruolo della stessa gensi4\ ci induce ad una più generale riflessione volta a individuare una chiave di lettura attraverso cui il rapporto delle genti con il loro territorio possa essere adeguatamente inter pretato..Sin dal secolo scorso infatti - e in forme diverse nel corso delle varie generazioni e ad opera di vari storici - è emersa la tendenza a interpretare secondo schemi 'feudali' l'organizzazione del territorio gentilizio. Sfruttato (3)
L'episodio più significativo in tal senso è costituito dalla ben nota spedizione dei Fabi; si v. per tutti la brillante, ma un po' ardita analisi di GAGÉ, 1976, 195 ss. (4) Mi riferisco anzitutto alla vicenda adombrata da Dionigi nel narrare lo stratagemma orga nizzato daTarquinio il Superbo per conquistare Gabi. L'allontanamento del figlio Sesto e il suo rifugio in quest'ultima città non sembrano infatti riguardare un singolo individuo, come forse parrebbe attestato in Liv., 1.53.5-11, ma tutto un ramo gentilizio. Dion. Hai., 4.55.3, scrive infatti che Sesto Tarquinio si sposta a Gabi accompagnato dai suoi amici e clienti. È interes sante accennare che lo stesso schema era già stato utilizzato da Dionigi nel narrare la migra zione in Roma di Tarquinio Prisco (Dion. Hai., 3,47.2), che per l'appunto avrebbe portato con sé, oltre a tutte le sue ricchezze e alla moglie, gli amici e clienti (oikèton) che avessero voluto seguirlo. In questo caso la narrazione di Livio, come sempre assai più scarna, non sembra offri re una conferma diretta a tale rappresentazione: cfr. Liv., 1.34.5-6 e l i . Anche la dipartita di Gaio Claudio da Roma sembra segnare, nella narrazione di Dionigi (11.22.4-5), un evento non solo privato, che spezza la stessa unità della gens Claudia. Tale accadimento si attua in diret ta polemica con Appio Claudio, il capo dei decemviri. Un punto fermo, nella visuale degli anti chi, è che qualsiasi importante iniziativa politica di un personaggio eminente della gens avve niva con l'appoggio attivo di seguaci e clienti.
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Capitolo V
questo dalle genti attraverso una forma di lavoro dipendente fornita appunto dal ceto dei clienti i quali avrebbero ricevuto da queste stesse genti singoli lotti di terra, in concessione precaria, quale compenso della loro fedeltà 'poli tica' e del lavoro fornito per la coltivazione delle terre gentilizie. In verità è tutta la vicenda della contestata supremazia dell'aristocrazia gentilizia in Roma, specie a partire dall'età repubblicana, che si ricollega alla ricorrente controversia intorno alla terra. Larichiestaplebea, ben netta sin da Spurio Cassio, di una divisione dell'ager publicus, sfruttato allora in modo esclusivo dai patres e dai loro clienti, si propone insistente sino all'improv viso scioglimento del conflitto nel 367 a.C. Si noti: i plebei non chiedono di essere ammessi anche loro a beneficiare dell5ager publicus, ma sempre e solo che questo venga diviso in proprietà quiritaria.
2. La contesa intorno all''ager publicus9 Volgiamoci ora a considerare più da vicino il quadro che, in ordine ai problemi ora indicati, ci offrono gli autori antichi e in particolare Livio e Dionigi che, tra l'altro, presentano una significativa convergenza di orienta menti. Risulta evidente innanzitutto il fatto che l'apparizione in primo piano, nella storia di Roma, dellafiguradell'ager publicus coincide con l'età del più vivo contrasto fra patrizi e plebei: il primo secolo della Repubblica. È indub bio che, anche per l'epoca precedente troviamo già menzione dell'ager publicus™, così come ricorrono notizie di distribuzione al popolo, da parte dei re, oltre che di terre di loro pertinenza, anche di parte àélYager publicus^. {5) Cfh Dion. Hai., 2.7.4, per l'età romulea, e Dion. Hai., 2.62.4; 74.4, per il regno di Numa. Interessante anche un'altra menzione dell'ager publicus di Alba, da distribuire fra i suoi citta dini più poveri con il loro trasferimento in Roma, in Dion. Hai., 3.31.3, relativo sempre allo stes so episodio. Non riesce però agevole distinguere fra la terra della comunità albana e Vager publicus di Roma, essendo del resto la primariassorbita,per il diritto di conquista, nel secondo. (6) In Dion. Hai., 2.62.3-4, si fa menzione di una distribuzione effettuata da Numa di terre che possiamo definire 'della corona', in quanto provenienti al nuovo re dal suo predecessore e, tut tavia, apparentemente distinte dal patrimonio personale di questi. A tali terre, dice Dionigi, si aggiunsero anche territori appartenenti aWager publicus vero e proprio. È interes-
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Tuttavia gli antichi sembrano concordi nel far risalire alla proposta di Spurio Cassio - salvo un significativo precedente in età di Servio Tullio}IA ruii A\ rmentf*
TYlPPT Ι Τ 1 0 7 5 9.Q SS.
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seguito da parenti, amici e clienti: indicando cioè la struttura gentilizia nella sua interezza. Struttura genericamente ma chiaramente indicata anche da Svetonio, con il binomio di gens e clienti(34). Per quanto concerne le concessioni di terre ai Claudi, in linea generale Livio e Dionigi associano la gens con il territorio al di là dell'Amene, che si identificherà con la tribù Claudia. Così ce ne parla Livio, 2.16.3-5: «Un dis senso scoppiato in seno ai Sabini fra i fautori della guerra e coloro che erano favorevoli alla pace fece passare ai Romani un certo numero di questi. Infatti Atto Clauso, che ebbe poi in Roma il nome di Appio Claudio, vedendosi come fautore della pace premuto da quelli che si agitavano per la guerra e non essendo lor pari di forze, passò da Irregillo a Roma con un gran seguito di clienti. Fu loro data la cittadinanza e la campagna al di là dalPAniene, e quan do, più tardi, vi si aggiunsero altri cittadini, ebbero nome di tribù Claudia vecchia quelli che provenivano da quel territorio. Appio, cooptato tra i sena tori, ben presto fu nel Senato uno dei membri più ragguardevoli». E ancora, in 4.3.14, egli ripete più brevemente lo schema di fondo del l'episodio: «E, sempre dopo l'espulsione dei re, abbiamo senz'altro accolto non solo fra i cittadini ma anche nel patriziato la gente Claudia che proveni va certamente dalla Sabina. D'uno straniero abbiamo fatto dunque un patri zio, poi un console»(35). Più prolissa, come sempre, ma sostanzialmente ispirata allo stesso sche ma liviano appare la versione di Dionigi d'Alicarnasso, 5.40.3-5. Leggiamola di seguito: «Tito Claudio, uomo di stirpe sabina abitante nella città di Regillo di nobile origine e potente per ricchezza, passò dalla loro parte (scil. dei Romani) recando con sé vasto stuolo di congiunti, amici e clienti, i quali (34 > Cfh Liv., 2.16.5; Plut, Pubi., 21.9; Serv., Aen., 7.706; App., reg frg., 12; Dion. Hai., 5.40.3-5; Svet, 7z&, 1.1-2.1 testi sonoriportatiper esteso nelle note seguenti. Sull'episodio si
v. comunque AMPOLO, 1971, 37 ss.; BOZZA, 1930, 200; ROMANO, 1984, 107 ss.; FRANCIOSI,
1988, 131 e altra bibl. ivi, nt 8. (35) Liv., 2.16.3-5: Seditio inter belli pacisque auctores orta in Sabinis aliquantum inde virium transtulit ad Romanos. 4. Namque Attius Clausus, cui postea Appio ClaudiofiiitRomae nomen, cum pacis ipse auctor a turbatoribus belli premeretw nec par factioni esset, ab Inregillo, magna clientìum comitattds manu, Romam transfiigit 5. His civitas data agerque trans Anienem; Vetus Claudia tribus - additis postea novìs tribulibus qui ex eo venirent agro appellati. Appius inter patres lectus, haud ita multo post in principum dignationem pervenit. Liv. 4.3.14: Claudiam certe gentem post reges exactos ex Sabinis non in civitatem modo accepimus, sedetiam in patriciorum numerum. Ex peregrinane patricius, deinde consulflat.
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erano emigrati in massa con le loro famiglie ed erano idonei a servire in armi in numero non inferiore a cinquemila. Si narra che la circostanza cogente che lo spinse a trasferire a Roma la propria sede fu, a un dipresso, questa. Ostili alla sua ambizione in campo politico, i più illustri maggiorenti della colletti vità lo incriminarono sotto l'accusa di tradimento, sulla base del fatto che egli non era favorevole a dichiarare guerra contro i Romani e anzi, nell'assemblea comune, contrastava quantiritenevanoche i patti avessero perduto validità e non permetteva che i propri concittadini giudicassero vincolanti le delibera zioni prese dagli altri. Nel timore di questo giudizio (il suo esito doveva infat ti venir deciso dalle altre collettività), raccolti i propri beni e i propri segua ci, si unì ai Romani, arrecò alla loro situazione un sostegno cospicuo e appar ve come l'artefice maggiore del buon esito di questa guerra. Per tale motivo la volontà del senato e del popolo lo ascrisse tra i patrizi e gli permise di appropriarsi di una porzione grande quanto voleva del territorio cittadino per costruirvi abitazioni: gli concesse inoltre la parte dell'agro pubblico compre sa tra Fidene e Picezia, perché avesse la possibilità di distribuire lotti di ter reno a tutti i suoi uomini. Da essi sorse col tempo anche una tribù denomina ta Claudia, e questa continuò ad esistere fino ai nostri tempi, conservando il medesimo nome»(36). Appiano si limita aricordarel'assegnazione di terra alla (36)
Dion. Hai., 5.40.3-5: άνήρ τις έκ του Σαβίνων έθνους πόλιν οικών Τήγιλλον ευγενής και χρήμασι δυνατός Τίτος Κλαύδιος, αυτομολεί προς αυτούς συγγενειάν τε μεγάλη ν επαγόμενος και φίλους και πελάτας συχνούς αύτοις μεταναςτάντας έφεστίοις, ουκ έλάττους πεντακισχιλίων τους δπλα φέρειν δυνα μένους, ή δε καταλαβούσα αυτόν ανάγκη μετενέγκασθαι την οϊκησιν εις 'Ρώμην τοιαύτη λέγεται γενέσθαι, οι δυναστεΰοντες έν ταίς έπιφανεστάταις πόλεσιν άλλοτρίως έχοντες προς τον άνδρα της εις τα κοινά φιλοτιμίας, εις δίκην αυτόν ύπήγον αιτιασάμενοι προδοσίαν, δτι τον κατά 'Ρωμαίων πόλεμον έκφέρειν ουκ ην πρόθυμος, άλλα και έν τω κοινω μόνος άντέλεγε τοις άξιοΰσι τας σπονδας λελύσθαι, και τους εαυτού πολίτας ουκ εΐα κυρία είναι τα δόξαντα τοις άλλοις ήγεισθαι. ταυτην όρρωδών την δίκην έδει γαρ αυτήν ύπο των άλλων δικασθήναι πόλεων άναλαβών τα χρήματα και τους φίλους τοίς 'Ρωμαίοις προστίθεται ροπήν τ' ου μικράν εις τα πράγματα παρέσχε και του κατορθωθήναι τόνδε τον πόλεμον απάντων εδοξεν αίτιώτατος γενέσθαι* άνθ' ών ή βουλή κα\ ό δήμος εις τε τους πατρικίους αυτόν ενέγραψε και της πόλεως μοΐραν εΐασεν όσην έβούλετο λαβείν εις κατασκευήν οικιών χώραν τ' αύτω προσέθηκεν έκ της δημοσίας τήν μεταξύ Φιδήνης και Πικετίας, ως εχοι διανειμαι κλήρους άπασι τοις περί αυτόν, αφ' ών κάί φυλή τις έγένετο σύν χρόνω Κλαυδία καλούμενη και μέχρις εμού διέμεινε το αυτό φυλάττουςα δνομα.
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gens per le abitazioni e i campi da coltivare*37*, mentre ancora più sommaria mente Servio ricorda l'assegnazione dell'area urbana per le abitazioni*38*. Svetonio invece parla di un ager trans Anienem destinato ai clienti e di una località sub Capitolio destinata al sepolcro gentilizio'39*. Molto diversa è inve ce la versione di Plutarco: egli ricorda infatti che i Romani dettero ai nuovi venuti 2 iugeri di terra per ogni seguace e 25 iugeri ad Atto Clauso. Converrà riportarla integralmente di seguito per la sua particolare rile vanza: Plut. Pubi., 21.4 ss.: «v'era tra i Sabini un personaggio, di nome Appio Clauso, potente per le sue ricchezze e celebre per la forza fisica straordinaria, ma eminente nella sua nazione soprattutto per fama di virtù e abilità di parola. Non sfuggiva neppure lui, però, al destino comune di tutti i grandi uomini: era invidiato. Così quando cercò di arrestare la guer ra, i suoi avversari lo accusarono di favorire responsione di Roma per farsi tiranno della propria patria, una volta asservita. Appio si avvide che la massa prestava orecchio volentieri a queste chiacchiere, e di essere inviso ai fautori della guerra e ai militari. Temette un processo, ma, sic-
(37) "Οτι Ταρκΰνιος Σαβίνοuc κατά ^Ρωμαίων ήρέθιζε. KXatfÒioc δε, άνήρ lafftvoc εκ ΊΡηγίλλου πόλεως δυνατό*:, ουκ εια το oc Xapivooc παρασπονοειν, εαχ: κρίνομεvoc επί τωδε εφυγεν èc Τώμην μετά συγγενών και φίλων και δούλων πεντακισχιλίων* die πάσι Τωμαιοι χώραν èc oiKiac εδοσαν και γήν èc γεωργίαν και πολίτη»: εθεντο. τον δε Κλαΰδιον και èc το βουλευτηριον κατέλεξαν, άποδεικνΰμενον έργα λαμπρά κατά των Σαβίνων* κα\φυλήν έπώνυμον αύτοΰ κατέστησαν. (Αρρ., reg.frg., 12). Eccone la traduzione: «Tarquinio incitava i Sabini contro i Romani. Claudio, un influen te Sabino della città di Regillo, non permetteva che i Sabini violassero i patti,finchéproces sato per questo, fuggì a Roma con parenti, amici e cinquemila servi. A tutti questi i Romani diedero un luogo da abitare, terra da coltivare e il diritto di cittadinanza. Scelsero poi Claudio come membro del Senato, poiché aveva compiute splendide azioni contro i Sabini; istituirono una tribù che prese nome da lui». 0Z) Serv., Aeru, 7.706:... nam Clausus, Sabinorum dux exactos reges, ut quidam dicunt, cum quinque milibus clientum et amicorum Romam venti, et susceptus habitandam partem urbis accepit: ex quo Claudia et tribus est et familia nominata. Riporto di seguito la traduzione: «infatti Claudio, capo militare dei Sabini, dopo la cacciata dei re, come alcuni sostengono, venne a Roma con cinquemila clienti e amici e, accolto [dai Romani], iniziò ad abitare in una parte della città: da cui derivò il nome sia la tribù che la gens». (39) Svet, Tìb., 1.1: patricia gens Claudia (futi enim et alia plebeia, nec potentia minor nec dignitate) orta est ex Regillis oppido Sabinorum. Inde Romam recens condtiam cum magna clientium manu commigravit auctore Tito Tatio consorte Romuli, vel, quod magis constai, Att Claudio gentis principe, post reges exactos sextofere anno; atque inpatricias cooptata agrum insuper trans Anienem clientibus locumque sibi ad sepulturam sub Capitolio publice accepit. Questa è la traduzione: «La gens Claudia patrizia (ve ne fu anche un'altra plebea, non inferiore né per potenza né per dignità) ha avuto origine dalla cittadina sabina di Regillo. In seguito essa
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come disponeva di una potente consorteria di amici e parenti in grado di difenderlo, continuò la sua opposizione. Essa impacciò i Sabini e fece rin viare la guerra. Publicola naturalmente si dava da fare non solo per cono scere i particolari della situazione, ma anche per alimentare e incoraggia re i dissenzienti. Scelte delle persone adatte, le mandò da Clauso a rife rirgli da parte sua queste parole: 'Publicola sa che un galantuomo retto come te non si difenderà mai dai propri concittadini facendo loro del male, anche se trattato ingiustamente. Ma potresti desiderare per salvarti di cambiare paese e di fuggire lontano da coloro che ti odiano: in tal caso egli ti riceverà con tutti gli onori pubblici e privati convenienti alla tua virtù e allo splendore dei Romani'. Clauso esaminò più e più volte le pro poste di Publicola; esse gli parvero, nella condizione in cui l'avevano messo gli avversari, il partito migliore. Radunati pertanto gli amici, e quelli a loro volta persuadendo molti altri a seguirli, partì e condusse a Roma cinquemila famiglie, con i figli e le donne, composte dalla gente più mite e tranquilla che ci fosse tra i Sabini, amante dell'ordine e della pace. Publicola, preavvertito, li accolse cordialmente e volentieri a con dizioni più che eque. Infatti ammise subito le famiglie a godere dei dirit ti di cittadinanza e assegnò a ciascuna due plettri di terra lungo il fiume Aniene; Clauso ne ebbe venticinque e fu ammesso in Senato: inizio di una carriera politica, che, saggiamente sfruttata, lo elevò al più presto alla suprema dignità dello stato e gli procurò grande potenza. La stirpe dei Claudi, seconda a nessuna in Roma, discende da lui-»i40). emigrò a Roma, di recente fondata, con grande seguito di clienti, sotto la guida di Tito Tazio col lega di Romolo o, ciò che è più probabile, sotto quella di Atta Claudio princeps gentis, il sesto anno dopo la cacciata dei re, e fu annoveratafrale genti patrizie ericevetteper i suoi clienti della terra trans Anienem 'dal pubblico' ('dalle terre pubbliche' ο 'a spese pubbliche'? Credo più pro babile la prima ipotesi) e per sé ricevette una località per la sepoltura sotto il Campidoglio». m La versione italianariportatanel testo è quella pubblicata da Ampolo nel saggio già citato. Il testo greco è il seguente: Plut Pubi, 21.4 ss.: ην ουν "A7nnoc Κλαύσος εν Σαβίνοις άνήρ χρήμασί τε δυνατός και σώματος ρώμη προς αλκή ν επιφανής, αρετής δέ δόξη μάλιστα και λόγου δεινότητι πρωτεύων, δ δε πάσι συμβαίνει τοϊς μεγάλοις, ου διέφυγε παθειν, αλλ' έφθονείτο, κα\ τοις φθονούσιν αιτίαν παρέσχε καταπαΰων τον πόλεμον αυξειν τα Τωμαίων έπι τυραννίδι κα\ δουλώσει της πατρίδος, αίσθόμενος δε τους λόγους τούτους βουλομένω τφ πληθει λεγόμενους κα\ προσκρούοντα τοις πολλοίς κα\ πολεμοποιοις κα\ στρατιωτικοις εαυτόν, έφοβεΐτο τήν κρίσιν, έταιρείαν δε κα\ δΰναμιν φίλων και οικείων έχων άμυνουσαν περ\ αυτόν έστασίαζε. καΥτοΰτ' ην του
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Il rapporto fra gens Claudia e la terra assegnata dai Romani, a ben con siderare, è tutt5 altro che evidente. Da una parte infatti si pone la rappresenta zione di Plutarco che collega ad Atto Clauso e alle cinquemila famiglie dei suoi seguaci un terreno in proprietà privata: i soliti heredia per queste e un lotto più ampio (ma sempre moltoridotto)per ìlprinceps gentìs. Va sottolineato che le condizioni numeriche contenute in Plutarco - né conta qui evidentemente il loro caratterefittizio,quanto la relazione fra di esse - escludono di trovarci di fron te alla rappresentazione di un insieme di agerprivatus e di ager gentilizio. Se i bina iugera esprimono perfettamente l'immagine della proprietà individua le, venticinque iugeri non indicano certo la terra comune di una grande gens (che parrebbe avere annoverato almeno cinquemila uomini in grado di porta re le armi), ma la proprietà privata del più eminente personaggio della gens stessa. Vi è però una diversa rappresentazione che emerge, soprattutto nel testo di Dionigi, chericollegaο puòricollegarela terra distribuita non già alla pro prietà individuale, ma alla gens nel suo complesso (Pagro pubblico tra Fidene e Picetia): che ci propone cioè l'immagine dell'agir gentilizio. Tuttavia lo stesso Dionigi si guarda bene dal darci una notizia precisa circa il regime giu ridico della terra così assegnata. Se cioè essa fosse oggetto di una proprietà della gens (o del suo princeps gentìs) in quanto tale, o, conservando il suo ori ginario carattere di a. publicus, divenisse oggetto di un semplice anche se esclusivo possesso da parte della gens. πολέμου διατριβή και μέλλησις τοϊς Σαβίνοις. ΤαύΥ ουν ό Ποπλικόλας ου μόνον ειδέναι ποιοΰμενος έργον, άλλα και κινειν κα\ συνεξορμάν την στάσιν, εΐχεν άνδρας επιτηδείους οχ τω Κλαΰσω διελέγοντο παρ' αύτοΰ τοιαύτα, eoe ό Ποπλικόλας άνδρα χρηστον δντα και δίκαιον ούδενι κακω δειν οϊεται τους σεαυτού πολίτας άμΰνεσθαι καίπερ άδικοΰμενον ει δε βοΰλοιο σώζων σεαυτον μεταστηναι και φυγείν τους μισούντας, υποδέξεται σε δημοσία κα\ ιδία της τε σης αρετής άξίως και της Τωμαίων λαμπρότητος. ταύτα πολλάκις διασκοπούντι τφ Κλαΰσω βέλτι στα των αναγκαίων έφαίνετο, και τους φίλους συμπαρακαλών, εκείνων τε πολλούς ομοίως συναναπειθόντων, πεντακισχιλίους οίκους άναστησας μετά παίδων και γυναικών, δπερ ην εν Σαβίνοις άθόρυβον μάλιστα και βίου πρςωυ και καθεστώτος ο'ικειον, εις Τώμην ήγε, προειδότος του Ποπλικόλα και δεχόμενου φιλοφρόνως κα\ προθΰμως έπι πάσι δικαίοις. τους μεν γαρ οίκους ευθύς άνέμειξε τω πολιτεΰματι, και χώραν άπένειμεν έκάστω δυειν πλέθρων περί τον Άνίωνα ποταμόν, τω δε Κλαΰσω πλέθρα πέντε και είκοσι γης εδωκεν, αυτόν δε τί) βουλή προσέγραψεν, αρχήν πολιτείας λαμβάνοντα ταΰτην, ή χρώμενος έμφρόνως άνέδραμεν εις το πρώ τον αξίωμα, και δΰναμιν έσχε μεγάλην, και γένος ούδενος αμαυροτερον εν Τώμΐ] το Κλαυδίων αφ' αυτού κατέλιπε.
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Come ho già accennato all'inizio del paragrafo, la migrazione dei Claudi è assunta in maniera uniforme dagli storici moderni ariprovadel rapporto esisten te fra la. gens, la terra e i clienti. Resta nel vago tuttavia in qual modo l'assegna zione della terra ai gentili e ai clienti sia stata effettuata e quale sia poi la posi zione dei clientirispettoalla terra e alla. gens. Come abbiamo visto, su tali aspet ti gli antichi sono abbastanza oscuri e relativamente contraddittori. Mi sembra dunque necessarioribadirecon la massima chiarezza un punto che sinora è restato forse un po' implicito nel mio discorso: che, per quello che sappiamo delle forme giuridiche romane, il dominium ex iicre Quiritium, tipo del tutto individuale di appropriazione, in nessun modo appare istituto atto a confermare la unità dei gentili e la subordinazione dei clienti alla gens. Al con trario, esso tende ad esaltare l'autonomia del singolo individuo sui iuris e delle famiglie proprio iurerispettoai gruppi gentilizi, almeno per quantoriguardail rapporto con la terra e più in generale la sfera economica. Se dunque si dovesse accertare che la terra concessa ai nuovi venuti sia da identificarsi tutta con le assegnazioniricordateda Plutarco, dovremmo allora con cludere, senza molte incertezze, che lungi dal trovarci difrontealla testimonian za di un ager gentilizio, troveremmo attestata la sostanziale autonomia dei singoli seguaci di Atto Clauso, messi tutti, gentili e clienti, sullo stesso piano da parte di Roma. Tutti (salvo Atto, il capo destinato ad essere assunto tra ìpatres) proprie tari di un'uguale dimensione di agerprivatus: la dimensione spettante per l'ap punto ai cives romani sin dalla prima leggendariaripartizioneromulea. Si può certo far leva, nelPanalizzare la vicenda dei Claudi, sul diverso filo ne narrativo che fa capo principalmente a Dionigi, e che non sembra trovare discorde lo stesso Livio: verosimilmente la versione più autorevole dell'episo dio. Come abbiamo visto, in questa prospettiva, veniamo a sapere solo che un'ampia area di terreno trans Anienem, secondo Dionigi a. publicus, sarebbe stata attribuita in blocco alla gens, ο meglio al suo capo, che avrebbe provvedu to a redistribuirla fra tutti i membri del gruppo. Nulla sappiamo né della natura del diritto attribuito alla gens, né del diritto attribuito poi ai singoli gentili. Si potrebbe supporre in modo senz'altro legittimo che, specie per il secondo, si trat tasse di una semplice forma precaria(41). Fondendo poi insieme le due versioni, (4,) Dion. Hai., 5.40.5, dice infatti, come abbiamo visto, che i Romani dettero a Tito Clauso la terra pubblica fra Fidene e Picetia, affinché egli potesse ripartire lotti di terra fra i suoi
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quella di Dionigi e quella di Plutarco - ma la cosa, se pur suggestiva, appare in verità molto avventurosa - si potrebbe giungere addirittura a immaginare un duplice regime del territorio assegnato ai Claudi: da una parte un'area in pro prietà individuale ai singoli gentili e clienti, dall'altra una terra posseduta in comune da tutta la gens. Siriprodurrebbecosì quell'integrazione di terreno indi viduale e di terra comune che la storiografia ottocentesca aveva immaginato come regime normale per la prima storia di Roma(42).
6. II contenuto delP'ager' gentilizio A ben vedere l'episodio dei Claudi non chiarisce affatto i caratteri e le forme di sfruttamento della terra da parte delle genti. In ultima analisi da esso non possiamo neppure ricavare con certezza che la gens in quanto tale - e non già i singoli gentili - avesse la signoria su una terra comune, ma, soprat tutto, esso nulla ci dice sulle forme in cui la titolarità della terra sarebbe stata assicurata alla gens. Direi quasi che è proprio la sostanziale ambiguità deitradizione antica, che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente ad aver in qualche modo indotto i moderni in interpretazioni del suo significato che, se legittime, non sciolgono tuttavia i nodi che si celano nel racconto. Vi è soprattutto un aspetto per noi particolarmente importante: in tale vicenda abbiamo infatti incontrato una sostanziale diversità tra ilriferimentoad una proprietà dei singoli gentili e dei clienti e la menzione dell' a. publicus seguaci. Il che non vuol dire necessariamente che la redistribuzione a costoro comportasse la spoliazione della gens e la costituzione di una serie di domini in proprietà quiritaria. La media zione di Tito Clauso, in tale versione, avrebbe potuto essere più durevole e la titolarità della terra restare a lui attribuita. Secondo questa ipotesi, egli sarebbe divenuto il padrone di tutto il territorio concessogli da Roma (in proprietà privata) e lo avrebbe ripartito fra i suoi seguaci nella forma di concessioni precarie. Si può invece interpretare la narrazione di Dionigi nel senso che Tito abbiaripartitofrai suoi, in piena proprietà, il territorio concessogli: in tal caso la versione di Dionigi finirebbe praticamente col coincidere con quella di Plutarco. Un'ultima ipotesi potrebbe essere avanzata a proposito della versione di Dionigi. Che cioè Vagera. Tito (Atto) fosse concesso dai Romani in possesso e che costui ripartisse tale territorio fra i suoi gentili come semplice detenzione precaria: è questa l'ipotesi che più ci avvicina all'immagine dell 'ager gentilizio. (42) Per una nrima annrossimazione a tale Droblema v. infra, can. V.
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assegnato dalla civitas alisi gens. In tal modo possiamo meglio mettere a fuoco un'altra incertezza che non di rado si incontra fra gli storici in ordine all'ipote tico ager gentilizio, che se talvolta sembra identificarsi con Va. publicus, in altri casi sembra assumere il valore di un territorio diverso, in diretta proprietà della gens ο addirittura dei singoli gentili. A questo punto, in ordine a tale figura, finiamo col ritrovarci di fronte agli stessi problemi che abbiamo incontrato a proposito dell'a. publicus. Ο ipotizziamo infatti per Yager gentilizio una proprietà del gruppo in quanto tale (e quindi una situazione giuridica del tutto diversa dalla proprietà individuale), oppurefiniamocol negare un effettivo ruolo da parte della gens. Nel caso opposto infatti ci si ridurrebbe ad identificare Yager gentilizio con l'insieme dei terreni in piena proprietà dei singoli membri della gente e dei loro clientii magari situati nella stessa località e destinati in seguito a designare alcu ne delle tribù territoriali. È però vero che in tal modorisultanoevanescenti, per gli argomenti che abbiamo già visto nei precedenti paragrafi, i vincoli e la com pattezza stessa della gens. Per non parlare poi della sostanziale indipendenza dei clienti legati da unafidespriva di qualsiasi fondamento materiale. In verità, l'orientamento dei moderni appare volto piuttosto ad immagina re Yager gentilizio come oggetto di una signoria della gens in quanto tale e distinta dalla terraripartitain piena proprietà fra i gentili e i clienti(43). È anche vero che, in alcuni autori, questa signoria tende a configurarsi con un significa to politico che trae giustificazione dalle sue origini preciviche(44). Come è noto un carattere politico lo si è del resto voluto vedere persino nelYheredium del sin golo pater familias; ma proprio quest'ultima interpretazione evidenzia a mio avviso la sostanziale debolezza di tale impostazione. Lo schema interpretativo bonfantiano relativo al mancipium del pater familias al quale da ultimo facevoriferimento,indipendentemente dalla sua intrinseca validità, riguardava un sistema di rapporti analogo a quello in seguito destinato ad enuclearsi nel dominium ex iure Quiritium. Ora, per quanto concerne Yager gentilizio, noi dobbiamo invece rinunciare definiti
quei motivi di perplessità che ho avanzato in ordine al modo in cui gli anti chi hanno interpretato le ormai lontane vicende della prima età repubblicana e al tipo diricostruzioniche, conseguentemente, i moderni sono venuti pro ponendo. In sostanza il mio sforzo ha cercato di introdurre un'alternativa reale di fronte alla quale ci troviamo nella nostra lettura delle fonti antiche. E, proprio per questo, resto relativamente poco interessato all'accoglimento della mia stessaricostruzioneche privilegia uno dei corni del dilemma. Più importante infatti — loripetoancora una volta - è il fatto che ci si ponga in modo corret to di fronte a questo stesso dilemma che mi sembra assolutamente centrale per la comprensione dei problemi di fondo di questo periodo storico e del modello istituzionale e sociale ad esso corrispondente. E che all'uopo si veri fichi anzitutto la coerenza interna delle possibili ipotesi, insieme alla loro reciproca incompatibilità. Volendo dunqueriassumereerichiamandomianche a quanto già accen nato nel precedente paragrafo, mi sembra che la prima ipotesi, con la quale si tende a far prevalere gli elementi di continuità rispetto alla situazione suc cessiva al 367 a.C, debba assumere i seguenti dati: a) all'interno della comu nità cittadina il fenomeno aristocratico, pur caratterizzato dalla presenza di forme ereditarie, da lignaggi e dalla funzione sociale delle gentes, si fonda su un sistema di rapporti giuridici ed economici essenzialmente individualistico; b) la proprietà e il possesso della terrariguardanoquindi sin dall'inizio i sin goli patres familias e il ruolo delle consorterie gentilizie si limita così a
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rafforzare e garantire la posizione dei patres nei loro rapporti diretti con l'or dinamento cittadino che derivano i loro possessi fondiari direttamente dal diritto della civitas. In questa prospettiva è il fenomeno gentilizio che appare, in ultima istanza, dipendente dalFaffermarsi di strutture aristocratiche fondate su un sistema di appropriazione individuale degli strumenti di produzione ed è, con ogni probabilità, successivo, come la stessa emersióne di una struttura aristo cratica, al definirsi della costituzione cittadina. Secondo questo schema appa re inesatto parlare di una titolarità da parte del gruppo gentilizio di un dato territorio: la terra gentilizia altro non sarebbe che la somma delle proprietà individuali dei membri della gens. Ho comunque l'impressione che non tutti gli studiosi moderni siano disposti ariconoscersiin un modello del genere. Per molti infatti il fenome no gentilizio, almeno in una fase iniziale della vita cittadina, ha un rilievo maggiore, secondo diverse teorie, risalente addirittura ad epoca anteriore alla stessa civitas. Secondo tale impostazione, le gentes appaiono direttamente come titolari di rapporti di dipendenza degli individui e di forme di signoria sulla terra. A questo punto si potrà tentare di delineare una seconda ipotesi, che tenda ariconoscerequesto ruolo più importante delle gentes, ma che non si venga sfumando nella indeterminazione dei concetti e definizioni pur mutua te delrigorosovocabolario giuridico romano. Vediamo quali possono ο deb bono essere gli elementi del quadro che si vuole ricostruire. Anzitutto il rapporto fra là gens e la terra è diretto, non mediato da un ruolo autonomo dei patres familias. Ciò che, come si è già visto, elimina radi calmente i due schemi del dominium e della possessio di tipo privatistico pre senti nell'ordinamento giuridico romano sin dall'età predecemvirale. Il rap porto fra la gens e la terra è in qualche modo un prius rispetto alla formazio ne dell'a. publicus in senso tecnico, oggetto cioè quest'ultimo di un posses so individuale dei singoli patres e che si sarebbe realizzato solamente in epoca relativamente più recente. La emersione dell'aristocrazia patrizia, in questa prospettiva, se non dipendente, sarebbe comunque strettamente colle gata alle strutture gentilizie che ne assicurerebbero il fondamento materiale. In tal senso il definirsi di un α publicus aperto allo sfruttamento delle singo-
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le famiglie (patrizie e plebee) e addirittura dei singoli cittadini sui iuris costi tuirebbe un elemento di novità rispetto ai caratteri originari di quella parte dell'agir romanus non diviso in proprietà individuale. Queste valutazioni ci riportano al problema centrale costituito dal preci so significato, anche giuridico, della signoria di una. gens su una data area ter ritoriale. Il che presenta qualche difficoltà se si considera come, presso gli antichi, tale signoria non sia mai indicata come una realtà alternativa al dominium ο alla, possessio dei singoli patres. Da una parte insomma manca ogni traccia, a livello delle rappresentazioni formali, della signoria comune della gens. Già con le XII Tavole tutto il sistema dei rapporti reali appare infatti fondato sulle forme individuali di appropriazione: proprietà-possesso. Dall'altra, presso gli stessi storici moderni manca un preciso riferimento alla terra delle gentes: abbiamo visto quanto siano incerti gli echi contenuti nella vicenda dei Claudi, e ugualmente ambigue, anche se di grande interesse, siano le indicazioni relative alle terre dei Tarquini. Tutto ciò non vuol dire ovviamente che forme di proprietà gentilizia non potessero esistere nella Roma arcaica. È infatti possibile che tali risalenti forme di signoria sulla terra, destinate a dissolversi rapidamente con la più generale crisi della società gentilizia, non abbiano potuto conservare, nelle più tarde testimonianze degli autori antichi, una loro sufficiente individualità. Esse inevitabilmente finivano col confondersi con altre realtà destinate a vita più duratura e, quindi, meglio note agli stessi scrittori antichi.
8. Una ipotesi interpretativa A questo punto ha inizio la parte più decisamente ipotetica della mia ricostruzione, il cui carattere è bene sia chiarito preliminarmente. Noi parliamo di una 'proprietà' delVager gentilizio da parte delle gentes, e di un loro 'possesso' dell'a publicus. Come si è già accennato restano poi abbastanza incerti i rapporti fra queste due realtà. Ma, soprattutto, appa re inadeguata ed equivoca la stessa applicazione di termini come 'proprietà' e 'possesso', che corrispondono a precise categorie all'interno dell'ordina-
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mento giuridico romano, a definire la posizione non del singolo pater ma di un soggetto diverso, quale la gens, che non appare mai come titolare col lettiva di diritti rispetto a questo nuovo ordinamento. Va infatti ribadito come, nelle fonti, di fronte al dominium (o ai suoi ipotetici antecedenti di tipo individuale) del civis sui iuris, non sia mai ricordato un altro tipo di proprietà comune della gens, riconosciuta e tutelata come tale dall'ordina mento romano. Salvo alcuni ambigui accenni, presso gli antichi, il rappor to fra la gens in quanto tale e la terra noi lo troviamo sempre realizzato dallo schema delPa publicus. D'altra parte, come abbiamo visto, sarebbe ugualmente scorretto e insufficiente adeguarsi in tutto all'immagine dell'** publicus e al suo regime come si verrà configurando negli ultimi secoli della Repubblica. Esso infatti riproporrebbe gli stessi elementi individualistici del dominium, incompatibi li con una diretta pertinenza della gens. Mi chiedo allora se la chiave interpretativa non sia offerta, non tanto dal richiamo ali'a publicus in sé, quanto dalla contrapposizione a. publicus-a. divisus et adsignatus, oggetto quest'ultimo del dominium quiritario (o del suo antecedente storico). È questa contrapposizione in effetti che, negli antichi, si accompagna costantemente all'antagonismo patrizi-plebei. In tal caso il richiamo all'or, publicus sarebbe giustificato dall'esigenza, in autori vissuti diversi secoli dopo la scomparsa della situazione descritta, di indicare una realtà che non era Vager divisus et adsignatus. Si potrebbe cioè sospettare che gli autori tardo-repubblicani non fossero più in grado di dare una rappresentazione del tutto adeguata della effettiva natura giuridica àtWager gentilizio, perché ormai privi da secoli di punti di riferimento e di parametri diversi dai due schemi rappresentati dall'ager divisus e dall'a. publicus in tutte le sue più recenti determinazioni (dove ormai era anche forzata l'arcaica ed eterogenea figura delVager compascuus). Schemi che ormai da tempo immemorabile, nell'esperienza giuridica romana, esauriva no le diverse possibili forme di appropriazione e di sfruttamento della terra. Di qui l'inevitabile equivoco di una identificazione della terra non in proprietà individuale con Va. publicus, e l'estensione degli schemi possesso ri e individualistici, ad esso relativi in età più avanzata, anche per la storia arcaica di Roma. Una volta effettuata questa equiparazione diveniva abba-
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stanza incerto lo stesso oggetto dell'antagonismo fra patrizi e plebei. Soprattutto, con la contrapposizione a. publicus-a. privatns si echeggiavano vicende molto meno risalenti, dove l'oggetto della contesa, in età graccana, aveva un diretto collegamento con differenziazioni economiche, prima che giuridiche e sociali. Ma quale doveva essere l'effettivo statuto di questo agro gentilizio qui incessantemente evocato? Io non credo sia possibile dare una risposta veramente soddisfacente a tale quesito. Cercherò di mettere a fuoco il punto essenziale, che si trova alla base di tale questione, e di delinearne un possibile schema interpretativo. Nella misura in cui si accentua un ruolo autonomo della gens all'interno della comunità cittadina (e, a maggior ragione, ove si volesse addirittura ricollega re questo stesso ruolo ad originarie funzioni politico-statali di tale organismo, in età precivica), diventa inevitabile riconoscere che i rapporti interni alla gens assumono, rispettò all'ordinamento cittadino, un carattere 'fattuale'. Proprio perché tali rapporti, in primo luogo la signoria sulla terra, sono estra nei al sistema giuridico cittadino a noi noto, tutto essenzialmente orientato verso la figura del singolo pater familias, essi tendono ad assumere un valo re diverso dal sistema, diciamo così, dei diritti soggettivi tutelati dalla pòlis: quindi,rispettoa questi, di mero fatto. Anche da questo punto di vista l'avvi cinamento della signoria gentilizia sull'antico ager Romanus alla possessio dell'a publicus ha dunque una sua giustificazione. D'altra parte la terra di pertinenza delle gentes, sia che risultasse da ori ginarie forme di aggregazioni preciviche, sia che derivasse da successive con cessioni della civitas (come sicuramente attestato nel caso dei Claudi), fa parte certo asWager Romanus e, ugualmente, è sottratta alla divisio et adsignatio. Secondo i criteri, la terminologia e i sistemi di classificazione delle condizioni giuridiche del suolo in vigore nell'età tardo-repubblicana, tale ter ritorio non poteva che considerarsi ager publicus. Si vengono così precisando gli incerti rapporti che a mio avviso sussiste rebbero fra Vager gentilizio e Va publicus. Essi infatti non rappresenterebbero, sino al V sec. a.C, due diversefiguree due forme distinte di sfruttamento della terra da parte delle genti patrizie, ma si identificherebbero fra loro totalmente. D'altra parte, proprio nel corso del V sec, con la crescente pressione
Alcuni problemi di storia romana arcaica
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plebea e nel nuovo assetto repubblicano, Io stesso significato giuridico di una serie di rapporti, fra i quali la signoria sulla terra e quella sui clienti, dovette cambiare gradualmente. In pratica, con l'estendersi e col rafforzarsi delle strutture statuali rispetto ai vecchi organismi 'precivici5 - fenomeno già deci samente in atto sin dall'età serviana (in cui, si ricordi, per la prima volta emerge seriamente un problema di sistemazione dell "a. publicus e di una limitazione del suo godimento da parte dei patrizi) - è l'antica signoria delle genti che viene messa radicalmente in discussione. Gli agri gentilizi, in que sta nuova fase, tendono cioè ad essere considerati, in quanto territorio citta dino, come terre di tutta la comunità e 'posseduti' solo di fatto e in virtù della loro forza, se non di una loro 'ingiusta' prepotenza, dalle genti patrizie. La signoria e la sovranità della civitas si pongono ormai come il punto di riferi mento ultimo di codesti agri. E a questo punto che l'esclusivo godimento di tali terre da parte di alcu ni gruppi di cittadini appare, agli occhi della comunità, sempre più ingiusti ficato e, come ho già ricordato, illegittimo. L'antico diritto delle genti è in crisi e la più recente e funzionale (alla città) nozione di publicus dà un obiet tivo fondamento alle richieste plebee. È in questa fase altresì che l'emergente modello del dominium finisce con l'applicarsi al vecchio sistema della signoria delle gentes: le uniche terre patrizie che non verranno contestate saranno per l'appunto quelle in piena proprietà dei singoli gentili e dei loro clienti. Come ho già detto, que sto è però un momento, neppure iniziale, della crisi definitiva delle struttu re gentilizie. La nozione di publicus con tutte le sue conseguenze sul piano dei rap porti giuridici, emersa sin dall'età di Sp. Cassio, sarebbe stata pienamente e compiutamente applicata con il regime introdotto nel 367 a.C, che prevede va per l'appunto un sistema di attribuzione ai privati - potenzialmente a tutti i privati - cittadini da parte dello Stato. Diventerebbe quindi comprensibile l'apparente sfasatura già da me sottolineata, fra la richiesta plebea, anteriore alla seconda legge Licinia Sestia, e il contenuto di quest'ultima. Se l'oggetto della polemica era il rapporto esclusivo che le genti patri zie pretendevano ed effettivamente avevano, ancora lungo tutto il V secolo, di sfruttamento delVager romano non assegnato in proprietà privata, la soluzio-
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Capitolo V
ne affermata nel 367 recepiva, sia pure con un compromesso, l'essenziale della lotta plebea. Questa infatti, come si è visto, voleva rompere il prece dente monopolio patrizio dissolvendo - mediante il sistema della divisione e dell'assegnazione della terra- il fondamento stesso dell'appropriazione col lettiva da parte delle gentes. Con la definizione del regime dell'a. publicus, che troverà piena realizzazione nei secoli successivi, la seconda legge Licinia Sestia sanciva la definitiva e totale dissoluzione dei possessi gentilizi e del conseguente monopolio patrizio della terra non divisa et adsignata contro cui la plebe si era battuta per più di un secolo. Il riconoscimento dei possessi individuali di cu publicus - dal punto di vista funzionale non diversi dalla pro prietà individuale - segnava la sostanziale vittoria plebea e la piena equipara zione, ai fini dello sfruttamento di tale ager, dei due ordini. Gli elevati limiti sanciti dalla legge al possesso individuale temperavano peraltro tale succes so, permettendo di fatto alle genti patrizie più numerose, se non più potenti, di conservare, sia pure ripartito tra i diversi patres, buona parte del territorio da loro già posseduto. Vorrei infine aggiungere come tale ricostruzione permetterebbe di scio gliere o, quanto meno, di sdrammatizzare un altro nodo già messo in eviden za. Mi riferisco al problema del fondamento, legale ο meno, della esclusione plebea dall'a. publicus anteriormente al 367 a.C. Distinguendo infatti netta mente Va. publicus successivo a tale data dal precedente territorio romano non assegnato in proprietà individuale, e identificando quest'ultimo con Vager gentilizio, diventa chiara la posizione dei plebei. Essi infatti, qui gentes non habent, appaiono da sempre esclusi dagli antichi possessi delle genti patrizie. Si tratta quindi, da un certo punto di vista, di un'esclusione giuridi ca. Solo che è proprio questo fondamento legale ad essere messo in discus sione man mano che la comunità cittadina delegittima la stessa struttura gen tilizia. Lungo il corso del V secolo la plebe e alcuni dei più consapevoli diri genti patrizi, sviluppando la logica di fondo dell'ordinamento giuridico citta dino quale si era già definito in età serviana, secondo uh orientamento quasi del tutto estraneo al sistema gentilizio, sostengono la sostanziale 'ingiustizia' degli antichi rapporti gentilizi, su cui si basa ancora in gran parte la forza del patriziato nelle campagne e ne propongono la dissoluzione a favore delle forme giuridiche individualistiche (il dominium), proprie dell'ordinamento
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cittadino. Un vecchio diritto insomma - quello delle genti - è in crisi e diventa 'ingiusto', basato in apparenza sempre più e solo sulla forza, mentre forme nuove di appropriazione della terra, più aderenti ad una società che si viene evolvendo verso modelli accentuatamente individualistici, si impongono a tutta la comunità come più 'giuste' e capaci di assicurare quella concordia, raggiunta appunto nel 367 a.C. con le leggi Licinie Sestie. In questo contesto la natura precisa dell'antichissimo rapporto fra le gentes e il loro territorio veniva perdendo di significato, apparendo essa stessa eterogenea, e quindi sempre meno comprensibile, rispetto ai moduli recepiti nell'ordinamento giuridico patrizio-plebeo già ben definito in età decemvirale. È per lo meno verosimile che già nel V secolo l'antica signoria della gens, intesa, quest'ultima, come organismo essenzialmente comunitario, fosse ormai tradotta in forme più omogenee agli schemi individualistici pro pri di tale ordinamento. Ed è probabile quindi che, formalmente, la signoria sulla terra gentilizia fosse imputata dXprinceps gentis come 'possessore' del l'intera area di a. publicus (del resto, come abbiamo visto, nella versione di Dionigi, Roma avrebbe dato l'area di a. publicus destinata al nuovo gruppo direttamente a Tito (Attius Clausus). In tal caso diventa ancora più chiaro il significato della lex Licinia de modo agrorum: introducendo infatti un limite pur elevato di iugeri acquisibili da parte del singolo pater, si annullava prati camente il ruolo di 'rappresentanza' del capo della gens intaccando così in modo definitivo il presupposto stesso dell'unità gentilizia.
Capitolo VI La città e la sua terra
1. La distribuzione romulea della terra Ogni storia della terra nell'età arcaica di Roma non può non prendere le mosse dalla tradizione relativa alla distribuzione del primitivo ager Romanus effettuata dal mitico fondatore della città. Una storia che costituisce elemento integrante della leggenda e della rappresentazione della 'fondazione' della/rò//s. Sappiamo dunque come Romolo, parallelamente alla divisione della popolazione nelle trenta curie e nelle tre tribù, avesse ugualmente applicato lo stesso sistema ternario al territorio della comunità, assegnandone una parte in proprietà privata ai cittadini, lasciandone un'altra parte in comune 'a tutti' e una terza parte, infine, di pertinenza del monarca e dei templi(1). Come abbia mo già visto nel corso del precedente capitolo, appare di notevole interesse questa concezione della terra in comune che, nella tradizione confluita in Dionigi, potrebbe agevolmente identificarsi con una forma primitiva di ager publicus. Fermiamoci per ora sulla terra assegnata in proprietà ai cittadini. È abbastanza comprensibile come proprio il rapporto fra la divisione della popolazione in curie e la distribuzione della terra abbia indotto gli anti chi ad associare all'età romulea la genesi del sistema della centuriatio.
(,)
Fondamentale in tal senso è Dion. Hai., 2.7.4. Su questa ripartizione si v. infra, cap. V.
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Capitolo VI
Ciascuna unità territoriale ad essa corrispondente ammontava infatti a due cento iugeri: una somma di cento heredia, l'unità fondiaria di bina iugera. In tal modo all'organico dei cento uomini armati della curia avrebbe corrisposto la somma dei cento heredia: alla curia, la centuria territoriale(2). Di qui il tradizionale collegamento dell'unità di cento uomini, la curia, all'unità territoriale costituita dalla centuria. E tuttavia è alquanto improbabi le che il sistema romano della limitatìo sia così risalente come vorrebbe que staricostruzionedegli antichi, dovendosi piuttosto, con gli studiosi moderni, considerarlo esso stesso come il risultato di una fase più evoluta delle forme di organizzazione del territorio nell'antica Roma. Ma l'aspetto che più ci interessa, per il momento, è costituito dal signi ficato dei bina iugera assegnati ai cittadini romani, che a prima vista potreb be attestare la presenza della proprietà individuale - come consacrata poi dal dominium ex iure Quiritium - sin dalle prime origini cittadine. È questo un problema su cui, a partire dalla metà del secolo scorso, si è venuto concen trando il crescente interesse degli storici, di riflesso all'appassionato dibatti to che caratterizzò le scienze sociali dell'epoca sulla preesistenza ο no, in una scala evolutivaritenutavalida in generale per tutte le società, della proprietà individuale rispetto alle forme di proprietà collettiva della terra. Risale all'autorità di Mommsen l'avere proposto una interpretazione aQWheredium che capovolgeva l'immediato suo significato in senso indivi dualistico, cui si è fatto cenno. Nella sua Storia dì Roma eglirichiamavadun que eribadivailrilievodi Niebuhr e di altri storici a lui precedenti circa l'as soluta inadeguatezza delV heredium, di dimensioni corrispondenti circa alla metà di un ettaro, a fornire un sia pur modestissimo sostentamento al pro prietario e alla sua famiglia, per quanto ridotta. Sulla base di tali considerazioni egli dunque avanzava l'ipotesi che, a integrazione della distribuzione dei bina iugera, che avrebbero rappresentato essenzialmente l'orto adiacente all'abitazione urbana, la terra destinata allo sfruttamento agricolo oltre che all'allevamento, fosse restata in comune a favore di tutti i membri del gruppo. P)
Sul punto, cfr. CAPOGROSSI, 1974, 333 s. È importante tuttavia sottolineare come questo collegamento, negli antichi, sia più accennato che non teorizzato esplicitamente. Il che accen tua l'ambieuità del riferimento stesso.
La città e la sua terra
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A questo punto diveniva centrale il quesito di quanto esteso fosse poi in concreto questo stesso gruppo: se doveva cioè identificarsi con tutta la comu nità cittadina, ο con un'entità minore in essa ricompresa. Di gran lunga più plausibile appariva, almeno agli storici del secolo scorso, la seconda ipotesi. Oltre che nelle rapide pagine di Mommsen, essa fu ribadita in modo più netto da uno dei più singolari seguaci del grande storico: il giovane Weber, nella sua Storia agraria romana®. In Italia, del resto, lo stesso Bonfante, che pure si era avventurato verso orizzonti così apparentemente lontani e diversi, cer cando la chiave interpretativa della fondamentale, oscura distinzionefrares mancipi e nec mancipi nelle origini gentilizie dell'ordinamento cittadino, finiva col prospettare una soluzione non dissimile da quella immaginata dalla scuola di Mommsen, seppure in forma per certi versi più cauta(4). Nella stes sa tradizione storiografica cui appartiene Bonfante, a opera del suo antico maestro Vittorio Scialoja, incontriamo una ancor più esplicita formulazione, che identifica chiaramente - per l'età delle origini romane - il soggetto della proprietà collettiva della terra con la gensi5\ Se è vero così che Y«heredium si connette sempre al concetto di pro prietà individuale», è d'altra parte «sicuro che il territorio romano non era tutto ricompreso in questi heredia». Questo significa dunque, almeno secon do Scialoja, che una parte significativa, forse la maggiore, del più antico ager Romanus era sottratta a questo regime individualistico di appropriazione e assoggettata quindi ad una forma di tipo collettivistico. Ora, conclude, il pos sibile titolare di questa proprietà collettiva è «o lo Stato ο le gentes»{6). E tutto fa pensare che fossero queste ultime ad essere titolari di tali terre(7). Cfr. WEBER, 1891, capp. I e IL (4) Cfr. P. BONFANTE, 'Res mancipi'e 'nec mancipi', Roma 1888-89, ripubblicato, con signi ficative modifiche e tagli, con il titolo Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, in BONFANTE, 1926, 69 s. Per una ricostruzione del suo pensiero originario, si veda da ultimo
CAPOGROSSI, 1997a, 319 ss. (5) Scrive dunque SCIALOJA, 1933,243 s., che, verosimilmente, la proprietà individuale, aveva in origine un'applicazione relativamenteristrettadovendosi immaginare «che il grosso del ter ritorio di Roma forse era di proprietà gentilizia», giacché, egli spiega, «vi era nella sfera delle singole Gentes una specie di collettivismo». (6) Ibid: infatti la gens, in quanto titolare di «un'autorità politica che era anche giurisdizio nale» esercitava pure «un'altra autorità territoriale» sulla sua sede, nella forma di «un dominio di natura collettiva». m Anche SCIALOJA, ibid, segue lo schema mommseniano ribadendo come l'heredium andas se identificato con l'orto, attiguo all'abitazione, essendo invece la «cultura agricola dei primi tempi» da identificarsi con il dominio collettivo.
Capitolo VI
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Oltre mezzo secolo ci separa da queste formulazioni, esse stesse frutto tardivo di una riflessione ancora precedente. E tuttavia non possiamo dire che i decenni successivi abbiano visto un effettivo arricchimento di tale proble matica ο l'introduzione di nuovi dati di fatto, la comparsa di elementi diver si da quelli già tanto battuti. Semmai, nel campo degli studi di diritto roma no, ci si trova di fronte all'affinarsi di una sensibilità storica destinata a inge nerare una crescente cautela nell'impiego di categorie giuridiche elaborate in epoche e in contesti culturali diversi. Soprattutto la più recente generazione di studiosi, che si è venuta impegnando alcuni anni or sono nella riflessione su queste forme comunitarie, ha meglio chiarito la sostanziale peculiarità del rapporto appropriativo che ne costituisce il fondamento. In tal modo si iniziava a rompere quella gabbia concettuale ingenerata dall'applicazione esclusiva delle due nozioni di proprietà e possesso a tutto l'arco cronologico della storia delle istituzioni romane, e che appartengono invece ad una più avanzata fase di questa stessa storia. Vincolo che, come ho cercato di dimostrare nel corso del precedente capitolo, rendeva oscura, se non impossibile, una effettiva comprensione di fenomeni e situazioni ante riori al compiuto definirsi delle categorie ora ricordate, che può datarsi non prima dell'età delle XII Tavole e nei decenni immediatamente successivi.
2. L' 'heredium' e le terre gentilìzie Questo modo di procedere è il più verosimile e, a ragione, quello che vede il massimo consenso fra gli studiosi. Non mi sembra però del tutto inu tile, prima di addentrarci in questa direzione, effettuare qualche rapida consi derazione in un senso in parte diverso. Non si intende qui riprendere quel dibattito ottocentesco intorno alla sufficienza di un terreno di due iugeri ai fini del sostentamento agricolo di una pur modesta unità familiare. A sconsi gliarci in tal senso gioca soprattutto il carattere incerto di questo stesso dibat tito: quasi che esistesse un valore generalizzabile e destoricizzato del prodot to agricolo 'necessario' al sostentamento di una famiglia 'media'. Ma così non è: questa 'necessità', infatti, è essa stessa il risultato della storia, indotta dal
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La città e la sua terra
contesto produttivo in cui si collocano il sistema agrario e la realtà territoriale. Si pensi, del resto, a quante volte, nella storia delle società agrarie susseguitesi in Europa, si sono verificati processi difrantumazionedella proprietà fondiaria sino a dimensioni non diverse dai bina iugera romulei. Anche in questi casi, ovviamente, il sostentamento dei proprietari dovette essere realizzato attraver so integrazioni con altre forme produttive: dall'impiego della forza-lavoro eccedente il fabbisogno del campicello presso altri grandi proprietari, allo sfrut tamento di terre e di 'usi' della comunità del villaggio, allo sfruttamento, mediante affitto, di altre terre ο allo spostamento verso attività extragricole. Nel caso in questione, agli albori della civitas, appare dunque almeno possibile immaginare l'esistenza di un sistema economico ancora quasi esclusivamente fondato sull'allevamento, oltre che su attività primitive, come la raccolta e la caccia, e che viene conquistando i primi spazi a un'agricoltu ra stanziale mediante la 'creazione' di piccoli terreni i cui prodotti sono desti nati a restare, per un certo periodo di tempo, meramente integrativi di altre forme su cui si fondano prevalentemente le possibilità di sostentamento della comunità. Probabilmente, però, già la città romulea si trovava in una fase più avanzata. Lo stesso carattere dell'heredium, destinato a inserirsi in un sistema di rotazione biennale, consacrato in seguito dal biennium necessario all'usuca pione dell'unità fondiaria(8), parrebbe riflettere questo più elevato livello. Almeno sotto il profilo delle tecniche agricole, all'impiego della zappa sem brerebbe essersi già parzialmente sostituito l'uso dell'aratro trainato da un animale severamente protetto dalle più antiche costumanze giuridiche e sacrali romane: il bue(9). La stessa dimensione della primitiva unità fondiaria, Vactus, è in relazione con l'impiego dell'aratro e del bue. A meno d'immaginare una limitata diflusione del bue utilizzato in comu ne da più titolari di diversi heredia nella coltura dei loro campi, si dovrà dun que concludere che un'impiego sistematico dei buoi e dell'aratro comportava una crescita quantitativa della superficie coltivata, essendo la potenzialità di lavoro così realizzata sproporzionata alle dimensioni del singolo heredium. w Gfr. anzitutto SERENI, 1966, p. 83 s.; e, più di recente, per una più sistematica trattazione, la relazione presentata al convegno La formazione della città nel Lazio, 24-26.6.1977, da
AMPOLO, 1980,
18 s., 33,
36.
Cfr. AMPOLO, 1980, 16.
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Queste conclusioni si riallacciano solo parzialmente allo schema di ragionamento che risale a Mommsen e che confina il sistema delVheredium a una sfera non pienamente agricola (il 'giardino', l'orto domestico e lo stes so spazio abitativo urbano). E proprio per questorisaltamaggiormente il dub bio sulla insufficienza dQÌVheredium ai fini del sostentamento della singola famiglia romana. Il contrario, infatti, potrebbe senz'altro essere riconosciuto ove si immaginasse un sistema produttivo e il conseguente equilibrio alimen tare ancora prevalentemente orientato verso risorse non immediatamente agricole. Oppure si immaginasse, ciò che forse appare addirittura più proba bile, in base alle considerazioni appena sviluppate circa il rapporto fra esten sione delle aree coltivate e l'impiego dell'aratro, che lo sfruttamento a fini agricoli della piccola area dei bina iugera fosse integrato dall'accesso ad altre terre anch'esse almeno in parte destinate alle colture agricole. Ammettiamo in via provvisoria che il territorio della primitiva comunità cittadina in via di formazione, per la parte non distribuita in forma di heredia, fosse restato di pertinenza collettiva dei gruppi costitutivi della civitas, delle varie gentes (10). Ne dedurremmo che tali terre siano da identificarsi con quegli agri gentilicii di cui, in verità, sembrano forse parlare più i moderni che non le fonti antiche. SoflFermiamoci brevemente su tale figura, cercando anche di individuarne i principali aspetti, soprattutto in rapporto alla sua evo luzione nella successiva età repubblicana. Nel corso del precedente capitolo ho cercato di sostenere alcune ipotesi interpretative relative a tale ordine di problemi che cercherò qui di sintetiz zare rapidamente. Il primo puntoriguardala estraneità di questa signoria gen tilizia sulla terra agli schemi proprietari. Ed è proprio tale estraneità, già evi dente agli antichi, che dovette ingenerare l'equivoco in cui essi sono incorsi, identificando la terra delle gentes con Yager publicus: cioè la terra non in proprietà. In secondo luogo riterrei questa ipotesi indirettamente suffragata dallo stesso carattere - il più illuminato dalla tradizione antica - del conflit to fra le genti patrizie e la plebe intorno alla terra. La difficoltà e le incon(10) In effetti, come potremo meglio constatare nel corso del capitolo successivo, soprattutto nel § 4, questa rappresentazione coincide, in sostanza, con la complessiva architettura mommseniana, dove l'elemento collettivistico del primitivo assetto territoriale romano tende in sostanza a identificarsi con le strutture gentilizie (e indirettamente quindi con il patriziato).
La città e la sua terra
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gruenze che la documentazione relativa a questa vicenda presenta rendono poco probabile che il contrasto fra i due ordini vertesse - come invece sarà secoli dopo in età graccana - sulla possessio dell'urger publicus concepito come oggetto di appropriazione individuale da parte di ciascun cittadino. Si tratterebbe insomma di un conflitto intorno alle antiche terre genti lizie, viste ormai nell'ottica plebea e nella prospettiva delle forme indivi dualistiche del dominio e della possessio(n\ Secondo tale prospettiva infat ti il tradizionale rapporto fra i gruppi gentilizi e le loro terre, in molti casi risalente agli stessi albori cittadini, veniva ormai, in questo nuovo contesto, interpretato in termini essenzialmente 'fattuali': e quindi come mera sopraffazione e abuso da parte di alcuni nei riguardi di un bene - la terra per cui si rivendicava ora il carattere 'pubblico', di pertinenza di tutta la comunità cittadina. Era questa una rappresentazione fondata sul diritto pro prio della città, consacrato appunto dalle XII Tavole, ma che escludeva e cancellava la presenza di rapporti e di consuetudini diverse, proprie del mondo delle gentes e definite ormai solo come 'fatti ingiusti'. Non si deve dimenticare come la struttura e la stessa esistenza della gens tendessero a prescindere da una superiore autorità della civitas, trovando questa invece in se medesima la sua propria legittimazione e quindi anche il suo diritto(12): un diritto dunque 'diverso' da quello della città. Cosi già gli antichi - e ancor più i moderni - definiranno lerisalentiforme signorili in termini di 'possesso', anzitutto al fine di distanziarle dal 'diritto' per eccellenza costituito dalla proprietà (individuale), e per sottolinearne poi il carat tere di mero fatto, di una materiale appropriazione intesa appunto come ingiu sta. Abbiamo visto come su questo aspetto fattualerispettoall'ordinamento cit tadino abbia giustamente insistito anche la più avvertita storiografia moderna, proprio perché solo in tal modo si poteva tentare di recuperare l'autonomia di tali forme di signoriarispettoagli schemi appropriativi elaborati dal diritto della DE FRANCISCI, 1967, 636. m
Cb. Geli, noci. AtL, 4.12.1; Plin., nat hist., 18.3.11 e 18.6.32.
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/ 'mores gentium '
Ma questo potere di controllo, conclude de Francisci, smentisce appie no le idee tralatizie dei moderni circa l'originaria illimitatezza interna della proprietà fondiaria dei singoli. Esso attesta al contrario la presenza originaria «di un principio di solidarietà manifesta nell Obbligo a tutti comune di atten dere con la massima diligenza alla coltivazione»(26). Ed è questo un risultato tanto più significativo in quanto in tal modo si innovava un tipo di rappre sentazioni quasi rituali, nel loro più ο meno palese accostamento della pro prietà arcaica ai moduli potestativi della signoria politica, se non della sovra nità. Dove appunto de Francisci veniva così chiarendo il superamento (piut tosto che un vero e proprio distacco) del patrimonio culturale della tradizio ne scientifica cui pure egli da sempre apparteneva, un patrimonio culturale, del resto, in particolare derivato da Pietro Bonfante che egli, proprio con il distaccarsi da specifiche e ormai insostenibili formulazioni, riprendeva nel suo nucleo più vivo sia sotto il profilo del metodo che sotto quello della stes sa prospettiva scientifica perseguita. Io credo tuttavia, per tornare alla specifica ipotesi proposta dal de Francisci, che in essa si possa forse individuare un elemento dirigiditàed uno schematismo eccessivo che possono essere corretti accentuando, oltre che gli aspetti di conti nuitàfrail mondo precivico e il patrimonio giuridico della città primitiva, anche i fattori di innovazione e di rottura che pure vi sono stati e che, appunto, il costruirsi autonomo dell'ordinamento cittadino hanno reso possibile. Mi sembra dunque che questo schematismo si possa ravvisare nel postur lato su cui si fonda l'ipotesi oraricordata.E cioè che la polarità fra proprietà individuale di tipo familiare e terre comuni, così come si definirà nell'ordi namento cittadino secondo lo schema agerpublicus - agerprivatiti, già fosse presente nella comunità gentilizia. Già in questa infatti sarebbero state distri buite aree di terreno alle singole famiglie, di contro a una parte della terra restata in comune alla gens e che parrebbe da identificarsi con Yager compascirns. Secondo questo schema, dunque, la signoria individuale sulla terra sarebbe stata assunta poi, insieme a tutte le altre istituzioni gentilizie - ivi compreso il controllo esercitato in ordine alla coltivazione dei campi privati - dall'ordinamento cittadino. Insieme a questa, anche il compascuo sarebbe
« D E FRANCISCI, 1967,
637.
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Capitolo Vili
dovutorientrareormai nel sistema della civitas ed essere da essa riconosciu to. Come ho già detto, implicita in questa ipotesi ricostnittiva è l'idea della totale continuitàfrale forme preciviche e l'assetto cittadino. Idea che, in linea di massima io stesso ho seguito in questo contributo, ma che forse non può essere estesa in modo sistematico. In ordine infatti al problema ora conside rato è almeno possibile immaginare un'ipotesi lievemente diversa. È possibile cioè che nel mondo dei villaggi e delle comunità gentilizie una distinzione netta fra terre destinate allo sfruttamento individuale da parte di ciascuna famiglia e associate air agricoltura e terre lasciate all'uso collettivo del gruppo e destinate all'allevamento non fosse così compiutamente defini ta come immagina il de Francisci. Se ben si considera, la sua ipotesi com porta quasi di necessità il fatto che a lotti molto limitati (i bina iugera romu lei?) destinati all'agricoltura corrispondesse una totale identificazione della terra comune restante con l'allevamento. Ora un'idea del genere finisce con l'irrigidire eccessivamente un determinato assetto socio-economico e, insie me, rende difficile immaginare il pur probabile processo evolutivo che ha pre parato l'avvento della civitas, con l'espansione delle aree interessate all'agri coltura e con il definirsi di un paesaggio più articolato nella realtà dei pagi e del loro territorio. È pur vero dunque che già una parte della terra doveva essere assegnata allo sfruttamento agricolo in una gestione di pertinenza dei piccoli nuclei familiari, sia pure sotto il controllo e la sorveglianza del più vasto gruppo paganico. Ed è probabile che queste forme di assegnazione 'individuali' in qualche modo anticipassero la pienezza della signoria del pater familias sulYheredium assegnatogli dalla città in proprietà individuale. Io però esiterei a contrapporre, nell'ordinamento precivico, il possesso individuale della terra, al compascuo. Nella fase successiva, infatti, la terra che resterà di pertinenza della gens (che io ho identificato a suo tempo con Vager publicus del V sec. a.C.(27)) non si assoderà necessariamente solo alla pastorizia e all'allevamen to. Al contrario buona parte di questa, anche grazie al lavoro dei clienti, verrà sfruttata anche ai fini agricoli. Sotto questo profilo sarei dunque propenso a recepire sì il modello propo-
^Cfr.supra, cap.V.
/ 'mores gentium'
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sto da de Francisci per l'età precivica, ma non immaginandone poi la imme diata trasposizione nelle forme giuridiche cittadine sotto il binomio «pro prietà privata - ager publicus». Entrambe le forme considerate per l'età precivica, a me sembra siano da ricondurre alla figura delYager gentilicius (tra dotto in età cittadina come ager publicus). Insomma per chiarire sino in fondo il mio pensiero, anche in riferimento a quanto già esposto nel corso dei precedenti capitoli, sia pure per una fase suc cessiva, voiTei insistere sul fatto che tutta la terra di cui qui stiamo parlando tanto quella sfruttata dalle singole famiglie del pagus a fini agricoli e che de Francisci identifica con gli heredia, che il compascuo - era di pertinenza ulti ma della comunità paganico - gentilizia. Sotto questo profilo è verosimile che il processo di affermazione di un ordinamento superiore, la civitas, abbia par zialmente indebolito questa compatta signoria gentilizia, esaltando il rapporto fra il singolo pater e il lotto già di fatto attribuitogli dalla comunità gentilizia e rompendo su questo punto il rapporto esistente fra questa e quello. Così la piena proprietà individuale sul singolo heredium, pur avendo radici nell'assetto precedente, appare, ai miei occhi, come una sostanziale innovazione introdotta dall'ordinamento cittadino. È vero che anche questa, in qualche modo, potrebbe derivare dagli antichi mores, ma solo in quanto così si consolida (cambiando in qualche modo natura) un rapporto di sfrutta mento individuale già introdotto negli ordinamenti precivici. Se vogliamo si potrebbe, nel caso in esame applicare quei modelli proposti con tanta auda cia da Weber a proposito della dissoluzione della primitiva comunità agraria romana. Si tratterebbe in definitiva di spostarli all'indietro nel tempo (Weber li propone infatti per una fase storica più avanzata che non quella delle prime origini cittadine) giungendo così a cogliere il momento effettivo del passag gio dalla «quota di partecipazione» alla comunità agraria associata al mero possesso dell'area territoriale corrispondente, al definirsi di un diritto perma nente sul singolo lotto di terra concretamente individuato(28). Così utilizzato lo schema weberiano perde buona parte della sua specificità e il supporto di quel complesso così singolare di analisi degli istituti del diritto romano sviluppa to nel secondo capitolo dell1Agrargeschichte. E però diventa ancor più sug(28)
Sul punto CAPOGROSSI, 1990a, cap. I.
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Capitolo Vili
gestiva la prospettiva così proposta e, forse, anche più persuasiva. Secondo questa mia particolare interpretazione dell'ipotesi di de Francisci, il diretto rapporto fra il controllo della coltivazione da parte della gens e il successivo ruolo del censore si attenuerebbe. Ma neppure nella mia prospettiva esso verrebbe meno del tutto. E in effetti la civitas, con il model lo del dominìum^ non fa cherichiamarsiagli schemi possessori già eleborati dalle gentes attraverso le assegnazioni effettuate a favore delle singole fami glie, rafforzandone l'efficacia. Egualmente al sistema dei controlli gentilizi si richiamerà, nel nuovo contesto, utilizzando ora lafiguradel rex e poi del cen sore. In tal modo realtà nuove in un contesto cittadino e antichi mores preci vici vengono tra loro intrecciandosi e interagendo sino a dissolvere all'inter no dell'ordinamento statuale parte delle antiche tradizioni giuridiche ο a ren derle rapidamente obsolete e permettendo insieme un rigoglioso sviluppo di nuove forme istituzionali in un processo normativo che vede sempre più mar ginali gli aspetti consuetudinari rispetto a una nuova e più 'moderna' gerar chia delle fonti di produzione giuridica: Iex e interpretatio.
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American Journal of Archaeology Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli Atti Convégno internazionale Nomen Latinum', 2426.10.95, in Eutopia, 42, 1995 Bullettino dell'Istituto di diritto romano 'Vittorio Scialo]a' Corpus inscriptionum Latinorum Dialoghi di archeologia Dizionario epigrafico DARENBERG - SAGLIO, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines Enciclopedia del diritto Enciclopedia giuridica italiana Enciclopedia italiana Mélanges de l'École Française de Rome Novissimo digesto italiano Papers of the British School at Rom La parola del passato Quaderni urbinati di cultura classica PAULY - WISSOWA, Realenzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft Rivista di epigrafia etnisca (Studi etruschi) Revue des études latines Revue historique de droit français et étranger Revue internationale des droits de l'antiquité Studia et documenta historiae et iuris Studi etruschi Studi e materiali di storia delle religioni Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung
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